venerdì 19 dicembre 2014

il Fatto 19.12.14
Il Papa regala sacchi a pelo ai senza tetto

Quattrocento sacchi a pelo, con lo stemma papale, ad altrettanti clochard che vivono a Roma. Questo il regalo che Papa Francesco, ha fatto distribuire ieri sera in occasione del suo settantottesimo compleanno. La consegna è avvenuta grazie all’azione di diversi volontari, fra cui anche alcune guardie svizzere. Il dono ha interessato non soltanto i senzatetto che vivono nei dintorni del Vaticano ma anche quelli che si trovano in altre zone della città, come la stazione Termini, dove passano la notte coprendosi con mezzi di fortuna. L’iniziativa voluta dal Papa è stata gestita attraverso l'Elemosineria pontificia che ha coinvolto le strutture che assistono i senza fissa dimora tra cui la Caritas e le parrocchie. La consegna è stata effettuata con un pulmino grigio targato “Scv”. Alla guida l’arcivescovo Konrad Krajewski, accompagnato da monsignor Diego Ravelli.

Corriere 19.12.14
I frati francescani e le spese milionarie per l’hotel in centro
«Ristrutturazione dubbia». Indagano i pm
di M.Antonietta Calabrò


«Il Cantico è un paradiso di eleganza, calore e benessere, in armonia con un ambiente salubre e sereno», recita il sito web che magnifica il «benessere totale della persona» e l’esperienza del dormire in quell’albergo come «solo uno dei piacevoli dettagli».
«Il Cantico» però non è quello delle creature, composto da san Francesco, che dormiva appoggiato a un sasso. E anche se i contenitori dei bagnoschiuma nei bagni portano incisa la preghiera del poverello di Assisi, è stato proprio quest’albergo, con vista sulla Cupola di San Pietro, a trascinare alla bancarotta l’Ordine dei frati minori. «Una grave situazione di difficoltà finanziaria» della Curia generale è stata infatti denunciata, in una lettera choc a tutti i frati dell’Ordine, dal ministro generale, l’americano padre Michael Perry in seguito a un’indagine interna condotta a partire da settembre, che ha fatto emergere operazioni «dubbie», condotte dall’Economato. Sotto accusa l’intervento di acquisizione e ristrutturazione dell’hotel.
L’ex economo generale, padre Giancarlo Lati, che gestiva direttamente l’albergo «Il Cantico» si è già dimesso dall’ incarico e da quello di Rappresentante legale dell’Ordine, ufficialmente per motivi di salute. Ma intanto, padre Perry ha anche puntato il dito contro «il ruolo significativo che alcune persone esterne, che non sono membri dell’Ordine, hanno avuto nella faccenda».
Si sente insomma odore di maxitruffa operata anche da laici in questo «buco» di svariati milioni. È emerso anche, ha spiegato il superiore, che «i sistemi di vigilanza e di controllo finanziario della gestione del patrimonio dell’Ordine erano o troppo deboli oppure compromessi, con l’inevitabile conseguenza della loro mancanza di efficacia rispetto alla salvaguardia di una gestione responsabile e trasparente». Inoltre «sembrano esserci state un certo numero di dubbie operazioni finanziarie, condotte da frati cui era stata affidata la cura del patrimonio dell’Ordine, senza la piena conoscenza e il consenso» del Definitorio generale, l’organismo collegiale che guida l’Ordine.
L’allarme è evidente. Per il superiore, «la portata e la rilevanza di queste operazioni hanno messo in grave pericolo la stabilità finanziaria della Curia generale». Per questi motivi, annuncia padre Perry, il Definitorio generale, «all’unanimità ha deciso di chiedere l’intervento delle autorità civili, affinché esse possano far luce in questa faccenda». Insomma è già partita la denuncia alla Procura di Roma. E infine padre Perry richiama come incoraggiamento l’esempio offerto da «Papa Francesco nel suo appello alla verità e alla trasparenza nelle attività finanziarie, sia nella Chiesa che nelle società umane».

La Stampa 19.12.14
I Francescani in dissesto finanziario
La lettera choc: “L’Ordine è sommerso dai debiti”
Un’indagine interna ha fatto emergere operazioni «dubbie» dai frati che gestivano il patrimonio
La denuncia: vittime di maxi truffa, c’è un buco di svariati milioni di euro

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il Fatto 19.12.14
Nuove alleanze
Firme contro il rigore, Fiom e Cgil danno la linea a sinistra
di Salvatore Cannavò


Dopo gli scioperi, la politica. La Cgil e la Fiom, unite come mai prima, sono protagoniste di un’iniziativa ambiziosa che punta dritto al cuore delle politiche di austerità. Susanna Camusso e Maurizio Landini, segretari di Cgil e Fiom, hanno presentato ieri insieme a Stefano Rodotà, presidente del comitato “Col pareggio ci perdi”, la proposta di iniziativa popolare per eliminare il pareggio di bilancio dall’articolo 81 della Costituzione. L’iniziativa era stata già tentata da una proposta referendaria, che vedeva tra i promotori un drappello di economisti capitanati da Gustavo Piga, naufragata per mancanza di firme. Forse, allora, era mancata la convinzione della Cgil. Che invece, oggi, si impegna con molta determinazione, esponendo direttamente la sua leader nazionale.
LA PROPOSTA verte sulla legge di iniziativa popolare. Con 50 mila firme i cittadini possono proporre all’attenzione del Parlamento una vera e propria legge che poi dovrà essere sostenuta nelle aule di Camera e Senato per essere approvata. L’iniziativa giunge in concomitanza con analoghe iniziative, della Lega (riforma Fornero) e Grillo (uscita dall’euro), ma i promotori assicurano che non ci sono legami. “Non abbiamo alcun assillo di rincorrere Grillo o di fare concorrenza alla Lega” assicura Alfonso Gianni che un tempo fu anche sottosegretario all’Economia nel governo Prodi e oggi anima l’Altra Europa per Tsipras, la lista che alle scorse europee ha ottenuto il 4% eleggendo a Strasburgo, tra gli altri, Barbara Spinelli. Il progetto punta invece a costituire una “coalizione sociale” che, nell’attaccare direttamente le politiche di austerità e l’impossibilità di fare spesa in deficit, sia anche un passaggio per permettere alla sinistra “litigiosa e divisa” di unirsi. Nessuna lista elettorale all’orizzonte, nessuna intenzione di creare partiti. Solo un’alleanza. Per il momento, almeno. “Il vuoto politico a sinistra è evidente – continua Gianni – e quella sinistra dei diritti rappresentabile da Stefano Rodotà – continua l’ex dirigente di Rifondazione comunista ai tempi di Fausto Bertinotti – può essere il riferimento di una politica economica alternativa”.
Questa sinistra è sempre la stessa: l’Altra Europa, Rifondazione comunista, Sel, associazioni come l’Arci, Legambiente, Unione degli Studenti, intellettuali come Rodotà, Luciano Gallino, Marco Revelli, dissidenti del Pd come Stefano Fassina o personalità cattoliche come Alex Zanotelli. Tutti alla ricerca di un salto di qualità politico per creare quella massa critica oggi inesistente, ma per molti necessaria, alla sinistra del Pd.
LA CGIL PUÒ ESSERE l’alleato decisivo? Maurizio Landini è stato indicato più volte come l’uomo in grado di unire e dare rappresentanza a una sinistra alternativa. Lui ha sempre rifiutato. Oggi, il ruolo si estende all’intera Cgil dove il problema della sponda politica è sul tavolo da mesi anche se finora non c’è mai stata nessuna decisione. E allora, ecco l’iniziativa di ieri: “Inserire il pareggio in Costituzione – hanno detto i due dirigenti sindacali – è stato un errore che ha finito per imprigionarci”. L’obiettivo è togliere il pareggio di bilancio per sostituirlo con una formulazione diversa: “Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese provvede ai mezzi per farvi fronte”. All’articolo 97, quando si parla dei pubblici uffici, si aggiunge: “Nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone” mentre l’articolo 119 viene riscritto per attribuire ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni “risorse pubbliche in relazione alle esigenze di tutela dei diritti sociali e civili”. Una proposta opposta ai propositi del governo Renzi.

La Stampa 19.12.14
Brevettabile l’ovulo non fecondato
Sentenza della Corte Ue sul ricorso di una multinazionale:

“Un organismo non in grado di svilupparsi non è un embrione”
di Stefano Massarelkli

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Corriere 19.12.14
Utilizzati nei laboratori per creare staminali
Naturali o artificiali? Le cellule sviluppate senza l’intervento del Dna maschile
di Edoardo Boncinelli


1 In quale modo l’ovulo si evolve in un individuo?
Per poter dare luogo a un essere vivente, un ovulo, cioè una cellula-uovo femminile, deve andare incontro a tre ordini di processi: l’attivazione, la fecondazione e la maturazione vera e propria. Nel primo processo l’ovulo «si riscuote», si sveglia e si mette a disposizione per una chiamata alla riproduzione. Nel secondo riceve il contributo genetico portato dallo spermatozoo e nel terzo dà inizio a quella serie di processi che, se tutto va bene, condurranno alla produzione di un embrione e poi a quella di un feto e infine di un neonato. In condizioni normali questi tre processi vanno il più delle volte di pari passo, così che quasi non li distinguiamo. Ma alla scienza non sfugge niente e negli anni li ha individuati e disaccoppiati. In certi casi è anche in grado di separarli. Si può per esempio attivare un ovulo, senza fecondarlo, grazie a un processo denominato partenogenesi.
2 Che cos’è la partenogenesi?
Si tratta di un fenomeno frequente in alcune specie, raro o molto raro in altre e praticamente inesistente in altre ancora, attraverso il quale un ovulo si attiva e inizia il suo processo proliferativo in assenza di fecondazione, cioè senza l’intervento di un gamete maschile. Mancando questo, il Dna contenuto da questo ovulo attivato non è capace di dare vita a un organismo umano con le carte in regola. Insomma, non darà mai luogo a un vero essere umano.
3 Ma perché allora si induce la partenogenesi?
Perché questo ovulo attivato cresce per qualche tempo e si riempie di cellule che possono essere utilizzate come fonte di cellule staminali, per esempio a scopo di studio. C’è ancora tanto da capire dei processi che avvengono prima, durante e dopo, nelle cellule staminali, che ogni approfondimento conoscitivo di tali processi è benvenuto.
4 Potrebbero essere poi utilizzate a scopo terapeutico le cellule staminali prodotte in tale maniera?
No, perché non avrebbero il corretto corredo genetico e produrrebbero tessuti difettosi.
5 Ma l’ovulo così attivato potrebbe portare a un organismo umano?
No, a maggior ragione, perché per fare un intero organismo occorrono geni e meccanismi genetici che tale ovulo non possiede. Non c’è il rischio quindi che tale cellula possa condurre alla nascita di un individuo. Questo tacita molti scrupoli morali e apre la strada a un’utilizzazione applicativa di tale cellula. Ora la Corte della Ue, ribaltando una sua precedente decisione, afferma che tale cellula attivata è brevettabile, cioè utilizzabile in condizioni protette da tentativi più o meno plateali di imitazione.
6 È giusto ritenere brevettabile tale cellula?
La questione non è di natura scientifica ma giuridica, oltre che morale. Si può brevettare qualcosa di non controverso dal punto di vista etico che abbia elementi di originalità, che costituisca cioè un prodotto dell’ingegno e della industriosità di qualcuno. In sé e per sé l’ovulo non è brevettabile, ma una sua trasformazione artificiale lo è.
7 L’attivazione di cui stiamo parlando rappresenta una vera trasformazione artificiale e originale?
La Corte Ue pensa di sì e in tale decisione non vedo niente di scandaloso, anche se altri la possono pensare diversamente. Il punto, casomai, è se tutto questo è utile a qualcosa di concreto. La risposta a tale quesito si avrà in futuro, per questo conviene provare; alla peggio sarà stato inutile.
8 A che può servire infine tutto questo?
A studiare in dettaglio e con calma che cosa succede in una cellula staminale, cioè che cosa la fa diventare staminale, che cosa la mantiene tale e che cosa deve cambiare perché smetta, a comando, di essere staminale e si avvii a divenire quello che noi vogliamo che divenga. Le cellule staminali costituiscono una grande speranza della medicina di domani, ma quello che sappiamo con certezza dei processi che le caratterizzano è ancora molto poco. E ci impedisce di fatto di farne quella applicazione clinica di vasta portata che tutti ci auguriamo. E tali studi possono essere fatti solo su autentiche cellule staminali umane. Fino adesso questo non era stato possibile e la decisione di oggi potrebbe condurre a sviluppi molto promettenti, se non inaspettati. Il bello della scienza è che ci riserva sempre qualche sorpresa. Speriamo che sia così anche in questo caso e che la sorpresa sia positiva!

Corriere 19.12.14
La Corte Ue: sì allo sfruttamento industriale. I dubbi dei cattolici
di Luigi Offeddu


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES Un ovulo umano non fecondato non è un uomo, non potrà esserlo mai, né potrà mai essere assimilato a un embrione, anche se ha iniziato a svilupparsi in laboratorio grazie alla partenogenesi, cioé a quelle tecniche chimiche ed elettriche che non prevedono il ricorso agli spermatozoi: questo ha sentenziato ieri la Corte di giustizia europea. E soprattutto ha decretato un’altra cosa: che quello stesso ovulo (o «partenote», come viene appunto chiamato nel caso di una partenogenesi), non avendo la potenzialità di uno sviluppo umano, può essere «in linea di principio “brevettato” da un’azienda», comprato, venduto, usato per sperimentazioni nella ricerca sulle malattie, insomma può diventare oggetto di sfruttamento scientifico, commerciale o industriale.
I giudici si sono mossi sul confine del mistero, lo stesso mistero che nel 2011 li aveva indotti a sentenziare nel senso esattamente opposto: a dichiarare cioè che la nozione di «embrione umano» comprende gli ovuli umani non fecondati spinti a dividersi e a svilupparsi attraverso la partenogenesi. E che questi stessi ovuli, perciò, devono essere protetti secondo la normativa europea che difende i prodotti di invenzioni biotecnologiche: niente brevetti, niente compravendite, niente ricerche sperimentali. Tre anni dopo, ecco il «contraccolpo», che sembra aprire un po’ di più la porta anche alle indagini sulle cellule staminali, alla ricerca chimico-farmaceutica sulla tossicità di certi prodotti nell’organismo umano (il partenote funge in sostanza da cavia), e forse ad altre ricerche più riservate nel campo dell’industria cosmetica, di cui si è sempre vociferato.
La sentenza di ieri tocca ancora una volta il nucleo primario della vita biologica, riguarda anche temi di etica, filosofia, religione, e già divide i ricercatori: tutti, «laici» e no, concordano sul fatto scontato che termini come ovulo non fecondato, partenogenesi, partenote, indicano che un certo organismo esiste biologicamente, ma quella sua esistenza non deriva dall’unione del principio femminile e maschile. I ricercatori che si riconoscono nell’etica cristiana protestano: «È abnorme brevettare qualcosa che deriva dalla manipolazione del corpo umano», dice Francesco D’Agostino, presidente emerito del Comitato nazionale per la Bioetica.
Già indecisa a tutto sui temi politico-economici, per forza di cose l’Europa lo è ancora di più su questi temi etici e scientifici. Quest’ultima sentenza, dice per esempio il genetista Giuseppe Novelli rettore dell’Università Tor Vergata di Roma, «teoricamente rischia di incrementare il commercio illegale di ovociti. Ora su quanto sentenziato dalla Corte europea di giustizia potrà pronunciarsi ogni Stato membro, che dovrà recepirne il pronunciamento». E a quel punto, «ogni nazione potrà definire le sue condizioni: il problema è giuridico, non scientifico, ed è stato sollevato nel 2011, con la prima sentenza che vietava la possibilità di brevettare le cellule staminali». Nel frattempo, spiega ancora il genetista, «un’azienda inglese che conduceva esperimenti sulla clonazione di cellule a scopo scientifico ha posto la questione: tecnicamente, infatti, un ovocita non fecondato non potrà mai diventare embrione e quindi sarebbe brevettabile. Il problema è stato posto all’Europa che ora si è espressa». Unico problema: «Si tratta di una sentenza generica».

La Stampa 19.12.14
La Corte di giustizia apre un vaso di Pandora
di Eugenia Tognotti


Ha aperto un vaso di Pandora il pronunciamento della Corte di giustizia europea che apre la strada alla brevettabilità degli ovociti non destinati a diventare una persona. Le questioni che abbiamo di fronte, che intrecciano vita, scienza, etica e diritto, riguardano le sue importanti implicazioni, e, non solo, naturalmente per le compagnie biotech interessate alle cellule staminali. In sostanza gli ovuli attivati con un processo chiamato partenogenesi, una tecnica in cui i ricercatori utilizzano sostanze chimiche per indurre l’uovo a svilupparsi come se fosse stato fecondato, non vanno considerati embrioni umani. Di conseguenza possono essere comprati al mercato biotecnologico, venduti, utilizzati per sperimentazioni e per la ricerca sulle malattie. Al di là del problema che riguarda l’opportunità di imprigionare concetti scientifici come quello di embrione umano dentro la camicia di Nesso di una definizione giuridica, ci troviamo di fronte ad una svolta, che sembrerebbe ricondurre a nuove acquisizioni scientifiche. Una svolta non da poco, c’è da dire, rispetto a quanto aveva stabilito solo tre anni fa, nel 2011. Allora – pronunciandosi sul caso sollevato in Gran Bretagna dall’International Stem Cell Corporation e facendo riferimento al principio generale che nessuna parte del corpo umano può essere brevettata - aveva esteso il concetto di embrione umano agli ovuli umani non fecondati la cui divisione e l’ulteriore sviluppo sono stati stimolati per partenogenesi.

il Fatto 19.12.14
Materia delicata, la Chiesa per ora sceglie il silenzio
di Marco Politi


La mancanza di una reazione ufficiale immediata alla sentenza delle Corte di giustizia europea è il segno di una notevole prudenza dei vertici ecclesiastici. Sembra che la Chiesa non voglia gettarsi immediatamente in uno scontro.
L’Osservatore Romano, le cui pagine erano accessibili da ieri ai “vaticanisti”, non sarà oggi in edicola con alcun tipo di commento. I lettori non troveranno nemmeno la notizia. L’Avvenire on line titola appena: “La Ue cede sui brevetti di ovociti ‘modificati’ “. Mentre l’articolo sottolinea che il “caso esaminato dai giudici di Lussemburgo corregge la famosa sentenza Brustle del 2011, in cui la Corte di giustizia europea dichiarò che l’uso delle cellule staminali embrionali per la ricerca scientifica non può essere brevettato in quanto si tratta di un organismo vivente”.
Non c’è dubbio che nei prossimi giorni si avrà un’analisi approfondita della questione. Per la Chiesa la materia bioetica è troppo delicata per essere lasciata da parte. Certamente la Corte ha specificato che l’ovulo per essere brevettabile non deve essere fecondato e quindi deve essere privo della “capacità intrinseca” di svilupparsi in essere umano. Tuttavia fin d’ora esiste un motivo di allarme: la “produzione” di ovuli a fini industriali.
SECONDO il genetista Giuseppe Novelli, rettore dell'università di Roma Tor Vergata, la sentenza “rischia in teoria di incrementare il commercio illegale di ovociti”. L’Avvenire teme un mercato in cui si dovrà sicuramente “ricorrere a ‘donatrici’ debitamente retribuite”. E rimarca che permangono “rilievi etici di grande delicatezza relativi alla manipolazione senza più limiti della vita umana”.
Nonostante il fatto che la Stem Cell Corporation, promuovendo il ricorso presso la Corte di giustizia europea, abbia messo l’accento sul fatto che gli embrioni ottenuti in laboratorio per partenogenesi non possano svilupparsi in esseri umani essendo mancanti di una metà del patrimonio genetico, la Chiesa – ma anche ambienti non credenti – mostra sempre timore a fronte della “industrializzazione” di elementi del corpo umano, specialmente nella dimensione genetica, cioè nei processi che in un modo o nell’altro possono produrre forme di vita della specie umana. O riducano parti del corpo a un puro “oggetto commerciale”.
NEL LUGLIO scorso, quando ancora il procedimento era in corso alla Corte di Giustizia, la Radio Vaticana aveva trasmesso un’intervista con Antonio Spagnolo, direttore del Centro di Bioetica del Policlinico Gemelli di Roma.
Finchè l’ovulo creato in laboratorio – aveva sostenuto Spagnolo – rimane solo tale, mantiene le “caratteristiche di una cellula e non di un individuo, non di un embrione”. Diverso è il caso del procedimento ulteriore. Una volta intervenuti su una cellula staminale, differenziandola in modo che diventi ovocita, spiegava Spagnolo, “si apre tutta una possibilità tecnica e biologica per cui da questo embrione, ottenuto con queste modalità, io posso poi dargli quelle caratteristiche che la sentenza precedente della Corte europea di Giustizia aveva stabilito e che lo facciano rientrare nella categoria dell’embrione”, la cui utilizzazione è vietato da una sentenza depositata nel 2011.
La parola passa ora alla normativa degli stati.

il Fatto 19.12.14
Il laico. La giusta strada
Diritto e scienza devono superare anche la religione
di Bruno Tinti


Che la scienza progredisca è nell’ordine naturale delle cose. Anche il diritto dovrebbe progredire adeguandosi all’evoluzione della scienza. Ma ciò non succede perché le ideologie religiose lo frenano, nell’illusione di controllare l’evoluzione della scienza. Vero e proprio delirio di onnipotenza, finalizzato alla subordinazione della realtà all’illusione, del mondo come naturalmente è al mondo come sovranaturalmente si pretende che sia. Della religione si serve la politica, cercando consenso nei credenti e dunque facendosi paladina, in buona o mala fede, dei dogmi religiosi. E’ per questo che nel nostro Paese non si può morire in pace e con dignità; e per anni è stata resa impossibile la fecondazione eterologa. Oggi l’attenzione si è spostata sull’utilizzazione per ricerca medica degli ovuli non fecondati; e dal consueto pulpito si spara contro la sentenza della Corte di Giustizia Europea che doveva pronunciarsi sulla brevettabilità dell’ovulo modificato (International Stem Cell Corporation contro Controller General of Patents). C’era un precedente. Nel 2011 la Corte aveva respinto la richiesta di tale Brustler che voleva brevettare un ovulo non fecondato, indotto a dividersi e a svilupparsi attraverso partenogenesi. L’ovulo sarebbe stato utilizzato per la ricerca e lo sviluppo di medicine per malattie neurologiche e degenerative. La Corte aveva stabilito che anche un ovulo di tal genere rientra nella definizione di “embrione umano”, protetto dall’art.6, n.2, lett.c) della direttiva del Parlamento Europeo 6/7/1998 sulle invenzioni biotecnologiche. Secondo la Corte, anche se l’ovulo non era stato propriamente fecondato, la tecnica partenogenetica avviava comunque il processo di sviluppo di un essere umano. Oggi, 3 anni dopo, si afferma un principio diverso: un organismo non in grado di svilupparsi in essere umano non costituisce un embrione umano; e tale è l’ovulo stimolato con partenogenesi. Ne consegue che le utilizzazioni di esso a fini industriali o commerciali possono essere oggetto di brevetto. In effetti un ovulo indotto a moltiplicarsi partenogeneticamente non può evolversi in nulla di umano. Perché questo accada occorrono 46 cromosomi, 23 femminili e 23 maschili; e occorrono 5 giorni perché dall’ovulo fecondato si arrivi alla blastocisti, formata da 250 cellule che sono il minimo indispensabile perché l’ovulo possa radicarsi nell’utero. Nel caso oggetto della sentenza non si tratta nemmeno di un ovulo fecondato; una semplice massa cellulare che però possiede una straordinaria proprietà: può produrre cellule staminali totipotenti. E sono queste cellule che consentono, attraverso ricercae sperimentazione, di arrivare a medicinali in grado di curare gravissime malattie degenerative; si pensi solo ad Alzhaimer e Parkinson. Naturalmente il principio di diritto è semplice da capire: se l’ovulo deve essere considerato un embrione umano non può essere manipolato; se non lo è può essere utilizzato a fini di ricerca proprio come un rene, un fegato, un cuore etc. Siccome la partenogenesi non fa nascere i bambini, un uovo che è indotto, con questa tecnica, a moltiplicare le sue cellule non può essere considerato embrione umano. Quello che sta sotto la banale questione di diritto è molto più complesso. La religione ha sviluppato una vera e propria mania di controllo su tutto ciò che riguarda la morte e la vita. La teoria che esse sono patrimonio esclusivo di un’entità trascendente ha prodotto, nei secoli, due straordinarie ideologie. La scienza che ritardi l’una e renda possibile l’altra è inaccettabile. E si deve in ogni modo obbligare a subire le conseguenze di questo principio anche quelli che non lo accettano, non riconoscendosi nella religione che lo professa. Il che può avvenire (e di fatto nel nostro Paese avviene) trasfondendolo nelle leggi dello Stato. Così, alla fine, il progresso della scienza coincide con quello della mente. Che possa credere sempre più in se stessa e nella sua libera evoluzione.

Repubblica 19.12.14
Preferenze, stop di Bersani: “È la democrazia alla Verdini”
di Goffredo De Marchis


ROMA «Non c’è una sola buona ragione per accettare l’idea di democrazia di Verdini». Con queste parole, Pier Luigi Bersani rilancia la battaglia della minoranza Pd sull’Italicum e mette in discussione la tregua con Matteo Renzi. Al Senato sono 30, forse 32, i parlamentari della sinistra pronti a firmare emendamenti alla legge elettorale per chiedere le preferenze. O meglio un sistema che in Parlamento porti almeno il 70 per cento di eletti direttamente da cittadini e non il 50 come avverrebbe con il nuovo Italicum confermato dal vertice tra Forza Italia e il Pd di mercoledì. «Gli elettori devono poter scegliere la maggior parte dei loro rappresentanti. Con i collegi o con le preferenze», dice Maurizio Migliavacca, senatore e braccio destro dell’ex segretario. «È un punto dirimente ». Ma il vero punto è il rapporto del premier con Berlusconi e può riattivare lo scontro dentro il Partito democratico. Perché la richiesta a Renzi non è solo quella di scegliere con il suo gruppo le modifiche alla riforma elettorale riducendo il condizionamento di Forza Italia. Dal Pd deve partire anche il nome, qualcosa più dell’identikit o di una rosa, del nuovo presidente della Repubblica.
Se la minoranza va in fondo, non basterà a Renzi il rinnovo del patto del Nazareno, per superare l’ostacolo di un ingorgo in cui finiscono nei pasticci Italicum e candidatura al Colle. Bisogna fare i conti con i numeri del Pd. Fondamentali per tutt’e due le partite. Le parole di Giorgio Napolitano confermano i tempi. L’attuale presidente della Repubblica si dimetterà il 15 gennaio, all’indomani della fine ufficiale del semestre europeo a guida italiana. Non aspetterà oltre. Né per la visita di Angela Merkel a Roma, destinata peraltro a slittare a febbraio. Né per la firma solenne sotto la legge elettorale approvata in via definitiva, anche se rappresenta la battaglia del suo bis forzato. I tempi per evitare la sovrapposizione rimangono dunque strettissimi. E alla minoranza dem non basta nemmeno la clausola di salvaguardia che farebbe entrare in vigore la norma solo a settembre 2016. «Non accettiamo una visione oligarghica della democrazia, a metà tra il sistema feudale e quello monarchico », insiste Miguel Gotor parlando degli eletti nonimati.
Allo stesso tempo, la sinistra interna non accetta neanche una corsia preferenziale con Silvio Berlusconi sul Quirinale. Renzi garantisce che non ci saranno problemi sulla scelta del nuovo capo dello Stato. Niente trappole, niente ricatti e niente franchi tiratori. Ed è convinto di poter rispettare i tempi che si è dato per essere più libero e senza condizionamenti. «Non ci credo che la minoranza si metterà di traverso sull’Italicum», dice sicuro ai suoi collaboratori. Ma il Renzi possibilista su una modifica al meccanismo delle preferenze si ferma quando questo può mettere in pericolo il patto con Berlusconi. «Se c’è un accordo complessivo tutto è possibile — spiega il vicesegretario Lorenzo Guerini — . Ma se l’accordo manca non faremo crollare l’impianto del testo dopo aver fatto tanta strada». L’equilibrio tra nominati e eletti è il nucleo d’acciaio dell’intesa che lega il premier e il leader di Fi. È un nocciolo duro che non va toccato a meno di impossibili ripensamenti da Arcore e va difeso in vista del voto sul Quirinale. La coperta però è quella che è. Il messaggio della minoranza è che tirandola dalla parte dell’ex Cavaliere si scopre il fronte dei dissidenti democratici.
Il rischio vero è uno stallo sia sull’Italicum sia sul voto per il Colle. Un incubo delle notti a Palazzo Chigi. Senza un nome condiviso che tenga insieme una larga parte del Parlamento, basta un emendamento per scivolare nel percorso dell’Italicum dove i pericoli possono arrivare dal Pd, da Forza Italia e dai ribelli azzurri guidati da Raffaele Fitto. All’eurodeputato pugliese va bene la clausola dell’entrata in vigore dal 2016, ma continua a pensare che sia meglio capire chi sarà il nuovo presidente prima di dare il via libera alla riforma. «Io prevedo una pattinata sul ghiaccio per l’Italicum al Senato», dice Gotor. Vale a dire il contrario di una passeggiata. Piuttosto un tragitto in cui le cadute sono sempre in agguato. «Le leggi elettorali in tutto il mondo le fanno i parlamenti — spiega — . Quindi ci saranno discussioni ed emendamenti. Fuori da patti, più o meno pubblici». Alla fine sempre lì si va a parare, al patto del Nazareno. Che fra qualche giorno verrà messo alla prova sul passaggio cruciale della legislatura: l’elezione del successore di Napolitano.

Corriere 19.12.14
Chi si muove per complicare gli accordi sul Quirinale
di Massimo Franco


Più che gli insulti, ormai quotidiani, rivolti a Giorgio Napolitano, colpisce il tentativo del Movimento 5 stelle di inserirsi nei giochi per il Quirinale. Nel giorno in cui il capo dello Stato conferma «dimissioni imminenti», Beppe Grillo fa sapere di essere pronto a votare «un candidato di altri partiti totalmente al di fuori della politica». Non si capisce a chi pensi. Si comprende però la logica della sua offerta: vuole sparigliare qualunque gioco parlamentare sulla presidenza della Repubblica, come fece nel 2013 proponendo un giurista come Stefano Rodotà e spaccando il Pd.
Era una mossa prevedibile. Grillo punta a impedire qualunque saldatura tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. E si rende conto che, proprio perché la sua leadership segnala qualche affanno, l’esigenza di dare un segno di vitalità ha nella competizione per il Colle il palcoscenico ideale. Tra meno di un mese, Napolitano potrebbe essersi già dimesso. E lo stesso Parlamento che un anno e mezzo fa fu costretto a confermarlo, dovrà eleggere il successore. Renzi continua a dirsi sicuro che non si ripeterà il tiro al piccione di allora, che bruciò a uno a uno candidati come Franco Marini e Romano Prodi.
«Credo che il Parlamento abbia imparato la lezione dell’aprile 2013 e riuscirà a fare quanto deve nei tempi stabiliti». Parole impegnative. Riflettono o una strategia già delineata a Palazzo Chigi; o una forte dose di ottimismo; oppure, a sentire i detrattori del premier, una scarsa conoscenza dei meccanismi spietati che scattano quando si corre verso il Colle. Il tentativo è di utilizzare il cosiddetto «metodo Cossiga» che portò all’elezione immediata di Francesco Cossiga nel giugno del 1985.
Ma erano altri tempi e c’era un altro Parlamento. Oggi, significherebbe proiettare sul Quirinale l’asse istituzionale tra Pd e Fi: il patto del Nazareno. È l’alleanza che Grillo vuole far saltare, contrapponendo a questo schema il «metodo della Consulta»: il compromesso raggiunto in aula col Pd per votare insieme i giudici costituzionali. In quell’occasione, era ottobre, si parlò di maggioranze variabili e Fi gridò al tradimento.
In entrambi i casi, a emergere con nettezza è la centralità del partito di Renzi, che in teoria può optare per l’uno o l’altro interlocutore. Ma l’idea di saltare da Fi al M5S non è così semplice da realizzare. Presuppone gruppi compatti, che al momento non si vedono; e la sintonia con un Grillo coerente soprattutto nei suoi piani di destabilizzazione, e imprevedibile nei comportamenti. E poi, la sirena del candidato estraneo alla politica, oltre a essere ambigua e demagogica, verrà usata per alimentare gli umori antirenziani nel Pd.

il Fatto 19.12.14
L’ingorgo di date intorno al Colle
di Sara Nicoli


Una tela di date. Tessuta in modo da sostenere le riforme e l’elezione del nuovo capo dello Stato in un’unica intesa granitica. Ancora una volta, Renzi e Berlusconi, tramite Verdini e Lotti, hanno rinnovato quanto stabilito nel Patto del Nazareno attraverso un timing molto serrato di lavori parlamentari che vedrà prima l’approvazione, da parte della Camera, della Riforma del Senato (seconda di 4 letture previste), poi entro il 20 gennaio al Senato l’approvazione dell’Italicum. Quindi, avanti con la nomina del successore di Napolitano. Sulla data delle dimissioni, sembra che il capo dello Stato sia orientato ad annunciare la fine del suo secondo mandato il 14 gennaio, un solo giorno dopo la fine della presidenza italiana del semestre europeo. Da quel momento, poi, scatteranno i 15 giorni canonici per la convocazione delle Camere in seduta comune (con gli adempimenti relativi anche alla nomina dei grandi elettori regionali) che, quindi, dovrebbe cadere intorno ai primi di febbraio. E c’è chi sostiene, nello stretto giro renziano, che il premier sia orientato ad arrivare a quest’ultima scadenza con in tasca un accordo già fatto con Berlusconi e Salvini sul nuovo presidente. Un nome che, dicono le stesse fonti, sarà sottoposto anche ai 5Stelle, ma solo dopo aver incassato il via libera degli altri. Le intenzioni di Renzi sono apparse chiare ieri grazie a questa dichiarazione: “Credo che non ci saranno problemi quando il Parlamento dovrà sostituire Giorgio Napolitano – ha detto da Bruxelles – credo che il Parlamento abbia imparato la lezione del 2013, e sono assolutamente convinto che farà quello che deve fare nei tempi stabiliti”.
UNA CONVINZIONE che, tuttavia, potrebbe infrangersi sulla tenuta dei gruppi parlamentari, sia quello del Pd che quello, oggi assai più turbolento, di Forza Italia. Determinando una fase di caos, dalle conseguenze immaginabili.
Intanto, però, il timing è partito. Oggi la conferenza dei capigruppo al Senato calendarizzerà la discussione dell’Italicum su cui anche Alfano dimostra fretta: “Fa parte di un accordo che riguarda importanti segmenti dell’opposizione, e mi riferisco a Forza Italia – ha detto il ministro dell’Interno – quindi chiudiamo la partita al più presto possibile”. In pratica, le stesse parole usate da Maria Elena Boschi: “C’è l’accordo con Forza Italia”. Anche perché, dopo l’incontro di martedì tra Verdini e Lotti, la nuova legge non fa più paura a Berlusconi che aveva sempre tenuto il freno a mano tirato nel timore che Renzi volesse utilizzarla per andare al voto in primavera. Nel nuovo accordo, è prevista l’entrata in vigore della legge per il 1 settembre 2016, quando la riforma del Senato avrà già avuto tutte e quattro le letture previste e – forse – si sarà celebrato anche l’eventuale referendum. Non è previsto, invece, il ricorso al Consultellum in caso di un voto anticipato prima della primavera del 2017, segno evidente che né Berlusconi, né Renzi hanno intenzione di ricorrere alle urne prima; i sondaggi danno il premier in caduta libera, ma la situazione di Forza Italia è senz’altro peggiore, segnando un secco 12,5%. Meglio, dunque, rispettare anche l’antica prassi che vuole un nuovo capo dello Stato di certo mal disposto a mostrare debolezza sciogliendo le Camere, come primo atto del suo settennato, per consentire le elezioni anticipate a primavera prossima. Una prassi che, insomma, ora fa comodo davvero a tutti.

il Fatto 19.12.14
La successione
Idea primarie? Il Pd dice no
di Wanda Marra


Eleggere il presidente della Repubblica con le primarie? Non esiste. Vogliamo cambiare la Costituzione? Se vogliamo delegittimare il Parlamento, questo è il modo”. Carlo Galli, storico, deputato Pd, non ha dubbi. Ma in fondo, un Capo dello Stato deciso da tre o quattro persone, e proposto a un Parlamento che si trova semplicemente a doverlo ratificare, senza poter scegliere davvero, non è delegittimato? E dall’alto? “Noi possiamo discutere, decidere. Ci dovranno spiegare perché ci propongono una persona, invece di un’altra. Io, per esempio, sono uscito dall’Aula quando si è votato il jobs act”.
Timori e minacce, segnali e richieste, si moltiplicano di giorno in giorno in vista dell’elezione del successore di Napolitano. I gazebo, però, non sembrano un’opzione possibile praticamente per nessuno dentro al Pd.
Ma come, il partito che ha fatto delle primarie un vanto, guidato da un segretario-premier che l’ha scalato a colpi di consultazioni tra gli elettori? La platea prevista per l’inquilino del Colle è diversa, spiegano un po’ tutti: dare anche solo un potere consultivo ai cittadini, sarebbe un modo per arrivare diritti diritti alla repubblica presidenziale. “Non ci servono altre derive populiste”, sintetizza Stefano Fassina. “Primarie? Assolutamente no”, va diritta la Giovane Turca, Giuditta Pini. “Ci prenderemo le nostre responsabilità”, spiega Andrea Giorgis, minoranza dem, uomo da mediazioni in punta di diritto in Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio.
I PRODIANI, quelli che sarebbero naturalmente più attratti dai gazebo, evitano persino di evocarli: non vogliono sentirsi dire che lo fanno per portare avanti il Professore. Anzi, ricordano quello che successe l’ultima volta. Quando si era pensato a una sorta di consultazioni (notturne) tra i democratici chiamati a votare per il Quirinale, per scegliere tra Prodi e D’Alema, dopo la bocciatura di Marini. Alla fine, non se ne fece nulla, l’assemblea convocata praticamente all’alba scelse per acclamazione il Prof e i 101 lo affossarono nel segreto dell’urna.
Le primarie tra i grandi elettori dem, però, tornano, come idea. Per dirla con il bersaniano Alfredo D’Attorre: “Dovrà essere Renzi a proporci un metodo. Certo, quelle tra noi potrebbero essere un’opzione”. Il segretario-premier ha già fatto sapere che convocherà un’Assemblea preventiva. Sarà risolutiva? “Matteo decide lui. Il nome forse già ce l’ha, anche se non lo dice a nessuno, o magari lo sta cercando. Tipo coniglio dal cappello”, scherzano (e neanche tanto) i renziani. Conoscendolo, le vere intenzioni del Capo, al netto di accordi obbligati, sarebbero queste. Altro che consultazioni allargate. Certo, l’azzardo è alto. Ma niente paura: “Il Parlamento ha imparato la lezione del 2013”. Matteo dixit.

il Fatto 19.12.14
Il Quirinale nel patto del Nazareno
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, quel galantuomo di Berlusconi non vuole giochi sotto il tavolo. Il 14 dicembre ha messo le cose in chiaro: il patto del Nazareno comprende anche l’accordo sul Quirinale. Vuol dire che cosa?
Aloisio

VUOL DIRE MOLTO, vuol dire che quel giovanotto che ogni giorno rimprovera alcuni dei suoi di avere qualche dubbio sulla sua straordinaria qualità di giocatore politico, agisce sotto strette condizioni pattuite altrove, e prima che il gioco cominciasse e della sua strepitosa discesa in campo. Persino chi ha i pregiudizi (i miei, intendo, che i lettori conoscono) su Berlusconi ed è persuaso della sua fondamentale separazione da ogni tipo di scrupolo, sa che in questo gioco (il gioco del Nazareno) Berlusconi non ha mai bluffato e non è mai stato smentito. Non nei fatti. Qualcuno avrebbe immaginato che l'intero Pd (meno cinque) si sarebbe messo nelle mani di Verdini e dei suoi giudizi su persone, cose, leggi, iniziative e divieti? Ma Berlusconi l’aveva detto subito e ormai lo sanno tutti che non cade foglia che Verdini non voglia. Naturalmente anche Renzi ha i suoi poteri e ce lo fa capire con le minacce non velate di fare fuori tutti i suoi avversari. E infatti ha alle sue spalle, senza tentennamenti, tutte le sue ragazze e i suoi ragazzi. Nuovi, senza passato e senza idee che disturbano. Ma siamo all’interno di un contenitore stagno di “valori” istituito da Forza Italia e poi dal Popolo della libertà, mentre, per dirla con Renzi, l’Ulivo sprecava vent’anni nel niente. Sarà anche vero. Ma adesso noi (noi italiani) condotti da Renzi, respiriamo l’aria di Berlusconi. E infatti sentite le parole di Berlusconi dette mediaticamente per bocca di Renzi a conclusione dell’ultima, umiliante assemblea del suo partito: “Vorrei giudici che rilasciano meno interviste e scrivono più sentenze”. Frase evidentemente minacciosa dell’esecutivo contro il giudiziario. Proprio per questo, il punto fermo di Berlusconi resta. Sentite la frase, che copio in tempo reale dal cellulare: “Non potrà essere eletto un capo dello Stato che a noi sembri non adeguato”. La frase non è politichese, è contrattuale. “Non adeguato” è chiunque si sia immischiato, per esempio, negli affari di Berlusconi, e li abbia descritti in tutti gli aspetti, unici al mondo (per il tipo di amici e il tipo di affari) di un capo di governo, che infatti dispone, in tutto il mondo, di una discussa reputazione. Ma quella reputazione è buona abbastanza per Renzi, che fa scenate contro chi dissente. Lui però ubbidisce. Che il patto sia con te, gli sta dicendo Berlusconi, ma ad alta voce, perché sentano tutti. Quel patto infatti è la forza di Renzi. Una forza che rinvia ad altre forze che neppure Berlusconi, che è uno col cuore in mano, ha mai voluto indicarci. In ogni caso il contratto prevede (articolo 1) che un antiberlusconiano (nel senso del rispetto delle regole, delle leggi, delle sentenze, della morale corrente) al Quirinale non passa. Né in alcuna altra carica o funzione pubblica (dunque anche Rai, direzione di giornale, responsabilità scientifica, rettorato universitario, primariato, direttore di banca). Chiaro?

Repubblica 19.12.14
L’esorcismo del premier sul Quirinale
Renzi ostenta tranquillità ma è un modo per mascherare la paura di un lungo stallo in Parlamento

di Stefano Folli

NON è esatto, come sostiene polemico Renato Brunetta, che il capo dello Stato abbia steso una coltre di nebbia sulla data delle sue dimissioni. Al contrario, il quadro è piuttosto chiaro e non da oggi. Il termine ufficiale del semestre di presidenza europea è il 13 gennaio. Quella è anche la scadenza sempre individuata da Napolitano come fine anticipata del secondo mandato. Ed è, appunto, una scadenza «imminente », giorno più giorno meno.
Insistere su di una confusione istituzionale che non c’è, ha poco senso. Tuttavia è vero che in queste settimane di attesa e di transizione c’è chi ha interesse a pescare nel torbido. Ieri Beppe Grillo ha attaccato il presidente con toni di rara violenza (chissà cosa pensa Francesco Storace, che per meno è stato condannato in base al reato di vilipendio). Non c’è da stupirsi: nel vuoto altri attacchi seguiranno prima che le Camere comincino a votare per eleggere il successore di Napolitano (si prevede intorno alla fine di gennaio). Grillo ha trovato questa scorciatoia per tornare a esistere sui giornali e magari per tamponare la piccola diaspora dei parlamentari Cinque Stelle. O almeno provarci.
Anche da tali episodi si capisce che le prossime settimane saranno ricche di insidie. Nonostante le apparenze, il punto non è tanto l’incertezza sulla data esatta delle dimissioni di Napolitano, quanto l’incertezza su quello che accadrà subito dopo in Parlamento. Infatti il quadro resta opaco, nonostante l’ottimismo del presidente del Consiglio. Renzi garantisce che «andrà tutto bene» e che deputati e senatori «hanno imparato la lezione del 2013». È un riferimento trasparente al caos di un anno e mezzo fa che portò alla rielezione di Giorgio Napolitano. Ma è anche il segno di una paura che il premier si sforza di esorcizzare fin d’ora. Con quali strumenti?
Che il Parlamento abbia imparato la lezione non è facile da credere. Al contrario, la verità è che le forze politiche hanno continuato a sfilacciarsi. Il «renzismo» come filosofia e pratica del potere si è imposto lasciando nel Pd una scia di risentimenti che lo stesso presidente della Repubblica, in modo abbastanza inusuale, ha cercato di arginare criticando con asprezza la minoranza interna. Quanto al centrodestra, nel 2013 la crisi attuale quasi non esisteva. Il panorama parlamentare è quindi frastagliato come forse mai in passato. E la lezione è stata appresa così poco che ci sono voluti mesi per eleggere un giudice della Corte Costituzionale, mentre per un altro non c’è stato niente da fare.
Renzi ovviamente vede il pericolo di un lungo stallo. L’elezione del presidente della Repubblica è di solito il paradiso dei franchi tiratori e i 101 voti segreti contro Prodi sono lì a ricordarlo. Oggi occorre davvero molto ottimismo per credere che la storia sarà diversa in assenza di accordi vincolanti. Che per ora non ci sono, sebbene Renzi stia seguendo l’unica strada possibile: rinforzare i paletti della maggioranza, e in primo luogo del Pd, e poi rivolgersi a Berlusconi. Al quale verrà proposta una candidatura espressione dei democratici, ma «non ostile» a lui. In altri termini, il premier rimane fedele alla linea iniziale. Nessuna candidatura condivisa con il fronte berlusconiano, al di là della retorica sul patto del Nazareno, ma un messaggio tra le righe: per Forza Italia il candidato renziano, scelto con accortezza, è sempre meglio di un salto nel buio.
Per ora Berlusconi si lascia portare dalla corrente e accetta quasi tutto. Ma nessuno può indovinare cosa accadrà se le votazioni a vuoto cominceranno ad accavallarsi e Salvini, oltre a Grillo, suonerà le sue trombe. Ecco perché Renzi vorrebbe chiudere al più presto. Ma il metodo Cossiga e anche il metodo Ciampi, uno nel 1985 e l’altro nel ‘99, erano il frutto di un sistema politico che non c’è più. In un Parlamento frammentato il «metodo» non sarà un’architettura decisa a tavolino. Stavolta si dovrà individuare un nome e poi costruirgli intorno una maggioranza credibile.

Repubblica 19.12.14
Emanuele Macaluso
“Temo l’elezione più caotica di sempre”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA . «Sarà una situazione incandescente, l’elezione per il presidente della Repubblica più caotica che ci sia mai stata». Emanuele Macaluso, l’amico di una vita e consigliere di Napolitano, fa una previsione fondata sui tanti anni di esperienza politica a parlamentare.
Macaluso, perché Napolitano ha voluto rimarcare l’addio «imminente» al Colle?
«Credo per evitare il balletto delle conferme-non conferme, per scongiurare altre discussioni ».
Lascerà subito il capo dello Stato o a fine gennaio-inizio di febbraio?
«Si è impegnato a portare a compimento il semestre Ue, che significa arrivare al 13 gennaio. Fino a lì ci sarà, terrà fede all’impegno. Sul giorno e sul come sono certo che guarderà gli interessi delle istituzioni e deciderà. Da tempo dice: “Badate che io dopo la copertura di questo semestre lascio».
Sarà un Vietnam o questa volta le acque saranno più calme, senza i 101 “franchi tiratori” dem?
«E’ vero che oggi abbiamo un Parlamento in cui c’è una maggioranza, abbiamo un presidente del Consiglio, anche una prospettiva di lavoro del governo».
Quindi sarà più semplice scegliere il successore di Napolitano?
«No. Ho partecipato a tante di queste sedute. Anche quando c’erano i partiti veri e propri nella Prima Repubblica, chi entrava Papa usciva diavolo, il nome era Sforza e fu Einaudi. Nel 1955 fu candidato Merzagora da Fanfani e uscì Gronchi. Anche successivamente Fanfani si propose due volte, e una volta ebbe la meglio Saragat l’altra Leone. Gli unici momenti certi si ebbero quando ci fu l’accordo Dc-Pci-Psi cioè con Pertini e Cossiga. Oggi la parola passerà ai gruppi parlamentari che mi sembrano piuttosto spappolati, sia i 5Stelle che Forza Italia. Berlusconi comanda una piccola squadretta. Macché Patto del Nazareno, lì ogni testa è un tribunale ».
Napolitano sta pensando al suo possibile successore?
«Vuole restare fuori, è del tutto rigoroso e fa bene. Sarà appunto l’elezione più caotica che ci sia mai stata. Il capo del Pd, che è anche premier, ha maggiori atout, perché è il partito che ha la maggioranza alla Camera e al Senato. Ma non potrà esprimersi lui solo perché il candidato al Quirinale deve cercare un largo consenso».
Napolitano è stato spesso criticato.
«Ha gestito una delle presidenze della Repubblica tra le più difficili, è davvero molto stanco e ha 89 anni. È stato un capo dello Stato di tutti gli italiani e da sinistra lo hanno accusato di avere tutelato Berlusconi e da destra di essere di sinistra. Ma ha voluto garantire la stabilità politica dell’Italia ».
E Grillo?
«È un miserabile».
Lei chi vedrebbe bene al Quirinale?
«Il toto nomi è un divertissement giornalistico. Il problema è vedere chi avrà la maggioranza più uno dei membri. Oggi non vedo nessuno, domani spero ci sia e anche in fretta. L’Italia non può dare spettacoli degradanti».

Corriere 19.12.14
Islamisti all’assalto contro il laico Atatürk  
risponde Sergio Romano


In una conferenza che si è tenuta recentemente e a cui ho assistito, un relatore
ha riferito che l’origine dei movimenti estremisti islamici, che riempiono le pagine
dei quotidiani soprattutto di questi ultimi tempi, hanno avuto origine in seguito alla occidentalizzazione della Turchia, operata da Kemal Atatürk dopo la Prima guerra
mondiale. Qual è il suo parere in proposito?
Cesare Scotti

Caro Scotti,
I fondamentalismi non hanno una precisa data di nascita. Come nel cristianesimo e nell’ebraismo, anche nell’Islam esiste una interpretazione intransigente della rivelazione divina che riemerge con sfumature diverse ogniqualvolta la modernità e i mutamenti sociali mettono in discussione gli antichi precetti. La Fratellanza musulmana, precursore di quasi tutti gli islamismi radicali degli ultimi decenni, nacque in Egitto alla fine degli anni Venti perché questo Paese fu, sin dalla spedizione di Bonaparte nel 1798, quello maggiormente esposto all’influenza dell’Europa. Ogniqualvolta la modernità si profila all’orizzonte, i custodi più rigorosi della «verità» si organizzano per meglio resistere.
È certamente vero, tuttavia, che la fondazione della Fratellanza a Ismailia, sul canale di Suez, nel marzo del 1928, coincide con le grandi riforme che fecero della Repubblica turca lo Stato più rigorosamente laico dell’intero universo musulmano. Era quindi inevitabile che Mustafà Kemal, divenuto da poco Kemal Atatürk, fosse per i Fratelli un pericoloso nemico. Aveva soppresso il Califfato, aveva sostituito l’antica grafia araba con l’alfabeto latino, aveva proibito il fez e l’uso del velo nelle pubbliche istituzioni, aveva assoggettato il clero alla sorveglianza di un ministro del Culto che leggeva e correggeva, se necessario, le prediche del Venerdì.
In un libro apparso presso Laterza nel 2006 ( Il Profeta e il faraone. I Fratelli musulmani all’origine del movimento islamista ), uno studioso francese, Gilles Kepel, ricorda che nelle pubblicazioni educative della Fratellanza Kemal è descritto ai giovani come l’uomo che aveva rovesciato il Califfato. In una rubrica diretta ai «leoncini musulmani» (i balilla della Fratellanza), Kemal viene addirittura accusato di essere un «cripto ebreo». Al suo giovane lettore ideale, l’autore dell’articolo scrive: «È il tuo nemico, leoncino musulmano, è il nemico della tua religione, egli ha dei legami con il primo nemico dei musulmani, gli ebrei. Del resto faceva parte di una setta ebraica chiamata “ebrei di dawnama” che ha una dottrina occulta; gli adepti di questa setta si servivano dell’Islam come di un velo dietro cui dissimulare il loro apostolato, per timore della forza e della potenza del Califfato ottomano».
Sembra che la setta effettivamente esistesse, ma non esistono documenti da cui risulti che Kemal ne facesse parte. La sua presunta appartenenza a una misteriosa società segreta permetteva comunque agli islamisti di affermare che il creatore della Repubblica turca non aveva mai appartenuto al mondo musulmano. Era più facile, in questo modo, additarlo ai giovani adepti come il loro principale nemico.

Corriere 19.12.14
Se l’analfabetismo ora sbarra anche le porte della Rete
Un italiano su tre non ha effettuato alcun accesso a Internet
di Luca Mastrantonio


Ludwig Wittgenstein, nelle sue riflessioni filosofiche, sosteneva che i limiti del linguaggio di una persona sono i limiti del suo mondo, cioè di tutto ciò che può capire, pensare, esprimere. Per almeno un italiano su tre, Internet è fuori dal mondo, qualcosa che non capisce, cui non vuole accedere. I dati Istat parlano di circa 22 milioni di italiani dai sei anni in su (il 38,3% della popolazione) che nel 2014 non hanno effettuato un accesso a Internet. Un dato che cronicizza vecchi divari e rafforza nuovi conflitti: quello infrastrutturale tra Nord e Sud, quello sociale tra lavoratori attivi e pensionati, e quello anagrafico e linguistico tra vecchi e giovani. L’autoritratto di un Paese diviso: tra chi si fa i selfie e chi dice «autoscatto» .
Da una parte, a grandi linee, ci sono i «nativi digitali». Giovani nati dal 1985 in poi, cresciuti in un mondo iperconnesso, dove motori di ricerca come Google sono la babysitter tuttologa e social network come Twitter sono la terminazione naturale e spesso immediata del proprio corpo e della propria mente (a volte con effetti nocivi, vedi Mario Balotelli): è connesso l’84% degli italiani tra i 14 e i 24 anni.
Dall’altro lato, ci sono le fasce di età più avanzata e in uscita dal mondo del lavoro che non usano Internet. Tra i 65 e i 74 anni, la percentuale di chi non si connette è del 74%, e arriva al 93,4 per gli over 75. Continuano a vivere secondo i propri costumi, antecedenti al web , in un mondo dove il web è in crescita: l’Istat, infatti, segnala l’aumento delle famiglie che hanno un accesso Internet da casa (dal 60,7% del 2013 al 64) e di una connessione a banda larga (dal 59,7% al 62,7%). Restando alla metafora antropologica, si possono chiamare «aborigeni digitali».
I blocchi, ovviamente, non sono granitici, né omogenei: molti italiani sono cresciuti in un mondo offline e si sono poi adattati a quello online, sono i «migranti digitali». E il caso di Gianni Morandi, il ragazzo nato nel 1944 che amava i Beatles e i Rolling Stones e oggi, praticamente, vive su Facebook. E ancora, è il caso dei tanti spettatori dello show televisivo di Roberto Benigni, I Dieci Comandamenti : l’età media dei circa dieci milioni che hanno visto ognuna delle puntate su Rai1 era di 57 anni, ma l’evento televisivo — si tratta di «convergenza mediatica» — ha scatenato commenti e condivisioni sui social network, entrando nei trending topic , cioè gli hashtag di successo su Twitter, come #Benigni o #iDieciComandamenti.
Ma la vera eccezione, in negativo, riguarda i giovanissimi nati in epoca digitale ma, di fatto, non connessi: non usa Internet, infatti, il 50 per cento dei bambini tra i 6 e i 10 anni (sono un milione e mezzo). Le motivazioni? Il contesto, che è determinante. Lo rivela il caso dei nati nei primi Anni Zero: nei nuclei in cui entrambi i genitori usano la Rete, il tasso di disconnessione scende al 6,7%, mentre in case dove mamma e papà sono offline sale al 40,1%. Si tratta di ragazzi nati nell’era digitale ma tagliati fuori dalle infrastrutture online , che rischiano di essere analogici fuori tempo massimo, «alieni» rispetto ai coetanei digitali. Spesso, ovviamente, si tratta di una scelta, discutibile o meno, di pedagogia o sicurezza: tra i minorenni, il 58% dei non utenti tra i 6 e i 10 anni e il 42,2% della fascia tra gli 11 e i 14 anni non accede al web per scelta dei genitori.
Non si tratta, comunque, di un problema solo di infrastrutture o di contesto sociale, ma di forma mentis, e dunque un problema culturale. Lo dimostra il fatto che chi resta offline magari ha uno smartphone , presente nel 93,6 per cento delle famiglie. E ancora, le motivazioni del non accesso a Internet spesso sono personali, psicologiche, cognitive. Gli italiani che non si connettono a Internet lo trovano non interessante (28,7%), non ne sano nulla (27,9%) o ammettono di non saperlo usare (27,3%); c’è chi lo trova inutile (23,5%) e chi dice di non avere gli strumenti tecnici (14,3%); i restanti, pochi, lamentano i costi troppo alti o la paura per la privacy . Quindi?
Questo analfabetismo digitale sembra richiamare l’analfabetismo di ritorno, sul quale recentemente è stato lanciato un chiaro allarme da parte di linguisti, storici, professori e docenti: cresce la fetta di popolazione che non pratica, nella forma base, operazioni di calcolo, elaborati di lettura. Matematica e lingua italiana. Elementi basici dell’alfabeto digitale, grammatica linguistica più codice informatico. Come se in Italia, all’unificazione della lingua parlata, che ha vinto sul dialetto grazie alla televisione, stia seguendo una disunità: non semplicemente tra analogici e digitali, ma tra analfabeti (o illetterati), sia analogici sia digitali, e coloro i quali invece leggono e scrivono online.
Molti italiani non connessi percepiscono Internet come un linguaggio ignoto, che mostra le spalle; rischia, così, di assomigliare al latino. Lingua universale, nell’età moderna, per la Chiesa e i dotti di tutta Europa; ma incomprensibile e impraticabile per i popoli. Come quello italiano, che nel Dopoguerra assisteva ancora alla messa in latino, senza capirne il senso.

Repubblica 19.12.14
Anatomia di una strage
di Guido Ceronetti


QUANDO si traduce il libro dei Salmi è inevitabile una reazione di rigetto dell’ultimo versetto del canto dei pellegrini 137, quello “Sui fiumi di Babilonia”: “Oh figlia di Babilonia! Beato chi piglierà i tuoi lattanti e te li sbatterà sulla roccia”. Seguire alla lettera una Scrittura sacra arriva fin là e può non fermarsi più. Ma no, tu dici, sono cose di duemilacinquecento anni fa... Eppure gli scuolabus fatti saltare dalle Intifade, e quelli afgani che portano femmine ad istruirsi? Il male fatto ai bambini non sarà mai espiato dal mondo umano, e io ho avuto per stella polare nella mia lunga vita la regola di non procrearne. E i modi incruenti di versarne il sangue, segandone le ali d’angelo con l’implacabile imposizione elettronica? Dovunque, non soltanto in quella sventurata città d’Estremo Oriente, la strage di bambini, invece che eccezione mostruosa e tragica, è un’abominevole modalità dello Struggle-for-Life e una conseguenza (neppure considerata, se non da rari illuminati) dell’antropizzazione planetaria.
Nel finale del romanzo di Jack Kerouac, dove compare un vecchio sullo sfondo della notte texana, all’improvviso, e prescrive al protagonista: — Va’ e piangi per l’uomo! — è detto quasi tutto quel che possiamo, quel che ci resta da fare.
Oppure, senti che bellezza, inviare messaggi ufficiali di deplorazione e di cordoglio! Che cosa ci mettiamo? Che quel sangue innocente ricade su tutto il genere umano? Non corriamo troppo... Avverrà ancora di peggio e rischiamo di rimanere a corto di parole! Atto infame? di ispirazione demoniaca? di suggestione infera? Eh no, così scoroniamo di aureola il dogma assoluto dell’emisfero occidentale: la Libertà dell’Arbitrio! Così ci investe perplessità nell’attribuzione delle responsabilità penali! Così diamo ragione a una parola di poeta, che a fino in fondo comprenderla confonde le nostre certezze razionaliste di Colpa: “Chi è che dietro di noi ci ordina di uccidere?”. La politica, vorrei suggerire, farebbe meglio a restare muta. Al massimo, richiedere a un parlamento un minuto di silenzio. Più numerosi fossero, meglio sarebbe.
C’è qualcosa di specificamente nuovo da porre sotto la lente, in questo episodio: l’unico movente non è il delirio religioso, ma la smania di “far vedere che cosa si prova” al nemico militare, quando si perdono i figli, un allargamento, che può essere illimitato, della vendetta di sangue. Tu mi hai tolto o potresti togliermi, nelle tue azioni di guerra, i figli: adesso io anticipo, e la pregusto, la delizia di toglierli a te e poi stare a guardare le tue donne, le loro madri, agitarsi con i loro ululati, ascoltarle spargere intorno alla scuola i loro muggiti. Il resto è silenzio.

Repubblica 19.12.14
I padroni del cibo
Sono dieci i signori dell’industria alimentare che controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta

di Paolo Griseri

Sono dieci i signori dell’industria alimentare che controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta. Queste multinazionali gestiscono 500 marchi che entrano nelle nostre case quotidianamente Così pasta, biscotti e caffè diventano globali, anche in Italia. E le grandi questioni, come l’uso di oli e grassi nei prodotti, vengono decise a tavolino

STANNO seduti intorno alla tavola del mondo e controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta. Sono i 10 signori dell’industria alimentare: 450 miliardi di dollari di fatturato annuo e 7.000 miliardi di capitalizzazione, l’equivalente della somma del pil dei paesi più poveri della Terra. Non sempre sono nomi noti in Italia. Da un secolo la Coca Cola è il sinonimo della multinazionale ma solo gli addetti ai lavori conoscono la Mondelez. Un po’ più numerosi sono gli italiani che ricordano la Kraft, vecchio nome proprio della Mondelez. Quasi tutti invece hanno incontrato al supermercato marchi come Toblerone, Milka e Philadelphia. «I 500 marchi riconducibili ai dieci signori della tavola — spiega Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia — sono spesso vissuti dai consumatori come aziende a sé stanti. In realtà fanno parte di multinazionali in grado di condizionare non solo le politiche alimentari dell’Occidente ma anche le politiche sociali dei paesi più poveri».
A rendere chiaro il quadro (rappresentato dal grafico della Oxfam pubblicato in queste pagine) c’è il paradosso del ricco Epulone, il protagonista della parabola evangelica. Mentre sono 900 milioni le persone che soffrono la fame (dati Onu settembre 2014) e che vivono sotto la tavola del banchetto sperando nelle briciole, sono 1,4 miliardi gli uomini e le donne che nel mondo hanno il problema del sovrappeso. «Sono due prodotti dello stesso sistema — osserva Barbieri — perché l’80 per cento di coloro che non riescono a sfamarsi vivono nelle campagne e lavorano per produrre cibo». Oxfam è un’organizzazione che si propone di aiutare le popolazioni povere del mondo cercando di redere virtuosi, con campagne e raccolte di firme, i comportamenti delle multinazionali del cibo. Il sistema è quello di fare pressione sull’immagine dei gruppi alimentari in Occidente per spingerli a migliorare le politiche sociali nei paesi produttori. È accaduto con Nestlé, Mondelez e Mars per quel che riguarda i diritti delle donne che lavorano nelle piantagioni di cacao. Si chiede che accada con Coca Cola e Pepsi per evitare il fenomeno del land grabbing, l’esproprio forzoso delle terre dove si coltiva la canna da zucchero. «Già oggi — spiega Oxfam — sono coltivati a zucchero 31 milioni di ettari di terra, l’equivalente della superficie dell’Italia».
La tendenza alla concentrazione dei marchi è in atto da tempo e riguarda praticamente tutti i settori alimentari. Ci sono eccezioni quasi inevitabili come il latte e il vino. Stiamo naturalmente parlando di grandi multinazionali. Ma se nel settore vinicolo il blocco alla creazione di grandi gruppi è dovuto a un legame strettissimo con il territorio (ogni collina è una diversa cantina sociale), nella birra non è più così da tempo: i tre principali marchi mondiali, i belgi in In Bev (Artois, Beck’s e la brasiliana Anctartica), i sudafricani di SAB Miller e gli olandesi di Heineken controllano da soli il 60 per cento del fatturato mondiale e raccolgono l’80 per cento degli utili. Analoga concentrazione sta per avvenire nel settore del caffè. «L’esempio della birra — spiega Antonio Baravalle, ad di Lavazza — dimostra che nei settori dell’alimentare la concentrazione delle proprietà fa aumentare i profitti». Dunque c’è da immaginare che nei prossimi anni i dieci signori che governano le tavole del mondo si ridurranno ancora? «Penso che ci sia un limite. Fondersi ancora di più non sarà facile. Mi sembra più probabile che ciascuno di quei dieci gruppi assorba nel tempo altri gruppi minori ».
Anche se, a ben guardare la composizione della tavolata, non tutti i signori del cibo hanno la stessa consistenza. Provando a metterli in fila per fatturato, la Nestlé è di gran lunga più grande (90,3 miliardi) della seconda classificata, la Pepsicola (66,5 miliardi). Nonostante il suo valore iconico, come si dice oggi, la Coca Cola è ben distaccata dalla storica rivale ed è ferma a 44 miliardi di fatturato, scavalcata da Unilever (60) e Mondelez (55). A fondo classifica la Kellogg’s con 13 miliardi di dollari di ricavi annui. Con queste marcate differenze tra i dieci primi in classifica c’è, in teoria, ancora spazio, per i matrimoni. «Ma può anche accadere — spiega Baravalle — che uno dei grandi gruppi decida di liberarsi di un marchio perché non lo considera abbastanza globale». È quel che è successo, ad esempio, con la scelta di Mondelez di cedere i suoi marchi del caffè. Ed è quel che è accaduto negli anni scorsi a Findus, un tempo di Nestlé e Unilever e oggi in maggioranza detenuta da un fondo di investimento. Findus continua ad essere un ottimo marchio ma il suo difetto, secondo le valutazioni delle multinazionali, è quello di essere forte solo su alcuni mercati. Un’altra tendenza è quella di rilevare un marchio alimentare locale perché faccia da veicolo alla penetrazione di un grande gruppo in un mercato. Se Unilever, per esempio, deciderà un giorno di acquistare un marchio locale in un paese asiatico, lo farà soprattutto per mettere piede in quel mercato e poterlo affiancare dopo poco tempo con uno dei suoi brand globali.
Dopo altri decenni di fusioni e concentrazioni, ci troveremo un giorno a consegnare ad un unico grande fratello le chiavi della dispensa del mondo? Quello di un pianeta in cui una sola grande multinazionale controllerà tutti i marchi alimentari è certamente uno scenario da incubo. Ma come tutti i processi di concentrazione, anche quello del cibo crea inevitabilmente i suoi anticorpi. Succede in politica, dove contemporaneamente alle unioni tra stati nascono i movimenti separatisti e territoriali; accade, in modo assai più virtuoso, nell’alimentare con il sorgere dei prodotti chilometro zero, i presidi territoriali, i sistemi di produzione artigianale. Chi decide di resistere alla tentazione di vendere l’azienda alle multinazionali è inevitabilmente portato a valorizzare il suo brand mettendo in evidenza il legame con il territorio.
L’Italia è certamente uno dei Paesi del mondo dove il rischio della concentrazione dei produttori di alimenti è meno forte. Un po’ per il particolarismo che caratterizza la nostra economia asfittica. Un paese dominato dal modello per molti aspetti negativo della piccola e media impresa, che nel settore del cibo potrebbe trasformare il difetto in virtù. Lo dimostra uno studio condotto dall’agenzia Next con un questionario rivolto alle aziende alimentari italiane. L’elenco di quelle principali dice che siamo ben al di sotto del livello dei colossi mondiali. L’unica che si avvicina per fatturato è la Ferrero, con 8,1 miliardi di euro di ricavi annui, circa 10 miliardi di dollari, poco meno dei 13 miliardi della Kellogg’s. Le altre sono molto più indietro. La Barilla fattura 3,5 miliardi di euro ed è limitata dal fatto di avere come business un prodotto molto connotato localmente come la pasta. Si contano sulle dita di una mano le altre italiane sopra il miliardo di fatturato: il gruppo Cremonini (3,5) Parmalat (1,4), Amadori (1,3) Lavazza (1), Conserve Italia (1). Immediatamente sotto il livello del miliardo ci sono Acqua San Benedetto, Galbani e Granarolo.
È evidente che gli 11 signori del cibo italiano sono molto meno potenti dei commensali della tavolata mondiale. Ci si chiede se i re dell’alimentare, in Italia e nel mondo, hanno politiche comuni, accordi segreti, si mettono d’accordo per decidere che cosa mangeremo nei prossimi trent’anni. L’idea di una Trilateral del cibo, di un supergoverno occulto delle nostre cucine, è forse fantasiosa: «Credo anch’io che messa così possa essere un esercizio di fantasia premette Baravalle — ma sarei un ingenuo ad escludere che sulle grandi questioni di politica alimentare i grandi gruppi non esercitino, com’è legittimo, le loro pressioni sui politici ». Certo, la discussione delle normative comunitarie sulla etichettatura risente ed ha inevitabilmente risentito dei desiderata dei signori del cibo. Ogni particolare in più o in meno da aggiungere sul foglio informativo per i consumatori si porta dietro miliardi di investimenti. Il caso più clamoroso è scoppiato di recente e riguarda gli oli utilizzati: finora è sufficiente scrivere che si tratta genericamente di “oli vegetali”. Ma se domani i produttori fossero costretti a specificare quali sono quegli oli, quanti avrebbero il coraggio di scrivere che utilizzano l’olio di palma, decisamente più scadente di quello di oliva? Ogni tanto sedersi intorno a un tavolo e decidere strategie comuni può essere utile. Anche per i signori del cibo.

giovedì 18 dicembre 2014

il Fatto 18.12.14
Bande e correnti
Così si organizzano i franchi tiratori
I 101 che impallinarono Prodi sono già raddoppiati
Tanti gruppi seminano il panico tra i democratici e i fittiani sono pronti a distruggere il Nazareno
di Fabrizio d’Esposito


Il manuale del franco tiratore sul Quirinale che verrà prende forma ora dopo ora nei capannelli o sui divanetti del Transatlantico di Montecitorio. I renziani tentano di esorcizzare l’abisso del pantano con un finto e nervoso ottimismo. Chi racconta che alla fine ci sarà il metodo Ciampi già al primo scrutinio, chi ribadisce che comunque non si andrà oltre la quinta votazione, quando servirà la maggioranza assoluta di 505 su 1008 grandi elettori. Ma le truppe dei ribelli, emuli dei 101 che frantumarono sia Prodi sia la Ditta di Bersani, si stanno organizzando e promettono di essere almeno il doppio di quelli che provocarono la genuflessione di un intero sistema davanti a Napolitano, con la supplica di accettare un inedito secondo mandato.
Il viaggio nei palazzi dove nascono le trame
La ricognizione del cronista, ovviamente, parte dal Partito democratico renziano che sulla carta conta 446 voti. La mappa del dissenso la fa un bersaniano ortodosso, a taccuino chiuso: “Non è vero che siamo 40. Siamo almeno il doppio”. Segue la descrizione delle tribù: “Tra Bersani e D’Alema, quelli fedeli-fedeli senza canali con Renzi sono 25. Poi una decina controllati da Fioroni, dieci di Civati, una ventina dell’area Cgil di Fassina e Damiano”. Siamo a 65. E il resto? “A questo punto entrano in ballo i malpancisti trasversali a tutte le correnti: parlamentari che vogliono la riconferma oppure che si lamentano di essere stati emarginati sul territorio; aspiranti sottosegretari che sono rimasti fuori dal governo; semplici deputati condannati all’anonimato che invidiano i colleghi che vanno in tv”. La somma di quest’ultima tribù, nome dopo nome, sfiora la cinquantina. In pratica, siamo a 115, ben oltre i 101 di prodiana memoria. Ma ecco che scatta la variante Nazareno, snodo decisivo della lunga partita che durerà due mesi: “Se Renzi ci porta impacchettato il candidato concordato con Berlusconi per la serie prendere o lasciare allora si sale minimo a 140, se non di più”. Qui è Rodi e qui bisogna saltare. Ed è per questo che Bersani vuole intestarsi il ruolo di mediatore unitario delle minoranze per trattare con il premier. La condizione dei ribelli è una soltanto: “Sconfessare Berlusconi e proporre uno dei nostri. Se il premier è un ex dc della Margherita, allora al Colle può andarci un pidino di matrice diessina”. I nomi che circolano sono tre, tenendo presente che ognuno di loro avrebbe già sondato riservatamente il Condannato: Piero Fassino, Walter Veltroni e Anna Finocchiaro. Qualcuno sostiene che alla fine potrebbe uscire lo stesso Bersani, ma molto dipenderà dall’inizio degli scrutini. Agli emissari dei ribelli, però, è chiara la minaccia che Renzi agiterà per farsi seguire: il voto anticipato. È lo schema del teorema propugnato dal forzista dissidente Augusto Minzolini: “A questo Parlamento, il futuro capo dello Stato deve garantire solo una cosa: far terminare la legislatura nel 2018. Con questa promessa potrebbe sperare persino Prodi”. Un paradosso, ma nemmeno tanto. Dai potenziali 140 del Pd si passa alle faide di Forza Italia. Ieri mattina a Omnibus, il fittiano Francesco Paolo Sisto – dopo aver collocato le parole di Napolitano contro le minoranze in una sorta di “anticamera dell’antidemocrazia” – ha detto chiaramente che la successione a Napolitano sarà un affare “molto complesso”. I parlamentari che fanno riferimento all’ex governatore pugliese Raffaele Fitto, baluardo azzurro contro il patto del Nazareno tra B. e Renzi, sono almeno quaranta dichiarati, pronti a diventare cinquanta nel segreto dell’urna. Battuta di un deputato non renziano del Pd: “A dare la linea a Fitto ci penserà D’Alema”. Segno che la leggenda sull’interlocuzione tra i due non è tramontata. Anzi: lo spettro di una convergenza tattica tra le due minoranze interne è un’altra variabile impazzita del Grande Gioco del Quirinale. E 140 più 50 fa 190 schegge impazzite che nel loro percorso segreto potrebbero incrociare le ambizioni dei centristi sparsi tra alfaniani di Ncd, casiniani dell’Udc ed ex montiani di Scelta civica. I neodc hanno un candidato, non solo di bandiera, che si chiama Pier Ferdinando Casini.
Crescono i cattivi pensieri del giovane fiorentino
L’ex presidente della Camera è politico esperto e navigato e sa perfettamente che le sue chance di successo sono bassissime. Però c’è un prezzo da stabilire per i voti e una scelta non condivisa oppure difficile da digerire creerebbe in quest’area una frangia di 30 malpancisti che farebbe schizzare a 200 la zona ballerina. Un tormento senza fine per Renzi a quel punto, che difficilmente compenserebbe queste perdite con lo scouting tra i grillini. Nel Movimento 5 Stelle i renziani in sonno non sono più di venti, nella migliore delle ipotesi. Ma Renzi una possibilità per recuperare voti ce l’ha. Gliela suggerisce un altro bersaniano in incognito: “Si sforzi di essere più simpatico”.

il Fatto 18.12.14
Renzi vuole prima l’Italicum, carta segreta per il Colle
Il premier spera che Napolitano ritardi di qualche giorno le dimissioni
Ennesima guerra con Forza Italia che vuole prma eleggere il successore
di Wanda Marra


Quello che ha in testa davvero Renzi per il nuovo presidente della Repubblica non lo dice a nessuno”. Il commento è condiviso dagli alti dirigenti Dem, come al Colle.
Il grande gioco del Quirinale è ufficialmente iniziato, il nome va proposto dal Pd. E il presidente del Consiglio è alla ricerca sia di una strategia che non lo faccia diventare rapidamente vittima di un Parlamento pronto a impallinarlo, sia di una figura che vada bene a lui, ma sia nello stesso tempo votabile dagli altri. Una ricerca che va di pari passo alla gestione degli altri due capi del triangolo delle Bermuda, dimissioni di Napolitano e approvazione dell’Italicum.
INTANTO, ha stabilito la war room: ci sono il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Lotti e il ministro delle Riforme, Boschi, il vice segretario Pd, Guerini, i capigruppo a Camera e Senato, Speranza e Zanda, e il presidente dem, Orfini, tra una pratica e l’altra su Roma.
Renzi ieri mattina è andato in Senato, ha spiegato i punti dell’Italicum, e ha chiarito che intende arrivare al voto prima dell’elezione del Colle. “Con il suo discorso iper-renziano, Napolitano ha blindato il premier. Quindi ora il Parlamento deve andare avanti con le riforme”, spiegano i fedelissimi. Renzi, dunque, ha tutte le intenzioni di usare quel (poco) tempo in più che gli ha concesso il Presidente, con le dimissioni non prima del 14 gennaio e i 15 giorni che possono passare tra queste e l’inizio dell’elezione del suo successore. Anzi, i suoi ancora cercano di rosicchiare giorni: il Presidente starebbe aspettando il timing delle riforme per capire se può rimandare l’addio fino alla fine di gennaio. Ma in commissione sono stati presentati oltre diecimila emendamenti. L’idea è di portare l’Italicum direttamente in aula. Dovrebbe arrivare il 22 dicembre o il 7-8 gennaio, per esser licenziato non oltre il 23. E se in Aula si dovesse ripresentare la stessa situazione? Si parla di canguro, di contingentamento dei tempi, di tagliola. C’è il precedente del voto sulle riforme l’estate scorsa: prova non brillantissima, dalla quale il governo uscì dopo aver preso a testate l’opposizione, in molto più tempo di quanto avrebbe voluto.
Trattativa politica in atto sulla clausola di salvaguardia. Renzi ha intenzione solo di inserire nell’Italicum una data dalla quale entra in vigore. Il duo Boschi-Guerini, da un lato, e Verdini in contatto con l’ex Cavaliere, dall’altro, hanno lavorato per cercare una data tra il gennaio 2016 e il settembre 2017 che vada bene ad entrambi i contraenti del Nazareno. Il vero timing di Renzi potrebbe essere quello di chiudere l'iter di riforme istituzionali a fine del 2015, fare il referendum popolare per confermare il superamento del bicameralismo e sul traino del successo andare alle elezioni. FI non vuole. Nessun Mattarellum di riserva, invece. Primo, perché Renzi l’Italicum lo vuole senza se e senza ma. E poi, perché lasciar aleggiare l’idea che potrebbe rimanere in vita il Consultellum in caso di voto anticipato è un modo per placare chi nella minoranza medita scissioni (e dunque prefererirebbe un proporzionale). Tra i retro-pensieri del presidente del Consiglio ci sta pure quello, in caso di voto, di fare un decreto o una leggina per andare a elezioni con Italicum a Montecitorio e Consultellum al Senato.
QUESTIONI di là da venire. Ma Fi ha chiesto la calendarizzazione dell’Italicum, dopo l’elezione del nuovo Presidente. Pronta la reazione del Pd: “Rispettino i tempi o avanti da soli”. Al Nazareno però, in via ufficiosa lo dicono fuori dai denti: “Dobbiamo mettere pressione”. Il grado di esistenza in vita del Nazareno è ormai un tormentone quotidiano. Il punto è il controllo delle fronde. E così, il lavoro della cabina di regia diventa sempre più importante. Lotti è dall’inizio della legislatura il deputato con il compito di controllare i colleghi. Il problema è che il controllo è esteso anche a gente che i fiorentini conoscono poco. E allora, ecco sondaggi quotidiani e pressioni di vario tipo. Siamo ancora all’inizio.
Il premier pensa al nome da proporre. Un identikit piuttosto preciso parla di una figura sufficientemente fidata, ma autorevole. Che lo aiuti. Come in fondo ha fatto Napolitano negli ultimi mesi. Fino a telefonare a molti autorevoli dirigenti della minoranza dem prima del discorso di mercoledì per invitarli a collaborare. Una figura dunque di peso, ma disposta a fare quello che vuole il premier all’occorrenza. E che sia abbastanza di garanzia per tutti. In molti pensano che un politico non sarebbe adatto. Dunque, torna Pier Carlo Padoan. Si sa quando un nome si fa troppo forte c’è il rischio di bruciarlo. Ma una pattuglia, a partire dai Giovani Turchi, ci sta lavorando davvero. Tra i politici, spiccano Piero Fassino e Walter Veltroni. Resta la Severino. Tra le carte più coperte Dario Franceschini. Come estrema ratio, Romano Prodi. Dietro l’angolo c’è sempre Pietro Grasso.

Repubblica 18.12.14
I tre ostacoli nel risiko del Quirinale
Nell’ora delle dimissioni del Colle c’è chi pensa che non sia il momento migliore per una riforma elettorale
dio Stefano Folli


SI avvicina l’ora della verità per il grande risiko di Matteo Renzi. I vari tasselli devono andare al loro posto entro 5-6 settimane, pena la necessità di ricominciare tutto da capo: dalle alleanze ai progetti di riassetto istituzionale. Cinque o sei settimane in cui bisogna centrare gli obiettivi uno dietro l’altro, senza mancarne nemmeno uno. A cominciare dalla riforma elettorale.
Il presidente del Consiglio è noto come uomo franco che non parla il «politichese». Semmai tace qualcosa che non desidera rendere pubblico, ma quando ha voglia di farsi capire non ricorre a giri di parole. Ieri, parlando ai senatori del Pd, è stato esplicito come non mai: il cosiddetto Italicum deve vedere la luce a Palazzo Madama prima che si cominci a votare per il capo dello Stato, cioè probabilmente alla fine di gennaio. Si dirà: niente di nuovo. La pressione del governo per far passare la riforma è costante e certo ha tratto nuova legittimità dalle parole di Giorgio Napolitano.
Del resto, sono ormai evidenti i motivi per cui Renzi considera essenziale, dal punto di vista politico, il voto sulla riforma prima che le Camere si dedichino in esclusiva a scegliere il nuovo presidente. La ragione è che un Parlamento frammentato e quindi assai poco governabile potrebbe forse essere ricondotto alla ragione se il premier riuscisse a cogliere un successo — appunto, il primo «sì» alla riforma — in grado di dimostrare a tutti chi ha davvero in mano il bandolo della matassa. E chi, all’occorrenza, potrebbe avviare il motore delle elezioni anticipate.
Sono temi più volte dibattuti sulla stampa. La novità è che adesso Renzi ha l’opportunità ma anche il dovere, dal suo punto di vista, di segnare un punto decisivo. Il famoso Italicum va approvato al Senato prima del 20 gennaio o giù di lì, considerando che Napolitano sta per lasciare il Quirinale. Se il premier ottiene quello che vuole, significa che la maggioranza di governo è abbastanza compatta e che Berlusconi ha accettato anche stavolta di assecondare il suo giovane semi-alleato. Sulla carta c’è anche il «piano B», ossia l’ipotesi di votare la riforma con la sola maggioranza (Pd, centristi, ex Sel) se il leader di Forza Italia non riuscisse a superare la resistenza del suo partito sempre più inquieto e frastagliato. Fin qui gli scenari disegnati a tavolino. Sono abbastanza asettici e danno l’impressione che non sia in fondo così difficile votare questa famosa riforma e poi dedicarsi al presidente della Repubblica. La realtà invece è più complicata e Renzi sta mettendo in gioco parecchia della sua reputazione di perenne vincitore delle partite politiche, abilissimo nelle manovre parlamentari.
La prima difficoltà è ovviamente Berlusconi. Davvero vorrà dire «no» all’uomo che rappresenta il suo unico, vero interlocutore? Pochi lo credono e infatti immaginano che alla fine Forza Italia voterà la riforma come la vuole il premier. L’inciampo è che la monarchia assoluta berlusconiana è finita e che tanti parlamentari del centrodestra non vogliono correre il sia pur minimo rischio di dover andare alle elezioni anticipate entro pochi mesi.
La seconda difficoltà riguarda la scarsa credibilità della minaccia di approvare la legge con la sola maggioranza. Esistono molti dubbi sull’opportunità che una maggioranza ristretta, in cui il Pd è egemone, si voti da sola una legge elettorale in cui il partito vincitore, sempre il Pd nelle intenzioni, ottiene il 55 per cento dei seggi: sembra uno dei casi in cui s’impongono le larghe intese (d’altra parte non si può nemmeno concedere a qualcuno un diritto di veto permanente). Terzo punto. Nell’ora delle dimissioni di Napolitano, e forse anche qualche giorno prima, l’Italia entra in uno stato di vacanza istituzionale. Si pensa da varie parti che non sia il momento migliore per varare una riforma elettorale di tale portata. Ecco perché Renzi sente che la terra gli sta scappando sotto i piedi. Ed ecco perché, come è suo costume, raddoppierà gli sforzi finché gli sarà possibile.

Repubblica 18.12.14
Vannino Chiti, senatore del Pd
“Napolitano non può chiederci di accelerare”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Non intendo frenare, ma ci vogliono correzioni sulle riforme. Il pasticcio delle Province si ripercuoterà ingigantito nel Senato delle autonomie». Vannino Chiti, dem dissidente, non vuole sentire parlare di una corsa alla cieca.
Una road map incalzante di Renzi sulle riforme e un pressing da parte di Napolitano. Chiti, lei invece frena?
«Sia io in accordo o in disaccordo, non polemizzerei mai con Napolitano. Comunque non sono affatto un frenatore.
Se avessi voluto frenare ci sarebbe stata più di un’occasione. Bastava uscire dall’aula e mancava il numero legale.
Sono per superare il bicameralismo paritario e perché la Camera sola dia la fiducia ai governi; sono per la riduzione non solo del numero dei senatori ma anche di quello dei deputati; sono perché l’indennità di deputati e senatori sia equiparata al sindaco di Roma e perciò dimezzata. Mi sento un acceleratore, anche se con un’altra impostazione. Non c’è una sola via per superare il bicameralismo paritario, altrimenti basterebbe un registratore, invece della politica».
Ma un colpo di acceleratore consentirebbe un buon bilancio anche a Napolitano al momento delle dimissioni.
«Napolitano né lo ha chiesto né sarebbe possibile. Le riforme si devono fare presto ma bene. Il paese ha bisogno di una buona legge elettorale in tempi rapidi. Tuttavia ci vuole un rinnovamento e non un impoverimento della democrazia».
Lei vuole la riforma del Senato ma è sempre sulle barricate perché non condivide la proposta del governo?
«Ritengo ancora che se i senatori fossero eletti dai cittadini quando si vota per i consigli regionali ci sarebbe ugualmente il superamento del bicameralismo paritario e però la piena legittimità che deriva dalla scelta che i cittadini fanno dei loro parlamentari ».
Darà di nuovo battaglia sui senatori eletti, quando la riforma torna al Senato?
«La mia convinzione è che l’Italia non possa permettersi che le Province non siano elette dai cittadini, ma ci sono; che il Senato non venga eletto dai cittadini, ma c’è; che il 60% dei deputati non sia scelto dai cittadini ma nominato. Correggiamo alcune delle cose scelte fin qui. Sulla legge elettorale, no ai capilista bloccati. Ho presentato un emendamento per ripristinare il Mattarellum ».
Renzi vuole obbedienza, non lealtà, è l’accusa di Bindi. Lei è d’accordo?
«La lealtà è obbligo, ma sulla Costituzione e la legge elettorale il ruolo primario spetta al Parlamento non al governo. La lealtà è un valore ma l’obbedienza non è una virtù».

il Fatto 18.12.14
Guerra del deficit con la Ue: a Renzi mancano 3 miliardi
Gli sforzi aggiuntivi nella legge di stabilità non convincono Bruxelles
di Carlo Di Foggia e Stefano Feltri


Una settimana fa l’Eurogruppo, cioè il coordinamento dei Paesi dell’euro, ha detto che la correzione del deficit strutturale dell’Italia nel 2015 sarà 0,1 per cento. Molti hanno pensato che il riferimento fosse all’inizio del negoziato tra Roma e Bruxelles, quando a metà ottobre il governo Renzi ha provato a offrire un risanamento dello 0,1 al posto dello 0,5 richiesto dalle regole di Bruxelles. Invece no. Nelle tabelle della Commissione europea della Direzione Economia e Finanza che il Fatto ha consultato, si leggono questi numeri: scostamento strutturale rispetto all’aggiustamento benchmark un anno: -0,4, rispetto al benchmark di spesa -0,7. E questi dati si riferiscono a dopo il negoziato tra il Tesoro e il commissario Jirky Katainen. Dopo, cioè, che l’Italia ha sacrificato un cuscinetto da 3,3 miliardi di euro, una riduzione della spesa per co-finanziamento dei fondi strutturali europei per 500 milioni di euro e 730 milioni dalla lotta all’evasione. Morale: nonostante questi interventi aggiuntivi per 4,5 miliardi, l’aggiustamento resta 0,1. Mancano ancora 3 miliardi. Ergo, la prima versione della legge di Stabilità era carente di ben 7,5 per gli standard europei.
COME SI SPIEGA lo scetticismo di Bruxelles? Fonti europee spiegano che la differenza deriva da una diversa stima del deficit nominale: “Noi stimiamo 2,7 per il 2015, il Tesoro 2,6”, la Commissione non conteggia entrate dallo spesometro (lotta all’evasione) e dai giochi. Del problema giochi sono consapevoli anche al Servizio bilancio della Camera e all’Ufficio parlamentare di bilancio.
Nella prima versione della legge di Stabilità si stimavano 900 milioni di euro di entrate alzando il carico fiscale sulle slot machine collegate in rete in Italia. In teoria basterebbe ridurre le probabilità di vincita per scaricare l’aggravio fiscale sui clienti, ma questo richiede interventi meno semplici del previsto e i gestori hanno fatto capire che potrebbero addirittura fermare molte macchine per evitare di dover poi pagare più tasse. La pressione della lobby ha fatto il resto e il governo al Senato ha sostituito la norma con un aumento di 500 milioni annui (sicuri) che i concessionari dovranno versare in proporzione alle slot collegate. A anche la proposta di prelievo forfettario sugli operatori stranieri è a rischio contenziosi e dunque il gettito incerto.
C’È ANCHE uno 0,1 di aggiustamento mancante dovuto ai “filtri statistici” usati al ministero del Tesoro per calcolare quanto pesa la recessione sull’aumento del deficit. Il modello usato al ministero è un po’ diverso da quello della Commissione e minuscole differenze decimali possono produrre scostamento rilevanti come lo 0,1 in questione (che vale circa 1,5 miliardi). Se poi la crescita 2015 sarà inferiore al +0,6 per cento previsto dal governo, la divergenza dagli obiettivi sarà ancora più marcata: se il Pil farà solo +0,2, come prevede l’Ocse, l’Italia sarà fuori regola di un ulteriore 0,2 per cento. E lo scostamento complessivo dagli obiettivi sarà addirittura dello 0,8.
È con questi numeri che Matteo Renzi arriva oggi al Consiglio europeo di Bruxelles chiedendo flessibilità e lo scorporo degli investimenti dal deficit. Richieste che saranno respinte, anche perché l’Italia non usa neppure le risorse che ha a disposizione. Come i fondi strutturali 2007-2013 già impegnati, ma non ancora spesi.
La questione è in agenda al vertice. Il Consiglio potrebbe decidere di prorogare di un anno, al 2016, la scadenza per spendere i soldi: l'Italia rischia di perdere 14 miliardi di euro. Soldi che torneranno a Bruxelles alla fine 2015. La richiesta è stata avanzata nei giorni scorsi da otto Paesi dell'Est Europa capitanati dalla Slovacchia (Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Slovenia, Croazia, Bulgaria e Romania): “Realizzare in tempo i grandi appalti è sempre più difficile – si legge nel documento fatto girare a livello di ambasciatori – Saremo costretti a utilizzare fondi nazionali, aggravando i deficit”. Il Consiglio potrebbe accogliere la richiesta, come già successo in passato, ma il meccanismo di voto a maggioranza qualificata complica le cose: basta il veto di due grandi Paesi e salta tutto. Le trattative si annunciano serrate. Stando a una fonte diplomatica italiana, la richiesta potrebbe essere accolta dalla Commissione. “È molto difficile – spiega un funzionario europeo – la direzione Regionale è contraria: si sovrappongono i pagamenti, e abbiamo sempre meno liquidità. Se il presidente Juncker lo farà, è perché lo considera il male minore rispetto alle richieste di Renzi”.
IL GOVERNO ITALIANO finora non si è esposto, ufficialmente per questioni di opportunità visto che ha ancora la presidenza di turno del semestre europeo: “Ma ci spera più degli altri”, spiega chi segue i lavori del vertice. Basilicata, Calabria, Puglia, Campania, e Sicilia rischiano di perdere oltre 13 miliardi di euro. La Campania, il malato più grave, ha solo 12 mesi per spendere oltre 2 miliardi. E i ritardi si sommano: la Regione non ha ancora presentato il programma per il prossimo settennato e partirà con molto ritardo, come la Calabria, a cui hanno bloccato i pagamenti per carenze nei controlli, anche perché il responsabile regionale era andato in pensione e non era stato sostituito.

Corriere 18.12.14
Il piano Juncker e il gelo di Berlino
Sul rispetto dei deficit l’accordo è lontano
di Luigi Offeddu


BRUXELLES «Non ho bisogno soltanto di paroli (testuale, nella frase inglese, ma con ricorso volontario alla storpiatura di un termine italiano o francese), ho bisogno di soldi».
Così Jean-Claude Juncker accoglie i 28 capi di Stato e di governo dell’Ue, riuniti da oggi a Bruxelles nel vertice del Consiglio europeo. L’ultimo della presidenza italiana della Ue: un appuntamento decisivo per la crescita, secondo i tanti «paroli» di questi giorni, l’ennesimo muro a muro senza sbocco fra Italia-Francia e Germania-Paesi del Nord, secondo previsioni più pessimistiche. Perché un accordo vero, su come liberarsi dagli artigli della crisi, ancora non c’è. E neppure un mezzo accordo. O meglio, ognuno ha una sua ricetta, ma non condivisibile con gli altri. Probabilmente all’alba di domani, come altre volte, si troverà un compromesso ben infiocchettato, almeno per scavallare la fine del 2014. Ma le preoccupazioni di questa vigilia, espresse da diverse fonti Ue, non lasciano ben sperare.
I «soldi» di cui parla Juncker dovrebbero essere i contributi degli Stati al Fondo degli investimenti che dovrebbe rianimare come un volano l’economia del nostro continente. Il presidente della Commissione Ue li auspica, perché non può fare altrimenti, e torna ad arrischiarsi in una promessa a metà, già fatta in passato: la stessa Commissione intende «prendere una posizione favorevole verso questi contributi quando valuterà le finanze pubbliche» dei vari Paesi. Traduzione a spanne: verranno esclusi — forse — dal calcolo del deficit o del debito pubblico; e chi più sborserà — forse — meglio verrà trattato. Ciò che oggi, in parte, chiederà Matteo Renzi al tavolo di Bruxelles. E l’unica cosa che probabilmente convincerebbe Roma, Parigi, Madrid, Vienna e così via. Ma Juncker premette anche che «faremo proposte dettagliate in gennaio». A gennaio, non domani. E allora saranno passati più o meno 5 mesi da quando si è cominciato a parlare del Piano.
Non c’è nessuna maledizione sull’Europa, però, né alcun mistero in questo continuo «stop-and-go», fermarsi e ripartire, un saltino avanti e tre indietro.
Intanto, 28 teste stanno difficilmente tutte insieme sotto un solo cappello. E poi, nonostante le mezze promesse di Bruxelles e gli annunci «cambieremo l’Europa» lanciati da Roma e (un po’ meno) da Parigi, niente è cambiato rispetto a due anni fa: la Germania, con l’Olanda e i Paesi scandinavi più alcuni dei Paesi baltici, si oppongono a qualsiasi deroga dal patto di Stabilità. Ieri l’ha ripetuto una fonte del governo tedesco: «Sul calcolo degli investimenti si dovranno seguire le regole del patto di Stabilità». Berlino chiede sempre le stesse cose ai «cicaloni» prodighi: giù il deficit, giù il debito pubblico — quello d’Italia continua ad essere il secondo nella Ue, anche in queste ultime settimane è cresciuto — e via alle riforme strutturali. La parola «flessibilità» è per loro una mina vagante, per Roma e gli altri un balsamo miracoloso. Ma come Angela Merkel ha talvolta fatto intuire con qualche segnale di fumo, una parziale concessione potrà esserci solo se gli italiani o i francesi faranno sul serio con le riforme.
Questa notte, si riprova a negoziare. Mentre i «paroli» assediano la povera Ue.

Il Sole 18.12.14
Le ragioni della crisi
Quel Pil distrutto dagli spaccapollici
di Fabrizio Forquet


C’è un dato nel rapporto del Centro studi Confindustria che meglio di qualunque altro fotografa il problema che l’Italia ha di fronte: dal 2007 il Pil pro-capite è sceso del 12,3% reale, una diminuzione di oltre 3.700 euro a testa, «con una feroce diminuzione dei consumi - si legge nel rapporto curato da Luca Paolazzi - pari a sei settimane di non spesa». E tuttavia se con “mani pulite” l’Italia avesse ridotto la corruzione al livello della Francia, abbattendo di un punto l’indice «Control of corruption», il Pil sarebbe stato nel 2014 di quasi 300 miliardi in più, pari a circa 5mila euro a persona.
Come dire che la dimensione della crisi è ampia, che le sue origini affondano nel crack finanziario mondiale di sette anni fa, ma che gli italiani ci mettono molto del loro. È senz’altro utile discutere dell’impatto dei fenomeni macroeconomici, giusto guardare con speranza ai piani di Draghi, opportuno premere sull’Europa perché il piano Juncker non sia sottile come carta-velina, ma poi bisogna anchefare i conti con i nostri comportamenti e le nostre inefficienze.
Secondo i dati di un sondaggio Ipsos, il 52% dei manager stranieri che hanno avuto esperienze in Italia ha trovato una situazione della corruzione più grave di quella (già negativa) attesa; e il 60% ha trovato peggiore la qualità della classe politica. Non è solo la politica, però, perché è una visione miope quella che ignora le responsabilità - che nei fatti di Roma emergono con la forza simbolica degli “spaccapollici” - della società non poi così civile, dei manager pubblici, delle imprese, delle cooperative.
Perciò è importante la costituzione della Confindustria come parte civile nell’indagine Mafia Capitale, così come il «rating» di legalità per gli appalti. L’economia italiana muore laddove la melma del malaffare inquina appalti e servizi locali. Come ha scritto l’Economist, i fenomeni di mafia e corruzione che emergono dalle inchieste rischiano di fare un danno enorme all’immagine dell’Italia promossa da Renzi. Puoi fare tutte le riforme che vuoi, ma se poi nel mondo Roma è uguale mafia, non ti rimane che tornare alla casella di partenza.

Repubblica 18.12.14
Scontro sui dipendenti delle Province abolite
Comuni e Regioni senza fondi per assumere 20.000 esuberi. Governo sotto al Senato. Confindustria: ripresa nel 2005
di Roberto Petrini


ROMA Maratona nella notte per la legge di Stabilità 2015 che oggi dovrebbe approdare in aula al Senato con l’obiettivo di tornare domenica 21 alla Camera per l’approvazione definitiva. Dopo il pacchetto di emendamenti del governo che hanno allargato il patto di Stabilità per le Regioni di un miliardo, ieri in Commissione Bilancio di Palazzo Madama sono stati sciolti molti degli altri nodi, dall’Irap, ai Fondi pensione, ai forfait per i redditi “minimi”, all’allentamento della stretta sui patronati. Ma sì è registrato anche un incidente per il governo che è andato sotto nel voto in Commissione: è stato approvato con un voto di scarto un emendamento, a firma Luciano Uras (Sel), che stanzia 5 milioni a favore delle scuole elementari e medie inferiori della Sardegna danneggiate dall'alluvione, su cui governo e relatore avevano espresso parere contrario.
Intanto arriva il pacchetto terremoti: dopo Catania 1990, entrano in “Finanziaria” Abruzzo, Emilia Romagna e alluvione di Genova. Le case crollate all’Aquila non dovranno pagare la Tasi. Salta invece, perché dichiarato non ammissibile, l’emendamento del governo sulla moratoria per il controllo delle armi sceniche per facilitare le riprese del film «007» a Roma. Manovra e congiuntura: vede «rosa » per il prossimo biennio la Confindustria, con Pil in leggera risalita. Ieri è scoppiato il caso dei 20 mila dipendenti delle Province che, dopo l’abolizione, cioè la perdita di funzioni e di organi elettivi, si troveranno dal prossimo anno con esuberi di personale. La Stabilità prevede due anni di mobilità e poi l’ingresso nella disponibilità della pubblica amministrazione: dunque o il trasferimento in altri ambiti pubblici o il licenziamento. I sindacati Cgil-Cisl-Uil sono sul piede di guerra ma anche l’Anci, le Province e le Regioni. L’idea del governo è di trasferire 8.000 dipendenti al ministero del Lavoro e i restanti 12 mila alle Regioni e ai Comuni. L’Anci tuttavia teme che in prima battuta i dipendenti vengano scaricati sui Comuni e solo successivamente allo Stato, alle Università, alle agenzie o agli enti pubblici economici. Su tutto regna l’incertezza sulle risorse per assumere i 20 mila: enti locali e Regioni al momento non hanno disponibilità.
Viene invece risolto il nodo dell’Irap per 1,4 milioni di aziende che non hanno dipendenti: l’abolizione dall’imponibile del costo del lavoro ha infatti favorito la maggior parte delle aziende ma non quelle senza dipendenti che al tempo stesso hanno visto tornare l’aliquota, ridotta prima dell’estate al 3,5 per cento, al livello del 3,9. Soluzione anche per il problema dei «minini» per le partite Iva che, prima della legge di Stabilità, avevano un forfait del 5 per cento Irpef sotto i 30 mila euro di ricavi. La “Stabilità” alla Camera ha portato l’imposta sostitutiva al 15 per cento e ha elevato le soglie per alcune categorie fino a 40 mila euro. Un emendamento del relatore Santini (Pd), porta la soglia uguale per tutti a 20 mila euro. Parziale accordo sulla tassazione dei Fondi pensione e le Casse di previdenza: la tassazione era stata portata dal governo dall’11 al 20 per i Fondi e dal 20 al 26 per le Casse. Dopo proteste e polemiche scenderà, ma solo nel caso di investimenti in attività produttive: al 12 per i Fondi e al 20 per le Casse. In tutti gli altri casi resta uguale, come resta invariato l’aumento della tassazione del Tfr dall’11 al 17 per cento.

Un posto di lavoro vale due mesi di lavoro...?
Iacoboni questa mattina a Prima Pagina riportava una indiscrezione secondo la quale fra le motivazioni “economiche” dei licenziamenti - che non potrebbero cioè portare al reintegro di un lavoratore - ci sarebbe anche la “scarsa produttività”  dichiarata dal padrone
Una totale libertà di arbitrio!
Il Sole 18.12.14
Verso i decreti. Sarebbe definito il costo del licenziamento con conciliazione dopo il periodo di prova
Jobs act, indennizzo base a due mensilità
di Davide Colombo, Claudio Tucci


ROMA Il passaggio in Ragioneria del decreto legislativo che contiene la nuova Aspi deve ancora avvenire. Mentre sarebbe vicino alla chiusura il cerchio delle ipotesi sull’altro decreto, quello che darà vita al contratto a tutele crescenti con la nuova regulation sui licenziamenti. Sull’ammortizzatore in caso di disoccupazione esteso a un platea di almeno 350mila collaboratori e circa 500mila contratti a termine finora non coperti (o coperti solo con l’una tantum) i tecnici di palazzo Chigi e del ministero del Lavoro non hanno ancora fissato gli ultimi dettagli: simulazioni Inps alla mano si sta cercando di definire come calibrare la durata della tutela a base assicurativa (fino a 24 mesi) con la sua estensione. Una quadratura complessa, che potrebbe anche far slittare questo decreto a dopo Natale: «Non si deve agire con fretta per poi correggere errori o buchi con le circolari ministeriali» dicono le persone più vicine al dossier, consapevoli del limite fissato in Stabilità sulle risorse disponibili. ?
Sul fronte articolo 18 si starebbe invece definendo la partita dell’indennizzo minimo, da introdurre per evitare eventuali licenziamenti nella prima fase del contratto a tutele crescenti. In caso di giudizio, l’indennizzo per licenziamento economico illegittimo, parte da 1,5 mensilità per anno di servizio fino a un massimo di 24. Qui verrebbe introdotto un indennizzo minimo, una sorta di “scalino”, da far scattare subito dopo il periodo di prova: si starebbe ragionando su 3-4 mensilità (e non più 6). Verrebbe introdotto anche un indennizzo minimo in caso di conciliazione standard, dove l’indennizzo-base parte da una mensilità fino ad arrivare a 16. L’indennizzo minimo verrebbe fissato a due mensilità, e inoltre avrebbe pure il vantaggio dell’esenzione fiscale per rendere la fase conciliativa più vantaggiosa. Ma anche su questo punto l’incertezza è ampia: la copertura per l’esenzione andrebbe trovata ora, in Stabilità, e gli spazi sono strettissimi e un eventuale emendamento potrebbe essere definito in giornata.
Si avvia verso soluzione anche la questione, delicata, delle piccole imprese, quelle sotto i 16 dipendenti, oggi escluse dall’articolo 18. Si ipotizza di farle rientrare comunque nel campo di applicazione delle nuove regole, ma con un correttivo, per evitare penalizzazioni rispetto alla situazione attuale: tutti gli importi degli indennizzi verrebbero dimezzati, e ci sarebbe comunque un tetto a 6 mensilità (oggi le piccole aziende in caso di licenziamento economico illegittimo pagano da 2,5 a 6 mensilità). Per i licenziamenti disciplinari la reintegra rimarrà solo se è “insussistente il fatto materiale” grave. Verrebbe meno invece il riferimento ai codici disciplinari contenuti nei contratti collettivi di lavoro, che invece continua a chiedere una parte del Pd.
Ancora in bilico è poi l’introduzione dell’opting out, cioè la possibilità per il datore di lavoro di indennizzare il lavoratore piuttosto che reintegrarlo (qui l’ultima parola spetterà al premier, Renzi). E il presidente del Consiglio dovrà decidere pure se applicare le nuove regole sull’indennizzo anche ai licenziamenti collettivi, che sono di natura economica per definizione (il ministero del Lavoro è contrario a intervenire sulla legge 223, vista la complessità della materia). Il Consiglio dei ministri del 24 dicembre non esaminerà infine il decreto con il nuovo Codice semplificato del lavoro. «Il Codice dovrà essere il prossimo passo, importantissimo - ha sottolineato Pietro Ichino (Sc) – oggetto di un decreto previsto per marzo-aprile. E se vogliamo adempiere correttamente la delega la redazione del Codice non potrà avvenire nelle forme di un negoziato contrattuale tra forze che vogliono cose opposte».

Corriere 18.12.14
Nei conti segreti la lista dei politici
Mafia Capitale, nuovi sviluppi dell’inchiesta: dazioni a politici e funzionari pubblici che i magistrati stanno identificando grazie all’esame di agende e libri contabili
di Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini


«Ci facciamo 14 milioni, un botto» Mazzette del clan anche in Regione ROMA Ci sono altri appalti pubblici assegnati all’organizzazione guidata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. Uno riguarda il Cup, il centro unico di prenotazione per le visite mediche da 14 milioni di euro.
La scorsa settimana la Regione Lazio ha deciso di sospenderlo, ma nuovi accertamenti sono in corso per verificare chi lo abbia «pilotato». Anche perché è lo stesso imprenditore, dominus della cooperativa «29 giugno», ad elencare in diverse conversazioni le «mazzette» pagate per ottenere i lavori. Dazioni a politici e funzionari pubblici che i magistrati stanno identificando grazie all’esame di agende e libri contabili della segretaria Nadia Cerrito e del responsabile amministrativo Paolo Di Ninno. Sono proprio i colloqui intercettati a svelare che parte della documentazione relativa ai pagamenti «in nero» potrebbe essere stata buttata «perché è troppo pericolosa».
«Alla cicciona 2,5»
Il primo agosto scorso c’è una riunione alla cooperativa, partecipano Carminati, Buzzi, Cerrito e Di Ninno. Annotano i carabinieri del Ros: «Discutono ancora una volta della suddivisione dei compensi e l’elargizione degli ‘‘stipendi’’ da consegnare ai pubblici ufficiali. Una è indicata come ‘‘la cicciona’’: ‘‘me servono due e cinque per la cicciona’’». Un altro è il presidente della Giunta del Campidoglio Mirko Coratti: ‘‘Mille e cinque per Coratti’’». Versamenti fissi che la segretaria annotava nel quaderno che Buzzi le aveva ordinato di portare sempre con sé. Sono decine e decine, moltissimi riguardano il 2014. I beneficiari sono indicati soltanto con l’iniziale, ma incrociando le indicazioni contenute nei bilanci occulti con i colloqui intercettati, gli investigatori sarebbero già riusciti a individuare alcuni nomi.
L’appalto alla Regione
Uno degli affari più consistenti viene chiuso due mesi prima che scattino gli arresti. Il 3 settembre Buzzi parla al telefono con uno dei suoi collaboratori, Claudio Cardarelli, «gli dice che sta in prefettura e lo invita ad aspettarlo perché sta rientrando». Poco dopo le microspie captano il colloquio di Cerrito e Cardarelli «che iniziano a fare i conteggi».
Cardarelli : quelli so’ 5 (cinquemila euro)
Cerrito : a lui gli servono per giovedì, cinque... a Cla’ ma l’avemo vinto quel discorso de Formula Sociale per... dei Cup, dei Recup che era?
Cardarelli : stiamo, c’è va a pranzo oggi
Cerrito : ma è buono come appalto Cla’
Cardarelli : 14 milioni
Cerrito : un botto!
Le verifiche riguardano i contatti di Buzzi relativi proprio a questa gara, l’accenno al pranzo con qualcuno che avrebbe favorito la sua cooperativa fino a farla vincere. E soprattutto le dazioni di quel periodo proprio per scoprire chi si sarebbe fatto corrompere.
Il patto con Alemanno
Il 22 novembre 2013 Buzzi dice a Carminati che per il campo nomadi di Castel Romano «ho cacciato cinquecento veri».
Ma è la conversazione intercettata l’11 aprile scorso a interessare gli investigatori perché, annota il Ros, «chiarisce il sistema di pagamenti tra Roma Capitale e le Cooperative assegnatarie dei lavori». In quell’occasione Buzzi ribadiva a Caldarelli che il suo ruolo era di presentare presso i competenti uffici amministrativi comunali la documentazione contabile per ottenere il pagamento dei canoni di locazione dei campi nomadi di proprietà o gestiti dalle cooperative riconducibili allo stesso gruppo. La conversazione consentiva pertanto di evidenziare elementi di estremo interesse in ordine alla nuova esigenza nomadi del 2010 ed alla conseguente offerta di Buzzi all’allora Sindaco Gianni Alemanno di ampliare il campo di Castel Romano in cambio di un affidamento minimo di 24 mesi per rientrare dell’investimento: «Ci possiamo allargarci noi su questa parte del campo e ne facciamo un altro in cambio se tu me dai l’affidamento a 24 mesi». Ma anche alle garanzie date a Buzzi su una certa redditività dell’investimento sostenuto o comunque un rientro dello stesso attraverso una maggiorazione delle effettive presenze dei nomadi: «“Per raggiungere la cifra che noi avevamo pattuito con Alemanno deve mette 300 persone presenti... noi paghiamo... ti paghiamo 300 persone in realtà sono 150”».
«I nostri amici»
Nel luglio scorso Buzzi si preoccupa perché il sindaco Ignazio Marino vuole cambiare i vertici di Ama, l’azienda municipalizzata che si occupa di rifiuti. Dice Buzzi a un’amica: «Sto matto de sindaco ha convocato una giunta straordinaria per far fuori Fiscon e mettece Pucci. Quindi levava una brava persona e ce metteva un ladro... perché Pucci dice è un ladro rubava per il partito... ma tanta roba gli è rimasta attaccata quindi non rubava per il partito... allora abbiamo avvisato i nostri amici... i capigruppo e si è alzato un po’ de sbarramento... poi ha lavorato pure Passarelli con Sel. Io poi ho smessaggiato a Fiscon alla fine è finita bene avemo mandato il messaggio Marino 0 Fiscon 2».
Massimo Carminati è soddisfatto, intravede nuovi appalti all’orizzonte: «Cioè io diciamo sono come un polipo che sta attaccato qua... si sta ingrandendo perché c’ho fiducia...»

il Fatto 18.12.14
Sulle coop imbarazzi e silenzi dei ministri
di Gianluca Roselli


Pioggia di interrogazioni del Movimento 5 Stelle in Parlamento su Mafia Capitale. Tre solo nella giornata di ieri. Ma le risposte dei ministri lasciano molto a desiderare. Imbarazzo, silenzi e pochi fatti concreti. Nonostante i poteri ispettivi che la legge dà al governo. La prima, al question time a Montecitorio, sulla cooperativa 29 giugno presieduta da Salvatore Buzzi. Le altre due in commissione Affari sociali: sul Cara di Mineo, il grande centro di accoglienza immigrati in provincia di Catania, e sull'Onlus Human foundation di Giovanna Melandri. In entrambe è stato consulente Luca Odevaine, l’ex capo di gabinetto di Veltroni, finito in manette nell’inchiesta sulla Terra di mezzo. “Da tempo in Parlamento denunciamo la mancanza di regole per onlus e cooperative che porta questi soggetti a essere a rischio d’infiltrazioni mafiose. Sono dovuti arrivare gli arresti per dimostrare la fondatezza delle nostre tesi”, spiega la deputata Giulia Grillo.
IL PROBLEMA, secondo i 5Stelle, è la mancanza di leggi per regolare il mondo della cooperazione cui lo Stato delega molti servizi con appalti milionari. A fronte, peraltro, di una tassazione agevolata, tanto che qualcuno parla di un regime di concorrenza sleale nei confronti delle altre imprese. “Nel mondo delle coop girano un sacco di soldi, è normale che facciano gola alla criminalità. Molte di esse di non profit non hanno più nulla e agiscono come vere imprese private. Per questo occorre al più presto disciplinare questo settore”, continua la deputata grillina. Secondo cui “i partiti, da destra a sinistra, sono stati conniventi in questa degenerazione”. Giulia Grillo, nella sua interrogazione, ha chiesto al ministro del Lavoro Poletti di effettuare un’ispezione presso la Human Foundation, che vede tra i soci fondatori Stefano Bravo, ritenuto dagli inquirenti il commercialista di mafia capitale, l’uomo esperto nel riciclaggio di denaro della banda di Massimo Carminati.
Nell’interrogazione si chiede conto anche di un presunto conflitto d’interessi della fondatrice della onlus, Giovanna Melandri, a causa dei suoi numerosi incarichi politici ricoperti nel corso degli anni.
Marialucia Lorefice, invece, ha chiesto chiarimenti al ministro dell’Interno sui presunti appalti pilotati al Cara di Mineo. “Vogliamo sapere se il Viminale era a conoscenza dei profili di conflitto d’interesse e di inopportunità dei ruoli nella vicenda da parte dell’eurodeputato Giovanni La Via e del sottosegretario alle Politiche Agricole Giuseppe Castiglione, entrambi in quota Ncd”, ha detto. Infine, in aula a Montecitorio, Massimo Baroni ha chiesto al ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi perché non è stata avviata un’ispezione da parte del ministero nei confronti della cooperativa 29 Giugno. “Le ispezioni partono quando riceviamo segnalazioni. Ora, vista la gravità dell’inchiesta, verranno avviate”, la risposta del ministro.
MA L’OFFENSIVA grillina si fa sentire anche in Regione Lazio, dove Valentina Corrado ha presentato un’interrogazione per avere chiarimenti sull’affidamento dell’appalto di manutenzione degli uffici della Regione, per oltre un milione e 300 mila euro, a due società coinvolte nell’inchiesta. “La gara è stata gestita dalla Consip e non dalla Regione”, è stata la risposta giunta dagli uffici di Zingaretti.

il Fatto 18.12.14
In gioco 11 miliardi
Risparmio, Bankitalia denuncia le Coop
di Giorgio Meletti


La notizia è seminascosta in una comunicazione che la Banca d’Italia ha inviato alla redazione di Virus, la trasmissione di Nicola Porro che nella puntata di questa sera si occuperà del bubbone del “prestito sociale”, 11 miliardi di euro di risparmi che il sistema delle Coop raccoglie come una banca senza esserlo.
Scrive Bankitalia: “La Banca non può investigare, né intervenire, né sanzionare in caso di esercizio abusivo dell’attività di raccolta del risparmio tra il pubblico, che è un reato penale il cui accertamento e repressione sono affidati alla magistratura e alle forze di polizia. Qualora riceva segnalazioni su possibili violazioni delle disposizioni in materia, interessa tempestivamente l’autorità inquirente, come è accaduto nel corso del 2014, in relazione a due segnalazioni ricevute”.
BANKITALIA non rivela che cosa e a chi sia stato segnalato, ma è presumibile che una delle due segnalazioni coinvolga la Coop Operaie di Trieste, che è sotto procedura fallimentare e con l’ex presidente Livio Marchetti indagato per false comunicazioni sociali e bancarotta, mentre 103 milioni di risparmi raccolti da 17 mila soci della Coop sembrano essersi volatilizzati.
Il caso di Trieste è il trailer di un film che si è già esteso alla vicina CoopCa, in Carnia, e potrebbe presto coinvolgere l’intero sistema Coop. Un anno fa il tema dei supermercati Coop dove si è sviluppata una “banca clandestina alla luce del sole” è stato sollevato da un’inchiesta del Fatto. Subito dopo il presidente dell’associazione di consumatori Adusbef, l’ex senatore Elio Lannutti, ha chiesto lumi alla Banca d’Italia, segnalando proprio il caso di Trieste. Sul sito della Coop Operaie c’era scritto (e c’è scritto tuttora) che il prestito sociale consisteva in un servizio di “deposito a vista”. Proprio ciò che le regole Bankitalia riservano alle banche (autorizzate e vigilate dalla banca centrale) vietando ovviamente a chiunque altro di farlo perché si tratterebbe di un grave reato.
La risposta data lo scorso gennaio all’Adusbef sottolineava che non tocca alla Banca d’Italia vigilare sulle cooperative ma rendeva noto che “questo Istituto ha assunto le iniziative reputate doverose”. Non è dato sapere che cosa esattamente sia stato segnalato e a chi, fatto sta che il fallimento della Coop Operaie di Trieste è stato chiesto lo scorso 27 ottobre, esattamente un anno dopo la segnalazione dell’Adusbef. Un anno durante il quale non è accaduto niente di utile ai 17 mila risparmiatori di Trieste per salvare i loro soldi.
“Esercizio abusivo dell’attività di raccolta del risparmio tra il pubblico”, come lo definisce precisamente la Banca d’Italia è un reato che si commette senza bisogno di fare bancarotta o perdere i soldi dei risparmiatori. Si commette chiamando “prestito sociale” (cioè finanziamento degli investimenti della propria coop) un servizio che viene venduto come “gestione liquidità”, distribuendo libretti di risparmio con i quali si possono fare versamenti e prelievi come su un conto bancario, dotando i soci di tessera magnetica con cui si può pagare la spesa al supermercato con addebito sul proprio libretto, mettendo addirittura i bancomat nei supermercati dove si può prelevare il contante dal proprio “prestito sociale”.
IL PROBLEMA dunque tocca tutte le grandi coop che fanno una o più di queste attività, e che raccolgono complessivamente quasi 11 miliardi di euro di risparmi senza nessuna vigilanza di Bankitalia e senza la copertura del Fondo interbancario di tutela dei depositi. Non a caso al congresso di Legacoop che ci chiude oggi a Roma il presidente Mauro Lusetti ha proposto nuove norme più stringenti sul prestito sociale. Saranno introdotte addirittura con una modifica dello statuto per obbligare le coop associate a rispettarle.
Ma il punto più critico, per le coop e per i risparmiatori, sarà la risposta alla pressione della magistratura e di Bankitalia. Si tratta di spiegare a 1,2 milioni di “soci prestatori” che il loro non è risparmio protetto come Costituzione comanda, ma capitale di rischio che in caso di crac come quello di Trieste finisce in fondo alla classifica dei creditori da soddisfare.

Corriere 18.12.14
Venezia come Roma. Un guaio i soldi pubblici
L’effetto oppiaceo delle leggi speciali che cancellano l’identità storica
Allarme di Salvatore Settis: La città dei Dogi è in agonia, non ha più memoria
Lo scandalo del Mose assomiglia a Mafia Capitale. Eppure un tempo New York voleva imitare la Laguna
di Francesco Giuavazzi


Come mai i due maggiori episodi di corruzione di questi anni, il Mose e «Mafia Capitale», sono accaduti in due città, Roma e Venezia, che tanto hanno in comune: una bellezza struggente, una storia millenaria, ma anche, da vent’anni in qua, una grande permeabilità delle proprie istituzioni alla corruzione e al malaffare e leggi speciali che hanno riversato sulle due città fiumi di denaro pubblico? Pur non ponendosi direttamente questa domanda, Salvatore Settis ( Se muore Venezia , Einaudi) ci suggerisce una risposta. Questi disastri accadono quando una città perde la propria memoria e la propria identità. E le perde, aggiungo io, quando viene sedotta da un fiume di denaro pubblico che, anziché risolverne i problemi, vi diffonde la corruzione.
A Venezia le aziende alle quali lo Stato aveva incautamente assegnato il monopolio dei lavori di salvaguardia della laguna hanno poco a poco avvolto la città in una ragnatela che ha finito per soffocarla. Dall’ «acqua granda» , l’alluvione che il 4 novembre 1966 devastò la laguna, lo Stato italiano ha trasferito a Venezia un fiume di denaro. Calcolato ai prezzi di oggi, 18,5 miliardi di euro, quasi il doppio di quanto il governo ha speso quest’anno per dare 80 euro al mese a dieci milioni di famiglie. A cinquant’anni di distanza, la maggiore delle opere che dovevano essere realizzate con quei soldi, le paratoie mobili del Mose appunto, non è ancora stata completata. Nel frattempo di quei 18,5 miliardi circa 2,5 (almeno secondo i calcoli illustrati da Giorgio Barbieri e dal sottoscritto in Corruzione a norma di legge , Rizzoli) sono finiti in rendite ingiustificate, che hanno alimentato trent’anni di corruzione. E a Roma, dopo essersi accollato i debiti accumulati fino al 2008, lo Stato, nei sei anni successivi, ha trasferito alla città altri 3,8 miliardi di euro. Matteo Renzi, il primo giorno del suo governo, sprecò un’occasione unica. Il Parlamento aveva appena bocciato il decreto «salva Roma»: bastava non ripresentarlo. Forse la corruzione si sarebbe arrestata sei mesi prima.
Venezia non fu l’unica città italiana a subire gli effetti dell’alluvione del 1966. I danni maggiori li subì Firenze, tant’è vero che per cercare di salvare dall’Arno libri e dipinti fu verso Firenze, non verso Venezia, che partirono migliaia di cittadini da ogni parte d’Italia. «La mia città si è sempre lamentata del fatto che, dopo l’alluvione, non ha mai avuto i soldi» ha detto Matteo Renzi. Perché a nessuno è mai venuto in mente di costruire un Mose sulle sponde dell’Arno per evitare nuove esondazioni? Perché Firenze, pur senza soldi pubblici e quindi senza corruzione, comunque è sopravvissuta, non peggio di Venezia?
In tre modi muoiono le città, scrive Settis: «Quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine, che fu rasa al suolo da Roma nel 146 a. C.); quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dei (come Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per poi costruire sulle sue rovine Città del Messico); o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé e, senza nemmeno accorgersene, diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi. Questo fu il caso di Atene, che dopo la gloria della polis classica, dopo i marmi del Partenone, le sculture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele perse prima l’indipendenza politica (sotto i Macedoni e poi sotto i Romani) e più tardi l’iniziativa culturale, ma finì col perdere anche ogni memoria di se stessa. (...) Se mai Venezia dovesse morire, non sarà per la crudeltà di un nemico né per l’irruzione di un conquistatore. Sarà soprattutto per oblio di se stessa. Oblio di sé, per una comunità del nostro tempo, non vuol dire solo dimenticanza della propria storia né morbida assuefazione alla bellezza, che dandola per scontata la viva come esangue ornamento cercandovi consolazione. Vuol dire soprattutto la mancata consapevolezza di qualcosa che è sempre più necessario: il ruolo specifico di ogni città rispetto alle altre, la sua unicità e diversità, virtù che nessuna città al mondo possiede quanto Venezia».
Diversamente dagli abitanti di Firenze, ma anche di gran parte delle città italiane, veneziani e romani sono stati sedotti dal fiume di denaro riversato sulle due città dalle numerose leggi speciali approvate dal Parlamento a loro favore. E così hanno perduto la propria identità. Leggi con l’effetto di un oppiaceo che, con rare eccezioni, hanno cancellato la capacità di una comunità di rendersi conto del disastro in cui veniva trascinata. Per far spazio alla monocultura di un turismo accattone, i veneziani hanno abbandonato la loro città. Erano circa 100 mila all’inizio degli anni Ottanta, ai tempi della prima legge speciale, sono 56 mila oggi. Hanno barattato la loro città per le comode rendite che si assicuravano consentendo che le loro case e i loro negozi venissero trasformati in bed and breakfast e rivendite di mascherine. «Nemmeno le attuali 2.400 strutture di accoglienza» scrive Settis riprendendo un articolo di Gian Antonio Stella pubblicato sul «Corriere della Sera» il 25 gennaio 2014 «bastano ormai a saziarne gli appetiti: se non si riuscirà a bloccare il nuovo “piano casa” lanciato dalla Regione Veneto, le strutture ricettive potrebbero arrivare fino a 50.000 nel centro storico, coprendone la più gran parte».
Per capire il danno arrecato Settis invita a rileggere Harvey W. Corbett, l’architetto che negli anni fra le due guerre mondiali costruì alcuni dei primi grattacieli di New York. Egli pensava che le città del futuro, Manhattan in primis , avrebbero dovuto essere modellate su Venezia: «Ciascuno dei 2.028 isolati di Manhattan è concepito, alla lettera, come un’isola nella laguna, con una fitta maglia di ponti che le collegano l’una all’altra: un vero arcipelago metropolitano». Anche nel dibattito degli anni seguenti, ci ricorda ancora Settis, l’esempio di Venezia torna spesso: «Si parla di un “Ponte dei Sospiri” che attraversi la 49th Street o di colonnati che echeggino Palazzo Ducale, si ripete la metafora delle strade-canali, dove il flusso delle auto prende il posto delle acque lagunari, si prova a progettare il Rockefeller Center legando fra loro tre blocks trattati come “isole”, insomma “alla veneziana”».
Scrive Rem Koolhaas, il curatore della Biennale d’Architettura di quest’anno, in Delirious New York : «Lo stile di progettazione di Corbett è pianificare attraverso la metafora, facendo di Manhattan un sistema di solitudini d’ispirazione veneziana». Allude, ci ricorda Settis, a un celebre aforisma di Nietzsche: «Cento profonde solitudini formano insieme la città di Venezia — questa è la sua magia. Un’immagine per gli uomini del futuro». Venezia come immagine, come modello, come metafora. Le visioni del futuro fra ultimo Ottocento e primo Novecento intrecciano Venezia e i grattacieli, ma non necessariamente li contrappongono. «Nulla rende l’essenza e la qualità della vita urbana quanto l’incontro di cento solitudini, ma perché esso venisse inscenato a Manhattan la mediazione metaforica di Venezia fu un passaggio essenziale». Abbiamo speso 18,5 miliardi per ottenere il bel risultato di gettare tutto ciò al vento.
È inaudito il danno arrecato dalle leggi speciali. Ma rimane una speranza. Settis conclude che «Venezia potrà resistere nella sua ineguagliabile forma urbis se saprà costruire creativamente il proprio destino, calibrando ogni mutamento non sulle aspettative dei turisti né sulla speculazione immobiliare, ma sul futuro dei propri cittadini». I veneziani voteranno fra cinque mesi per eleggere un nuovo sindaco. Forse insieme ai cittadini di Roma. Entrambi, romani e veneziani, hanno l’occasione per risvegliarsi dal torpore in cui sono caduti e chiedersi finalmente che futuro vogliono per le loro città. È l’ultima occasione. Altrimenti si dovrà dar ragione a chi sostiene che il valore di queste città è troppo grande per affidarne l’amministrazione ai loro cittadini. Meglio affidarle alla società che ha in appalto i parchi dei divertimenti di Disneyland e che certamente li gestisce con più lungimiranza di quanto abbiano fatto gli amministratori cui negli anni recenti romani e veneziani hanno affidato le loro città.

Benigni: «Siamo diventati tutti cattolici...» «leggeva Sant’Agostino»
Repubblica 18.12.14
Papa Francesco telefona a Benigni. Auditel da record coi Comandamenti
di Silvia Fumarola


ROMA LA telefonata tanto attesa, quella in cui molti speravano senza osare ammetterlo, alla fine è arrivata, martedì prima della seconda serata dei Dieci comandamenti. Il cuore, come ripete spesso Roberto Benigni, «deve essersi davvero riempito di felicità» a sentire la voce di Papa Francesco. Il Santo Padre ha chiamato il premio Oscar: un momento di gioia privata che Benigni ha voluto tenere per sé, per pudore. La conversazione è stata affettuosa, raccontano le persone vicine all’attore- regista, e l’abbraccio ideale del Pontefice — con quello di oltre dieci milioni di spettatori — è la soddisfazione più grande.
Benigni santo subito? Certo la performance su RaiUno che illumina la stagione televisiva (per la seconda serata supera se stesso con 10 milioni 266mila spettatori e il 38.32% di share), conferma che la “tv della parola”, ma anche il desiderio da parte del pubblico di seguire un’offerta diversa, funziona. Difficile, come aveva ironizzato presentando Dieci comandamenti , che in futuro potrà fare l’esegesi dei Sette nani («Ho notizie su Brontolo da perdere la testa»).
Indietro non si torna. Ormai quelle di Benigni in tv diventano lezioni di etica e di bellezza. Applaude la comunità ebraica italiana e il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, twitta: “#Diecicomandamenti, ormai le cose serie si ascoltano solo dai comici”. «Sono rimasto piacevolmente stupito dalla quantità di messaggi midrashici che sono passati e dal modo in cui è stato presentato il Talmud. Si vede» aggiunge in un intervento rilanciato da Moked, portale d’informazione ebraico «che Benigni si è preparato a fondo, attingendo in modo significativo da libri e testi ebraici». Colto e popolare, come nel suo stile, alto e basso, il comico diverte con i ricordi autobiografici e emoziona parlando dell’amore: «Non ci rimane molto tempo, affrettiamoci ad amare, amiamo sempre troppo poco e troppo tardi, perché al tramonto della vita saremo giudicati sull’amore».
Se il direttore generale Luigi Gubitosi sottolinea che la Rai è molto orgogliosa di Benigni: «Ha fatto un bellissimo regalo di Natale agli italiani», il direttore di RaiUno Giancarlo Leone non ha dubbi: «Lo spettacolo sui Dieci Comandamenti resterà nella storia della televisione: non soltanto ha segnato una pagina straordinaria, ma rimarrà uno dei cardini, sarà ricordato come uno dei grandi eventi quando si parlerà di cultura sul mezzo televisivo».
Arrivano anche i complimenti del vescovo di Prato Franco Agostinelli, ma soprattutto, attraverso il prelato, si fa sentire il vecchio priore di Vergaio, don Alfio Bonetti, 96 anni, parroco di gioventù del comico. Chissà, forse è a lui che Benigni pensava commentando il Sesto comandamento, quel “Non commettere atti impuri” ascoltato tante volte al catechismo «che ha finito per rovinare generazioni, compresa la mia». Tra don Alfio e Benigni c’è un rapporto profondo di affetto dai tempi delle scuole medie. «A scuola faceva il galletto, ma quando venne per il matrimonio mi disse che leggeva Sant’Agostino».

Corriere 18.12.14
Sì dell’Europarlamento alla Palestina
Hamas tolta dalla lista dei terroristi
E da ieri è all’Onu la risoluzione che chiede la fine dell’occupazione israeliana
di Luigi Offeddu


BRUXELLES Il Parlamento europeo ha approvato ieri a larga maggioranza una risoluzione che sostiene «in linea di principio» il riconoscimento dello stato di Palestina, purché la proposta sia legata allo sviluppo dei colloqui di pace.
Nelle stesse ore, la Corte europea di giustizia ha annullato, «per motivi procedurali», la decisione del Consiglio Ue di mantenere «Hamas sulla lista europea delle organizzazioni terroriste».
In un solo giorno, dunque, due decisioni provenienti dal cuore dell’Europa che toccano le vicende più drammatiche del Medio Oriente, e che già stanno innescando molte polemiche.
Da Israele, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito il voto dell’Europarlamento «uno sconvolgente esempio dell’ipocrisia europea e un’indicazione che molti nel continente non hanno imparato nulla dall’Olocausto». Il co-negoziatore della risoluzione e presidente della commissione Esteri all’Europarlamento, il tedesco Elmar Brok, ha invece sottolineato che «con questo voto, il Parlamento europeo ha respinto in modo chiaro un riconoscimento della Palestina senza condizioni, separato dai negoziati di pace». Quanto alla sentenza della Corte di giustizia su Hamas, l’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Federica Mogherini, ha rilevato che non dovrebbe essere considerata «una decisione politica»: i giudici hanno espressamente citato «ragioni procedurali», per esempio il fatto che le accuse sulle attività di Hamas siano state sostenute spesso da documentazione reperita su Internet o su giornali, e non da fonti ufficiali o documentate.
Ma naturalmente, è stata la decisione dell’Europarlamento quella che più ha suscitato attenzione e proteste. La risoluzione era stata redatta da 5 diversi gruppi politici, ed è stata approvata con questi risultati: 498 voti favorevoli, 88 contrari, 111 astenuti.
Vi si sostiene che il Parlamento europeo appoggia «in linea di principio il riconoscimento dello Stato palestinese e la soluzione a due Stati, e ritiene che ciò debba andare di pari passo con lo sviluppo dei colloqui di pace, che occorre far avanzare».
E ancora: l’Europarlamento ribadisce «il proprio fermo sostegno a favore della soluzione a due Stati basata sui confini del 1967, con Gerusalemme come capitale di entrambi gli Stati e con uno Stato di Israele sicuro e uno Stato di Palestina indipendente, democratico, territorialmente contiguo e ca-pace di esistenza autonoma, che vivano fianco a fianco in condizioni di pace e sicurezza, sulla base del diritto all’autodeterminazione e del pieno rispetto del diritto internazionale».
I deputati condannano poi «con la massima fermezza» tutti gli atti di terrorismo o di violenza. E rimarcano «la necessità di consolidare il consenso attorno al governo dell’Autorità palestinese» invitando «tutte le fazioni palestinesi, compresa Hamas, a fermare le divisioni interne».
Una parte del testo ribadisce poi che «gli insediamenti israeliani sono illegali ai sensi del diritto internazionale», chiedendo all’Europa «di diventare un vero e proprio motore nel processo di pace in Medio Oriente e all’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, di favorire una posizione comune europea per la soluzione del conflitto».
Per appoggiare gli sforzi della diplomazia, è stata poi deciso di lanciare l’iniziativa «Parlamentari per la pace», con l’intento di riunire gli eurodeputati e i deputati dei parlamenti di Israele e Palestina.

Corriere 18.12.14
Hamas, l’errore dei giudici Ue. Israele teme l’assedio
di Davide Frattini


Come le candele della festa di Hannukah accese in queste sere una dopo l’altra, Benjamin Netanyahu deve affrontare le scintille diplomatiche che si stanno infuocando attorno al suo governo. L’Europa che il premier israeliano accusa di «ipocrisia sconvolgente» («a quanto pare troppe persone non hanno imparato nulla nella stessa terra dove sei milioni di ebrei sono stati massacrati») solo ieri ha votato tre decisioni: in Svizzera 126 Paesi hanno adottato una dichiarazione in 10 punti per rinforzare l’applicazione della Convenzione di Ginevra (che vieta di colonizzare le aree occupate) nei territori palestinesi; la Corte di giustizia europea ha tolto i fondamentalisti di Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche; il Parlamento di Strasburgo ha voluto dare il suo sostegno al riconoscimento della Palestina come Stato, ammorbidito dalla formula «in linea di principio» che non acquieta gli israeliani. Netanyahu (e chi vincerà le elezioni anticipate di metà marzo) sta cercando una strategia per rispondere alle mosse e alle iniziative che nascono fuori dai negoziati. Le trattative sono ferme da aprile, così i palestinesi scelgono la tattica unilaterale: l’ambasciatore giordano vuole presentare per loro una risoluzione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite che fissa un periodo di due anni per arrivare alla fine dell’occupazione e al ritiro dalla Cisgiordania. In 51 occasioni gli americani hanno bloccato con il veto le bozze di risoluzione contro Israele. Questa volta John Kerry, il segretario di Stato, sta tenendo coperta la carta finale, vuole che Netanyahu e i suoi ministri (in passato l’hanno attaccato e insultato) sudino freddo e non considerino scontato l’arrivo della cavalleria in soccorso. Kerry aveva scommesso il suo mandato da capo della diplomazia sulla possibilità di raggiungere un accordo di pace: entusiasmo e sforzi che il governo israeliano ha bollato come eccessivi («messianico», lo ha definito il ministro della Difesa Moshe Yaalon). Adesso Netanyahu si sente sotto assedio e prova a sfruttare l’accerchiamento per conquistare voti. L’immagine di Mister Sicurezza incrinata dalle violenze di questi mesi a Gerusalemme, tenta di presentarsi come il difensore di un Paese che il mondo di fuori vuole isolare. L’Unione Europea ha subito precisato che la decisione dei giudici su Hamas è tecnica e non politica: «Per noi resta un’organizzazione terroristica». Agli israeliani non basta, ormai gli oltranzisti nel governo non considerano più gli europei mediatori imparziali. Il ministro Naftali Bennett, a capo del partito dei coloni, ha evocato la Bibbia e paragonato la Corte di giustizia «a Sodoma, dove il bene è male e il male è bene».

La Stampa 18.12.14
Palestina, il Parlamento Ue per il riconoscimento
Ira Netanyahu: europei ipocriti, ignorata la Shoah

qui

Repubblica 18.12.14
Ue, voto per la Palestina. Ira d’Israele
A Strasburgo sì al riconoscimento dello Stato
Il Tribunale del Lussemburgo: Hamas fuori dall’elenco dei terroristi
Il premier Netanyahu: “Ecco i pregiudizi degli europei, non hanno imparato nulla dall’Olocausto”
di Andrea Bonanni


STRASBURGO Con 498 voti favorevoli, 88 contrari e 111 astensioni il Parlamento europeo si è dichiarato ieri per un riconoscimento «in principio» dello Stato palestinese, sottolineando che questo deve procedere «di pari passo con lo sviluppo di negoziati di pace». L’assemblea legislativa europea non ha potere decisionale in materia di politica estera, e dunque la risoluzione approvata non ha conseguenze dirette sull’atteggiamento dei governi europei. Tuttavia il Parlamento, nello stesso documento, invita l’alto rappresentante per la politica estera europea, Federica Mogherini, a «facilitare il raggiungimento di una posizione comune dell’Ue in questo senso» affinché l’Europa possa riprendere un ruolo nel processo di pace in Medio Oriente.
Il voto degli eurodeputati è arrivato poche ore dopo che il Tribunale dell’Unione europea, a Lussemburgo, aveva annullato la decisione presa dai ministri degli esteri dell’Ue nel 2003 di inserire Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche. Anche in questo caso, la sentenza del Tribunale non ha effetti concreti, in quanto il gelo dei beni dell’organizzazione palestinese e le varie misure adottate dalla Ue per isolare Hamas restano in vigore fino alla presentazione della richiesta di appello e fino alla sentenza definitiva. E sempre nella giornata di ieri i rappresentanti di 126 Paesi che aderiscono alla Convenzione di Ginevra, riuniti nel capoluogo Svizzero in assenza del rappresentante israeliano e di quello statunitense, hanno votato all’unanimità una risoluzione che chiede a Israele di rispettare i diritti dei civili palestinesi. Queste due decisioni hanno provocato una durissima replica del primo ministro dello Stato ebraico, Benjamin Netanyahu: «Oggi abbiamo assistito a due esempi del pregiudizio europeo. A Ginevra si chiede un’inchiesta contro Israele per crimini di guerra, mentre in Lussemburgo la Corte europea ha rimosso Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Ci sono troppe persone in Europa, sulla terra dove sono stati massacrati sei milioni di ebrei, che non hanno imparato nulla».
Netanyahu ha chiesto l’immediato reinserimento di Hamas nella lista nera della Ue. In realtà, come ha spiegato ieri la portavoce dell’Alto rappresentante Federica Mogherini, la decisione del Tribunale «è una sentenza legale basata su un vizio di procedura, non una decisione politica» Il Consiglio potrà decidere di fare appello, e nel frattempo «le misure restrittive restano in atto. Questo significa che la Ue continua a considerare Hamas un’organizzazione terroristica». La sentenza dei giudici di Lussemburgo si appella infatti ad un vizio procedurale, in quanto la decisione di mettere Hamas sulla lista nera sarebbe stata presa «sulla base di accuse ricavate dalla stampa e da Internet» e non «per fatti esaminati e convalidati da autorità nazionali».
Più rilevante, politicamente, è stato il voto della risoluzione approvata dal Parlamento europeo, che tra l’altro condanna ancora una volta gli insediamenti dei “coloni” israeliani nei territori palestinesi. E la rilevanza è data dalla enorme maggioranza che ha condiviso il documento, presentato con una iniziativa congiunta di popolari, socialisti, liberali, verdi ed estrema sinistra. In realtà socialisti, verdi e sinistre avrebbero voluto un testo ancora più duro, che chiedeva ai governi un riconoscimento immediato dello Stato palestinese senza collegarlo alla ripresa dei negoziati. Il compromesso è stato imposta dai Popolari. «Con questo voto il Parlamento respinge un riconoscimento incondizionato scollegato dai negoziati di pace», ha dichiarato Helmar Brok, popolare tedesco e presidente della Commissione esteri del Parlamento. Anche con le attenuazioni richieste dal Ppe, la risoluzione è apparsa comunque troppo dura agli eurodeputati di Forza Italia che, pur aderendo al Ppe, hanno lasciato l’aula al momento della votazione. Il testo ha invece avuto il sostegno dei deputati del Movimento cinque stelle, mentre i loro compagni del gruppo euroscettico, i britannici dell’Ukip, si sono opposti sostenendo che il riconoscimento di uno Stato non rientra nelle competenze dell’Ue.
Il voto del Parlamento europeo arriva dopo la decisione della Svezia di riconoscere lo Stato palestinese e una serie di voti analoghi, ma non vincolanti, dei parlamenti di Gran Bretagna, Francia, Irlanda, Spagna e Lussemburgo. Nel testo approvato ieri, gli eurodeputati esprimono «forte sostegno per la soluzione dei due Stati sulla base delle frontiere del 1967, con Gerusalemme come capitale dei due Stati», che è proprio l’ipotesi recentemente respinta dal premier israeliano Netanyahu.

La Stampa 18.12.14
L’Anp presenta la bozza di risoluzione all’Onu: “Mettere fine all’occupazione israeliana”
Mossa dei palestinesi al Consiglio di sicurezza: «Ma siamo pronti a modificare il testo». Trattative per evitare il veto minacciato dagli Stati Uniti

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La Stampa 18.12.14
Cina, vietato cantare l’inno nazionale per gioco
Le autorità di Pechino hanno stabilito che debba essere cantato solo in occasioni sufficientemente patriottiche: niente inno durante matrimoni, funerali, ritrovi fra amici e attività “non politiche”
di Ilaria Maria Sala

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Corriere 18.12.14
Telefonate e lettere, la tela di Francesco
Il Papa che viene «quasi dalla fine del mondo» raccoglie l’eredità di Wojtyla e Ratzinger La mediazione tra Obama e Raúl Castro, l’incontro segreto tra delegazioni in Vaticano a ottobre
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO La premessa risale all’inizio del 1959, quando Fidel Castro aveva preso il potere, Giovanni XXIII era Papa da un paio di mesi e c’erano missionari e suore in fuga da Cuba. Loris Capovilla, allora segretario del pontefice e oggi cardinale, raccontò al Corriere della Sera che Roncalli era furibondo: «Perché non si scappa, non si scappa mai. E mai si interrompono i rapporti diplomatici». Quando il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin e il suo omologo americano John Kerry si sono incontrati, lunedì mattina, era già tutto deciso, non restava che confermarlo a chi lo aveva reso possibile. A ottobre, mentre il mondo intero guardava all’Aula del Sinodo, in Vaticano si incontravano in segreto le delegazioni degli Stati Uniti e di Cuba per quella che Bergoglio per primo, «con vivo compiacimento», definisce «una decisione storica». È una finezza della storia che tutto questo sia accaduto nel giorno del (settantottesimo) compleanno di Francesco. Però non è un caso che proprio il Papa arrivato «quasi dalla fine del mondo», il primo pontefice latinoamericano, abbia portato a compimento un processo che si è risolto negli ultimi mesi ma la Chiesa ha sviluppato per anni, con la pazienza di chi è abituato a misurarsi nei millenni. Bergoglio si è speso in prima persona: le lettere scritte in estate a Raúl Castro e a Obama ma anche le telefonate per favorire la liberazione «di alcuni detenuti», a cominciare dall’americano Allan Gross, in carcere a Cuba da 5 anni.
È qualcosa di concreto, e insieme simbolico, che il Vaticano abbia «accolto» statunitensi e cubani e le due parti considerassero il suo territorio come fosse un’area «terza», più che neutra. Un evento reso possibile da un Papa che viene dal Sud del mondo, non si stanca di denunciare le derive dell’Occidente e di un mercato che idolatra «il dio denaro», e vuole una «Chiesa povera e per i poveri» in uscita verso le «periferie».
E poi c’è da considerare la «squadra» di Francesco. L’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu, sostituto e quindi «numero due» della Segreteria di Stato, era nunzio a Cuba e preparò la visita nel 2012 di Benedetto XVI. Il cardinale Parolin era nunzio in Venezuela. I vertici della diplomazia vaticana conoscono perfettamente l’area e i suoi protagonisti. Del resto la vocazione della diplomazia vaticana, da sempre considerata la migliore del mondo («chissà la seconda», scherzava con malcelato orgoglio il cardinale Domenico Tardini, ai vertici con Pio XII e Giovanni XXIII) è in ogni circostanza di favorire la caduta dei muri: «Pontefice», alla lettera, è proprio colui che costruisce ponti.
La Santa Sede ha sempre avuto un rapporto solido con gli Usa — il fatto poi che Kerry sia cattolico aiuta — e negli ultimi anni ha rafforzato i rapporti mai interrotti con Cuba. I vescovi cubani e quelli statunitensi chiedevano la fine dell’embargo, nel ‘98 arrivò nell’isola Giovanni Paolo II a dire che era «ingiusto ed eticamente inaccettabile».
Dopo aver incontrato Fidel Castro, già allievo dei gesuiti, Benedetto XVI salutò Cuba nel 2012 chiedendo la stessa cosa, «si eliminino posizioni inamovibili e punti di vista unilaterali». Già allora la Santa Sede aveva perorato la causa della liberazione di Allan Gloss. Kerry è tornato a chiedere l’intervento vaticano a gennaio, incontrando Parolin. L’indole diretta di Francesco, tra lettere e telefonate, è stata la svolta finale.

Corriere 18.12.14
Le garanzie e l’audacia di Francesco
di Andrea Riccardi


Un successo personale. Ottenuto abbandonando le tradizionali prudenze della diplomazia. Papa Francesco ha osato fare un appello personale ai leader dei due Paesi, Barack Obama e Raúl Castro. E i due capi di Stato gli hanno riconosciuto il merito di aver contribuito a costruire l’intesa. Lo hanno infatti pubblicamente ringraziato nelle due conferenze s t a m p a c o n te m p o r a n e e svoltesi ieri. Il Papa latino-americano ha aiutato Obama a uscire dall’impasse in cui la politica americana (soprattutto per motivi interni) era incagliata da decenni. Ma Francesco ha rappresentato anche una garanzia per Cuba, dove la Chiesa guidata dal cardinale Ortega ha condotto una politica di piccoli passi, guadagnando spazio sociale e interlocuzione civile. Da questa svolta il Papa (pastorale e non diplomatico) esce consacrato quale uomo di pace. La Guerra fredda è proprio finita.
Davvero è una svolta storica. Un pezzo di muro è caduto. Nel caso di Cuba il muro era l’embargo deciso addirittura all’epoca in cui fu innalzato il Muro di Berlino. Cuba e Stati Uniti, tanto vicini geograficamente, hanno vissuto agli antipodi per più di mezzo secolo, ben oltre l’89. Del resto, nel mondo globale, sono possibili le guerre fredde regionali. Ora comincia un’altra storia. Obama ha ammesso con onestà: «L’isolamento non ha funzionato. I 53 anni di embargo non sono serviti a nulla». Bisognerebbe trarne una lezione sugli effetti perversi degli embarghi, che radicalizzano le posizioni. El bloqueo (come si dice a Cuba) ha sfidato, ma anche paradossalmente consolidato il regime castrista. Comincia una nuova storia tra i due paesi con i rapporti diplomatici e commerciali. Non si esclude una visita nell’isola di Obama, che ha mostrato coraggio nella svolta. Inizia una nuova storia per Cuba, finora al riparo dai processi di globalizzazione proprio dall’embargo. Che sarà Cuba senza il muro? Raúl Castro esce a testa alta, ma il regime si dovrà adattare al nuovo quadro di flussi e relazioni. Ha mostrato capacità di adattamento. Una storia «bloccata» si mette in movimento su tutti i fronti. La sorpresa nella sorpresa è il ruolo di Francesco, ringraziato da entrambi i presidenti. È un suo successo. Il Papa ha osato un appello personale ai due leader, andando al di là della tradizionale prudenza della diplomazia. Segno dell’importanza del ruolo del papa è l’incontro tra le delegazioni avvenuto in Vaticano (il comunicato della Segreteria di Stato usa il termine tecnico di «buoni offici»). L’intervento di Francesco ha avuto un aspetto umanitario con la liberazione dei detenuti a Cuba e negli Usa, ma è andato ben oltre. Il papa latino-americano ha aiutato Obama a uscire dall’impasse in cui la politica americana (soprattutto per motivi interni) era incagliata da decenni. Ha rappresentato anche una garanzia per Cuba, dove la Chiesa guidata dal cardinal Ortega ha condotto una politica di piccoli passi, guadagnando spazio sociale e interlocuzione civile. Da questa svolta il papa (pastorale e non diplomatico) esce consacrato quale uomo di pace: rivela come il mondo globale abbia bisogno dell’audacia della pace. La guerra fredda è finita ma restano conflitti aperti. Da ieri uno in meno.

Repubblica 18.12.14
Da Wojtyla a Bergoglio
di Joaquìn Navarro-Valls


ERA già sera. Il congedo, sotto l’aereo, dopo il viaggio di Giovanni Paolo II a Cuba. Poche parole. Le mani strette. Sorrisi evidenti. Finivano dei giorni pieni. Certamente con delle sorprese. Ma anche con un evolversi dei fatti prevedibile. Un Papa venuto dall’Est aveva aperto un percorso. Un altro Papa, venuto dal Sudamerica, oggi lo completa. Quella sera Fidel Castro e Wojtyla erano, per la seconda volta, all’aeroporto dell’Avana.
SI erano salutati all’arrivo pochi giorni prima. Poi si erano incontrati nell’Università dove il Papa parlò della storia di Cuba. Poi, nel Palacio de la Revolución. Era questo l’incontro ufficiale. Il momento di parlare da soli. Il colloquio fu lungo. Fidel sapeva che il Papa voleva ascoltare da lui le sue ragioni. Lo aveva detto ai giornalisti nell’aereo che lo portava a Cuba: «Io voglio ascoltare sempre e soprattutto la verità: che lui mi dica la verità, la sua verità, quella che conosce soltanto lui…, come uomo, come presidente, come comandante». E proprio dall’aereo, a metà dell’Atlantico, mi avevano trasmesso quel testo: ero all’Avana per cercare di sistemare con le autorità locali alcune questioni relative all’imminente viaggio. E quel testo lo feci arrivare a Castro che era già all’aeroporto per aspettare l’arrivo del Papa. Lui sapeva che cosa voleva sapere il Papa da lui. E quando due giorni dopo si incontrarono nel Palacio de la Revolución, parlarono a fondo. E a lungo. Con un ordine del giorno già scritto da Giovanni Paolo.
Castro aveva lasciato passare un momento, anni prima, in cui alcuni cambiamenti nell’isola potevano aver luogo. Fu dopo l’incontro tra Gorbaciov e lui, quando furono tagliati gli aiuti della Russia al sistema cubano. Quello diede inizio al “periodo speciale”: grandi difficoltà economiche, isolamento anche dall’area socialista russa che completava l’embargo americano. Quel momento non fu l’inizio di alcun cambiamento nel comunismo cubano. Fu visto da molti come un’opportunità perduta. Lo era stata anche l’opportunità aperta con la visita del Papa?
Castro si è preso sempre del tempo prima di decidere. Le sue decisioni, quando ho parlato con lui per la prima volta, dovevano apparire sensate, ragionate, e, soprattutto, non espressione conclusiva di pressioni esterne. L’Apparato del Partito non avrebbe tollerato né scelte incomprensibili, né, tanto meno, una mancanza di autonomia e di razionalità nella gestione del potere.
E Giovanni Paolo II sapeva aspettare. Dal suo primo viaggio in Polonia nel 1979 alla caduta del muro di Berlino erano trascorsi dieci anni. Con Cuba sarebbe successo anche qualcosa di analogo. Dal 1997 quando Giovanni Paolo II fece il suo storico viaggio a Cuba è passato del tempo. Ma non un tempo inutile. La chiesa cubana è stata accettata sia dalla gente che dal Partito; il suo riconoscimento anche come elemento attivo della società è stato quasi istantaneo in quel viaggio ed è cresciuto in questi anni. Perfino è stata accettata una mediazione della Chiesa in una delle molte questioni spinose del “corpus” cubano. Fidel ha facilitato questi passi.
Una rivoluzione nasce senza dubbio da quel fenomeno che Elias Canetti, in Massa e potere ha definito una mobilitazione di energie collettive. Esse sono una forza trainante e invisibile che si muove come la lava sotto i piedi fino a quando non trova un canale per esplodere. Ma anche le società, cioè la gente, cambia. L’ho visto già un anno dopo la visita di Giovanni Paolo II a Cuba. Mi ero recato all’Avana e Castro, per la seconda volta, mi aveva invitato a un pranzo, sempre nello stesso Palacio de la Revolución. Ma il suo stile sembrava cambiato. Tutto era molto più disteso, si rideva di più. Forse si respirava un’aria, se non di cambiamento, almeno di trasformazione.
Ma ricordando quel testo che diedi a Castro sul colloquio del Papa nell’aereo coi giornalisti, c’era anche un elemento che adesso non sarebbe possibile storicamente ignorare. Alla domanda di un giornalista americano su che cosa consiglierebbe lui al presidente degli Stati Uniti riguardo a Cuba, Giovanni Paolo II rispose solo con una frase ripetuta per due volte in un crescendo di intensità nella sua voce: «To change. To change ». Il suo unico consiglio agli Stati Uniti era cambiare. È passato del tempo anche per questo cambiamento. Al posto di Giovanni Paolo II c’è oggi Francesco che Obama e Castro hanno pubblicamente ringraziato per il ruolo giocato nella riapertura del dialogo tra i due Paesi. È il primo Papa venuto dal continente sudamericano. Un segno della provvidenza per chi crede, della provvidenza della storia per tutti.
E un altro muro, adesso, cade.

Repubblica 18.12.14
La delegazione statunitense e quella cubana si sono incontrate nella Santa Sede
I “contatti” attraverso il segretario di Stato Parolin
Le lettere ai due leader la mossa segreta del Papa che porta alla svolta
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO La riapertura dei rapporti fra Washington e L’Avana avviene sotto il segno di Papa Francesco. E attraverso il lavoro della segreteria di Stato vaticana guidata da Pietro Parolin, cardinale che conosce bene l’America Latina per essere stato dal 2009 al 2013 nunzio in Venezuela, principale alleato di Cuba. Come papa Giovanni XXIII consentì nel 1962 la soluzione della crisi missilistica a Cuba quale risultato della politica del dialogo iniziata dal suo segretario di Stato Domenico Tardini (scomparso nel ‘58), così Francesco attraverso il suo primo ministro Parolin — non a caso erede della stessa scuola diplomatica che fu di Tardini e di Agostino Casaroli, capo della segreteria dal 1979 — diviene decisivo nel ripristino delle azioni diplomatiche fra i due storici nemici.
Francesco, dopo cinquanta cinque anni di tensioni tra l’isola “comunista” e gli Stati Uniti, ha agito con sapienza, spingendo i leader dei due Paesi al dialogo, unica strada a suo modo di vedere sempre capace di sciogliere i nodi più controversi e apparentemente inestricabili. La sua Weltanschauung , come ha spiegato Parolin in un’intervista ad Avvenire, è volta a far comprendere che le differenze «sono una ricchezza e una risorsa», mai insomma un ostacolo.
Con questa sensibilità di fondo il Papa argentino ha scritto due lettere separate, all’inizio della scorsa estate, al presidente cubano Raul Castro e a quello americano Barack Obama, esortando entrambi a perseguire relazioni più strette. In ottobre, poi, in assoluta riservatezza, delegazioni di Cuba e Stati Uniti sono state fatte incontrare in Vaticano, con l’obiettivo di favorire la piena normalizzazione dei rapporti. Una mediazione che ha dato i suoi frutti, con il disgelo annunciato ieri.
Il pontefice «venuto dall’altra parte del mondo», attraverso la segreteria di Stato vaticana, ha espresso ieri «vivo compiacimento» per la «storica decisione» dei due governi «di stabilire relazioni diplomatiche, al fine di superare, nell’interesse dei rispettivi cittadini, le difficoltà che hanno segnato la loro storia recente». L’organismo vaticano, in una nota, ha spiegato che le lettere inviate da Jorge Mario Bergoglio avevano lo scopo di «invitare a risolvere questioni umanitarie d’interesse comune, tra le quali la situazione di alcuni detenuti, al fine di avviare una nuova fase nei rapporti tra le due parti». Certo, dopo Giovanni XXIII il Vaticano ha sempre lavorato su Cuba. Sia Giovanni Paolo II (1998) sia Benedetto XVI (2012) hanno visitato l’isola incontrando entrambi l’ex allievo dei gesuiti Fidel Castro. Il viaggio di Joseph Ratzinger fu preparato dal cardinale Tarcisio Bertone, che viaggiò personalmente a Cuba, e dai suoi due vice in segreteria di Stato, Dominique Mamberti e il “sostituto” Angelo Becciu, che l’isola conosceva bene, essendovi stato nunzio apostolico. I contatti però non finiscono qui. Sia nell’establishment castrista che in quello americano hanno avuto e hanno rapporti importanti con il Vaticano rispettivamente Eusebio Leal Spengler, Historiador dell’Avana e cattolico, e il segretario di Stato americano John Kerry. Quest’ultimo, lo scorso gennaio, si era recato a Roma col preciso scopo di un incontro con Parolin, un meeting anch’esso decisivo per la storica svolta di ieri.

Il Sole 18.12.14
Diplomazia vaticana. Il segretario di Stato Parolin spesso a colloquio con Kerry
Papa Francesco «broker» della pace
di Carlo Marroni


La svolta è arrivata a fine ottobre, quando le delegazioni di Usa e Cuba, con la mediazione della Santa Sede, hanno capito che ormai era fatta. I dettagli sarebbero stati messi a punto con facilità, ma “el bloqueo” era ormai superato. Usa e Cuba hanno trovato l’accordo dentro due stanze dei Sacri Palazzi, al riparo da occhi indiscreti. La Santa Sede torna al centro della politica internazionale, frutto della leadership planetaria di Papa Francesco e dell’abilità diplomatica del Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, negoziatore finissimo su molti scenari, dall’America Latina alla Cina. Parolin nel corso degli ultimi 12 mesi ha visto due volte il Segretario di Stato Usa, John Kerry, a gennaio e pochi giorni fa. Nell’ultimo incontro l’accordo era stato ben definito, e ora è chiaro il perché della richiesta Usa di un aiuto dalla Santa Sede per trovare una soluzione per i prigionieri detenuti nella base di Guantanamo. L’annuncio è comunque il frutto di una impegno che il Vaticano non ha mai smesso nel paese latino-americano forse a minor percentuale di cattolici anche se il regime di Fidel Castro – ex allievo dei gesuiti – non mai smesso di considerare la Santa Sede come proprio “avvocato” nei consessi internazionali. In questo si innestano quindi i richiami per la fine dell’embargo lanciati da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nei viaggi nel 1998 e 2012, quest’ultimo preceduto da quello del cardinal Bertone nel 2008 (pare fosse all'Avana anche qualche giorno fa). Ma la diplomazia pontificia ha sempre lavorato su Cuba – unico paese comunista a non aver rotto le relazioni diplomatiche con il Vaticano. A Cuba la figura centrale della Chiesa è l’arcivescovo dell’Avana, cardinale Jaime Lucas Ortega y Alamino, “grande elettore” di Bergoglio in Conclave, in gioventù rinchiuso in un campo di rieducazione del regime.

Corriere 18.12.14
Le scuole come covo di nemici ossessione dell’Islam fanatico
di Pier Luigi Battista


Sono anni che i terroristi jihadisti di Boko Haram spargono il terrore nelle scuole della Nigeria, con attentati che hanno per bersaglio studenti e studentesse giovanissime. «Boko Haram» significa «l’istruzione occidentale è peccato» e i ragazzini e le ragazzine che osano prendere un libro che non sia il testo sacro devono essere puniti e annientati senza pietà.
È difficile capire la logica perversa degli assassini che hanno fatto strage di bambini in una scuola di Peshawar. Ci sembra qualcosa di mostruoso, di incomprensibile, un’esplosione di follia. Ma è una follia sorretta da un’implacabile logica fondamentalista. Chi è ossessionato dalla contaminazione, chi considera corruzione e depravazione la cultura, l’arte, la musica, il sapere, tutto ciò che non sgorga da un unico dogma vissuto con una passione totalitaria, non è solo intollerante. È anche un soldato che deve colpire il nemico ovunque sia annidato per ripulire il mondo da ogni impurità. Le ragazze che come Malala Yousafzai pretendono in Pakistan di andare a scuola, secondo gli energumeni messi a guardia della fede sono da sterminare per almeno due ragioni: perché sono donne e studiando stanno rifiutando perciò un destino di soggezione e di minorità a disposizione del maschio padrone; e perché frequentano un luogo «immondo» come la scuola, sentina di ogni vizio: «L’istruzione occidentale è peccato».
«Le donne che leggono sono pericolose», recitava il titolo di una mostra in Francia. Perciò secondo i proclami del fanatismo integralista «le donne che vanno a scuola sono pericolosissime». A Kabul i talebani cacciarono e lapidarono le ragazze che frequentavano le aule scolastiche. In Nigeria le scuole sono oggetto di attentati continui. Dopo la carneficina in Pakistan anche nello Yemen è stato preso a bersaglio un bus scolastico, provocando l’uccisione di quindici persone. Chi possiede un libro eretico viene condannato a morte. Appena preso il potere in Afghanistan i guardiani della fede hanno demolito le scuole, bruciato le librerie, saccheggiato i musei, fatto a pezzi gli strumenti musicali simbolo di dissolutezza e di turpitudine, devastato le statue di Budda.
Il furore della tabula rasa non permette che un edificio degli «infedeli» resti in piedi. A Mosul insieme ai luoghi di culto cristiani sono state messe al bando le scuole. La scuola, in questa visione apocalittica della purezza integralistica, diventa un pericoloso covo di pluralismo, confronto, coesistenza di idee diverse. Vengono sempre colpite biblioteche e scuole perché in questi luoghi non c’è mai un solo libro, un’unica verità ossessivamente salmodiata, una sola dottrina da inculcare, ma c’è sempre la tentazione della diversità, la seduzione di un mondo diverso da quello predicato dai sacerdoti dell’uniformità e dell’intolleranza.
Non c’è più pietà per i bambini, perché si vede nei bambini coinvolti nelle scuole già dei peccatori da condannare in un rogo di purificazione che è la negazione della vita. Questo richiamo fondamentalista esercita purtroppo un suo fascino sinistro eppure seducente con la sua insistenza per le soluzioni crudeli che non ammettono mediazioni, remore, ostacoli morali.
La santificazione dell’omicidio è l’altra faccia dell’odio nei confronti della scuola. È la fuga dalla libertà e dai pesi che essa comporta, così scomoda e lontana dai conforti dell’obbedienza, del conformismo, dello spirito gregario. Per questo i fanatici hanno perfettamente chiari che le scuole sono pericolose e che vanno colpite, massacrati gli studenti, sfigurate le ragazze che le vogliono frequentare.
C’è una bieca ideologia dietro questa follia. Riconoscerne i caratteri non sarà sufficiente ad arginarne l’azione distruttiva, ma nessun argine sarà possibile senza capire il volto di questo nemico che non conosce pietà.

Repubblica 18.12.14
L’amaca
di Michele Serra

A CHI può venire in mente di sparare a un bambino con l’intento, dichiarato, di colpire gli adulti che lo hanno generato? A chi non è stato neanche sfiorato dal pensiero che un bambino è una persona, e che le persone non appartengono a nessuno se non alla loro sacra libertà di esistere, di vivere, di andare incontro al loro destino. Per la cultura tribale degli assassini di Peshawar le persone non esistono. Esistono le tribù: la loro, che è al servizio di Dio, e tutte le altre che Dio maledice. Non esistono le donne e non esistono i bambini se non in funzione dei maschi barbuti che ne sono i padroni, unici attori del mondo, unici giudici. Le donne sono bestiame addetto alla riproduzione, i bambini futuri soldati da destinare alla guerra santa se “dei nostri”, da sterminare se “dei loro”. E in quel disegno rozzo ma chiaro di sopraffazione divina, anche l’ovvia neutralità dei bambini può essere ignorata. Diventano fantocci da scannare, errori da cancellare. Si può salire su un autobus e sparare in faccia a una ragazzina perché vuole studiare, e Dio non vuole. Si può entrare in una scuola e uccidere uno a uno “i figli del nemico”. Si può, ma a una condizione: avere la certezza che le persone non esistono.

Corriere 18.12.14
Stalin e l’intellighenzia Da Bulgakov a Eisenstein
risponde Sergio Romano


Nelle sue risposte lei ha spesso parlato dei rapporti di alcuni intellettuali occidentali con il comunismo e l’Unione Sovietica. Sappiamo quali fossero i rapporti di Stalin con gli intellettuali dell’Unione Sovietica?
Carlo Marini

Caro Marini,
Quando un intellettuale lo interessava e suscitava la sua ammirazione, Stalin giocava con lui come un gatto col topo. Avrebbe potuto schiacciarlo subito con una zampata delle sue mani grosse e pelose (come le descrisse un poeta, Osip Maldel'stam, in alcuni versi che gli costarono la vita), ma preferiva alternare qualche complimento a frasi allusive e minacciose.
Poteva anche essere apparentemente generoso, come accadde quando Michail Bulgakov, caduto in disgrazia dopo essere stato uno dei maggiori narratori e drammaturghi degli anni Venti e Trenta, chiese alle autorità sovietiche di essere autorizzato a espatriare. Stalin conosceva la sua opera e aveva assistito per almeno una dozzina di volte alla rappresentazione di un dramma («I giorni dei Turbin» che l’autore aveva tratto da un romanzo intitolato La guardia bianca ). Vi era raccontata la storia di una famiglia della buona borghesia russa che aveva coraggiosamente e nobilmente combattuto contro l’Armata Rossa. Quando gli fu fatto notare che Bulgakov era stato un reazionario antibolscevico, Stalin rispose che il giudizio sul suo lavoro letterario non poteva essere politico e, aggiunse, a quanto pare: «Se abbiamo vinto contro uomini come quelli, vuol dire che avevamo il diritto di vincere».
Alla domanda di espatrio volle rispondere personalmente con una telefonata a cui il povero Bulgakov, lì per lì, non voleva credere. Gli chiese se volesse davvero andarsene e se un vero intellettuale russo potesse vivere lontano dalla sua patria. Alla fine, quando lo scrittore gli disse che avrebbe preferito restare, dette istruzioni che gli venisse trovato un modesto incarico nel Teatro d’Arte di Mosca.
Più altalenante fu il suo rapporto con un grande regista cinematografico, Sergej Eisenstein, autore di opere che appartengono alla storia della cinematografia sovietica, da «La corazzata Potemkin» a «Ottobre», da «Aleksandr Nevskij» a «Ivan il terribile». In un bel libro dello scrittore olandese Jan Brokken ( Anime baltiche , edito da Iperborea), il lettore apprende che Eisenstein, nato nella Lettonia zarista, fu da Stalin, al tempo stesso, ammirato e detestato. Il «meraviglioso georgiano» non poteva ignorare la forza della sua cinematografia, ma lo trovava troppo astratto, formale e quindi, nel gergo sovietico, «borghese». Sapeva che «Ottobre» era divenuto, agli occhi del mondo, il poema eroico della rivoluzione bolscevica, ma non poteva dimenticare che il regista aveva cercato di lasciare un po’ di spazio, nella sceneggiatura, al personaggio dell’odiato Trotsky. Gli permise di fare i grandi film storici con cui l’Unione Sovietica si appropriò del grande passato nazionale russo, ma non smetteva d’imporre correzioni e modifiche. «Alla fine, scrive Brokken, lo inserì nella categoria degli ebrei ¬— Eisenstein, Mandel'stam, Chagall — che avevano sulla coscienza secondo Stalin le ”brutte deformazioni dell’avanguardia”». L’ex allievo di un seminario georgiano detestava gli ebrei più di quanto non detestasse l’arte «borghese».

La Stampa 18.12.14
Alice, il Natale delle meraviglie
Il 24 dicembre 1864 Lewis Carroll regala alla sua musa la bambina Alice Liddell il libro di avventure inventato per lei quell’estate. L’anno dopo lo pubblica
di Enrico Remmert


È il pomeriggio del 4 luglio 1862 e siamo a Folly Bridge, nei pressi di Oxford, in quel tratto del Tamigi che prende il nome di Isis. Sulle acque del fiume, proprio dove pochi mesi prima l’equipaggio dell’università locale ha vinto la tradizionale regata contro i rivali di Cambridge, si muove una piccola barca a remi. A bordo c’è un equipaggio stranamente assortito ma assai rodato, composto da due uomini e tre bambine: le sorelle Lorina, Edith e Alice Liddell, figlie del decano del Christ Church College, sono infatti in gita insieme a due insegnanti della scuola nonché amici di famiglia, il reverendo Robin Duckworth e il reverendo Charles Lutwidge Dodgson (ovvero Lewis Carroll). Alice, che ha dieci anni, siede al timone mentre le due sorelle di tredici e otto sono a prua. Ai remi c’è Duckworth e dietro di lui Carroll che, cappello di paglia in testa e immancabili guanti, intrattiene tutti con le sue specialità: giochi di parole, nonsense e indovinelli. Ma nel corso del pomeriggio Carroll, incalzato dalle tre sorelline, comincia a inventare una vera e propria storia con protagonista la sua preferita, Alice, che inseguendo un coniglio nella sua tana si trova scaraventata in un mondo fantastico, popolato da bizzarri personaggi e sorprese di ogni tipo.
La piccola musa
E fu proprio Alice che - secondo quanto raccontò Duckworth a Collingwood, primo biografo di Carroll - al ritorno dalla gita pregò: «Oh, Mr. Dodgson, vorrei tanto che trascriveste le avventure di Alice per me». Così quest’uomo timido e tormentato dalla balbuzie, che sembrava magicamente sparire solo quando parlava alle bambine, si buttò a capofitto nel libro, forte della sua grande padronanza della scrittura, già consolidata dalla pubblicazione di poesie e racconti ed esercitata compulsivamente in un epistolario che alla sua morte avrebbe contato la bellezza di 98.721 lettere. I mesi passarono finché, poco prima del Natale 1864, Alice ricevette in dono Alice’s Adventures Underground (Le avventure di Alice sottoterra), volume interamente manoscritto, illustrato e rilegato dallo stesso Carroll. La dedica sul frontespizio recitava: «Un regalo di Natale a una cara bambina in memoria di un giorno d’estate». Alice ovviamente adorò il manoscritto, e lo stesso successe per le due sorelle e per i figli del migliore amico di Carroll, George MacDonald, che erano probabilmente stati i primi a leggerlo. Tutto quell’entusiasmo aveva spinto Carroll a sviluppare i quattro capitoli originali, aggiungendo nuovi personaggi ed episodi (ad esempio lo Stregatto e il Tè dei Matti) per poi portare la nuova versione all’editore Macmillan, che aveva già visionato quella precedente e ne era rimasto folgorato.
Le illustrazioni
Le illustrazioni vennero commissionate a John Tenniel, uno dei più noti talenti dell’epoca, e nel 1865 uscì la prima edizione del libro, che in copertina recava un nuovo titolo, Alice’s Adventures in Wonderland, e la firma Lewis Carroll (lo pseudonimo che Dodgson usava fin dal 1856). Il resto è storia. Alice fu un classico da subito, tanto che ebbe tra i suoi lettori più entusiasti il giovane Oscar Wilde e la regina Vittoria (chissà come si divertì a leggere che il re e la regina «non sono che carte»). In Italia il libro apparve nel 1872, una delle prime traduzioni, a cui seguirono negli anni quasi altre cento lingue. Ma Alice è un successo assoluto e senza tempo: è stato illustrato dai più grandi (da Arthur Rackham a Salvador Dalí, fino alla più talentuosa illustratrice contemporanea, Rebecca Dautremer), ha ispirato fumetti, canzoni, videogiochi e quasi una trentina di film (senza contare la serie televisiva Once upon a time in Wonderland, trasmessa lo scorso anno dalla rete televisiva americana Abc). Il manoscritto ha una storia più triste: come è noto Alice Liddell e Carroll ruppero bruscamente i loro rapporti pochi mesi dopo quello straordinario regalo, lei bruciò tutte le sue lettere e lui fece sparire le «brutte copie». Sui motivi della rottura esiste ogni illazione possibile, nessuna verificabile. Non sappiamo neppure quali fossero i sentimenti di Alice quando nella primavera del 1928, gravata dagli anni e dalle difficoltà economiche, fu costretta a vendere il manoscritto. Sappiamo però che fu battuto all’asta da Sotheby’s e aggiudicato per 15.400 sterline, ai tempi il prezzo più alto mai pagato per un manoscritto. Comunque sia, se il 2015 sarà l’anno ufficiale di Alice, in realtà è in questo Natale che il libro compie 150 anni. Perciò buon compleanno, Alice. (Anzi: buon noncompleanno).

Corriere 18.12.14
Il dono della scienza. Vivremo tutti sei anni di più
di Edoardo Boncinelli


È già qualche anno che sappiamo che la nostra vita si sta progressivamente allungando. E non poco: in media un trimestre ogni anno che passa, almeno dalle nostre parti. Si allunga la vita, si diventa più alti e, forse, più intelligenti, essenzialmente perché si è più sani, meglio nutriti, tenuti riparati dai parassiti e meglio curati. Ora ce lo dice con grande solennità uno studio pubblicato sulla rivista Lancet, condotto in quasi duecento paesi da un team di 500 ricercatori, coordinati da Christopher Murray dell’Università di Washington: dal 1990 a oggi l’età media della popolazione della Terra è cresciuta di 6 anni, passando da 65 a 71 anni. Lo studio è impressionante per vastità e rigore e perché prende in considerazione anche le diverse cause di morte. In un secolo dalle nostre parti la vita media è raddoppiata. Condizioni igieniche, nutrizionali – prima molti mangiavano troppo poco e in maniera sbilanciata – miglioramento delle tecniche diagnostiche e chirurgiche e lo sviluppo di una medicina della terza e quarta età, hanno prodotto questo imponente fenomeno, senza che la genetica ci sia entrata per niente. All’inizio la vita media è cresciuta essenzialmente per l’abbattimento della mortalità infantile. Ora tale fase è finita, almeno in molti paesi del mondo e ne è subentrata un’altra: l’allungamento della vita adulta per un sensibile miglioramento della medicina degli anziani. Si calcola che soltanto la diffusione delle pillole per controllare la pressione arteriosa abbia aumentato la vita media di dieci anni. Da notare che il fenomeno non accenna minimamente a declinare e le nostre città saranno sempre più piene di arzilli vecchietti e, purtroppo ma inevitabilmente, povere di giovani. Questo è un problema, ma anche un’opportunità e un’affascinante sfida da vincere. C’è anche un altro problema. In tutte le nazioni le donne vivono in media sei-sette anni più dei maschi, anche ora che le condizioni di vita delle persone dei due sessi sono profondamente cambiate. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi non del tutto peregrina che le donne campino di più perché…le nonne sono più utili dei nonni nel dare una mano a far crescere i bambini. Ma la cosa deve essere ancora discussa e controllata in modo rigoroso. Sia come sia, nel 2030 la vita media delle donne sarà intorno agli 85 anni e quella dei maschi intorno a 78. Si tratta di cifre impressionanti, perché quasi tutta la storia dell’umanità è stata fatta da persone che vivevano in media 30-35 anni.

Corriere 18.12.14
Dietro le spalle 5 miliardi di anni
di Sandro Modeoi


In Gioventù bruciata (1955) risalta, come un film nel film, la grande scena dell’osservatorio: la scena, cioè, in cui i volti degli studenti — rischiarati dai bagliori dello schermo, quelli della Terra inghiottita dal Sole morente — passano da un riso esorcistico a uno stupore angosciato, mentre il professore valuta il transito umano nel cosmo «un episodio di scarso rilievo». Come ricorda l’astrofisica Ester Antonucci ( Dentro il Sole , il Mulino, pp. 144, e 11) quel crash è in realtà lontano, perché la nostra stella è giusto a metà della parabola, con 4,5-5 miliardi di anni sia alle spalle sia davanti a sé. Ripercorrendo le sequenze descrittivo-interpretative (dal «Sole alato» egizio alle ultime sonde spaziali, acme il break galileiano), la Antonucci indaga del Sole la genesi remota (da una nube di gas interstellare), i movimenti, la luminosità e il bilanciamento tra forze attrattive e repulsive: tra una gravità 28 volte quella terrestre e un nucleo a 15 milioni di gradi. Tutti elementi chiave nel delicato, ma tenace, equilibrio tra la stella e la Terra: quell’insieme di condizioni (temperatura, acqua, luce, consistenza della crosta) alla base della vita organica, almeno in queste regioni dell’universo conosciuto.

Repubblica 18.12.14
Marte
Quel metano sul pianeta rosso che svela la vita
Per i ricercatori della Nasa la concentrazione del gas è dieci volte la norma
Il mistero è sulla sua sorgente: se fosse di tipo organico, sarebbe una svolta
di Silvia Bencivelli


SUL suolo marziano c’è qualcosa che sbuffa. Potrebbe essere questo il primo segnale della presenza di vita sul Pianeta Rosso: un periodico borbottio che emette metano nell’atmosfera, d’improvviso, come un respiro annoiato. Lo ha annunciato la rivista Science, che ha pubblicato i nuovi risultati delle ricerche condotte sulla superficie polverosa del pianeta dal rover americano Curiosity. Si tratterebbe di emissioni periodiche provenienti da una sorgente sconosciuta, spiegano con cautela i ricercatori della Nasa, registrate come aumenti della concentrazione di metano in atmosfera dieci volte superiori al livello di base. La grande domanda è se si tratti di una sorgente di tipo organico, come i batteri che sulla Terra producono metano. Perché se fosse di questo tipo significherebbe aver trovato la vita.
I nuovi risultati di Curiosity riaprono i giochi per la ricerca marziana. Solo un anno fa, infatti, tra gli astronomi tirava tutta un’altra aria, da quando si era scoperto che le concentrazioni di metano nell’atmosfera del pianeta sono, di base, basse. Insufficienti per pensare alla presenza di forme batteriche, si era detto. Oggi le cose cambiano grazie a un’osservazione più prolungata, durata venti mesi, che ha permesso di accorgersi di questi strani sbuf- fi di metano registrati vicino al cratere Gale: uno sbuffo tra novembre 2013 e gennaio 2014, un altro intorno a luglio. Sbuffi strani, anche perché di breve durata, come se il metano venisse disperso molto rapidamente. Ma soprattutto misteriosi perché non se ne conoscono le fonti, che devono per forza essere sul Pianeta Rosso e tuttora molto attive. Ed è su di loro che gli scienziati oggi si interrogano.
Considerato che non sono stati mai registrati segni di attività geologica su Marte, e che quindi si può escludere che a borbottare sia un vulcano (sarebbe interessante scoprirlo adesso), restano due ipotesi di massima incoraggianti, e una terza deludente. Le due interessanti: potrebbe trattarsi dell’interazione tra rocce e acqua, e l’acqua è la culla della vita, o è segno della presenza di qualcosa di organico sul pianeta. Per esempio, potrebbero essere batteri. L’ipotesi deludente parla invece di un vento, più che di uno sbuffo, che soffierebbe in maniera irregolare da una grande sorgente di metano situata in una zona del pianeta lontana da Curiosity.
Ma le ipotesi incoraggianti oggi, sempre grazie a Curiosity, trovano un altro conforto. Cioè la presenza nelle rocce marziane di forme dell’idrogeno che suggeriscono la presenza di grandi quantità di acqua sul pianeta più o meno tre miliardi, tre miliardi e mezzo di anni fa. Quest’acqua si sarebbe poi dispersa nello spazio, ma finché è stata lì potrebbe aver fatto da culla della vita, come più o meno quattro miliardi di anni fa è successo qui sulla Terra.
«È un grande momento per la missione marziana» ha dichiarato John Grotzinger, capo del progetto Nasa per Marte. Ma aver sentito sbuffare non significa ancora aver trovato lo sbuffatore. E la caccia alla vita continua. Nel 2016 e poi nel 2018 sarà la volta della missione europea ExoMars. Il mistero del respiro di Marte potrebbe essere vicino alla soluzione.