mercoledì 17 dicembre 2014

La Stampa 17.12.14
Non dobbiamo arrenderci
di Mattia Feltri


Non dobbiamo arrenderci. Nessuna notizia orrenda che arriva dal mondo dovrà fermarci. Le stragi di bambini, le teste mozzate, gli ostaggi in nome di Dio, le bombe nei mercati, i mariti che ammazzano le mogli, le madri che ammazzano i figli: niente sarà troppo forte per noi. Non vincerà la crisi, non la resa davanti alle malattie, non i morti per la fame. Perché alla fine noi continueremo a chiederci: ma adesso che fanno i civatiani?


il Fatto 17.12.14
A gamba tesa
Napolitano attacca minoranza dem e sindacati e stoppa Renzi sulle elezioni
di Fabrizio d’Esposito


Al Quirinale, l’attesa assomiglia a quella per il fatidico 21 dicembre del 2012. Le dimissioni di Giorgio Napolitano, novella profezia dei Maya. Come però non accadde nulla due anni fa, così non è accaduto niente ieri pomeriggio. Neanche una parola su quando se ne andrà. Nonostante il clima solenne, la veglia dei presenti e un discorso di trenta minuti e tredici cartelle. La parata dei corazzieri è impressionante. Per la prima volta sono schierati ogni due gradoni, nelle due rampe che si salgono. La cerimonia per lo scambio degli auguri di fine anno tra le “alte cariche” è pressoché una liturgia religiosa, non solo per il triregno (la tiara papale con le due chiavi incrociate) scolpito nel legno del soffitto. Cellulari spenti, come in chiesa, e tutti in piedi quando entra il presidente-celebrante. Il diacono che introduce è il supplente “senator dottor” Pietro Grasso, alla guida di Palazzo Madama. Al posto del suo intervento, in cui di fatto si candida alla successione, il presidente del Senato avrebbe potuto proclamare e parafrasare il Vangelo della prima domenica di Avvento, a proposito del rebus delle dimissioni di Napolitano: “Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro si dimetterà”.
L’economia arranca Schiaffoni a Renzi
Ancora una volta, il capo dello Stato si dimostra preoccupato, se non pessimista, sul nostro Paese (“Il 2014 non si chiude bene”), e dispensa schiaffoni e imperativi a tutti gli “attori” politici e sociali. Compreso Matteo Renzi. A caldo, invece, la falange dei renziani di ogni ordine e grado (dai fedelissimi in Parlamento ai giornalisti-tifosi) s’incarica di dare una versione superficiale del discorso, di sostegno tout court al premier. Non è così e basta riascoltare con calma l’intervento del presidente della Repubblica. In pratica, Napolitano fa una difesa del sistema e s’intesta, in condominio con il defunto governo Letta (citato tre volte, una in più del “presidente del Consiglio”), il processo riformista su bicameralismo e Jobs act, invocando quindi continuità e stabilità. Per questo malmena duramente le opposizioni: “Non si attenti in qualsiasi modo alla continuità di questo nuovo corso”. E ancora: “Rispettare, pur nel dissenso, la coerenza delle riforme in gestazione è un dovere di onestà politica e di serietà istituzionale”. Allo stesso tempo disarma Renzi sulla minaccia del voto anticipato: “Non possiamo essere ancora il Paese attraversato da discussioni che chiamerei ipotetiche: se, quando e come si possa o si voglia puntare su elezioni anticipate, da parte di chi e con quali intenti; o se soffino venti di scissione in questa o quella formazione politica, magari nello stesso partito di maggioranza relativa. È solo tempo, e inchiostro, che si sottrae all’esame dei problemi reali”. Il bicameralismo, poi, non è “un tic da irrefrenabili rottamatori, ma un punto debole della Costituzione già discusso dai Padri costituenti. Napolitano fa una sorta di testamento-vademecum politico costretto a prendere atto che uno degli esecutori di questo documento è l’attuale premier.
Tutti ai blocchi di partenza per la corsa più difficile
Renzi, dunque, non è l’unico esecutore. Napolitano vuole influenzare la sua successione quando sarà (dal 14 gennaio in poi, visto che il semestre europeo a guida italiana finirà il 13) e concede un’inaspettata passerella al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, uno dei nomi più freschi del toto-Quirinale: “Molto hanno contato (in Europa, ndr) il valore e l’affidabilità che si riconoscono al ministro Padoan”. Lui, l’interessato, non si scompone. Nel salone ci sono anche altri papabili: Veltroni, Amato, Bersani, Gentiloni, finanche D’Alema seduto accanto a Fini, un’immagine d’altri tempi da figli di un Dio minore. C’è pure l’eterno Gianni Letta (l’unico leader politico assente è il Condannato). Stavolta, Napolitano, non si commuove mai, a differenza dei discorsi tenuti a Torino ai Lincei. Le randellate non grondano lacrime. Ce ne sono altre sull’antipolitica, sulla decretazione d’urgenza e i voti di fiducia e su quella, infine, che definisce “l’ampia riforma del mercato del lavoro”. Ai sindacati, sull’articolo 18, rinfaccia “l’interpretazione riduttiva, concentrata sul punto di massimo possibile dissenso”. Al premier, invece, intima di darsi una calmata “nel rispetto del ruolo che è naturale dei sindacati, di rappresentanza e negoziale”. La messa laica degli auguri finisce alle 18 e 15. Il sindaco di Roma, Marino, saluta il procuratore capo Pignatone, mentre i primi a raggiungere il guardaroba, saltando il rinfresco, sono Amato e D’Alema.

Repubblica 17.12.14
L’amaca
di Michele Serra

TEMERE che appaia “lo spettro dell’instabilità”, autorevolmente evocato dal Capo dello Stato, farebbe pensare che noi si viva nella stabilità. Un tran tran istituzionale regolarissimo, legislature a tutto tondo con il loro bell’inizio e la loro pacifica fine, le cose che funzionano, le Camere che legiferano, i governi che durano, i premier che fanno i premier perché hanno vinto le elezioni, i presidenti che si succedono con cadenza solenne e mai, dico mai che sia capitato di essere costretti a rieleggerne uno scaduto perché non si riusciva a trovarne uno nuovo. Come purtroppo sappiamo, e come ben sa proprio Napolitano che è stato costretto, in età venerabile, a succedere a se stesso, purtroppo niente di cui sopra è vero. Di stabilità la Repubblica ne ha sempre avuta pochina, solo a sprazzi, appena qualche briciola, e men che meno adesso, che siamo freschi reduci da quello strambo equilibrismo che furono le larghe intese del governo Letta, poi congedato dal suo stesso partito per fare posto a Renzi, con un’opposizione che ha trascorso gran parte del suo tempo, fin qui, a espellere istericamente i suoi deputati e un presidente costretto a disfare le valigie quando stava per lasciare il Quirinale. E come farebbe dunque, il povero “spettro dell’instabilità”, a farsi notare, a farsi riconoscere, perfino a spaventare qualcuno, in questa già spettralissima legislatura?

La Stampa 17.12.14
Partita aperta per decidere il futuro della legislatura
di Marcello Sorgi


A chi si aspettava l’annuncio - o il preannuncio - delle dimissioni, Giorgio Napolitano, nel rituale incontro di fine anno con le alte cariche dello Stato, ha risposto con un serio appello alla stabilità, accompagnato da un esplicito riconoscimento per il lavoro portato avanti dal governo, sia nel campo delle misure anti-crisi che in quello delle riforme, da critiche ai sindacati per le posizioni radicali assunte negli ultimi tempi, e da un no secco alle ipotesi di elezioni anticipate ventilate spesso anche sui giornali.
Se ne ricava la conferma, seppure indiretta, che, non un nuovo scontro elettorale, ma piuttosto la partita del Quirinale, sarà il vero appuntamento decisivo del prossimo anno.
Evitando di parlarne ieri, il Presidente ha lasciato intuire che è intenzionato ad aprirla senza fretta, aspettando che maturino le condizioni per una successione non traumatica sul Colle, grazie a un’intesa che Renzi ha cominciato a cercare con tutti i suoi interlocutori.
Dopo l’incontro con Prodi lunedì, il premier ieri ha fatto una seconda mossa in linea con l’esclusione della delicata materia della Presidenza della Repubblica da ogni tipo di accordo preferenziale con Berlusconi, come quello sancito, e ormai traballante per la verità, sulle riforme con il patto del Nazareno.
Il premier in Parlamento s’è rivolto ai 5 stelle per spingerli ad abbandonare l’atteggiamento ostruzionistico e a cercare di dialogare con il Pd.
L’uscita dal gruppo parlamentare di un deputato grillino in direzione Dem, e la possibile scissione di altri parlamentari sia alla Camera che al Senato, hanno determinato una reazione durissima in aula dei senatori M5s.
Sebbene Renzi si sia dovuto difendere da contestazioni molto dure, è chiaro che la porta del Nazareno rimane aperta per i transfughi del Movimento. Può darsi che sia solo una tattica per convincere l’ex-Cavaliere che l’idea di scambiare il voto favorevole di Forza Italia alla legge elettorale e alla trasformazione del Senato non è accettabile e a farlo tornare sui suoi passi.
Ma se Berlusconi dovesse continuare a prendere tempo per ritardare l’approvazione delle riforme, i voti degli ex-grillini potrebbero risultare utili, forse perfino indispensabili, sia per rispettare le scadenze che Renzi s’è imposto a fine gennaio, sia nelle votazioni seguenti per eleggere il successore dì Napolitano.

il Fatto 17.12.14
Matteo naviga a vista verso la tempesta perfetta
di Wanda Marra


“Un discorso di grande respiro e livello”. Solo un anno fa Matteo Renzi al Quirinale per i saluti alle alte cariche dello Stato c’era andato defilato, con un abito grigio chiaro che era stato subito notato come fuori luogo. Ieri, da premier, era al tavolo del Presidente. Impeccabile in blue. Espressione serissima. Concentrata. Perché per quanto i fedelissimi leggano nelle parole del Capo dello Stato un assist a tutto tondo nei confronti del premier, lui sa benissimo che l’addio prossimo venturo di Napolitano è la tempesta perfetta dalla quale è difficilissimo uscire indenne.
LE DIMISSIONI arriveranno dopo il 13 gennaio, giorno della sessione finale del semestre italiano a Strasburgo. Renzi spera, forzando tempi e resistenze, di ottenere il via libera del Senato all’Italicum prima dell’inizio del voto per il Quirinale. Ieri, nelle conversazioni a Palazzo Madama con i senatori, la data che fissava era il 20 gennaio. Non sarà facile, perché l’obiettivo legge elettorale è legato agli accordi sul futuro Presidente della Repubblica. Ognuno fa il suo gioco, e i giochi sono nemici tra loro.
La “minaccia” Prodi ha avuto il suo effetto: Forza Italia ha votato con il governo in Commissione Affari costituzionali del Senato, con la bocciatura degli ordini del giorno della Lega e di Sel. Soprattutto quello Calderoli, che subordinava l’entrata in vigore dell’Italicum alle riforme costituzionali. Però, ci sono 17.800 emendamenti: e allora, l’idea del governo è quella di forzare e andare direttamente in Aula, senza votare. E prendere tempo sulla norma transitoria, quella del sistema elettoraleda scegliere in caso si andasse al voto prima della riforma del Senato. Renzi non ha deciso ancora tra Mattarellum e Consultellum. In realtà, quello che vorrebbe fare, sarebbe fissare l’entrata in vigore del nuovo sistema nel 2016 o anche più in là. Senza inserire però la norma nella legge: convinto che questo sarebbe un modo che gli consentirebbe, in caso di elezioni anticipate, con un decreto o una leggina di votare con l’Italicum a Montecitorio e al limite anche con il Consultellum a Palazzo Madama. L’importante è che il sistema-pigliatutto sia in vigore, almeno in uno dei due rami del Parlamento. Stamattina Renzi intanto chiederà ai senatori in Assemblea di marciare compatti sulla riforma elettorale.
La partita delle partite, quella del Colle, è, nel frattempo, entrata nel vivo. Ieri, il nome che tornava insistente in ambienti democratici, era quello del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Che avrebbe dalla sua vari punti di forza: potrebbe andare bene a tutto il Pd, non dispiacere a Forza Italia e, in quanto tecnico, magari attrarre anche qualche grillino. Padoan sarebbe una figura di garanzia verso l’esterno, ma anche uno che terrebbe la barra diritta sull’economia in Europa. Con il premier la convivenza in questi mesi è andata abbastanza bene. E il titolare del Mef non è certo persona da mettere in ombra l’altro. Ancora, non sarebbe contrario in maniera pregiudiziale allo scioglimento della legislatura. E poi, metterlo al Colle, disinnescherebbe i piani di chi vorrebbe portarlo a Palazzo Chigi. Da notare che ieri Napolitano l’ha lodato nel suo discorso: Re Giorgio è sul punto di lasciare, ma la sua sul successore la vuole dire.
Infine, i Cinque Stelle: Renzi, ha dato il via, ad un’offensiva vera e propria. Una studiata operazione con l’obiettivo di fare breccia dentro le divisioni M5S in vista dell’elezione del Presidente. Una sorta di "divide et impera" che alterna attacchi a inviti alla collaborazione. La giornata di ieri è emblematica. Comincia alla Camera: “Non vi hanno eletto per insultare o buttarla in caciara, recuperate la passione di chi vi ha eletto anche se capisco la frustrazione visto che perdete pezzi e voti”, è l'affondo in Aula che scatena le ire di M5S. Ma determina anche la decisione, in realtà nell’aria da tempo, ma annunciata proprio davanti al presidente del consiglio a Montecitorio, di Tommaso Currò di lasciare il movimento e di approdare, attraverso il passaggio al gruppo misto, dentro il Pd. "Hanno capito la mia apertura", si compiace Renzi. In Senato attacca così i senatori pentastellati che lo accolgono con proteste e urla: "Il fatto che stiate perdendo pezzi non vi autorizza a interrompere le discussioni degli altri. Vogliamo continuare a lavorare, nonostante le vostre urla, che ai tempi del Manzoni erano una cosa seria, mentre nel vostro caso sono la manifestazione di una frustrazione. I vostri elettori non vi votano più".

La Stampa 17.12.14
Il premier: investimenti fuori dal Patto. Bruxelles: impossibile
L’Europa gela Renzi: “Le regole non cambiano”
di Marco Zatterin


Matteo Renzi va avanti convinto, vuole che l’Europa «consenta lo scorporo dei grandi investimenti in opere pubbliche» dal Patto di Stabilità, magari «anche previa verifica Ue». Promette battaglia domani in sede di Consiglio Ue, come nei colloqui ad alto livello in seno al Partito socialista europeo che accusa di ostentare «una timidezza incomprensibile». Vuole la regola aurea, il premier, la vuole contro la crisi, però la risposta che raccoglie dalla Commissione, proprio da quel vicepresidente Frans Timmermans, un socialista che parla italiano, è rigorosa e ortodossa. «Le regole sono le regole e non posso cambiarle con un tocco - ammette l’olandese -. Noi dobbiamo garantirne il rispetto. Se vuole fare altrimenti, Renzi deve aprire un dibattito al Consiglio europeo».
Le parole di Timmermans sono in linea con lo spirito che anima il Programma di lavoro per il 2015 che la Commissione Ue ha presentato ieri all’Europarlamento. L’agenda è stata alleggerita, «abbiamo messo solo quello che possiamo portare a compimento», avverte l’olandese. Il presidente Juncker assicura che il suo esecutivo «intende concentrarsi sull’essenziale» e che «la priorità principale è la crescita e l’occupazione», seguite dal perfezionamento del mercato unico, in particolare per l’Energia, e dalla lotta all’evasione e all’elusione fiscale, problema scivoloso per il lussemburghese. Un menu più magro, più facile, «con la disponibilità a cambiare se il Parlamento o i governi ce lo chiederanno».
E’ importante il ruolo che la Commissione si propone di giocare, diverso dal passato e riflesso nella replica a Renzi. Sostiene Timmermans che «non è detto che l’Ue debba risolvere tutti i problemi, particolarmente quelli che possono e devono essere affrontati a livello nazionale». Di seguito, auspica che la Commissione diventi motore di pressione su Parlamento e governi perché ognuno faccia la propria parte al giusto livello, a Bruxelles e in casa propria. Oltre a ciò, l’esecutivo deve mantenere il ruolo di garante dei trattati. Applicare e far applicare le regole esistenti, quindi rimettersi alla politica dei Ventotto per scriverne delle nuove.
E’ questo il caso degli investimenti e l’ipotesi di un loro scorporo. L’Italia lo chiede da tempo, sarebbe una via di uscita per togliersi di dosso - anche solo temporaneamente e su un percorso preciso - una parte dell’immenso fardello del debito nazionale. Eppure la partita non è affatto facile. Buona parte della Commissione, sostenuta da molti a partire dalla Germania, invita a non minare la credibilità del Patto. I popolari all’Europarlamento sono piuttosto per il rigore, mentre Gianni Pittella (presidente gruppo socialista) sposa la linea Renzi: «Serve una scelta chiara a favore della flessibilità». Dialogo aperto, insomma, nell’ambito del dibattito sulla flessibilità che sarà avviato in gennaio, alla vigilia degli insidiosi esami marzolini sui conti di Italia, Francia e Belgio. Sebbene una fonte altolocata ricordi che «la flessibilità non deve essere una scusa per non fare le riforme» e che «sarà comunque difficile».
Timmermans, pragmatico, vuole riportare la responsabilità nelle mani di chi c’è l’ha davvero, i governi nazionali e l’europarlamento. Il programma alleggerito della Commissione ha suscitato un vespaio, proteste per il taglio della proposte sulla circolarità dei rifiuti, sulle lavoratrici in dolce attesa, le emissioni nell’aria, l’armonizzazione delle accise sugli alcolici. «Erano cose che voi e il Consiglio non siete riusciti ad ratificare», a detto agli eurodeputati. Ora promette «provvedimenti migliori» per sostituire formule obsolete, «senza compromessi sugli obiettivi, cercando tuttavia un metodo più adeguato per realizzarli», fermo restate «che faremo quello ci verrà detto di fare». Mossa interessante, quella di Juncker e del vice olandese. Vogliono un faro sul fatto che le decisioni sono politiche e dipendono da entità democraticamente elette dai cittadini europei. Se glielo lasceranno fare, è una mossa che potrebbe ridare un discreto tono all’immagine dell’Unione.

Corriere 17.12.14
L’altolà di Berlino e rispetto dei deficit
La via stretta dell’Ue
di Luigi Ofeddu


Un colpo di sprone, dopo il decennio Barroso: è questo, che Jean-Claude Juncker ha tentato ieri di dare, presentando il suo piano di investimenti davanti al Parlamento Europeo. Ha tentato. Ma non sa se il cavallo affidatogli, l’Europa, avrà forze bastanti per passare almeno al trotto, e se sia il purosangue di un tempo, o solo un ronzino sfinito. Dubbi condivisi: il centrosinistra socialdemocratico, alleato di Juncker, gli fa i complimenti ma già prepara per oggi una proposta alternativa. Juncker promette crescita (a voce spiegata), flessibilità (più tiepidamente), discontinuità (più vagamente) e «concentrazione sulle priorità». Cioè il progetto sugli accordi fiscali anticipati, insieme con 23 nuove proposte legislative e 83 vecchie proposte cestinate. Comprese, pare, quelle sul cambiamento del clima, ciò che più allarma il centrosinistra. Sullo sfondo, i 315 miliardi di investimenti produttivi che dovrebbero nascere in 3 anni dai 21 miliardi messi in gioco dalla Commissione e dalla Banca europea degli investimenti. Nasceranno? Basteranno? Non ci sono più sfere magiche, a Bruxelles. Solo due cose, opposte e speculari, sono certe: che il piano Juncker decollerà se i governi potranno escludere dal calcolo dei propri deficit gli investimenti richiesti da Bruxelles (se no, avvertono i polacchi, nessuno sfiorerà il borsellino); e che la Germania non accetterà mai questa stessa concessione. Almeno ufficialmente: ufficiosamente, si tratta da mesi. Questo sarà il nodo del vertice dei capi di governo e di Stato che si apre domani a Bruxelles. L’ultimo, nei 6 mesi di presidenza italiana della Ue. «Serve una scelta chiara a favore della flessibilità» avverte Gianni Pittella, presidente dei socialisti e democratici, Matteo Renzi, da Roma, versa zucchero e aceto sul piano Juncker: «Alcuni lo ritengono un passo decisivo, altri un
Topolino partorito dalla montagna…Si può migliorare..Non è una coccarda ma la risposta di un’Europa che ha smesso di crescere». E aggiunge che l’Italia è «coprotagonista» della svolta europea verso la crescita. Si vedrà. Ma i coprotagonisti sono anche altri, come una signora che siede a Berlino. Perché il purosangue-ronzino ha 28 briglie sul collo, e alcune pesano più delle altre. Mentre il sacchetto del fieno è sempre più leggero.

La Stampa 17.12.14
Il malessere emiliano e quell’insolita intesa tra giovani e sindacato
Ma a Bologna nessuno vuole parlare di scissione
di Jacopo Iacoboni


Sotto l’insegna molto anni settanta, bianca con la scritta nera, della «Sala Passe-Partout», uno dei circoli Pd storici di Bologna, è affisso un manifesto elettorale di Stefano Bonaccini, e lo slogan era «LAVORO per l’Emilia Romagna». Ma proprio la riforma renziana del lavoro, e ovviamente le inchieste, hanno prodotto un senso di smarrimento e disaffezione, nel Pd emiliano. Dice il giovane segretario del PassePartout, Marco Lubelli, che «il circolo è diviso a metà, su Renzi. C’è una parte renziana che sta col segretario in maniera quasi acritica, e dall’altra c’è una forte insoddisfazione, crescente, dei nostri iscritti su due temi, soprattutto. Uno è il lavoro, non piace affatto qui la rottura col sindacato, quei toni, il sindacato è parte di noi, anche per i giovanissimi, a Bologna. E due, la mancanza di dialettica interna, per cui le decisioni vengono solo comunicate dall’alto». Lunedì 8 nel circolo c’è stata una serata di «elettori delusi», che non vogliono più votare Pd. Bene: la sala era piena.
Stefano Bonaccini sostiene che «a pesare di gran lunga di più sono state le inchieste, si è votato mentre 41 consiglieri su 50 ricevevano l’avviso di fine delle indagini, era difficile andare nei mercati, c’era spaesamento. Ma l’astensione ha colpito tutti allo stesso modo. Poi certo, c’è anche un elemento - ma io non lo vedo maggioritario - di critica al governo, a Renzi. Basti pensare che il capo della Fiom Bruno Papignani, il venerdì prima del voto, disse “facciamo un regalo a Renzi, non votate Bonaccini”»...
Il governatore, in effetti, non pare essere il problema della leggendaria Base. Molto di più, appunto, toni e scelte del leader Renzi. Al Passe-Partout si è passati da 163 iscritti di qualche anno fa ai cento di oggi. Domanda Lele Roveri, per dieci anni capo delle Feste dell’Unità, «che prendo a fare la tessera se non conta più nulla, e tutto viene o dall’alto, o dagli elettori?». Attenzione: questa insoddisfazione non è assolutamente un proposito di scissione, in un’intera giornata viaggiando nei circoli non l’abbiamo mai sentita neanche nominare. «I bolognesi piuttosto si tagliano la mano, ma non votano per qualcun altro, al massimo non votano e basta».
Fuori, invece, tra gli elettori meno politicizzati, quello che ha pesato è stato lo scioglimento della giunta per la condanna di Errani. Le inchieste in Regione. La bassissima affluenza alle elezioni regionali, 51 mila elettori alle primarie (a quelle Renzi-Bersani erano stati 406 mila!), su 4 milioni e 500 mila abitanti, è la fotografia attuale. E pensare che da segretario, a maggio, proprio Bonaccini aveva portato il partito a vincere nell’85 per cento dei 250 comuni al voto. Poi c’è stata l’inchiesta; e c’è stato il Renzi furioso col sindacato.
L’insoddisfazione, di iscritti e elettori, non è una prospettiva politica, questo bisogna scriverlo chiaro. Dice Elly Schlein, europarlamentare bolognese civatiana, che «quando Renzi al Paladozza disse la frase “non avete scioperato contro la Fornero, ma contro di me sì”, è vero, come ricorda lui, che ci fu un boato di una parte del Palasport. Ma l’altra parte era attonita».
Per il capo del Pd bolognese Raffaele Donini solo il 15% è su posizioni critiche, mentre il 50 è ancora con Renzi. Nondimeno, alla Festa al Parco Nord prima delle primarie 2013 Renzi fece il pieno di gente, 6500 persone, adesso, in campagna per le regionali ha riempito solo a metà il Paladozza (2300 persone). Civati, sabato, ha portato per un giorno in un teatro 650 persone, con gente fuori: non pochi, segno che un problema c’è. Vi si sta ponendo rimedio, o almeno in parte? Racconta Silvia Prodi, la nipote del Professore, eletta in Regione, che «dopo il voto qualcosa si è riacceso, a Reggio almeno ci sono tante analisi delle elezioni, e le cose che vengono fuori sono soprattutto due: qui in Emilia nessuno è antisindacale, Renzi rifletta. E non è piaciuto affatto quando lui ha minimizzato sull’astensione altissima». Alcuni militanti dopo quella tesi renziana hanno stracciato pubblicamente la tessera. Altri, come Cecilia Alessandrini, sono usciti dal Pd in direzione Tsipras già alle ultime politiche. Lo scotto Renzi lo paga, paradossalmente, proprio tra i più giovani. Qui gioventù e sindacato non fanno per niente a cazzotti. Anzi.
Sarà per questo che Bonaccini - che pure tiene molto a chiarire: «collaboreremo al massimo con Renzi perché è l’unica chance che il Paese ha di modernizzarsi» - annunci anche: «Il primo atto che farò da presidente è chiamare le parti sociali, le Università, i sindaci, per firmare insieme un Patto sul lavoro». La via emiliana al renzismo sa che, almeno qui, non si va da nessuna parte scontrandosi con l’insolita intesa tra giovani e sindacato.
(2 - continua)

il Fatto 17.12.14
Riforme?
Il ritornello non cambia: carezze agli evasori e bastonate agli onesti
di Bruno Tinti


Domanda per i miei 24 (25 erano quelli di Alessandro Manzoni, è un fatto di modestia) lettori.
Considerato che:
1) L’Italia è uno dei Paesi più corrotti del mondo e la corruzione si fa con il “nero”, cioè con i soldi frutto dell’evasione fiscale;
2) L’Italia è sull’orlo della bancarotta da almeno 5 anni e, ogni anno, si tagliano servizi essenziali tra cui, in particolare, quelli sanitari e giudiziari; senza i quali un Paese smette di essere civile;
3) Il bottino rappresentato dall’evasione fiscale si aggira, secondo i calcoli di Corte dei conti, Agenzia delle Entrate, Eurispes e Camere di Commercio (queste ultime un po’ interessate al ribasso) tra i 90 e i 200 miliardi di euro;
4) Dovrebbe – pertanto – essere necessario recuperare il gettito fiscale evaso che, secondo il ministero delle Finanze (che non lo dice espressamente; lo si ricava – con fatica – dai dati on line), proviene, per il 90%, dal popolo dell’Iva e dalle piccole e medie imprese;
5) Gli accertamenti fiscali sono pari al 10% (scarso) delle dichiarazioni presentate; il che vuol dire che il contribuente italiano sa che, nel 90% dei casi, può scrivere “viva l’Italia” sulla dichiarazione dei redditi e nessuno gliene chiederà conto;
6) la durata del processo tributario è – in media – di circa 8/10 anni, sicché il progetto eversivo (anche evasivo ma eversivo esprime compiutamente il concetto) di pagare – se va male (magari si cade nel 10%) – le imposte a babbo morto diventa ragionevolmente molto vantaggioso: se non ti scoprono non paghi per niente; se sì, paghi il dovuto;
7) La percentuale di effettivamente riscosso sul definitivamente accertato non arriva al 12%, sicché il progetto di cui al n. 6 è a maggior ragione fatto proprio dalla stragrande maggioranza dei contribuenti;
8) L’unico mezzo per indurre contribuenti, che hanno constatato nel corso di decenni la vantaggiosa fattibilità dell’evasione, a smetterla di frodare lo Stato e di vivere alle spalle degli sfortunati che non possono seguire il loro esempio (lavoratori dipendenti e pensionati: a quelli le tasse gliele prendono, non gli chiedono di pagarle), è la prospettazione di un male gravissimo, tanto grave che la relativa improbabilità di esserne colpiti non sia ragione di tranquillità: una severissima sanzione penale;
9) Questo sistema è proprio di tutti gli Stati civili, in particolare degli Usa, sicché ogni dubbio sulla sua legittimità e utilità non ha ragion d’essere. Tutto ciò considerato. Perché:
a) Il “nero” (la forma di evasione più diffusa) è gratificato come “dichiarazione infedele”, reato punito da 1 a 3 anni, il che significa nei fatti niente carcerazione preventiva, niente intercettazioni e una pena ridicola tra i 5 e gli 8 mesi (niente carcere) ; invece che “frode fiscale”, reato punito da 1 anno e 6 mesi fino a 6 anni con conseguente possibilità di carcerazione, intercettazioni e effettiva sanzione penale?
b) Considerato che fino a 4 anni di pena comunque in carcere non ci si va, non mettono allo studio una riforma per aumentare le pene per gli evasori fiscali?
c) Al contrario, stanno progettando di aumentare le soglie di punibilità; che significa non considerare reato la frode o la dichiarazione infedele se l’imposta evasa è inferiore a una soglia variabile tra i 150.000 euro e i 400.000 euro?
d) Non hanno pensato che 150.000 euro equivalgono a ricavi per 300.000 euro e che 400.000 euro significano un “nero” di 800.000 euro?
d) Hanno solennemente dichiarato che l’elusione fiscale (il sistema praticato dalle grandi imprese per frodare il fisco) non è penalmente rilevante?
e) Non adottano il sistema di imputare in via diretta le somme sequestrate nel processo penale al pagamento delle tasse evase?
Una volta riflettuto su queste domande, diciamo così, propedeutiche:
I) Perché questo trattamento di favore agli evasori?
II) Sono incompetenti o venduti?

il Fatto 17.12.14
L’ex assessore: “Tor Sapienza era una trappola”


”GIÀ DALLE PRIME ORE, dai primi momenti, ho avuto la percezione che qualcosa non andasse, che ci fosse una strumentalizzazione. Tor Sapienza era una trappola”. Lo ha dichiarato ieri mattina a Sky TG24 l’ex assessore alle Politiche Sociali di Roma, Rita Cutini, parlando della rivolta anti-immigrati di novembre nella periferia romana. La Cutini, che la banda di Buzzi e Carminati non era riuscita ad avvicinare , lunedì dopo un incontro che ha definito “molto deludente” con il sindaco Ignazio Marino ha lasciato il suo incarico istituzionale sbattendo la porta. Marino fino al giorno prima degli arresti di Mafia Capitale voleva sostituirla con l'assessore alla Casa, poi coinvolto nell’inchiesta, Daniele Ozzimo. “Il disagio della gente va rispettato e ascoltato, non strumentalizzato politicamente. Nelle carte di Mafia Capitale su Tor Sapienza sono emersi particolari inquietanti – ha proseguito nell’intervista la Cutini –. L’affare non sono i rom e gli immigrati, l’affare è l’emergenza”. L’ex assessore ha aggiunto: “I soldi che possono essere utilizzati dalle cosche infatti sono quelli delle emergenze , sul sociale i soldi non ci sono. Nei casi simili a Tor Sapienza invece è possibile ricavare fasce di facile guadagno”.

il Fatto 17.12.14
Altro che Olimpiadi, a Roma c’è l’incompiuta da 260 milioni
La “Città dello sport” DI Calatrava fuori città è il tempio dello spreco
di Tommaso Rodano


La vela bianca di Calatrava si innalza come un’unghia puntata verso il cielo di Roma. La Città dello Sport lasciata fallire a Tor Vergata è un monumento solenne alle disfatte di Stato. Ieri l’Assemblea capitolina ha fatto mancare il numero legale nella seduta che avrebbe potuto dare il via libera al nuovo stadio dell’As Roma. Il giorno prima Matteo Renzi aveva lanciato la Capitale per le Olimpiadi del 2024. Mentre si sognano nuovi impianti e nuovi appalti, la Città dello Sport rimane un villaggio fantasma, un progetto monumentale lasciato a metà, completamente abbandonato. Uno scheletro di cemento che è costato quasi 260 milioni di euro: soldi pubblici.
IL CANTIERE è annunciato da insegne scolorite, rinchiuso dietro a una recinzione piena di buche. Qui non c’è nessuno: non un operaio, non una gru, nemmeno un custode. La casupola del guardiano è deserta da chissà quanto tempo, la porta d’ingresso è tenuta chiusa col fil di ferro. Fango, erbacce e un silenzio surreale. Il progetto originale di Santiago Calatrava era tanto affascinante quanto ambizioso. Una ma-xi struttura per lo sport in un’area di cinquanta ettari. Due palazzetti, uno per il nuoto da quattromila posti e uno polifunzionale da ottomila, per basket, pallavolo e concerti. Ognuno dei due stadi avrebbe avuto la sua cupola bianca, un guscio formato da un reticolato di cemento e una copertura di vetro. Le conchiglie, nel disegno, erano tenute insieme da un arco centrale lungo 130 metri. Poi una piscina olimpionica esterna con gradinate da 3 mila spettatori, una pista d’atletica, migliaia di parcheggi auto, spogliatoi e uffici.
LA CITTÀ DELLO SPORT era nata per i mondiali di nuoto del 2009. L’incarico all’architetto valenziano era stato conferito dal sindaco Walter Veltroni nel 2006. In origine, un progetto da 60 milioni di euro. All’assegnazione dell’appalto sono già raddoppiati: 120 milioni. Tra 2006 e 2007 l’avanzamento dei lavori è risibile, ma le previsioni di spesa continuano a moltiplicarsi: il costo dei lavori arriva a 240 milioni di euro. Il cantiere è affidato alla Vianini Lavori del Gruppo Caltagirone, la gestione dei fondi è della Protezione civile di Guido Bertolaso: l’opera è nella lista dei Grandi Eventi. A capo del progetto viene incaricato Angelo Balducci. Lo scandalo della cricca degli appalti sarebbe scoppiato qualche anno più tardi.
Nel cantiere, a pieno regime, dovrebbero lavorare fino a 300 operai al giorno per centrare l’obiettivo e consegnare l’impianto in tempo per i mondiali di nuoto. Già nel 2008 il Coni si arrende e sposta la manifestazione al Foro Italico (che ha comunque bisogno di altri 45 milioni di euro per “rifarsi il trucco”). L’obiettivo per cui era nata la Città dello Sport è già fallito, ma si continua a lavorare (e spendere). Roma è candidata per le Olimpiadi del 2020: l’opera potrebbe tornare utile. L’ambizione è stoppata sul nascere dal governo Monti. Nel 2011, l’ultimo preventivo: per completare i lavori secondo il progetto iniziale si arriverebbe a una spesa totale di 660 milioni di euro. Undici volte la stima iniziale. Si parla di coinvolgere sponsor privati, ma non si fa vivo nessuno.
DI FATTO nel cantiere di Tor Vergata non si muove più nulla da tre anni. La Città dello Sport non esiste, lo Stato ha rinunciato: il suo nome non compare nemmeno nel censimento del Ministero delle Infrastrutture, che ha elencato 671 opere incompiute italiane. Il bilancio parziale è impietoso: in otto anni sono andati in fumo 256 milioni di euro. Sono serviti a edificare uno spettacolare altare in cemento armato, un mausoleo degli sprechi, dell’approssimazione, della soggezione del pubblico nei confronti dei privati, del disastro amministrativo di una città e di un Paese. Secondo l’assessore all’Urbanistica del Comune di Roma, Giovanni Caudo, per completare l’opera ci vorrebbero altri 400 milioni. “Ma oggi non ci sono le condizioni. ” Poi aggiunge: “Vogliamo finire almeno la prima vela, a cui manca la copertura in vetro. L’idea è trasferirci la facoltà di Scienze naturali dell’Università di Tor Vergata. Servono una settantina di milioni. ”
Nel frattempo l’unica acqua nella vasca di Calatrava è quella piovana. Nella penombra, in un silenzio inquietante, le fondamenta disegnano un affascinante dedalo di cemento. Il reticolato bianco della cupola comincia a scrostarsi. Se l’annuncio di Renzi dovesse aver seguito, è qui che andrebbe issata la bandiera della candidatura olimpica di Roma: in cima alla vela arrugginita.

il Fatto 17.12.14
Dopo i cinque cerchi
Torino 2006, 12 impianti abbandonati
di Andrea Giambartolomei


Torino Non aveva neanche fatto in tempo a parlare che la sua città, Torino, è stata tenuta fuori dalla rosa iniziale di sedi in cui si potrebbero disputare le gare delle Olimpiadi di Roma 2024. “Ho parlato con il premier Renzi e con il presidente del Coni Malagò – spiegava lunedì il sindaco Piero Fassino –: se sarà prevista l’allocazione di gare in altre città, Torino, per la sua esperienza nei Giochi del 2006 e per l’infrastrutturazione di cui dispone, sarà sicuramente presa in considerazione”. A otto anni di distanza il capoluogo piemontese – rinnovato e rinato da quell’esperienza – si trova però a dover ancora gestire il complesso di società e strutture rimaste e qualsiasi occasione è buona per sfruttarle: l’anno scorso ci sono stati i “World Master Games”, competizioni internazionali per dilettanti attempati, e il prossimo anno sarà la volta delle iniziative di “Torino Capitale europea dello Sport”.
FATTA ECCEZIONE di alcuni degli impianti costati centinaia di milioni di euro, una parte di questi resta inutilizzati, come la pista da bob a Cesana: costata più di 61 milioni di euro, è stata a lungo un problema per via delle 48 tonnellate di ammoniaca necessaria al raffreddamento e per i suoi costi di gestione, motivo per il quale il Comune di Cesana ha deciso che non la riaprirà. Che dire poi delle quattro palazzine del villaggio olimpico vicino al Lingotto? Lasciate per anni in abbandono, oggetto di atti vandalici, ora sono occupate da profughi profughi provenienti dall’Africa. Non è tutto. I giochi sono stati un’occasione per creare enti costosi. Un esempio? L’agenzia “Torino 2006”, la stazione appaltante ancora oggi in attività.
ALLA FINE dell’estate scorsa la Guardia di finanza ha consegnato alla procura della Corte dei conti la relazione conclusiva di un’indagine sulla gestione liquidatoria. Alcune delibere della sezione di controllo, che valuta i bilanci di enti pubblici, sottolineavano come questa gestione – fatta per liquidare gli ultimi importi e chiudere, ma di fatto continuata in proroga – costasse ancora molto: dal 2008 e per quattro anni l’agenzia ha avuto spese stabili per circa 1,6 milioni all’anno, “costi sproporzionati rispetto alla ridotta attività svolta”. Si tratta di spese per la gestione interna (sedi, telefonia, abbonamenti a giornali, taxi e altro), ma anche per i compensi del personale e per le tante consulenze esterne. Si prevedeva che l’attività dell’agenzia “Torino 2006” terminasse quest’anno, ma andrà avanti almeno fino al 2016 per via di alcuni contenziosi legali, a ben dieci anni dalla fine. C’è poi la Fondazione 20 marzo 2006, costituita dagli enti locali e dal Coni per controllare l’eredità dai Giochi invernali, ma con un bilancio “pesantemente negativo”, stando a quanto detto dall’assessore all’urbanistica Stefano Lorusso al Consiglio comunale del 10 dicembre. La gestione dei luoghi – tra cui la pista da bob e le palazzine del villaggio olimpico – è affidata alla società Parcolimpico, creata dalla fondazione insieme a Live Nation e a Set Up di Giulio Muttoni, ex dirigente dell’Arci torinese, organizzatore di eventi, ma anche grande amico del senatore Pd Stefano Esposito e dell’ex assessore comunale allo Sport della giunta Chiamparino, Elda Tessore. Sulla gestione di quella gara e sullo stato di abbandono dei dodici impianti la procura di Torino avviò un’indagine grazie all’esposto dell’ex consigliere leghista Mario Carossa. L’indagine del pm Cesare Parodi fu archiviata, ma dagli atti emerse il sistema di potere e amicizie che si è spartito la torta del post-olimpiadi.

Repubblica 17.12.14
E i precari che salvarono la biblioteca Girolamini rischiano il licenziamento
La loro denuncia fermò il saccheggio dei libri da parte del direttore
Napolitano li ha nominati cavalieri. Ma stanno per perdere il posto
di Tomaso Montanari


LO STATO dovrebbe avere un motivo tutto speciale per non licenziare e non umiliare Mariarosaria e Piergianni Berardi e Bruno Caracciolo. Perché questi tre bibliotecari sono gli eroi borghesi che hanno salvato la Biblioteca dei Girolamini di Napoli, una delle 46 biblioteche statali italiane.
«L’INGRATITUDINE è un’ingiustizia crudelissima, una vera morte della virtù»: queste parole della più grande virtuosa del Seicento italiano, Isabella Andreini, andrebbero intagliate in lettere cubitali sulla facciata del Collegio Romano, sede del ministero per i Beni culturali. Pochi giorni fa, infatti, la direttrice generale per le Biblioteche Rosanna Rummo ha chiesto ufficialmente alla direzione dei Beni culturali della Campania se sia davvero «necessaria la prosecuzione della collaborazione dei signori Berardi e Caracciolo ». E, nel caso che proprio non se ne possa fare a meno, se non sia almeno «possibile una riduzione dell’orario». Un banale episodio dell’attuale macelleria sociale applicata al patrimonio culturale? Sì, purtroppo.
Ma lo Stato dovrebbe avere un motivo tutto speciale per non licenziare e non umiliare Mariarosaria e Piergianni Berardi e Bruno Caracciolo. Perché questi tre bibliotecari sono gli eroi borghesi che hanno letteralmente salvato la Biblioteca dei Girolamini di Napoli, una delle 46 biblioteche statali italiane, quella in cui andava a studiare Giovan Battista Vico.
Il 25 marzo del 2012 ricevetti un’inquietante lettera di Filippomaria Pontani, filologo classico dell’Università di Venezia. Mentre stava studiando ai Girolamini, i fratelli Berardi gli avevano confidato, disperati, che il nuovo direttore Marino Massimo De Caro stava sistematicamente saccheggiando quel che avrebbe dovuto custodire.
Ciò che io stesso vidi tre giorni dopo superò ogni immaginazione. E anche a me Piergianni Berardi disse che la sera venivano staccati gli allarmi, mentre automobili cariche di volumi lasciavano i cortili della biblioteca. Nonostante la solitudine e il terrore, il bibliotecario sperava di far filtrare qualcosa all’esterno. Ma come? Chi avrebbe potuto credere a due dipendenti, precari da decenni (assistiti da un avvocato della Cgil in un contenzioso col ministero da cui dipendevano), che avessero osato insinuare dubbi sul direttore, che era anche dell’allora ministro Lorenzo Ornaghi (dopo esserlo stato di Giancarlo Galan), e soprattutto braccio destro di Marcello Dell’Utri? Eppure l’indignazione e la voglia di reagire avevano vinto la paura e la rassegna- zione: e fu da quella conversazione che cominciò tutto.
La reazione di De Caro alla mia denuncia pubblica fu violenta: specialmente nei confronti dei Berardi, dei quali intuiva il ruolo. Malgrado tutto, il 5 aprile i biblioconsigliere tecari scrissero una coraggiosissima lettera alla Direzione generale romana, esprimendo la loro contrarietà ad aprire il sancta sanctorum della biblioteca, che fino a quel punto erano riusciti a difendere. E cosa fece la Direzione? Ingiunse ai Berardi di consegnare le chiavi a quel De Caro che oggi è condannato a sette anni in appello per il saccheggio della Biblioteca.
E mentre l’esemplare inchiesta condotta dal procuratore Giovanni Melillo, e oggi continuata dalla sostituta Antonella Serio, scoperchiava il più grande traffico illecito di beni culturali nella storia della Repubblica, la stessa Direzione generale (sebbene guidata da un altro direttore) si “dimenticava” di costituirsi parte civile al primo processo.
Ebbene, oggi è ancora quella Direzione a valutare il licenziamento dei bibliotecari: la cui nomina a Cavalieri, voluta dal presidente Giorgio Napolitano nel gennaio 2013, rischia ora di suonare come una beffa. Nel giugno scorso, dopo lo sconcerto suscitato dall’ennesima minaccia di licenziamento, una nota del Mibact assicurava che si stava «lavorando per garantire la continuità del lavoro» dei Berardi. Ma oggi quell’impegno appare carta straccia. Se la Biblioteca dei Girolamini esiste ancora, non è per merito dei soprintendenti, dei rettori, del vescovo o del sindaco di Napoli: che nemmeno si esposero a firmare l’appello promosso da Francesco Caglioti per la destituzione di De Caro. Il merito è, invece, di due comunissimi cittadini: due impiegati che credevano nel “loro” Stato, nonostante tutto. Oggi quello Stato non può tradirli. Non è possibile che nei tanti cassetti del Mibact, o magari in quelli della legge Bacchelli, non si trovi il modo di riconoscere ai salvatori dei Girolamini ciò a cui avrebbero diritto anche solo per il loro lavoro quarantennale. Su questo, il ministro Dario Franceschini si gioca davvero la faccia.

Corriere 17.12.14
Malala: «Piango per questi ragazzi Sono miei fratelli»

«Questo atto di terrore senza senso e a sangue freddo a Peshawar mi spezza il cuore». Così ha reagito Malala alla notizia della strage di ieri in Pakistan, non lontano dalla sua Valle di Swat. «I bambini innocenti nelle loro divise della scuola non dovrebbero avere parte in un orrore simile. Condanno queste azioni atroci e codarde e sto al fianco del governo e delle forze armate del Pakistan, il cui sforzo nell’affrontare questo orribile evento è encomiabile. Io, insieme a milioni di altre persone nel mondo, piango per questi bambini, che sono miei fratelli e sorelle. Ma non ci sconfiggeranno mai».
«Questo è uno dei giorni più neri per l’umanità», ha scritto su Twitter Kailash Satyarthi, vincitore insieme a Malala Yousafzai di un Nobel per la Pace dedicato all’infanzia e al diritto all’istruzione. «Questi che sono stati assassinati oggi sono i nostri figli. Le mie preghiere e condoglianze vanno alle loro famiglie. Il governo del Pakistan deve fare tutti i passi necessari per proteggere i bambini e le scuole dalla violenza». «Io e mia moglie Toor Pekai sentiamo lo stesso dolore del giorno in cui Malala è stata attaccata», scrive il padre, Ziauddin Yousafzai.

Repubblica 17.12.14
L’autore di «Il fondamentalista riluttante»
«Un gesto codardo segno di grande debolezza»
Mohsin Hamid: i talebani stanno spingendo i pachistani a unirsi contro di loro
di Viviana Mazza


«È assolutamente senza precedenti. Non è mai stata commessa in Pakistan un’atrocità su questa scala contro i bambini. Tutte le persone con cui ho parlato sono sotto choc». Mohsin Hamid, l’autore de «Il fondamentalista riluttante» e del nuovo «Discontent and its Civilisations» (Il disagio e le sue civiltà), editi da Einaudi, parla dalla sua casa di Lahore, in Pakistan, dove si è trasferito cinque anni fa dopo la nascita della figlia Dina, seguita da Vali, che ha due anni. «I miei figli stanno dormendo, sono qui, a cinque metri da me».
Questo attacco è il segno che i bambini sono ormai obiettivi legittimi per i talebani pachistani?
«In passato, i bambini erano stati coinvolti come spettatori o vittime collaterali. Quello di Malala era già stato un caso singolo di una ragazzina presa di mira, ma qui abbiamo visto un attacco indiscriminato contro bambini in quanto tali, alcuni dei quali figli di soldati, altri no. La gente si aspettava un attacco terroristico dei talebani, poiché è in corso una campagna militare contro di loro e hanno patito grosse sconfitte, ma l’atrocità di oggi è del tutto inaspettata. E sta avendo un effetto opposto a quello che volevano. Se intendevano mostrare di essere ancora pericolosi e minacciosi, è assai difficile vedere un segno di forza in un atto talmente codardo come attaccare dei bambini. E poi stanno portando la gente in Pakistan a unirsi contro di loro. Un attacco del genere è inaccettabile anche con chi simpatizza con la loro causa. Hanno agito per disperazione, sacrificando la popolarità al tentativo di sottomettere tutti con la spietatezza. Ma il Pakistan è un Paese di 200 milioni di persone: nelle aree tribali gli abitanti sono 500.000, l’equivalente di un quartiere della città di Lahore che ne conta 10 milioni. Se tutto il Paese vuole sconfiggere i talebani, può farlo».
Si può leggere nella strage di ieri una competizione propagandistica con altri movimenti, tipo Isis?
«Difficile dirlo. Ma c’è una differenza: qui non si tratta di un attacco settario, sono stati uccisi non bambini hindu o sciiti ma per la maggior parte sunniti proprio come gli attentatori».
Tra le reazioni sui social media si legge tanta rabbia anche verso il governo e l’intelligence pachistani per aver finanziato e usato i mujaheddin in passato.
«Non c’è dubbio che il Pakistan abbia usato i miliziani come arma politica per molti anni, dunque in parte è vero che la colpa è del Pakistan e dei servizi, ma io credo che sia avvenuto un cambiamento. Nell’ultimo anno, le autorità pachistane hanno colpito i talebani come mai prima, e tra Pakistan e Afghanistan ci sono state aperture reciproche senza precedenti. Per la prima volta i due Paesi hanno cominciato a cooperare nella lotta contro i talebani: un segnale importante perché insieme potrebbero davvero sconfiggerli. C’è poi un altro cambiamento: la presenza destabilizzante delle forze Nato e americane in Afghanistan si sta riducendo, e insieme ad essa il senso che l’Occidente cerchi di imporre le proprie soluzioni. Adesso Pakistan e Afghanistan per la prima volta devono prendersi le proprie responsabilità e proprio questa cooperazione è lo sfondo su cui è avvenuto l’attacco di ieri».
I talebani l’hanno giustificato dicendo che seicento figli e donne della loro «tribù» sono stati uccisi in un anno.
«Dobbiamo lottare contro questo tribalismo, basato sulla nazionalità, l’etnia, la religione, contro l’idea stessa che apparteniamo a diverse civiltà. La gente uccisa ieri non apparteneva ad un gruppo con un’unica ideologia: erano individui diversi gli uni dagli altri. E’ un massacro avvenuto perché alcuni di noi rifiutano di capire che tutti gli individui hanno il diritto di essere trattati allo stesso modo. L’idea che apparteniamo a diverse civiltà viene usata da chi vuole il potere per giustificare la guerra».

Corriere 17.12.14
Esecuzioni sommarie in Cina: dal governo scuse tardive
di Guido Santevecchi


In un raro caso di revisione giudiziaria un ragazzo cinese è stato riconosciuto innocente dall’accusa di stupro e omicidio di una donna avvenuti nel 1996. L’Alta Corte del popolo ha stabilito che il processo era stato sommario, a quei tempi era in corso una grande campagna anticrimine in Cina e le Corti erano spinte ad agire in fretta. Huugjilt, 18 anni, fu vittima di quella situazione. In 61 giorni dall’arresto la sentenza fu eseguita.
Il giudice della Mongolia Interna che ora lo ha dichiarato innocente si è inchinato davanti ai genitori e ha consegnato loro un risarcimento di 30 mila yuan, meno di quattromila euro. La famiglia ha bruciato la copia della nuova sentenza sulla tomba del giovane, per confortare il suo spirito. Tutto questo è stato raccontato ieri dalla stampa cinese. Quello che i giornali di Pechino non dicono è che solo l’anno scorso in Cina sono state eseguite almeno 2.400 condanne a morte, un quinto in meno rispetto al 2012, ma sempre più che nel resto del mondo. E quest’anno, con la campagna contro «i terroristi dello Xinjiang», i giornali locali sono pieni di notizie di estremisti giustiziati anche in pubblico.Ora il governo discute una riduzione del numero dei reati punibili con la pena di morte: da escludere il traffico di armi, lo sfruttamento della prostituzione, la raccolta di fondi con mezzi fraudolenti. E dal 2015 Pechino ha promesso di mettere fine all’espianto di organi dai corpi dei giustiziati. È probabile che anche all’innocente Huugjilt siano stati prelevati gli organi.

Repubblica 17.12.14
Le radici dei populismi

Le nuove divisioni tra classi non separano tanto i ricchi dai poveri, quanto le élite istruite dai cittadini meno sofisticati E ciò provoca frustrazione
di Ian Buruma


IL MINISTRO ombra britannico per l’Europa Pat McFadden, laburista, ha fatto notare ai membri del proprio partito che, anziché considerare l’immigrazione alla stregua di un malanno, farebbero bene a sforzarsi di trarre i massimi vantaggi dall’economia globale. «Potete alimentare il risentimento della gente oppure dare un’opportunità al prossimo», ha detto. «Io ritengo che le nostre scelte dovrebbero tendere a dare un’opportunità al prossimo». Parole di rara saggezza in un mondo vieppiù dominato da rimostranze contro gli immigrati, i banchieri, i musulmani, le “élite liberal”, gli “eurocrati”, i cosmopoliti e praticamente tutto ciò che ha un aspetto vagamente estraneo.
Negli Usa i repubblicani hanno minacciato lo “shutdown” del governo solo perché il presidente Obama ha offerto agli immigrati clandestini che da molti anni vivono e lavorano negli Usa la possibilità di prendere la cittadinanza. L’Ukip in Gran Bretagna vuole imporre un blocco quinquennale dell’immigrazione, vietando agli stranieri di stabilirsi nel Regno Unito. Il vice primo ministro russo Dmitry Rogozin ha diffuso un filmato in cui promette di «fare piazza pulita dei rifiuti a Mosca». Dove per “rifiuti” intende i lavoratori provenienti per lo più dalle ex Repubbliche sovietiche. Olandesi e danesi, un tempo notoriamente tolleranti, stanno dando in massa il proprio voto a partiti che si scagliano contro la piaga dell’immigrazione. Sempre pronto ad affermare il proprio diritto a insultare i musulmani, il Partito per la libertà olandese vuole vietare tutte le moschee. Persino a Singapore, un Paese dove quasi tutti discendono da immigrati, i piccoli e vessatissimi partiti dell’opposizione stanno cavalcando il diffuso scontento verso gli immigrati che «toglierebbero il lavoro».
Cosa potrebbero avere in comune gli entusiasti del Tea Party negli Usa, i simpatizzanti della sinistra di Singapore, gli sciovinisti russi e quei cittadini olandesi e danesi che provano un sentimento antislamico? La scarsità dei posti di lavoro nelle economie in difficoltà è indubbiamente motivo di seria preoccupazione. Ma la sussistenza della maggior parte di coloro che sostengono il Tea Party — che sono per lo più bianchi e di mezza età e risiedono in zone rurali — non è certo minacciata dai poveri emigrati messicani. L’Ukip vanta un grande seguito in alcune regioni dell’Inghilterra dove è raro imbattersi in qualche immigrato. E non molti di coloro che in Olanda votano il Partito per la libertà vivono all’ombra di una moschea.
È chiaro che il sentimento anti-immigrati trascende la vecchia linea di demarcazione tra destra e sinistra. Ciò che i sostenitori del Tea Party bianchi che vivono in zone rurali o quelli dell’Ukip hanno in comune con gli elettori della classe operaia che temono realmente che il proprio posto sia dato a degli stranieri malpagati è la paura di essere lasciati indietro in un mondo di grande mobilità, organizzazioni sovranazionali e networking globale. Quanto alla destra, i partiti conservatori si dividono tra quelli i cui interessi commerciali traggono vantaggio dall’immigrazione e gli altri che se ne sentono minacciati. Ecco perché i Tory britannici hanno tanta paura dell’Ukip. Nigel Farage, che dell’Ukip è il leader, si cura meno della crescita economica che della propria, radicale nozione di indipendenza nazionale.
All’estremo opposto dello spettro politico l’opinione si divide tra coloro che sono per lo più motivati dalla propria lotta contro il razzismo e l’intolleranza e coloro che vogliono tutelare il lavoro e la “solidarietà” per ciò che resta delle classi operaie autoctone. Ricondurre frettolosamente all’intolleranza le ansie suscitate dall’immigrazione sarebbe un errore. Le “identità” (in mancanza di un termine migliore) nazionali, religiose e culturali stanno subendo una trasformazione, determinata non tanto dall’immigrazione quanto dallo sviluppo capitalistico globale. Nella nuova economia globale, vincitori e perdenti si delineano chiaramente. Gli uomini e le donne istruiti e in grado di comunicare facilmente al di là dei confini nazionali traggono vantaggio dalla situazione attuale. Altri invece no. Le nuove divisioni tra classi non separano tanto i ricchi dai poveri, quanto le élite istruite e metropolitane dai provinciali meno sofisticati, meno flessibili e meno connessi. I loro leader condividono l’amarezza di coloro che si sentono alienati in un mondo che gli appare sconcertante e pieno di odio.
Gli agitatori populisti amano riattizzare questo risentimento popolare prendendosela con gli stranieri che lavorano per una miseria o non lavorano affatto. In realtà, però, ciò che soprattutto infastidisce le popolazioni autoctone è il relativo successo delle minoranze etniche e degli immigrati. E questo spiega il dissenso verso il presidente Obama. Gli americani sanno che il giorno in cui i bianchi saranno ridotti a una delle tante minoranze non è lontano, e il numero delle persone di colore che occupano posizioni di potere è in continuo aumento. Ecco perché i sostenitori del Tea Party e di altri gruppi analoghi vogliono riprendersi i propri, rispettivi Paesi.
La loro è, evidentemente, una pretesa impossibile da soddisfare. I cittadini dovranno abituarsi a vivere in società più che mai variegate. Nemmeno l’economia globale potrà fare marcia indietro, anche se dovrebbe essere regolamentata con maggior attenzione perché ci sono cose che vale ancora la pena tutelare, ed esistono buoni motivi per non esporre completamente la cultura, l’istruzione e alcuni stili di vita alla distruzione creativa delle forze darwiniane del mercato.
La soluzione proposta da PatMcFadden per risolvere le paure di un mondo globalizzato consiste nel mettere le persone in condizione di «cogliere i vantaggi che quel mondo offre. La nostra risposta deve consistere nel fare in modo che questo mondo connesso funzioni meglio per le persone». Ha ragione, naturalmente. Ma la sua esortazione si rivolge forse più alle classi istruite e già privilegiate che a coloro che si sentono spinti ai margini. Per la sinistra si tratta di un problema serio: sempre più spesso i partiti liberal di sinistra parlano a nome delle élite urbane, mentre i populisti provinciali che attingono alle torbide acque del risentimento popolare spingono i conservatori tradizionali sempre più a destra. (Traduzione di Marzia Porta)

il Fatto 17.12.14
“Salvador, abbiamo vinto”
Pubblicato il carteggio tra Allende e Pablo Neruda, due simboli del XX secolo morti a pochi giorni di distanza
di Carlo Antonio Biscotto


Salvador Allende, presidente socialista, e Pablo Neruda, militante comunista, sono probabilmente i personaggi cileni di maggiore notorietà del XX secolo. Entrambi di sinistra, ebbero per decenni un rapporto di amicizia di cui non si è mai saputo molto e che terminò solo con la loro morte a pochi giorni di distanza. Prima quella di Allende, l’11 settembre 1973, il giorno stesso del colpo di Stato che rovesciò il suo governo, poi quella di Neruda 12 giorni dopo in una clinica di Santiago. È in uscita in Cile il saggio Pablo Neruda e Salvador Allende. Una amicizia, una storia.
È IL PRIMO serio tentativo di indagare sul rapporto che legò Allende a Neruda dal 1939 alla morte. Il libro è ricco di particolari curiosi e in uno dei capitoli ci sono 15 lettere – per lo più inedite – che si scambiarono tra il 1969 e il 1973. Sono lettere che abbracciano aspetti intimi della loro personale amicizia e tematiche legate al ruolo politico che entrambi svolsero nella storia del loro Paese: “Caro Salvador, non so dirti quanto sono felice. Abbiamo sbaragliato la cospirazione. È la prova che bisogna essere intransigenti”, scriveva Pablo Neruda con il consueto inchiostro verde all’indomani della vittoria elettorale di Salvador Allende. “Alla cerimonia di insediamento dobbiamo invitare qualche intellettuale straniero. Mi piacerebbe incontrarti per sottoporti un possibile elenco. Dobbiamo mandare gli inviti al più presto”. E terminava la lettera con parole estremamente amichevoli e affettuose: “Festeggeremo insieme la festa del 18; il cervo lo cucinerà Matilde. Spero che venga anche tua moglie Tencha. Un abbraccio fortissimo, Pablo”. Lo storico cileno Abraham Quezada, autore del saggio, è convinto che la dimensione epistolare sia “la forma più pura di autobiografia”. Quezada ha scritto otto libri sul Nobel e sul suo rapporto con Allende: “Il loro carteggio è la prova più lampante della profonda amicizia che li legava. Avevano in comune moltissime cose: la passione per la politica, il gusto della buona tavola, il collezionismo – Neruda di oggetti, Allende di vestiti – e l’abitudine di fare la pennichella dopo pranzo. Inoltre pur non essendo belli, erano dei gran seduttori e amavano parlare delle loro conquiste”. Nell’arco della loro amicizia, tuttavia, non mancarono le divergenze.
La principale quando Neruda era ambasciatore del Cile in Francia e chiese al presidente di inviare a Parigi come suo collaboratore lo scrittore e amico Jorge Edwards. Ma Edwards era stato da poco espulso da Cuba dove si trovava come diplomatico e Fidel Castro aveva chiesto ad Allende di esonerarlo da ogni incarico diplomatico. Neruda si impuntò e alla fine Allende fu costretto a cedere. È il solo caso in cui il poeta tirò il presidente per la giacchetta facendo leva sull’amicizia personale. Ma questo incidente non influì sul rapporto di amicizia reso ancora più stretto dal forte legame di simpatia che univa la moglie di Neruda a Hortensia Bussi, detta Tencha, moglie di Allende.
E l’opinione di Matilde nella vita del poeta era più che importante. Era decisiva. I documenti e le lettere che sono alla base del libro sono frutto di una ricerca che ha portato Quezada in ogni angolo del mondo. Alcune lettere risalenti al 1970 facevano parte dei documenti che una delle figlie del presidente, Tati, era riuscita a salvare dopo il golpe e che aveva portato con sé a Cuba dove si tolse la vita nel 1977. Tutti questi documenti furono restituiti dal governo cubano alla Fondazione Allende nel 2008 e 2009. Tra questi anche alcune lettere di Neruda meno personali, scritte prevalentemente quando era ambasciatore in Francia, incarico ottenuto nel 1971.
IN UNA delle lettere Neruda informava il presidente che uno degli addetti commerciali dell’ambasciata cilena era legato al partito democristiano che aveva governato il Cile prima di Allende. “È una cosa quanto mai irregolare cui bisogna porre rimedio”, scriveva Neruda. Di strano nel carteggio tra Parigi e Santiago il fatto che l’ambasciatore scrivesse direttamente al presidente senza alcun rispetto per la normale catena gerarchica. Le lettere inviate “personalmente al compagno presidente” spesso terminavano con queste parole: “Un abbraccio a Tencha e i miei più affettuosi saluti a te. Non potremmo avere un presidente migliore, Pablo Neruda”.
Una lettera molto importante è quella che Neruda scrisse al presidente il 3 novembre 1972 dopo la decisione americana di non importare il rame estratto dalle miniere cilene che erano state nazionalizzate da Allende: “Scopo di questa lettera è avvertire del pericolo derivante da un atteggiamento troppo ottimista dinanzi alle difficoltà che stiamo vivendo”, segnalava Neruda al presidente in maniera molto franca.
E Allende? Come erano le sue lettere? Lo stile epistolare del presidente era succinto. Frasi brevi, ma percorse da forti emozioni. Nel 1972, ad esempio, il presidente scriveva a Neruda mostrando tutta la sua preoccupazione per lo stato di salute del poeta che soffriva di un cancro alla prostata: “Penso che per te sarebbe meglio tornare a Isla Negra, tra le tue cose e gli amici di sempre”.

La Stampa 17.12.14
Maya batte Khmer zero a zero
Questo numero era in uso nelle civiltà mesoamericane già nel I secolo a.C.: molto prima della traccia ritrovata in Cambogia, che uno studioso Usa giudica la più antica
di Antonio Aimi

Professore di Civiltà precolombiane all’Università degli Studi di Milano

Pochi giorni fa tutto il mondo scientifico è stato sorpreso da un articolo che annuncia l’imminente pubblicazione di un libro sull’«origine del numero zero« (ne ha parlato La Stampa del 25 novembre). Nell’articolo, apparso sulla prestigiosa rivista della Smithsonian Institution, Amir Aczel, un matematico e divulgatore statunitense, racconta con enfasi (lo stesso autore parla della sua ricerca come di una «ossessione») di aver trovato a Sambor, nella giungla della Cambogia, un monumento del 683 d.C. che documenta la più antica traccia dello zero. Ma è proprio vero che quello è lo zero più vecchio del mondo?
Con buona pace di Aczel occorre dire chiaramente che l’antichità dello zero di Sambor è ben poca cosa rispetto a quello delle culture mesoamericane che avevano inventato e usavano questo numero alcuni secoli prima del 683 d.C. Vuol dire che la notizia è una bufala? Certamente no. Anzi, al netto dei toni molto sopra le righe, la notizia, se sarà confermata dalla comunità scientifica, sembra importante e merita l’attenzione di tutti.
Le date sul Conto Lungo
Come è possibile? È possibile perché lo stesso Aczel da un lato non esita a sparare il «primato mondiale» di Sambor, dall’altro riconosce lo zero dei Maya (per lui sminuito dal fatto di non aver mai «lasciato l’America») e spiega che la sua ricerca si limita allo studio dello zero del nostro sistema numerale (quello di numeri cosiddetti arabi). Cercando di non trasformare la questione dell’origine dello zero in una sorta di gara, sembra importante chiarire la situazione, perché conoscere la matematica, i numeri e il loro uso nelle culture precolombiane è un importante passo in avanti per capirle dall’interno.
«Anche in Mesoamerica, come a Sambor», ci spiega l’epigrafista Raphael Tunesi, «le date scritte sui monumenti sono i documenti fondamentali da cui partire per verificare la presenza dello zero. Qui, però, basta una data del Conto Lungo [il ciclo calendariale di 5125,3661 anni di cui si è tanto parlato a sproposito nel 2012, ndr] per dimostrare l’esistenza dello zero, perché questo calendario funziona con lo zero e senza lo zero non esiste. Il Conto Lungo, infatti, era composto da cinque numeri che rappresentavano cinque cicli correlati [quello dei k’in (giorni), degli uinal (mesi di 20 giorni), dei tun (anni di 18 uinal, cioè di 360 giorni), dei katun (periodi di 20 tun, cioè di 7.200 giorni) e dei baktun (periodi di 20 katun, cioè di 144.000 giorni)] che andavano da zero a 19 e, in un caso, da zero a 17 e poi si azzeravano facendo aumentare di una unità il ciclo superiore».
A quanto dichiara Tunesi si possono aggiungere due osservazioni importanti:
1) i numeri del Conto Lungo avevano un valore posizionale e potevano essere usati per far di conto, come ha mostrato la recente scoperta della «lavagna» (in realtà, un muro bianco) dello scriba di Xultun;
2) se si considera che il Conto Lungo, prima di essere adottato dai Maya, era stato inventato dalle culture epiolmeche negli ultimi decenni del primo secolo a.C., appare evidente di quanto l’America precolombiana abbia anticipato il Vecchio Mondo.
Invenzioni indipendenti
Limitandosi, infine, alle date mesoamericane che effettivamente mostrano lo zero, tra quelle che precedono il monumento di Sambor, si può segnalare l’iscrizione del verso della Stele 31 di Tikal, che si apre con la data del Conto Lungo 9.0.10.0.0 (10 dicembre 435) e che fu eretta durante il regno di Sihyaj Chan K’awiil (411- 456 d.C.). Pur non volendo trattare la questione dell’origine dello zero come una gara, pare evidente che il primato di Epiolmechi e Maya è indiscutibile.
Tuttavia, dato che la ricerca di Aczel non si limita solo a questa questione, ma prende in esame anche la questione della diffusione del numero dalla Cambogia all’India, agli Arabi, a Fibonacci, è interessante osservare che in America non ci fu nessun processo del genere, perché, al di fuori della Mesoamerica, le culture precolombiane mostrano non solo di non aver recepito l’invenzione dello zero, ma nemmeno quella della scrittura di cui i numeri erano parte fondante. È noto, infatti, che nell’Area peruviana, che ebbe contatti abbastanza regolari ma indiretti con la Mesoamerica, il sistema di calcolo era totalmente differente e che, in quechua, la lingua degli Inca, non esisteva una parola per indicare lo zero. Non solo, ma anche nella Mesoamerica il Conto Lungo cessò di essere usato dagli stessi Maya alla fine del Periodo Classico e non fu mai adottato dalle altre culture mesoamericane.
Quindi, contro le favole di un facile diffusionismo, occorre riconoscere che ogni cultura ha le sue idiosincrasie e non è affatto detto che l’arrivo di un’invenzione potenzialmente utile (lo zero, la scrittura, ecc.), porti ad accettarla.
Volendo, però, fare l’avvocato del diavolo, si potrebbe riconoscere che rimane aperta una questione. Visto che lo zero della Mesoamerica è più antico di quello della Cambogia, è possibile che, al contrario di quanto generalmente si pensa, abbia attraversato il Pacifico e sia andato dall’America all’Asia? Premesso che risposte certe, ovviamente, non ci saranno mai, occorre dire con chiarezza che:
1) oggi come oggi non c’è uno straccio di dato a favore di questa ipotesi;
2) lo scenario di un contatto diretto o attraverso intermediari tra la Cambogia e l’Area Maya è inconsistente.
Pertanto, occorre prendere atto che, quasi certamente, lo zero è il risultato di due invenzioni indipendenti.

Corriere 17.12.14
Quando «suicidarono» Eva. La colpa nascosta di Lakatos
Januaria Piromallo rivela il destino di un’ebrea ungherese. E condanna chi la sacrificò
di Enrico Mannucci


Un labirinto di specchi perfetto per un romanzo di John le Carré. E anche una vicenda potenzialmente clamorosa e dirompente, messa in sordina da quel mondo accademico britannico dove per tradizione convivono — e talvolta s’intrecciano — radicalismo di sinistra e affiliazioni con servizi segreti, a partire da quelli di Sua Maestà.
È una storia feroce recuperata da Januaria Piromallo, che l’ha riproposta, romanzata, in un volumetto pubblicato da Chiarelettere: Il sacrificio di Eva Izsák .
Si tratta di un sacrificio in senso letterale: la ragazza viene convinta a suicidarsi dai compagni di una cellula clandestina comunista, in gran parte composta da ebrei, che combatte l’occupazione hitleriana nell’Ungheria del 1944. Sono tutti giovanissimi. Il capo — colui che impone il cruento epilogo — ha 22 anni, è appena laureato, si chiamava Imre Lipschitz, poi ha cambiato il nome in Imre Molnár, celando l’origine ebraica (madre e nonna moriranno ad Auschwitz). Eva è appena diciannovenne.
Quel che sappiamo di lei ci arriva da un memoriale (44 pagine in ebraico, pubblicate in forma privata) scritto da Myriam, la sorella maggiore. Eva è appassionata, dà tutta se stessa alla lotta clandestina. Ma il capo la considera l’anello debole della cellula. Quando la situazione diventa critica, decide che non può più far parte del gruppo. Va eliminata. Lei stessa concorda (oggi può sembrarci assurdo, ma basta leggere Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler per capire che le scelte assolute e autodistruttive non riguardano solo il fanatismo islamista): «Dico che si è sottomessa alla morte e non che è stata costretta. Eva ha accettato di morire quando le è stato detto che la sua morte avrebbe salvato altre vite» scrive la sorella. Uno dei compagni la scorta in un bosco vicino a Navygarad e le consegna un flacone di cianuro. Il cadavere non verrà mai ritrovato. Eva sarebbe sparita nel nulla se la sorella — l’unica della famiglia che aveva mantenuto qualche contatto — non avesse avviato un’indagine disperata e ostacolata in mille modi. Il recupero del memoriale è avvenuto grazie all’incontro fra la Piromallo e chi lo custodiva: uno studioso ungherese già collega di sua madre, Imre Toth, che era stato testimone diretto di quel periodo durissimo, aveva incrociato Eva e conosciuto colui che aveva preso il nome di Molnár.
La traduzione narrativa del memoriale (i brani riportati integralmente appaiono in corsivo) riempie i vuoti nella ricostruzione con una forte dose di empatia verso la vittima. Fino all’invettiva verso chi l’ha spinta al gesto estremo.
Qui, del resto, arriva l’aspetto più sconcertante. Perché Imre Molnár vivrà un’esistenza complessa e multiforme. Nell’immediato dopoguerra cambia nuovamente nome, si ribattezza Imre Lakatos, con un cognome diffuso nel proletariato ungherese, nel 1947 diviene un importante funzionario al ministero dell’Educazione: in nome dell’ortodossia marxista dispone le epurazioni fra gli accademici.
Nel giro di tre anni, però, le cose cambiano per ragioni a oggi non chiarissime. Forse pesa il caso di Eva. Lakatos cade in disgrazia. Il rigido interprete dell’ideologia subisce il contrappasso: finisce in un campo di lavoro a Racsk, forse è torturato, forse è accusato di trotskismo, qui le biografie restano lacunose. Di sicuro, quando viene liberato nel 1953, è un reietto, costretto a mendicare un tetto dagli amici rimasti.
Nel 1956, coi moti d’Ungheria, espatria. Prima in Austria, poi in Gran Bretagna. E qui arriva un’ennesima reincarnazione. Lakatos abbandona il marxismo e si avvicina al pensiero di Karl Popper, lo sviluppa e modifica (non mancheranno, qui, successive polemiche). Diviene, comunque, uno dei massimi filosofi della scienza. Onore e vanto della London School of Economics (dove entra nel 1960 e, dal 1969, tiene la cattedra di Logica), fra le prime istituzioni culturali anglosassoni, con numerosi premi Nobel nel carnet. Lì, Lakatos coltiva studi e relazioni fino alla scomparsa, nel 1974. I prestigiosi 15 anni nel Regno Unito, stranamente, non gli valgono la cittadinanza. Come se qualcosa di oscuro nel suo passato sconsigliasse un’assimilazione totale, quasi a lasciarsi l’opzione di rinnegarlo nel caso di uno scandalo retrospettivo.
Balza agli occhi il curioso silenzio da parte britannica su questa pagina oscura nella vita di Lakatos, peraltro non ignota a molti colleghi accademici. Una specie di velo, confermato dal l’ obituary del «Times», nel 1974, ma anche dalle biografie attuali, come quella contenuta nel sito web MacTutor History of Mathematics .

Corriere 17.12.14
Il filosofo e il dilemma del prigioniero traditore
di Giulio Giorello


«L’ aula era strapiena di studenti» scriveva nel gennaio del 1973 Imre Lakatos all’amico Paul Feyerabend, che aveva sfidato la sua teoria della pratica scientifica paragonandosi nientemeno che al Satana di Milton. E aggiungeva: «Lucifero è il nome di colui che porta la falsa luce, mentre io li avvolgo nelle tenebre della verità». Poveri discepoli, nelle mani di «un individuo eccessivo, sensibile, implacabile, autoironico e così umano» come l’esule ungherese, che occupava allora la cattedra di logica alla London School of Economics. Terminando una discussione su necessità e libero arbitrio, in un’altra missiva Imre ammetteva con Paul di essere così stanco da svenire. Era il 29 gennaio 1974; quattro giorni dopo moriva stroncato da un infarto (vedi il volume a due — Imre e Paul — Sull’orlo della scienza, curato da Matteo Motterlini per Raffaello Cortina, 1995). Io lo venni a sapere in una sera nebbiosa di febbraio, ai tempi in cui curavo l’edizione italiana di Dimostrazioni e confutazioni (Feltrinelli, 1979), e passavo serate col mio maestro Ludovico Geymonat a discutere di come Lakatos avesse «innestato la dialettica di Hegel e di Marx sul tronco della filosofia della scienza occidentale» (per usare le parole di Feyerabend). Con Marco Mondadori e Silvano Tagliagambe sentivo Ludovico rievocare gli episodi della lotta partigiana. Una volta, a una ragazza appena arruolata, aveva detto: «Se ti prendono, hai una pallottola da loro. Se tradisci, hai una pallottola da noi». Allora non sapevo quanto queste parole potessero riferirsi allo stesso Lakatos! Giovane combattente antifascista, questi aveva teorizzato che «in caso di cattura ognuno passa idealmente dalla parte del nemico, perché diventa potenziale traditore». Come racconta Januaria Piromallo, Eva Izsák, spinta a uccidersi perché ritenuta troppo debole, è stata vittima consenziente di una sorta di «sacrificio» i cui meccanismi vanno oltre le dure regole di qual -siasi lotta di liberazione: la tela tessuta da Lakatos è stata piuttosto il frutto di una libidine di potere senza freno. Imre avrebbe fatto carriera nell’Ungheria comunista, per cadere poi in disgrazia; nel 1956, con l’ottobre di Budapest, avrebbe cercato scampo a Vienna e quindi in Inghilterra. «C’è chi dice sia stato una spia della polizia segreta, qualcuno lo ricorda come un professore che a ogni corso si innamorava di una studentessa, qualcun altro dice che rovistasse nella carta straccia dei colleghi alla ricerca di informazioni compromettenti» scrive Januaria. Forse era solo «un uomo disperato, intrappolato nella sua stessa intelligenza». Il libro Il sacrificio di Eva Izsák (Chiarelettere) lacera profondamente chi ha amato la sua concezione della dialettica delle verità scientifiche, con cui ha rovesciato l’ottimistico razionalismo di Popper. In Gran Bretagna questi aveva sostituito Marx nella mente instancabile di Imre, solo per essere anche lui «tradito». La storia, ancora una volta, ci mostra di quanto fango possano essere fatte le tenebre della verità.

Corriere 17.12.14
Amore e guerra, a 101 anni Pahor fa ancora la Resistenza
di Marisa Fumagalli


Ultracentenario (101, lo scorso 26 agosto) con lo spirito di un giovanotto. Leggendo il romanzo di Boris Pahor, La città nel golfo (Bompiani, pagine 296, e 19), tradotto da Marija Kacin (l’autore conosce bene l’italiano ma scrive rigorosamente nella sua lingua madre), sembra di sentirne la voce raccontare, vibrando mentre esprime le emozioni che prova davanti a uno sguardo, un sorriso, una ritrosia di donna. Sembra di sentirla adesso anche se la narrazione è datata 1955, l’anno della prima edizione del romanzo. Oggi il grande vecchio, la cui vita è stata avventurosa e drammatica (la repressione fascista a Trieste negli anni dell’adolescenza, le battaglie per l’identità, la deportazione nei campi nazisti), non ha perso piglio e freschezza. La città nel golfo è la storia di uno studente sloveno che, l’8 settembre del ’43, getta la divisa da soldato italiano, sfugge ai tedeschi e trova rifugio sull’altopiano carsico. Attratto da due ragazze diverse, non potrà cedere all’amore, avendo incontrato (tramite la seconda) la Resistenza. «Accanto a lei, pensa Rudi, non ti senti stremato, in preda a una tensione continua come accanto a Vida. Con Majda si costruirebbe una capanna di assi di legno e di lastre catramate, sulla spiaggia, dormirebbe sulle alghe secche, se fosse necessario… Eppure i suoi occhi — scrive Pahor — continuerebbero ad essere così azzurri e lo sarebbero sempre di più». Boris non ha mai smesso di sognare e di lottare.

Corriere 17.12.14
Giustizie a confronto, Stati Uniti e Italia
risponde Sergio Romano


A proposito della sua risposta a un lettore in merito all’appellabilità delle sentenze di primo grado, in cui sottolineava la rarità degli appelli negli Usa e Gran Bretagna (Corriere, 11 dicembre), credo che sia corretto evidenziare quante sentenze di primo grado appellate nel nostro Paese vengono poi smentite in secondo grado. È soprattutto seguendo l’iter processuale di molte di queste che ci si rende conto di giudizi di primo grado emessi un tanto al pezzo: prove non ricercate, esami non fatti, indizi a volte evidenti nemmeno presi in esame, ecc. Basti pensare alla carcerazione preventiva senza che il giudice preposto sia già in possesso di prove inconfutabili per far avviare un processo: prove che generalmente vengono ricercate successivamente. Forse, mi domando ancora una volta, il nostro sistema investigativo e giudiziario andrebbe completamente rivisto. Sarebbe un bel segnale se anche da noi ci fossero pochi appelli.
Giuliano Sassa

Caro Sassa,
Anche se molti magistrati si sentono investiti di una funzione sacerdotale, i sistemi giudiziari sono creazioni storiche, strettamente legate alle opinioni prevalenti e alle esigenze della società in un particolare momento. Negli ultimi decenni, il diritto penale italiano e il suo codice di procedura sono stati complessivamente garantisti: una esigenza che ha avuto l’effetto, tra l’altro, di moltiplicare gli appelli e allungare considerevolmente i tempi della giustizia. Vi sono state critiche, soprattutto là dove questa filosofia sembrava garantire tutele eccessive a danno delle vittime di un reato. Ma la tendenza garantista (che molti chiamano sprezzantemente «buonista») ha finito per prevalere.
Negli Stati Uniti, invece, ha prevalso una tendenza opposta. Quando il tasso di criminalità è andato progressivamente aumentando, soprattutto fra gli anni Sessanta e Ottanta, la società ha chiesto rigore e rapidità. Il sistema si è adeguato in due modi. I legislatori hanno approvato leggi che alzavano i massimi della pena, soprattutto per i reati di droga. I procuratori hanno fatto un uso molto più frequente del patteggiamento. Il risultato di questa combinazione è stato una drastica diminuzione dei processi in cui la decisione dipende dal responso di una giuria popolare.
Un giudice federale dello Stato di New York, Jedd S. Rakoff, ha constatato che nel 2013 il 97% delle azioni penali relative a reati federali sono state affrontate con un patteggiamento, e soltanto il 3% con il giudizio di un tribunale ( New York Review of Books del 20 novembre). Sempre secondo Rakoff, sui due milioni e duecentomila carcerati del sistema penitenziario americano, più di due milioni sarebbero stati condannati dopo un patteggiamento fra il procuratore distrettuale e gli avvocati della difesa. Un risultato positivo? Il giudice Rakoff è convinto che molti imputati accettino il patteggiamento, anche quando non sono colpevoli, perché i procuratori sono spesso in grado di orientare la giuria ed è molto alto il rischio di una pesante condanna difficilmente appellabile. Un esempio: nel 2012 la sentenza in un processo per droga era, mediamente, sedici anni di detenzione; mentre quella patteggiata era di cinque anni e quattro mesi.
Come vede, caro Sassa, i tempi brevi della giustizia americana possono produrre risultati che la giustizia di molti Paesi europei considera, con ragione, ingiusti.

La Stampa TuttoScienze 17.12.14
Trenta milioni di parole che fanno la differenza
di Gabriele Beccaria


Il cervello nasce, ma poi si forma. La sfida è tutta racchiusa nel «dopo». Troppi lo dimenticano e allora l’iniziativa lanciata negli Usa dallo Stato della Georgia e chiamata «Talk with me baby» vuole rimediare. A genitori, medici e infermieri viene insegnato che un neonato - e poi un bebé - non ha solo bisogno di attenzioni, cure e cibo. Oltre al nutrimento classico, ha bisogno di «nutrimento linguistico».
I neuroscienziati della Emory University’s School of Medicine e i ricercatori del Nell Hodgson Woodruff School of Nursing si sono mobilitati per riempire un «gap»sempre più grave. Arrivato all’età decisiva di tre anni, il pargolo di una famiglia affluente ha ascoltato in media 30 milioni di parole più di quelle assorbite dal coetaneo di una famiglia povera. Una differenza crudele, che in molti casi si rivela decisiva per il futuro, scolastico e lavorativo. Chi ha sofferto la «fame da linguaggio» è destinato a un’esistenza più difficile.
Il motivo è contenuto nelle scoperte a ritmo incalzante delle neuroscienze: più precoce e più intensa è l’esposizione all’universo dei vocaboli e delle loro combinazioni e maggiore è lo sviluppo cognitivo. Tutto è coinvolto: dall’attenzione alla memoria , compresa l’evoluzione emotiva. I bambini che hanno la fortuna di crescere blingui, per esempio, hanno perfomance migliori. E lo si vede già al nido, quando li si confronta con i compagni. Ascoltare parole, sforzarsi di costruirle e tentare di assemblare frasi è il carburante che fa accendere i neuroni e li fa scattare per una corsa che non si fermerà. Fino all’ultimo giorno di vita.
Ecco perché gli scienziati hanno ideato una serie di consigli. Semplici e decisivi.Per esempio: è durante i primi 12 mesi che il «nutrimento linguistico» addestra il cervello a riconoscere sfumature e significati ed è quindi fondamentale adottare il «genitorese». Significa parlare lentamente, guidando il proprio figlio all’esplorazione di ciò che osserva. È lui (o lei) a decidere su cosa concentrarsi. In questo caso non contradditelo mai.

La Stampa TuttoScienze 17.12.14
Cervelli da coltivare
Ora le neuroscienze esplorano la genialità
Che cosa accende la “scintilla” decisiva? Ed è possibile educare alla creatività?
di Nicla Panciera


Si racconta che fu grazie alla sua passione per la fotografia che il patologo australiano Robin Warren ebbe l’illuminazione decisiva che gli valse il Nobel. La colorazione con nitrato d’argento delle sezioni istologiche dello stomaco lo portò alla scoperta del batterio Helicobacter Pylori e, in seguito, del ruolo nella gastrite e nell’ulcera, quando ancora si credeva che i batteri non potessero sopravvivere all’acidità.
Un’idea geniale, frutto dell’incontro tra rigore e creatività e che, anche nella scienza, compare d’improvviso, dopo un lungo lavoro. Oggi molti team di neuroscienziati sono all’opera per studiare i meccanismi segreti della creatività e d’altra parte sono i ricercatori i primi che potranno beneficiare delle nuove scoperte su come far scattare la «scintilla»: la medicina, in particolare, ha bisogno non solo di fondi e laboratori d’avanguardia, ma di cervelli sempre più sofisticati che affrontino sfide gigantesche, dalla lotta ai tumori a quella contro le malattie neurodegenerative, due emergenze del XXI secolo.
Reti neurali diverse
Che cosa c’è di così speciale nella struttura dei cervelli creativi per antonomasia, come quelli di van Gogh, Mozart o Einstein? La rocambolesca vicenda dell’encefalo del genio della fisica e padre della Relatività - oggi conservato al National Museum of Health and Medicine di Chicago - è degna di un thriller, ma neppure lo studio di quella celeberrima materia grigia ha dato, almeno al momento, risposte definitive. Ma, intanto, i progressi delle neuroscienze ci sono. Per esempio quelli sulle funzioni dell’ammasso di neuroni che portiamo con noi.
Si è scoperto, per esempio, che le aree coinvolte nei processi creativi differiscono, anche perché sono specifiche per le diverse espressioni e, quindi, nel caso dei tre geni, pittoriche, musicali o scientifiche. In ogni fase dei processi creativi, poi, si è osservato come entrino in gioco reti neurali di volta in volta differenti, con processi cognitivi che, spesso, non raggiungono nemmeno il livello della coscienza. E infatti, secondo il neuropsicologo Rex Jung dell’Università del New Mexico, se si vuole uscire dagli schemi di ragionamento stereotipati ed elaborare nuove idee, realizzando il «pensiero laterale» di cui tanto si parla, bisogna lasciare la mente libera di vagare: è fondamentale inibire la rete neurale dell’attenzione esecutiva, all’opera quando si è concentrati su un compito specifico. Solo così si può tentare di entrare nello «stato di grazia»: si annulla la distanza tra noi e la realtà, si «spegne» l’attività cosciente e possono scattare i lampi di genio.
Nella mente, però, il lavorio è frenetico: tutto viene passato in rassegna. «E’ come se l’inconscio cognitivo operasse una selezione naturale, attingendo alle nostre risorse fatte di idee, memorie, esperienze, ed è esattamente per questa ragione che l’intero nostro bagaglio di vita è fondamentale nella risoluzione di problemi anche molto specifici, che sembrano lontanissimi dagli eventi quotidiani», spiega Alberto Oliverio, professore di psicobiologia all’Università La Sapienza di Roma. Questa condizione, chiamata anche di flusso creativo, «è simile alla trance proprio per il coinvolgimento di aree sottocorticali, come i gangli della base, che lasciano che il processo si svolga al di sotto del livello della coscienza», dice Oliverio. E, infatti, la psichiatra Kay Redfield Jamison della Johns Hopkins University di Baltimora ha creduto di individuare il segreto della creatività (e del legame con la follia) nella dopamina, il neurotrasmettitore fondamentale nel funzionamento di alcune aree sottocorticali. E’ stato poi il neurologo francese Pierre Pollak del Centro Ospedaliero Universitario di Grenoble ad aver notato che una stimolazione elettrica dei gangli della base e che le alterazioni della dopamina possono portare a radicali modifiche della personalità, come la perdita della creatività in artisti già famosi.
«Publish or perish»
E gli scienziati? Spiega Oliverio che, «se non esiste una formula magica, c’è però bisogno di un ambiente non dogmatico. I “dissidenti”, quelli che evidenziano problemi e criticità, non vanno messi sbrigativamente a tacere: le loro idee, impraticabili oggi, potrebbero essere utili domani». Ecco perché - secondo i critici - l’attuale politica europea della ricerca, concentrata sui finanziamenti a progetti che devono risolvere problemi specifici (e «pratici») costituisce un vincolo. «Una strategia finalizzata non è sbagliata. È però sbagliato cancellare tutte le iniziative che sembrano non avere ricadute immediate».
Resta il problema che lo spazio per l’originalità - e per una possibile scoperta - arriva a volte troppo tardi: la vita di un ricercatore è fin da subito schiacciata dall’imperativo «publish or perish», «pubblica o muori»: ciò significa, spesso, una crescita esponenziale delle pubblicazioni, che globalmente si trasforma in un aumento del «rumore di fondo scientifico». Tanta ridondanza, segnata da basse dosi di innovazione. «D’altra parte ci si deve liberare anche dell’idea ottocentesca del genio che sa fare tutto - ammonisce Oliverio -: la ricerca è un lavoro di team, dove c’è spazio sia per l’invenzione geniale sia per certosini miglioramenti».
L’esplorazione di questo universo mentale è appena iniziata. Ma - concordano gli studiosi - alimentare la creatività richiederà molte risorse. E diverse tra loro. Già sui banchi di scuola e nelle università, prima di vedere le vere «scintille» nei laboratori.

Repubblica 17.12.14
L’amore di Chateaubriand e di altri filosofi del passato per una religione “estetica” tramonta nella nostra epoca
di Vito Mancuso


QUALI sono gli argomenti che inducono a ritenere vero un enunciato? Il fatto che corrisponda all’effettivo stato delle cose, è la risposta che sorge spontanea nella mente. Se infatti posso verificare la corrispondenza tra l’enunciato (sta piovendo) e la realtà (la pioggia che scende) sono indubbiamente in presenza di un enunciato vero. È la classica definizione di verità come adeguazione tra realtà e mente, adaequatio rei et intellectus, che da Aristotele passa a Tommaso d’Aquino e a tutta la tradizione occidentale. Di essa il cristianesimo fece largamente uso nel passato per presentarsi come verità definitiva.
Il cristianesimo è la verità, si sosteneva, perché la Bibbia e il Magistero della Chiesa dicono come stanno realmente le cose sull’origine del mondo, l’esistenza di Dio, la comparsa dell’uomo, la natura dell’anima, e tutte le altre questioni capitali della vita; né si tralasciava di sottolineare che gli eventi narrati o predetti nella Bibbia, dall’arca di Noè sino all’imminente fine del mondo, hanno avuto o avranno presto puntuale conferma nella realtà effettiva delle cose. Il progresso della conoscenza umana ha vanificato tale impostazione perché ha fatto emergere in modo inconfutabile la non corrispondenza tra non poche affermazioni bibliche e la realtà, si pensi per esempio all’origine del mondo. Se a ciò si aggiunge l’evoluzione della coscienza morale e il superamento del principio di autorità (secondo cui un enunciato è vero per l’autorità di chi lo sostiene) si comprende quanto le tradizionali apologie cristiane siano divenute armi spuntate e il cristianesimo bisognoso di rifondazione.
È quanto già intuiva il nobile controrivoluzionario François-René de Chateaubriand (1768-1848) rifugiatosi a Londra per evitare la ghigliottina durante gli anni del Terrore e fervente cattolico. Una volta tornato in Francia a seguito della restaurazione, l’intuizione lo condusse a pubblicare nel 1802 Genio del cristianesimo , opera oggi riproposta nei Millenni Einaudi con un’edizione a cura di Mario Richter. La novità del libro è tutta nel titolo completo : Genio del cristianesimo ovvero bellezze della religione cristiana . Mentre per secoli al fine di mostrare la fondatezza della fede cristiana l’apologetica aveva insistito sulla verità del cristianesimo, con Chateaubriand per la prima volta ci si basa sulla bellezza, sostenendo che il cristianesimo viene direttamente da Dio, e quindi è la verità, per la sua capacità di produrre bellezza.
Si tratta di una tesi fondata? Nella sua impostazione di fondo sì, anche l’epistemologia contemporanea afferma che tra i criteri di veridicità di una teoria scientifica, oltre a semplicità, capacità di predire e potere unificante, vi è appunto eleganza o bellezza. E per molti secoli il cristianesimo ha saputo produrre bellezza e ha avuto potere unificante sulle vite degli uomini. Si pensi ai capolavori dell’architettura che sono le chiese romaniche e le cattedrali gotiche; si pensi alle icone bizantine, a Cimabue, Giotto, Beato Angelico, Simone Martini, Piero della Francesca, Michelangelo e persino Caravaggio che senza il cristianesimo sarebbero impensabili; si pensi alla più alta creazione poetica della nostra letteratura, la Commedia di Dante; si pensi allo splendore del canto gregoriano. Si pensi alle molte altre creazioni di cui testimoniano le nostre città e i nostri più piccoli paesi, e le si accosti alle forme di vita concreta che il cristianesimo del passato sapeva produrre in quanto dotato di forte potere unificante sul caos dell’esistenza: eremiti del deserto, benedettini, cluniacensi, cistercensi, camaldolesi, cassinesi, vallombrosani, olivetani, certosini, trappisti, francescani, domenicani, trinitari, mercedari, serviti, agostiniani e molti altri, per non dire della galassia ancora più estesa della vita religiosa femminile. Anche da questo appariva che il cristianesimo era vero, per la sua capacità di generazione di molteplici forme di vita.
Ma oggi quale salute gode l’intuizione di Chateaubriand di legare la verità del cristianesimo alla bellezza? A livello teoretico sono due i principali teologi che si sono fatti carico di approfondirla, lo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1991) con l’opera in sette volumi Gloria. Un’estetica teologica , e il tedesco Christoph Theobald, nato nel 1946, con l’opera in due volumi Il cristianesimo come stile . Ma quando è in gioco la verità nella sua capacità estetica, ben prima di concetti che parlano alla mente, si parla di forme che incantano i sensi, di colori, suoni, architetture e si parla di vite concrete così affascinate dal messaggio cristiano da lasciare ogni altra cosa. E da questo punto di vista credo si debba rilevare una preoccupante insufficienza del cristianesimo contemporaneo. L’ingresso in una qualunque delle nostre chiese raramente genera nell’anima un’esperienza di bellezza, tanto più durante le funzioni liturgiche, quando le musiche e le voci sono spesso approssimative e dilettantistiche, mentre la nuova architettura sacra spesso propone edifici freddi e intellettualistici, e la pittura si rifugia in una pedissequa ripetizione delle icone. Le diverse forme di vita religiosa dal canto loro languono per un’assenza di vocazioni che quasi ne preannuncia l’estinzione.
Tutto ciò porta il cristianesimo contemporaneo a vivere tra due estremi: da un lato un tradizionalismo cupo e insicuro che sa solo riprodurre gusti e parole di un mondo che non c’è più, dall’altro un’affannosa rincorsa alle tendenze dell’oggi che quasi non sa più distinguere la canzone tra amici dalla cantata sacra a gloria di Dio, un edificio sacro da uno comune, una vita consacrata con il suo abito distintivo da un’esistenza del tutto laica.
Al fondo è la stessa idea di apologetica a mostrare tutta la sua fragilità e con ciò si ripropone con urgenza la domanda su quanto induce la mente a ritenere vero il cristianesimo, o qualsiasi altra religione: quali sono gli argomenti che inducono a ritenere vero un sistema di enunciati che intende abbracciare niente di meno che il senso del mondo e presentarsi come verità? Crollata l’idea di una dimostrazione razionale della verità cristiana, anche la capacità di generare bellezza non potrà mai essere inquadrata in un sistema di pensiero, tanto più se esso è funzionale al potere politico e religioso, come l’opera di Chateaubriand era funzionale alla restaurazione e all’alleanza trono-altare. Ne viene che non c’è e non ci sarà mai nessuna garanzia per la fede cristiana di potersi dimostrare come “verità”, a dispetto del dogma, e del conseguente anatema per chi lo nega, dichiarati dal Vaticano I. Rimane solo la vita dei testimoni sinceri, alieni da ogni logica di potere, a costituire il punto di appoggio: sono essi il vero “genio del cristianesimo”, solo da essi potrà scaturire quell’umile bellezza, per nulla geniale ma direi austera nella sua semplicità, già all’origine delle beatitudini evangeliche e del Cantico delle creature di Francesco d’Assisi.

Dalla pittura alla poesia, la fede ha ispirato per secoli l’arte. Oggi prevale lo stile piatto Non solo teologia, anche la scienza difende nelle sue teorie un’idea di eleganza
L’AUTORE François- René de Chateaubrian d (1768-1848) è l’autore di Genio del cristianesimo

martedì 16 dicembre 2014

Corriere 16.12.14
L’istinto primordiale che va controllato
di Dacia Maraini


Una donna strangola il figlio e subito dopo se ne dimentica, anzi rimuove come direbbe Freud, l’atto compiuto dalle sue stesse mani. Sprofonda in una specie di oblio di sopravvivenza, cancellando la memoria di un delitto che sorprende prima di tutto chi l’ha compiuto. Si è parlato di malvagità. Ma cos’è la malvagità? Un dato del carattere che si eredita coi geni? O non piuttosto il prodotto di una storia di vita vissuta male e senza regole interiori? E cosa sono le regole interiori se non lo sviluppo guidato dell’immaginazione, la sola capace di farci capire il dolore altrui? Potremmo perfino dire che stiamo assistendo al rigurgito della antichissima cultura del possesso, che ha radici profonde nella storia del mondo. Per una donna non civilizzata, la prima e inalienabile proprietà sono i figli e per questo li considera cosa propria, di cui disporre. Per gli uomini non civilizzati, si tratta della famiglia, cominciando dalle mogli o compagne.  Questo conferma l’idea che, per impostare dei rapporti umani di convivenza pacifica non si può che lavorare sulla sublimazione degli istinti primordiali e sull’accettazione di regole severe contro tutte le forme di sopraffazione e sfruttamento del più forte contro il più debole. Non pretendiamo di essere superiori agli animali grazie ai nostri speciali rapporti col cielo? Non pretendiamo di governare il mondo grazie alla nostra capacità di costruire strumenti e conoscenze che ci aiutano a formare una società evoluta?  Le donne sono forse più buone per natura? O perché hanno imparato, o dovuto imparare, a sublimare, reprimere e controllare la propria violenza, che quando scappa fuori, nonostante tutto, può rivelarsi terribile, come dimostrano le Medee di tutti i tempi?
Nella mancanza di regole interiori, che storicamente venivano imposte dalla religione e dalle ideologie, nella confusione e nella frammentazione di ogni idea di bene e di male, assistiamo alla fuoriuscita di rigurgiti di antiche culture basate sui più brutali e feroci rapporti di forza. E uno dei concetti chiave di questi rigurgiti culturali è la difesa del sentimento primario, brutale e animalesco di proprietà — ti amo e quindi sei mio o sei mia —: la difesa immediata e violenta del piccolo campo sentimentale e carnale che si considera parte della nostra identità. Se tu ti sottrai al mio possesso, diventi un nemico, e io mi sento legittimato a ucciderti. Non potrebbero essere spiegati così i tanti troppi delitti contro le donne e i bambini?

il Fatto 16.12.14
Visite di Stato: Renzi dal papa
Alcol e omissioni (sull’8 per mille)
di Marco Politi


Negli annali vaticani, la visita del premier al pontefice rimarrà più per la burinata dei fiaschi portati in dono che per la profondità del messaggio. Presentare al Papa, peraltro astemio, una cassetta di vini è come portare un nocino alla regina Elisabetta o grappa al re dell’Arabia saudita.
Puro folclore.
Folcloristico invece non è il silenzio di Matteo Renzi nel palazzo apostolico sull’unico tema che tocca da vicino il bilancio nazionale e che per una volta non avrebbe scaricato le esigenze di risparmio sulle spalle dei più deboli (lavoratori dipendenti, casalinghe e pensionati) e dei servizi essenziale della sanità e dell’istruzione. Il giovane premier, così intento a progettare grandi riforme, aveva ricevuto dalla Corte dei Conti il cortese invito a ragionare sull’abnorme distorsione dell’attribuzione dell’8 per mille alla Chiesa cattolica e di conseguenza a decidere di attivare la commissione bilaterale governo-Cei per rivedere il meccanismo di assegnazione dei fondi, che porta alla Chiesa oltre un miliardo di euro.
DI QUESTO avrebbe dovuto parlare Renzi con il segretario di Stato cardinale Parolin, preannunciandogli – alla luce del nuovo concordato firmato con la Santa Sede nel 1984
– l’apertura di trattative immediate con la conferenza episcopale italiana.
L’analisi della Corte dei Conti, resa pubblica a novembre, era stata infatti estremamente chiara. Per l’anno 2014 la Chiesa cattolica ha ricevuto un miliardo e 54 milioni di euro. Una cifra da capogiro, specialmente se paragonata alla constatazione che nel 1990 ne prendeva circa 200 milioni (l’equivalente, grosso modo, della cifra in lire stanziata per la congrua ai parroci). Agganciato all’Irpef, l’8 per mille porta nelle casse della Chiesa una somma cinque volte maggiore di quando fu firmato il concordato di Craxi senza che nel frattempo siano quintuplicati i sacerdoti. Anzi, se ne devono importare dall’estero.
Tutte cose che già si sapevano, ma che hanno acquisito nuova autorevolezza per il fatto che è la Corte dei conti a pungolare il governo a intervenire. Sia per la somma dei contributi “tali da non avere riscontro in altre realtà europee”. Sia per la necessità di una generale revisione della spesa. Sia per il meccanismo irrazionale per cui la Chiesa cattolica, ricevendo dai cittadini soltanto il 37,9 per cento delle opzioni, incassa l’82 per cento dei fondi grazie alla ripartizione delle opzioni non espressi (cioè di chi si astiene dal dichiarare una scelta). Meccanismo abnorme inesistente in qualsiasi nazione europea.
C’è da aggiungere che il sistema – ideato a suo tempo da Tremonti – colpisce ulteriormente le altre confessioni, che totalizzano pochi “voti”, mentre la lentezza o la cattiva volontà dei governi nel riconoscere l’8 per mille a ulteriori confessioni fa sì che, per esempio, un milione di fedeli musulmani siano privati degli stessi diritti che spettano a cattolici, valdesi o buddhisti. Si sa che Renzi non ama i cosiddetti organi tecnici, perché sono indipendenti e non possono essere comandati. D’altronde ha buttato nel cestino oltre venti proposte dettagliate di spending review, elaborate da un grande economista come Carlo Cottarelli, perché avrebbe dovuto prendere decisioni nel merito ed è più facile addossare tagli lineari a Regioni e Comuni, levandosi da ogni responsabilità personale.
NON MERAVIGLIA, dunque, il suo silenzio sull’argomento dinanzi alle autorità ecclesiastiche. Meglio parlare al Papa dei disegnini dei figli o abbandonarsi in un “clima sereno e cordiale” a pensose riflessioni sull’occupazione giovanile, che ahimè soffre di “conseguenze negative” e sull’“importanza dell’educazione per promuovere il futuro delle nuove generazioni”.
Riflessioni a costo gratis.
Se, invece, il premier volesse imparare qualcosa dalla Germania, potrebbe portare in Parlamento una legge facile facile, che subordini il pagamento di fondi pubblici per qualsiasi ente (Cei o diocesi) alla pubblicazione del bilancio completo: inclusi beni patrimoniali e immobiliari. Si scoprirebbe d’incanto che la riforma dell’8 per mille non farebbe male a nessuno e anche le scuole cattoliche potrebbero attingere ai patrimoni ecclesiastici invece di gravare con continue richieste su un bilancio statale allo stremo.
En passant il premier potrebbe anche rivedere la normativa piena di scappatoie, che riduce sistematicamente la tassabilità dei beni ecclesiastici. Ma forse è chiedere troppo a chi fa il don Rodrigo con gli operai e il don Abbondio con i potenti.

il Fatto 16.12.14
Le coop bianche, il patto e la telefonata a Bergoglio
Il nome dell’Arciconfraternita nell’inchiesta sul mondo di mezzo
L’affare in via del Conservatorio
L’uomo in alto! e gli interessi di Odevaine
di Paola Zanca


Sa perché c’è questo profumo di incenso? Dobbiamo coprire l’odore di cibo, tre ore fa qui c’erano i senzatetto a mangiare. E anche questo, lo dobbiamo a Tiziano e Francesco”. Basilica di Sant’Eustachio, Roma. Don Pietro Sigurani cammina per la navata e si sgola per difendere Tiziano Zuccolo e Francesco Ferrara, due nomi citati tante volte, forse troppe, nell’inchiesta sul Mondo di Mezzo. Sono i reggenti dell’Arciconfraternita del Ss. Sacramento e di San Trifone, il braccio bianco del sistema dell’accoglienza nella Capitale. Quelli che con il “rosso” Salvatore Buzzi hanno stretto un accordo “ferreo”: un patto “50 e 50”, dice il re delle coop di ex detenuti, che non viene “mai tradito” e “nun se move d'un millimetro”.
PER CAPIRE come la Chiesa cattolica abbia incrociato la strada della Cupola romana, bisogna tornare a metà degli anni 90. Nella parrocchia della Chiesa della Natività di via Gallia, don Pietro Sigurani – “l’imam cattolico” lo chiamano, perché da una vita si dà da fare per gli immigrati – ha vicino due ragazzi, particolarmente svegli. Sono Tiziano e Francesco, all’epoca 25enni. Don Pietro li arruola nell’Arciconfraternita che monsignor Luigi Moretti, segretario generale del cardinale Camillo Ruini, gli ha chiesto di rimettere in piedi dopo anni di inattività. Zuccolo è “camerlengo”, ovvero tesoriere. Ferrara è presidente e lo è rimasto fino a tre mesi fa. In pochi anni diventano una potenza. Hanno la sala operativa sociale del Comune di Roma, il centro Enea, lo sportello di accoglienza dei rifugiati a Fiumicino, si occupano dell’emergenza freddo e dei senza casa: il business delle coop di Buzzi, che non a caso vengono ribattezzate “la risposta sovietica all’Arciconfraternita”.
Non godono di buona stampa, Zuccolo e Ferrara. Chi ha lavorato con loro li ricorda come spregiudicati nella gestione dei centri e gerarchi nei confronti di chiunque segnalasse qualcosa che non andava. E pure per il Vicariato, Zuccolo e Ferrara, sono due intrusi che hanno “sfruttato il nome dell’Arciconfraternita” per dar vita a una serie di cooperative (la Domus Caritatis su tutte) che nulla hanno a che vedere con la “connotazione spirituale” originaria: “Nel 2010 mandammo la prima visita canonica”. Fu allora, spiega un comunicato ufficiale del cardinale Agostino Vallini, che si “chiese all’Arciconfraternita di astenersi dal concorrere a bandi pubblici oltre quelli già in essere”. Poi altre due visite, l’ultima nel 2013, e la decisione di chiudere tutto. Giurano che anche monsignor Moretti e don Pietro “hanno preso le distanze da quei due”. Solo che si sono dimenticati di avvertirli: “Cosa? – sbotta don Pietro – Per me Tiziano e Francesco sono due bravissime persone”. E attacca frontalmente il cardinale Vallini: “Fa Ponzio Pilato, se ne lava le mani: ci hanno fatto fare le cose più rischiose , quelle che nessuno voleva fare. I progetti senza coperture, quelli con i soggetti più difficili. E pure l’ispezione... c’erano appunti sui contratti di lavoro, ma per il resto erano solo lodi!”. Effettivamente, Zuccolo è ancora presidente del Centro Culturale Giovanni XXIII. E né lui né Ferrara sono indagati.
EPPURE suona strana la familiarità dei due con la banda di Carminati. Zuccolo ha un rapporto strettissimo con Buzzi (“Dividiamo da buoni fratelli, ok?”, gli dice). Via Collazia, già sede di una delle coop di Zuccolo, è luogo di incontri: l’8 febbraio 2013 anche una Mini guidata da Massimo Carminati si ferma davanti al civico 2/F. Zuccolo poi è in estrema confidenza con Luca Odevaine, l’uomo che si occupava dello smistamento degli sbarchi in Sicilia. A un certo punto il sodalizio sembra incrinato perché, secondo l’ex collaboratore di Veltroni, i due “sono rozzi”: “Francesco (Ferrara, ndr) risponde “ah che ti frega tanto sto Cardinale ora se ne va in pensione, ci mettiamo un altro che diciamo noi!”. Ma “loro – sostiene Odevaine – finché c’era Ruini c’avevano questo rapporto stretto, facevano come gli pareva, adesso non è proprio più così”. Eppure, nonostante le maldicenze, è a Odevaine che Zuccolo confida i dettagli di un possibile grosso affare. C’è da ristrutturare un enorme complesso in via del Conservatorio, l’idea è farne una residenza per preti in pensione. Odevaine vuole che i lavori siano affidati alla ditta del costruttore Pulcini. Ma parte di quella struttura è del Vaticano. Per questo serve “un passaggio alto, molto alto, ma proprio alto”. È Papa Francesco in persona, racconta oggi don Pietro Sigurani: “L'idea era mia – dice - ma come potete vedere poi non se ne fece niente”. Quello di don Pietro era “un grande progetto per i parroci che tanto hanno dato alle loro comunità”. Ma Zuccolo all’epoca rassicurava Odevaine, che forse in testa aveva altro: “Più in alto di lì non si arriva di più, cioè finiamo proprio totalmente”. Odevaine scherzava: “La trinità”. E Zuccolo non poteva che confermare: “Si, proprio così, proprio lì, arriviamo lì, proprio dov'è possibile, dove c’è ancora l’essere umano”.

il Fatto 16.12.14
L’ultima mangiatoia: Olimpiadi 2024
Renzi, 10 miliardi per i giochi. Le mafie già si allenano
Lanciata la candidatura per Roma 2024 per ripulire l’immagine dell’Italia devastata da corruzione e malaffare. Ma tra costi giganteschi e bande fameliche – dall’Expo a Carminati & c. – rischiamo il record olimpico di mazzette
di Carlo Tecce


RENZI VUOLE PORTARE A ROMA I GIOCHI PER FAR DIMENTICARE MAFIA CAPITALE. UN PROGETTO DA 9,8 MILIARDI SCARTATO DA MONTI. ALLEANZA CON IL PRESIDENTE DEL CONI MALAGÒ, PENSANDO ANCHE AL CAMPIDOGLIO

Quindici giorni fa, la retata per Mafia Capitale. Adesso, la candidatura per la Capitale olimpica. Questa è Roma, che aspira al 2024 con i Cinque Cerchi per scordare er Cecato Carminati. Non c’è evento più scintillante (e dispendioso) delle Olimpiadi, peste che da Oslo in Norvegia a Monaco di Baviera terrorizza i governanti. La coppia, Giovanni Malagò e Matteo Renzi, non è meno scintillante e non sarà meno dispendiosa per le casse pubbliche. Il capo del Coni garantisce trasparenza, teorizza investimenti privati: auspici, nulla più. Perché Roma sarà premiata o esclusa tra un paio di anni, settembre
2017. Ma soltanto per far sentire il nome di Roma al Comitato Olimpico Internazionale, prima di consegnare un progetto con i disegnini che spesso in Italia si traducono in cantieri immortali, occorrono una decina di milioni di euro (2 li mette il Cio). Verrà un gruppo per la promozione di Roma 2024 e ci sarà il consulente Andrea Guerra, Malagò a capotavola. Perché Malagò è l’uomo sportivo, di larghe relazioni e di smisurate ambizioni, che affascina e conforta Renzi. Per qualsiasi esigenza. Elezioni anticipate a Roma? Malagò non va preparato, è sempre pronto. Effusioni mediatiche di ottimismo? Viva le Olimpiadi di Malagò. E poi Renzi, il fiorentino, propone le gare itineranti, a Firenze ovvio, a Napoli come no, pure in Sardegna per la vela e forse a Milano per il Duomo e perché escludere Torino che Piero Fassino già s’infervora? Pare che persino il Vaticano sia disponibile a ospitare il tiro al volo nei santi giardini.
Quel che va scrutato, quel che resta di concreto, oggi, sono le fotografie di grandi intese e grandi sorrisi tra lo scalpitante Malagò, lo speranzoso Renzi e il riabilitato Ignazio Marino, il sindaco che in questi giorni ha sprigionato indignazione per le malefatte romane e ora rievoca con orgoglio rionale la storia millenaria di questa città. E come sottovalutare i miliardi: sei o sette o fino a dieci. Chissà. Ma esiste uno studio, firmato dal professor Marco Fortis, che valutava in 9,8 miliardi di euro il conto per Roma2020, una bizzarra proposta in piena recessione di Gianni Alemanno e di Silvio Berlusconi, ancora a Palazzo Chigi, cestinata con un glaciale comunicato da Mario Monti. Il traguardo 2024 non è lontano, di più. Ma l’Italia, stavolta, ha battuto la concorrenza, tra francesi e tedeschi che tentennano e gli Stati Uniti che nicchiano.
IL CIO SARÀ grato a Renzi, non sapeva davvero come perpetuare questa diabolica macchina mangia-soldi che ha devastato aree urbane e diffuso sprechi ovunque. Neanche dieci giorni fa, il Cio s’è riunito a Montecarlo per stravolgere le regole e rendere più commestibile l’organizzazione dei giochi olimpici. Malagò e Renzi, furbi, erano già d’accordo, e sono scattati come da agenda. La tenzone Olimpiadi sì e Olimpiadi no, Olimpiadi banchetto per le mafie e Olimpiadi opportunità nazionale, che ci viene somministrata ai tempi di Carminati&Buzzi, ha curiose origini fiorentine. E ci conduce a Eugenio Giani, consigliere regionale toscano, un quarto di secolo a Palazzo Vecchio. Giani racconta al Fatto che i delegati provinciali (che rappresentava) furono determinanti per la sorprendente elezione di Malagò contro Raffaele Pagnozzi. Anche per rendere omaggio a Giani, che dirige il Coni fiorentino, Malagò andò agli Uffizi per un convegno assieme a Renzi. Aprile 2013. E capita, perché capita in politica, fu folgorazione. Malagò disse che “la voglia di cambiamento”, classica espressione renziana, Matteo la poteva replicare al governo. Da poche ore insediato, e siamo alle Olimpiadi invernali di Sochi, febbraio di quest’anno, il primo ministro Renzi telefonò a Malagò per i rituali complimenti. E così pensarono di trasferire a Palazzo Chigi le passerelle del Coni, che mai fanno male. Il genio di Malagò e Renzi ha prodotto il presidente con la racchetta da tennis, con la maglia da pallavolo, con la sciabola, col ciclista Vincenzo Nibali. Con cadenza mensile, Malagò va a Palazzo Chigi e accompagna un campione italiano. Quando Carlo Tavecchio scivolò col razzismo di “Optì Pobà” che sbarca in Italia con le banane e poi correva temerario verso la Figc (ci è riuscito), Renzi disse che per il calcio s’affidava a Malagò. Per le Olimpiadi, anche. E la politica vien da sé.

Repubblica 16.12.14
Perché no
Da Montreal ad Atene quasi tutte le città hanno speso cifre enormi e fuori budget L’esempio virtuoso di Torino non sarebbe tanto riproducibile proprio perché l’evento estivo impegna molte più risorse
Un disastro annunciato che affosserà i bilanci
di Federico Fubini


SEDICI anni fa, un ministro del Tesoro chiamato Carlo Azeglio Ciampi firmò un impegno a nome dell’Italia: avrebbe coperto spese fino a due miliardi di euro (in denaro attuale) per una città che si candidava alle Olimpiadi d’inverno. Torino. E quando i delegati del comitato promotore andarono in Australia per farsi conoscere, si resero conto che mancava un tassello: dovettero stampare nuove brochure, con inclusa una mappa d’Europa nella quale Torino era chiaramente situata rispetto a Roma, Milano, Parigi.
Quella città candidata andava rimessa sulla carta del mondo, perché ne era sparita dopo i lunghi anni di crisi della Fiat. Non c’è dubbio che questa sia un’assonanza con la proposta di Roma per le Olimpiadi estive 2024, avanzata dopo sei anni di recessione italiana, ma i parallelismi finiscono qui. Non solo perché a Roma si possono rimproverare molti difetti, ma non di non essere già sulla carta. In realtà anche la scienza triste, l’economia, fa sorgere dubbi sulla praticabilità della candidatura di un Paese che oggi ha un debito al 130% del Pil: sei volte più alto rispetto a quando ospitò le prime Olimpiadi romane nel 1960.
I conti sono sotto gli occhi di tutti. Le Olimpiadi d’inverno di Torino alla fine sono costate 5 miliardi di euro, per metà coperti da denaro pubblico, mentre per quelle estive il successore di Ciampi, Pier Carse, lo Padoan, dovrebbe sottoscrivere una garanzia di copertura fra le tre e le dieci volte superiore. Un “pagherò” (se vince Roma) che va dai sei ai venti miliardi di euro e va firmato non fra dieci anni ma fra dieci mesi, quando le proposte andranno depositate.
I Giochi estivi più economici ed efficienti della storia recente, Londra 2012, sono costati circa 160 euro in media per ogni suddito di Sua Maestà, 12 miliardi di euro di denaro pubblico, e restano un raro esempio di gestione oculata. Per molti altri eventi del genere, secondo le stime del National Geographic , le previsioni iniziali di spesa sono state regolarmente sfondate: a Pechino 2008 del 4%, ad Atene 2004 del 60%, a Sydney 2000 del 90%, ad Atlanta del 147% e a Barcellona 1992 del 417%. Montreal 1976 ha impiegato tre decenni a rientrare dai costi.
A Roma, dove la società di trasporto pubblico locale ha chiuso senza perdite un solo bilancio negli ultimi 11 anni, come finirebbe? Se la storia dell’Expo di Milano 2015 insegna qualcosa, finirebbe in senso opposto a Atene, Atlanta, Sydney, o agli sprechi dei mondiali di calcio Italia ‘90. Invece di pagare troppo, per mancanza di risorse Roma rischia di poter spendere molto meno di quanto previsto e di quanto necessario. All’Expo di Milano sta già succedendo, con la Regione e il governo che gareggiano nel trattenere e negare i finanziamenti, mentre l’evento promette di essere meno ricco e attraente del previsto.
Ma, appunto, questa è solo scienza triste. John Maynard Keynes diceva che sarebbe «splendido» se gli economisti riuscissero a essere «umili e competenti come dei dentisti», perché non lo sono. Ma anche altri aspetti della vita di una nazione permettono di dubitare della praticabilità di una candidatura di Roma. Il governo la presenta mentre fa i conti con sconvolgenti casi di corruzione emersi quasi ovunque ci siano lavori pubblici, anche di consistenza minima. I miliardi del Mose di Venezia, i commissariamenti decisi per alcune delle grandi imprese dell’Expo, il racket degli appalti che ha trascinato il Comune di Roma al default e poi ha continuato ad infierire. È vero che, come ha ricordato ieri il commissario anti-corruzione Raffaele Cantone, le Olimpiadi di Torino hanno dimostrato che anche in Italia possono svolgersi grandi eventi nella legalità. Ma su questo fronte il Paese ha già fatto abbastanza per essere credibile? Toccherebbe al comitato promotore di Roma 2024 spiegarlo ma, malgrado la svolta pubblica del premier Matteo Renzi, sembra che non sia ancora ben formato né abbia un proprio budget da spendere.
A discolpa di Roma, va detto che non tutto finirebbe lì. Competizioni si terrebbero a Milano, Napoli e a Firenze, per qualche ragione, andrebbe la pallavolo. L’ultima volta che la città ha vinto uno scudetto in questa disciplina correvano gli anni ‘70 e andò alle ragazze dello Scandicci: metafora perfetta del lavoro che resta da fare per tornare credibili. Di solito le Olimpiadi migliori e più fertili di crescita futura sono sempre andate a città risorgenti: Londra dalla grande crisi, Pechino dalla povertà, Barcellona da 40 anni di franchismo. Roma e l’Italia risorgenti non lo sono ancora: se quei soldi ci fossero, dovremmo forse spenderli per ridurre le tasse, cambiare la giustizia, in modo da ridare lavoro stabile agli italiani. Allora saremo pronti a candidarci di nuovo ai Giochi, per festeggiare la nostra rinascita un’estate intera.

La Stampa 16.12.14
La lezione olimpica: investimenti sempre più alti dei ricavi
Londra però fu un’edizione virtuosa. Los Angeles caso ideale
di Alessandro Barbera


Quanto conviene farsi avanti per la organizzazione di una olimpiade? Dove pende la bilancia dei costi e dei benefici? Cosa racconta l’esperienza? È in grado un Paese come l’Italia di farsi carico di un simile evento? Dopo la decisione di Renzi di cambiare verso rispetto a quanto fece appena due anni fa Monti, la domanda merita risposta. Il problema se lo poneva già nel 1911 il Barone de Coubertin: occorre evitare «le spese esagerate, parte delle quali dovuta alla costruzione di edifici peraltro inutili...». A ottobre 2012, a torcia spenta, il governo di Sua Maestà rivendicò il successo della manifestazione di Londra: 8,9 miliardi di euro, 377 milioni in meno di quanto inizialmente preventivato. Quel che Robertson non aggiunse era che nel 2005, quando la Gran Bretagna vinse l’assegnazione dei giochi, la stima era inferiore ad un terzo: 2,37 miliardi di sterline. Secondo uno studio di Bent Flyvbjerg e Allison Stewart della Università di Oxford, lo scarto fu del 101 per cento, più dell’86 per cento di Torino, niente rispetto al buco provocato dalla organizzazione di Atlanta - 147 per cento di maggiori costi - o di Barcellona, dove gli stessi costi sono lievitati del 417 per cento.
2012, impatto positivo
Sempre nel 2005 Pricewaterhousecoopers stimò l’impatto positivo dei giochi in 8,3 miliardi di sterline, circa lo 0,1 per cento dei Pil. La statistica ufficiale sull’andamento del prodotto interno lordo nel terzo trimestre del 2012 raccontò una verità diversa: il balzo fu dell’1,1 per cento. Non solo: secondo alcuni economisti non è nemmeno corretto valutare l’impatto di una olimpiade sull’economia di tutto il Paese. Non è un caso se lo studio del 2005 di Pricewaterhouse spiegava che l’impatto positivo dei giochi sul Pil sarebbe stato concentrato a Londra (5,9 miliardi), nella zona in cui si sarebbero costruite più infrastrutture - l’East End - e solo per 1,9 miliardi nel resto della Gran Bretagna. Con un eccesso di sincerità, il sindaco Ken Livingstone ammise di aver deciso di candidare Londra solo per convincere il governo a stanziare fondi per il risanamento di una delle zone più depresse della città, e che nel frattempo, grazie a quegli investimenti, ha cambiato volto.
Fenomeno Barcellona
La storia delle olimpiadi racconta una verità incontestabile: gli investimenti necessari alla organizzazione sono sempre molto più alti dei ricavi che se ne ottengono. Calcolare i vantaggi è però complesso: i giochi di Barcellona costarono sì tantissimo, il beneficio che ne trasse la città è tuttora altrettanto innegabile. C’è poi una eccezione che conferma la regola ma dimostra la possibilità di fare delle olimpiadi un grande business, ed è il caso di Los Angeles nel 1984. «Quell’edizione - racconta Massimiliano Trovato dell’Istituto Bruno Leoni - fu finanziata fino all’ultimo centesimo da investitori privati e si concluse con un attivo di 250 milioni di dollari». Il successo fu costruito da un manager della lega pro di baseball, Peter Ueberroth, e gli valse il titolo di uomo dell’anno sulla rivista Time. Ueberroth fece essenzialmente tre cose: evitò la costruzione di stadi inutili, utilizzando al meglio quelli che già c’erano. Trattò duramente la cessione dei diritti televisivi alla Abc, che vendette per 225 milioni di dollari (basti dire che otto anni prima, a Montreal, gli stessi diritti erano stati venduti per meno di un decimo). Infine spinse al massimo perché i soldi arrivassero tutti dagli sponsor. Per un Paese ad alto debito come l’Italia una esperienza da studiare e imitare.

il Fatto 16.12.14
Il grande circo
Da Atene a Pechino, i Giochi portano corruzione e sprechi
La crisi della Grecia comincia dalla manifestazione del 2004 e la Cina fatica a gestire l’eredità del 2008
di Luca De Carolis


Una sentina di corruzione e sprechi, e quindi un flop economico da profondo rosso. Quasi ovunque. Cambiano latitudine e annata, ma da decenni Giochi olimpici e tornei sportivi vari sono un pessimo affare per chi li organizza. Pochissime le eccezioni, normali gli sfaceli.
Atene 2004, la porta dell’inferno greco
La Grecia ci puntò tutto. Fece qualsiasi cosa, dentro e fuori le righe, per prendersi i Giochi del 2004. E alla fine Atene riuscì a bruciare all’ultimo metro Roma, dove pure avevano avvistato mogli dei giurati del Cio (il Comitato olimpico internazionale) conborsestipatedidoniin via Condotti. Fu anche un risarcimento, perché le Olimpiadi del 1996 le avevano assegnate ad Atlanta, la città della Coca Cola. Una vittoria riparatoria nel segno di Dora Bakoyannis, prima donna sindaco di Atene, volto del comitato ellenico. Ma per la Grecia è stata la porta per l’inferno. La spesa ufficiale fu di 9 miliardi (il doppio del preventivo iniziale), ma più di un osservatore esterno parla di un costo reale di 20 miliardi. Nell’anno olimpico il rapporto deficit/Pil schizzò al 7,5, e il debito sfondò i 200 miliardi. Con un fiume di tangenti. La Siemens ha ammesso pagamenti in nero per oltre un miliardo. L’azienda tedesca è ripartita costringendo alle dimissioni presidente e ad. La Grecia è rimasta con i bilanci distrutti, la troika e decine di impianti olimpici abbandonati.
Pechino 2008, i lustrini del regime
Il nuovo colosso dell’Asia voleva mostrare i muscoli al mondo, 19 anni dopo il massacro di Tien an men. E allora furono le Olimpiadi di Pechino, i Giochi estivi più costosi della storia con una spesa di 40 miliardi di dollari (32 milioni di euro). Il luogo-simbolo dell’evento cinese fu il nuovo stadio di Pechino, il “Nido d’uccello”: 45 mila tonnellate di metallo che da fuori sembrano un enorme intreccio di rami. Una cattedrale da oltre 300 milioni di euro, presto lasciata in semi-disuso. Per disperazione l’hanno aperta alle manifestazioni straniere (tre edizioni della Supercoppa italiana di calcio). Quanto ai conti, la Cina non ha potuto sorridere. Nel mese delle Olimpiadi (agosto) il governo si attendeva almeno mezzo milione di turisti, ma ne sono arrivati molti meno, nonostante l’abbattimento delle tariffe alberghiere. E il Pil non è volato come nelle annate precedenti.
Vasche e cemento, scandalo a Roma
La fabbrica degli scheletri, di cemento. È l’altra faccia dei Mondiali di nuoto di Roma, dell’estate 2009. Una festa del degrado, con oltre 400 milioni di soldi pubblici buttati e mille fili oscuri dietro agli appalti. L’immagine dello scandalo è la Città dello Sport a Tor Vergata, polo che voleva essere multifunzionale con un palazzetto del nuoto per le gare e un’altra struttura per basket e pallavolo. Ma i mondiali da lì non sono mai passati, perché la Vela disegnata dall’architetto spagnolo Calatrava non è mai stata ultimata. È rimasta un eterno cantiere, che finora si è succhiato 256 milioni. L’assessore all’Urbanistica Caudo vorrebbe trasformarla in una serra per l’università di Tor Vergata, il Codacons ha chiesto di abbatterla. Un altro teatro dell’orrore è il polo natatorio di Valco San Paolo: tre piscine, una palestra e uffici, per un costo di oltre 16 milioni. Fu usato per qualche allenamento. Poi è rimasto abbandonato, con calcinacci che piovono dai soffitti, pavimenti semidivelti e una piscina esterna (sbagliata nelle misure) ridotta a uno stagno. Il presidente del Municipio VIII Andrea Catarci assicura: “Finalmente sono iniziati i lavori per rendere funzionante la struttura, dovrebbero concludersi a giugno”. A margine, processi e inchieste sugli sprechi e sul giro d’affari sulle piscine private, accreditate in tutta fretta per i Mondiali. Nello scorso maggio, la procura di Roma ha disposto il sequestro del Salaria Sport Village, di proprietà dell’imprenditore Diego Anemone. Secondo i pm sarebbe stato “ristrutturato e ampliato con soldi giunti alle imprese di Anemone dopo l’aggiudicazione pilotata degli appalti gestiti dalle strutture dirette da Angelo Balducci”.
Dai Giochi di Putin alle “trattative” arabiche
I Giochi più costosi di sempre portano la firma di Vladimir Putin: 51 miliardi di dollari (circa 41 milioni di euro) per le Olimpiadi invernali di Sochi. Sforzo ignorato dagli appassionati, con il 30 per cento dei biglietti rimasto invenduto e riflessi pressoché nulli sull’economia. Ma Putin voleva il suo giocattolo, e si aspetta molto anche dai Mondiali di calcio in Russia del 2018. Più esotica la meta del 2022, il Qatar. Su entrambe le assegnazioni gravano pesanti sospetti di mazzette. Dopo un’inchiesta, il comitato etico della Fifa ha negato: “Non esiste corruzione, solo dei dubbi”. Ma proprio il capo degli ispettori, Michael Garcia, è convinto che il governo del calcio mondiale abbia fornito una lettura “erronea e incompleta” del rapporto sui sospetti di corruzione. E annuncia ricorso contro l’archiviazione del procedimento.

il Fatto 16.12.14
Tor Sapienza, non solo scontri: l’inchiesta si allarga


ANCORA gli scontri di Tor Sapienza e la necessità di fare chiarezza sui fatti che misero per una settimana a ferro e fuoco un intero quartiere della periferia romana. L’inchiesta su Mafia Capitale riaccende i riflettori sugli incidenti di metà novembre, quando un nutrito gruppo di residenti attaccò il centro di accoglienza per immigrati gestito dalla coop Il Sorriso. All’epoca, si parlò di guerra tra poveri e di razzismo: oggi però quei fatti vanno riletti alla luce del giro di affari gestito dalla banda di Massimo Carminati. Un articolo di ‘Repubblica’ ha raccolto la testimonianza della direttrice del centro di via Morandi, che ha raccontato di ripetute minacce da parte delle coop “concorrenti”.
   Per questo il pm Eugenio Alba-monte, titolare dell’inchiesta sui fatti di Tor Sapienza ha deciso di approfondire queste nuove rivelazioni. Oltre a ricostruire gli scontri tra i romani che chiedevano la chiusura del Centro e le forze di polizia, ora c’è da chiarire anche quale ruolo abbiano avuto Salvatore Buzzi e i suoi sodali in quelle ore.

il Fatto 16.12.14
Mafia capitale, “indagato il direttore del Tempo”


“Apprendo da qualificate fonti giornalistiche di essere indagato per favoreggiamento nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale”. A dare notizia della propria iscrizione nel registro degli indagati nell’ambito dell’operazione “Mondo di mezzo” è lo stesso Gian Marco Chiocci, direttore de Il Tempo. Chiocci è finito al centro delle polemiche dopo un articolo del 12 marzo scorso, con il titolo “Centro rifugiati bloccato dai francesi. Palla al tar”. Nel pezzo si dava conto dell’appalto della prefettura di Roma che era riuscito ad aggiudicarsi la Cooperativa Eriches 29, riconducibile a Salvatore Buzzi, braccio ‘sinistro’ di Carminati. Contro la Eriches 29 fa ricorso al Tar la ricorrente Gepsa e il Tribunale amministrativo ne sospende l’assegnazione. La mattina della pubblicazione, l’autrice dell’articolo contatta Buzzi e quegli sms finiscono agli atti: “Ma andava bene l’articolo, vero?” e Buzzi è entusiasta: “Perfetto, sei bravissima”. Agli atti dell’inchiesta inoltre i Ros riportano anche di un incontro avuto il 14 marzo scorso tra Massimo Carminati e Chiocci nello studio del legale del “Nero”. Circostanza della quale ha dato conto il 6 dicembre scorso lo stesso direttore de Il Tempo quando sul quotidiano aveva scritto del suo incontro con il Cecato sottolineandone la rilevanza giornalistica e spiegando di non averne scritto perchè l’ex Nar non acconsentì alla pubblicazione. “Sono tranquillissimo – continua Chiocci nella nota di ieri – perché questa mia attività di favoreggiamento - evidentemente - consisterebbe, non so in quale modo, nell’esercizio della mia libera attività di giornalista che svolgo allo stesso modo, cioè da persona perbene, da oltre 25 anni. Sono a disposizione degli inquirenti.”

il Fatto 16.12.14
Frase in codice dell’agente Renzi
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, improvvisamente, nel corso della sua irata e vendicativa relazione alla assemblea del Pd, Renzi ha fatto la seguente dichiarazione: “I vent’anni dell’Ulivo sono stati vent’anni sprecati”. Ho cercato tutte le fonti, per essere sicuro. Il segretario del Pd ha detto proprio così. Cerco aiuto per interpretazione.
Sandro

CI PROVO. Prima interpretazione: in spirito di trasparenza, il segretario Pd voleva svelare chi sono stati i 101 che hanno bloccato il voto per Prodi al Quirinale. Sono la parte più salda e fedele del renzismo che voleva onestamente dichiarare il suo orrore per il tentativo, sia pur mite, dell'ulivo prodiano di far fronte alla illegalità berlusconiana. L'impegno di Renzi era di togliere ogni merito e prestigio di fronte alla storia a gruppi e persone che, nel Parlamento e fuori, hanno cercato di salvare la Costituzione di Terracini e Calamandrei dalle “riforme” prima di Forza Italia e del Pdl, poi delle costituzionaliste Boschi e Madia. Seconda interpretazione. Come in tutti i partiti autoritari, anche in quello di Renzi vige la pratica di attribuire colpe gravissime alla opposizione interna. Renzi gode di un’ opposizione troppo piccola per dargli noia, ma troppo espressiva e in contatto con i media per far finta di niente. La strategia di contrasto è dipingerla come una quadra così scriteriata e dannosa da essere persino ulivista, dunque veltroniana e prodiana, dunque il peggior rischio che il partito renziano possa correre. Terza interpretazione: che cosa è il partito renziano? Si chiama ancora Pd, ma con dentro Verdini (che, nel tempo libero dalle indagini che lo riguardano) è il principale consigliere del premier e con l'estroso, misterioso e ripetutamente confermato “patto del Nazareno”. Quel patto, come tutti sanno, è segreto. Ma almeno a una cosa vincola apertamente la controparte ex democratica: screditare ed eliminare Prodi che, dopotutto, è il solo che, invece di celebrare e portarsi a casa il condannato Berlusconi, lo ha sconfitto (sia pure di stretta misura) due volte. Ogni rivalutazione di Prodi è una nuova ferita per Berlusconi che, invece, adesso, in casa ex Pd ci sta benissimo. Ogni insulto a Prodi è un regalo. Facilita il trucco della memoria, favorito così a lungo da media servili: che in questi venti anni l'Ulivo abbia fatto guasti e disastri a cui il buon governo di Berlusconi-Bossi ha posto saggiamente rimedio. Resta il mistero dei sondaggi. Perché, benché così distruttivo e incattivito, Renzi continua a restare in testa? Probabilmente per una ragione che neppure Renzi ha calcolato. Il tono di vendetta lo fa sembrare leader dell'antipolitica e nemico di se stesso. Un percorso strano che, fino a che non si dovrà di nuovo votare, gli porta bene. In seguito Renzi dovrà far sapere se sta con se stesso o contro se stesso.

il Fatto 16.12.14
Con Prodi Renzi minaccia tutti
Incontro di due ore a Palazzo Chigi
Dovesse portarlo al Colle, le elezioni sarebbero a un passo
di Wanda Marra


La carta Romano Prodi è lì, sul tavolo di Matteo Renzi, pronta a essere estratta dal mazzo nella corsa al Quirinale. Nel caso si rivelasse vincente, potrebbe aiutare il premier anche a rovesciarlo, il tavolo. Tecnicamente, a far saltare tutto, dal Patto del Nazareno alla legislatura, e arrivare al voto. Ed è questa la minaccia che adesso Renzi mette sul tavolo: un candidato gradito a molti pezzi del Pd, a Sel, e a parte dei Cinque Stelle, da opporre a chi fa ricatti, da Forza Italia, alla minoranza dem.
Sono da poco passate le 15 e 30 di ieri quando il Professore varca la porta di Palazzo Chigi. Ad aspettarlo c’è il capo del governo. Incontro ufficiale, alla presenza di Graziano Delrio, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che aveva ricevuto in passato il Professore. Matteo e Romano conversano per due ore, davanti a un caffè. Palazzo Chigi fa sapere che hanno parlato di politica internazionale, con particolare riferimento alla situazione in Libia e Ucraina, e di economia europea. Prodi e i suoi, ufficialmente, confermano. L’incontro era fissato da giorni. Da mesi si parla anche di una candidatura del Professore alla guida delle Nazioni Unite. Troppo lontana (nel 2017), e non nella diretta disponibilità dell’Italia, però, per essere considerata come una reale possibilità dallo stesso Professore. All’ordine del giorno il Quirinale c’è. “Non ne hanno parlato”, dicono categorici, quelli, come la deputata Sandra Zampa, che con più convinzione vorrebbero portare l’ex premier al Colle. Ancora: “La situazione è come era prima. Prima era stata avanzata una candidatura? No. E neanche adesso”. In realtà, sia renziani che prodiani, ammettono che il Colle è entrato, eccome, tra i temi in oggetto. Con Renzi che avrebbe chiarito di non essere pregiudizialmente contrario, e Prodi che avrebbe ribadito che il Quirinale non è tra i suoi progetti.
LA CANDIDATURA non è avanzata, ma i prodiani, da Civati a Parisi, la fanno aleggiare da settimane. Senza metterla in campo ufficialmente: la bruciatura per mano dei 101 franchi tiratori di un anno e mezzo fa scotta e l’ex premier non ha intenzione di farsi umiliare un’altra volta. Neanche però di farsi mettere da parte.
L’elezione del nuovo Presidente si profila come un Vietnam dal quale potrebbe essere difficile uscire. Ecco perché i prodiani sono convinti che a un certo punto a Romano di candidarsi al Colle verrà chiesto col cappello in mano. Renzi, poi, sembra non avere ancora in mente una figura precisa. O almeno, non l’ha confessata a nessuno: né ai fedelissimi, né allo stesso Napolitano. Ma non è convinto che il Prof sia la persona giusta. Troppo forte. E poi, non ha gradito l’accusa, più o meno indiretta di essere uno dei traditori. Però, non ci sta neanche a lasciare a Civati & co. l’eredità dell’Ulivo (anche di quell’esperienza i due hanno parlato ieri). E il patto del Nazareno, che è il principale ostacolo a una candidatura del Prof, gode di pessima salute: Berlusconi i suoi non li controlla.
Intanto, il metodo di partenza l’ha spiegato ieri a Porta a Porta Maria Elena Boschi: il Pd sceglie un nome “che poi sottoporrà agli altri partiti”, da Fi a M5S. Con quali possibilità di riuscita? “Io e tutte le persone vicine a Bersani l’abbiamo votato. E sono pronto a rifarlo”, mette un punto fermo Stefano Fassina a Otto e Mezzo. Anche se non tutto il Pd lo farà volentieri. Ma è anche vero che sarebbe difficile affossarlo un’altra volta. I Cinque Stelle poi sono sempre imprevedibili. Variabili. “Però c’è un dato - spiega un renziano della cerchia stretta - se Matteo decide di andare al voto, Prodi potrebbe essere l’uomo giusto per farlo. Anche perché con la sua elezione, Berlusconi romperebbe tutto”. Possibilità concreta, anche se, chi vuole davvero il Professore sul Colle, pensa che alla fine Renzi potrebbe non essere in grado di dettare troppe condizioni. Neanche questa. La Boschi, ieri, lo corteggiava così: “ Io Prodi l’ho votato ma credo non sia giusto tirarlo per la giacchetta, visto che è lui il primo a non volere essere chiamato in causa anche per come è stato trattato l’ultima volta. Quella figuraccia lì non la ripeteremo”. Le grandi manovre aumentano. E il tempo stringe.
OGGI NAPOLITANO farà l’ultimo discorso alle alte cariche dello Stato. Il timing delle dimissioni è chiaro: non lascerà il 31 dicembre, ma dopo il 13 gennaio, data dell’ultimo discorso di Renzi a Strasburgo, come guida del semestre europeo. Il 14, dunque, è il primo giorno da attenzionare. Non si andrà molto più in là. In Parlamento hanno già cerchiato sul calendario la prima votazione per il successore: il 20 gennaio.
Il sogno del premier sarebbe di arrivare con una candidatura blindata. Pensa anche a una grande Assemblea con tutti i dirigenti del Pd per lavorare a un identikit che vada bene a tutti. Ma col voto segreto, si sa, le buone intenzioni e le tele tessute con cura possono trasformarsi in trappole mortali. E i sogni scontrarsi con la dura realtà.

il Fatto 16.12.14
Quel 19 aprile in cui “i 101” demolirono il Prof e Bersani


L’UNICA COSA CERTA è che questa volta Romano Prodi ci andrà con i piedi di piombo. Perché nella corsa per il Quirinale il Professore è rimasto già scottato una volta. La storia dei 101 franchi tiratori che impallinarono l’ex premier il 19 aprile del 2013, infatti, è un marchio sulla pelle che ancora brucia nella recente storia del Pd. Si può dire, senza esagerare, che da quel giorno nulla fu più come prima. Pier Luigi Bersani si dimise; venne rieletto Napolitano che poi diede l’incarico a Enrico Letta; Renzi iniziò la sua scalata verso la segreteria del Pd e Palazzo Chigi. Ma torniamo a quella fatidica giornata. 24 ore prima, alla terza votazione per il capo dello Stato, Franco Marini non ce la fa e si ritira dalla corsa. Al mattino i parlamentari del Pd si riunirono in assemblea al teatro Capranica. E qui il segretario Bersani tirò fuori dal cilindro il nome di Prodi, che i democrats accolsero con un’ovazione. Per il Professore sembrava fatta. E invece, poco dopo, in Parlamento Prodi si fermò a 395 voti sui 504 necessari, con 101 franchi tiratori del Pd. In realtà furono anche di più, tra i 115 e i 120, perché al Prof arrivarono voti anche fuori dal suo schieramento. Una débâcle clamorosa che portò, la sera stessa, Bersani a dimettersi da segretario del partito.
Nei mesi successivi tante sono state le ricostruzioni di una vicenda in cui si sovrapposero almeno tre livelli: chi non voleva Prodi (D’Alema), chi voleva affossare Bersani (Renzi) e chi voleva vendicarsi per la bocciatura di Marini (gli ex Ppi). “Quella mattina stessa (il Prof era a Bamako come inviato dell’Onu, ndr), prima del voto, telefonai a D’Alema e lui mi disse: ‘Benissimo, ma non è così che si arriva a una candidatura condivisa’. In quel momento capii che non sarei mai stato eletto”, ha raccontato poi lo stesso Prodi. Mentre, sul fronte dei 41 renziani, si ricordano le parole su Bersani in una cena da Eataly alla vigilia del voto (“il cavallo ferito va abbattuto”). E siccome due indizi fanno una prova, lo stesso Renzi fu il primo, pochi minuti dopo il voto-killer, a togliere di mezzo il Prof dichiarando alle agenzie: “La sua candidatura non c’è più”.

Repubblica 16.12.14
La bandiera del Professore
Le Camere presentano una singolarità: i gruppi parlamentari non sono affatto lo specchio dell’attuale assetto di potere
di Claudio Tito


LA CORSA al Quirinale è stata da sempre un grande gioco delle parti. In cui le apparenze venivano preservate in virtù di una realtà completamente diversa. L’incontro di ieri tra Matteo Renzi e Romano Prodi sembra rientrare perfettamente in quel canovaccio. La successione di Napolitano non può infatti essere preparata attraverso un incontro sostanzialmente pubblico.
LO SCHEMA effettivo prevede altre procedure. Soprattutto in questo Parlamento. Le attuali Camere presentano una singolarità che in passato non si era mai rivelata con tanta nettezza: i gruppi parlamentari non sono affatto lo specchio dell’attuale assetto di potere. I deputati e i senatori del Pd — il partito di maggioranza relativa — solo in parte sono fedeli alla Segreteria. Sono ancora espressione della gestione Bersani, il leader democratico che ha pilotato la formazione delle liste elettorali nel 2013. Forza Italia, dopo aver subito la scissione dell’Ncd di Alfano, deve fare i conti con una sostanziale balcanizzazione interna. Silvio Berlusconi non è in grado di orientare e guidare tutti i suoi eletti. Basti pensare che persino Raffaele Fitto sostiene di controllarne almeno una quarantina. E anche il Movimento 5Stelle non è granitico come un anno fa. Anzi nel giro di pochi mesi è stato abbandonato da 15 deputati e 7 senatori. Questo è insomma lo specchio di un Parlamento che soprattutto in occasione dei voti a scrutinio segreto mette in evidenza una tendenza anarchica incontrollabile. A maggior ragione quando si eleggerà il capo dello Stato, il probabile epicentro di tutte le vendette.
Proprio per questo il presidente del consiglio ha bisogno di avvicinarsi a quell’appuntamento compiendo una serie di mosse per lo più tattiche. Niente che possa per ora precostituire il disegno finale. Anzi deve dissimularlo. E il colloquio con il leader storico dell’Ulivo è una di queste mosse. Renzi sa che il rancore per la mancata ascesa di Prodi al Quirinale poco meno di due anni fa rappresenta un diaframma palpabile che divide i suoi gruppi. Spera di infrangere quella barriera e tenere unito il Pd. E quindi escludere preventivamente l’uomo che ha portato il centrosinistra per due volte alla vittoria, equivarrebbe a incancrenire i risentimenti che covano in buona parte di quella generazione di dirigenti che ha scommesso nell’Ulivo e che si sente sottostimata dalla nuova leva.
Nello stesso tempo deve dimostrare di muoversi con una relativa autonomia rispetto al patto del Nazareno siglato con l’ex Cavaliere. Segnalare che nessuna strada è esclusa e che non può accettare veti da nessuno. Che anche Prodi, l’arcinemico del capo forzista, può entrare in partita. Il Professore è dunque sceso in campo di fatto, almeno in questa prima frazione del match.
Ma, appunto, per il momento si tratta di un gioco delle parti. In cui tutti ne recitano una fino a quando non si alza l’ultimo sipario. Anche perché persino quando la disciplina dei partiti era decisamente più stringente, questa rappresentazione era comunque composta da due atti: il primo era rivolto a “bruciare” i candidati. Il secondo a coltivarli. Ogni attore ne è consapevole e sa che togliersi o farsi togliere la maschera quasi sempre significa l’eliminazione. Non è un caso che tutti — compreso Prodi — negano di essere candidati. In questa occasione, però, i due piani rischiano di sovrapporsi. La carica di ribellione dentro le formazioni politiche e la dose di antipolitica che accompagnerà la scelta del futuro presidente della Repubblica rende tutto ancora più imprevedibile e sdrucciolevole. Costituiscono due variabili indipendenti capaci di stravolgere qualsiasi tattica.
Ma c’è un punto che sembra incontestabile: l’elezione del capo dello Stato non potrà che passare da una “nomination” del Pd. Del resto sarà un test per la leadership di Renzi. Il premier proverà a far pesare il suo ruolo come se il 40,8% ottenuto alle Europee fosse un dato acquisito anche nelle due Camere. E soprattutto con l’obiettivo di non ritrovarsi sul Colle un uomo in grado di commissariarlo o limitarlo. Negli ultimi venti anni dinanzi ad un sistema politico indebolito, il Quirinale aveva assunto un ruolo di supplenza interventista. Il gioco delle parti, però, a Palazzo Chigi ha esattamente questo limite: il futuro capo dello Stato non potrà assumere ancora quella funzione. Secondo Renzi, il sistema dei partiti si è ricomposto proprio intorno a quel 40,8% conquistato a maggio. Ma gli obiettivi del presidente del consiglio dovranno misurarsi con le condizioni reali. Non sempre tatticamente riconducibili al gioco delle parti.

La Stampa 16.12.14
Bersani al premier: no alle prediche sulla lealtà
E Boschi: i decreti del Jobs Act solo a febbraio
di Carlo Bertini


«Non lo so, non saprei». Scivola via con un sorriso Pierluigi Bersani, sulle scale della facoltà di ingegneria dopo un convegno, di fronte alla domanda da mille punti. Se cioè l’incontro tra Renzi e Prodi possa preludere ad una candidatura del professore al Quirinale. «Intanto sono contento che si siano visti», dice Bersani. Il perché non lo dice l’ex segretario, ma è chiaro che in questa fase di pre-tattica un riavvicinamento del premier al suo candidato preferito non può che fargli piacere. Consapevole che magari Prodi possa essere usato da Renzi come fumo negli occhi di Berlusconi, per sconsigliargli sgambetti di vario tipo. Fatto sta che per il mondo bersaniano il gesto è considerato distensivo. «Pierluigi e Renzi non si sono ancora confrontati, ma ognuno con il suo cerchio stretto ha tracciato un identikit. E solo quando si saranno accordati sul profilo si potrà cominciare a ragionare su un nome», dicono gli uomini dell’ex segretario.
Nel day after del Pd, l’unica partita di cui si parla è quella del Quirinale. «Prodi sarebbe un buon Presidente, una figura autonoma in grado di unire», dice Stefano Fassina. Ma già partono i colpi di avvertimento. «In un partito come il Pd, plurale e senza padroni, la lealtà è la materia prima senza la quale non si va da nessuna parte. Sento in questi giorni e leggo sui giornali di appelli, prediche sulla lealtà. Ma non da tutti i pulpiti - scandisce Bersani - si possono accettare prediche». E se è vero che nella partita per il Quirinale Renzi se la dovrà vedere innanzitutto con il suo predecessore per cercare un’intesa comune da cui partire, certo non troverà un personaggio con la migliore predisposizione nei suoi confronti. Insomma Bersani non solo rovescia sul premier l’accusa di scarsa lealtà, ma dice pure di esser stato trattato ben peggio quando c’era lui al timone. «Io ho fatto il segretario e so cosa vuol dire minoranza, so cosa vuol dire opposizione». Ma prima della partita a scacchi sul Colle sono tante le occasioni per fare sgambetti. L’ingorgo in Parlamento è intensissimo: a gennaio se alla vigilia di Natale sarà approvato in commissione, andrà in aula l’Italicum. E dopo aver dovuto trangugiare una riforma del Senato indigesta, che andrà in aula alla Camera dopo le feste, la minoranza Pd vorrà pure scandagliare uno ad uno i decreti attuativi del jobs act. Sarà per questo che la Boschi si tiene prudente sui tempi in cui vedrà la luce la riforma cruciale di Renzi. Ieri ha detto che i primi decreti attuativi entreranno in vigore a febbraio, un mese oltre la scadenza preannunciata dal premier. Entro dicembre il governo li presenterà, ma poi dovrà far visionare alle Commissioni Lavoro di Damiano e Sacconi tutti i testi. E potrebbe non essere un passaggio indolore...
«Non lo so, non saprei». Scivola via con un sorriso Pierluigi Bersani, sulle scale della facoltà di ingegneria dopo un convegno, di fronte alla domanda da mille punti. Se cioè l’incontro tra Renzi e Prodi possa preludere ad una candidatura del professore al Quirinale. «Intanto sono contento che si siano visti», dice Bersani. Il perché non lo dice l’ex segretario, ma è chiaro che in questa fase di pre-tattica un riavvicinamento del premier al suo candidato preferito non può che fargli piacere. Consapevole che magari Prodi possa essere usato da Renzi come fumo negli occhi di Berlusconi, per sconsigliargli sgambetti di vario tipo. Fatto sta che per il mondo bersaniano il gesto è considerato distensivo. «Pierluigi e Renzi non si sono ancora confrontati, ma ognuno con il suo cerchio stretto ha tracciato un identikit. E solo quando si saranno accordati sul profilo si potrà cominciare a ragionare su un nome», dicono gli uomini dell’ex segretario.
Nel day after del Pd, l’unica partita di cui si parla è quella del Quirinale. «Prodi sarebbe un buon Presidente, una figura autonoma in grado di unire», dice Stefano Fassina. Ma già partono i colpi di avvertimento. «In un partito come il Pd, plurale e senza padroni, la lealtà è la materia prima senza la quale non si va da nessuna parte. Sento in questi giorni e leggo sui giornali di appelli, prediche sulla lealtà. Ma non da tutti i pulpiti - scandisce Bersani - si possono accettare prediche». E se è vero che nella partita per il Quirinale Renzi se la dovrà vedere innanzitutto con il suo predecessore per cercare un’intesa comune da cui partire, certo non troverà un personaggio con la migliore predisposizione nei suoi confronti. Insomma Bersani non solo rovescia sul premier l’accusa di scarsa lealtà, ma dice pure di esser stato trattato ben peggio quando c’era lui al timone. «Io ho fatto il segretario e so cosa vuol dire minoranza, so cosa vuol dire opposizione». Ma prima della partita a scacchi sul Colle sono tante le occasioni per fare sgambetti. L’ingorgo in Parlamento è intensissimo: a gennaio se alla vigilia di Natale sarà approvato in commissione, andrà in aula l’Italicum. E dopo aver dovuto trangugiare una riforma del Senato indigesta, che andrà in aula alla Camera dopo le feste, la minoranza Pd vorrà pure scandagliare uno ad uno i decreti attuativi del jobs act. Sarà per questo che la Boschi si tiene prudente sui tempi in cui vedrà la luce la riforma cruciale di Renzi. Ieri ha detto che i primi decreti attuativi entreranno in vigore a febbraio, un mese oltre la scadenza preannunciata dal premier. Entro dicembre il governo li presenterà, ma poi dovrà far visionare alle Commissioni Lavoro di Damiano e Sacconi tutti i testi. E potrebbe non essere un passaggio indolore...


Repubblica 16.12.14
“Non è Matteo che può chiedere lealtà”
Bersani critico con il premier: non si possono accettare prediche da ogni pulpito. Ma sul rischio di franchi tiratori nella corsa per il Colle rassicura: “Gli auguro di trovarne tanti come me”. Riforme, la minoranza Pd darà battaglia
Il patto del Nazareno non è obbligatorio ma ampiamente facoltativo, anche per i numeri
Il Pd deve essere senza padroni Con una politica di sola comunicazione sbandiamo
di Giovanna Casadio


ROMA «La lealtà al governo è fuori discussione». Pierluigi Bersani parla di lealtà, come ha già fatto Renzi nell’Assemblea dem di domenica. L’ex segretario non c’era; colpa di un mal di schiena. Ma torna ieri da Piacenza a Roma per la presentazione del libro di Luigi Agostini (“Ripensare la sinistra”) e non risparmia critiche al premier. A cominciare dalla battuta sulla lealtà, appunto: «Non da tutti i pulpiti si possono accettare prediche... il Pd deve essere un partito organizzato e plurale, senza padroni». È la prima stoccata. Ed è anche il segnale che la tregua natalizia che ha concluso la riunione del “parlamentino” democratico, è in realtà assai fragile. La sinistra dem non s’arrende.
Basta vedere gli emendamenti all’Italicum, la nuova legge elettorale, presentati dai bersaniani al Senato. C’è quello contro i capilista bloccati, sottoscritto da una trentina di senatori dem e l’altro - primo firmatario Miguel Gotor, a seguire altre 33 firme, praticamente un terzo del gruppo del Pd - che prevede il sistema per quote, cioè il 25% di candidature bloccate e il restante 75% con le preferenze. «Ma non facciamo per favore psicodrammi sulle minoranze... », esorta Bersani e ricorda l’episodio che ha portato i dem sull’orlo della rottura, perché in commissione alla Camera la sinistra del partito aveva votato contro i 5 senatori nominati dal capo dello Stato. «Cos’è, li vogliamo ammazzare? Nei paesi democratici le Costituzioni non le fa il governo. Di riforme ce n’è da fare, nessuno frena ma bisogna migliorarle dove si può. Il Patto del Nazareno con Berlusconi non è obbligatorio, ma ampiamente facoltativo anche per i numeri». Ecco quindi che sul nuovo Senato e sulla legge elettorale la battaglia della minoranza dem è solo all’inizio, Renzi lo sappia. «L’Ulivo ad esempio, ha fatto il Mattarellum che è meglio del Porcellum e, secondo me, un filino meglio dell’Italicum », ricorda Bersani.
Anche questa è la risposta alle critiche mosse da Renzi alle troppe nostalgie uliviste, che hanno però dimenticato la palude in cui il centrosinistra si mise. Bersani non ci sta. «Siamo tutti figli dell’Ulivo, tutti quanti anche Renzi lo è. L’Ulivo ha avuto la magia di mettere insieme diverse culture riformiste nel reciproco rispetto e dignità, non dividendo tra innovatori e cavernicoli ». Un’altra frecciata a Renzi. Un appello affinché il Pd sia un partito di sinistra, figlio appunto dell’Ulivo e della distinzione tra il berlusconismo che ha imperato per oltre dieci anni e i tentativi prodiani di cambiare il paese. L’ex segretario del Pd - che del governo Prodi fu ministro - ricorda le “lenzuolate”, le sue riforme di politica industriale. Non gli piace il “grillismo” del premier che fa di tutta l’erba un fascio. Del resto Pro- di ha incontrato Renzi a Palazzo Chigi. «Bene, così il premier avrà avuto una visione più vera sugli ultimi 20 anni», ironizza il bersaniano Alfredo D’Attorre.
Ma è la partita intorno al Colle, per la successione a Napolitano, che quell’incontro apre. Al Pd spetterà indicare un nome, utilizzando il “metodo Ciampi”: è la riflessione di Bersani. Ai cronisti che gli chiedono cosa deve fare Renzi per evitare i 101 “franchi tiratori” che impallinarono Prodi, Bersani risponde con una battuta: «Renzi trovi parecchi Bersani in giro». Trovi, in pratica, dirittura di comportamento. Sul Quirinale però non si sbilancia: «Mi fa molto piacere, davvero che si siano incontrati. Non chiedete a me se possa correre di nuovo Prodi per il Colle», si sottrae.
La controffensiva dell’ex segretario comunque è a 360 gradi. La politica non può ridursi a semplice comunicazione, deve essere altro. Insiste sull’autonomia e la necessità di guardarsi in faccia: «Bisogna essere un collettivo. Chiedo troppo?». Racconta di quando disse a Giuliano Ferrara che un partito non può essere liquido: «Se è liquido, facciamoci una bella bevuta e non se ne parli più...». Replica a stretto giro del ministro Maria Elena Boschi: «Sì, serve confrontarsi, ma anche comunicare bene, mentre il Pd precedente considerava di destra la comunicazione ».

Repubblica 16.12.14
Legge elettorale, domani vertice dei Dem Boschi: Mattarellum ipotesi di passaggio


ROMA «L’ipotesi del Mattarellum è in campo perché ci si sta chiedendo quale può essere una legge elettorale di passaggio». Maria Elena Boschi non scarta l’ipotesi di usare la vecchia legge elettorale come clausola di salvaguardia nelle more dell’approvazione della riforma costituzionale che inizia oggi il suo iter in aula alla Camera. «Ma sono dell’idea che convenga aspettare la nuova legge elettorale perché non si voterà fino al 2018», spiega il ministro. L’Italicum sembra avere un iter complicato al Senato, dove ieri è iniziata in commissione la discussione sui 18 mila emendamenti. E fra questi uno del Pd che indica il Mattarellum come clausola di salvaguardia. Il rischio di impasse è alto e anche per questo domani mattina Renzi incontrerà il gruppo del Pd. Per superare lo scoglio degli emendamenti il testo potrebbe arrivare in aula prima di Natale senza avere concluso l’esame in commissione. Ma restano i nodi politici. E proprio oggi verrà votato un nuovo ordine del giorno Calderoli sulla “clausola di salvaguardia” e uno di Sel che propone di usare il Consultellum.

Corriere 16.12.14
Chi vuole il voto anticipato
di Antonio Polito


Non ha certo la potenza mediatica del «Che fai, mi cacci?» urlato da Fini in faccia a Berlusconi. Però anche il «Se vuoi il voto, dillo» con cui Stefano Fassina ha apostrofato Renzi durante l’assemblea pd un posticino nella storia potrebbe conquistarselo. La sua originalità sta nel fatto che, a parti rovesciate, poche ore prima era stato Delrio, cioè Renzi, a rivolgere la stessa accusa alla minoranza pd, cioè a Fassina, sospettata di aver ordito un agguato parlamentare al governo. Cosicché ora due cose sono chiare: c’è qualcuno che vuole andare al voto, anche se non si sa chi, e quel qualcuno sta nel Pd.
Già questa è un’anomalia non da poco. Da che mondo è mondo è l’opposizione che vuole votare e il governo che vuole durare. Nell’Italia del 2015 avremo invece un’opposizione terrorizzata dal voto anticipato (che lo ammetta, come Forza Italia, o che lo nasconda, come il M5S). E un governo tentato dall’avventura elettorale: quasi come se, una volta esauriti tutti gli annunci possibili, non restasse che annunciare le urne.
Naturalmente le elezioni sono, se non l’igiene, l’alimento della democrazia. Guai a demonizzarle. Ancora oggi si discute del resto se sia stato meglio per l’Italia evitarle nel 2011, quando al culmine della crisi finanziaria collassò il governo Berlusconi. Però un’elezione all’anno non è sintomo di salute, casomai di asfissia.
Anche ammesso che ci fosse una legge elettorale, che fosse costituzionale, e che valesse per entrambe le Camere, il vincitore dovrebbe comunque ricominciare daccapo a fare le stesse cose che ha annunciato, per di più buttando ciò che già è stato fatto in materia di riforme istituzionali. In assenza delle quali avrebbe un Parlamento forse più docile ma non più produttivo, e certamente non migliore.
Questo vizietto antico della politica italiana di giocare perennemente alle elezioni, di riempire con l’attesa delle urne il vuoto dell’azione, di promettere messianicamente ciò che non si riesce a realizzare, sembra poi oggi del tutto inconsapevole della gravità estrema della situazione europea in generale e di quella italiana in particolare. Il semplice evocare il rischio di elezioni in Grecia (anche lì, manco a farlo apposta, c’entra l’elezione del presidente della Repubblica), ha subito riacceso i timori di una tempesta sull’euro capace di spezzare la moneta unica. Un ritorno all’instabilità politica del Paese con più di duemila miliardi di debito potrebbe sollevare uno tsunami, e costarci il ritiro del credito che è stato concesso a Renzi proprio perché sembrava in grado di tenerne il timone.
Già oggi l’Italia è un caso in Europa. I governi ci considerano una variabile indipendente che può far pendere da una parte o dall’altra la sorte dell’unione monetaria. La Bundesbank può usarci come pretesto per fermare le misure non convenzionali che prepara la Bce di Draghi.
I lavoratori belgi scioperavano ieri contro i tagli anti-deficit accusando l’Europa di aver usato due pesi e due misure con italiani e francesi.
Giocare con le elezioni è dunque, almeno in questa fase, giocare col fuoco. E il gioco non varrebbe la candela. Confermerebbe anzi tutti i dubbi sull’Italia proprio quando più abbiamo bisogno di ispirare fiducia. Speriamo che nel Pd lo capiscano, e si mettano a litigare su altro.

Corriere 16.12.14
Il governatore della Toscana
Rossi ai dissidenti: «Stare con Matteo è di sinistra Dopo c’è la troika»
intervista di Virginia Piccolillo


È berlingueriano, criticava Renzi, ma ora non sta con i dissidenti. Enrico Rossi, come fa?
«Ho un’età in cui è già molto essere se stessi».
Essere di sinistra conta?
«Sì. Se cade questo governo dopo c’è la troika e la rovina per i ceti più deboli. Per questo Renzi è molto di sinistra».
C’è chi nel Pd pensa il contrario.
«Non è che appoggiare Monti fosse una scelta molto più di sinistra».
Invece sospettano che lei ora sia per Renzi perché la ricandida governatore in Toscana senza primarie.
«Ma non è così. Chiunque si può presentare».
Però nessuno lo sta facendo.
«Io c’ho un po’ da fare a pensare per me. Non sta a me sfidare me stesso».
Ma il premier le ha dato un assist.
«Sì, e ho apprezzato. Ma come candidato naturale, pur nelle differenze».
Lei non soffre per il Jobs act?
«Aspetto i decreti delegati. La sinistra ha reagito sfidando Renzi sull’articolo 18. Ma non mi sembra dirimente».
Piuttosto?
«Continuo a domandarmi perché non si riesce a introdurre il salario minino».
Lo ha chiesto a Renzi?
«Non ne abbiamo parlato. Ma non è che condivido tutto quello che fa. Come l’attacco di petto ai sindacati».
Ha ricevuto accuse di collaborazionismo?
«Eh, sì. Ma io non voglio il Paese commissariato. Renzi ha il diritto e direi il dovere di provare a governare con il sostegno del suo partito».
Fin dove si può spingere? Al patto rivelato da Berlusconi sul dopo-Napolitano?
«Renzi ha smentito e replicato bene dicendo che il Quirinale si può votare a maggioranza, senza Forza Italia. Napolitano non era frutto di larghe intese ma ha garantito tutti».
L’incontro con Prodi a cosa è servito?
«Mi pare un bel segnale».
E se Berlusconi dicesse la verità ?
«Non credo. Renzi è sufficientemente scaltro».
Non soffre a non stare con i suoi storici «compagni»?
«D’Alema e Bersani? Li ascolto sempre volentieri ma alla fine le cose devono essere decise».
Lo dice anche Renzi. Sbaglia chi lo critica?
«Anch’io l’ho criticato, ma altro sono i vizi parlamentari. Come il trabocchetto dei 101 nelle elezioni per il presidente della Repubblica. Non ci si può permettere di ripetere la stessa scena».
Si sente coerente?
«Certo. Ho la coerenza di uomo di sinistra di governo».

Repubblica 16.12.14
Unoi Tsipras per l’Italia
di Luciano Gallino


TRA coloro che hanno partecipato alle dimostrazioni per lo sciopero di venerdì 12 dicembre si contano forse numerosi elettori potenziali per lo sviluppo di una nuova ampia formazione politica, in grado di opporsi alle catastrofiche politiche di austerità imposte da Bruxelles e supinamente applicate dal nostro governo. Non si tratta di fare un esercizio astratto sul futuro del nostro sistema politico. Se una simile forza di opposizione non si sviluppa, quello che ci attende è un ulteriore degrado dell’economia e del tessuto sociale, seguito da rivolte popolari dagli esiti imprevedibili. Il governo è seduto su un vulcano, e intanto gioca a far “riforme” che peggiorano la situazione.
Chi volesse porre mano alla costruzione della nuova formazione politica potrebbe trarre indicazioni utili da quanto accade in Grecia e in Spagna. Sono due casi diversi. Nel primo siamo dinanzi a una “Coalizione della Sinistra Radicale” (acronimo Syriza) nata dieci anni fa e guidata dal 2007 da Alexis Tsipras dopo il primo grande successo elettorale. Nel 2012 è diventata il secondo partito greco. Al presente i sondaggi lo danno come il probabile vincitore delle prossime elezioni, nel caso che il governo Samaras non riesca a eleggere il presidente della Repubblica.
Syriza non vuole affatto distruggere la Ue. Vuole cambiarla. Il suo successo è dipeso da una radicale opposizione ai provvedimenti imposti dalla troika con il Memorandum d’Intesa del 2011, che ha obbligato la Grecia a tagliare pesantemente salari, stipendi e pensioni; a distruggere la sanità pubblica; a vendere ai privati beni pubblici essenziali, facendo piombare l’intero Paese nella miseria e nella disperazione. Tra i punti principali del programma di Syriza, oltre ad annullare i provvedimenti che s’è detto, v’è la proposta di una conferenza internazionale sul debito pubblico, allo scopo di ottenere che gli interessi dei cittadini non siano perennemente subordinati, come avviene ora, agli interessi delle grandi banche. Si vuole altresì richiedere alla Ue di cambiare il ruolo della Bce in modo che finanzi direttamente investimenti pubblici, e di indire una serie di referendum su vari punti dei trattati dell’Unione e altri accordi con le istituzioni europee.
Diversamente da Syriza, in Spagna “Podemos” sembra per così dire nato dal nulla. Fondato nel gennaio 2014 da una trentina di persone provenienti da diversi partiti, intellettuali, esponenti di movimenti, coordinate dal trentenne Pablo Iglesias Turrión, appena quattro mesi dopo raccoglie abbastanza voti da mandare a Strasburgo cinque eurodeputati. Al presente viene accreditato di oltre il 27 per cento dei voti, quasi due punti in più dei socialisti e ben 7 in più rispetto ai popolari. Ancor più di Syriza, il programma di Podemos è fortemente caratterizzato da proposte volte a modificare gli aspetti più deleteri del Trattato Ue. Tra i punti salienti del suo programma troviamo: la conversione della Bce in una istituzione democratica che abbia per scopo principale lo sviluppo economico degli stati membri (punto 1.3); la creazione di una agenzia pubblica europea di valutazione (1.4); una deroga dal Trattato di Lisbona.
Nell’insieme, i due programmi di Syriza e di Podemos appaiono essere più solidamente social-democratici, concreti e adeguati alla situazione attuale della Ue e alle sue cause di quanto qualsiasi altro partito europeo abbia finora saputo esprimere. Non per nulla i due partiti sono già oggetto di un furibondo bombardamento denigratorio da parte dei media, della troika, dei think tanks sovvenzionati dal mondo finanziario, e dei politici incapaci di pensare che al di là dell’Europa della finanza si potrebbe costruire un’Europa dei cittadini.
Va ricordato al riguardo che il Trattato Ue non è affatto immodificabile, come a volte si legge. L’art. 48, comma 1, prevede esplicitamente che «I trattati possono essere modificati conformemente a una procedura di revisione ordinaria». Il comma 2 precisa: «Il governo di qualsiasi Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione possono sottoporre al Consiglio progetti intesi a modificare i trattati ». Pertanto la questione, come si diceva una vita fa, è soprattutto politica. Ma nessuno ha mai sentito un solo politico che mostri di avere una conoscenza minimale dei trattati Ue, e ammetta che non sono scolpiti nel granito. In realtà si possono cambiare, ed è indispensabile farlo, a condizione di costruire una forza politica all’altezza del compito.
Al lume delle esperienze di Syriza e Podemos, come si presenta la situazione italiana? Sulle prime si potrebbe pensare che quanto rimane di Sel, di Rifondazione, dei Comunisti Italiani, insieme con qualche transfuga del Pd, potrebbe dar origine a una coalizione simile a quella di Syriza. Purtroppo la storia della nostra sinistra è costellata da una tal dose di litigiosità, e da un inesausto desiderio di procedere comunque a una scissione anche quando si è rimasti in quattro, da non fare bene sperare sul vigore e la durata della nuova formazione. Si può solo sperare che la drammaticità della situazione spinga in futuro a comportamenti meno miopi, ma per farlo bisogna davvero credere nell’impossibile. In ogni caso non si vede, al momento, da dove potrebbe arrivare la figura di un leader simile a Tsipras o a Turrión, colto, agguerrito sui temi europei, capace di farsi capire e convincere, esponendo al pubblico in modo accessibile dei temi complessi.
Qualcosa di analogo vale naturalmente per chi, scettico sulla possibilità di recuperare i frammenti delle vecchie sinistre, pensasse di costituire una formazione interamente nuova, come han fatto quelli di Podemos in Spagna. Che si sono dimostrati pure efficaci organizzatori, costituendo in pochi mesi centinaia di circoli di discussione in tutto il Paese. Un contributo potrebbe forse venire dalle esperienze di “Cambiare si può” o della stessa Lista Tsipras; non certo finite bene, ma che sono stati episodi di auto-organizzazione di una certa ampiezza. A fronte di un programma realistico, affine a quelli di Podemos e Syriza (con tutte le variazioni del caso), tali esperienze potrebbero trovare un baricentro che ai loro tempi non avevano. Il fatto è che il tempo urge, prima che il Paese caschi a pezzi. Una simile urgenza, che il popolo dello sciopero di venerdì scorso sentiva benissimo, insieme con l’attrattiva di un impegno realistico per ridare peso nella Ue a ideali come eguaglianza, solidarietà, partecipazione democratica, al posto della lugubre e distruttiva Ue della finanza, potrebbero contribuire a raccogliere molti più consensi di quanto oggi non si possa sperare.

Repubblica 16.12.14
Raffaele Cantone
“Mail criptate e anonimato sicuro per chi denuncia la corruzione”
L’appello di Cantone e del direttore delle Entrate “Nuove norme a tutela delle gole profonde”
di Liana Milella


ROMA «Chi vede la corruzione e non la denuncia è anch’egli complice ». Dice così Raffaele Cantone, il presidente dell’Authority anticorruzione, quando spiega che la chiave di volta per prevenire la corruzione sta soprattutto nella denuncia di chi, all’interno della Pubblica amministrazione, ha piena contezza dell’episodio corruttivo e si assume la responsabilità, con la totale garanzia dell’anonimato, di denunciarlo e rivelarne i dettagli che conosce. «È un invito alla collaborazione, non alla delazione, è un invito alla responsabilità » insiste Cantone. È l’atto dell’ormai famoso whistleblowing , letteralmente “soffia il fischietto”, espressione usata in Inghilterra per indicare la gola profonda, la deep throat di statunitense memoria. «Parola di cui, in Italia, non è stata trovata un’adeguata traduzione, e forse non è affatto un caso» chiosa Cantone che, tra L’Aquila e Palermo, affronta ancora una volta il neo purulento della corruzione e delle vie per uscirne il più rapidamente possibile.
Le collaborazioni, dunque. E non è un caso se anche il direttore generale dell’Agenzia delle entrate Rossella Orlandi annuncia all’Aquila che anche nei suoi uffici si lavora a un piano anticorruzione basato sulla collaborazione di chi ha avuto cognizione diretta o indiretta di un fatto anomalo e decide di parlarne. Piano che si avvarrà di un nuovo strumento, una mail criptata con cui il singolo dipendente potrà rivelare di essere stato testimone di una corruzione, cui egli è estraneo, che è pronto a raccontare. A disposizione del dipendente non ci sarà solo la mail, ma anche un gruppo di ascolto ad hoc, che però garantirà la sua privacy, quindi il suo posto di lavoro e la possibilità di continuare a convivere nello stesso ambiente in cui insistono le persone che egli ha denunciato. Orlandi ha invitato i colleghi a farsi avanti e ha ricordato che ci sono già meccanismi — il licenziamento senza attendere la condanna penale, la dichiarazione patrimoniale da parte dei dirigenti, la rotazione degli incarichi ogni 3-5 anni — che vanno nella direzione della trasparenza.
Cantone poi può essere l’interlocutore e il destinatario diretto di chiunque, all’interno della pubblica amministrazione, decida di raccontare una corruzione di cui è stato involontario testimone. Il decreto Madia, che ha pianificato anche i “poteri” dell’Authority anticorruzione, ha stabilito che l’ufficio di Cantone può essere il destinatario di queste confessioni. Cantone è convinto che questa presa di coscienza collettiva sia fondamentale. Tant’è che cita le norme esistenti nei paesi stranieri, Usa e Inghilterra per esempio, dove è prevista anche una ricompensa per chi denuncia. Invece in Italia, quando è stata approvata la legge dell’ex Guardasigilli Paola Severino contro la corruzione, la 190 del 2012, è stata prevista la figura del whistlerblower , ma senza dettagliare concretamente gli strumenti adeguati per la sua incolumità complessiva.
Siamo, ovviamente, nel campo della collaborazione. Che può vedere protagonista anche chi non è solo spettatore, ma è penalmente coinvolto nell’episodio corruttivo. Una figura cui destinare un trattamento premiale che già sarebbe dovuto entrare nella manovra anticorruzione del governo Renzi, prevedendo uno sconto di pena della metà per chi passa dalla parte dello Stato. Invece non se n’è fatto più nulla, anche se il responsabile Giustizia del Pd David Ermini e la presidente Pd della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti promettono che la norma entrerà nel corso della discussione alla Camera. Dice Cantone: «Gli sconti a chi collabora a certe condizioni usati in modo simile a quelli previsti per la mafia possono essere utili». Quanto alla vita futura delle norme invita ad attivare «una corsia preferenziale in Parlamento».

Repubblica 16.12.14
Arrestato in Estonia Giulietto Chiesa. La protesta dell’Italia
Crisi diplomatica per il fermo a Tallin dell’ex eurodeputato Convocato l’ambasciatore a Roma. Nella notte il rilascio
di Nicola Lombardozzi


MOSCA Arrestato in perfetto stile sovietico proprio in un Paese dell’Unione europea tra i più schierati contro i metodi della Russia di ieri e di oggi. Giulietto Chiesa, 74 anni, nota firma del giornalismo italiano ed ex eurodeputato, è stato prelevato ieri sera nella sua camera d’albergo nel centro della capitale estone Tallin da una pattuglia di agenti dello speciale servizio di sicurezza del Ministero degli Interni, meglio conosciuto con l’inquietante acronimo di Kapo. Nessuna spiegazione: «Prepari la sua valigia e venga con noi». Chiesa ha potuto solo scambiare due parole al telefono con la moglie (Fiammetta Cucurnia, giornalista di Repubblica) prima di essere rinchiuso in una cella di un commissariato di periferia: «Mi stanno arrestando ma nessuno mi spiega perché». Un agente avrebbe poi fatto capire che a carico di Chiesa ci sarebbe un decreto di espulsione da eseguire entro 48 ore. E infatti nella notte è stato poi rilasciato. Quanto basta per aprire una vera propria crisi diplomatica tra Italia ed Estonia con la convocazione alla Farnesina dell’ambasciatrice estone a Roma, Celia Kuningas. Nel conseguente comunicato del segretario generale Michele Valensise si usano i termini diplomatici di «sorpresa e preoccupazione» ma i toni dell’incontro sarebbero stati ben più duri. E duri sono stati quelli dei socialisti all’Europarlamento («palese violazione dei diritti civili»), mentre dagli uffici dell’Alto commissario Ue Federica Mogherini si fa sapere di aver intrapreso «un’azione incisiva».
Quello che appare inconcepibile è che fino a notte inoltrata nessuno aveva ancora comunicato la motivazione dell’arresto. La motivazione, se c’è, è difficile da rendere pubblica senza un grave imbarazzo per il governo estone. Giulietto Chiesa avrebbe dovuto infatti partecipare da ospite d’onore a una conferenza sul tema “La Russia è nemica dell’Europa?” organizzata dal centro culturale Impressum, gestito da Igor Teterin, esponente della minoranza russa in Estonia. L’arresto ha di fatto cancellato un appuntamento nel quale sarebbero stati affrontati temi non graditi al governo locale. La posizione di Giulietto Chiesa sulla crisi ucraina è ben nota. Veterano dei corrispondenti a Mosca fino ai tempi di Putin, Chiesa ha sempre sostenuto che molte informazioni sulla crisi sono frutto di una manipolazione propagandistica anti-russa. E ha più volte raccontato, spesso anche con prove dettagliate, delle pressioni americane, polacche e delle repubbliche baltiche per strappare l’Ucraina alla storica area di influenza di Mosca. Comprensibile che queste considerazioni siano sgradite a Tallin. Molto meno che in un Paese europeo si arresti un giornalista per impedirgli di esprimere il suo pensiero.
Per far uscire Chiesa dalla cella e fargli dare almeno qualcosa da mangiare c’è voluto l’intervento a muso duro del nostro ambasciatore a Tallin, Marco Clemente. Che ha avviato una trattativa per ottenere la liberazione del giornalista poi avvenuta nella notte.

il Fatto 16.12.14
Pensionati addio, il governo non ha tempo
di Maurizio Chierici


LASCIAMO perdere il ping pong dell’elezioni a primavera: inquieta Berlusconi e le minoranze del Renzi segretario del partito personale. A maggio sarebbero un disastro, 16 milioni di volpi grigie non lo voteranno mai. Pensionati che non sopportano l’indifferenza alle proteste civili di chi sopravvive con l’acqua alla gola. Contabilità che non cambia da un anno all’altro: 9 milioni sbarcano il lunario con meno di 500 euro al mese (60 per cento donne) mentre 7 milioni non arrivano a mille. I tre sindacati raccolgono la disperazione nelle piazze. Quegli 80 euro sognati dalle folle che tirano avanti con 13 euro al giorno, gas, luce, affitto più qualcosa da mettere sotto i denti tanto per stare in piedi. Era il 5 novembre, appuntamento purtroppo sbagliato per gli impegni che travolgevano il capo del governo. La sera prima Ballarò, il mattino dopo a rimboccare i rimproveri di Juncker: “In Europa non vado col cappello in mano… per l’Italia, la sua storia, il suo futuro chiedo rispetto“. Poi di corsa ad Albenga, inaugurazione stabilimento Piaggio. Appuntamenti uno dopo l’altro e sull’angoscia che sfinisce un quarto degli italiani non ha tempo per una parola. I panni sporchi si lavano in casa, ma quando? E quando verranno cancellate le tasse-rapina che sfiniscono i pensionati sotto i 900 euro lordi al mese obbligati al prelievo di 900 euro netti l’anno? In Germania, Francia e Spagna prelievi zero. Senza contare le imposte locali che aggravano la disparità del sistema fiscale di chi vive nella miseria.
QUEL RISPETTO alla storia del Paese si annacqua quando bisogna rispettare la dignità delle persone che hanno animato la nostra vita e ormai sul viale di un tramonto immalinconito dalla povertà affidata al buon cuore del volontariato. Renzi ha un problema che perseguita il suo fare politica: non sopporta il confronto con chi fa domande e aspetta risposte. Si nasconde e rilancia da tribune affettuose con la scioltezza del decisionista che incanta i fedeli della sua Leopolda. Intanto ogni mattina i pensionati si svegliano con le mani vuote; le parole non bastano. Impossibile occuparsene con gli impegni nel mondo che conta. Alla vigilia dello sciopero generale pranzo ufficiale nella Casa Bianca di Erdogan per fare il punto col presidente turco su terrorismo islamico e democrazie minacciate. “È tra i primi leader mondiali a essere ricevuto nella nuova faraonica residenza con mille camere. Solo il papa e Cameron d’Inghilterra prima di lui…“. Chissà se Erdogan gli ha confidato l’arresto dei giornalisti indisciplinati. Il giorno dopo ammorbidisce le immagini Tv, quei disordini della disperazione che ha messo in fila un milione di lavoratori; le ammorbidisce nel quadro rasserenante dell’incontro con Francesco, moglie e ragazzi al seguito, incenso vaticano che allontana l’Italia degli scontenti. Poi l’assemblea del partito, buone notizie sulla buona scuola: sta costruendo la riforma assieme a studenti e insegnanti portatori di una “qualità che non ha confronto in Europa e nel mondo“. Tra le linee guida, risoluzione del precariato. Indaffarato com’è nessuno ha avuto il tempo di informarlo sui professori precari che si agitano a Padova e in altre città: da quando è cominciata la scuola non ricevono stipendio. Succede, devono capire e portare pazienza: in fondo sono solo tre mesi. Intanto i pensionati sempre lì ad aspettare. Prima o poi penserà anche a loro. Non siamo un Paese per vecchi e ogni anno se ne vanno in tanti e i bilanci respirano, ma non può essere la soluzione, ecco perché Renzi dondola incerto sull’allargare gli 80 euro anche a loro. Se mai nel 2015 si vedrà, spese per le olimpiadi permettendo.

Corriere 16.12.14
Scuola senza fondi Il magro Natale dei supplenti brevi


E ci risiamo. Anche quest’anno si prospetta un Natale magro per circa cinquantamila «supplenti brevi» della scuola, quegli insegnanti che hanno lavorato da una settimana a pochi mesi per sostituire colleghi malati e che, a tutt’oggi, non hanno ancora ricevuto uno stipendio. Il governo ha cercato di correre ai ripari, varando venerdì scorso un rifinanziamento del fondo per le supplenze brevi: 64,1 milioni da aggiungere ai settecento «evaporati» entro i primi nove mesi dell’anno. Ma non basta: ne sarebbero serviti novanta. Se va bene, si riusciranno a coprire le buste paga di novembre. E neanche per intero: ma in «proporzione una quota parte delle somme dovute», come si legge nella circolare inviata dal ministero dell’Istruzione ai dirigenti scolastici. Che dovranno — entro domani — capire come e dove tagliare cercando di essere il più possibile corretti e rispettosi del servizio effettuato da ciascun supplente. Parliamo di assegni già magri, che non superano nella maggior parte dei casi i 1.000 euro, e che quindi saranno «in proporzione» decurtati di cifre che vanno dai cento ai duecento euro. Parliamo di docenti precari, più precari dei precari che sperano nell’assunzione promessa dal piano Renzi, che hanno lavorato da settembre ad oggi senza vedere ancora un euro. E che — se va bene — entro la fine dell’anno riusciranno a pagare tutte le tasse. L’ennesimo, piccolo taglio, questo, che colpisce i più deboli.

Corriere 16.12.14
Il giudice intervistato su Berlusconi non violò il riserbo
Il Consiglio superiore assolve Esposito
di A. B.


ROMA Il giudice Antonio Esposito non ha violato il dovere del riserbo per un’intervista concessa prima del deposito delle motivazioni della sentenza in Cassazione del processo Mediaset.
Si è concluso con l’assoluzione, dopo oltre tre ore di camera di consiglio, il procedimento davanti alla commissione disciplinare del Csm a carico del presidente del collegio che in Cassazione ha riconosciuto colpevole di frode fiscale Silvio Berlusconi. Il verdetto di ieri è impugnabile davanti alle Sezioni unite civili della Cassazione.
A far finire Esposito davanti al «tribunale» del Consiglio Superiore della Magistratura, con l’accusa di violazione del riserbo, era stata un’ intervista data a Il Mattino prima del deposito delle motivazioni dal titolo «Berlusconi condannato perché sapeva, non perché non poteva non sapere». Il giudice accusò subito il giornale — contro il quale ha intentato una causa civile — di aver manipolato l’intervista. Una tesi che ha ribadito durante il processo disciplinare spiegando di non aver «mai parlato degli esiti del processo Mediaset», ma che al testo venne aggiunta una domanda su quel procedimento che in realtà non gli era mai stata formulata.
Nella sua autodifesa (che ha occupato anche una parte dell’udienza di ieri) Esposito ha spiegato che, se parlò effettivamente con il giornalista delle ragioni per cui il processo sul Silvio Berlusconi era stato assegnato alla sezione feriale della Cassazione e fissato per il 30 luglio, fu perché ritenne suo «dovere ristabilire la verità», dopo aver subito «il più infame linciaggio mediatico della storia», con l’accusa esplicita di «aver emesso un provvedimento anomalo con lo scopo di colpire Berlusconi».
Esposito ha poi escluso di aver lui stesso sollecitato l’intervista: «Non avevo alcun motivo di farmi pubblicità attraverso un giornale a bassa tiratura, quando il mio nome era apparso su tutti i giornali italiani e stranieri e io avevo rifiutato di dare un’intervista alla Cnn ».
Il rappresentante della procura generale della Cassazione, Ignazio Juan Patrone, che aveva chiesto per Esposito la sanzione della censura, aveva invece sostenuto che il magistrato era comunque venuto meno al dovere del riserbo, «sollecitando lui stesso la pubblicità di notizie sulla propria attività e sul processo appena trattato» e non ancora concluso, visto che non erano state depositate le motivazioni.
Il comportamento di Esposito, aveva sostenuto nella sua requisitoria, è stato «gravemente scorretto» nei confronti dei colleghi del collegio, anche per aver scelto un «canale personale privilegiato» per le sue esternazioni, «senza informare nessuno».
«Nessuno nega che c’erano stati titoli odiosi su alcuni giornali ed erano state fatte considerazioni sgradevoli su Esposito», aveva ammesso Patrone, ma la strada non può essere in questi casi quella dell’autodifesa. Esposito si sarebbe dovuto comportare come hanno fatto «decine di magistrati che, oggetto di accuse gravi, hanno affidato la loro tutela alle sedi deputate, il Csm e l’Associazione nazionale magistrati».

Corriere 16.12.14
Fine del ceto medio, il dramma del pd
di Mauro Magatti


Uno degli effetti che più preoccupano della lunga crisi europea è la progressiva erosione del ceto medio, cioè di quella parte di società che, attraverso il lavoro dipendente e autonomo, ha avuto stabilmente accesso, nei decenni scorsi, a condizioni di benessere materiale e sicurezza esistenziale.
Anche se con intensità diversa, un tale fenomeno si registra un po in tutti i Paesi avanzati: all’aumento della disuguaglianza — fenomeno che inizia già negli Anni 90 — si sommano ormai diversi anni di stagnazione economica. Per l’Italia, basta un dato: oltre ai 10 milioni di persone in povertà relativa oggi si contano oltre sei milioni di poveri assoluti (quasi il 25% della popolazione totale).
Gli effetti sui sistemi democratici sono ben visibili: forte disaffezione politica — con l’aumento del non voto; crescita di partiti che contestano l’intero impianto istituzionale europeo (come nel caso del Front National in Francia e del M5S in Italia); riduzione dello spazio politico per l’alternanza destra-sinistra. Il rischio è l’ulteriore restringimento di questo centro politico. Se ciò accadesse, la democrazia entrerebbe in una fase convulsa e dagli esiti incerti. Si tratta allora di lavorare per invertire il trend , tornando a offrire possibilità di vita e di lavoro a una platea sufficientemente ampia di cittadini.
Se vogliamo riconoscerle nobiltà intellettuale, la discussione di questi mesi all’interno del Pd ruota tutta attorno a questo nodo. Nella diatriba tra la vecchia sinistra e il nuovo partito di Renzi si cela la ricerca di un equilibrio nuovo tra le esigenze della concorrenza e quelle della integrazione sociale. La discussione, tuttavia, appare molto confusa. Da un lato Renzi ha perfettamente ragione quando dice che, in un Paese per molti versi arretrato e diviso tra garantiti e non, ci vuole un mercato del lavoro più moderno (cioè più efficiente). Ma — e qui hanno ragione i suo oppositori — un tale obiettivo non può essere costruito contro il lavoro. Soprattutto oggi, dopo che la progressiva perdita della quota di valore aggiunto distribuita al lavoro (calata negli anni di oltre dieci punti) ha finito per impoverire l’intero Paese.
Che le politiche del passato non funzionino più lo si vede anche in Germania e negli Usa, dove il problema di cui si discute oggi è che la quota di risorse prodotte dall’economia e distribuite nella società rimane troppo bassa. Non solo perché si registrano livelli di concentrazione della ricchezza che non si vedevano dagli Anni 20, ma anche perché la quota di profitti effettivamente reinvestita — a favore della speculazione finanziaria — ha raggiunto ormai percentuali inaccettabili. Per uscire dalla crisi, ciò di cui si è alla ricerca è allora una visione politica nuova, che sia capace di delineare uno scambio più avanzato tra capitale e lavoro. Scambio che nel dopoguerra si era articolato attorno alla logica fordista-welfarista (più salari, più consumi, più protezione sociale). E che nei decenni liberisti ha ruotato attorno al rapporto consumo-indebitamento (pubblico o privato).
Che l’Italia debba modernizzarsi è fuori discussione. Ma si tratta di capire come. E soprattutto in rapporto alle sfide di questo tempo. La sfida della crisi, infatti, è quella di raggiungere una maggiore efficienza sistemica non con meno ma più integrazione sociale. Ciò richiede una politica in grado di spingere interessi divergenti a convenire attorno ad alleanze strategiche in vista del raggiungimento di obiettivi e priorità comuni, allo scopo di ricreare le condizioni per riavviare il processo virtuoso dell’investimento pubblico e privato. In condizioni di ragionevole integrazione sociale.
Sviluppare una tale visione è anche la risposta da dare all’Europa: l’alternativa all’austerità sta infatti in una diversa concezione della crescita che fa della produzione di valore comune — di natura non solo economica ma anche sociale, ambientale, istituzionale — la sua precondizione.
Per un partito come il Pd, al 40% dei consensi, senza una vera alternativa, con un personale giovane, l’ambizione non può che essere quella di essere all’altezza della sfida. Ambizione che certo richiede una discussione. Ma che poi ha bisogno di quella visione e quella decisione che ancora molti faticano a vedere.

Corriere 16.12.14
Un milione alla Fondazione Auschwitz-Birkenau
di A. Bac.

Un milione di euro nel 2015 come contributo alla Fondazione Auschwitz-Birkenau per la costituzione di un fondo perpetuo che consenta il mantenimento dell’intera struttura dell’ex campo di sterminio. Lo ha stanziato il governo italiano con un emendamento alla legge di Stabilità. Il governo polacco dal 2009 aveva chiesto al nostro Paese, quale corresponsabile delle atrocità di Auschwitz, la concessione di un contributo che altri hanno già versato: 60 milioni la Germania, 15 milioni di dollari gli Usa, 15 milioni di euro la Polonia, 5 la Francia, 2 milioni di sterline il Regno Unito. A poco più di due mesi dal 70° anniversario della liberazione del lager da parte dell’Armata Rossa, solo Spagna e Italia mancavano all’appello dei 31 Paesi europei.

Corriere 16.12.14
Risoluzione Onu sulla Palestina, Israele spera nel veto Usa
Kerry non si sbilancia
di Paolo Valentino


Quasi tre ore di colloqui romani tra John Kerry e Benjamin Netanyahu lasciano fluido e per nulla rassicurante il quadro della situazione in Medio-Oriente. Non c’è stata rottura tra il segretario di Stato americano e il premier d’Israele. Ma dall’incontro non sembra emergere una risposta o una linea di condotta comune sul progetto di risoluzione che i palestinesi hanno annunciato di voler presentare già domani al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e che chiede la fine dell’occupazione israeliana nella Cisgiordania, fissando il ritiro di Israele entro due anni nei confini del 1967. Netanyahu ha confermato la linea dura della vigilia, opponendo un netto rifiuto a ogni «diktat» unilaterale e vincolante, che possa in alcun modo compromettere la sicurezza dello Stato ebraico. Ma per gli Stati Uniti, il dilemma è più complicato e ricco di insidie. In primo luogo l’Amministrazione appare meno incline del passato a usare il suo veto al Palazzo di Vetro per bloccare la risoluzione, gesto che potrebbe alienarle alcuni alleati arabi, oggi impegnati al suo fianco nella lotta all’Isis. Di più, Washington non vuol far nulla al momento che possa essere letto come interferenza nella campagna per le elezioni israeliane di marzo. Né l’opzione di un veto americano è immaginabile nei confronti dell’altra risoluzione in gestazione all’Onu, quella proposta dalla Francia, che evoca i confini del 1967 come base per un accordo di pace, ma non citerebbe come precondizione il riconoscimento di Israele come Stato ebraico da parte palestinese. Un veto, in questo caso, creerebbe tensioni con gli alleati europei, che vogliono rilanciare il processo di pace dopo anni di inutili tentativi guidati dagli Usa. Su questo tema l’Amministrazione sarebbe divisa tra la posizione di Kerry, che vorrebbe lasciar fare gli europei e quella di Susan Rice, la consigliera per la Sicurezza nazionale, che chiede più attivismo.
L’unica cosa certa è che lo scopo primario del grand tour diplomatico del segretario di Stato, il quale ieri sera è ripartito per Parigi e oggi sarà a Londra, sia quello di prender tempo, rallentando il ritmo degli eventi possibilmente fino a marzo. A Roma, oltre al presidente del Consiglio Renzi, Kerry aveva incontrato in mattinata il segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Piero Parolin, che ha chiesto agli Usa di «trovare una soluzione umanitaria» per i prigionieri ancora detenuti a Guantanamo.

Repubblica 16.12.14
Kerry-Netanyahu, braccio di ferro sul veto Onu
di Vincenzo Nigro


ROMA. Nel corteo di auto che scortava ieri John Kerry a Roma c’era anche un’ambulanza. Qualcuno da Villa Taverna ha pensato che gli infermieri sarebbero stati utili al culmine delle tre ore di discussione, quando il Segretario di Stato Usa ha detto in faccia al premier di Israele che il mondo e anche l’America stanno cambiando, «uno Stato palestinese è inevitabile e necessario, e voi dovete lavorare per questo ». Nella residenza dell’ambasciatore americano in Italia Kerry aveva convocato il premier di Israele per un’emergenza diplomatica che è esplosa negli ultimi giorni. I palestinesi hanno presentato all’Onu un progetto di risoluzione del Consiglio di Sicurezza che prevede che entro 2 anni, dopo negoziati, Israele ritorni nei confini del 1967 e permetta la nascita di uno stato palestinese. Assieme a questa proposta di risoluzione, la Francia ne ha presentata una seconda assieme a Gran Bretagna e Germania che propone la stessa cosa, utilizzando toni meno militanti.
Il premier israeliano ha chiesto che, come hanno sempre fatto in passato, gli Stati Uniti difendano le posizioni politiche di Israele usando il loro veto: «Ho chiesto al segretario Kerry di bloccare ogni tentativo di imposizione contro di noi». Per la prima volta però Washington non garantisce un veto a scatola chiusa: nel colloquio romano Kerry non ha assicurato a Netanyahu che gli Usa utilizzeranno il loro diritto di veto per bloccare entrambi le risoluzioni, e che anzi stanno già lavorando per modificare quella europea, e che a talune condizioni potrebbero anche votarla.
Un diplomatico che viaggiava con Netanyahu ha detto che «negli ultimi 47 anni gli Stati Uniti hanno sempre bloccato le mosse unilaterali che potessero imporre a Israele di accettare uno stato palestinese entro una certa data, e noi siamo sicuro che lo faranno anche questa volta». Il problema è che questa volta dopo 47 anni lo scenario è cambiato, come secondo un diplomatico europeo Kerry ha spiegato ieri pomeriggio a Netanyahu: innanzitutto c’è la risoluzione europea, proposta da Francia, Gran Bretagna e Germania che porta un peso diverso alla richiesta di creare uno Stato palestinese. «Soprattutto dopo la guerra di Gaza l’Europa ha capito che si deve fare pressioni su Israele», commenta un diplomatico italiano, «e questo mette pressione anche sugli Usa».
Poi — quello che Kerry ha obiettato a Netanyahu — c’è il fatto che entrambi le risoluzioni chiedono che Israele e palestinesi arrivino a un accordo con un negoziato, non con una imposizione. Impongono soltanto 24 mesi di tempo. Incontrando Matteo Renzi a Palazzo Chigi Netanyahu ha ripetuto che «noi non accetteremo i tentativi di imporci misure unilaterali proprio nel momento in cui il terrorismo islamico sta dilagando in tutta la regione ». Ma anche questo collegamento con il terrorismo è stato ribaltato da Kerry: se continuate con l’occupazione dei Territori il terrorismo troverà nuovi adepti, nuove praterie in cui esercitarsi. Per Israele il problema è che i palestinesi stanno trovando alleati importanti (e moderati) attorno alla loro proposta diplomatica: ieri sera, dopo la tappa a Roma, Kerry è volato a Parigi per incontrare i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna: l’americano ha chiesto di sospendere per alcuni giorni la procedura per arrivare a un voto all’Onu a New York. Ma la macchina è in movimento.

La Stampa 16.12.14
Dresda, sfilano gli anti-islam
“Siamo noi i veri tedeschi”
La protesta salda famiglie e lavoratori alle frange estreme dei neonazi
di Tonia Mastrobuoni


Un fischio assordante, poi una voce stridula riempie la piazza. «Ci sono tentativi di infiltrare manifesti anticostituzionali, per favore sorvegliate i vostri vicini». A tre metri dal palco, visibilissimo, un cartello con la scritta «Alibaba e i quaranta spacciatori». Il proprietario, un cinquantenne brizzolato dall’aria pacifica, non accenna ad abbassarlo. Del resto, nessuno ha vietato i manifesti razzisti; solo quelli anticostituzionali. E vai a capire la differenza.
Dalle ultime file parte anche una selva di fischi e un coretto, «Deutschland, Deutschland». Una dozzina di teste rasate applaudono scandendo il ritmo, per fortuna il coro si spegne quasi subito. Quello che contagia invece tutti, ogni volta che qualcuno lo accenna, è «Wir sind das Volk», «Noi siamo il popolo», lo slogan scippato alla rivoluzione pacifica che un quarto di secolo fa portò alla caduta del muro di Berlino.
In piazza molte teste rasate
Nell’autunno dell’89 anche qui a Dresda manifestavano ogni lunedì, come nel resto della Germania comunista, contro il regime di Honecker. E rischiavano il carcere o la vita. Ma in una piazza stracolma di teste rapate, «noi siamo il popolo» ha un suono sinistro. E quello di Pegida, dei «Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente», movimento nato a ottobre nella capitale sassone e divenuto ormai un appuntamento fisso e sempre più popolare anche in altre città della Germania - Duesseldorf, Kassel, Colonia, Ulm - è sempre sul filo dell’equivoco.
La simpatia degli anti-euro
Di più: è proprio nella città simbolo del «mattatoio» di Vonnegut, nella «Firenze sull’Elba» rasa al suolo con furia dalle bombe alleate a febbraio del 1945, che rischia di saldarsi la nuova destra tedesca. Gli anti-euro Afd, passati dalla priorità dell’uscita della moneta unica a quello del freno all’immigrazione, stanno già tentando di mettere il cappello su Pegida. Sono stati i primi, nelle settimane scorse, a mostrare una - cauta - disponibilità al dialogo, con gli anti islamisti. Se il movimento dovesse trovare uno sbocco nel partito di Bernd Lucke, cresciuto anch’esso a dismisura nei consensi fino ad entrare in ben tre assemblee regionali a settembre, con percentuali di voto oltre il 10%, per Angela Merkel sarebbe un bel grattacapo. La cancelliera continua a demonizzare Pegida, anche ieri ha fatto sapere che la Germania «non è un posto per odio e calunnie». Tuttavia, sarà difficile ignorarlo a lungo. Così come per gli Afd sarà difficile mantenere l’ambiguità, sul movimento.
«Siamo di destra»
Eppure, non è che manchino i momenti di verità, in questa piazza. Ad esempio, quando una ragazza poco più che ventenne urla dal palco, «ascoltatemi bene, giornalisti: questa è una piazza di destra» e dalla folla partono un boato e un’ovazione. E poi giù, a sparare parole d’ordine che echeggiano epoche buie, «deutsche Sitte», «usanza tedesca» e tante, troppe volte «Volk», «popolo». Ufficialmente, gli organizzatori della manifestazione di Dresda, cercano in tutti i modi di tenere lontani i neonazisti e gli slogan di estrema destra dal movimento. Sulla pagina Facebook c’è addirittura un omino stilizzato che getta una svastica nel cestino. E nella piazza di Dresda, a stragrande maggioranza maschile e piena di teste rapate, c’è anche tantissima gente comune. Donne, famiglie con bambini, molte coppie di anziani. Uno urla con forte accento sassone «sono fiero di essere tedesco», segue un applauso.
«Pensiamo ai nostri figli»
Horst, tassista 53enne venuto a manifestare con la moglie, spiega la popolarità di Pegida soprattutto nella ex Germania est: «Noi qui accettiamo ancora lavori che i tedeschi dell’ovest non accettano più da un pezzo, per noi gli immigrati dell’Est Europa sono concorrenti veri». Inutile ricordargli i numeri, dirgli che in Sassonia ci sono appena 100mila stranieri, il 2,5% della popolazione - a Berlino il 13,4% degli abitanti ha un passaporto non tedesco, tanto per fare un confronto. O che di quegli stranieri in Sassonia, neanche lo 0,1% sono musulmani. Horst scuote la testa: «Io devo pensare al futuro dei miei figli».
La paura dello straniero
Anche dal palco, uno dei capi del movimento sintetizza il motivo della popolarità di Pegida: «Non siamo un one man show, ma il risultato di anni di errori nelle politiche di immigrazione», strilla. La cosa inquietante, è che i sondaggi sembrano dargli ragione: il 34% dei tedeschi - uno su tre - secondo un’indagine dello Spiegel, pensa che la Germania si stia islamizzando.

Repubblica 16.12.14
Cina
Quei “Nobel” a Putin, Kim e Fidel il mondo capovolto di Pechino
A Castro va il “Confucio”, il dittatore coreano è “Giovane del futuro”: sono i riconoscimenti del 2014
di Giampaolo Visetti


PECHINO I CINESI, anche in un premio, vedono il mondo. Quello che scorgono loro non è ciò che vediamo noi. Interpretazioni dell’universo alla rovescia: o l’Occidente segue un altro film, o nessuno si cura di doppiare la realtà per l’Oriente. Problema: qual è il video giusto? Il 2014 a Pechino si chiude con il botto: premio Confucio a Fidel Castro, uomo dell’anno a Vladimir Putin, giovane del futuro Kim Jong-un. Mosca contraccambia: persona dell’anno Xi Jinping. Gli anni scorsi il copione era risultato ancora più affascinante: “Nobel cinese per la pace” a Yuan Longping, papà del riso ibrido, o a Yi Cheng, maestro zen. Per gli anni incerti, come il 2011, con Vladimir Putin in Asia è come vestire di grigio, non si sbaglia mai. Nell’anno dell’esordio, per oscurare il Nobel di Oslo al dissidente incarcerato Liu Xiaobo, Confucio era stato riabilitato per l’ex vicepresidente amico di Taiwan. Lien Chan, all’oscuro del riconoscimento-lampo, aveva appreso dopo settimane che una bambina misteriosa aveva ritirato il trofeo al posto suo. E pure le copertine, nell’era della «grande espansione culturale cinese », contano. Time incorona Tim Cock, ceo di Apple divenuto simbolo del riscatto gay. Il settimanale del Quotidiano del Popolo replica con il sorriso di Peng Liyuan, prima First Lady rossa dai tempi dell’ultima moglie di Mao. Il made in China della celebrità nega di violare il copyright. Osserva che «ognuno ha i premi che si merita». Icone contemporanee e scelta dei tempi, per il popolo che si consacra all’interpretazione delle sfumature, accendono però la curiosità.
Il premio Confucio al compagno Fidel è stato annunciato da Pechino mentre Malala Yousafzai e Kailash Satyarthi ritiravano il Nobel per la pace a Oslo. Putin è stato eletto uomo dell’anno in Cina negli stessi istanti in cui gli autodefiniti Grandi evitavano di sedersi a tavola con lo zar al G20 di Brisbane. Per il dittatore nordcoreano Kim Jong-un la propaganda cinese non ha risparmiato raffinatezza: incoronato «giovane del futuro» il giorno in cui l’Onu lo mandava a processo per crimini contro l’umanità, lui definiva gli Usa «cannibali» e i militari di Pyongyang mettevano il pianeta di buon umore intimando agli omonimi del capo di trovarsi un altro nome «per rispetto al nostro dio».
L’Occidente sorride, per la Cina è una faccenda seria. I media di Stato spiegano che «lo scrittore e giornalista Fidel Castro» è stato scelto «per aver rinunciato all’uso della forza nelle dispute internazionali, in particolare verso gli Usa». Premi di Pechino contro premi di Washington, mentre il mondo al di là della Grande Muraglia stupisce per le torture della Cia. «Non siamo direttamente coinvolti — dice il ministero degli Esteri — ma plaudiamo alla società civile che opera per la pace nel mondo». Con Vladimir Putin è un’altra storia. Europa e Usa vedono l’invasione dell’Ucraina. La Cina, nel caleidoscopio, coglie la «ricostruzione storica della madrepatria russa »: sogno che condivide pensando a Taiwan e ai mari del Sudest, già consumato con Hong Kong e Macao, in Tibet e nello Xinjiang. L’etichetta «giovane del futuro», appiccicata a Kim Jong-un, tradisce invece il senso cinese per le battute. Premio sì, ma prima monito: i giovani qui sono esclusi dal potere, il futuro resta successivo al presente. È come se in Occidente il Nobel a «una promessa dell’avvenire» fosse assegnato ad Angela Merkel.
Per la Cina del “sogno di Xi” anche la potenza dei premi ha infatti una scadenza. I riflettori atlantici perdono l’aroma, si diffonde il profumo del Pacifico. Chi imporrà, domani, i premi globali? Confucio seppellirà i fratelli Nobel? Xi e Putin, grazie all’energia, quest’anno sono davvero star a Mosca e a Pechino. Vengono osannati mentre «i vecchi Nobel degli altri» sono costretti a riunirsi a Roma perché il sudafricano Zuma ha negato il visto al Dalai Lama. Johannesburg non poteva perdere i contratti del mercato più ricco del mondo e la Cina ora promuove anche papa Francesco. Non ha ricevuto il “traditore separatista”, la diplomazia dei messaggi indica che il disgelo tra Vaticano e Città Proibita può proseguire. Il resto, per il 2014, è lo scontro a distanza tra la First Lady e Mister Apple. Peng Liyuan, snobbata da Michelle Obama, soccorre ora i funzionari rossi, impegnati a oscurare la stella del “signor telefonino”. Lui in Cina produce anche l’ultimo dei tablet. Lei, per il “nuovo Mao”, ha smesso di cantare. Pechino, con il premio anti-Cock, suggerisce che «l’amore conta più dei soldi». Anche gli eredi di Deng sudano. Sanno che il 2015 sarà di Jack Ma, imperatore dell’e-commerce. Sede ad Hangzhou, portafoglio a Wall Street, incoronato ieri «uomo più ricco dell’Asia». Ogni mondo ha il premio che lo specchia.

La Stampa 16.12.14
Da Lutero a Heidegger, le radici filosofiche dell’antisemitismo
di Alessandra Iadicicco


Capita ancora oggi che la filosofia faccia sensazione. Non è la prima volta che attorno a Martin Heidegger si crei lo scandalo. La news sensazionale di quest’anno è la pubblicazione dei suoi Quaderni neri. Che sono usciti la scorsa primavera in Germania in anticipo sui tempi che Heidegger stesso aveva stabilito, prevedendone la pubblicazione a conclusione della sua monumentale opera omnia. E che, con le loro dichiarazioni antisemite, non certo cadute inavvertitamente dalla penna nell’ambito di una scrittura privata, ma profondamente incardinate nel sistema del pensiero dell’essere, hanno gettato scompiglio nelle opinioni pubbliche.
In Italia i tre volumi del testo usciranno entro il 2015 da Bompiani. Ma già sono disponibili un paio di saggi utili a inquadrare il problema. Sono appena usciti dalle edizioni Ets gli atti di una giornata di studio tenutasi a Pisa in luglio, con gli interventi di studiosi internazionali, da Peter Trawny, curatore degli Schwarze Hefte in Germania, a Jesús Adrián Escudero, a Dean Komel a Alfredo Rocha De La Torre: Metafisica e antisemitismo, a cura di Adriano Fabris. Ma un testo imprescindibile per capire a fondo un nodo filosofico tanto oscuro è quello che Donatella Di Cesare, ordinario di teoretica alla Sapienza di Roma, ha scritto per Bollati Boringhieri: Heidegger e gli Ebrei.
È un libro coraggioso. Di notevole spessore teorico, perché, al di là del clamore scatenato intorno all’affare-Heidegger, punta dritto al cuore della questione: là dove, nel pensiero di Heidegger, la questione dell’essere incrocia la questione ebraica. Mette in luce con chiarezza - sorprendente rispetto alla ben nota oscurità della prosa heideggeriana, in cui pure sapientemente si addentra per interpretare - le radici filosofiche dell’antisemitismo del pensatore tedesco, intrecciate a una fitta tradizione che risale, in Germania, almeno a Lutero. Soprattutto si guarda bene dal pronunciare condanne o assoluzioni - come Di Cesare, dalla sua posizione di vice presidente della Heidegger-Gesellschaft e membro della comunità ebraica di Roma, poteva essere portata a fare - e si propone solo di fornire tutti gli elementi per capire.

La Stampa 16.12.14
Grecia 1946, il massacro che aprì la Guerra Fredda
Lo scontro dimenticato tra nazionalisti e rossi provocò 40 mila morti e 50 mila prigionieri politici
di Eric Gobetti


Se alla fine della Seconda guerra mondiale le popolazioni dei singoli Paesi d’Europa avessero potuto scegliere autonomamente il proprio sistema politico, la carta del continente sarebbe stata decisamente diversa. Senza dubbio Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, forse anche Romania e Bulgaria avrebbero avuto un governo conservatore e filo-occidentale. La Grecia sarebbe stata comunista e probabilmente pure l’Italia. Invece i destini dell’Europa sono stati decisi a tavolino, prima della fine del conflitto, con un accordo segreto fra Churchill e Stalin passato alla storia come «il patto delle percentuali».
La grande spartizione
Durante la conferenza di Mosca dell’ottobre del 1944 la Grecia veniva arbitrariamente attribuita per il 90% all’influenza occidentale. In quegli stessi giorni i tedeschi si stavano ritirando dal Paese, lasciando il campo alla resistenza comunista che controllava già di fatto l’intero territorio. Gli interessi delle grandi potenze vincitrici, l’ambiguità di Stalin nell’animare la resistenza pur accettando il predominio angloamericano sulla Grecia, l’ostinazione anticomunista di Churchill, condussero invece il Paese a una guerra civile che fece registrare, in poco più di tre anni, circa 40.000 morti, 700.000 profughi (fra cui 25.000 bambini trasferiti nei Paesi del blocco filosovietico) e 50.000 detenuti politici (spesso rimasti tali fino alla fine della dittatura dei colonnelli, nel 1974). Quel drammatico conflitto, poco conosciuto in Italia, è raccontato in una serie di saggi raccolti nel volume Neve e fango per dissetarmi, curato da Silvia Calamati per Edizioni Socrates.
Il giovane idealista
Il cuore della pubblicazione è rappresentato dal diario di un combattente comunista braccato dalle forze monarchiche nel maggio del 1949, poco prima della sconfitta definitiva. Sotiris Kanellopoulos vive con una manciata di compagni giorni incredibili, passando da una grotta a un’altra, su una montagna priva di risorse idriche e alimentari. Stremati, affamati, indeboliti dalla sete e dalle ferite, il gruppo si sgretola, mentre Sotiris continua ad annotare gli avvenimenti quotidiani, la gioia di una canzone o una poesia, la primavera che sboccia, i rari pastori al pascolo. Saranno le sue ultime settimane di vita: verrà catturato e ucciso nel maggio 1949, a 41 anni. Una vita intensa, la sua, vissuta fino all’ultimo con estremo coraggio, spirito di sacrificio, passione per le piccole cose come per i grandi ideali. A distanza di 70 anni le sue parole ci proiettano in un mondo che pare lontanissimo dal nostro, in un’Europa uscita stremata dalla guerra ma dove i conflitti, alimentati da un intreccio di elementi ideologici e nazionali, faticavano a spegnersi. Lo stesso accadeva, ad esempio, sul nostro confine orientale, dove ansia di vendetta, contrapposizione ideologica, odi nazionali provocarono quello strascico di conflitto che diede vita all’esodo di gran parte della popolazione istriana. Tuttavia casi analoghi di violenze civili, epurazioni o mancate epurazioni degli apparati statali, vendette più o meno private, tentativi di resistenza armata, avvenivano alla fine della guerra in ogni angolo d’Europa, Italia compresa.
Due lustri di violenze
Nel contesto europeo la Grecia rappresenta un caso paradigmatico, nel quale si susseguono in maniera esemplare le diverse fasi di un decennio di conflitti e violenze politiche: dalla dittatura filofascista di Metaxas (1936-1941) alla guerra mondiale (con l’intervento di italiani, tedeschi, bulgari e britannici), dalla guerra di liberazione (col suo corollario di conflitto interno e feroci repressioni, tra cui la poco nota strage di Domenikon, ad opera degli alpini italiani) alla guerra civile (1946-1949). Due lustri di violenze che raggiungono l’apice con la guerra civile, «la più feroce e sincera di tutte le guerre», con le parole di Concetto Marchesi. Una guerra poi, quella di Grecia, che segnerà per anni la memoria del Paese e dell’Europa intera, finendo per rappresentare al tempo stesso l’ultima guerra civile del secondo conflitto mondiale e il primo fronte «caldo» della Guerra Fredda.

Corriere 16.12.14
Addio a Otto Pöggeler Heidegger e Gadamer furono i suoi maestri

Lutto nel mondo della filosofia. Il pensatore tedesco Otto Pöggeler, tra i principali rappresentanti della ermeneutica, è morto a 86 anni a Bochum.
Allievo e collaboratore di Martin Heidegger e Hans Georg Gadamer, gli studi di Pöggeler sono stati rivolti all’Idealismo, alla Fenomenologia e all’Ermeneutica. Dal 1968 al 1994 è stato direttore dello Hegel-Archiv. Tra i suoi libri tradotti in italiano ricordiamo Il cammino di pensiero di Martin Heidegger (Guida, 1991), Hegel e l’idea di una fenomenologia dello spirito (Guida, 1986), Heidegger e la filosofia ermeneutica (Guida, 1992) e Europa come destino e come compito. Correzioni nella filosofia ermeneutica (2008). Una intervista sulla sua vita, a cura di Massimo Mezzanzanica, è apparsa sul «Magazzino di Filosofia» del 2001 (Franco Angeli).

Repubblica 16.12.14
Tutti in fila dal Dottor Sesso alla ricerca del desiderio perduto
Gli italiani in fila dal sessuologo. Non perché i problemi a letto sono aumentati. Ma perché è caduto, anche tra gli uomini, l’ultimo tabù
Per un motivo semplice: se la coppia perde l’intesa, meglio rivolgersi allo specialista che rischiare la fine di una relazione
di Vera Schiavazzi


LA COPPIA è in crisi? Il desiderio se ne è andato? Niente paura: da soli o col partner si va dal sessuologo, convinti che abbia la cura per ogni patologia. I sessuologi in Italia sono 1500, la domanda nei loro confronti è aumentata del 15 per cento negli ultimi cinque anni, così come i disturbi lamentati più comunemente (più 40 per cento nel calo di desiderio degli uomini, più 25 per cento nel vaginismo, per citare i due esempi più vistosi). Nel privato, le terapie durano in media sei mesi, con una visita ogni due settimane. E la richiesta continua, posto che dopo il Viagra e i suoi simili, dopo che perfino il punto G è stato fotografato e diffuso sulle riviste scientifiche, gli italiani — come i francesi, i belgi e i tedeschi — si sono convinti che non servano lunghe psicoanalisi alla ricerca di sé, ma una visita dal medico giusto. Nascono “Settimane del benessere sessuale” con consulenze gratuite (la prima è stata nello scorso settembre), ma anche “Secs cathedra” (nel gennaio del 2015 all’Università di Tor Vergata si aprirà la prima). Peccato che questi medici super— richiesti non abbiano ancora, in Italia, un corso di laurea tutto loro, ma debbano cavarsela attraverso master e studi sperimentali, e solo alla fine entrare a far parte di una o di un’altra società di colleghi. La fiducia nei sessuologi è, anche, un’ottima ragione di guerra tra scuole: medici e ricerca, psicologi e terapie mirate, all’inseguimento di una professione che di per sé ha un nome assai promettente. Il sessuologo, del resto, è anche il medico anti—infedeltà. Su 16 milioni di italiani che potrebbero soffrire di un disturbo sessuale, almeno 80.000 sarebbero le coppie a rischio di rottura per problemi irrisolti nati in camera da letto, mentre i matrimoni non consumati sarebbero 20.000 e la mancanza di un’attività sessuale giudicata da entrambi soddisfacente sarebbe all’origine di un quinto delle separazioni legali. Andare a consultare un esperto, dunque, è un modo come un altro per assicurare al compagno, o alla compagna, che si vuol fare di tutto per restare insieme, compreso raccontare a un estraneo le proprie vicende private, sottoporsi a anamnesi e confessioni, tornare a casa e mettere in pratica ciò che ci è stato raccomandato in studio.
«La nostra federazione — spiega Roberta Rossi dell’Istituto italiano di sessuologia clinica — cerca di integrare biologico e psicologico. Alla Settimana del benessere abbiamo avuto grandi risposte un po’ in tutta Italia. Dieci anni fa, il nostro pubblico era fatto prevalentemente di donne. Poi sono arrivati gli uomini, quelli che a mano a mano capivano che il Viagra può risolvere alcuni problemi ma non certo un calo di desiderio, e che, comunque, ogni farmaco deve essere accompagnato da una coppia che deve mediare i problemi e le terapie». E Rossi rivela un fatto ormai apparentemente ovvio per molti sessuologi: «Negli uomini, il calo di desiderio si accompagna a un disturbo sociale, al fatto che moli uomini non riescono più a interagire con ruoli e relazioni cambiate nei confronti delle donne. Apparentemente, nella coppia tutto pare funzionare, ma il sesso rivela che non è così. Farmaci come il Viagra lavorano sull’erezione, non sul desiderio. E fino a dieci o quindi anni fa erano gli uomini quelli desideranti, ora non lo sono più».
Tutto cambia. Non solo gli uomini non sanno più se e che cosa desiderare, ma anche donne non più giovani e dalla cultura “liberata” lamentano disturbi col vaginismo, un dolore che può inibire le relazioni e che apparentemente non ha più nulla a che fare con quel “disturbo mediterraneo” che i medici erano abituati a curare in un paese dove il retaggio cattolico e l’idea del sesso come peccato poteva spiegare tutto. Oggi invece a ritrovarsi bloccati sono coppie intorno ai 40 che, mossi dal desiderio di avere un figlio, si decidono ad affrontare problemi con i quali convivevano da anni. «In molte coppie problemi sessuali anche gravi, che di fatto inibiscono una relazione completa, si sopportano per anni — dice Roberto Bernorio, ginecologo e sessuologo milanese — Poi, dopo questi lunghi periodi di “sessualità pigra”, scatta l’orologio del figlio e si cerca una soluzione semplice e rapida». Giorgio Nardone e Matteo Rampin hanno appena finito il volume “Quando il sesso diventa un problema” (per Ponte alle Grazie, in libreria a gennaio), e raccontano il loro approccio di psicoterapeuti per aiutare i pazienti a ristabilire il punto di equilibrio indispensabile al sesso: il controllo mentale e la capacità di lasciarsi andare alle relazioni. «Quello che il terapeuta deve cercare di fare è cambiare i meccanismi del paziente che non funzionano, e impediscono proprio le reazioni, dall’erezione all’orgasmo, che invece si vorrebbero provare ». Ecco perché accade che il sessuologo “vieti”, per un certo periodo, alle coppie di avere relazioni complete, partendo prima dagli approcci più semplici, come uno scambio di carezze, per poi arrivare via via al sesso completo. I tempi sono “brevi”, nel senso che durano alcuni mesi, ma non fulminei: «Nel giro di sei mesi, con un approccio funzionale, si riesce a venire a capo della maggior parte dei problemi frequenti, a cominciare dal vaginismo, oggi molto diffuso a qualunque età», dice Giuseppina Barbero, sessuologa a Torino. E la sessuologia sembra destinata a restare in gran parte senza farmaci, anche se, in altre “scuole” sessuologiche, gli ormoni anti—vecchiaia sono considerati comunque importanti: «Il testosterone può essere d’aiuto nel contrastare l’invecchiamento. Anche se non è una medicina, in senso generale, per risolvere quel calo del desiderio maschile che molti aspiranti sessuologi dicono essere in aumento — spiega Emanuele Jannini, alla guida sella Società italiana di andrologia medica e medicina della sessualità — e che a me sembra piuttosto costruito a tavolino». Jannini ama la concretezza dei problemi, e qualche anno fa ha anche dimostrato con tanto di foto e pubblicazioni l’esistenza del “punto G” per le donne. Ma sopra ogni altra cosa, desidera che la sessuologia diventi una normale materia universitaria, e anche per questo sta per lanciare il suo Secs Cathedra a Tor Vergata: «Lo faremo vicino ai dormitori degli studenti e aperto a tutti, dai professori agli assistenti agli allievi. Solo raccogliendo le confidenze dei pazienti e dimostrando come si può essere assistiti, a partire dal campus, affermeremo la sessuologia per qualcosa di diverso da ciò che è oggi in Italia dove corsi e master sono tutti rigorosamente privati. Un peccato, perché nella ricerca scientifica l’Italia è già oggi all’avanguardia ». Lauree o master che siano, la sessuologia italiana sembra alla vigilia di una grande crescita: dai corsi specifici per i medici di base, varati lo scorso aprile, fino ai centri pubblici di ascolto. «C’è anche chi arriva lamentandosi di non provare più gli orgasmi di un tempo e vuole essere rassicurato. Ma la maggior parte dei pazienti — assicura Roberta Rossi — ha bisogno di cure autentiche».

REPTV-LAEFFE
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Repubblica 16.12.14
Quando la meccanica dell’amore non ci restituisce il desiderio perduto
di Massimo Recalcati


IL NOSTRO tempo vive sotto il peso dell’egemonia del “principio di prestazione” che un filosofo come Herbert Marcuse, che fu un grande interprete della stagione del ‘68 e del movimento della cosiddetta “liberazione sessuale”, aveva preconizzato come un nuovo e subdolo padrone della nostra vita collettiva. Questo principio porta con sé una mutazione antropologica: l’uomo si trasforma in una macchina che in tutti i livelli di manifestazione della sua vita deve garantire la prestazione più efficace.
Questo nuovo principio vorrebbe mettere in soffitta come dei vecchi arnesi del Novecento il pensiero lungo della filosofia, la fatica del lavoro, i labirinti tortuosi della vita psichica, il mistero enigmatico dell’amore per celebrare il profitto immediato, la via breve al successo personale, la consumazione senza limiti del presente. Il principio di prestazione ordina, infatti, l’efficienza della macchina pulsionale come prioritaria rispetto a qualunque altro principio (etico, politico, religioso, artistico). È su questo terreno che dobbiamo situare l’attuale successo della farmacologia (specie quella “psico”) e della sessuologia in particolare. Se il corpo è una macchina che punta a realizzare il suo massimo godimento, bisogna saper oliare bene tutti i suoi ingranaggi. Si può allora salutare come un fattore di progresso e di Civiltà il fatto che per molti rivolgersi al sessuologo non costituisca più un tabù e che anche molte donne adesso abbiano finalmente superato ataviche inibizioni e si siano finalmente autorizzate ad offrire alle cure sessuologiche i loro corpi. Con l’ausilio di qualche pillola e in qualche seduta, in tempi brevi, se non brevissimi, si garantisce il ripristino del corretto funzionamento della macchina.
Un noto sessuologo di Waterloo, al secolo Pascal de Setter, si era distinto per un indimenticabile articolo contenuto ne “Il libro nero della psicoanalisi”, a proposito delle sue indicazioni illuminate nella cura del sintomo della eiaculazione precoce. In quell’occasione spiegava dottamente come per risolvere questo sintomo mortificante non era ovviamente necessario spendersi in ricerche su se stessi o sul proprio legame amoroso (vedi psicoanalisi). La macchina difettosa ha come unico modello la macchina efficiente. Dunque era assai più utile, anziché disperdersi in frustranti ruminazioni su se stessi, dedicarsi ad opportuni esercizi di respirazione e di rilassamento finalizzati a preparare il corpo — come in un copione di un vecchio film di Woddy Allen — alla sua fatidica prestazione….
La sessuologia separata da una pratica della parola e dell’ascolto non può che sfociare in una pedagogia disciplinare del corpo, espressione di quel biopotere di cui Foucault ha fornito un ritratto insuperabile. La sessualità umana non può mai essere separata dai suoi fantasmi inconsci. Non può mai essere ricondotta ad una normalità che non esiste, non può mai essere né curata, né guarita. Essa resta bizzarramente ancorata alle vicissitudini del desiderio inconscio. Se la restituzione delle capacità performative degli organi (l’erezione nell’uomo, la lubrificazione vaginale nella donna, per esempio) può essere raggiunta attraverso la corretta prescrizione di farmaci, resta comunque certo che questa operazione di raddrizzamento del funzionamento storto della macchina del corpo sessuale, non sfiora il problema di cosa significa desiderare. Non è ancora stata inventata — ma magari sarò smentito da un collega del sessuologo di Waterloo — la pillola capace di accendere il desiderio. È il punto cieco della sessuologia che un mio vecchio paziente, dopo aver ottenuto il ripristino della capacità erettile del suo organo grazie a trattamenti farmacologici, mi descriveva smarrito: “e ora chi riuscirà a collegare l’organo ad un desiderio che non c’è?”.
Non è affatto casuale che anche i sessuologi più avvertiti confermino una tesi che avanzavo nel 2010 in un libro titolato L’uomo senza inconscio che “ispirò” — come riconobbe Giuseppe De Rita — l’allora rapporto del Censis sulla vita degli italiani: il desiderio si è eclissato, è morto, assente, svanito. Questo è il vero problema che anche la sessuologia constata. Ci si potrebbe anche chiedere se la liberazione sessuale e la caduta di ogni velo sul corpo sessuale, abbiano giovato al desiderio, il quale, non dobbiamo dimenticare, si nutre sempre della distanza, della differenza, del mistero, della presenza del velo. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che gli entusiasmi per la cosiddetta liberazione sessuale hanno generato una nuova e forse più insidiosa gabbia rispetto a quella dei moralismi di ogni genere e specie. È quella del principio di prestazione che sembra colonizzare anche il mistero del corpo erotico.