martedì 16 dicembre 2014

Corriere 16.12.14
L’istinto primordiale che va controllato
di Dacia Maraini


Una donna strangola il figlio e subito dopo se ne dimentica, anzi rimuove come direbbe Freud, l’atto compiuto dalle sue stesse mani. Sprofonda in una specie di oblio di sopravvivenza, cancellando la memoria di un delitto che sorprende prima di tutto chi l’ha compiuto. Si è parlato di malvagità. Ma cos’è la malvagità? Un dato del carattere che si eredita coi geni? O non piuttosto il prodotto di una storia di vita vissuta male e senza regole interiori? E cosa sono le regole interiori se non lo sviluppo guidato dell’immaginazione, la sola capace di farci capire il dolore altrui? Potremmo perfino dire che stiamo assistendo al rigurgito della antichissima cultura del possesso, che ha radici profonde nella storia del mondo. Per una donna non civilizzata, la prima e inalienabile proprietà sono i figli e per questo li considera cosa propria, di cui disporre. Per gli uomini non civilizzati, si tratta della famiglia, cominciando dalle mogli o compagne.  Questo conferma l’idea che, per impostare dei rapporti umani di convivenza pacifica non si può che lavorare sulla sublimazione degli istinti primordiali e sull’accettazione di regole severe contro tutte le forme di sopraffazione e sfruttamento del più forte contro il più debole. Non pretendiamo di essere superiori agli animali grazie ai nostri speciali rapporti col cielo? Non pretendiamo di governare il mondo grazie alla nostra capacità di costruire strumenti e conoscenze che ci aiutano a formare una società evoluta?  Le donne sono forse più buone per natura? O perché hanno imparato, o dovuto imparare, a sublimare, reprimere e controllare la propria violenza, che quando scappa fuori, nonostante tutto, può rivelarsi terribile, come dimostrano le Medee di tutti i tempi?
Nella mancanza di regole interiori, che storicamente venivano imposte dalla religione e dalle ideologie, nella confusione e nella frammentazione di ogni idea di bene e di male, assistiamo alla fuoriuscita di rigurgiti di antiche culture basate sui più brutali e feroci rapporti di forza. E uno dei concetti chiave di questi rigurgiti culturali è la difesa del sentimento primario, brutale e animalesco di proprietà — ti amo e quindi sei mio o sei mia —: la difesa immediata e violenta del piccolo campo sentimentale e carnale che si considera parte della nostra identità. Se tu ti sottrai al mio possesso, diventi un nemico, e io mi sento legittimato a ucciderti. Non potrebbero essere spiegati così i tanti troppi delitti contro le donne e i bambini?

il Fatto 16.12.14
Visite di Stato: Renzi dal papa
Alcol e omissioni (sull’8 per mille)
di Marco Politi


Negli annali vaticani, la visita del premier al pontefice rimarrà più per la burinata dei fiaschi portati in dono che per la profondità del messaggio. Presentare al Papa, peraltro astemio, una cassetta di vini è come portare un nocino alla regina Elisabetta o grappa al re dell’Arabia saudita.
Puro folclore.
Folcloristico invece non è il silenzio di Matteo Renzi nel palazzo apostolico sull’unico tema che tocca da vicino il bilancio nazionale e che per una volta non avrebbe scaricato le esigenze di risparmio sulle spalle dei più deboli (lavoratori dipendenti, casalinghe e pensionati) e dei servizi essenziale della sanità e dell’istruzione. Il giovane premier, così intento a progettare grandi riforme, aveva ricevuto dalla Corte dei Conti il cortese invito a ragionare sull’abnorme distorsione dell’attribuzione dell’8 per mille alla Chiesa cattolica e di conseguenza a decidere di attivare la commissione bilaterale governo-Cei per rivedere il meccanismo di assegnazione dei fondi, che porta alla Chiesa oltre un miliardo di euro.
DI QUESTO avrebbe dovuto parlare Renzi con il segretario di Stato cardinale Parolin, preannunciandogli – alla luce del nuovo concordato firmato con la Santa Sede nel 1984
– l’apertura di trattative immediate con la conferenza episcopale italiana.
L’analisi della Corte dei Conti, resa pubblica a novembre, era stata infatti estremamente chiara. Per l’anno 2014 la Chiesa cattolica ha ricevuto un miliardo e 54 milioni di euro. Una cifra da capogiro, specialmente se paragonata alla constatazione che nel 1990 ne prendeva circa 200 milioni (l’equivalente, grosso modo, della cifra in lire stanziata per la congrua ai parroci). Agganciato all’Irpef, l’8 per mille porta nelle casse della Chiesa una somma cinque volte maggiore di quando fu firmato il concordato di Craxi senza che nel frattempo siano quintuplicati i sacerdoti. Anzi, se ne devono importare dall’estero.
Tutte cose che già si sapevano, ma che hanno acquisito nuova autorevolezza per il fatto che è la Corte dei conti a pungolare il governo a intervenire. Sia per la somma dei contributi “tali da non avere riscontro in altre realtà europee”. Sia per la necessità di una generale revisione della spesa. Sia per il meccanismo irrazionale per cui la Chiesa cattolica, ricevendo dai cittadini soltanto il 37,9 per cento delle opzioni, incassa l’82 per cento dei fondi grazie alla ripartizione delle opzioni non espressi (cioè di chi si astiene dal dichiarare una scelta). Meccanismo abnorme inesistente in qualsiasi nazione europea.
C’è da aggiungere che il sistema – ideato a suo tempo da Tremonti – colpisce ulteriormente le altre confessioni, che totalizzano pochi “voti”, mentre la lentezza o la cattiva volontà dei governi nel riconoscere l’8 per mille a ulteriori confessioni fa sì che, per esempio, un milione di fedeli musulmani siano privati degli stessi diritti che spettano a cattolici, valdesi o buddhisti. Si sa che Renzi non ama i cosiddetti organi tecnici, perché sono indipendenti e non possono essere comandati. D’altronde ha buttato nel cestino oltre venti proposte dettagliate di spending review, elaborate da un grande economista come Carlo Cottarelli, perché avrebbe dovuto prendere decisioni nel merito ed è più facile addossare tagli lineari a Regioni e Comuni, levandosi da ogni responsabilità personale.
NON MERAVIGLIA, dunque, il suo silenzio sull’argomento dinanzi alle autorità ecclesiastiche. Meglio parlare al Papa dei disegnini dei figli o abbandonarsi in un “clima sereno e cordiale” a pensose riflessioni sull’occupazione giovanile, che ahimè soffre di “conseguenze negative” e sull’“importanza dell’educazione per promuovere il futuro delle nuove generazioni”.
Riflessioni a costo gratis.
Se, invece, il premier volesse imparare qualcosa dalla Germania, potrebbe portare in Parlamento una legge facile facile, che subordini il pagamento di fondi pubblici per qualsiasi ente (Cei o diocesi) alla pubblicazione del bilancio completo: inclusi beni patrimoniali e immobiliari. Si scoprirebbe d’incanto che la riforma dell’8 per mille non farebbe male a nessuno e anche le scuole cattoliche potrebbero attingere ai patrimoni ecclesiastici invece di gravare con continue richieste su un bilancio statale allo stremo.
En passant il premier potrebbe anche rivedere la normativa piena di scappatoie, che riduce sistematicamente la tassabilità dei beni ecclesiastici. Ma forse è chiedere troppo a chi fa il don Rodrigo con gli operai e il don Abbondio con i potenti.

il Fatto 16.12.14
Le coop bianche, il patto e la telefonata a Bergoglio
Il nome dell’Arciconfraternita nell’inchiesta sul mondo di mezzo
L’affare in via del Conservatorio
L’uomo in alto! e gli interessi di Odevaine
di Paola Zanca


Sa perché c’è questo profumo di incenso? Dobbiamo coprire l’odore di cibo, tre ore fa qui c’erano i senzatetto a mangiare. E anche questo, lo dobbiamo a Tiziano e Francesco”. Basilica di Sant’Eustachio, Roma. Don Pietro Sigurani cammina per la navata e si sgola per difendere Tiziano Zuccolo e Francesco Ferrara, due nomi citati tante volte, forse troppe, nell’inchiesta sul Mondo di Mezzo. Sono i reggenti dell’Arciconfraternita del Ss. Sacramento e di San Trifone, il braccio bianco del sistema dell’accoglienza nella Capitale. Quelli che con il “rosso” Salvatore Buzzi hanno stretto un accordo “ferreo”: un patto “50 e 50”, dice il re delle coop di ex detenuti, che non viene “mai tradito” e “nun se move d'un millimetro”.
PER CAPIRE come la Chiesa cattolica abbia incrociato la strada della Cupola romana, bisogna tornare a metà degli anni 90. Nella parrocchia della Chiesa della Natività di via Gallia, don Pietro Sigurani – “l’imam cattolico” lo chiamano, perché da una vita si dà da fare per gli immigrati – ha vicino due ragazzi, particolarmente svegli. Sono Tiziano e Francesco, all’epoca 25enni. Don Pietro li arruola nell’Arciconfraternita che monsignor Luigi Moretti, segretario generale del cardinale Camillo Ruini, gli ha chiesto di rimettere in piedi dopo anni di inattività. Zuccolo è “camerlengo”, ovvero tesoriere. Ferrara è presidente e lo è rimasto fino a tre mesi fa. In pochi anni diventano una potenza. Hanno la sala operativa sociale del Comune di Roma, il centro Enea, lo sportello di accoglienza dei rifugiati a Fiumicino, si occupano dell’emergenza freddo e dei senza casa: il business delle coop di Buzzi, che non a caso vengono ribattezzate “la risposta sovietica all’Arciconfraternita”.
Non godono di buona stampa, Zuccolo e Ferrara. Chi ha lavorato con loro li ricorda come spregiudicati nella gestione dei centri e gerarchi nei confronti di chiunque segnalasse qualcosa che non andava. E pure per il Vicariato, Zuccolo e Ferrara, sono due intrusi che hanno “sfruttato il nome dell’Arciconfraternita” per dar vita a una serie di cooperative (la Domus Caritatis su tutte) che nulla hanno a che vedere con la “connotazione spirituale” originaria: “Nel 2010 mandammo la prima visita canonica”. Fu allora, spiega un comunicato ufficiale del cardinale Agostino Vallini, che si “chiese all’Arciconfraternita di astenersi dal concorrere a bandi pubblici oltre quelli già in essere”. Poi altre due visite, l’ultima nel 2013, e la decisione di chiudere tutto. Giurano che anche monsignor Moretti e don Pietro “hanno preso le distanze da quei due”. Solo che si sono dimenticati di avvertirli: “Cosa? – sbotta don Pietro – Per me Tiziano e Francesco sono due bravissime persone”. E attacca frontalmente il cardinale Vallini: “Fa Ponzio Pilato, se ne lava le mani: ci hanno fatto fare le cose più rischiose , quelle che nessuno voleva fare. I progetti senza coperture, quelli con i soggetti più difficili. E pure l’ispezione... c’erano appunti sui contratti di lavoro, ma per il resto erano solo lodi!”. Effettivamente, Zuccolo è ancora presidente del Centro Culturale Giovanni XXIII. E né lui né Ferrara sono indagati.
EPPURE suona strana la familiarità dei due con la banda di Carminati. Zuccolo ha un rapporto strettissimo con Buzzi (“Dividiamo da buoni fratelli, ok?”, gli dice). Via Collazia, già sede di una delle coop di Zuccolo, è luogo di incontri: l’8 febbraio 2013 anche una Mini guidata da Massimo Carminati si ferma davanti al civico 2/F. Zuccolo poi è in estrema confidenza con Luca Odevaine, l’uomo che si occupava dello smistamento degli sbarchi in Sicilia. A un certo punto il sodalizio sembra incrinato perché, secondo l’ex collaboratore di Veltroni, i due “sono rozzi”: “Francesco (Ferrara, ndr) risponde “ah che ti frega tanto sto Cardinale ora se ne va in pensione, ci mettiamo un altro che diciamo noi!”. Ma “loro – sostiene Odevaine – finché c’era Ruini c’avevano questo rapporto stretto, facevano come gli pareva, adesso non è proprio più così”. Eppure, nonostante le maldicenze, è a Odevaine che Zuccolo confida i dettagli di un possibile grosso affare. C’è da ristrutturare un enorme complesso in via del Conservatorio, l’idea è farne una residenza per preti in pensione. Odevaine vuole che i lavori siano affidati alla ditta del costruttore Pulcini. Ma parte di quella struttura è del Vaticano. Per questo serve “un passaggio alto, molto alto, ma proprio alto”. È Papa Francesco in persona, racconta oggi don Pietro Sigurani: “L'idea era mia – dice - ma come potete vedere poi non se ne fece niente”. Quello di don Pietro era “un grande progetto per i parroci che tanto hanno dato alle loro comunità”. Ma Zuccolo all’epoca rassicurava Odevaine, che forse in testa aveva altro: “Più in alto di lì non si arriva di più, cioè finiamo proprio totalmente”. Odevaine scherzava: “La trinità”. E Zuccolo non poteva che confermare: “Si, proprio così, proprio lì, arriviamo lì, proprio dov'è possibile, dove c’è ancora l’essere umano”.

il Fatto 16.12.14
L’ultima mangiatoia: Olimpiadi 2024
Renzi, 10 miliardi per i giochi. Le mafie già si allenano
Lanciata la candidatura per Roma 2024 per ripulire l’immagine dell’Italia devastata da corruzione e malaffare. Ma tra costi giganteschi e bande fameliche – dall’Expo a Carminati & c. – rischiamo il record olimpico di mazzette
di Carlo Tecce


RENZI VUOLE PORTARE A ROMA I GIOCHI PER FAR DIMENTICARE MAFIA CAPITALE. UN PROGETTO DA 9,8 MILIARDI SCARTATO DA MONTI. ALLEANZA CON IL PRESIDENTE DEL CONI MALAGÒ, PENSANDO ANCHE AL CAMPIDOGLIO

Quindici giorni fa, la retata per Mafia Capitale. Adesso, la candidatura per la Capitale olimpica. Questa è Roma, che aspira al 2024 con i Cinque Cerchi per scordare er Cecato Carminati. Non c’è evento più scintillante (e dispendioso) delle Olimpiadi, peste che da Oslo in Norvegia a Monaco di Baviera terrorizza i governanti. La coppia, Giovanni Malagò e Matteo Renzi, non è meno scintillante e non sarà meno dispendiosa per le casse pubbliche. Il capo del Coni garantisce trasparenza, teorizza investimenti privati: auspici, nulla più. Perché Roma sarà premiata o esclusa tra un paio di anni, settembre
2017. Ma soltanto per far sentire il nome di Roma al Comitato Olimpico Internazionale, prima di consegnare un progetto con i disegnini che spesso in Italia si traducono in cantieri immortali, occorrono una decina di milioni di euro (2 li mette il Cio). Verrà un gruppo per la promozione di Roma 2024 e ci sarà il consulente Andrea Guerra, Malagò a capotavola. Perché Malagò è l’uomo sportivo, di larghe relazioni e di smisurate ambizioni, che affascina e conforta Renzi. Per qualsiasi esigenza. Elezioni anticipate a Roma? Malagò non va preparato, è sempre pronto. Effusioni mediatiche di ottimismo? Viva le Olimpiadi di Malagò. E poi Renzi, il fiorentino, propone le gare itineranti, a Firenze ovvio, a Napoli come no, pure in Sardegna per la vela e forse a Milano per il Duomo e perché escludere Torino che Piero Fassino già s’infervora? Pare che persino il Vaticano sia disponibile a ospitare il tiro al volo nei santi giardini.
Quel che va scrutato, quel che resta di concreto, oggi, sono le fotografie di grandi intese e grandi sorrisi tra lo scalpitante Malagò, lo speranzoso Renzi e il riabilitato Ignazio Marino, il sindaco che in questi giorni ha sprigionato indignazione per le malefatte romane e ora rievoca con orgoglio rionale la storia millenaria di questa città. E come sottovalutare i miliardi: sei o sette o fino a dieci. Chissà. Ma esiste uno studio, firmato dal professor Marco Fortis, che valutava in 9,8 miliardi di euro il conto per Roma2020, una bizzarra proposta in piena recessione di Gianni Alemanno e di Silvio Berlusconi, ancora a Palazzo Chigi, cestinata con un glaciale comunicato da Mario Monti. Il traguardo 2024 non è lontano, di più. Ma l’Italia, stavolta, ha battuto la concorrenza, tra francesi e tedeschi che tentennano e gli Stati Uniti che nicchiano.
IL CIO SARÀ grato a Renzi, non sapeva davvero come perpetuare questa diabolica macchina mangia-soldi che ha devastato aree urbane e diffuso sprechi ovunque. Neanche dieci giorni fa, il Cio s’è riunito a Montecarlo per stravolgere le regole e rendere più commestibile l’organizzazione dei giochi olimpici. Malagò e Renzi, furbi, erano già d’accordo, e sono scattati come da agenda. La tenzone Olimpiadi sì e Olimpiadi no, Olimpiadi banchetto per le mafie e Olimpiadi opportunità nazionale, che ci viene somministrata ai tempi di Carminati&Buzzi, ha curiose origini fiorentine. E ci conduce a Eugenio Giani, consigliere regionale toscano, un quarto di secolo a Palazzo Vecchio. Giani racconta al Fatto che i delegati provinciali (che rappresentava) furono determinanti per la sorprendente elezione di Malagò contro Raffaele Pagnozzi. Anche per rendere omaggio a Giani, che dirige il Coni fiorentino, Malagò andò agli Uffizi per un convegno assieme a Renzi. Aprile 2013. E capita, perché capita in politica, fu folgorazione. Malagò disse che “la voglia di cambiamento”, classica espressione renziana, Matteo la poteva replicare al governo. Da poche ore insediato, e siamo alle Olimpiadi invernali di Sochi, febbraio di quest’anno, il primo ministro Renzi telefonò a Malagò per i rituali complimenti. E così pensarono di trasferire a Palazzo Chigi le passerelle del Coni, che mai fanno male. Il genio di Malagò e Renzi ha prodotto il presidente con la racchetta da tennis, con la maglia da pallavolo, con la sciabola, col ciclista Vincenzo Nibali. Con cadenza mensile, Malagò va a Palazzo Chigi e accompagna un campione italiano. Quando Carlo Tavecchio scivolò col razzismo di “Optì Pobà” che sbarca in Italia con le banane e poi correva temerario verso la Figc (ci è riuscito), Renzi disse che per il calcio s’affidava a Malagò. Per le Olimpiadi, anche. E la politica vien da sé.

Repubblica 16.12.14
Perché no
Da Montreal ad Atene quasi tutte le città hanno speso cifre enormi e fuori budget L’esempio virtuoso di Torino non sarebbe tanto riproducibile proprio perché l’evento estivo impegna molte più risorse
Un disastro annunciato che affosserà i bilanci
di Federico Fubini


SEDICI anni fa, un ministro del Tesoro chiamato Carlo Azeglio Ciampi firmò un impegno a nome dell’Italia: avrebbe coperto spese fino a due miliardi di euro (in denaro attuale) per una città che si candidava alle Olimpiadi d’inverno. Torino. E quando i delegati del comitato promotore andarono in Australia per farsi conoscere, si resero conto che mancava un tassello: dovettero stampare nuove brochure, con inclusa una mappa d’Europa nella quale Torino era chiaramente situata rispetto a Roma, Milano, Parigi.
Quella città candidata andava rimessa sulla carta del mondo, perché ne era sparita dopo i lunghi anni di crisi della Fiat. Non c’è dubbio che questa sia un’assonanza con la proposta di Roma per le Olimpiadi estive 2024, avanzata dopo sei anni di recessione italiana, ma i parallelismi finiscono qui. Non solo perché a Roma si possono rimproverare molti difetti, ma non di non essere già sulla carta. In realtà anche la scienza triste, l’economia, fa sorgere dubbi sulla praticabilità della candidatura di un Paese che oggi ha un debito al 130% del Pil: sei volte più alto rispetto a quando ospitò le prime Olimpiadi romane nel 1960.
I conti sono sotto gli occhi di tutti. Le Olimpiadi d’inverno di Torino alla fine sono costate 5 miliardi di euro, per metà coperti da denaro pubblico, mentre per quelle estive il successore di Ciampi, Pier Carse, lo Padoan, dovrebbe sottoscrivere una garanzia di copertura fra le tre e le dieci volte superiore. Un “pagherò” (se vince Roma) che va dai sei ai venti miliardi di euro e va firmato non fra dieci anni ma fra dieci mesi, quando le proposte andranno depositate.
I Giochi estivi più economici ed efficienti della storia recente, Londra 2012, sono costati circa 160 euro in media per ogni suddito di Sua Maestà, 12 miliardi di euro di denaro pubblico, e restano un raro esempio di gestione oculata. Per molti altri eventi del genere, secondo le stime del National Geographic , le previsioni iniziali di spesa sono state regolarmente sfondate: a Pechino 2008 del 4%, ad Atene 2004 del 60%, a Sydney 2000 del 90%, ad Atlanta del 147% e a Barcellona 1992 del 417%. Montreal 1976 ha impiegato tre decenni a rientrare dai costi.
A Roma, dove la società di trasporto pubblico locale ha chiuso senza perdite un solo bilancio negli ultimi 11 anni, come finirebbe? Se la storia dell’Expo di Milano 2015 insegna qualcosa, finirebbe in senso opposto a Atene, Atlanta, Sydney, o agli sprechi dei mondiali di calcio Italia ‘90. Invece di pagare troppo, per mancanza di risorse Roma rischia di poter spendere molto meno di quanto previsto e di quanto necessario. All’Expo di Milano sta già succedendo, con la Regione e il governo che gareggiano nel trattenere e negare i finanziamenti, mentre l’evento promette di essere meno ricco e attraente del previsto.
Ma, appunto, questa è solo scienza triste. John Maynard Keynes diceva che sarebbe «splendido» se gli economisti riuscissero a essere «umili e competenti come dei dentisti», perché non lo sono. Ma anche altri aspetti della vita di una nazione permettono di dubitare della praticabilità di una candidatura di Roma. Il governo la presenta mentre fa i conti con sconvolgenti casi di corruzione emersi quasi ovunque ci siano lavori pubblici, anche di consistenza minima. I miliardi del Mose di Venezia, i commissariamenti decisi per alcune delle grandi imprese dell’Expo, il racket degli appalti che ha trascinato il Comune di Roma al default e poi ha continuato ad infierire. È vero che, come ha ricordato ieri il commissario anti-corruzione Raffaele Cantone, le Olimpiadi di Torino hanno dimostrato che anche in Italia possono svolgersi grandi eventi nella legalità. Ma su questo fronte il Paese ha già fatto abbastanza per essere credibile? Toccherebbe al comitato promotore di Roma 2024 spiegarlo ma, malgrado la svolta pubblica del premier Matteo Renzi, sembra che non sia ancora ben formato né abbia un proprio budget da spendere.
A discolpa di Roma, va detto che non tutto finirebbe lì. Competizioni si terrebbero a Milano, Napoli e a Firenze, per qualche ragione, andrebbe la pallavolo. L’ultima volta che la città ha vinto uno scudetto in questa disciplina correvano gli anni ‘70 e andò alle ragazze dello Scandicci: metafora perfetta del lavoro che resta da fare per tornare credibili. Di solito le Olimpiadi migliori e più fertili di crescita futura sono sempre andate a città risorgenti: Londra dalla grande crisi, Pechino dalla povertà, Barcellona da 40 anni di franchismo. Roma e l’Italia risorgenti non lo sono ancora: se quei soldi ci fossero, dovremmo forse spenderli per ridurre le tasse, cambiare la giustizia, in modo da ridare lavoro stabile agli italiani. Allora saremo pronti a candidarci di nuovo ai Giochi, per festeggiare la nostra rinascita un’estate intera.

La Stampa 16.12.14
La lezione olimpica: investimenti sempre più alti dei ricavi
Londra però fu un’edizione virtuosa. Los Angeles caso ideale
di Alessandro Barbera


Quanto conviene farsi avanti per la organizzazione di una olimpiade? Dove pende la bilancia dei costi e dei benefici? Cosa racconta l’esperienza? È in grado un Paese come l’Italia di farsi carico di un simile evento? Dopo la decisione di Renzi di cambiare verso rispetto a quanto fece appena due anni fa Monti, la domanda merita risposta. Il problema se lo poneva già nel 1911 il Barone de Coubertin: occorre evitare «le spese esagerate, parte delle quali dovuta alla costruzione di edifici peraltro inutili...». A ottobre 2012, a torcia spenta, il governo di Sua Maestà rivendicò il successo della manifestazione di Londra: 8,9 miliardi di euro, 377 milioni in meno di quanto inizialmente preventivato. Quel che Robertson non aggiunse era che nel 2005, quando la Gran Bretagna vinse l’assegnazione dei giochi, la stima era inferiore ad un terzo: 2,37 miliardi di sterline. Secondo uno studio di Bent Flyvbjerg e Allison Stewart della Università di Oxford, lo scarto fu del 101 per cento, più dell’86 per cento di Torino, niente rispetto al buco provocato dalla organizzazione di Atlanta - 147 per cento di maggiori costi - o di Barcellona, dove gli stessi costi sono lievitati del 417 per cento.
2012, impatto positivo
Sempre nel 2005 Pricewaterhousecoopers stimò l’impatto positivo dei giochi in 8,3 miliardi di sterline, circa lo 0,1 per cento dei Pil. La statistica ufficiale sull’andamento del prodotto interno lordo nel terzo trimestre del 2012 raccontò una verità diversa: il balzo fu dell’1,1 per cento. Non solo: secondo alcuni economisti non è nemmeno corretto valutare l’impatto di una olimpiade sull’economia di tutto il Paese. Non è un caso se lo studio del 2005 di Pricewaterhouse spiegava che l’impatto positivo dei giochi sul Pil sarebbe stato concentrato a Londra (5,9 miliardi), nella zona in cui si sarebbero costruite più infrastrutture - l’East End - e solo per 1,9 miliardi nel resto della Gran Bretagna. Con un eccesso di sincerità, il sindaco Ken Livingstone ammise di aver deciso di candidare Londra solo per convincere il governo a stanziare fondi per il risanamento di una delle zone più depresse della città, e che nel frattempo, grazie a quegli investimenti, ha cambiato volto.
Fenomeno Barcellona
La storia delle olimpiadi racconta una verità incontestabile: gli investimenti necessari alla organizzazione sono sempre molto più alti dei ricavi che se ne ottengono. Calcolare i vantaggi è però complesso: i giochi di Barcellona costarono sì tantissimo, il beneficio che ne trasse la città è tuttora altrettanto innegabile. C’è poi una eccezione che conferma la regola ma dimostra la possibilità di fare delle olimpiadi un grande business, ed è il caso di Los Angeles nel 1984. «Quell’edizione - racconta Massimiliano Trovato dell’Istituto Bruno Leoni - fu finanziata fino all’ultimo centesimo da investitori privati e si concluse con un attivo di 250 milioni di dollari». Il successo fu costruito da un manager della lega pro di baseball, Peter Ueberroth, e gli valse il titolo di uomo dell’anno sulla rivista Time. Ueberroth fece essenzialmente tre cose: evitò la costruzione di stadi inutili, utilizzando al meglio quelli che già c’erano. Trattò duramente la cessione dei diritti televisivi alla Abc, che vendette per 225 milioni di dollari (basti dire che otto anni prima, a Montreal, gli stessi diritti erano stati venduti per meno di un decimo). Infine spinse al massimo perché i soldi arrivassero tutti dagli sponsor. Per un Paese ad alto debito come l’Italia una esperienza da studiare e imitare.

il Fatto 16.12.14
Il grande circo
Da Atene a Pechino, i Giochi portano corruzione e sprechi
La crisi della Grecia comincia dalla manifestazione del 2004 e la Cina fatica a gestire l’eredità del 2008
di Luca De Carolis


Una sentina di corruzione e sprechi, e quindi un flop economico da profondo rosso. Quasi ovunque. Cambiano latitudine e annata, ma da decenni Giochi olimpici e tornei sportivi vari sono un pessimo affare per chi li organizza. Pochissime le eccezioni, normali gli sfaceli.
Atene 2004, la porta dell’inferno greco
La Grecia ci puntò tutto. Fece qualsiasi cosa, dentro e fuori le righe, per prendersi i Giochi del 2004. E alla fine Atene riuscì a bruciare all’ultimo metro Roma, dove pure avevano avvistato mogli dei giurati del Cio (il Comitato olimpico internazionale) conborsestipatedidoniin via Condotti. Fu anche un risarcimento, perché le Olimpiadi del 1996 le avevano assegnate ad Atlanta, la città della Coca Cola. Una vittoria riparatoria nel segno di Dora Bakoyannis, prima donna sindaco di Atene, volto del comitato ellenico. Ma per la Grecia è stata la porta per l’inferno. La spesa ufficiale fu di 9 miliardi (il doppio del preventivo iniziale), ma più di un osservatore esterno parla di un costo reale di 20 miliardi. Nell’anno olimpico il rapporto deficit/Pil schizzò al 7,5, e il debito sfondò i 200 miliardi. Con un fiume di tangenti. La Siemens ha ammesso pagamenti in nero per oltre un miliardo. L’azienda tedesca è ripartita costringendo alle dimissioni presidente e ad. La Grecia è rimasta con i bilanci distrutti, la troika e decine di impianti olimpici abbandonati.
Pechino 2008, i lustrini del regime
Il nuovo colosso dell’Asia voleva mostrare i muscoli al mondo, 19 anni dopo il massacro di Tien an men. E allora furono le Olimpiadi di Pechino, i Giochi estivi più costosi della storia con una spesa di 40 miliardi di dollari (32 milioni di euro). Il luogo-simbolo dell’evento cinese fu il nuovo stadio di Pechino, il “Nido d’uccello”: 45 mila tonnellate di metallo che da fuori sembrano un enorme intreccio di rami. Una cattedrale da oltre 300 milioni di euro, presto lasciata in semi-disuso. Per disperazione l’hanno aperta alle manifestazioni straniere (tre edizioni della Supercoppa italiana di calcio). Quanto ai conti, la Cina non ha potuto sorridere. Nel mese delle Olimpiadi (agosto) il governo si attendeva almeno mezzo milione di turisti, ma ne sono arrivati molti meno, nonostante l’abbattimento delle tariffe alberghiere. E il Pil non è volato come nelle annate precedenti.
Vasche e cemento, scandalo a Roma
La fabbrica degli scheletri, di cemento. È l’altra faccia dei Mondiali di nuoto di Roma, dell’estate 2009. Una festa del degrado, con oltre 400 milioni di soldi pubblici buttati e mille fili oscuri dietro agli appalti. L’immagine dello scandalo è la Città dello Sport a Tor Vergata, polo che voleva essere multifunzionale con un palazzetto del nuoto per le gare e un’altra struttura per basket e pallavolo. Ma i mondiali da lì non sono mai passati, perché la Vela disegnata dall’architetto spagnolo Calatrava non è mai stata ultimata. È rimasta un eterno cantiere, che finora si è succhiato 256 milioni. L’assessore all’Urbanistica Caudo vorrebbe trasformarla in una serra per l’università di Tor Vergata, il Codacons ha chiesto di abbatterla. Un altro teatro dell’orrore è il polo natatorio di Valco San Paolo: tre piscine, una palestra e uffici, per un costo di oltre 16 milioni. Fu usato per qualche allenamento. Poi è rimasto abbandonato, con calcinacci che piovono dai soffitti, pavimenti semidivelti e una piscina esterna (sbagliata nelle misure) ridotta a uno stagno. Il presidente del Municipio VIII Andrea Catarci assicura: “Finalmente sono iniziati i lavori per rendere funzionante la struttura, dovrebbero concludersi a giugno”. A margine, processi e inchieste sugli sprechi e sul giro d’affari sulle piscine private, accreditate in tutta fretta per i Mondiali. Nello scorso maggio, la procura di Roma ha disposto il sequestro del Salaria Sport Village, di proprietà dell’imprenditore Diego Anemone. Secondo i pm sarebbe stato “ristrutturato e ampliato con soldi giunti alle imprese di Anemone dopo l’aggiudicazione pilotata degli appalti gestiti dalle strutture dirette da Angelo Balducci”.
Dai Giochi di Putin alle “trattative” arabiche
I Giochi più costosi di sempre portano la firma di Vladimir Putin: 51 miliardi di dollari (circa 41 milioni di euro) per le Olimpiadi invernali di Sochi. Sforzo ignorato dagli appassionati, con il 30 per cento dei biglietti rimasto invenduto e riflessi pressoché nulli sull’economia. Ma Putin voleva il suo giocattolo, e si aspetta molto anche dai Mondiali di calcio in Russia del 2018. Più esotica la meta del 2022, il Qatar. Su entrambe le assegnazioni gravano pesanti sospetti di mazzette. Dopo un’inchiesta, il comitato etico della Fifa ha negato: “Non esiste corruzione, solo dei dubbi”. Ma proprio il capo degli ispettori, Michael Garcia, è convinto che il governo del calcio mondiale abbia fornito una lettura “erronea e incompleta” del rapporto sui sospetti di corruzione. E annuncia ricorso contro l’archiviazione del procedimento.

il Fatto 16.12.14
Tor Sapienza, non solo scontri: l’inchiesta si allarga


ANCORA gli scontri di Tor Sapienza e la necessità di fare chiarezza sui fatti che misero per una settimana a ferro e fuoco un intero quartiere della periferia romana. L’inchiesta su Mafia Capitale riaccende i riflettori sugli incidenti di metà novembre, quando un nutrito gruppo di residenti attaccò il centro di accoglienza per immigrati gestito dalla coop Il Sorriso. All’epoca, si parlò di guerra tra poveri e di razzismo: oggi però quei fatti vanno riletti alla luce del giro di affari gestito dalla banda di Massimo Carminati. Un articolo di ‘Repubblica’ ha raccolto la testimonianza della direttrice del centro di via Morandi, che ha raccontato di ripetute minacce da parte delle coop “concorrenti”.
   Per questo il pm Eugenio Alba-monte, titolare dell’inchiesta sui fatti di Tor Sapienza ha deciso di approfondire queste nuove rivelazioni. Oltre a ricostruire gli scontri tra i romani che chiedevano la chiusura del Centro e le forze di polizia, ora c’è da chiarire anche quale ruolo abbiano avuto Salvatore Buzzi e i suoi sodali in quelle ore.

il Fatto 16.12.14
Mafia capitale, “indagato il direttore del Tempo”


“Apprendo da qualificate fonti giornalistiche di essere indagato per favoreggiamento nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale”. A dare notizia della propria iscrizione nel registro degli indagati nell’ambito dell’operazione “Mondo di mezzo” è lo stesso Gian Marco Chiocci, direttore de Il Tempo. Chiocci è finito al centro delle polemiche dopo un articolo del 12 marzo scorso, con il titolo “Centro rifugiati bloccato dai francesi. Palla al tar”. Nel pezzo si dava conto dell’appalto della prefettura di Roma che era riuscito ad aggiudicarsi la Cooperativa Eriches 29, riconducibile a Salvatore Buzzi, braccio ‘sinistro’ di Carminati. Contro la Eriches 29 fa ricorso al Tar la ricorrente Gepsa e il Tribunale amministrativo ne sospende l’assegnazione. La mattina della pubblicazione, l’autrice dell’articolo contatta Buzzi e quegli sms finiscono agli atti: “Ma andava bene l’articolo, vero?” e Buzzi è entusiasta: “Perfetto, sei bravissima”. Agli atti dell’inchiesta inoltre i Ros riportano anche di un incontro avuto il 14 marzo scorso tra Massimo Carminati e Chiocci nello studio del legale del “Nero”. Circostanza della quale ha dato conto il 6 dicembre scorso lo stesso direttore de Il Tempo quando sul quotidiano aveva scritto del suo incontro con il Cecato sottolineandone la rilevanza giornalistica e spiegando di non averne scritto perchè l’ex Nar non acconsentì alla pubblicazione. “Sono tranquillissimo – continua Chiocci nella nota di ieri – perché questa mia attività di favoreggiamento - evidentemente - consisterebbe, non so in quale modo, nell’esercizio della mia libera attività di giornalista che svolgo allo stesso modo, cioè da persona perbene, da oltre 25 anni. Sono a disposizione degli inquirenti.”

il Fatto 16.12.14
Frase in codice dell’agente Renzi
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, improvvisamente, nel corso della sua irata e vendicativa relazione alla assemblea del Pd, Renzi ha fatto la seguente dichiarazione: “I vent’anni dell’Ulivo sono stati vent’anni sprecati”. Ho cercato tutte le fonti, per essere sicuro. Il segretario del Pd ha detto proprio così. Cerco aiuto per interpretazione.
Sandro

CI PROVO. Prima interpretazione: in spirito di trasparenza, il segretario Pd voleva svelare chi sono stati i 101 che hanno bloccato il voto per Prodi al Quirinale. Sono la parte più salda e fedele del renzismo che voleva onestamente dichiarare il suo orrore per il tentativo, sia pur mite, dell'ulivo prodiano di far fronte alla illegalità berlusconiana. L'impegno di Renzi era di togliere ogni merito e prestigio di fronte alla storia a gruppi e persone che, nel Parlamento e fuori, hanno cercato di salvare la Costituzione di Terracini e Calamandrei dalle “riforme” prima di Forza Italia e del Pdl, poi delle costituzionaliste Boschi e Madia. Seconda interpretazione. Come in tutti i partiti autoritari, anche in quello di Renzi vige la pratica di attribuire colpe gravissime alla opposizione interna. Renzi gode di un’ opposizione troppo piccola per dargli noia, ma troppo espressiva e in contatto con i media per far finta di niente. La strategia di contrasto è dipingerla come una quadra così scriteriata e dannosa da essere persino ulivista, dunque veltroniana e prodiana, dunque il peggior rischio che il partito renziano possa correre. Terza interpretazione: che cosa è il partito renziano? Si chiama ancora Pd, ma con dentro Verdini (che, nel tempo libero dalle indagini che lo riguardano) è il principale consigliere del premier e con l'estroso, misterioso e ripetutamente confermato “patto del Nazareno”. Quel patto, come tutti sanno, è segreto. Ma almeno a una cosa vincola apertamente la controparte ex democratica: screditare ed eliminare Prodi che, dopotutto, è il solo che, invece di celebrare e portarsi a casa il condannato Berlusconi, lo ha sconfitto (sia pure di stretta misura) due volte. Ogni rivalutazione di Prodi è una nuova ferita per Berlusconi che, invece, adesso, in casa ex Pd ci sta benissimo. Ogni insulto a Prodi è un regalo. Facilita il trucco della memoria, favorito così a lungo da media servili: che in questi venti anni l'Ulivo abbia fatto guasti e disastri a cui il buon governo di Berlusconi-Bossi ha posto saggiamente rimedio. Resta il mistero dei sondaggi. Perché, benché così distruttivo e incattivito, Renzi continua a restare in testa? Probabilmente per una ragione che neppure Renzi ha calcolato. Il tono di vendetta lo fa sembrare leader dell'antipolitica e nemico di se stesso. Un percorso strano che, fino a che non si dovrà di nuovo votare, gli porta bene. In seguito Renzi dovrà far sapere se sta con se stesso o contro se stesso.

il Fatto 16.12.14
Con Prodi Renzi minaccia tutti
Incontro di due ore a Palazzo Chigi
Dovesse portarlo al Colle, le elezioni sarebbero a un passo
di Wanda Marra


La carta Romano Prodi è lì, sul tavolo di Matteo Renzi, pronta a essere estratta dal mazzo nella corsa al Quirinale. Nel caso si rivelasse vincente, potrebbe aiutare il premier anche a rovesciarlo, il tavolo. Tecnicamente, a far saltare tutto, dal Patto del Nazareno alla legislatura, e arrivare al voto. Ed è questa la minaccia che adesso Renzi mette sul tavolo: un candidato gradito a molti pezzi del Pd, a Sel, e a parte dei Cinque Stelle, da opporre a chi fa ricatti, da Forza Italia, alla minoranza dem.
Sono da poco passate le 15 e 30 di ieri quando il Professore varca la porta di Palazzo Chigi. Ad aspettarlo c’è il capo del governo. Incontro ufficiale, alla presenza di Graziano Delrio, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che aveva ricevuto in passato il Professore. Matteo e Romano conversano per due ore, davanti a un caffè. Palazzo Chigi fa sapere che hanno parlato di politica internazionale, con particolare riferimento alla situazione in Libia e Ucraina, e di economia europea. Prodi e i suoi, ufficialmente, confermano. L’incontro era fissato da giorni. Da mesi si parla anche di una candidatura del Professore alla guida delle Nazioni Unite. Troppo lontana (nel 2017), e non nella diretta disponibilità dell’Italia, però, per essere considerata come una reale possibilità dallo stesso Professore. All’ordine del giorno il Quirinale c’è. “Non ne hanno parlato”, dicono categorici, quelli, come la deputata Sandra Zampa, che con più convinzione vorrebbero portare l’ex premier al Colle. Ancora: “La situazione è come era prima. Prima era stata avanzata una candidatura? No. E neanche adesso”. In realtà, sia renziani che prodiani, ammettono che il Colle è entrato, eccome, tra i temi in oggetto. Con Renzi che avrebbe chiarito di non essere pregiudizialmente contrario, e Prodi che avrebbe ribadito che il Quirinale non è tra i suoi progetti.
LA CANDIDATURA non è avanzata, ma i prodiani, da Civati a Parisi, la fanno aleggiare da settimane. Senza metterla in campo ufficialmente: la bruciatura per mano dei 101 franchi tiratori di un anno e mezzo fa scotta e l’ex premier non ha intenzione di farsi umiliare un’altra volta. Neanche però di farsi mettere da parte.
L’elezione del nuovo Presidente si profila come un Vietnam dal quale potrebbe essere difficile uscire. Ecco perché i prodiani sono convinti che a un certo punto a Romano di candidarsi al Colle verrà chiesto col cappello in mano. Renzi, poi, sembra non avere ancora in mente una figura precisa. O almeno, non l’ha confessata a nessuno: né ai fedelissimi, né allo stesso Napolitano. Ma non è convinto che il Prof sia la persona giusta. Troppo forte. E poi, non ha gradito l’accusa, più o meno indiretta di essere uno dei traditori. Però, non ci sta neanche a lasciare a Civati & co. l’eredità dell’Ulivo (anche di quell’esperienza i due hanno parlato ieri). E il patto del Nazareno, che è il principale ostacolo a una candidatura del Prof, gode di pessima salute: Berlusconi i suoi non li controlla.
Intanto, il metodo di partenza l’ha spiegato ieri a Porta a Porta Maria Elena Boschi: il Pd sceglie un nome “che poi sottoporrà agli altri partiti”, da Fi a M5S. Con quali possibilità di riuscita? “Io e tutte le persone vicine a Bersani l’abbiamo votato. E sono pronto a rifarlo”, mette un punto fermo Stefano Fassina a Otto e Mezzo. Anche se non tutto il Pd lo farà volentieri. Ma è anche vero che sarebbe difficile affossarlo un’altra volta. I Cinque Stelle poi sono sempre imprevedibili. Variabili. “Però c’è un dato - spiega un renziano della cerchia stretta - se Matteo decide di andare al voto, Prodi potrebbe essere l’uomo giusto per farlo. Anche perché con la sua elezione, Berlusconi romperebbe tutto”. Possibilità concreta, anche se, chi vuole davvero il Professore sul Colle, pensa che alla fine Renzi potrebbe non essere in grado di dettare troppe condizioni. Neanche questa. La Boschi, ieri, lo corteggiava così: “ Io Prodi l’ho votato ma credo non sia giusto tirarlo per la giacchetta, visto che è lui il primo a non volere essere chiamato in causa anche per come è stato trattato l’ultima volta. Quella figuraccia lì non la ripeteremo”. Le grandi manovre aumentano. E il tempo stringe.
OGGI NAPOLITANO farà l’ultimo discorso alle alte cariche dello Stato. Il timing delle dimissioni è chiaro: non lascerà il 31 dicembre, ma dopo il 13 gennaio, data dell’ultimo discorso di Renzi a Strasburgo, come guida del semestre europeo. Il 14, dunque, è il primo giorno da attenzionare. Non si andrà molto più in là. In Parlamento hanno già cerchiato sul calendario la prima votazione per il successore: il 20 gennaio.
Il sogno del premier sarebbe di arrivare con una candidatura blindata. Pensa anche a una grande Assemblea con tutti i dirigenti del Pd per lavorare a un identikit che vada bene a tutti. Ma col voto segreto, si sa, le buone intenzioni e le tele tessute con cura possono trasformarsi in trappole mortali. E i sogni scontrarsi con la dura realtà.

il Fatto 16.12.14
Quel 19 aprile in cui “i 101” demolirono il Prof e Bersani


L’UNICA COSA CERTA è che questa volta Romano Prodi ci andrà con i piedi di piombo. Perché nella corsa per il Quirinale il Professore è rimasto già scottato una volta. La storia dei 101 franchi tiratori che impallinarono l’ex premier il 19 aprile del 2013, infatti, è un marchio sulla pelle che ancora brucia nella recente storia del Pd. Si può dire, senza esagerare, che da quel giorno nulla fu più come prima. Pier Luigi Bersani si dimise; venne rieletto Napolitano che poi diede l’incarico a Enrico Letta; Renzi iniziò la sua scalata verso la segreteria del Pd e Palazzo Chigi. Ma torniamo a quella fatidica giornata. 24 ore prima, alla terza votazione per il capo dello Stato, Franco Marini non ce la fa e si ritira dalla corsa. Al mattino i parlamentari del Pd si riunirono in assemblea al teatro Capranica. E qui il segretario Bersani tirò fuori dal cilindro il nome di Prodi, che i democrats accolsero con un’ovazione. Per il Professore sembrava fatta. E invece, poco dopo, in Parlamento Prodi si fermò a 395 voti sui 504 necessari, con 101 franchi tiratori del Pd. In realtà furono anche di più, tra i 115 e i 120, perché al Prof arrivarono voti anche fuori dal suo schieramento. Una débâcle clamorosa che portò, la sera stessa, Bersani a dimettersi da segretario del partito.
Nei mesi successivi tante sono state le ricostruzioni di una vicenda in cui si sovrapposero almeno tre livelli: chi non voleva Prodi (D’Alema), chi voleva affossare Bersani (Renzi) e chi voleva vendicarsi per la bocciatura di Marini (gli ex Ppi). “Quella mattina stessa (il Prof era a Bamako come inviato dell’Onu, ndr), prima del voto, telefonai a D’Alema e lui mi disse: ‘Benissimo, ma non è così che si arriva a una candidatura condivisa’. In quel momento capii che non sarei mai stato eletto”, ha raccontato poi lo stesso Prodi. Mentre, sul fronte dei 41 renziani, si ricordano le parole su Bersani in una cena da Eataly alla vigilia del voto (“il cavallo ferito va abbattuto”). E siccome due indizi fanno una prova, lo stesso Renzi fu il primo, pochi minuti dopo il voto-killer, a togliere di mezzo il Prof dichiarando alle agenzie: “La sua candidatura non c’è più”.

Repubblica 16.12.14
La bandiera del Professore
Le Camere presentano una singolarità: i gruppi parlamentari non sono affatto lo specchio dell’attuale assetto di potere
di Claudio Tito


LA CORSA al Quirinale è stata da sempre un grande gioco delle parti. In cui le apparenze venivano preservate in virtù di una realtà completamente diversa. L’incontro di ieri tra Matteo Renzi e Romano Prodi sembra rientrare perfettamente in quel canovaccio. La successione di Napolitano non può infatti essere preparata attraverso un incontro sostanzialmente pubblico.
LO SCHEMA effettivo prevede altre procedure. Soprattutto in questo Parlamento. Le attuali Camere presentano una singolarità che in passato non si era mai rivelata con tanta nettezza: i gruppi parlamentari non sono affatto lo specchio dell’attuale assetto di potere. I deputati e i senatori del Pd — il partito di maggioranza relativa — solo in parte sono fedeli alla Segreteria. Sono ancora espressione della gestione Bersani, il leader democratico che ha pilotato la formazione delle liste elettorali nel 2013. Forza Italia, dopo aver subito la scissione dell’Ncd di Alfano, deve fare i conti con una sostanziale balcanizzazione interna. Silvio Berlusconi non è in grado di orientare e guidare tutti i suoi eletti. Basti pensare che persino Raffaele Fitto sostiene di controllarne almeno una quarantina. E anche il Movimento 5Stelle non è granitico come un anno fa. Anzi nel giro di pochi mesi è stato abbandonato da 15 deputati e 7 senatori. Questo è insomma lo specchio di un Parlamento che soprattutto in occasione dei voti a scrutinio segreto mette in evidenza una tendenza anarchica incontrollabile. A maggior ragione quando si eleggerà il capo dello Stato, il probabile epicentro di tutte le vendette.
Proprio per questo il presidente del consiglio ha bisogno di avvicinarsi a quell’appuntamento compiendo una serie di mosse per lo più tattiche. Niente che possa per ora precostituire il disegno finale. Anzi deve dissimularlo. E il colloquio con il leader storico dell’Ulivo è una di queste mosse. Renzi sa che il rancore per la mancata ascesa di Prodi al Quirinale poco meno di due anni fa rappresenta un diaframma palpabile che divide i suoi gruppi. Spera di infrangere quella barriera e tenere unito il Pd. E quindi escludere preventivamente l’uomo che ha portato il centrosinistra per due volte alla vittoria, equivarrebbe a incancrenire i risentimenti che covano in buona parte di quella generazione di dirigenti che ha scommesso nell’Ulivo e che si sente sottostimata dalla nuova leva.
Nello stesso tempo deve dimostrare di muoversi con una relativa autonomia rispetto al patto del Nazareno siglato con l’ex Cavaliere. Segnalare che nessuna strada è esclusa e che non può accettare veti da nessuno. Che anche Prodi, l’arcinemico del capo forzista, può entrare in partita. Il Professore è dunque sceso in campo di fatto, almeno in questa prima frazione del match.
Ma, appunto, per il momento si tratta di un gioco delle parti. In cui tutti ne recitano una fino a quando non si alza l’ultimo sipario. Anche perché persino quando la disciplina dei partiti era decisamente più stringente, questa rappresentazione era comunque composta da due atti: il primo era rivolto a “bruciare” i candidati. Il secondo a coltivarli. Ogni attore ne è consapevole e sa che togliersi o farsi togliere la maschera quasi sempre significa l’eliminazione. Non è un caso che tutti — compreso Prodi — negano di essere candidati. In questa occasione, però, i due piani rischiano di sovrapporsi. La carica di ribellione dentro le formazioni politiche e la dose di antipolitica che accompagnerà la scelta del futuro presidente della Repubblica rende tutto ancora più imprevedibile e sdrucciolevole. Costituiscono due variabili indipendenti capaci di stravolgere qualsiasi tattica.
Ma c’è un punto che sembra incontestabile: l’elezione del capo dello Stato non potrà che passare da una “nomination” del Pd. Del resto sarà un test per la leadership di Renzi. Il premier proverà a far pesare il suo ruolo come se il 40,8% ottenuto alle Europee fosse un dato acquisito anche nelle due Camere. E soprattutto con l’obiettivo di non ritrovarsi sul Colle un uomo in grado di commissariarlo o limitarlo. Negli ultimi venti anni dinanzi ad un sistema politico indebolito, il Quirinale aveva assunto un ruolo di supplenza interventista. Il gioco delle parti, però, a Palazzo Chigi ha esattamente questo limite: il futuro capo dello Stato non potrà assumere ancora quella funzione. Secondo Renzi, il sistema dei partiti si è ricomposto proprio intorno a quel 40,8% conquistato a maggio. Ma gli obiettivi del presidente del consiglio dovranno misurarsi con le condizioni reali. Non sempre tatticamente riconducibili al gioco delle parti.

La Stampa 16.12.14
Bersani al premier: no alle prediche sulla lealtà
E Boschi: i decreti del Jobs Act solo a febbraio
di Carlo Bertini


«Non lo so, non saprei». Scivola via con un sorriso Pierluigi Bersani, sulle scale della facoltà di ingegneria dopo un convegno, di fronte alla domanda da mille punti. Se cioè l’incontro tra Renzi e Prodi possa preludere ad una candidatura del professore al Quirinale. «Intanto sono contento che si siano visti», dice Bersani. Il perché non lo dice l’ex segretario, ma è chiaro che in questa fase di pre-tattica un riavvicinamento del premier al suo candidato preferito non può che fargli piacere. Consapevole che magari Prodi possa essere usato da Renzi come fumo negli occhi di Berlusconi, per sconsigliargli sgambetti di vario tipo. Fatto sta che per il mondo bersaniano il gesto è considerato distensivo. «Pierluigi e Renzi non si sono ancora confrontati, ma ognuno con il suo cerchio stretto ha tracciato un identikit. E solo quando si saranno accordati sul profilo si potrà cominciare a ragionare su un nome», dicono gli uomini dell’ex segretario.
Nel day after del Pd, l’unica partita di cui si parla è quella del Quirinale. «Prodi sarebbe un buon Presidente, una figura autonoma in grado di unire», dice Stefano Fassina. Ma già partono i colpi di avvertimento. «In un partito come il Pd, plurale e senza padroni, la lealtà è la materia prima senza la quale non si va da nessuna parte. Sento in questi giorni e leggo sui giornali di appelli, prediche sulla lealtà. Ma non da tutti i pulpiti - scandisce Bersani - si possono accettare prediche». E se è vero che nella partita per il Quirinale Renzi se la dovrà vedere innanzitutto con il suo predecessore per cercare un’intesa comune da cui partire, certo non troverà un personaggio con la migliore predisposizione nei suoi confronti. Insomma Bersani non solo rovescia sul premier l’accusa di scarsa lealtà, ma dice pure di esser stato trattato ben peggio quando c’era lui al timone. «Io ho fatto il segretario e so cosa vuol dire minoranza, so cosa vuol dire opposizione». Ma prima della partita a scacchi sul Colle sono tante le occasioni per fare sgambetti. L’ingorgo in Parlamento è intensissimo: a gennaio se alla vigilia di Natale sarà approvato in commissione, andrà in aula l’Italicum. E dopo aver dovuto trangugiare una riforma del Senato indigesta, che andrà in aula alla Camera dopo le feste, la minoranza Pd vorrà pure scandagliare uno ad uno i decreti attuativi del jobs act. Sarà per questo che la Boschi si tiene prudente sui tempi in cui vedrà la luce la riforma cruciale di Renzi. Ieri ha detto che i primi decreti attuativi entreranno in vigore a febbraio, un mese oltre la scadenza preannunciata dal premier. Entro dicembre il governo li presenterà, ma poi dovrà far visionare alle Commissioni Lavoro di Damiano e Sacconi tutti i testi. E potrebbe non essere un passaggio indolore...
«Non lo so, non saprei». Scivola via con un sorriso Pierluigi Bersani, sulle scale della facoltà di ingegneria dopo un convegno, di fronte alla domanda da mille punti. Se cioè l’incontro tra Renzi e Prodi possa preludere ad una candidatura del professore al Quirinale. «Intanto sono contento che si siano visti», dice Bersani. Il perché non lo dice l’ex segretario, ma è chiaro che in questa fase di pre-tattica un riavvicinamento del premier al suo candidato preferito non può che fargli piacere. Consapevole che magari Prodi possa essere usato da Renzi come fumo negli occhi di Berlusconi, per sconsigliargli sgambetti di vario tipo. Fatto sta che per il mondo bersaniano il gesto è considerato distensivo. «Pierluigi e Renzi non si sono ancora confrontati, ma ognuno con il suo cerchio stretto ha tracciato un identikit. E solo quando si saranno accordati sul profilo si potrà cominciare a ragionare su un nome», dicono gli uomini dell’ex segretario.
Nel day after del Pd, l’unica partita di cui si parla è quella del Quirinale. «Prodi sarebbe un buon Presidente, una figura autonoma in grado di unire», dice Stefano Fassina. Ma già partono i colpi di avvertimento. «In un partito come il Pd, plurale e senza padroni, la lealtà è la materia prima senza la quale non si va da nessuna parte. Sento in questi giorni e leggo sui giornali di appelli, prediche sulla lealtà. Ma non da tutti i pulpiti - scandisce Bersani - si possono accettare prediche». E se è vero che nella partita per il Quirinale Renzi se la dovrà vedere innanzitutto con il suo predecessore per cercare un’intesa comune da cui partire, certo non troverà un personaggio con la migliore predisposizione nei suoi confronti. Insomma Bersani non solo rovescia sul premier l’accusa di scarsa lealtà, ma dice pure di esser stato trattato ben peggio quando c’era lui al timone. «Io ho fatto il segretario e so cosa vuol dire minoranza, so cosa vuol dire opposizione». Ma prima della partita a scacchi sul Colle sono tante le occasioni per fare sgambetti. L’ingorgo in Parlamento è intensissimo: a gennaio se alla vigilia di Natale sarà approvato in commissione, andrà in aula l’Italicum. E dopo aver dovuto trangugiare una riforma del Senato indigesta, che andrà in aula alla Camera dopo le feste, la minoranza Pd vorrà pure scandagliare uno ad uno i decreti attuativi del jobs act. Sarà per questo che la Boschi si tiene prudente sui tempi in cui vedrà la luce la riforma cruciale di Renzi. Ieri ha detto che i primi decreti attuativi entreranno in vigore a febbraio, un mese oltre la scadenza preannunciata dal premier. Entro dicembre il governo li presenterà, ma poi dovrà far visionare alle Commissioni Lavoro di Damiano e Sacconi tutti i testi. E potrebbe non essere un passaggio indolore...


Repubblica 16.12.14
“Non è Matteo che può chiedere lealtà”
Bersani critico con il premier: non si possono accettare prediche da ogni pulpito. Ma sul rischio di franchi tiratori nella corsa per il Colle rassicura: “Gli auguro di trovarne tanti come me”. Riforme, la minoranza Pd darà battaglia
Il patto del Nazareno non è obbligatorio ma ampiamente facoltativo, anche per i numeri
Il Pd deve essere senza padroni Con una politica di sola comunicazione sbandiamo
di Giovanna Casadio


ROMA «La lealtà al governo è fuori discussione». Pierluigi Bersani parla di lealtà, come ha già fatto Renzi nell’Assemblea dem di domenica. L’ex segretario non c’era; colpa di un mal di schiena. Ma torna ieri da Piacenza a Roma per la presentazione del libro di Luigi Agostini (“Ripensare la sinistra”) e non risparmia critiche al premier. A cominciare dalla battuta sulla lealtà, appunto: «Non da tutti i pulpiti si possono accettare prediche... il Pd deve essere un partito organizzato e plurale, senza padroni». È la prima stoccata. Ed è anche il segnale che la tregua natalizia che ha concluso la riunione del “parlamentino” democratico, è in realtà assai fragile. La sinistra dem non s’arrende.
Basta vedere gli emendamenti all’Italicum, la nuova legge elettorale, presentati dai bersaniani al Senato. C’è quello contro i capilista bloccati, sottoscritto da una trentina di senatori dem e l’altro - primo firmatario Miguel Gotor, a seguire altre 33 firme, praticamente un terzo del gruppo del Pd - che prevede il sistema per quote, cioè il 25% di candidature bloccate e il restante 75% con le preferenze. «Ma non facciamo per favore psicodrammi sulle minoranze... », esorta Bersani e ricorda l’episodio che ha portato i dem sull’orlo della rottura, perché in commissione alla Camera la sinistra del partito aveva votato contro i 5 senatori nominati dal capo dello Stato. «Cos’è, li vogliamo ammazzare? Nei paesi democratici le Costituzioni non le fa il governo. Di riforme ce n’è da fare, nessuno frena ma bisogna migliorarle dove si può. Il Patto del Nazareno con Berlusconi non è obbligatorio, ma ampiamente facoltativo anche per i numeri». Ecco quindi che sul nuovo Senato e sulla legge elettorale la battaglia della minoranza dem è solo all’inizio, Renzi lo sappia. «L’Ulivo ad esempio, ha fatto il Mattarellum che è meglio del Porcellum e, secondo me, un filino meglio dell’Italicum », ricorda Bersani.
Anche questa è la risposta alle critiche mosse da Renzi alle troppe nostalgie uliviste, che hanno però dimenticato la palude in cui il centrosinistra si mise. Bersani non ci sta. «Siamo tutti figli dell’Ulivo, tutti quanti anche Renzi lo è. L’Ulivo ha avuto la magia di mettere insieme diverse culture riformiste nel reciproco rispetto e dignità, non dividendo tra innovatori e cavernicoli ». Un’altra frecciata a Renzi. Un appello affinché il Pd sia un partito di sinistra, figlio appunto dell’Ulivo e della distinzione tra il berlusconismo che ha imperato per oltre dieci anni e i tentativi prodiani di cambiare il paese. L’ex segretario del Pd - che del governo Prodi fu ministro - ricorda le “lenzuolate”, le sue riforme di politica industriale. Non gli piace il “grillismo” del premier che fa di tutta l’erba un fascio. Del resto Pro- di ha incontrato Renzi a Palazzo Chigi. «Bene, così il premier avrà avuto una visione più vera sugli ultimi 20 anni», ironizza il bersaniano Alfredo D’Attorre.
Ma è la partita intorno al Colle, per la successione a Napolitano, che quell’incontro apre. Al Pd spetterà indicare un nome, utilizzando il “metodo Ciampi”: è la riflessione di Bersani. Ai cronisti che gli chiedono cosa deve fare Renzi per evitare i 101 “franchi tiratori” che impallinarono Prodi, Bersani risponde con una battuta: «Renzi trovi parecchi Bersani in giro». Trovi, in pratica, dirittura di comportamento. Sul Quirinale però non si sbilancia: «Mi fa molto piacere, davvero che si siano incontrati. Non chiedete a me se possa correre di nuovo Prodi per il Colle», si sottrae.
La controffensiva dell’ex segretario comunque è a 360 gradi. La politica non può ridursi a semplice comunicazione, deve essere altro. Insiste sull’autonomia e la necessità di guardarsi in faccia: «Bisogna essere un collettivo. Chiedo troppo?». Racconta di quando disse a Giuliano Ferrara che un partito non può essere liquido: «Se è liquido, facciamoci una bella bevuta e non se ne parli più...». Replica a stretto giro del ministro Maria Elena Boschi: «Sì, serve confrontarsi, ma anche comunicare bene, mentre il Pd precedente considerava di destra la comunicazione ».

Repubblica 16.12.14
Legge elettorale, domani vertice dei Dem Boschi: Mattarellum ipotesi di passaggio


ROMA «L’ipotesi del Mattarellum è in campo perché ci si sta chiedendo quale può essere una legge elettorale di passaggio». Maria Elena Boschi non scarta l’ipotesi di usare la vecchia legge elettorale come clausola di salvaguardia nelle more dell’approvazione della riforma costituzionale che inizia oggi il suo iter in aula alla Camera. «Ma sono dell’idea che convenga aspettare la nuova legge elettorale perché non si voterà fino al 2018», spiega il ministro. L’Italicum sembra avere un iter complicato al Senato, dove ieri è iniziata in commissione la discussione sui 18 mila emendamenti. E fra questi uno del Pd che indica il Mattarellum come clausola di salvaguardia. Il rischio di impasse è alto e anche per questo domani mattina Renzi incontrerà il gruppo del Pd. Per superare lo scoglio degli emendamenti il testo potrebbe arrivare in aula prima di Natale senza avere concluso l’esame in commissione. Ma restano i nodi politici. E proprio oggi verrà votato un nuovo ordine del giorno Calderoli sulla “clausola di salvaguardia” e uno di Sel che propone di usare il Consultellum.

Corriere 16.12.14
Chi vuole il voto anticipato
di Antonio Polito


Non ha certo la potenza mediatica del «Che fai, mi cacci?» urlato da Fini in faccia a Berlusconi. Però anche il «Se vuoi il voto, dillo» con cui Stefano Fassina ha apostrofato Renzi durante l’assemblea pd un posticino nella storia potrebbe conquistarselo. La sua originalità sta nel fatto che, a parti rovesciate, poche ore prima era stato Delrio, cioè Renzi, a rivolgere la stessa accusa alla minoranza pd, cioè a Fassina, sospettata di aver ordito un agguato parlamentare al governo. Cosicché ora due cose sono chiare: c’è qualcuno che vuole andare al voto, anche se non si sa chi, e quel qualcuno sta nel Pd.
Già questa è un’anomalia non da poco. Da che mondo è mondo è l’opposizione che vuole votare e il governo che vuole durare. Nell’Italia del 2015 avremo invece un’opposizione terrorizzata dal voto anticipato (che lo ammetta, come Forza Italia, o che lo nasconda, come il M5S). E un governo tentato dall’avventura elettorale: quasi come se, una volta esauriti tutti gli annunci possibili, non restasse che annunciare le urne.
Naturalmente le elezioni sono, se non l’igiene, l’alimento della democrazia. Guai a demonizzarle. Ancora oggi si discute del resto se sia stato meglio per l’Italia evitarle nel 2011, quando al culmine della crisi finanziaria collassò il governo Berlusconi. Però un’elezione all’anno non è sintomo di salute, casomai di asfissia.
Anche ammesso che ci fosse una legge elettorale, che fosse costituzionale, e che valesse per entrambe le Camere, il vincitore dovrebbe comunque ricominciare daccapo a fare le stesse cose che ha annunciato, per di più buttando ciò che già è stato fatto in materia di riforme istituzionali. In assenza delle quali avrebbe un Parlamento forse più docile ma non più produttivo, e certamente non migliore.
Questo vizietto antico della politica italiana di giocare perennemente alle elezioni, di riempire con l’attesa delle urne il vuoto dell’azione, di promettere messianicamente ciò che non si riesce a realizzare, sembra poi oggi del tutto inconsapevole della gravità estrema della situazione europea in generale e di quella italiana in particolare. Il semplice evocare il rischio di elezioni in Grecia (anche lì, manco a farlo apposta, c’entra l’elezione del presidente della Repubblica), ha subito riacceso i timori di una tempesta sull’euro capace di spezzare la moneta unica. Un ritorno all’instabilità politica del Paese con più di duemila miliardi di debito potrebbe sollevare uno tsunami, e costarci il ritiro del credito che è stato concesso a Renzi proprio perché sembrava in grado di tenerne il timone.
Già oggi l’Italia è un caso in Europa. I governi ci considerano una variabile indipendente che può far pendere da una parte o dall’altra la sorte dell’unione monetaria. La Bundesbank può usarci come pretesto per fermare le misure non convenzionali che prepara la Bce di Draghi.
I lavoratori belgi scioperavano ieri contro i tagli anti-deficit accusando l’Europa di aver usato due pesi e due misure con italiani e francesi.
Giocare con le elezioni è dunque, almeno in questa fase, giocare col fuoco. E il gioco non varrebbe la candela. Confermerebbe anzi tutti i dubbi sull’Italia proprio quando più abbiamo bisogno di ispirare fiducia. Speriamo che nel Pd lo capiscano, e si mettano a litigare su altro.

Corriere 16.12.14
Il governatore della Toscana
Rossi ai dissidenti: «Stare con Matteo è di sinistra Dopo c’è la troika»
intervista di Virginia Piccolillo


È berlingueriano, criticava Renzi, ma ora non sta con i dissidenti. Enrico Rossi, come fa?
«Ho un’età in cui è già molto essere se stessi».
Essere di sinistra conta?
«Sì. Se cade questo governo dopo c’è la troika e la rovina per i ceti più deboli. Per questo Renzi è molto di sinistra».
C’è chi nel Pd pensa il contrario.
«Non è che appoggiare Monti fosse una scelta molto più di sinistra».
Invece sospettano che lei ora sia per Renzi perché la ricandida governatore in Toscana senza primarie.
«Ma non è così. Chiunque si può presentare».
Però nessuno lo sta facendo.
«Io c’ho un po’ da fare a pensare per me. Non sta a me sfidare me stesso».
Ma il premier le ha dato un assist.
«Sì, e ho apprezzato. Ma come candidato naturale, pur nelle differenze».
Lei non soffre per il Jobs act?
«Aspetto i decreti delegati. La sinistra ha reagito sfidando Renzi sull’articolo 18. Ma non mi sembra dirimente».
Piuttosto?
«Continuo a domandarmi perché non si riesce a introdurre il salario minino».
Lo ha chiesto a Renzi?
«Non ne abbiamo parlato. Ma non è che condivido tutto quello che fa. Come l’attacco di petto ai sindacati».
Ha ricevuto accuse di collaborazionismo?
«Eh, sì. Ma io non voglio il Paese commissariato. Renzi ha il diritto e direi il dovere di provare a governare con il sostegno del suo partito».
Fin dove si può spingere? Al patto rivelato da Berlusconi sul dopo-Napolitano?
«Renzi ha smentito e replicato bene dicendo che il Quirinale si può votare a maggioranza, senza Forza Italia. Napolitano non era frutto di larghe intese ma ha garantito tutti».
L’incontro con Prodi a cosa è servito?
«Mi pare un bel segnale».
E se Berlusconi dicesse la verità ?
«Non credo. Renzi è sufficientemente scaltro».
Non soffre a non stare con i suoi storici «compagni»?
«D’Alema e Bersani? Li ascolto sempre volentieri ma alla fine le cose devono essere decise».
Lo dice anche Renzi. Sbaglia chi lo critica?
«Anch’io l’ho criticato, ma altro sono i vizi parlamentari. Come il trabocchetto dei 101 nelle elezioni per il presidente della Repubblica. Non ci si può permettere di ripetere la stessa scena».
Si sente coerente?
«Certo. Ho la coerenza di uomo di sinistra di governo».

Repubblica 16.12.14
Unoi Tsipras per l’Italia
di Luciano Gallino


TRA coloro che hanno partecipato alle dimostrazioni per lo sciopero di venerdì 12 dicembre si contano forse numerosi elettori potenziali per lo sviluppo di una nuova ampia formazione politica, in grado di opporsi alle catastrofiche politiche di austerità imposte da Bruxelles e supinamente applicate dal nostro governo. Non si tratta di fare un esercizio astratto sul futuro del nostro sistema politico. Se una simile forza di opposizione non si sviluppa, quello che ci attende è un ulteriore degrado dell’economia e del tessuto sociale, seguito da rivolte popolari dagli esiti imprevedibili. Il governo è seduto su un vulcano, e intanto gioca a far “riforme” che peggiorano la situazione.
Chi volesse porre mano alla costruzione della nuova formazione politica potrebbe trarre indicazioni utili da quanto accade in Grecia e in Spagna. Sono due casi diversi. Nel primo siamo dinanzi a una “Coalizione della Sinistra Radicale” (acronimo Syriza) nata dieci anni fa e guidata dal 2007 da Alexis Tsipras dopo il primo grande successo elettorale. Nel 2012 è diventata il secondo partito greco. Al presente i sondaggi lo danno come il probabile vincitore delle prossime elezioni, nel caso che il governo Samaras non riesca a eleggere il presidente della Repubblica.
Syriza non vuole affatto distruggere la Ue. Vuole cambiarla. Il suo successo è dipeso da una radicale opposizione ai provvedimenti imposti dalla troika con il Memorandum d’Intesa del 2011, che ha obbligato la Grecia a tagliare pesantemente salari, stipendi e pensioni; a distruggere la sanità pubblica; a vendere ai privati beni pubblici essenziali, facendo piombare l’intero Paese nella miseria e nella disperazione. Tra i punti principali del programma di Syriza, oltre ad annullare i provvedimenti che s’è detto, v’è la proposta di una conferenza internazionale sul debito pubblico, allo scopo di ottenere che gli interessi dei cittadini non siano perennemente subordinati, come avviene ora, agli interessi delle grandi banche. Si vuole altresì richiedere alla Ue di cambiare il ruolo della Bce in modo che finanzi direttamente investimenti pubblici, e di indire una serie di referendum su vari punti dei trattati dell’Unione e altri accordi con le istituzioni europee.
Diversamente da Syriza, in Spagna “Podemos” sembra per così dire nato dal nulla. Fondato nel gennaio 2014 da una trentina di persone provenienti da diversi partiti, intellettuali, esponenti di movimenti, coordinate dal trentenne Pablo Iglesias Turrión, appena quattro mesi dopo raccoglie abbastanza voti da mandare a Strasburgo cinque eurodeputati. Al presente viene accreditato di oltre il 27 per cento dei voti, quasi due punti in più dei socialisti e ben 7 in più rispetto ai popolari. Ancor più di Syriza, il programma di Podemos è fortemente caratterizzato da proposte volte a modificare gli aspetti più deleteri del Trattato Ue. Tra i punti salienti del suo programma troviamo: la conversione della Bce in una istituzione democratica che abbia per scopo principale lo sviluppo economico degli stati membri (punto 1.3); la creazione di una agenzia pubblica europea di valutazione (1.4); una deroga dal Trattato di Lisbona.
Nell’insieme, i due programmi di Syriza e di Podemos appaiono essere più solidamente social-democratici, concreti e adeguati alla situazione attuale della Ue e alle sue cause di quanto qualsiasi altro partito europeo abbia finora saputo esprimere. Non per nulla i due partiti sono già oggetto di un furibondo bombardamento denigratorio da parte dei media, della troika, dei think tanks sovvenzionati dal mondo finanziario, e dei politici incapaci di pensare che al di là dell’Europa della finanza si potrebbe costruire un’Europa dei cittadini.
Va ricordato al riguardo che il Trattato Ue non è affatto immodificabile, come a volte si legge. L’art. 48, comma 1, prevede esplicitamente che «I trattati possono essere modificati conformemente a una procedura di revisione ordinaria». Il comma 2 precisa: «Il governo di qualsiasi Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione possono sottoporre al Consiglio progetti intesi a modificare i trattati ». Pertanto la questione, come si diceva una vita fa, è soprattutto politica. Ma nessuno ha mai sentito un solo politico che mostri di avere una conoscenza minimale dei trattati Ue, e ammetta che non sono scolpiti nel granito. In realtà si possono cambiare, ed è indispensabile farlo, a condizione di costruire una forza politica all’altezza del compito.
Al lume delle esperienze di Syriza e Podemos, come si presenta la situazione italiana? Sulle prime si potrebbe pensare che quanto rimane di Sel, di Rifondazione, dei Comunisti Italiani, insieme con qualche transfuga del Pd, potrebbe dar origine a una coalizione simile a quella di Syriza. Purtroppo la storia della nostra sinistra è costellata da una tal dose di litigiosità, e da un inesausto desiderio di procedere comunque a una scissione anche quando si è rimasti in quattro, da non fare bene sperare sul vigore e la durata della nuova formazione. Si può solo sperare che la drammaticità della situazione spinga in futuro a comportamenti meno miopi, ma per farlo bisogna davvero credere nell’impossibile. In ogni caso non si vede, al momento, da dove potrebbe arrivare la figura di un leader simile a Tsipras o a Turrión, colto, agguerrito sui temi europei, capace di farsi capire e convincere, esponendo al pubblico in modo accessibile dei temi complessi.
Qualcosa di analogo vale naturalmente per chi, scettico sulla possibilità di recuperare i frammenti delle vecchie sinistre, pensasse di costituire una formazione interamente nuova, come han fatto quelli di Podemos in Spagna. Che si sono dimostrati pure efficaci organizzatori, costituendo in pochi mesi centinaia di circoli di discussione in tutto il Paese. Un contributo potrebbe forse venire dalle esperienze di “Cambiare si può” o della stessa Lista Tsipras; non certo finite bene, ma che sono stati episodi di auto-organizzazione di una certa ampiezza. A fronte di un programma realistico, affine a quelli di Podemos e Syriza (con tutte le variazioni del caso), tali esperienze potrebbero trovare un baricentro che ai loro tempi non avevano. Il fatto è che il tempo urge, prima che il Paese caschi a pezzi. Una simile urgenza, che il popolo dello sciopero di venerdì scorso sentiva benissimo, insieme con l’attrattiva di un impegno realistico per ridare peso nella Ue a ideali come eguaglianza, solidarietà, partecipazione democratica, al posto della lugubre e distruttiva Ue della finanza, potrebbero contribuire a raccogliere molti più consensi di quanto oggi non si possa sperare.

Repubblica 16.12.14
Raffaele Cantone
“Mail criptate e anonimato sicuro per chi denuncia la corruzione”
L’appello di Cantone e del direttore delle Entrate “Nuove norme a tutela delle gole profonde”
di Liana Milella


ROMA «Chi vede la corruzione e non la denuncia è anch’egli complice ». Dice così Raffaele Cantone, il presidente dell’Authority anticorruzione, quando spiega che la chiave di volta per prevenire la corruzione sta soprattutto nella denuncia di chi, all’interno della Pubblica amministrazione, ha piena contezza dell’episodio corruttivo e si assume la responsabilità, con la totale garanzia dell’anonimato, di denunciarlo e rivelarne i dettagli che conosce. «È un invito alla collaborazione, non alla delazione, è un invito alla responsabilità » insiste Cantone. È l’atto dell’ormai famoso whistleblowing , letteralmente “soffia il fischietto”, espressione usata in Inghilterra per indicare la gola profonda, la deep throat di statunitense memoria. «Parola di cui, in Italia, non è stata trovata un’adeguata traduzione, e forse non è affatto un caso» chiosa Cantone che, tra L’Aquila e Palermo, affronta ancora una volta il neo purulento della corruzione e delle vie per uscirne il più rapidamente possibile.
Le collaborazioni, dunque. E non è un caso se anche il direttore generale dell’Agenzia delle entrate Rossella Orlandi annuncia all’Aquila che anche nei suoi uffici si lavora a un piano anticorruzione basato sulla collaborazione di chi ha avuto cognizione diretta o indiretta di un fatto anomalo e decide di parlarne. Piano che si avvarrà di un nuovo strumento, una mail criptata con cui il singolo dipendente potrà rivelare di essere stato testimone di una corruzione, cui egli è estraneo, che è pronto a raccontare. A disposizione del dipendente non ci sarà solo la mail, ma anche un gruppo di ascolto ad hoc, che però garantirà la sua privacy, quindi il suo posto di lavoro e la possibilità di continuare a convivere nello stesso ambiente in cui insistono le persone che egli ha denunciato. Orlandi ha invitato i colleghi a farsi avanti e ha ricordato che ci sono già meccanismi — il licenziamento senza attendere la condanna penale, la dichiarazione patrimoniale da parte dei dirigenti, la rotazione degli incarichi ogni 3-5 anni — che vanno nella direzione della trasparenza.
Cantone poi può essere l’interlocutore e il destinatario diretto di chiunque, all’interno della pubblica amministrazione, decida di raccontare una corruzione di cui è stato involontario testimone. Il decreto Madia, che ha pianificato anche i “poteri” dell’Authority anticorruzione, ha stabilito che l’ufficio di Cantone può essere il destinatario di queste confessioni. Cantone è convinto che questa presa di coscienza collettiva sia fondamentale. Tant’è che cita le norme esistenti nei paesi stranieri, Usa e Inghilterra per esempio, dove è prevista anche una ricompensa per chi denuncia. Invece in Italia, quando è stata approvata la legge dell’ex Guardasigilli Paola Severino contro la corruzione, la 190 del 2012, è stata prevista la figura del whistlerblower , ma senza dettagliare concretamente gli strumenti adeguati per la sua incolumità complessiva.
Siamo, ovviamente, nel campo della collaborazione. Che può vedere protagonista anche chi non è solo spettatore, ma è penalmente coinvolto nell’episodio corruttivo. Una figura cui destinare un trattamento premiale che già sarebbe dovuto entrare nella manovra anticorruzione del governo Renzi, prevedendo uno sconto di pena della metà per chi passa dalla parte dello Stato. Invece non se n’è fatto più nulla, anche se il responsabile Giustizia del Pd David Ermini e la presidente Pd della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti promettono che la norma entrerà nel corso della discussione alla Camera. Dice Cantone: «Gli sconti a chi collabora a certe condizioni usati in modo simile a quelli previsti per la mafia possono essere utili». Quanto alla vita futura delle norme invita ad attivare «una corsia preferenziale in Parlamento».

Repubblica 16.12.14
Arrestato in Estonia Giulietto Chiesa. La protesta dell’Italia
Crisi diplomatica per il fermo a Tallin dell’ex eurodeputato Convocato l’ambasciatore a Roma. Nella notte il rilascio
di Nicola Lombardozzi


MOSCA Arrestato in perfetto stile sovietico proprio in un Paese dell’Unione europea tra i più schierati contro i metodi della Russia di ieri e di oggi. Giulietto Chiesa, 74 anni, nota firma del giornalismo italiano ed ex eurodeputato, è stato prelevato ieri sera nella sua camera d’albergo nel centro della capitale estone Tallin da una pattuglia di agenti dello speciale servizio di sicurezza del Ministero degli Interni, meglio conosciuto con l’inquietante acronimo di Kapo. Nessuna spiegazione: «Prepari la sua valigia e venga con noi». Chiesa ha potuto solo scambiare due parole al telefono con la moglie (Fiammetta Cucurnia, giornalista di Repubblica) prima di essere rinchiuso in una cella di un commissariato di periferia: «Mi stanno arrestando ma nessuno mi spiega perché». Un agente avrebbe poi fatto capire che a carico di Chiesa ci sarebbe un decreto di espulsione da eseguire entro 48 ore. E infatti nella notte è stato poi rilasciato. Quanto basta per aprire una vera propria crisi diplomatica tra Italia ed Estonia con la convocazione alla Farnesina dell’ambasciatrice estone a Roma, Celia Kuningas. Nel conseguente comunicato del segretario generale Michele Valensise si usano i termini diplomatici di «sorpresa e preoccupazione» ma i toni dell’incontro sarebbero stati ben più duri. E duri sono stati quelli dei socialisti all’Europarlamento («palese violazione dei diritti civili»), mentre dagli uffici dell’Alto commissario Ue Federica Mogherini si fa sapere di aver intrapreso «un’azione incisiva».
Quello che appare inconcepibile è che fino a notte inoltrata nessuno aveva ancora comunicato la motivazione dell’arresto. La motivazione, se c’è, è difficile da rendere pubblica senza un grave imbarazzo per il governo estone. Giulietto Chiesa avrebbe dovuto infatti partecipare da ospite d’onore a una conferenza sul tema “La Russia è nemica dell’Europa?” organizzata dal centro culturale Impressum, gestito da Igor Teterin, esponente della minoranza russa in Estonia. L’arresto ha di fatto cancellato un appuntamento nel quale sarebbero stati affrontati temi non graditi al governo locale. La posizione di Giulietto Chiesa sulla crisi ucraina è ben nota. Veterano dei corrispondenti a Mosca fino ai tempi di Putin, Chiesa ha sempre sostenuto che molte informazioni sulla crisi sono frutto di una manipolazione propagandistica anti-russa. E ha più volte raccontato, spesso anche con prove dettagliate, delle pressioni americane, polacche e delle repubbliche baltiche per strappare l’Ucraina alla storica area di influenza di Mosca. Comprensibile che queste considerazioni siano sgradite a Tallin. Molto meno che in un Paese europeo si arresti un giornalista per impedirgli di esprimere il suo pensiero.
Per far uscire Chiesa dalla cella e fargli dare almeno qualcosa da mangiare c’è voluto l’intervento a muso duro del nostro ambasciatore a Tallin, Marco Clemente. Che ha avviato una trattativa per ottenere la liberazione del giornalista poi avvenuta nella notte.

il Fatto 16.12.14
Pensionati addio, il governo non ha tempo
di Maurizio Chierici


LASCIAMO perdere il ping pong dell’elezioni a primavera: inquieta Berlusconi e le minoranze del Renzi segretario del partito personale. A maggio sarebbero un disastro, 16 milioni di volpi grigie non lo voteranno mai. Pensionati che non sopportano l’indifferenza alle proteste civili di chi sopravvive con l’acqua alla gola. Contabilità che non cambia da un anno all’altro: 9 milioni sbarcano il lunario con meno di 500 euro al mese (60 per cento donne) mentre 7 milioni non arrivano a mille. I tre sindacati raccolgono la disperazione nelle piazze. Quegli 80 euro sognati dalle folle che tirano avanti con 13 euro al giorno, gas, luce, affitto più qualcosa da mettere sotto i denti tanto per stare in piedi. Era il 5 novembre, appuntamento purtroppo sbagliato per gli impegni che travolgevano il capo del governo. La sera prima Ballarò, il mattino dopo a rimboccare i rimproveri di Juncker: “In Europa non vado col cappello in mano… per l’Italia, la sua storia, il suo futuro chiedo rispetto“. Poi di corsa ad Albenga, inaugurazione stabilimento Piaggio. Appuntamenti uno dopo l’altro e sull’angoscia che sfinisce un quarto degli italiani non ha tempo per una parola. I panni sporchi si lavano in casa, ma quando? E quando verranno cancellate le tasse-rapina che sfiniscono i pensionati sotto i 900 euro lordi al mese obbligati al prelievo di 900 euro netti l’anno? In Germania, Francia e Spagna prelievi zero. Senza contare le imposte locali che aggravano la disparità del sistema fiscale di chi vive nella miseria.
QUEL RISPETTO alla storia del Paese si annacqua quando bisogna rispettare la dignità delle persone che hanno animato la nostra vita e ormai sul viale di un tramonto immalinconito dalla povertà affidata al buon cuore del volontariato. Renzi ha un problema che perseguita il suo fare politica: non sopporta il confronto con chi fa domande e aspetta risposte. Si nasconde e rilancia da tribune affettuose con la scioltezza del decisionista che incanta i fedeli della sua Leopolda. Intanto ogni mattina i pensionati si svegliano con le mani vuote; le parole non bastano. Impossibile occuparsene con gli impegni nel mondo che conta. Alla vigilia dello sciopero generale pranzo ufficiale nella Casa Bianca di Erdogan per fare il punto col presidente turco su terrorismo islamico e democrazie minacciate. “È tra i primi leader mondiali a essere ricevuto nella nuova faraonica residenza con mille camere. Solo il papa e Cameron d’Inghilterra prima di lui…“. Chissà se Erdogan gli ha confidato l’arresto dei giornalisti indisciplinati. Il giorno dopo ammorbidisce le immagini Tv, quei disordini della disperazione che ha messo in fila un milione di lavoratori; le ammorbidisce nel quadro rasserenante dell’incontro con Francesco, moglie e ragazzi al seguito, incenso vaticano che allontana l’Italia degli scontenti. Poi l’assemblea del partito, buone notizie sulla buona scuola: sta costruendo la riforma assieme a studenti e insegnanti portatori di una “qualità che non ha confronto in Europa e nel mondo“. Tra le linee guida, risoluzione del precariato. Indaffarato com’è nessuno ha avuto il tempo di informarlo sui professori precari che si agitano a Padova e in altre città: da quando è cominciata la scuola non ricevono stipendio. Succede, devono capire e portare pazienza: in fondo sono solo tre mesi. Intanto i pensionati sempre lì ad aspettare. Prima o poi penserà anche a loro. Non siamo un Paese per vecchi e ogni anno se ne vanno in tanti e i bilanci respirano, ma non può essere la soluzione, ecco perché Renzi dondola incerto sull’allargare gli 80 euro anche a loro. Se mai nel 2015 si vedrà, spese per le olimpiadi permettendo.

Corriere 16.12.14
Scuola senza fondi Il magro Natale dei supplenti brevi


E ci risiamo. Anche quest’anno si prospetta un Natale magro per circa cinquantamila «supplenti brevi» della scuola, quegli insegnanti che hanno lavorato da una settimana a pochi mesi per sostituire colleghi malati e che, a tutt’oggi, non hanno ancora ricevuto uno stipendio. Il governo ha cercato di correre ai ripari, varando venerdì scorso un rifinanziamento del fondo per le supplenze brevi: 64,1 milioni da aggiungere ai settecento «evaporati» entro i primi nove mesi dell’anno. Ma non basta: ne sarebbero serviti novanta. Se va bene, si riusciranno a coprire le buste paga di novembre. E neanche per intero: ma in «proporzione una quota parte delle somme dovute», come si legge nella circolare inviata dal ministero dell’Istruzione ai dirigenti scolastici. Che dovranno — entro domani — capire come e dove tagliare cercando di essere il più possibile corretti e rispettosi del servizio effettuato da ciascun supplente. Parliamo di assegni già magri, che non superano nella maggior parte dei casi i 1.000 euro, e che quindi saranno «in proporzione» decurtati di cifre che vanno dai cento ai duecento euro. Parliamo di docenti precari, più precari dei precari che sperano nell’assunzione promessa dal piano Renzi, che hanno lavorato da settembre ad oggi senza vedere ancora un euro. E che — se va bene — entro la fine dell’anno riusciranno a pagare tutte le tasse. L’ennesimo, piccolo taglio, questo, che colpisce i più deboli.

Corriere 16.12.14
Il giudice intervistato su Berlusconi non violò il riserbo
Il Consiglio superiore assolve Esposito
di A. B.


ROMA Il giudice Antonio Esposito non ha violato il dovere del riserbo per un’intervista concessa prima del deposito delle motivazioni della sentenza in Cassazione del processo Mediaset.
Si è concluso con l’assoluzione, dopo oltre tre ore di camera di consiglio, il procedimento davanti alla commissione disciplinare del Csm a carico del presidente del collegio che in Cassazione ha riconosciuto colpevole di frode fiscale Silvio Berlusconi. Il verdetto di ieri è impugnabile davanti alle Sezioni unite civili della Cassazione.
A far finire Esposito davanti al «tribunale» del Consiglio Superiore della Magistratura, con l’accusa di violazione del riserbo, era stata un’ intervista data a Il Mattino prima del deposito delle motivazioni dal titolo «Berlusconi condannato perché sapeva, non perché non poteva non sapere». Il giudice accusò subito il giornale — contro il quale ha intentato una causa civile — di aver manipolato l’intervista. Una tesi che ha ribadito durante il processo disciplinare spiegando di non aver «mai parlato degli esiti del processo Mediaset», ma che al testo venne aggiunta una domanda su quel procedimento che in realtà non gli era mai stata formulata.
Nella sua autodifesa (che ha occupato anche una parte dell’udienza di ieri) Esposito ha spiegato che, se parlò effettivamente con il giornalista delle ragioni per cui il processo sul Silvio Berlusconi era stato assegnato alla sezione feriale della Cassazione e fissato per il 30 luglio, fu perché ritenne suo «dovere ristabilire la verità», dopo aver subito «il più infame linciaggio mediatico della storia», con l’accusa esplicita di «aver emesso un provvedimento anomalo con lo scopo di colpire Berlusconi».
Esposito ha poi escluso di aver lui stesso sollecitato l’intervista: «Non avevo alcun motivo di farmi pubblicità attraverso un giornale a bassa tiratura, quando il mio nome era apparso su tutti i giornali italiani e stranieri e io avevo rifiutato di dare un’intervista alla Cnn ».
Il rappresentante della procura generale della Cassazione, Ignazio Juan Patrone, che aveva chiesto per Esposito la sanzione della censura, aveva invece sostenuto che il magistrato era comunque venuto meno al dovere del riserbo, «sollecitando lui stesso la pubblicità di notizie sulla propria attività e sul processo appena trattato» e non ancora concluso, visto che non erano state depositate le motivazioni.
Il comportamento di Esposito, aveva sostenuto nella sua requisitoria, è stato «gravemente scorretto» nei confronti dei colleghi del collegio, anche per aver scelto un «canale personale privilegiato» per le sue esternazioni, «senza informare nessuno».
«Nessuno nega che c’erano stati titoli odiosi su alcuni giornali ed erano state fatte considerazioni sgradevoli su Esposito», aveva ammesso Patrone, ma la strada non può essere in questi casi quella dell’autodifesa. Esposito si sarebbe dovuto comportare come hanno fatto «decine di magistrati che, oggetto di accuse gravi, hanno affidato la loro tutela alle sedi deputate, il Csm e l’Associazione nazionale magistrati».

Corriere 16.12.14
Fine del ceto medio, il dramma del pd
di Mauro Magatti


Uno degli effetti che più preoccupano della lunga crisi europea è la progressiva erosione del ceto medio, cioè di quella parte di società che, attraverso il lavoro dipendente e autonomo, ha avuto stabilmente accesso, nei decenni scorsi, a condizioni di benessere materiale e sicurezza esistenziale.
Anche se con intensità diversa, un tale fenomeno si registra un po in tutti i Paesi avanzati: all’aumento della disuguaglianza — fenomeno che inizia già negli Anni 90 — si sommano ormai diversi anni di stagnazione economica. Per l’Italia, basta un dato: oltre ai 10 milioni di persone in povertà relativa oggi si contano oltre sei milioni di poveri assoluti (quasi il 25% della popolazione totale).
Gli effetti sui sistemi democratici sono ben visibili: forte disaffezione politica — con l’aumento del non voto; crescita di partiti che contestano l’intero impianto istituzionale europeo (come nel caso del Front National in Francia e del M5S in Italia); riduzione dello spazio politico per l’alternanza destra-sinistra. Il rischio è l’ulteriore restringimento di questo centro politico. Se ciò accadesse, la democrazia entrerebbe in una fase convulsa e dagli esiti incerti. Si tratta allora di lavorare per invertire il trend , tornando a offrire possibilità di vita e di lavoro a una platea sufficientemente ampia di cittadini.
Se vogliamo riconoscerle nobiltà intellettuale, la discussione di questi mesi all’interno del Pd ruota tutta attorno a questo nodo. Nella diatriba tra la vecchia sinistra e il nuovo partito di Renzi si cela la ricerca di un equilibrio nuovo tra le esigenze della concorrenza e quelle della integrazione sociale. La discussione, tuttavia, appare molto confusa. Da un lato Renzi ha perfettamente ragione quando dice che, in un Paese per molti versi arretrato e diviso tra garantiti e non, ci vuole un mercato del lavoro più moderno (cioè più efficiente). Ma — e qui hanno ragione i suo oppositori — un tale obiettivo non può essere costruito contro il lavoro. Soprattutto oggi, dopo che la progressiva perdita della quota di valore aggiunto distribuita al lavoro (calata negli anni di oltre dieci punti) ha finito per impoverire l’intero Paese.
Che le politiche del passato non funzionino più lo si vede anche in Germania e negli Usa, dove il problema di cui si discute oggi è che la quota di risorse prodotte dall’economia e distribuite nella società rimane troppo bassa. Non solo perché si registrano livelli di concentrazione della ricchezza che non si vedevano dagli Anni 20, ma anche perché la quota di profitti effettivamente reinvestita — a favore della speculazione finanziaria — ha raggiunto ormai percentuali inaccettabili. Per uscire dalla crisi, ciò di cui si è alla ricerca è allora una visione politica nuova, che sia capace di delineare uno scambio più avanzato tra capitale e lavoro. Scambio che nel dopoguerra si era articolato attorno alla logica fordista-welfarista (più salari, più consumi, più protezione sociale). E che nei decenni liberisti ha ruotato attorno al rapporto consumo-indebitamento (pubblico o privato).
Che l’Italia debba modernizzarsi è fuori discussione. Ma si tratta di capire come. E soprattutto in rapporto alle sfide di questo tempo. La sfida della crisi, infatti, è quella di raggiungere una maggiore efficienza sistemica non con meno ma più integrazione sociale. Ciò richiede una politica in grado di spingere interessi divergenti a convenire attorno ad alleanze strategiche in vista del raggiungimento di obiettivi e priorità comuni, allo scopo di ricreare le condizioni per riavviare il processo virtuoso dell’investimento pubblico e privato. In condizioni di ragionevole integrazione sociale.
Sviluppare una tale visione è anche la risposta da dare all’Europa: l’alternativa all’austerità sta infatti in una diversa concezione della crescita che fa della produzione di valore comune — di natura non solo economica ma anche sociale, ambientale, istituzionale — la sua precondizione.
Per un partito come il Pd, al 40% dei consensi, senza una vera alternativa, con un personale giovane, l’ambizione non può che essere quella di essere all’altezza della sfida. Ambizione che certo richiede una discussione. Ma che poi ha bisogno di quella visione e quella decisione che ancora molti faticano a vedere.

Corriere 16.12.14
Un milione alla Fondazione Auschwitz-Birkenau
di A. Bac.

Un milione di euro nel 2015 come contributo alla Fondazione Auschwitz-Birkenau per la costituzione di un fondo perpetuo che consenta il mantenimento dell’intera struttura dell’ex campo di sterminio. Lo ha stanziato il governo italiano con un emendamento alla legge di Stabilità. Il governo polacco dal 2009 aveva chiesto al nostro Paese, quale corresponsabile delle atrocità di Auschwitz, la concessione di un contributo che altri hanno già versato: 60 milioni la Germania, 15 milioni di dollari gli Usa, 15 milioni di euro la Polonia, 5 la Francia, 2 milioni di sterline il Regno Unito. A poco più di due mesi dal 70° anniversario della liberazione del lager da parte dell’Armata Rossa, solo Spagna e Italia mancavano all’appello dei 31 Paesi europei.

Corriere 16.12.14
Risoluzione Onu sulla Palestina, Israele spera nel veto Usa
Kerry non si sbilancia
di Paolo Valentino


Quasi tre ore di colloqui romani tra John Kerry e Benjamin Netanyahu lasciano fluido e per nulla rassicurante il quadro della situazione in Medio-Oriente. Non c’è stata rottura tra il segretario di Stato americano e il premier d’Israele. Ma dall’incontro non sembra emergere una risposta o una linea di condotta comune sul progetto di risoluzione che i palestinesi hanno annunciato di voler presentare già domani al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e che chiede la fine dell’occupazione israeliana nella Cisgiordania, fissando il ritiro di Israele entro due anni nei confini del 1967. Netanyahu ha confermato la linea dura della vigilia, opponendo un netto rifiuto a ogni «diktat» unilaterale e vincolante, che possa in alcun modo compromettere la sicurezza dello Stato ebraico. Ma per gli Stati Uniti, il dilemma è più complicato e ricco di insidie. In primo luogo l’Amministrazione appare meno incline del passato a usare il suo veto al Palazzo di Vetro per bloccare la risoluzione, gesto che potrebbe alienarle alcuni alleati arabi, oggi impegnati al suo fianco nella lotta all’Isis. Di più, Washington non vuol far nulla al momento che possa essere letto come interferenza nella campagna per le elezioni israeliane di marzo. Né l’opzione di un veto americano è immaginabile nei confronti dell’altra risoluzione in gestazione all’Onu, quella proposta dalla Francia, che evoca i confini del 1967 come base per un accordo di pace, ma non citerebbe come precondizione il riconoscimento di Israele come Stato ebraico da parte palestinese. Un veto, in questo caso, creerebbe tensioni con gli alleati europei, che vogliono rilanciare il processo di pace dopo anni di inutili tentativi guidati dagli Usa. Su questo tema l’Amministrazione sarebbe divisa tra la posizione di Kerry, che vorrebbe lasciar fare gli europei e quella di Susan Rice, la consigliera per la Sicurezza nazionale, che chiede più attivismo.
L’unica cosa certa è che lo scopo primario del grand tour diplomatico del segretario di Stato, il quale ieri sera è ripartito per Parigi e oggi sarà a Londra, sia quello di prender tempo, rallentando il ritmo degli eventi possibilmente fino a marzo. A Roma, oltre al presidente del Consiglio Renzi, Kerry aveva incontrato in mattinata il segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Piero Parolin, che ha chiesto agli Usa di «trovare una soluzione umanitaria» per i prigionieri ancora detenuti a Guantanamo.

Repubblica 16.12.14
Kerry-Netanyahu, braccio di ferro sul veto Onu
di Vincenzo Nigro


ROMA. Nel corteo di auto che scortava ieri John Kerry a Roma c’era anche un’ambulanza. Qualcuno da Villa Taverna ha pensato che gli infermieri sarebbero stati utili al culmine delle tre ore di discussione, quando il Segretario di Stato Usa ha detto in faccia al premier di Israele che il mondo e anche l’America stanno cambiando, «uno Stato palestinese è inevitabile e necessario, e voi dovete lavorare per questo ». Nella residenza dell’ambasciatore americano in Italia Kerry aveva convocato il premier di Israele per un’emergenza diplomatica che è esplosa negli ultimi giorni. I palestinesi hanno presentato all’Onu un progetto di risoluzione del Consiglio di Sicurezza che prevede che entro 2 anni, dopo negoziati, Israele ritorni nei confini del 1967 e permetta la nascita di uno stato palestinese. Assieme a questa proposta di risoluzione, la Francia ne ha presentata una seconda assieme a Gran Bretagna e Germania che propone la stessa cosa, utilizzando toni meno militanti.
Il premier israeliano ha chiesto che, come hanno sempre fatto in passato, gli Stati Uniti difendano le posizioni politiche di Israele usando il loro veto: «Ho chiesto al segretario Kerry di bloccare ogni tentativo di imposizione contro di noi». Per la prima volta però Washington non garantisce un veto a scatola chiusa: nel colloquio romano Kerry non ha assicurato a Netanyahu che gli Usa utilizzeranno il loro diritto di veto per bloccare entrambi le risoluzioni, e che anzi stanno già lavorando per modificare quella europea, e che a talune condizioni potrebbero anche votarla.
Un diplomatico che viaggiava con Netanyahu ha detto che «negli ultimi 47 anni gli Stati Uniti hanno sempre bloccato le mosse unilaterali che potessero imporre a Israele di accettare uno stato palestinese entro una certa data, e noi siamo sicuro che lo faranno anche questa volta». Il problema è che questa volta dopo 47 anni lo scenario è cambiato, come secondo un diplomatico europeo Kerry ha spiegato ieri pomeriggio a Netanyahu: innanzitutto c’è la risoluzione europea, proposta da Francia, Gran Bretagna e Germania che porta un peso diverso alla richiesta di creare uno Stato palestinese. «Soprattutto dopo la guerra di Gaza l’Europa ha capito che si deve fare pressioni su Israele», commenta un diplomatico italiano, «e questo mette pressione anche sugli Usa».
Poi — quello che Kerry ha obiettato a Netanyahu — c’è il fatto che entrambi le risoluzioni chiedono che Israele e palestinesi arrivino a un accordo con un negoziato, non con una imposizione. Impongono soltanto 24 mesi di tempo. Incontrando Matteo Renzi a Palazzo Chigi Netanyahu ha ripetuto che «noi non accetteremo i tentativi di imporci misure unilaterali proprio nel momento in cui il terrorismo islamico sta dilagando in tutta la regione ». Ma anche questo collegamento con il terrorismo è stato ribaltato da Kerry: se continuate con l’occupazione dei Territori il terrorismo troverà nuovi adepti, nuove praterie in cui esercitarsi. Per Israele il problema è che i palestinesi stanno trovando alleati importanti (e moderati) attorno alla loro proposta diplomatica: ieri sera, dopo la tappa a Roma, Kerry è volato a Parigi per incontrare i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna: l’americano ha chiesto di sospendere per alcuni giorni la procedura per arrivare a un voto all’Onu a New York. Ma la macchina è in movimento.

La Stampa 16.12.14
Dresda, sfilano gli anti-islam
“Siamo noi i veri tedeschi”
La protesta salda famiglie e lavoratori alle frange estreme dei neonazi
di Tonia Mastrobuoni


Un fischio assordante, poi una voce stridula riempie la piazza. «Ci sono tentativi di infiltrare manifesti anticostituzionali, per favore sorvegliate i vostri vicini». A tre metri dal palco, visibilissimo, un cartello con la scritta «Alibaba e i quaranta spacciatori». Il proprietario, un cinquantenne brizzolato dall’aria pacifica, non accenna ad abbassarlo. Del resto, nessuno ha vietato i manifesti razzisti; solo quelli anticostituzionali. E vai a capire la differenza.
Dalle ultime file parte anche una selva di fischi e un coretto, «Deutschland, Deutschland». Una dozzina di teste rasate applaudono scandendo il ritmo, per fortuna il coro si spegne quasi subito. Quello che contagia invece tutti, ogni volta che qualcuno lo accenna, è «Wir sind das Volk», «Noi siamo il popolo», lo slogan scippato alla rivoluzione pacifica che un quarto di secolo fa portò alla caduta del muro di Berlino.
In piazza molte teste rasate
Nell’autunno dell’89 anche qui a Dresda manifestavano ogni lunedì, come nel resto della Germania comunista, contro il regime di Honecker. E rischiavano il carcere o la vita. Ma in una piazza stracolma di teste rapate, «noi siamo il popolo» ha un suono sinistro. E quello di Pegida, dei «Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente», movimento nato a ottobre nella capitale sassone e divenuto ormai un appuntamento fisso e sempre più popolare anche in altre città della Germania - Duesseldorf, Kassel, Colonia, Ulm - è sempre sul filo dell’equivoco.
La simpatia degli anti-euro
Di più: è proprio nella città simbolo del «mattatoio» di Vonnegut, nella «Firenze sull’Elba» rasa al suolo con furia dalle bombe alleate a febbraio del 1945, che rischia di saldarsi la nuova destra tedesca. Gli anti-euro Afd, passati dalla priorità dell’uscita della moneta unica a quello del freno all’immigrazione, stanno già tentando di mettere il cappello su Pegida. Sono stati i primi, nelle settimane scorse, a mostrare una - cauta - disponibilità al dialogo, con gli anti islamisti. Se il movimento dovesse trovare uno sbocco nel partito di Bernd Lucke, cresciuto anch’esso a dismisura nei consensi fino ad entrare in ben tre assemblee regionali a settembre, con percentuali di voto oltre il 10%, per Angela Merkel sarebbe un bel grattacapo. La cancelliera continua a demonizzare Pegida, anche ieri ha fatto sapere che la Germania «non è un posto per odio e calunnie». Tuttavia, sarà difficile ignorarlo a lungo. Così come per gli Afd sarà difficile mantenere l’ambiguità, sul movimento.
«Siamo di destra»
Eppure, non è che manchino i momenti di verità, in questa piazza. Ad esempio, quando una ragazza poco più che ventenne urla dal palco, «ascoltatemi bene, giornalisti: questa è una piazza di destra» e dalla folla partono un boato e un’ovazione. E poi giù, a sparare parole d’ordine che echeggiano epoche buie, «deutsche Sitte», «usanza tedesca» e tante, troppe volte «Volk», «popolo». Ufficialmente, gli organizzatori della manifestazione di Dresda, cercano in tutti i modi di tenere lontani i neonazisti e gli slogan di estrema destra dal movimento. Sulla pagina Facebook c’è addirittura un omino stilizzato che getta una svastica nel cestino. E nella piazza di Dresda, a stragrande maggioranza maschile e piena di teste rapate, c’è anche tantissima gente comune. Donne, famiglie con bambini, molte coppie di anziani. Uno urla con forte accento sassone «sono fiero di essere tedesco», segue un applauso.
«Pensiamo ai nostri figli»
Horst, tassista 53enne venuto a manifestare con la moglie, spiega la popolarità di Pegida soprattutto nella ex Germania est: «Noi qui accettiamo ancora lavori che i tedeschi dell’ovest non accettano più da un pezzo, per noi gli immigrati dell’Est Europa sono concorrenti veri». Inutile ricordargli i numeri, dirgli che in Sassonia ci sono appena 100mila stranieri, il 2,5% della popolazione - a Berlino il 13,4% degli abitanti ha un passaporto non tedesco, tanto per fare un confronto. O che di quegli stranieri in Sassonia, neanche lo 0,1% sono musulmani. Horst scuote la testa: «Io devo pensare al futuro dei miei figli».
La paura dello straniero
Anche dal palco, uno dei capi del movimento sintetizza il motivo della popolarità di Pegida: «Non siamo un one man show, ma il risultato di anni di errori nelle politiche di immigrazione», strilla. La cosa inquietante, è che i sondaggi sembrano dargli ragione: il 34% dei tedeschi - uno su tre - secondo un’indagine dello Spiegel, pensa che la Germania si stia islamizzando.

Repubblica 16.12.14
Cina
Quei “Nobel” a Putin, Kim e Fidel il mondo capovolto di Pechino
A Castro va il “Confucio”, il dittatore coreano è “Giovane del futuro”: sono i riconoscimenti del 2014
di Giampaolo Visetti


PECHINO I CINESI, anche in un premio, vedono il mondo. Quello che scorgono loro non è ciò che vediamo noi. Interpretazioni dell’universo alla rovescia: o l’Occidente segue un altro film, o nessuno si cura di doppiare la realtà per l’Oriente. Problema: qual è il video giusto? Il 2014 a Pechino si chiude con il botto: premio Confucio a Fidel Castro, uomo dell’anno a Vladimir Putin, giovane del futuro Kim Jong-un. Mosca contraccambia: persona dell’anno Xi Jinping. Gli anni scorsi il copione era risultato ancora più affascinante: “Nobel cinese per la pace” a Yuan Longping, papà del riso ibrido, o a Yi Cheng, maestro zen. Per gli anni incerti, come il 2011, con Vladimir Putin in Asia è come vestire di grigio, non si sbaglia mai. Nell’anno dell’esordio, per oscurare il Nobel di Oslo al dissidente incarcerato Liu Xiaobo, Confucio era stato riabilitato per l’ex vicepresidente amico di Taiwan. Lien Chan, all’oscuro del riconoscimento-lampo, aveva appreso dopo settimane che una bambina misteriosa aveva ritirato il trofeo al posto suo. E pure le copertine, nell’era della «grande espansione culturale cinese », contano. Time incorona Tim Cock, ceo di Apple divenuto simbolo del riscatto gay. Il settimanale del Quotidiano del Popolo replica con il sorriso di Peng Liyuan, prima First Lady rossa dai tempi dell’ultima moglie di Mao. Il made in China della celebrità nega di violare il copyright. Osserva che «ognuno ha i premi che si merita». Icone contemporanee e scelta dei tempi, per il popolo che si consacra all’interpretazione delle sfumature, accendono però la curiosità.
Il premio Confucio al compagno Fidel è stato annunciato da Pechino mentre Malala Yousafzai e Kailash Satyarthi ritiravano il Nobel per la pace a Oslo. Putin è stato eletto uomo dell’anno in Cina negli stessi istanti in cui gli autodefiniti Grandi evitavano di sedersi a tavola con lo zar al G20 di Brisbane. Per il dittatore nordcoreano Kim Jong-un la propaganda cinese non ha risparmiato raffinatezza: incoronato «giovane del futuro» il giorno in cui l’Onu lo mandava a processo per crimini contro l’umanità, lui definiva gli Usa «cannibali» e i militari di Pyongyang mettevano il pianeta di buon umore intimando agli omonimi del capo di trovarsi un altro nome «per rispetto al nostro dio».
L’Occidente sorride, per la Cina è una faccenda seria. I media di Stato spiegano che «lo scrittore e giornalista Fidel Castro» è stato scelto «per aver rinunciato all’uso della forza nelle dispute internazionali, in particolare verso gli Usa». Premi di Pechino contro premi di Washington, mentre il mondo al di là della Grande Muraglia stupisce per le torture della Cia. «Non siamo direttamente coinvolti — dice il ministero degli Esteri — ma plaudiamo alla società civile che opera per la pace nel mondo». Con Vladimir Putin è un’altra storia. Europa e Usa vedono l’invasione dell’Ucraina. La Cina, nel caleidoscopio, coglie la «ricostruzione storica della madrepatria russa »: sogno che condivide pensando a Taiwan e ai mari del Sudest, già consumato con Hong Kong e Macao, in Tibet e nello Xinjiang. L’etichetta «giovane del futuro», appiccicata a Kim Jong-un, tradisce invece il senso cinese per le battute. Premio sì, ma prima monito: i giovani qui sono esclusi dal potere, il futuro resta successivo al presente. È come se in Occidente il Nobel a «una promessa dell’avvenire» fosse assegnato ad Angela Merkel.
Per la Cina del “sogno di Xi” anche la potenza dei premi ha infatti una scadenza. I riflettori atlantici perdono l’aroma, si diffonde il profumo del Pacifico. Chi imporrà, domani, i premi globali? Confucio seppellirà i fratelli Nobel? Xi e Putin, grazie all’energia, quest’anno sono davvero star a Mosca e a Pechino. Vengono osannati mentre «i vecchi Nobel degli altri» sono costretti a riunirsi a Roma perché il sudafricano Zuma ha negato il visto al Dalai Lama. Johannesburg non poteva perdere i contratti del mercato più ricco del mondo e la Cina ora promuove anche papa Francesco. Non ha ricevuto il “traditore separatista”, la diplomazia dei messaggi indica che il disgelo tra Vaticano e Città Proibita può proseguire. Il resto, per il 2014, è lo scontro a distanza tra la First Lady e Mister Apple. Peng Liyuan, snobbata da Michelle Obama, soccorre ora i funzionari rossi, impegnati a oscurare la stella del “signor telefonino”. Lui in Cina produce anche l’ultimo dei tablet. Lei, per il “nuovo Mao”, ha smesso di cantare. Pechino, con il premio anti-Cock, suggerisce che «l’amore conta più dei soldi». Anche gli eredi di Deng sudano. Sanno che il 2015 sarà di Jack Ma, imperatore dell’e-commerce. Sede ad Hangzhou, portafoglio a Wall Street, incoronato ieri «uomo più ricco dell’Asia». Ogni mondo ha il premio che lo specchia.

La Stampa 16.12.14
Da Lutero a Heidegger, le radici filosofiche dell’antisemitismo
di Alessandra Iadicicco


Capita ancora oggi che la filosofia faccia sensazione. Non è la prima volta che attorno a Martin Heidegger si crei lo scandalo. La news sensazionale di quest’anno è la pubblicazione dei suoi Quaderni neri. Che sono usciti la scorsa primavera in Germania in anticipo sui tempi che Heidegger stesso aveva stabilito, prevedendone la pubblicazione a conclusione della sua monumentale opera omnia. E che, con le loro dichiarazioni antisemite, non certo cadute inavvertitamente dalla penna nell’ambito di una scrittura privata, ma profondamente incardinate nel sistema del pensiero dell’essere, hanno gettato scompiglio nelle opinioni pubbliche.
In Italia i tre volumi del testo usciranno entro il 2015 da Bompiani. Ma già sono disponibili un paio di saggi utili a inquadrare il problema. Sono appena usciti dalle edizioni Ets gli atti di una giornata di studio tenutasi a Pisa in luglio, con gli interventi di studiosi internazionali, da Peter Trawny, curatore degli Schwarze Hefte in Germania, a Jesús Adrián Escudero, a Dean Komel a Alfredo Rocha De La Torre: Metafisica e antisemitismo, a cura di Adriano Fabris. Ma un testo imprescindibile per capire a fondo un nodo filosofico tanto oscuro è quello che Donatella Di Cesare, ordinario di teoretica alla Sapienza di Roma, ha scritto per Bollati Boringhieri: Heidegger e gli Ebrei.
È un libro coraggioso. Di notevole spessore teorico, perché, al di là del clamore scatenato intorno all’affare-Heidegger, punta dritto al cuore della questione: là dove, nel pensiero di Heidegger, la questione dell’essere incrocia la questione ebraica. Mette in luce con chiarezza - sorprendente rispetto alla ben nota oscurità della prosa heideggeriana, in cui pure sapientemente si addentra per interpretare - le radici filosofiche dell’antisemitismo del pensatore tedesco, intrecciate a una fitta tradizione che risale, in Germania, almeno a Lutero. Soprattutto si guarda bene dal pronunciare condanne o assoluzioni - come Di Cesare, dalla sua posizione di vice presidente della Heidegger-Gesellschaft e membro della comunità ebraica di Roma, poteva essere portata a fare - e si propone solo di fornire tutti gli elementi per capire.

La Stampa 16.12.14
Grecia 1946, il massacro che aprì la Guerra Fredda
Lo scontro dimenticato tra nazionalisti e rossi provocò 40 mila morti e 50 mila prigionieri politici
di Eric Gobetti


Se alla fine della Seconda guerra mondiale le popolazioni dei singoli Paesi d’Europa avessero potuto scegliere autonomamente il proprio sistema politico, la carta del continente sarebbe stata decisamente diversa. Senza dubbio Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, forse anche Romania e Bulgaria avrebbero avuto un governo conservatore e filo-occidentale. La Grecia sarebbe stata comunista e probabilmente pure l’Italia. Invece i destini dell’Europa sono stati decisi a tavolino, prima della fine del conflitto, con un accordo segreto fra Churchill e Stalin passato alla storia come «il patto delle percentuali».
La grande spartizione
Durante la conferenza di Mosca dell’ottobre del 1944 la Grecia veniva arbitrariamente attribuita per il 90% all’influenza occidentale. In quegli stessi giorni i tedeschi si stavano ritirando dal Paese, lasciando il campo alla resistenza comunista che controllava già di fatto l’intero territorio. Gli interessi delle grandi potenze vincitrici, l’ambiguità di Stalin nell’animare la resistenza pur accettando il predominio angloamericano sulla Grecia, l’ostinazione anticomunista di Churchill, condussero invece il Paese a una guerra civile che fece registrare, in poco più di tre anni, circa 40.000 morti, 700.000 profughi (fra cui 25.000 bambini trasferiti nei Paesi del blocco filosovietico) e 50.000 detenuti politici (spesso rimasti tali fino alla fine della dittatura dei colonnelli, nel 1974). Quel drammatico conflitto, poco conosciuto in Italia, è raccontato in una serie di saggi raccolti nel volume Neve e fango per dissetarmi, curato da Silvia Calamati per Edizioni Socrates.
Il giovane idealista
Il cuore della pubblicazione è rappresentato dal diario di un combattente comunista braccato dalle forze monarchiche nel maggio del 1949, poco prima della sconfitta definitiva. Sotiris Kanellopoulos vive con una manciata di compagni giorni incredibili, passando da una grotta a un’altra, su una montagna priva di risorse idriche e alimentari. Stremati, affamati, indeboliti dalla sete e dalle ferite, il gruppo si sgretola, mentre Sotiris continua ad annotare gli avvenimenti quotidiani, la gioia di una canzone o una poesia, la primavera che sboccia, i rari pastori al pascolo. Saranno le sue ultime settimane di vita: verrà catturato e ucciso nel maggio 1949, a 41 anni. Una vita intensa, la sua, vissuta fino all’ultimo con estremo coraggio, spirito di sacrificio, passione per le piccole cose come per i grandi ideali. A distanza di 70 anni le sue parole ci proiettano in un mondo che pare lontanissimo dal nostro, in un’Europa uscita stremata dalla guerra ma dove i conflitti, alimentati da un intreccio di elementi ideologici e nazionali, faticavano a spegnersi. Lo stesso accadeva, ad esempio, sul nostro confine orientale, dove ansia di vendetta, contrapposizione ideologica, odi nazionali provocarono quello strascico di conflitto che diede vita all’esodo di gran parte della popolazione istriana. Tuttavia casi analoghi di violenze civili, epurazioni o mancate epurazioni degli apparati statali, vendette più o meno private, tentativi di resistenza armata, avvenivano alla fine della guerra in ogni angolo d’Europa, Italia compresa.
Due lustri di violenze
Nel contesto europeo la Grecia rappresenta un caso paradigmatico, nel quale si susseguono in maniera esemplare le diverse fasi di un decennio di conflitti e violenze politiche: dalla dittatura filofascista di Metaxas (1936-1941) alla guerra mondiale (con l’intervento di italiani, tedeschi, bulgari e britannici), dalla guerra di liberazione (col suo corollario di conflitto interno e feroci repressioni, tra cui la poco nota strage di Domenikon, ad opera degli alpini italiani) alla guerra civile (1946-1949). Due lustri di violenze che raggiungono l’apice con la guerra civile, «la più feroce e sincera di tutte le guerre», con le parole di Concetto Marchesi. Una guerra poi, quella di Grecia, che segnerà per anni la memoria del Paese e dell’Europa intera, finendo per rappresentare al tempo stesso l’ultima guerra civile del secondo conflitto mondiale e il primo fronte «caldo» della Guerra Fredda.

Corriere 16.12.14
Addio a Otto Pöggeler Heidegger e Gadamer furono i suoi maestri

Lutto nel mondo della filosofia. Il pensatore tedesco Otto Pöggeler, tra i principali rappresentanti della ermeneutica, è morto a 86 anni a Bochum.
Allievo e collaboratore di Martin Heidegger e Hans Georg Gadamer, gli studi di Pöggeler sono stati rivolti all’Idealismo, alla Fenomenologia e all’Ermeneutica. Dal 1968 al 1994 è stato direttore dello Hegel-Archiv. Tra i suoi libri tradotti in italiano ricordiamo Il cammino di pensiero di Martin Heidegger (Guida, 1991), Hegel e l’idea di una fenomenologia dello spirito (Guida, 1986), Heidegger e la filosofia ermeneutica (Guida, 1992) e Europa come destino e come compito. Correzioni nella filosofia ermeneutica (2008). Una intervista sulla sua vita, a cura di Massimo Mezzanzanica, è apparsa sul «Magazzino di Filosofia» del 2001 (Franco Angeli).

Repubblica 16.12.14
Tutti in fila dal Dottor Sesso alla ricerca del desiderio perduto
Gli italiani in fila dal sessuologo. Non perché i problemi a letto sono aumentati. Ma perché è caduto, anche tra gli uomini, l’ultimo tabù
Per un motivo semplice: se la coppia perde l’intesa, meglio rivolgersi allo specialista che rischiare la fine di una relazione
di Vera Schiavazzi


LA COPPIA è in crisi? Il desiderio se ne è andato? Niente paura: da soli o col partner si va dal sessuologo, convinti che abbia la cura per ogni patologia. I sessuologi in Italia sono 1500, la domanda nei loro confronti è aumentata del 15 per cento negli ultimi cinque anni, così come i disturbi lamentati più comunemente (più 40 per cento nel calo di desiderio degli uomini, più 25 per cento nel vaginismo, per citare i due esempi più vistosi). Nel privato, le terapie durano in media sei mesi, con una visita ogni due settimane. E la richiesta continua, posto che dopo il Viagra e i suoi simili, dopo che perfino il punto G è stato fotografato e diffuso sulle riviste scientifiche, gli italiani — come i francesi, i belgi e i tedeschi — si sono convinti che non servano lunghe psicoanalisi alla ricerca di sé, ma una visita dal medico giusto. Nascono “Settimane del benessere sessuale” con consulenze gratuite (la prima è stata nello scorso settembre), ma anche “Secs cathedra” (nel gennaio del 2015 all’Università di Tor Vergata si aprirà la prima). Peccato che questi medici super— richiesti non abbiano ancora, in Italia, un corso di laurea tutto loro, ma debbano cavarsela attraverso master e studi sperimentali, e solo alla fine entrare a far parte di una o di un’altra società di colleghi. La fiducia nei sessuologi è, anche, un’ottima ragione di guerra tra scuole: medici e ricerca, psicologi e terapie mirate, all’inseguimento di una professione che di per sé ha un nome assai promettente. Il sessuologo, del resto, è anche il medico anti—infedeltà. Su 16 milioni di italiani che potrebbero soffrire di un disturbo sessuale, almeno 80.000 sarebbero le coppie a rischio di rottura per problemi irrisolti nati in camera da letto, mentre i matrimoni non consumati sarebbero 20.000 e la mancanza di un’attività sessuale giudicata da entrambi soddisfacente sarebbe all’origine di un quinto delle separazioni legali. Andare a consultare un esperto, dunque, è un modo come un altro per assicurare al compagno, o alla compagna, che si vuol fare di tutto per restare insieme, compreso raccontare a un estraneo le proprie vicende private, sottoporsi a anamnesi e confessioni, tornare a casa e mettere in pratica ciò che ci è stato raccomandato in studio.
«La nostra federazione — spiega Roberta Rossi dell’Istituto italiano di sessuologia clinica — cerca di integrare biologico e psicologico. Alla Settimana del benessere abbiamo avuto grandi risposte un po’ in tutta Italia. Dieci anni fa, il nostro pubblico era fatto prevalentemente di donne. Poi sono arrivati gli uomini, quelli che a mano a mano capivano che il Viagra può risolvere alcuni problemi ma non certo un calo di desiderio, e che, comunque, ogni farmaco deve essere accompagnato da una coppia che deve mediare i problemi e le terapie». E Rossi rivela un fatto ormai apparentemente ovvio per molti sessuologi: «Negli uomini, il calo di desiderio si accompagna a un disturbo sociale, al fatto che moli uomini non riescono più a interagire con ruoli e relazioni cambiate nei confronti delle donne. Apparentemente, nella coppia tutto pare funzionare, ma il sesso rivela che non è così. Farmaci come il Viagra lavorano sull’erezione, non sul desiderio. E fino a dieci o quindi anni fa erano gli uomini quelli desideranti, ora non lo sono più».
Tutto cambia. Non solo gli uomini non sanno più se e che cosa desiderare, ma anche donne non più giovani e dalla cultura “liberata” lamentano disturbi col vaginismo, un dolore che può inibire le relazioni e che apparentemente non ha più nulla a che fare con quel “disturbo mediterraneo” che i medici erano abituati a curare in un paese dove il retaggio cattolico e l’idea del sesso come peccato poteva spiegare tutto. Oggi invece a ritrovarsi bloccati sono coppie intorno ai 40 che, mossi dal desiderio di avere un figlio, si decidono ad affrontare problemi con i quali convivevano da anni. «In molte coppie problemi sessuali anche gravi, che di fatto inibiscono una relazione completa, si sopportano per anni — dice Roberto Bernorio, ginecologo e sessuologo milanese — Poi, dopo questi lunghi periodi di “sessualità pigra”, scatta l’orologio del figlio e si cerca una soluzione semplice e rapida». Giorgio Nardone e Matteo Rampin hanno appena finito il volume “Quando il sesso diventa un problema” (per Ponte alle Grazie, in libreria a gennaio), e raccontano il loro approccio di psicoterapeuti per aiutare i pazienti a ristabilire il punto di equilibrio indispensabile al sesso: il controllo mentale e la capacità di lasciarsi andare alle relazioni. «Quello che il terapeuta deve cercare di fare è cambiare i meccanismi del paziente che non funzionano, e impediscono proprio le reazioni, dall’erezione all’orgasmo, che invece si vorrebbero provare ». Ecco perché accade che il sessuologo “vieti”, per un certo periodo, alle coppie di avere relazioni complete, partendo prima dagli approcci più semplici, come uno scambio di carezze, per poi arrivare via via al sesso completo. I tempi sono “brevi”, nel senso che durano alcuni mesi, ma non fulminei: «Nel giro di sei mesi, con un approccio funzionale, si riesce a venire a capo della maggior parte dei problemi frequenti, a cominciare dal vaginismo, oggi molto diffuso a qualunque età», dice Giuseppina Barbero, sessuologa a Torino. E la sessuologia sembra destinata a restare in gran parte senza farmaci, anche se, in altre “scuole” sessuologiche, gli ormoni anti—vecchiaia sono considerati comunque importanti: «Il testosterone può essere d’aiuto nel contrastare l’invecchiamento. Anche se non è una medicina, in senso generale, per risolvere quel calo del desiderio maschile che molti aspiranti sessuologi dicono essere in aumento — spiega Emanuele Jannini, alla guida sella Società italiana di andrologia medica e medicina della sessualità — e che a me sembra piuttosto costruito a tavolino». Jannini ama la concretezza dei problemi, e qualche anno fa ha anche dimostrato con tanto di foto e pubblicazioni l’esistenza del “punto G” per le donne. Ma sopra ogni altra cosa, desidera che la sessuologia diventi una normale materia universitaria, e anche per questo sta per lanciare il suo Secs Cathedra a Tor Vergata: «Lo faremo vicino ai dormitori degli studenti e aperto a tutti, dai professori agli assistenti agli allievi. Solo raccogliendo le confidenze dei pazienti e dimostrando come si può essere assistiti, a partire dal campus, affermeremo la sessuologia per qualcosa di diverso da ciò che è oggi in Italia dove corsi e master sono tutti rigorosamente privati. Un peccato, perché nella ricerca scientifica l’Italia è già oggi all’avanguardia ». Lauree o master che siano, la sessuologia italiana sembra alla vigilia di una grande crescita: dai corsi specifici per i medici di base, varati lo scorso aprile, fino ai centri pubblici di ascolto. «C’è anche chi arriva lamentandosi di non provare più gli orgasmi di un tempo e vuole essere rassicurato. Ma la maggior parte dei pazienti — assicura Roberta Rossi — ha bisogno di cure autentiche».

REPTV-LAEFFE
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Repubblica 16.12.14
Quando la meccanica dell’amore non ci restituisce il desiderio perduto
di Massimo Recalcati


IL NOSTRO tempo vive sotto il peso dell’egemonia del “principio di prestazione” che un filosofo come Herbert Marcuse, che fu un grande interprete della stagione del ‘68 e del movimento della cosiddetta “liberazione sessuale”, aveva preconizzato come un nuovo e subdolo padrone della nostra vita collettiva. Questo principio porta con sé una mutazione antropologica: l’uomo si trasforma in una macchina che in tutti i livelli di manifestazione della sua vita deve garantire la prestazione più efficace.
Questo nuovo principio vorrebbe mettere in soffitta come dei vecchi arnesi del Novecento il pensiero lungo della filosofia, la fatica del lavoro, i labirinti tortuosi della vita psichica, il mistero enigmatico dell’amore per celebrare il profitto immediato, la via breve al successo personale, la consumazione senza limiti del presente. Il principio di prestazione ordina, infatti, l’efficienza della macchina pulsionale come prioritaria rispetto a qualunque altro principio (etico, politico, religioso, artistico). È su questo terreno che dobbiamo situare l’attuale successo della farmacologia (specie quella “psico”) e della sessuologia in particolare. Se il corpo è una macchina che punta a realizzare il suo massimo godimento, bisogna saper oliare bene tutti i suoi ingranaggi. Si può allora salutare come un fattore di progresso e di Civiltà il fatto che per molti rivolgersi al sessuologo non costituisca più un tabù e che anche molte donne adesso abbiano finalmente superato ataviche inibizioni e si siano finalmente autorizzate ad offrire alle cure sessuologiche i loro corpi. Con l’ausilio di qualche pillola e in qualche seduta, in tempi brevi, se non brevissimi, si garantisce il ripristino del corretto funzionamento della macchina.
Un noto sessuologo di Waterloo, al secolo Pascal de Setter, si era distinto per un indimenticabile articolo contenuto ne “Il libro nero della psicoanalisi”, a proposito delle sue indicazioni illuminate nella cura del sintomo della eiaculazione precoce. In quell’occasione spiegava dottamente come per risolvere questo sintomo mortificante non era ovviamente necessario spendersi in ricerche su se stessi o sul proprio legame amoroso (vedi psicoanalisi). La macchina difettosa ha come unico modello la macchina efficiente. Dunque era assai più utile, anziché disperdersi in frustranti ruminazioni su se stessi, dedicarsi ad opportuni esercizi di respirazione e di rilassamento finalizzati a preparare il corpo — come in un copione di un vecchio film di Woddy Allen — alla sua fatidica prestazione….
La sessuologia separata da una pratica della parola e dell’ascolto non può che sfociare in una pedagogia disciplinare del corpo, espressione di quel biopotere di cui Foucault ha fornito un ritratto insuperabile. La sessualità umana non può mai essere separata dai suoi fantasmi inconsci. Non può mai essere ricondotta ad una normalità che non esiste, non può mai essere né curata, né guarita. Essa resta bizzarramente ancorata alle vicissitudini del desiderio inconscio. Se la restituzione delle capacità performative degli organi (l’erezione nell’uomo, la lubrificazione vaginale nella donna, per esempio) può essere raggiunta attraverso la corretta prescrizione di farmaci, resta comunque certo che questa operazione di raddrizzamento del funzionamento storto della macchina del corpo sessuale, non sfiora il problema di cosa significa desiderare. Non è ancora stata inventata — ma magari sarò smentito da un collega del sessuologo di Waterloo — la pillola capace di accendere il desiderio. È il punto cieco della sessuologia che un mio vecchio paziente, dopo aver ottenuto il ripristino della capacità erettile del suo organo grazie a trattamenti farmacologici, mi descriveva smarrito: “e ora chi riuscirà a collegare l’organo ad un desiderio che non c’è?”.
Non è affatto casuale che anche i sessuologi più avvertiti confermino una tesi che avanzavo nel 2010 in un libro titolato L’uomo senza inconscio che “ispirò” — come riconobbe Giuseppe De Rita — l’allora rapporto del Censis sulla vita degli italiani: il desiderio si è eclissato, è morto, assente, svanito. Questo è il vero problema che anche la sessuologia constata. Ci si potrebbe anche chiedere se la liberazione sessuale e la caduta di ogni velo sul corpo sessuale, abbiano giovato al desiderio, il quale, non dobbiamo dimenticare, si nutre sempre della distanza, della differenza, del mistero, della presenza del velo. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che gli entusiasmi per la cosiddetta liberazione sessuale hanno generato una nuova e forse più insidiosa gabbia rispetto a quella dei moralismi di ogni genere e specie. È quella del principio di prestazione che sembra colonizzare anche il mistero del corpo erotico.