domenica 21 dicembre 2014

il Fatto 21.12.14
Un sabato italiano
di Antonio Padellaro


Venerdì notte Matteo Renzi ha anticipato la trasformazione costituzionale del Senato in ente inutile costringendo gli inutili senatori rimasti in aula a votare la fiducia sulla legge di stabilità al buio. Senza cioè poter neppure dare un’occhiata al testo, rimaneggiato fino all’ultimo minuto da Palazzo Chigi per evitare - dicono i turiferari - alcune rapine alle casse statali (disgraziatamente non tutte, però). Nelle stesse ore Renzi era l’ospite d’onore di un imbarazzante show televisivo dal titolo Un mondo da amare, un super spot del “servizio pubblico” Rai pagato col canone e costruito appositamente per celebrare i fasti dell’Expo milanese: di quella parte, s’intende, ancora a piede libero. Nessun cenno, naturalmente, al fatto che intanto il capo dell’Anticorruzione Raffaele Cantone avviava un’indagine sull’appalto Eataly, il più grande ristorante del mondo affidato senza gara a Oscar Farinetti, il ristoratore preferito - guardacaso - dal premier. Dicevamo dei bimbi ammaestrati che facevano finta di fare delle domande a cui Renzi dava delle risposte altrettanto costruite. Uno spettacolo da repubblica caucasica concelebrato da Antonella Clerici e da Bruno Vespa, che forse rimpiangeva i bei tempi di Berlusconi, quando organizzava contratti notarili altrettanto fasulli, ma almeno non doveva ridursi a controfigura del Mago Zurlì.
Come cantava Sergio Caputo, ecco un sabato qualunque, un sabato italiano, ma il peggio non sembra essere passato.

il Fatto 21.12.14
La Finanziaria sulla fiducia
La manovra approvata in Senato con la fiducia su un testo incompleto, pieno di errori e che nessuno aveva letto
di Marco Palombi


Matteo Renzi ha vinto, per carità, e Matteo Renzi è uomo d’onore. Lui dice che così l’Italia riparte e non si può non credergli. La sua legge di Stabilità - che volendo definirla frettolosamente fa appena un po’ meno schifo di quella di Enrico Letta - sarà legge martedì, al sì definitivo della Camera. Però in democrazia, come in letteratura, la forma è la cosa. La sostanza, volendo. E la sostanza è che ieri i senatori della Repubblica - in 22 ore filate - hanno approvato una manovra che scrive il bilancio dello Stato senza sapere cosa stessero votando: cosa c’era nel testo e cosa no, quale parte del lavoro parlamentare era stata mantenuta e quale cassata, quale solo riformulata e quale modificata nella sostanza. Ma Matteo Renzi è un uomo d’onore e quando dice che ha fatto tardi perché stava “sventando l’assalto alla diligenza” non si può che credergli: poi magari uno scopre che in realtà a qualche “assalitore” è stato steso il tappeto rosso (l’elenco è più avanti). Renzi è un uomo d’onore, ma qui non è questione d’onore: questo modo di legiferare è illegittimo e irregolare.
L’Italicum, le norme fantasma e le pagine perse nel buio
Breve riassunto di come la tattica politica s’è mangiata la legalità. Il ddl Stabilità doveva essere approvata in Senato entro oggi. Motivo: Renzi voleva la legge elettorale in Aula prima delle dimissioni di Giorgio Napolitano. Il premier puntava a incardinare l’Italicum domani, s’è dovuto accontentare del 7 gennaio, ma gli va bene lo stesso. Questo è l’unico motivo per cui il Senato è stato umiliato. Tutto comincia mercoledì. La commissione Bilancio, affogata di emendamenti, non riesce a concludere l’esame del testo. La palla passa al governo e al suo maxiemendamento da approvare con la fiducia: il testo, però, invece che mercoledì alle 20 come promesso, è arrivato a palazzo Madama venerdì sera. La Bilancio ha potuto dargli una rapida occhiata, gli altri non l’hanno neanche visto. Poco male: anche quelli che lo hanno avuto per le mani, governo compreso, ancora adesso ne hanno un’idea vaga. Lo stesso viceministro dell’Economia Enrico Morando, in aula, ha dovuto a lungo esercitarsi nel genere della palinodia: “I numeri dei commi spesso mancano o sono errati... ”; “sì, sarebbe meglio che i commi da 716 a 737 sul Fondo per interventi strutturali di politica economia fossero uno solo”; sui tagli al ministero della Difesa “c’è un errore materiale che va corretto”; “certo, elimineremo le norme scritte due volte”. Nel testo votato, poi, erano sbagliati tanto i rimandi interni che quelli alle leggi. A mezzanotte qualcuno s’è addirittura accorto che mancava qualche pagina e non si capiva se era una scelta o un errore materiale. Domanda: su cosa ha posto la fiducia Maria Elena Boschi? Al presidente Pietro Grasso, che come tutti sanno è uomo di serenità olimpica, la cosa non toglie il sonno: “Il governo si assume la responsabilità del testo”, ha spiegato ai colleghi. Non si sa se il “facciamo a fidarci” sia categoria della politica, di sicuro non è una procedura legislativa. Eppure Grasso è ginnicamente soddisfatto: “Una maratona così è un record”. Fortuna che Matteo Renzi è un uomo d’onore e dunque non c’è da preoccuparsi se ha indetto il Consiglio dei ministri per approvare i decreti attuativi sul Jobs Act e l’ennesimo “salva-Ilva” il 24 dicembre: a Natale i giornali non escono. Questo disinteresse per la procedura non è senza esiti. Il testo per dire - nonostante Renzi si vanti di aver eliminato le “marchette” (ma le aveva messe l’esecutivo stesso con appositi emendamenti) - ne è ancora pieno.
La fregatura alle partite Iva e le “marchette” rimaste
C’è il caso dei 10 milioni al porto di Molfetta (vedi pagina 4), ma 10 milioni li ha avuti anche l’Invalsi, dodici Italia Lavoro e si potrebbe continuare. Poi c’è il rincaro Iva (dal 10 al 22%) sul “pallet da riscaldamento”, quello delle stufe, che rende più conveniente il gas distribuito da colossi come Eni o Hera. Al Cane a sei zampe poi viene data pure la procedura semplificata per il sito di stoccaggio petrolifero a Tempa Rossa, in Basilicata, e certe normette “libera-trivelle”. Restano al loro posto pure il regalo a Sergio Chiamparino, che diventa commissario di se stesso, e lo sconto fiscale a Sisal, il via libera alle consulenze del ministero delle Infrastrutture e quella norma pazzesca che consente a Expo spa di fare appalti senza passare da Consip. Poi c’è il caso più scandaloso: un salasso che ucciderà gran parte delle partite Iva che oggi usano il regime dei minimi. Il governo ci ha messo le mani (l’apposita slide di Renzi diceva “Aiuti per le piccole partite Iva”), ma è una fregatura: il nuovo sistema è sconveniente non solo rispetto a quello vecchio, ma pure rispetto alla tassazione ordinaria. Secondo un calcolo di Rpt (Rete delle professioni tecniche), un autonomo da 15mila euro l’anno se sceglie il regime renziano perde rispetto alla tassazione normale tra i 30 e i 500 euro al mese (e paga tre volte di più rispetto al regime in vigore fino a fine mese). Il governo s’era impegnato in commissione a fare le modifiche necessarie, ma nel casino è rimasto più o meno uguale. Matteo Renzi, però, è un uomo d’onore.

il Fatto 21.12.14
Il governo
L’attimo di panico di Morando
di Stefano Feltri


È passata la mezzanotte di una giornata lunghissima quando il viceministro Enrico Morando riconosce che qualcosa non sta funzionando: “Il governo accetta e si scusa per gli errori commessi anche nella relazione tecnica ma abbiamo cercato di rendere più leggibile il testo”. Il governo Renzi ha un rapporto muscolare con il Parlamento: 32 voti di fiducia, perfino sulle leggi delega, e una legge di Stabilità riscritta dal governo con un maxiemendamento e trasformata in un solo articolo, anche questo blindato. Trasferire le decisioni dal Parlamento a palazzo Chigi però non basta per assicurare anche decisioni rapide.
I SENATORI COMINCIANO a rumoreggiare quando si accorgono che l’ultima versione della manovra è piena di problemi. “Stavano emergendo errori meramente formali che non avevano incidenza sugli aspetti finanziari della legge di Stabilità, nessun errore segnalato dalla commissione bilancio, nemmeno una con problemi di copertura a differenza di quanto contestato in passato”, spiega Morando. Ma la situazione era difficile da gestire: al Senato c’è un regolamento diverso che alla Camera, se la commissione Bilancio non riesce a completare i lavori entro la scadenza, la legge arriva in aula senza un relatore, abbandonata a se stessa. In pratica non c’è un testo definitivo e vistato, tocca al governo, quindi a Morando, fare il possibile. Nel trasformare la legge di Stabilità in un articolo unico, sono cambiati tutti i commi e, visti inumerosi rimandi interni, col risultato che interi pezzi di articolato citavano norme divenute inesistenti o con un numero diverso. Un disastro, Morando conferma di aver sperimentato “un attimo di panico”. I parlamentari, specie quelli dell’opposizione, non hanno tutti i torti nel denunciare di essere chiamati a esprimersi su un testo pasticciato e incomprensibile. “Ci chiedete di votare Topolino”, sintetizza Giuseppe Vacciano del Movimento Cinque Stelle. “Ieri ci è toccato assistere a questa oscena rappresentazione. Il Senato è stato trattato come residenza indebita di una banda di scolaretti viziati in perenne gita”, si legge sul Mattinale di Forza Italia, il bollettino curato da Renato Brunetta che dovrebbe dare la linea al partito.
Morando nota che almeno gli errori sono stati tutti formali e non di copertura: quando il viceministro era senatore e relatore delle Finanziarie, con il suo omologo dell’allora Pdl Azzollini, ha introdotto il controllo della commissione Bilancio anche sugli emendamenti governativi. Che invece, per tradizione, erano esentati dal dover dimostrare l’esistenza delle risorse che andavano a spendere, in barba all’articolo 81 della Costituzione che vieta provvedimenti di spesa non coperti. E ci sono state nottate peggiori nella storia delle sessioni di bilancio interminabili che accompagnano i parlamentari verso il Natale: “Ricordo i tempi del governo Prodi, non potevamo mettere la fiducia in aula perché eravamo andati sotto in commissione, quindi abbiamo dovuto votare tutti i 700 emendamenti uno per uno, ricordo Rita Levi Montalcini che li ha votati tutti, senza mai alzarsi perché la maggioranza era di due soli senatori”. Intorno le urla e gli insulti dell’opposizione.
Questa volta è andata più liscia, anche se non gradevole. E forse è finita. Se alla Camera la commissione Bilancio non avrà da ridire sul testo che, un po’ tormentato, è uscito dal Senato.

La Stampa 21.12.14
Frenare la corsa delle lobby
di Stefano Lepri


Se il Congresso degli Stati Uniti esaminando la legge di spesa federale per il 2015 ha anche votato contro la protezione di un uccello noto come «gallo della salvia», e nella maxi-manovra anticrisi del drammatico febbraio 2009 aveva inserito incentivi ai produttori del gioco delle freccette, si capisce che qualche degenerazione si produce in tutte le grandi democrazie.
Non per questo sono meno preoccupanti le traversie della legge di stabilità 2015 nel nostro Parlamento. Vanno esaminate per ciò che ci rivelano sullo stato del nostro sistema politico. Matteo Renzi si vanta di aver fermato in extremis il tradizionale assalto alla diligenza; ne ha solo ridimensionato gli effetti.
Il grosso della manovra, non troppo stravolto dalle aggiunte, mostra una limitata capacità di incidere. Un calo delle imposte c’è, seppur assai inferiore ai 18 miliardi di euro vantati dalla propaganda governativa. Le imprese pagheranno 4,5 miliardi in meno; gli 80 euro ai redditi più bassi sono resi duraturi.
Il carico fiscale complessivo dovrebbe ridursi di 8 miliardi netti nelle stime della Banca d’Italia; sarà meglio distribuito grazie a misure una volta tanto concrete contro l’evasione.
Quanto agli effetti sull’economia, «espansivi» secondo il governo, la maggior parte degli esperti valuta che saranno all’incirca neutrali. Le controverse regole di bilancio europee ci chiedono in realtà una manovra restrittiva: nei calcoli fatti a Bruxelles, questa lo sarà solo per lo 0,1% del prodotto lordo, poco o nulla.
L’interrogativo più importante concerne lo sgravio di contributi alle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Se davvero i decreti di attuazione del «Jobs Act» convinceranno le imprese a creare nuovi posti fissi in buon numero, gli 1,7 miliardi stanziati finiranno prima di metà anno, e si creerà il problema di trovare altre risorse.
Su come fare di più e meglio, di voci se ne sono sentite tante. Sfidare le regole europee – come molti sono bravi a proporre dall’opposizione e non osano mai fare se al governo – poteva riuscire controproducente, come ha spiegato Piercarlo Padoan. Però un serio programma pluriennale di revisione delle spese avrebbe consentito di ottenere di più.
Una occasione è stata perduta per incidere su quanto gli scandali, a Roma e altrove, rivelano. Sono timide le norme approvate in Senato per iniziare la pulizia delle partecipate degli enti locali. Proprio alla responsabilità di Regioni e Comuni è affidata la speranza che i tagli ai loro fondi non si traducano in aggravi fiscali (magari dopo il voto amministrativo della primavera).
E poi c’è il pulviscolo di micro-misure che si ripete, nonostante le riforme della sessione di bilancio che promettevano di eliminarlo. Lo stesso ministro dell’Economia si sente tenuto a ricordare che sono ripristinate le agevolazioni al gasolio per l’autotrasporto: un incentivo a inquinare mantenuto dalla minaccia di sciopero dei Tir.
Un problema di fondo continua ad essere eluso. Non si tratta di decidere se sia giusto o meno, ad esempio, stanziare 50 milioni per la lotta alla ludopatia, ossia alla mania del gioco d’azzardo. Bisogna al contrario capire se le strutture pubbliche che abbiamo sono davvero capaci di fare qualcosa per combattere questo brutto vizio, oppure no. Solo così si può evitare di sprecare denaro.
Per inanellare promesse la politica chiede allo Stato di fare di tutto, senza mai preoccuparsi se ci riesca. E se vogliamo frenare la corsa a compiacere i lobbisti, non basta il monocameralismo: occorrono anche una più forte riduzione nel numero dei parlamentari, un legame stretto tra eletto e collegio, regolamenti della Camera che non consentano a pochi di rallentare i lavori.

La Stampa 21.12.14
Francesco Boccia
“Le marchette? Il primo a farle è stato il governo”
“Questa legge non è un omnibus”
intervista di Francesca Schianchi


Francesco Boccia è il presidente della Commissione bilancio alla Camera, del Pd. Ieri ha ricevuto il testo della Legge di Stabilità dal Senato. Depurato da una ventina di norme ritenute «inopportune».
Il governo ha lavorato per evitare una norma-monstre «con magari varie leggi marchetta»…
«Veramente, se di marchette si tratta – e non entro nel merito – la parentesi-marchette è stata aperta e poi chiusa dal governo».
Cosa intende dire?
«La Legge di Stabilità era uscita snella dalla Camera, dove il governo era stato invitato a presentare non più di 7-8 emendamenti. Se poi al Senato ne presenta 90, il messaggio è “si è aperta la festa dei balocchi”, e ogni senatore che ha un problema sul territorio prova a infilare un emendamento».
La responsabilità è del governo?
«Certo. Se trasformi in un omnibus la Legge di Stabilità allora va tutto fuori controllo. Il ministro Boschi ha fatto quello che poteva con impegno, ma se i ministri vanno all’assalto alla diligenza e la lasciano sola...».
Quindi la frase di Renzi «abbiamo stoppato l’assalto alla diligenza» è propaganda?
«È una frase da Renzi».
Cioè?
«La mia lealtà è massima quando si fanno le cose. Quando si raccontano, mi perdo nella narrazione».
Ora tocca di nuovo a voi alla Camera. Rimettete le mani nel testo?
«No, anzi, faccio un appello a tutti, anche alle opposizioni, per ricordare che la legge di stabilità va chiusa. E le frasi poco felici delle ultime ore derubrichiamole a infortunio nelle recenti relazioni caotiche tra governo e Parlamento».

Corriere 21.12.14
Tiziano Renzi interrogato sul crac: Matteo non c’entra
Ispezione nella banca che diede il mutuo al padre del premier
Una società controllata da Regione Toscana rischia di rispondere per l’80% della cifra
di Erika Dellacasa


GENOVA Si è presentato in Procura a Genova con un cappellaccio e un giaccone quasi tre settimane fa e nessuno si è accorto che quell’uomo massiccio era il padre del presidente del Consiglio.
Tiziano Renzi, 63 anni, è stato convocato dal sostituto procuratore Marco Airoldi quale principale indagato per bancarotta fraudolenta nell’indagine penale seguita al fallimento della società di famiglia, la Chill Post.
Nell’interrogatorio, assistito dal suo legale, Renzi senior ha tenuto subito a chiarire una cosa: «Matteo in questa storia non c’entra nulla». Perché nulla sapeva. Punto. Per il resto l’imprenditore si è difeso dettagliatamente contestando le accuse relative a una vicenda, in realtà, dai contorni assai banali nelle pratiche di fallimento e che mette in campo cifre modeste ma il punto è quel cognome: Renzi.
Tutto è partito nel 2013 con la segnalazione alla Procura del curatore fallimentare della Chill Post, società di distribuzione di giornali e marketing editoriale con sede a Genova, per la cessione «sospetta» nell’ottobre del 2010 del ramo d’azienda alla Chill Promozioni srl di cui era presidente Laura Bovoli, madre di Matteo. Una vendita fra moglie e marito per la cifra giudicata incongrua di 3.878 euro e 67 centesimi, un «regalo» per svuotare la Chill Post da ogni contenuto trasformandola in una specie di bad company destinata a fallire nel giro di non molto tempo con un buco a bilancio di oltre un milione di euro. Da qui sono partite le indagini della Procura della Repubblica di Genova che si sono in seguito concentrate su un mutuo ottenuto dalla Chill Post, pochi mesi prima della vendita sospetta, dal Credito Cooperativo di Pontassieve.
La società si trovava già in cattive acque e aveva sulle spalle un’azione giudiziaria per non aver pagato l’affitto della sede (il che le è poi costato una condanna al pagamento di 11 mila euro). Il mutuo di 496.717,65 euro è stato garantito dalla FidiToscana, la società controllata al 49 per cento dalla Regione Toscana — il resto dell’azionariato è costituito da banche — con lo scopo istituzionale di sostenere lo sviluppo di piccole imprese. È stato concesso con la causale di «sostegno alle imprese femminili» perché in quel momento risultavano responsabili la madre e una sorella di Matteo Renzi (le relazioni della polizia giudiziaria tuttavia escludono responsabilità della madre del premier, il cui ruolo sarebbe stato solo funzionale alle attività del marito).
La Banca di Pontassieve si è inserita nell’elenco dei creditori dopo la dichiarazione di fallimento, anzi è il maggior creditore, ma a rimetterci di più sarebbe la FidiToscana che ha garantito il prestito e che si troverebbe ora — secondo le indagini — a dover rispondere dell’ottanta per cento della cifra. Sempre che la Banca di Pontassieve eserciti il suo diritto a chiedere conto della garanzia.
Da sottolineare poi che il mutuo concesso era chirografario, senza accensione di ipoteche quindi ma solo basato sulle garanzie.
E proprio lo stesso giorno in cui è stato interrogato a Genova Tiziano Renzi la Guardia di Finanza ha effettuato su ordine della Procura una perquisizione nella sede della Banca di credito Cooperativo di Pontassieve per acquisire documenti relativi alla concessione del mutuo e alle garanzie fidejussorie.

il Fatto 21.12.14
Interrogato papà Renzi, Gdf in banca per il mutuo
Le società di famiglia: l’inchiesta. Bancarotta sospetta
Acquisita la documentazione del prestito ricevuto prima del fallimento della “Chil Post”. Le strane cessioni del ramo sano dell‘azienda “girate” alla moglie
di Ferruccio Sansa e Davide Vecchi


Follow the money. Seguono i soldi gli inquirenti genovesi Marco Airoldi e Nicola Piacente che hanno indagato Tiziano Renzi per bancarotta fraudolenta. Il padre del premier nei giorni scorsi è stato sentito dai magistrati e l’interrogatorio si è concentrato proprio sulle movimentazioni della Chil Post, mentre la Guardia di Finanza ha acquisito la documentazione bancaria della società, in particolare quella relativa ai prestiti ricevuti, alcuni dei quali senza garanzie come il mutuo, stipulato poco prima del fallimento, con il Credito cooperativo di Pontassieve guidato da Matteo Spanò, da sempre fedelissimo uomo di Matteo Renzi. Il premier dal 1999 al 2004 era tra i soci, con il padre e le sorelle Matilde e Benedetta della Chil Post, per poi lasciare la proprietà e venire assunto come dirigente poche settimane prima di essere candidato alla presidenza della Provincia di Firenze.
SECONDO L’ACCUSA Tiziano Renzi prima di dichiarare il fallimento della sua società con debiti per un milione 300 mila euro, nel novembre 2013, l’avrebbe spogliata del ramo sano cedendo i beni disponibili alla Eventi6, azienda di proprietà della moglie, Laura Bovoli. Si sarebbe dunque attuato il classico schema di tante bancarotte fraudolente: un debitore che, attraverso vendite più o meno fasulle, sfugge ai propri creditori nascondendo i beni. A insospettire i magistrati è stato il prezzo di cessione da marito a moglie: appena 3878,67 euro.
IL CONTRATTO viene firmato l’8 ottobre 2010. Tiziano Renzi cede alla consorte auto, furgoni, muletti, capannoni e altri beni per 173.000 euro complessivi e uno stato patrimoniale con 218.786 euro in attivo e 214.907 in passivo: la differenza è la cifra che viene corrisposta per la cessione. Dopo appena sei giorni, il 14 ottobre 2010, Tiziano Renzi torna dal notaio e trasferisce la sede della Chil Post Srl a Genova, si dimette da presidente e nomina suo sostituto Antonello Gabelli di Alessandria. Tre settimane dopo, il 3 novembre, cede l’intera proprietà della società a Gian Franco Massone, prestanome per il figlio Mariano. Ma l’azienda è ormai priva di beni ed è gravata da un passivo di un milione e 150.000 euro, compresi 496.000 euro di esposizione con la banca Credito cooperativo di Pontassieve guidata da Spanò.
Sia l’esposizione con la banca sia i debiti verso i fornitori non vengono ripianati e Massone dichiara il fallimento della Chil Post nel 2013. Il tribunale fallimentare, esaminando gli atti, trova inusuale la cessione alla Eventi6, in particolare il fatto che nella società della moglie di Tiziano Renzi confluiscano solo le passività necessarie a pareggiare nello stato patrimoniale le voci in attivo, come un debito con la Cassa di risparmio di Firenze per complessivi 185.000 euro.
IL DUBBIO è che, per trasferire i contratti in essere per la distribuzione dei giornali–tra cui Il Messaggero e quelli del gruppo l’Espresso – e i vari beni, come le auto e i capannoni, Tiziano Renzi abbia spostato solo i debiti necessari a far figurare il pareggio, lasciando nelle mani di Massone il grosso del debito. Al momento, insieme a Tiziano Renzi, il fascicolo coinvolge gli amministratori Gabelli e Massone, nessuno della Eventi6. L’inchiesta si è estesa a molte delle società nate nella casa di Rignano sull’Arno, compresa quella della madre, che ha ricevuto anche il Tfr del figlio Matteo, messo così in salvo dai debitori. E versato dalle casse pubbliche: la Provincia prima e il Comune poi.
Nel corso dell’interrogatorio, Tiziano Renzi ha più volte ribadito l’assoluta estraneità del figlio alle vicende della società e avrebbe ricostruito i singoli trasferimenti dalla Chil alla Eventi 6 spiegando che molti beni trasferiti erano ancora gravati da ratei da pagare al momento della cessione. Contattato telefonicamente Tiziano Renzi non ha voluto commentare, così come si è sottratto a rilasciare dichiarazioni il suo avvocato, Federico Bagattini.
L’inchiesta prosegue intanto anche sulle altre aziende di casa Renzi, in particolar modo sulla Eventi6 di Laura Bo-voli che al momento non risulta indagata.

Repubblica 21.12.14
Bancarotta, interrogato il padre di Renzi
di Marco Preve


GENOVA Nel lungo interrogatorio davanti al pm genovese Marco Airoldi ha voluto soprattutto ribadire che il figlio non ha niente a che fare con tutta questa storia. Poi ha anche difeso il suo operato come amministratore. «Io non sono un truffatore e Matteo non c’entra nulla con questa storia». Così Tiziano Renzi, nell’interrogatorio svoltosi nella massima segretezza verso fine novembre al palazzo di giustizia di Genova.
Renzi senior era accompagnato dal suo difensore, l’avvocato Federico Bagattini. In quelle stesse ore scattava un blitz a Pontassieve, dove i finanzieri del nucleo di polizia giudiziaria, effettuavano una perquisizione con sequestro di documenti nella Bcc, Banca di Credito Cooperativo di Pontassieve, in relazione a uno degli aspetti più controversi dell’inchiesta che vede Renzi senior indagato per la bancarotta fraudolenta da un milione e 200 mila euro di una sua ex azienda, la Chil Post srl, fallita nel 2013. Ovvero un mutuo di mezzo milione concesso alla società, poco tempo prima dello “spacchettamento”, dalla Bcc, banca in cui all’epoca sedeva come consigliere — oggi ne è il presidente — Matteo Spanò, amico e sostenitore del presidente del Consiglio.
Il mutuo venne erogato agli inizi del 2009 alla Chil, grazie ad una campagna finalizzata ad agevolare l’imprenditoria femminile. In quel periodo la società era di proprietà della moglie Laura Bovoli e delle due figlie di Tiziano Renzi. Ma nell’agosto del 2009 subentra Tiziano, che a ottobre 2010 cede il ramo d’azienda sano a un’altra società della moglie (Eventi 6) trasferendole anche il debito di 28 mila euro che rappresenta il tfr di Matteo Renzi, assunto nel 2003 come dirigente. A novembre Renzi padre passa le quote rimanenti a due nuovi soci che porteranno la Chil al fallimento. La banca non si insinua al passivo perché non ha perso un euro, essendo stata coperta interamente, secondo gli inquirenti, da Fidi Toscana, una spa controllata dalla Regione Toscana con quote distribuite tra banche e comuni del territorio. Fidi Toscana perderebbe invece l’80% del capitale.

Corriere 21.12.14
I magistrati: sulla corruzione misure deboli
L’Anm al governo: meno stupore e più determinazione
Boschi: facciano sentenze, non commentino le leggi
di Alessandra Arachi


ROMA I magistrati vanno all’attacco del governo. E non fanno sconti alle politiche sulla giustizia messe in cantiere da questo esecutivo. Anzi. L’attacco è stato sferrato praticamente a trecentosessanta gradi davanti al vertice del sindacato delle «toghe».
Ieri mattina si è riunito il direttivo dell’Associazione nazionale magistrati. E ci ha pensato il presidente, Rodolfo Sabelli, a farsi portavoce delle critiche sulle scelte del governo. «Servirebbero meno stupore, meno scandalo e più determinazione», ha esordito il presidente Sabelli. E poi ha aggiunto: «La politica sembra oggi accorgersi improvvisamente di quei guasti che noi con forza abbiamo segnalato da anni».
Nel mirino di Rodolfo Sabelli, e di tutta l’Anm, i provvedimenti sulla corruzione, ma anche quelli sulla prescrizione e, soprattutto, l’annunciata riforma sulla responsabilità civile dei magistrati.
Non ha dubbi il presidente dell’Anm: «La riforma della responsabilità civile costituisce una specie di ossessione della politica e non da tre, ma da trent’anni almeno».
Ai magistrati non piacciono nemmeno i provvedimenti del governo in tema di contrasto alla corruzione. Il presidente Sabelli lo dice con chiarezza: «Oggi la politica usa toni indignati che vorrebbero rimediare alla debolezze delle riforme, peraltro più annunciate che realizzate».
Secondo il sindacato delle toghe sono state soltanto le cronache giudiziarie di questi giorni che hanno smosso le acque rispetto alla corruzione. «Hanno ridestato un dibattito che pareva sopito», rileva Sabelli. E aggiunge: «Il dibattito si è riaperto su proposte che suscitano nel mondo politico divisioni e polemiche piuttosto che consensi. Ma anche questo accendersi episodico di fiamma appare effimero».
Sabelli ha quindi precisato: «I toni di indignazione che la politica intera ha levato all’esplodere dell’ennesimo gravissimo scandalo stridono con la debolezza delle annunciate proposte governative: aumento della pena e limiti del patteggiamento».
Dura la replica del ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi: «I magistrati dovrebbero parlare attraverso le loro sentenze, applicare le leggi, non commentarle o scriverle, quello spetta ai parlamentari».
Il direttivo dell’Anm ieri si è riunito per decidere le iniziative di mobilitazione della categoria, già deliberate in un’assemblea il 9 novembre scorso. Alla fine ha prevalso il tono morbido del dialogo.
Rimane la convocazione della «Giornata della giustizia», il 19 gennaio prossimo. Ma invece di mobilitazioni dure (come il ventilato sciopero), l’Anm ha deciso per una linea di informazione ai cittadini, promulgando la realizzazione di manifesti che riassumano la criticità della riforma della responsabilità civile. Manifesti da affiggere, appunto, nella giornata della Giustizia, in tutti i tribunali e nelle Corti italiani.
Lo scontento dei magistrati si è manifestato anche verso i provvedimenti annunciati in tema di prescrizione. Il punto centrale è la durata dei processi. «La proposta annunciata a fine agosto è ancora in fase di elaborazione», premette il presidente Sabelli. E poi spiega: «Ma sembra che questa proposta si stia muovendo verso l’introduzione di nuove ipotesi temporanee di sospensione nelle fasi di impugnazione, al quale si aggiunge il recente annuncio di un probabile allungamento del termine ordinario. E tutto questo, paradossalmente, porterebbe ad allungare ancora di più la durata dei processi».

Repubblica 21.12.14
“Debole l’anticorruzione del governo”
L’Anm attacca il disegno di legge che prevede misure anche su termini della prescrizione e intercettazioni
Il testo dovrebbe arrivare alla Camera in questi giorni dopo la “bollinatura” della Ragioneria generale dello Stato
di Liana Milella


ROMA Trenta articoli. Il testo del governo su corruzione e prescrizione, ma pure sulle intercettazioni, è uscito da via Arenula ed è alla “bollinatura” per i controlli economici. Finalmente, dopo 120 giorni, potrebbe arrivare alla Camera. Ma il sindacato delle toghe, l’Anm, piglia le distanze. «Debole». Perfino «controproducente» perché rischia di scoraggiare i già pochissimi che denunciano un fatto corruttivo, visto che non c’è uno sconto per i collaboratori (fa muro Ncd, ma pure Fi). Del tutto inadeguato sulla prescrizione che va bloccata in primo grado e non soltanto sospesa, per poi correre ancora. “Ammuina” insomma. Il gelido Rodolfo Maria Sabelli, il presidente dell’Anm, picchia duro davanti al parlamentino delle toghe. Al premier Renzi, che lo ha invitato a tacere («I magistrati parlino con le sentenze»), replica citando un ministro della Giustizia che già nel 1909 voleva toghe silenti. Invece una magistratura che parla e «offre il suo contributo» è «demorazia». Tant’è che Sabelli al governo chiede, provocatoriamente, «meno stupore e scandalo e più determinazione».
Le minacce, per i giudici che annunciano nuove agitazioni, sono sempre le stesse. La responsabilità civile, «una specie di ossessione della politica, e non da tre, ma da 30 anni almeno». Una manovra contro la corruzione dilagante del tutto irrisoria, frutto di «una politica che sembra accorgersi improvvisamente dei guasti che i magistrati segnalano da anni». Lo «scandalo» della prescrizione «che disperde lavoro e risorse». Andrebbe «bloccata se non dopo l’esercizio dell’azione penale, come pure sarebbe ragionevole, quanto meno dopo la sentenza di primo grado». E invece eccolo qua il testo del governo, ben meno di quanto hanno proposto alla Camera lo stesso Pd, M5S, Sc (prescrizione doppia per la corruzione). Articolo 5. La prescrizione è solo «sospesa» dopo il primo grado, riprende se l’appello dura più di due anni e la Cassazione più di uno. Poi la “perla” della norma transitoria: «Le disposizioni si applicano ai fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della presente legge». Scoppia l’inchiesta sulla mafia a Roma, il governo fa il “pacchettino” anticrimine. Ma la norma più importante non si applica all’inchiesta romana. Articolo 3 del ddl: «Per la corruzione propria la pena passa da 4-8 anni a 6-10». Ma la prescrizione quanto cresce? Solo di una manciata di mesi... Perché? Sicuramente perché Ncd minaccia di mettersi di traverso. Basta leggere Alessandro Pagano quando dichiara che «a voler seguire la tesi dell’Anm i processi potrebbero durare 30 anni, per paradosso nessun giudice fisserebbe più udienze».
C’è pure la stretta sulle intercettazioni nel ddl Orlando. Il vice ministro della Giustizia Enrico Costa non fa che ripeterlo, «senza questa riforma noi non votiamo il resto». È stato accontentato. Articolo 25. Una delega al governo «per garantire la riservatezza delle telefonate intercettate» con sistemi che «incidano sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati e che diano una precisa scansione procedimentale all’udienza di selezione del materiale intercettativo». Superando il linguaggio in stile ostrogoto, significa che pm e gip dovranno stare attenti a non mettere nelle ordinanze ascolti di persone né arrestate, né indagate. L’udienza stralcio, con magistrati e avvocati, dovrà vigilare. In compenso, si chiede «di semplificare le condizioni per l’impiego delle intercettazioni per i più gravi reati contro la pubblica amministrazione». La via più semplice sarebbe applicare alla corruzione le regole della mafia. Intercettazioni più lunghe e con presupposti più ampi. Ma anche qui il governo Renzi si è fermato. Vedremo che farà il Parlamento.

Il Sole 21.12.14
Giustizia. L’affondo dei magistrati: debole la proposta del Governo
Corruzione, l’Anm attacca: «Serve più determinazione»
di Giovanni Negri


«Dunque al Governo noi chiediamo meno stupore e scandalo e più determinazione». Non usa mezzi termini il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, in uno dei passaggi chiave della relazione letta ieri al Comitato direttivo centrale. Ed è un passaggio che cade all’inizio della parte dedicata alla valutazione delle proposte appena varate dall’Esecutivo in materia di contrasto alla corruzione. Un intervento, quello messo sul tappeto da poco più di una settimana e che non appare certo risolutivo perché ancora troppo frutto di una contigenza che si è presentata, ancora una volta, sotto forma di indagine della magistratura. Così, «le cronache giudiziarie hanno ridestato un dibattito che pareva sopito, su proposte che suscitano nel mondo politico divisioni e polemiche, piuttosto che consensi. Ma anche questo accendersi episodico di fiamma appare effimero. La politica – avverte Sabelli – sembra oggi accorgersi improvvisamente di quei guasti che noi abbiamo segnalato da anni».
Ma poi tutti questi toni di indignazione della politica, si rammarica Sabelli, levati allo scoppiare dell’ennesimo scandalo «stridono con la debolezza delle annunciate proposte governative: aumento della pena e limiti al patteggiamento». Si tratta, nella lettura del leader dell’Anm, di misure che rischierebbero di scoraggiare ogni collaborazione e di rendere ancora più robusto il patto tra corrotti e corruttori nel segno dell’omertà dettata dalla convenienza reciproca. E allora Sabelli su questo punto rivendica l’intervento dell’Anm in pressione sul ministero della Giustizia che, solo dopo l’approvazione di misure che ne erano prive, ha invece annunciato che verranno introdotti nel cammino parlamentare sconti di pena per chi decide di collaborare con la magistratura. Il timore, molto concreto, è però che la strada scelta, quella di pochi, modesti, ritocchi, fatti confluire in una ben più ampia proposta di legge, destinata a lunghi percorsi parlamentari, conduca le norme a impantanarsi, una volta evaporata l’indignazione del momento e archiviato il ricordo dello scandalo romano.
Ma Sabelli va a toccare nella sua polemica relazione, a conferma del grande gelo con il Governo, altri due temi chiave: la prescrizione e la responsabilità civile delle toghe. Sulla prima, l’invito è quello di abbandonare un’eccessiva timidezza nell’affrontare i guasti di quella che già, quasi dieci anni orsono, la magistratura bollò come una delle tante leggi ad personam. E, se il riferimento è alla ex Cirielli, allora la cura non può essere centrata solo su palliativi come le (annunciate) ipotesi temporanee di sospensione nelle fasi di impugnazione, «cui si aggiunge il recente annuncio di un probabile allungamento del termine ordinario» (il riferimento è al testo base presentato alla Camera). Misure che, se non accompagnate da soluzioni in grado di stroncare ogni tentativo di innaturale dilatazione dei tempi del processo, potrebbero paradossalmente aggravare ancora di più la durata dei processi. Se la prescrizione è quello scandalo che disperde lavoro e risorse, il legislatore, è la proposta dell’Anm, deve bloccarla, non solo congelarla, se non dopo l’esercizio dell’azione penale, almeno dopo la sentenza di primo grado. Come avviene del resto in molti altri Paesi. Tanto più che il blocco della prescrizione avrà come conseguenza anche un maggiore ricorso ai riti alternativi e scoraggerà le impugnazioni inutili.
E sulla responsabilità civile dei magistrati, Sabelli ne parla come di «una specie di ossessione della politica, e non da 3 ma da 30 anni almeno». A non convincere è un intervento che, ormai in dirittura d’arrivo, modifica la Legge Vassalli ben oltre quanto richiesto dalle pronunce della Corte di giustizia europea. Nel merito poi i profili più critici, nell’esame di Sabelli, sono due: la rimozione del filtro di ammissibilità e la nuova causa di responsabilità per travisamento del fatto o delle prove. Sul primo, non si vede perché, avverte il presidente dell’Anm, dovrebbero essere accolte domani domande che oggi sono ritenute, grazie al filtro, prive dei requisiti minimi di ammissibilità. A volere tacere poi del rischio della proposta di azioni chiaramente strumentali e intimidatorie. Per quanto riguarda poi la nuova causa di responsabilità, la relazione di Sabelli, che esclude anche qualsiasi automatismo tra presentazione della domanda di risarcimento e azione disciplinare, osserva che la nozione di travisamento è troppo ambigua e non permette di chiudere la responsabilità del magistrato nei confini dell’errore grave e manifesto.

il Fatto 21.12.14
L’asilo Matteuccio, Renzi fa lo show. E stanno tutti zitti
Il comizio su RaiUno in mezzo ai bambini della Clerici
Minzolini: “Immaginate se succedeva a Berlusconi?”
Il presidente della Vigilanza Rai Roberto Fico: “Un punto basso per il servizio pubblico”
Stasera da Fazio
di Paola Zanca


La notte, cantano i Modà pochi minuti prima che Matteo Renzi entri nello studio Rai di Un mondo da amare, “mi copre dagli insulti e dalle malelingue che cercan solo di ferirmi e screditarmi”. Ma al presidente del Consiglio non serve nemmeno rifugiarsi nelle tenebre. Sui venti minuti di performance da Istituto Luce, non c’è praticamente nessuno che alzi un dito. “Ma vi immaginate se l’avesse fatto Berlusconi? ”, si domanda Augusto Minzolini, l’ex direttore del Tg1 oggi senatore di Forza Italia. Lui venerdì sera la trasmissione condotta da Antonella Clerici e Bruno Vespa non l’ha vista, era impegnato a palazzo Madama con il voto notturno sulla legge di Stabilità. Eppure si stupisce dell’ “incredibile” silenzio sotto cui è passata la comparsata tv del premier. E nemmeno sa che stasera, Renzi, gioca di nuovo in casa Rai: da Fabio Fazio, “traccia un bilancio dei suoi primi dieci mesi di governo e del semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea”, recita il comunicato di Che tempo che fa. “È sconcertante - sbotta il deputato Sel, membro della Vigilanza Rai Nicola Fratoianni - Non basta la già clamorosa occupazione del servizio pubblico da parte del premier e della sua maggioranza, adesso si diletta anche in show di altra natura”. Roba “d’altri tempi” la bolla il M5S Roberto Fico, che della commissione di Vigilanza è presidente: “Un presidente del Consiglio in prima serata con i bambini: è un punto basso per il servizio pubblico”. La coincidenza temporale con il voto notturno della legge di Stabilità al Senato ci mette il resto: “Mentre il Parlamento è costretto a votare al buio una legge scritta con i piedi - insiste Fico - lui va in tv a farsi domandare ‘Che significa gabinetto? ’. È in difficoltà: risponde ai bambini perché non può rispondere al Paese”.
EFFETTIVAMENTE, lo straniamento tra il palazzo in delirio e lo studio in brodo di giuggiole, è difficile da non notare. I quattro milioni e 72 mila spettatori probabilmente non se ne sono accorti: “Le cose con Renzi, come sempre, sono molto informali” dice Bruno Vespa, che nel programma di venerdì era incaricato di tenere in piedi la parte “info” della serata. Il resto era affidato ad Antonella Clerici, “la persona in assoluto più in grado di interpretare il sentimento popolare”. Parola di Giancarlo Leone, direttore di RaiUno.
Secondo lui, parlare di “vetrina” per Renzi è “esagerato”. Quella di venerdì era la seconda puntata delle tre in programma per promuovere Expo (che pare stenti a decollare). La prima fu un anno fa con Andrea Bocelli, la prossima sarà ad aprile in occasione dell’apertura della kermesse a Milano. L’invito a Renzi per la serata era partito da tempo. Il premier aveva dato l’ok ma si era tenuto le mani libere fino al rientro da Bruxelles, dove era in corso il Consiglio europeo. Venerdì pomeriggio ha sbloccato l’agenda: ci sarò, ha comunicato in Rai. Ma siccome l’argomento dell’esposizione internazionale non ha tutto questo appeal, servivano gli “ingredienti giusti”, spiega ancora il direttore Leone, per “renderlo uno spettacolo”. “In prima serata su RaiUno non possiamo che trattare un tema del genere in modo popolare. Abbiamo scelto il linguaggio della Clerici, i bambini: e i risultati ci dicono che ha funzionato”. Quasi il 20 per cento di share.
Oggi nell’aula del Senato si esibirà per il concerto di Natale Il Volo, gruppo di tre giovanissimi tenori scoperto dal talent della Clerici. Andrà in onda su RaiUno, in diretta da palazzo Madama. E il cerchio si chiude.

il Fatto 21.12.14
Video di Stato. Polvere di stelle
Cinegiornale Luce 2.0: “Un premier da amare”
di Andrea Scanzi


L’unica nota lieta, dello straziante (sin dal titolo) Un mondo da amare, è stata la decisione di Matteo Renzi di andare sì da Antonella Clerici ma non a La prova del cuoco: sarebbe stato difficile, in quel caso, scorgere differenze percettibili tra lui e una melanzana. Vuoi per le sempre più generose forme, vuoi per i sempre meno generosi contenuti. Il Presidente del Consiglio, in costante decrescita (non solo) nei sondaggi, aveva bisogno di un altro bagno nel nazionalpopolare e ha trovato consono il vestitino cucitogli addosso su misura da RaiUno, con uno speciale in prima serata che è parso per metà uno spin-off di Ti lascio una canzone e per l’altra una variante 2.0 dell’Istituto Luce di fascistissima memoria. Lo spettacolo è stato vieppiù raggelante e l’unica voce vagamente contraria all’Expo, argomento teorico dell’adunanza, è stata quella di Ornella Vanoni. Per il resto canzoni deboli dei Modà (“Per avervi ho dovuto fare i patti col diavolo”, ha detto la Clerici: bei tempi quando ci si accordava col Demonio per avere l’anima di Robert Johnson). Lezioni noiosissime di Roberto Vecchioni. Frasi fatte, tacco 12 di Cristina Parodi (di gran lunga la cosa migliore del programma), nenie natalizie e uno share del 19.55%: 4 milioni e 72mila persone, tante ma comunque meno della seconda puntata di Senza identità su Canale 5. Nel mezzo, come un apostrofo rosa tra le parole “che” e “pena”, poco dopo le ventidue, lo spottone elettorale per Renzi. Teoricamente intervistato dai bambini. Per il Presidente del Consiglio non è una novità: era già stato accolto da cori di “balilla” (incolpevoli) in Sicilia, non meno della statista Boschi che aveva ricevuto analogo trattamento dagli scolari della natìa Laterina. E non è nuova neanche l’idea di farsi intervistare dai bimbi. Era già accaduto con Papa Giovanni Paolo II, che aveva ricevuto domande sincere.
“USARE” I BAMBINI è pericolosissimo ed è accettabile unicamente se li si lascia liberi di essere se stessi: infantili, innocenti, buffi. Naturali. Due sere fa, però, davanti a Renzi c’erano bambini imbeccati dagli autori, che li avevano “dotati” di quesiti tristemente preparati. Vespa fingeva domande cattive (“Gli italiani quando potranno comprare una pizza in più? ”). La Clerici ridacchiava alle pseudo-battute di Renzi. E lui, il Premier, esibiva tronfiamente la sua simpatia presunta e il suo ottimismo stantio. “Mettiamo da parte il pessimismo”. “L’Expo è un’occasione per voler bene all’Italia”. “No ai furbetti” (apprezzabile autocritica). Fino all’apice assoluto della sua visione politica: “È come se l’Italia non sapesse farsi i selfie”. Un mix tra uno slogan di Tonino Guerra, un brano minore di Jovanotti e un brano qualsiasi dei Righeira. Un pensiero così elaborato che, dopo averlo pronunciato, Renzi si sarà verosimilmente dovuto riposare, giusto per controbilanciare l’immane sforzo neuronale. Nel frattempo i poveri bambini mettevano sempre più tenerezza (“Perché le riunioni di governo si chiamano di gabinetto? ”), la regia mandava La traviata e la Clerici poneva domande irrinunciabili a Vespa: “Cosa ti faceva mangiare donna Ida? ”. Se Berlusconi avesse fatto anche solo un decimo di quanto hanno avuto il coraggio di imbastire Rai e Renzi, la “sinistra” avrebbe marciato su Roma. Significativa, in ogni caso, la performance (registrata) di Bocelli alle ore ventitré: “Nessun dorma”. Un’esortazione, più che un’esibizione. Purtroppo per lui, e per Renzi, dormivano però già tutti da un bel pezzo.

Corriere 21.12.14
Firenze capitale delle Province occupate
«Matteo? A Roma è peggiorato»
Il nodo esuberi slitta al 2017. I sindacati: un passo avanti, protesta essenziale
di Francesco Alberti


FIRENZE Per la serie «io lo conoscevo bene quando ancora non era nessuno», molti di coloro che in queste ultime 48 ore hanno fatto dell’occupazione di Palazzo Medici Riccardi, sede della Provincia di Firenze, la prima trincea della mobilitazione sindacale contro i tagli di organici e di risorse previsti dalla riforma Delrio, parlano di Matteo Renzi come se non se ne fosse mai andato da qui, come se non fosse passata un’eternità politica da quando, ventinovenne (2004), divenne presidente della Provincia.
«Non potevamo che essere noi fiorentini a farci carico della protesta, tutto qui evoca il premier…» afferma il segretario della Camera del Lavoro, Mario Fuso, uno che nel Pd ci sta «con difficoltà». Di Renzi, prosegue, «conosciamo pregi e difetti: è specialista nella tecnica dell’ultimo minuto…». Un ultimo minuto che la scorsa notte ha però partorito al Senato un emendamento alla legge di Stabilità che, facendo slittare al 31 dicembre 2016 la questione degli esuberi, consente a governo ed enti locali di gestire il delicato passaggio e ai dipendenti delle Province altri 2 anni di stipendio pieno. «È un punto di partenza — riconosce Fuso —, ma senza risorse si arriverà comunque ai licenziamenti».
Tra brande, volantinaggi e cortei c’è un’atmosfera vagamente sessantottina in questa occupazione natalizia messa in piedi da gente che viaggia tra i 40 e i 50 anni, che magari in queste stesse sale ha protestato ai tempi del liceo e che i percorsi della vita ora porta a manifestare contro quel Renzi che nel 2008, da presidente della Provincia, stabilizzò un bel drappello di precari. «Matteo ha sempre avuto difficoltà a confrontarsi e a Roma è peggiorato…» sospira Marco Zatini, dirigente della Cgil-Rsu, che sull’emendamento approvato nella notte non si fa illusioni: «Resta il nodo del taglio delle risorse e quindi dei servizi ai cittadini».
Difficile che la protesta fiorentina (così come quelle andate in scena da Pisa a Bologna, da Vicenza a Modena) duri fino a Natale, come qualcuno minaccia. L’emendamento che garantisce ai dipendenti stipendio pieno per altri 2 anni (e in caso di mobilità un altro biennio all’80%) sta spaccando il fronte sindacale, finora compatto. La Cisl lo ha accolto con favore: «La protesta di migliaia di lavoratori è stata più forte della tentazione del governo di rottamare competenze professionali strategiche: la partita del riordino si è riaperta» afferma Elisabetta Pennacchia, coordinatrice della Funzione pubblica. Resta invece critica la Cgil: «È stato ottenuto un piccolo spazio — dice la leader della Funzione pubblica, Rossana Dettori —, ma non ci sono risposte sui precari e sui servizi: le occupazioni continuano». Luci e ombre per il presidente dell’Unione province italiane, Alessandro Pastacci, che definisce «positivo» il mantenimento degli stipendi dei dipendenti, ma sottolinea come il taglio di 1 miliardo «metta a rischio i servizi essenziali». Dura Sel con la senatrice Alessia Petraglia: «Troppa approssimazione dal governo, ci sono migliaia di precari senza garanzie». E pure per il governatore pd della Toscana, Enrico Rossi, che domani incontrerà i sindacati, la riforma non brilla per efficacia («Disordinata» la definisce), «ma nessun posto dovrà essere perso».

Corriere 21.12.14
Gli elettori si dividono sull’Italicum. Ma vogliono le urne prima del 2018
Per la maggioranza il sistema di voto resta un mistero. Bocciati i capilista bloccati
di Nando Pagnoncelli


In queste settimane si parla molto della riforma della legge elettorale che sembra finalmente arrivata in dirittura d’arrivo, ma non sono molti i cittadini informati: solo il 4% dichiara di conoscere nei dettagli la proposta di legge e il 25% ne conosce i principali punti che la caratterizzano. Al contrario il 59% ha solo sentito che se ne sta discutendo e ammette di non saperne quasi nulla e il 13% ignora l’argomento.
La scarsa conoscenza dell’Italicum non sorprende affatto: le riforme elettorali, come quelle istituzionali, sono un argomento complicato, di cui spesso sfuggono le implicazioni. Non va mai dimenticato che la nostra è una popolazione poco istruita: il 61% degli elettori italiani possiede al massimo la licenza media oppure quella elementare o non è in possesso di alcun titolo di studio.
A ciò si aggiungono altri due aspetti: il primo riguarda la crescente diffidenza nei confronti della politica che rende scettici gli elettori sulla bontà dei diversi sistemi elettorali e soprattutto sulle intenzioni dei partiti, più intenti a salvaguardare i propri interessi elettorali che quelli del Paese.
Il secondo riguarda la crisi economica che ormai da tempo ha modificato le priorità dei cittadini, incentrate soprattutto sui temi dell’occupazione, del tenore di vita e delle tutele sociali.
Ne consegue che le opinioni sulla legge elettorale sono più negative (45%) che positive (32%) e un elettore su quattro (24%) non è in grado di dare un giudizio. Va osservato che i giudizi sono molto diversi tra coloro che conoscono la legge (tra cui prevalgono, sia pure di poco, i giudizi positivi: 53% contro 46%) e coloro che ne sanno poco o niente, tra cui prevalgono quelli negativi (44%) rispetto a quelli positivi (23%), mentre uno su tre non si esprime.
Nel complesso sono valutazioni molto diverse rispetto a quanto riscontrammo nello scorso mese di marzo quando, a poche settimane dall’esordio del governo Renzi, la proposta di sostituire il Porcellum con l’Italicum otteneva un consenso elevato perché, al di là del merito della proposta, assumeva il valore simbolico del cambiamento: si interveniva su una legge detestata da tutti ma che nessuno era stato in grado di cambiare.
Riguardo ai principali contenuti della legge il consenso prevale, sia pure di poco, solo per il premio di maggioranza assegnato al partito che supera il 40% dei voti: 49% i favorevoli 45% i contrari.
La possibilità di scelta dei candidati è estremamente controversa: il nominativo «bloccato» dei capilista dei 100 collegi elettorali in cui sarà suddiviso il territorio nazionale ottiene più critiche (71%) che favori (26%); ma anche la possibilità per gli elettori di esprimere una preferenza, salvo per i capilista: 50% i giudizi negativi e 47% i positivi.
E anche la soglia di sbarramento al 3% ottiene più dissenso (56%) che consenso (40%).
Anche nel merito dei singoli aspetti dell’Italicum i giudizi di coloro che conoscono la legge sono nettamente più positivi rispetto a quelli di coloro che non la conoscono a sufficienza o la ignorano, nonostante permanga anche tra i primi una netta contrarietà alle liste bloccate, sia pure limitate ai 100 capilista di collegio.
Inoltre, si riscontrano opinioni più favorevoli tra gli elettori del Partito democratico e di Forza Italia, come probabile conseguenza del patto del Nazareno, mentre i detrattori sono soprattutto gli elettori grillini e gli astensionisti.
In generale, sebbene in modo non univoco, sembrano affiorare due aspettative tra gli elettori, peraltro non nuove: poter disporre della possibilità di scegliere i deputati mediante il voto di preferenza e semplificare lo scenario politico limitando il numero dei partiti piccoli, per garantire la governabilità.
Infine, le elezioni. Prevale nettamente la propensione ad andare al voto prima della scadenza naturale della legislatura: quasi due italiani su tre sono di questo parere (62%). In particolare, il 35% vorrebbe elezioni subito dopo l’approvazione dell’Italicum, nonostante l’iter parlamentare previsto per la trasformazione del Senato sia ancora lungo e ciò potrebbe determinare una situazione complessa e ingovernabile, con una composizione diverse nelle due camere; il 27% vorrebbe votare prima della scadenza ma dopo la modifica del Senato mentre solo un elettore su quattro (25%) propende per andare al voto nel 2018, alla conclusione della legislatura.
Più favorevoli al rapido ricorso alle urne sono gli elettori dei partiti di opposizione, in particolare M5S, Forza Italia e Lega. E lo sono anche gli impiegati, gli operai, i lavoratori autonomi e i disoccupati, a conferma del fatto che attualmente a influenzare le opinioni è soprattutto la crisi economica, quella reale e quella percepita.

il Fatto 21.12.14
Metro C: favori ai costruttori Cantone e i pm indagano
Altro che Mafia Capitale: in dieci anni sui grandi appalti sono girati miliardi
Il salasso della Metro C è da ricondurre alle scelte della giunta di Veltroni
di Giorgio Meletti


Il fascicolo penale, aperto dal procuratore Giuseppe Pignatone sulla linea C della metropolitana di Roma ipotizzando il reato di abuso d’ufficio, è destinato a finire nel nulla. Le stranezze sono state fatte tra il 2005 e il 2006, quando sindaco era Walter Veltroni, e la strada della prescrizione sembra segnata. Ma i fatti incredibili segnalati dall’Autorità Nazionale Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone meritano comunque un approfondimento, se non altro per capire una cosa. Lo scempio di denaro pubblico attribuito alla presunta organizzazione mafiosa di Massimo Carminati, detto “er cecato”, è ben poca cosa rispetto a quello realizzato con le cosiddette grandi opere. Se Mafia Capitale colpisce nell’ordine delle decine di milioni, Cemento Capitale fa sparire i milioni a centinaia, grazie a un sistema oliatissimo dove di “cecati” non ce ne sono. Ci vedono tutti benissimo.
LA PROVA È CHE LA STORIA della Metro C raccontata dagli uomini di Cantone è contemporanea e perfettamente corrispondente a quella del ponte sullo Stretto di Messina. Nel primo caso la Corte dei Conti ritiene che il tratto Pantano-Centocelle, recentemente inaugurato, appaltato per meno di 600 milioni, è costato finora 363 milioni (il 60 per cento) più del previsto. Nel caso del ponte sullo Stretto il contribuente sta ancora aspettando di sapere che le penali da pagare ai costruttori per la mancata realizzazione dell’opera siano attorno ai 500 milioni di euro o più vicini al miliardo.
I due appalti nascono nel 2005 e si assomigliano come gemelli monovulari. Il 12 ottobre 2005 la cordata formata da Impregilo, Condotte e la coop rossa Cmc si aggiudica la costruzione del ponte offrendo un ribasso del 12 per cento sulla base d’asta di 4,4 miliardi di euro. La cordata sconfitta (Astaldi, Vianini di Franco Caltagirone e cooperativa rossa Ccc) fa ricorso per “ribasso anomalo”. Il 14 febbraio 2006 Astaldi, Vianini e Ccc si aggiudicano l’appalto per la Metro C offrendo alla stazione appaltante Roma Metropolitane
(braccio operativo del Campidoglio, presidente il manager ex ambientalista poi riformista Chicco Testa) un ribasso del 13 per cento sulla base d’asta di 2,5 miliardi.
Il 27 marzo 2006, due settimane prima che vinca le elezioni l’Unione di Romano Prodi che ha in programma lo stop al ponte, la società Stretto di Messina firma il contratto di affidamento dei lavori alla cordata Impregilo-Condotte-Cmc, che nella gara per metro C è arrivata seconda. Così viene innescata la bomba a orologeria delle penali, che nove anni dopo sta per esplodere sotto la sedia del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
Il ponte sullo Stretto viene gestito dal governo Berlusconi, con Pietro Lunardi ministro delle Infrastrutture e l’immancabile braccio destro Ercole Incalza come ministro-ombra. La metro C di Roma è gestita dal sindaco Veltroni e dai suoi uomini. Ma la filosofia è la stessa, identico lo stile operativo, analoga l’acquiescenza alle pretese dei costruttori, che vincono le gare un po’ per uno ma riescono ad armonizzare il trattamento per tutti, quale che sia la parte politica di riferimento.
E INFATTI MENTRE Impregilo e soci si accomodano ad attendere che maturino le penali, la cordata rivale si apparecchia un piatto altrettanto succulento. Ci racconta che il 12 ottobre 2006 Roma Metropolitane firma con Astaldi, Caltagirone e coop rossa al seguito un contratto difforme dal capitolato di gara. In cambio della promessa di finire la tratta Pantano-San Giovanni in quattro anni anziché sei (poi ne hanno impiegati otto per farne metà, Pantano-Centocelle, ma è chiaro che scherzavano) i costruttori ottengono di ridurre dal 20 per cento al 2 per cento l’onere di prefinanziamento dell'opera: anziché mettere fuori 436 milioni devono anticiparne solo 44. E chi ha prefinanziato? Pantalone, naturalmente. Tre settimane prima della firma del contratto si registra questa dichiarazione del severo sindaco Veltroni: “La conferma da parte del ministro Di Pietro dell’impegno ad anticipare i fondi necessari per aprire entro il 2011 il percorso da San Giovanni a Pantano della Linea C costituisce un fatto di straordinaria rilevanza per la città di Roma”. È intuitiva la straordinaria rilevanza per due cittadini romani in particolare, Paolo Astaldi e Francesco Gaetano Caltagirone, detto Franco, detto anche ottavo re di Roma.
Nello stesso contratto si è anche ribaltato quanto previsto dal bando di gara con trito buonsenso: anziché fare prima le tratte nel centro di Roma si è costruita prima una metropolitana che con dubbia sensatezza trasporta le persone dall’estrema periferia alla periferia, anteponendo alle necessità del trasporto pubblico la comodità dei costruttori.
ANCHE IN QUESTO CASO è stata l’imprevista elezione di Ignazio Marino a sindaco di Roma a far saltare gli equilibri trasversali. Condotto il lucroso affare in continuità dalla giunta Veltroni a quella Alemanno, il sistema è andato in tilt quando Marino e il suo assessore alla Mobilità, Guido Improta, hanno cominciato a segnalare le stranezze alla Corte dei Conti e alla procura della Repubblica. Mentre nessuno segnala niente a Cantone per il ponte sullo Stretto di Messina.

Corriere 21.12.14
Roma e i 300 milioni di rimborsi
Tutte le cause perse dal Comune
Dai bus ai rifiuti, battaglie legali sugli arbitrati avviati dalla precedente giunta
di Sergio Rizzo


Trecento milioni e una domanda: perché quando affrontava un arbitrato il Comune di Roma perdeva sempre? Qualcuno potrà dire che non è un caso isolato. Le statistiche non dicono forse che la parte pubblica soccombe, curiosamente, almeno nel 90 per cento dei casi? Verissimo. Ma c’è modo e modo. E qui la storia dei tre arbitrati perduti durante la scorsa amministrazione dalle aziende capitoline nei confronti delle loro controparti private, che potrebbero costringere i contribuenti (romani e non) a sborsare circa 300 milioni di euro, si è rivelata se possibile ancora più singolare.
Giovedì scorso l’ultima puntata: causa l’assenza di un giudice in Corte d’appello l’udienza per l’omologazione del lodo arbitrale Atac-Tpl, dove qualcuno forse confidava nel miracolo, è stata rinviata. Le speranze sono al lumicino, affidate a un ricorso in Cassazione che durerà anni. Nel frattempo, il contatore impazzito continua a girare vorticosamente, e fra interessi e altri oneri è già arrivato a 115 milioni. Del resto il lodo arbitrale risale a più di cinque anni fa: novembre 2009.
La storia comincia a gennaio di quell’anno, quando il consorzio Roma Tpl, sigla che sta per «Trasporto pubblico locale», attiva un arbitrato con l’Atac. Siccome con 12 mila dipendenti l’azienda municipalizzata del trasporto romano non riesce nemmeno a garantire il servizio in tutte le periferie, ecco che alcune linee sono affidate dal lontano 2006 in appalto ai privati. Appunto, del consorzio Roma Tpl: altre 884 persone. Capitale ripartito in tre fette identiche: la Marozzi di Luciano Vinella, già socio privato delle Ferrovie nella società di trasporto su gomma Sogin; il consorzio autotrasportatori Troiani, Pompili, Fonti e Mei; la società Umbria Tpl, della quale sono azionisti di maggioranza la Regione Umbria nonché Provincia e Comune di Perugia. L’onere si aggira sui 60 milioni di euro l’anno, naturalmente in più oltre al costo immane dell’Atac. Finché nel gennaio 2009 Roma Tpl chiede l’adeguamento del prezzo a chilometro con il quale si era aggiudicata la gara. Per giunta, con decorrenza retroattiva fin dall’inizio della fornitura del servizio. L’Atac potrebbe rifiutarsi di andare davanti agli arbitri: la procedura è prevista dal capitolato ma non dal contratto dove c’è scritto che ogni lite va risolta in tribunale davanti al giudice ordinario. Invece accetta. E il collegio arbitrale presieduto dall’avvocato dello Stato e collezionista di incarichi extragiudiziali Vincenzo Nunziata, mentre è capo di gabinetto del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini (in precedenza lo era stato del ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni), dà ragione a Roma Tpl. Il totale è di 68,2 milioni. Senza contare i compensi dello stesso collegio arbitrale (un milione 385 mila euro) e parcella (impugnata) di 945 mila euro presentata dall’avvocato che per l’Atac avrebbe dovuto seguire il ricorso. Ora il conto, è arrivato appunto a 115 milioni.
Fra ingiunzioni e pignoramenti la giunta di Ignazio Marino contesta radicalmente non soltanto l’esito del lodo, ma addirittura la fondatezza stessa dell’arbitrato. L’assessore ai Trasporti Guido Improta è arrivato anche a sollevare pubblicamente seri dubbi «sull’efficacia della strategia difensiva dell’Atac», sottolineando la velocità con cui la procedura si è esaurita: 10 mesi in tutto.
Cinque anni è durato invece l’arbitrato che ha opposto la società del Comune Roma Metropolitane al consorzio Metro C: Astaldi, Vianini del gruppo di Francesco Gaetano Caltagirone, Ccc e Cmb della Lega coop e Ansaldo-Finmeccanica. Ma con un risultato pressoché identico, come ha sottolineato l’inesauribile consigliere comunale Riccardo Magi nell’esposto presentato qualche mese fa all’autorità anticorruzione. Nel 2012 il collegio riconosce al general contractor altri 90 milioni a carico del committente pubblico per i maggiori costi sostenuti proprio in quanto general contractor. Alla base, una perizia elaborata da un gruppo di esperti fra i quali l’ex presidente del consiglio superiore dei Lavori pubblici Angelo Balducci. E soltanto pochi mesi prima che il Cipe, con una delibera sorprendente che fa prescindere il finanziamento da qualunque responsabilità «dei soggetti a vario titolo coinvolti» nell’opera (siamo agli sgoccioli del governo di Mario Monti), stanzi per la Metro C di Roma altri 230 milioni.
Novanta milioni, interessi compresi, è lo stesso conto che dovrebbe pagare l’Ama al consorzio Co.La.Ri di Manlio Cerroni come risultato di un arbitrato scaturito dalla richiesta di adeguare, fra l’altro, il compenso per il monitoraggio post mortem della discarica di Malagrotta: la più grande d’Europa. La cosa nasce da una legge che ha allungato a trent’anni l’obbligo dei controlli, e l’esito dell’arbitrato che ha visto soccombere l’Ama ha originato una diatriba fra i consulenti del Comune, che vorrebbero affibbiare la competenza di quell’onere al commissario al vecchio debito della capitale Massimo Varazzani, e il commissario stesso che sostiene il contrario.
Se prevalesse in tutto o in parte la tesi che deve pagare il Comune sarebbe impossibile non immaginare un aumento della tassa sui rifiuti. Per non parlare di quello che potrebbe accadere se l’Ama soccombesse anche nel secondo arbitrato promosso dal Co.La.Ri. per l’adeguamento storico delle tariffe. Una causa nella quale le ragioni di Cerroni sono sostenute dall’ex sottosegretario alla Giustizia Andrea Zoppini ed è stato già previsto un acconto di 400 mila euro sui compensi di ciascun arbitro. La richiesta? Novecento milioni di euro.

Repubblica 21.12.14
Da Pompei agli Uffizi via libera al business della grande bellezza
Gare aperte agli stranieri e meno vincoli alla vendita di gadget
Domani Franceschini firma il decreto per rilanciare i musei
di Federico Fubini


ROMA Kingsman è un thriller in programmazione in alcuni cinema di Londra questo fine settimana. Il pubblico che ieri sera si è messo in fila alle casse ha accettato di pagare un biglietto del 40% più caro dell’accesso al sito archeologico più celebre al mondo: Pompei, dove si entra con 11 euro.
Se la visita a uno dei luoghi emblematici di una grande civiltà vale meno di una poltrona al cinema, uno dei due prezzi dev’essere sbagliato. E un’occhiata ai dati di consuntivo dell’arte in questo Paese lascia capire quale sia: l’autore britannico Charles Abbot stima che l’Italia ospiti metà dei grandi tesori dell’umanità, ma questi producono non più di cinquanta centesimi di euro l’anno per ciascuno dei suoi abitanti.
I ricavi da musei, siti archeologici, palazzi e gallerie l’anno scorso non hanno superato i 380 milioni di euro. Il costo della gestione è stato però di 350 milioni, dunque il profitto netto per lo Stato e i suoi contribuenti è appunto di mezzo euro per abitante. Non succede ovunque. La Gran Bretagna, con un patrimonio molto inferiore, ha di poco superato i cinque miliardi di fatturato da musei, rocche medievali e i pochi scavi che ospita. La Francia l’anno scorso ha incassato 2,5 miliardi solo attraverso il Louvre.
Forse presto qualcosa potrebbe cambiare. A meno di nuove battute d’arresto, dopo mesi di sordi conflitti fra burocrazie, Dario Franceschini dovrebbe muovere un primo passo già domani. Sul suo tavolo di ministro dei Beni culturali, lo aspetta per la firma il cosiddetto “decreto musei”. Serve a costituire 18 uffici affidati a manager e corrispondenti ad altrettanti grandi siti artistici: fra questi la Galleria Borghese di Roma, gli Uffizi, la Pinacoteca di Brera, la Reggia di Caserta, il Museo di Capodimonte a Napoli, il Polo Reale di Torino e il Palazzo Ducale a Mantova.
Quello previsto domani è un primo passo verso l’avvio, a fine gennaio, di un sistema aperto a grandi operatori privati, anche esteri, che dovrebbe permettere di aumentare i ricavi del patrimonio artistico del Paese. L’obiettivo è un fatturato da oltre due miliardi nel 2017 e un’ulteriore crescita negli anni seguenti, grazie a ingressi, librerie, accessori, guide o ristorazione. Non è una missione impossibile, visto il punto di partenza: l’anno scorso i 77 milioni di visitatori dei circa tremila luoghi d’arte in Italia hanno speso, in media, non più di 4,9 euro l’uno. Non più di tre o quattro musei d’Italia hanno un ristorante, mentre quello del Metropolitan di New York incassa ogni anno una cifra simile ai profitti di tutti i siti culturali d’Italia.
Dovrà migliorare tutto ciò che gli addetti ai lavori iscrivono alla categoria dei “servizi accessori” di un museo: biglietteria online e fisica, cataloghi e libri, bar o ristorante, guide. Oggi quell’offerta, che in teoria dovrebbe essere assicurata dalle soprintendenze, spesso è semplicemente inesistente. Quando c’è, viene affidata in modo frammentario a piccoli operatori locali che da quindici anni continuano a ricevere incarichi in proroga senza gare d’appalto. «Abbiamo ereditato una situazione intollerabile — è scappato di recente a Franceschini — . Non c’è nessuna attività dello Stato che sia in grado di gestire un bookshop».
Dall’anno prossimo 18 grandi musei e 17 uffici regionali, che raccolgono in rete gli altri luoghi d’arte, dovranno bandire grandi appalti per operatori privati per tutti i servizi che possono fiorire attorno ai musei. Potranno farlo solo secondo i criteri di redditività e di utilizzo degli spazi indicati dalla Consip, la centrale nazionale degli appalti controllata dal Tesoro. È stato il suo amministratore delegato, Domenico Casalino, a proporre a Franceschini questo tipo di innovazione. L’aveva suggerita anche ai quattro ultimi predecessori dell’attuale ministro dei Beni culturali, fin qui senza molto successo: una riforma del genere può fare anche dei perdenti, specie fra chi fin qui ha goduto di antiche posizioni di rendita. In gara ora ci saranno soprattutto grandi operatori nazionali come il Gruppo Civita o Coop Cultura, la spagnola Palacios y Museos o l’americana Antenna International. Se il piano fallirà, avrà creato nuove burocrazie per gestire gli appalti a fianco delle soprintendenze. Ma magari in Italia non tutto è sempre peggio di un film di seconda scelta a Londra.

Repubblica 21.12.14
“Nacquero, soffrirono, morirono”
Tutto comincia da tre parole di Conrad sulla vita
Il corpo delle persone corre molto più velocemente lasciando l’anima indietro
Bisogna impedire che avvenga
di Eugenio Scalfari


NEL 1913 Joseph Conrad scrisse forse il più bello dei tanti suoi romanzi e io comincerò con questa frase: «La storia degli uomini sulla terra fin dall’alba dei tempi si può riassumere in parole infinitamente evocative: “Nacquero, soffrirono, morirono”. E tuttavia, che grande racconto!» Dei tanti fatti accaduti in questi giorni, che vanno dalla pace finalmente scoppiata tra gli Stati Uniti d’America e Cuba, auspice papa Francesco, ancora una volta fattore di amicizia e solidarietà tra gli uomini, al progetto d’una intesa di Europa e Usa con Putin, fino all’ultima riunione del Consiglio dei capi di governo dell’Ue sotto la presidenza semestrale italiana che tra pochi giorni sarà scaduta; la frase di Conrad fornisce meglio di qualunque altro discorso l’essenza e mi fa pensare alla spiegazione dei dieci comandamenti mosaici fatta il 15 e il 16 scorsi da Roberto Benigni su RaiUno. Che racconto! Come dice Conrad dopo aver riassunto in tre parole la miserabilità della nostra vita.
Sbaglia chi pensa che Benigni sia un comico: è un grande attore che come tutti i grandi attori è anche il regista e lo sceneggiatore di se stesso e sceglie qualunque occasione per raccontare la vita, il suo aspetto drammatico e quello comico, i suoi significati spesso reconditi. Ridendo, lacrimando, gridando e mormorando, facendo vivere quello che finora forse avevano ignorato. C’è un passaggio di quella sua recita che mi ha colpito, quello in cui Benigni (e Franco Marcoaldi, che con lui ha preparato il testo) pongono al centro della tradizione mosaica questo concetto.
È QUELLO secondo il quale spesso il corpo delle persone corre molto più velocemente lasciando l’anima indietro. Bisogna impedire che questo avvenga per evitare che l’anima, lontana dal suo corpo, si smarrisca e si perda. Il rapporto tra corpo e anima è la condizione che rende possibile la persona umana, la sua storia, il suo viaggio dentro di sé e la sua ricerca di amicizia e di solidarietà con gli altri, con il mondo che ci circonda.
Papa Francesco ha telefonato a Benigni e si è congratulato con lui. È vero: Roberto ha parlato per quattro ore di Dio. Quattro ore, che racconto! Dio — ha detto illustrando i comandamenti — è serenità ma è anche tragedia, è anche gelosia, è anche misericordia. Forse c’è. Ma il dubbio aleggia di continuo intorno alla sua figura, alle stragi terribili e orribili che l’uomo ha compiuto e ancora compie, quando l’anima si distacca dal corpo e lascia solo l’animale che siamo, la belva che possiamo diventare, mentre il Dio onnipotente lascia correre e sembra aver abbandonato la sua creatura.
Il Papa si è congratulato. Lui è sicuro che Dio pensa a noi senza interruzione, ma sa che esiste il dubbio e la miscredenza. Francesco si dà carico cercando nei limiti di una persona come tutte le altre di affrettare il cammino dell’anima affinché la bestia che è in noi si volga verso il Bene. Poi sarà il nostro libero arbitrio a scegliere quale sia il Bene e spesso se ne servirà a proprio uso e consumo. *** Il muro tra l’America e Cuba è caduto e questo è un fatto di capitale importanza perché Cuba non è soltanto la grande isola che fronteggia la Florida e il Messico. Cuba rappresenta l’America centrale e meridionale che si affaccia sul grande golfo dei Caraibi, il Venezuela, la Colombia, il Guatemala, il Costa Rica, Panama, El Salvador, Porto Rico, Honduras. Li rappresenta non nel senso formale ma sostanziale del termine. Ed è proprio quell’aspetto che spiega l’interesse di Jorge Bergoglio nel far cadere quel muro.
Papa Francesco patrocina una grande unione di tutta l’America Latina. Non è un interesse politico che non ha e non vuole che l’abbia la Chiesa. È un interesse spirituale, il medesimo che è contenuto nel suo recente discorso al Parlamento europeo.
Sono regioni dove il cattolicesimo è molto presente, insieme ad alcune Chiese protestanti. Una confederazione che andasse dall’Equatore fino all’Antartide e dal Pacifico all’Atlantico sarebbe una terra di missione formidabile e l’intero mondo cristiano ne riceverebbe un impulso missionario con effetti su tutto il Pianeta.
Questa è l’importanza della nuova stagione che si apre tra Washington e L’Avana. Obama ci vede un successo che dà prestigio al suo gran finale, Raul Castro si attende un miglioramento sostanziale del tenore di vita del suo popolo. Papa Francesco spera in un’immensa prateria per le missioni della Chiesa. E tutti e tre colgono la verità di ciò che è accaduto e accadrà nel futuro. *** Renzi intanto ha avuto a Bruxelles l’ultimo incontro con i colleghi dei Paesi membri dell’Ue e con la Commissione presieduta da Juncker. Chi ha vinto, chi ha perso: fioccano sui giornali le interpretazioni della tradizionale politica del rigore economico e quella, evocata ma non ancora entrata in funzione, della crescita.
Il punteggio di questa partita che ormai si protrae da almeno un anno è zero a zero. Non è stato deciso niente anche se è stato detto tutto a sostegno dell’una e dell’altra tesi. Il Paese che ai tempi delle vacche grasse, cioè nel periodo tra il 1995 e il 2005, utilizzò le abbondanti risorse disponibili per modernizzare lo Stato, le imprese, lo status dei lavoratori, fu la Germania ed anche la Gran Bretagna di Tony Blair fece lo stesso. Altri Paesi furono a mezza strada in quella direzione (la Polonia fu uno di quelli).
Altri ancora (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, Cipro) dissiparono allegramente (da noi ci fu la “Milano da bere”, anzi l’Italia da bere, di craxiana e poi berlusconiana memoria) aumentando fino a livelli stellari il debito pubblico e insieme con esso l’evasione fiscale, il lavoro nero, la corruzione, i proventi della criminalità organizzata e la sua diffusione in tutto il Paese e il collegamento con le mafie internazionali (giapponese, marsigliese, colombiana, russa, albanese, turca, americana, tedesca, romena, slovacca) insomma una cintura planetaria, ovunque contigua alla classe politica e perfino a quella giudiziaria.
Questa purtroppo è l’Europa. Sarebbe andata avanti così ancora per qualche anno, poi sarebbe precipitata a fondo dal Mar Mediterraneo a quello Baltico. Ma nel 2007 è scoppiata in America la più grande crisi economica che si ricordi, più profonda, più vasta, più duratura perfino di quella del 1929.
Questa, che dura tuttora, è avvenuta quando già da sette anni era nata la moneta comune: i sei fondatori, tra i quali c’eravamo anche noi, sono ormai 18 e stanno per diventare 19. Molti incolpano l’euro per quello che sta accadendo nei Paesi della corruzione in grande stile, ma quei molti sono profondamente stupidi, scambiano gli effetti per le cause e non si rendono conto che solo l’esistenza dell’euro ha consentito di interrompere il sonno in cui i Paesi dissipatori continuavano a cullarsi: i Paesi cosiddetti virtuosi hanno suonato il campanello d’allarme ed hanno preteso che i dissipatori si mettessero in regola, sopportando i relativi sacrifici e alcune roventi umiliazioni per poi intraprendere di nuovo tutti insieme la crescita e lo sviluppo e magari passare da un’Unione di Stati confederati agli Stati Uniti d’Europa.
Su questo ultimo punto — che per quanto mi riguarda non faccio che invocare ed evocare — tornerò. Tornerò tra poco; ma prima voglio dire che Matteo Renzi sta sbagliando con l’Europa; evidentemente non ha buoni consiglieri e quanto a lui di questi problemi ne sa poco. E pensa che il metodo migliore sia quello di fare la faccia feroce. Le elezioni europee gli hanno dato un notevole successo (smaltito pochi mesi dopo dalle elezioni amministrative con un’astensione abnorme) e gli hanno evidentemente fatto adottare una tattica e una strategia che non porteranno a nulla.
Non era facendo il bullo nei confronti della Merkel che si risolveva il problema. Anzi: si alimentarono gli euroscettici e i loro partiti e movimenti che hanno soprattutto la Germania come nemico. Per cui attaccare quei movimenti ed insieme attaccare anche i fautori dell’euro è una strategia evidentemente priva di senso. Tra l’altro chi adotta questa strategia finisce con l’indebolire la posizione di Draghi e della Bce che è allo stato dei fatti il solo vero protagonista della politica di crescita attualmente positiva con strumenti monetari da abbinare a riforme che creino posti di lavoro. Il “Jobs Act” non ha queste caratteristiche, non crea nessun posto di lavoro nuovo e semmai ne distrugge alcuni esistenti perché la libertà di licenziamento e l’abolizione dell’articolo 18 stimola ad ingaggiare lavoratori “apprendisti” e nel frattempo consente di disfarsi di una parte di quelli che fino a quel momento erano occupati nell’azienda in questione.
La vera strategia d’un Paese in difficoltà per i propri errori commessi in passato, avrebbe un solo modo per conseguire un successo: ancorarsi alla politica della Commissione Juncker con le poche aperture che ci saranno concesse per non crepare, ma pretendere, questo sì, che la Germania si metta alla testa del cambiamento dell’Europa con il finale obiettivo d’una Federazione con massicce cessioni di sovranità a cominciare dal fisco e dal debito sovrano europeo.
Questa sarebbe una politica seria e consentirebbe anche toni assai energici: se la Germania indugia o rifiuta di guidare il continente verso la costruzione d’uno Stato sovrano, assume responsabilità e impedisce il solo modo di uscire da una situazione insostenibile in un mondo dove la civiltà globale ha imposto ai continenti di diventare Stati anche laddove non lo erano e comunque di comportarsi e confrontarsi come tali. Se l’Europa non segue questa strada e se la Germania non si mette alla testa per guidarla esplicitamente noi saremo ridotti a quel che già siamo (e se ne vedono già gli effetti) cioè staterelli che non hanno alcuna voce politica né economica da far valere nel mondo.
Ma Renzi questa strada non la percorrerà mai. Intanto non ha nessuno che gliela consigli: il ministro Padoan è un bravissimo tecnico ma non è un politico e a questa strategia non ci arriva. Quanto a Napolitano quell’obiettivo dell’Europa federale l’ha sempre avuto in mente e l’ha esplicitato nell’ultimo suo discorso al Parlamento di Strasburgo. Perfino papa Francesco l’ha indicato anche lui al medesimo Parlamento. Ma in realtà da Napolitano tra i numerosi consigli che ha dato a Renzi non risulta che ci sia stato anche questo.
C’è da aggiungere che quanto al nostro presidente del Consiglio se c’è un’ipotesi sgradita è quella dello Stato federale d’Europa. Gli staterelli scomparirebbero o meglio sarebbero declassati e così pure i loro capi diventerebbero l’equivalente dei presidenti di Regione o poco più. Che il Senato diventi un’istituzione regionale gli va benissimo, ma se lui e tutti i suoi pari venissero declassati (rottamati?) no, non gli piace affatto.
Pazienza, ma peggio per noi perché così stiamo male e finiremo peggio. *** Mi è venuto tra le mani, ma lo conoscevo da molto tempo e ne parlai ampiamente sul nostro giornale parecchi anni fa, il libro, l’unico da lui scritto, di Étienne de La Boétie. Visse a cavallo tra il 1500 e il 1600, era amico intimissimo di Montaigne che infatti ne vigilò l’agonia mentre la madre e la sorella ne aspettavano la morte nella camera accanto. Étienne aveva solo ventisette anni ma per le pagine di quel suo scritto è ancora vivente nella memoria di chi si occupa di capire la dinamica della vita pubblica e la sua storia.
Il libro di chiama “Discorso sulla servitù volontaria” e la tesi è questa: «È ben difficile credere che vi sia qualche cosa di pubblico in quel governo in cui tutto è nelle mani di uno solo o di una qualche aristocrazia, perché avere un padrone o parecchi significa essere colpiti varie volte da una tale disgrazia».
E più oltre discutendo il rapporto tra il leader e i suoi sudditi che in teoria rappresentano il popolo sovrano: «Da dove prenderebbe i tanti occhi con i quali vi spia se non glieli forniste voi? Come farebbe ad avere tante mani per colpirvi se non le prendesse da voi? Ha forse un potere su di voi che non sia il vostro? Che male potrebbe farvi se voi non faceste da palo al ladrone che vi saccheggia? Voi siete in realtà i traditori di voi stessi. Ma sapete perché? Perché lui e i suoi compagni di scelleratezze vi danno il potere di esercitare gli stessi arbitri e sopraffazioni su quelli che sono più deboli di voi. Così voi vi compiacete della vostra servitù perché tanti altri sono in servitù vostra. Il livello del vostro potere è diverso ma pur sempre di potere si tratta, sicché quella in cui vivete è una servitù che volontariamente accettate e vi assumete».
Ebbene, in tutti i Paesi questa servitù volontaria è stata ed è tuttora presente ma in Italia è stata e continua ad essere molto più presente che altrove.
Mi direte che oggi sono particolarmente pessimista. Rispondo che ne ho qualche buon motivo. Quei malanni della vita pubblica sono presenti ovunque ma da noi più che altrove. Del resto ogni Paese ha la classe dirigente che si merita: gli italiani non hanno mai amato le istituzioni e lo Stato che hanno sempre considerato ostile, inefficiente e corrotto. A torto o a ragione oggi lo considerano più che mai così.
Concluderò con alcuni versi di uno dei più grandi poeti del Novecento: W. H. Auden. Mi consolano perché dimostrano che noi italiani non siamo molto diversi dagli altri: «La politica dovrebbe adeguarsi a Libertà, Legge e Compassione/ Ma di regola essa obbedisce a Vanità, Egoismo e Tremarella./ La maggior parte degli uomini da soli a soli,/ sembrano gentili e amichevoli,/ ma l’Uomo collettivamente in genere/ si comporta da canaglia».
Auguri di Buon Natale e Capodanno.

La Stampa 21.12.14
Cuba riscopre l’orgoglio: “Grazie Obama ma restiamo comunisti”
Mentre Raul Castro accoglie gli “eroi”, alla Baia dei Porci ci si sente vincitori
di Paolo Mastrolilli


Tutto qui parla di un tempo andato. Anzi no; di un tempo fermo, rimasto immobile come la Storia. Le lapidi lungo la strada che ricordano dove sono caduti i 214 «martiri», i cartelloni propagandistici con la faccia di Fidel ancora trentenne, il museo di Playa Giron che celebra «la prima sconfitta dell’imperialismo yanqui».
Visitare la Baia dei Porci nel giorno in cui Raul festeggia a L’Avana i «cinque eroi» tornati a Cuba dopo l’accordo col presidente americano Obama, e giura che «resteremo comunisti», è come viaggiare indietro nel tempo al 1961. Eppure anche qui sono pronti a fare la pace. Lo giura Alberto, militare in licenza, mentre guarda Raul in diretta sulla vecchia tv analogica accesa nel bar davanti alla spiaggia: «Io sono cresciuto qui, e sono orgoglioso del simbolo storico nella resistenza rivoluzionaria che rappresenta il mio Paese. Sono militare e, se servisse ancora oggi, sarei pronto ad imbracciare il fucile per difendere la mia patria. Però sono contento dell’accordo con gli americani, perché ci permetterà di vivere meglio. In fondo furono loro ad attaccarci, non noi. Fosse stato per Fidel, noi questa pace l’avremmo fatta mezzo secolo fa».
La disfatta «yanqui»
Era il 17 aprile del 1961, quando i mercenari assoldati dalla Cia sbarcarono su queste spiagge. La popolazione, invece di accoglierli come liberatori, si strinse intorno a Castro e li sconfisse. Il Presidente Kennedy, vedendo che nonostante il fiasco il suo gradimento nei sondaggi era cresciuto, commentò sconsolato: «Proprio come il mio predecessore: più sbaglio, più divento popolare». Poco dopo, infatti, fu proprio Kennedy a proclamare l’embargo che è servito solo a cementare il regime, e che adesso il suo ammiratore democratico Obama vuole cancellare.
Venni qui la prima volta ventidue anni fa. L’Urss era implosa e tutti si aspettavano che Cuba, rimasta senza aiuti, seguisse. Diedi un passaggio in auto a un campesino che tornava dalla «zafra», la raccolta della canna da zucchero, e volevo sapere se anche lui si aspettava un cambio. Mi fissò serissimo, e rispose: «Quando la rivoluzione trionfò, il compagno Fidel aveva 33 anni e una lunga barba». In altre parole, la reincarnazione di Cristo. Il campesino così aveva armonizzato la tradizione cattolica in cui era cresciuto, e la rivoluzione guidata dall’allievo dei gesuiti di Santiago.
Vent’anni dopo, poco è cambiato. Lungo la strada i contadini chiedono ancora passaggi, fiduciosi perché la solidarietà rivoluzionaria è sempre obbligatoria, soprattutto se guidi un mezzo dello Stato. A lavorare nei campi di canna da zucchero e yucca si va con i carretti trainati dai buoi e le case sono poco più che capanne. Con Raul è cambiato che si possono vendere, mentre prima al massimo potevi scambiare la tua abitazione con qualcuno che voleva venire al tuo posto. Ma chi, quaggiù? A L’Avana il salario medio è poco più di 300 pesos al mese, e una casa ricevuta dallo Stato per 4 o 5000 pesos la puoi rivendere ora a 10 o 15.000. Qui però l’economia è solo sopravvivenza, a meno che non arrotondi col turismo, che arriva per il brivido di immergersi nella Storia, e il gusto di vedere Cuba come altrimenti resiste solo nelle foto in bianco e nero. Le casupole così diventano «casas particulares» da affittare, dove non è difficile trovare turisti americani in bici. Qualcuno però non ce la fa neppure così, e continua la triste tradizione dei «balseros», che adesso non si avventurano più sulle zattere verso la Florida, ma seguono la rotta più pericolosa dell’America centrale, per poi arrivare negli Usa via terra come i ragazzini che nel luglio scorso avevano assalito la frontiera col Texas. 
L’ingresso nel passato
Entri nel passato appena lasci l’autostrada che porta da L’Avana a Santa Clara. Nel villaggio di Australia un cartellone Anni Sessanta informa a caratteri cubitali: «Qui Fidel stabilì il comando per fermare gli invasori». La faccia del Líder Máximo ti osserva corrucciata, dal dipinto a colori tropicali. Poco più avanti Palpite, non più di venti case, ricorda che «qui si è combattuta una battaglia decisiva contro i nemici della rivoluzione». Sarà un caso, ma il business più fiorente appena fuori dal villaggio è l’allevamento dei coccodrilli, per ripopolare le vaste paludi vicine dove i mercenari del «Plan Pluto» pensavano di avanzare. C’è anche una base militare, perché questa rimane una zona di frontiera, e la Guardia Costiera vuole evitare che le sue insenature vengano sfruttate da altri invasori, o magari dai trafficanti di droga.
Se Santiago è la «ciudad rebelde siempre», Playa Giron è il luogo dove questa rivoluzione è morta e risorta in tre giorni: «Qui - spiega il cartello all’ingresso - è avvenuta la prima sconfitta dell’imperialismo yanqui». Per strada ci sono le insegne col nome, cognome e indirizzo dei capi locali dei Cdr, i comitati di difesa della rivoluzione, gli occhi di Castro usati spesso per denunciare e aggredire i dissidenti con gli «actos de repudio».
All’ingresso del museo dedicato ai «martiri» c’è il carro armato dove era salito Fidel per guidare la riscossa. Dentro sono custoditi i fucili Garand, di costruzione italiana, che i miliziani popolari imbracciavano per sparare sui mercenari della Cia. Cubani contro cubani; una ferita mai rimarginata, che spiega molto dell’odio con la comunità espatriata a Miami. La narrativa del museo dice che nel 1959 in questa zona la gente viveva producendo carbone vegetale, e i bambini morivano senza assistenza medica. Poi era arrivato Fidel e aveva mandato dottori e «brigadistas alfabetizadores». Aveva anche tolto la terra al latifondo e nazionalizzato 382 imprese, come recita a caratteri cubitali un titolo di giornale del 14 ottobre 1960. Sei mesi dopo, l’attacco alla Baia dei Porci, perché «quello che gli Usa non possono perdonarci - come disse Fidel chiamando i cittadini alle armi - è aver fatto una rivoluzione socialista sotto al loro naso. E questa rivoluzione la difenderemo con questi fucili».
Cambiare per resistere
Barbara, guardiana del museo, non sa che fine farà, ora che gli yanqui non sono più nemici: «Spero che resti aperto. È giusto ricordare la nostra storia, anche se poi muta per il bene di tutti. Abbiamo bisogno di un’economia migliore, per resistere». Cambiare tutto, perché nulla cambi. È il militare Alberto, in calzoncini da spiaggia, che attira la mia attenzione sulla tv: «Guarda, è Raul con i cinque eroi!». C’è pure Elian Gonzalez, l’ex bambino diventato la causa di uno scontro feroce tra le propagande di Miami e L’Avana. Obama vuole metterci una pietra sopra, e il sergente Alberto ci sta: «Morendo, il mio predecessore Eduardo Delgado scrisse il nome di Fidel col proprio sangue: la vittoria rivoluzionaria di Playa Giron è scolpita per sempre nella storia. Ora, però, ci conviene voltare questa pagina».

Repubblica 21.12.14
Raúl avverte Obama “Cuba inizia a cambiare ma resterà comunista”
Il presidente in Parlamento con gli agenti liberati
Nelle strade de L’Avana con la gente in attesa di notizie
di Daniele Mastrogiacomo


L’AVANA Cuba cambierà. Giorno dopo giorno. Ma resterà comunista. Non rinuncerà ai suoi valori, alla sua indipendenza e alla sua autodeterminazione. Tre giorni dopo lo storico annuncio sulla fine di un conflitto che dura da 53 anni, il presidente Raúl Castro chiude la sessione semestrale del Parlamento cubano con un discorso che tiene insieme la volontà di apertura nei confronti degli Stati Uniti e i delicati equilibri fra le diverse anime del regime.
Davanti ai delegati, alla presenza dei 3 agenti condannati all’ergastolo negli Usa, scambiati con altri due prigionieri rinchiusi a Cuba, il capo dello Stato ha voluto ringraziare il presidente Barack Obama «per il nuovo capitolo» nei rapporti tra i due paesi. Lo ha esortato ad abolire subito la legge sull’embargo e a depennare l’isola dalla lista nera dei paesi accusati di sostenere le azioni dei terroristi. «Ribadiamo la nostra volontà al dialogo rispettoso e reciproco tra le divergenze che ci dividono», ha aggiunto il presidente cubano. «Accetteremo di dialogare su qualsiasi argomento che riguarda la nostra patria e anche gli Stati Uniti. Ma ribadiamo anche la volontà di difendere la nostra sovranità». E poi, riprendendo un concetto più volte espresso dal fratello Fìdel, ha aggiunto: «Vigileremo sulla nostra indipendenza nazionale e sulla nostra autodeterminazione. Cuba cambierà. Ma resterà comunista. Accelereremo le riforme economiche. Porremo fine, intanto, al sistema della doppia valuta. I cambiamenti saranno graduali per creare un sistema di comunismo prospero e sostenibile».
Raùl resiste dunque alle pressioni che arrivano dall’interno del suo partito dove si confrontano e si scontrano fazioni e interessi diversi. I cambiamenti possono essere anche traumatici. Per chi ha conservato poteri, piccoli e grandi privilegi, posizioni di comando. E per la stessa popolazione che ieri, un sabato di riposo, velato da una fitta coltre di nuvole, passeggiava per le vie de L’Avana con spirito più sereno e ostentando un sorriso che non si vedeva da tempo. Gli umori della gente sono condizionati dai discorsi che in queste ore si intrecciano nei palazzi e si diffondono tra le case e le piazze. I cubani seguono con attenzione, via radio e attraverso le tv americane captate con collegamenti via satellite illegali, gli sviluppi di una fase storica che segnerà il loro futuro.
Raúl Castro ha insistito. Ha invitato Obama a fare presto e di più. Sa che la gente si aspetta da subito qualche segnale concreto. Ma senza la fine del “bloqueo”, la vera morsa che sta strangolando l’economia dell’isola, è difficile trovare nuovo ossigeno. «Conto su Obama», si è augurato nel suo intervento finale al Parlamento, «affinché eserciti le sue prerogative di presidente per una modificare sostanzialmente l’applicazione dell’embargo negli aspetti per i quali l’approvazione del Congresso non è necessaria».
Il capo dello Stato cubano deve fare i conti con le anime interne al regime. Gioca la sua partita e cerca di vincerla. Fa quello che può fare: eliminerà la doppia moneta, il Cuc (Cuenta unica Comandante), creata a suo tempo per arginare il dollaro, e il peso cubano che vale 24 volte di meno. La gente è pagata con la seconda. Ma deve acquistare i prodotti con la prima. Una follia che ha finito per rendere impossibile la vita dei cubani.
E la storica ambasciata Usa che si affaccia sul Malecòn presto sarà riaperta. E’ guardata a vista da decine di poliziotti e altrettante telecamere. Sulla piazza delle Bandiere, creata nella guerra psicologica di fine Anni 90, dove si esibivano artisti e cantanti con comizi infuocati, spiccano ancora gli slogan che segnarono la Revoluciòn: Patria o muerte, Venceremos. In mezzo, la statua di José Martín, i leader dell’indipendenza. In braccio il piccolo Elian Gonzales, l’altro grande eroe nella fuga dei balseros: fu salvato dalla madre che si sacrificò piazzandolo sulla loro camera d’aria. I delfini fecero il resto e lo sottrassero alla furia dei pescecani. Restò per un anno negli Usa in una guerra diplomatica e psicologica senza esclusione di colpi. Fino a quando il padre riuscì a riportarlo a Cuba. Ieri c’era anche lui in Parlamento. Testimone di un cambiamento che muterà, forse, anche la sua vita.

Il Sole Domenica 21.12.14
Svolta a Cuba
Il compimento di un sogno
di Franco Avicolli


«Nei miei trenta anni al «New York Times» – affermava nell'aprile del 1960 Herbert Matthews – non ho mai visto un tema così importante come la rivoluzione cubana, inteso così male, gestito così male e così male interpretato».
In quei giorni, il presidente Eisenhower cercava di imporre le ragioni della forza a un Paese che voleva affermare il diritto a organizzarsi secondo una logica interna ispirata ai principi della libertà dei popoli. La rivoluzione castrista voleva restituire a Cuba la terra, il petrolio e i mezzi produttivi nel rispetto delle sue prerogative e gli Usa opponevano a quel diritto la loro potenza economica e militare. Era l'atteggiamento storico del "potente vicino del Nord" che guardava a Cuba come a un Paese "naturalmente" destinato a far parte della federazione degli stati nata dalla dichiarazione di Filadelfia del 1776.
«Per decreto della Provvidenza – secondo il magistrato della Louisiana J.C Larue – Cuba appartiene agli Stati Uniti e deve essere americanizzata». Era il 1848. Cinquanta anni dopo gli Stati Uniti d'America trattano con la Spagna l'indipendenza di Cuba vittoriosa sul campo e inseriscono nella loro Costituzione l'emendamento Platt che li autorizza a intervenire militarmente, come accade numerose volte. Matthews chiariva che dopo più di cento anni non c'era stato un cambio nelle relazioni e che gli Usa trattavano la rivoluzione dei barbudos come una questione di politica interna.
Cuba è l'ultima delle colonie spagnole americane a raggiungere l'indipendenza incarnandone l'istanza più avanzata in un contesto che fin dalle origini si scontra con le mire espansionistiche degli Usa. Lo afferma la rivoluzione del 1959 e lo ribadisce la vittoria della Baia dei Porci del 1961, una pietra miliare che marca il più grande avvenimento storico nei rapporti fra il nord anglosassone e l'America Latina. Sono eventi che danno all'isola un posto speciale e un alone di eroismo rivoluzionario carico di un sogno di libertà poi diffuso da figure come il Che Guevara che hanno infiammato le generazioni del tempo.
Mi piace leggere il processo di normalizzazione avviato tra Cuba e gli Usa nella luce di questo sogno storico che è americano, cioè del nord, e dell'America Latina ed è sogno. Obama riconosce l'esistenza di Cuba e Santiago, il testardo pescatore de Il vecchio e il mare sosta ancora sull'orizzonte. Egli è ragione di sé oltre ogni scopo: non rinuncia a portare il pesce a casa, ma soprattutto vuole continuare a pescare.

Corriere 21.12.14
Cina, se mezzo miliardo di maiali cambia l’Amazzonia (e il mondo)
Simbolo del benessere, consumi esplosi. E l’agricoltura globale ne è stravolta
di Guido Santevecchi


PECHINO Per scrivere «famiglia», in mandarino si usa un carattere che mette un maiale sotto un tetto. Uno dei 12 segni dello zodiaco cinese è il maiale, associato a diligenza e generosità, prosperità, fertilità e virilità. Gli esempi aiutano a capire quanta importanza abbia questo animale nella civiltà dell’Impero di Mezzo. Piacevano anche a Mao Zedong i suini, li chiamava «la fabbrica di fertilizzante su quattro zampe», perché ancora ai suoi tempi non c’era casa di campagna che non ne allevasse almeno uno: venivano nutriti con gli avanzi e producevano letame organico, il migliore per concimare i campi. All’epoca di Mao il maiale era simbolo di una ricchezza sognata e i cinesi potevano permettersi di mangiare la sua carne solo in rare occasioni.
Alla fine degli anni 70, con l’apertura all’economia di mercato, le cose sono cambiate. Oggi in Cina ci sono allevamenti giganteschi, da 100 mila suini l’uno, i cinesi producono e consumano 500 milioni di maiali l’anno, metà del mercato mondiale. E qui nasce il problema, tanto serio che l’ Economist ha adottato il suino come protagonista di un lungo articolo sull’ascesa della Cina, sulla sua industrializzazione accelerata, sui pericoli che rappresenta per l’equilibrio del pianeta. Titolo: «The empire of the pig».
Prima del boom economico i cinesi avevano una dieta a base di verdure, la carne di suino si usava con parsimonia, per insaporire i piatti. Oggi il consumo medio pro capite è di 39 chili all’anno. La tradizione del porco che riciclava gli avanzi e restituiva letame utile per coltivare i campi è stata schiacciata da un’industria enorme.
Fino agli anni 80 il 95 per cento della produzione veniva da contadini che ne tenevano in media non più di cinque a testa; oggi imprese statali e multinazionali hanno allevamenti da 100 mila capi nei quali gli animali sono fatti ingrassare al chiuso, spesso non vedono mai la luce del sole.
La carne di maiale è talmente importante per l’economia cinese che il suo prezzo è determinante nel calcolo dell’inflazione, quest’anno per esempio è sceso del 3,8% e lo Stato è intervenuto con sussidi agli allevatori. Il governo ha anche costituito una riserva strategica, come si fa con il petrolio: carne surgelata e animali vivi pronti per essere immessi sul mercato se il prezzo sale troppo.
Con allevamenti così grandi e bestie ammassate per l’ingrasso, il pericolo di malattie è ricorrente, così si usano in modo massiccio antibiotici e ormoni. E questo cocktail di medicine non fa bene alla salute dei consumatori cinesi né all’ecosistema. Ogni maiale produce 5 chili di letame al giorno, che non è più il fertilizzante mitizzato da Mao, ma composto inquinante per la terra e le falde acquifere. Nonostante le cure spregiudicate, le morie sono frequenti: per disfarsi delle carcasse si usano spesso i fiumi. L’anno scorso i resti di 20 mila maiali sono discesi lungo il corso dello Huangpu, fino alle porte di Shanghai. Fu uno scandalo nazionale.
Ma il mezzo miliardo di suini cinesi sono un problema serio per tutta l’agricoltura mondiale. Per ottenere un chilo di carne di porco servono sei chili di mangime. Non si possono più nutrire con i soli scarti alimentari, così per approvvigionarsi di soia e mais le industrie della Cina si rivolgono al mercato internazionale. Con esiti devastanti: il Brasile ha convertito alla soia 25 milioni di ettari di terra, spianando anche foresta amazzonica. Pechino ha anche acquistato 5 milioni di ettari di terreno in Paesi in via di Sviluppo. Forse l’ Economist non esagera con il suo titolo «L’impero del maiale».

Il Sole Domenica 21.12.14
Uccisi due poliziotti a New York
La paura dell'uomo nero
A colloquio con Yasmine Ergas
Per la giurista della Columbia University, nella società Usa l'uomo afroamericano è percepito ancora come simbolo del pericolo
di Eliana Di Caro


È una questione di genere e, per una volta, non di genere femminile. «L'uomo afroamericano in quanto tale è il simbolo del pericolo in una società in cui, a dispetto del primo presidente nero della sua storia, c'è un grosso problema di integrazione e di emarginazione sociale»: Yasmine Ergas, docente di International Human Rights Law alla Columbia University, legge così gli ultimi drammatici fatti che hanno scosso l'America, dall'omicidio di Michael Brown, il giovane disarmato ucciso da un agente bianco a Ferguson, in Missouri, lo scorso agosto, alla morte di Eric Garner, l'uomo anche lui inerme, soffocato a New York dalla presa al collo di un poliziotto.
Il video che mostra la brutalità di quest'ultimo attacco che non si ferma davanti ai ripetuti «I can't breathe» («Non riesco a respirare») mormorati dalla vittima, ha scatenato le proteste delle ultime settimane, culminate nelle grandi manifestazioni del 13 dicembre scorso: 25mila persone solo a New York, strade piene nelle principali città americane per denunciare la violenza delle forze dell'ordine e urlare che «black lives matter».
«La verità è che, come ha scritto Michelle Alexander in The New Jim Crow, questa parte di popolazione patisce ancora la segregazione nonostante sia caduta la segregazione giuridica», continua Ergas. «Ciò si riflette innanzitutto in un tasso di incarcerazione altissimo, il più alto di qualunque altro Paese. Un eccesso in cui, come dicono i dati, sono sovrarappresentati i maschi afroamericani». Stando a Naacp (National Association for the Advancement of Colored People, una Ong che ha una lunga tradizione di lotta per i diritti civili) su un totale di 2,3 milioni di detenuti, quasi un milione sono afroamericani, e il tasso di incarcerazione dei neri è sei volte quello dei bianchi.
Gli ultimi episodi hanno richiamato l'attenzione sull'uso della forza da parte della polizia. «In un contesto di tale sperequazione tra gli uomini neri e il resto della società, la rapidità con cui viene usata la violenza non può che alimentare il senso di un'ingiustizia diffusa. Il paradosso è che tutto questo avvenga sotto la presidenza Obama, che ha rappresentato se stesso come la persona che ricompone le fratture della società americana, anche e soprattutto razziali. Ma le sue politiche non sono state sufficienti, non sono riuscite a garantire l'accesso alle risorse che pure questa società offre. L'ineguaglianza aumenta. E l'accesso ineguale diventa differenza strutturale». Anche qui i dati, questa volta del Bureau of Labor Statistics, parlano chiaro: il tasso di disoccupazione del segmento afroamericano, in qualsiasi fascia d'età, è pari al doppio (e anche più) di quello dei bianchi, con punte che toccano il 36% tra i ragazzi di 18 e 19 anni.
Ergas, da oltre 25 anni a New York dove ha fatto l'avvocato prima di dedicarsi all'insegnamento, racconta come sia rimasta sempre colpita dal «tipico discorso che viene fatto ai ragazzi neri dai genitori: "succederà che la polizia ti fermerà, ti sembrerà un'ingiustizia, un abuso, non capiterà ai tuoi amici bianchi. Tu devi essere pronto a mantenere la calma e a non far precipitare le cose". Anche il sindaco di New York, Bill De Blasio, non ha nascosto di aver detto le stesse cose a suo figlio Dante».
Scuola, mercato del lavoro e sistema della giustizia sono le tre riforme necessarie se davvero si vogliono cambiare le cose, secondo Ergas: «L'istruzione deve diventare fattore di eguaglianza, bisogna investire nelle scuole pubbliche assicurandone la qualità. Oggi sono troppo spesso mediocri e sovraffollate e invece la promozione sociale di tutti i ceti comincia lì. La riforma carceraria, a mio avviso, è altrettanto importante, perché la non tolleranza di piccole infrazioni pesa soprattutto su alcuni tipi di persone che scontano più di altri il malessere sociale». Il problema sicurezza, che inevitabilmente si porrebbe, dovrebbe essere contemperato da politiche economiche adeguate facendo in modo che «i posti, a tutti i livelli, diano un reddito accettabile», cominciando dunque con l'innalzamento del salario minimo (da 10 dollari all'ora a 12/15: è un tema all'ordine del giorno in alcuni Stati americani).
Ergas vuol concludere questo incontro con un messaggio positivo, sottolineando anche il rovescio della medaglia, e cioè che quanto sta accadendo – la capacità di protestare, di rivendicare – si deve «a un contesto politico in cui il presidente è un nero, e ci sono studenti, persone comuni e intellettuali che condividono il sentimento di ingiustizia. E poi: abbiamo avuto alla Corte Suprema Sonia Sotomajor, una donna cresciuta nelle case popolari di New York. Abbiamo De Blasio, un sindaco la cui famiglia è un esempio di perfetta integrazione. Spero davvero che arrivino altri segnali di cambiamento».

Corriere 21.12.14
Emergency
L’ospedale all’epicentro di Ebola
«Italia, lascia partire i tuoi medici»
di Gino Strada


Lettera da Freetown: il nuovo centro di cura, il mancato sostegno delle Asl, l’aiuto dei malati al nostro dottore infettato

Un prato del Comitato olimpico della Sierra Leone in sei settimane è diventato un ospedale per combattere Ebola. Ma mentre in Europa rimbalzano gli appelli roboanti per cinquemila medici da mandare in Africa, qui non se ne vedono neanche cinquanta.
Cinquemila sono anche i metri quadrati su cui si estende il nuovo centro di trattamento che Emergency ha aperto in questi giorni a Goderich, periferia di Freetown: 100 posti letto, 24 di terapia intensiva. Il virus rimane padrone della Sierra Leone, che ha superato la Liberia per numero di casi: cala l’attenzione internazionale ma la gente continua a morire nelle strade, dove anche i ragazzini improvvisano checkpoint sanitari tirando corde per misurare la febbre a chi passa.
L’Onu dice che Freetown è il nuovo epicentro dell’emergenza Ebola in Africa. Un segno dell’emergenza: oltre alle partite di calcio e alle serate in discoteca, il governo ha proibito le celebrazioni del Natale, per ridurre contatti e possibili contagi, in un Paese dove le feste dei cristiani (il 40% della popolazione) vengono celebrate anche dai musulmani. Prima di Ebola i cristiani andavano alla moschea il venerdì e i musulmani ricambiavano passando dalla messa la domenica, straordinario esempio di convivenza interreligiosa. Ora nessuno va più da nessuna parte. Economia al collasso, scuole chiuse, campi abbandonati, province in quarantena. È un Paese paralizzato dalla paura.
Una guerra contro un nemico invisibile. Ogni giorno un doppio dilemma: curare i malati, proteggere il personale che li cura. In questo Paese più di 160 operatori sono morti combattendo Ebola. Siamo abituati a stare anche 12 ore in sala operatoria, ma lavorando a 18 gradi: gli scafandri di protezione indossati nella zona rossa, invece, sono forni che rendono i turni massacranti. È dura resistere per più di un’ora. Per garantire un’assistenza sulle 24 ore serve molto più personale rispetto alla chirurgia.
Nel nuovo ospedale abbiamo assunto 600 operatori nazionali che stiamo addestrando. Dei 100 internazionali che servono ne abbiamo una trentina: a giorni ci raggiungerà un team sudcoreano, da gennaio conteremo su alcuni colleghi sudafricani. E gli altri? Molti medici e infermieri italiani sono pronti a darci una mano, ma non hanno ottenuto dalle Asl l’aspettativa necessaria. In sei settimane centinaia di operai locali e i Royal Engineers dell’esercito britannico, incaricati dalla cooperazione allo sviluppo inglese, lavorando 24 ore su 24 hanno trasformato un campo di calcio in un ospedale. Da più di due mesi in Italia si sentono politici che promettono aspettative per ragioni umanitarie, provvedimenti ad hoc. La verità è che fino a ora quasi tutti coloro che hanno chiesto il permesso di partire se lo sono visti rifiutare. Spero che qualcuno ci faccia il regalo di Natale: dando indicazioni precise alle regioni e alle Asl, non suggerimenti, per concedere queste «benedette aspettative» come avviene in altri Paesi. L’Italia deve fare la sua parte, e in fretta. I pazienti non aspettano le conferenze Stato-regioni. Ogni giorno qualcuno muore perché mancano i medici che l’avrebbero potuto curare.
Emergency è in questo Paese da 13 anni. Nei due centri (chirurgico e pediatrico) siamo riusciti a non far entrare un singolo malato di Ebola. Le precauzioni non sono sempre sufficienti. Uno dei nostri addetti alle pulizie, che era a casa in malattia da due settimane per una ferita a una gamba, si è infettato. Durante quelle due settimane ha partecipato a un funerale tradizionale, durante il quale i corpi vengono toccati da diverse persone. Purtroppo è tornato da noi troppo tardi ed è morto in breve tempo.
Poi ci sono i casi in cui non trovi una spiegazione ed è ancora più inquietante. È successo con uno dei nostri medici italiani. Ora l’angoscia per lui si è dissipata e credo si possa dire con tutte le cautele del caso che abbia imboccato la via della guarigione. Da quella domenica in cui gli è comparsa la febbre non siamo riusciti a capire come sia potuto succedere. La sera prima io e lui abbiamo lavorato insieme guardando dati di pazienti al computer. Il giorno dopo è risultato positivo ai test e noi tutti che abbiamo vissuto in casa con lui abbiamo provato in maniera più intensa quel po’ di ansia che fa da sottofondo alle giornate e non se ne va mai perché ti confronti con un nemico invisibile.
Poi ci sono momenti in cui l’umore cambia: ogni volta che si dimette un paziente guarito e quel paziente tre giorni dopo viene a chiedere se può lavorare al centro, anche perché vuole aiutare chi vive quel che ha vissuto lui. È successo lo stesso quando si è ammalato il nostro collega: in fretta e furia il giorno del suo rientro in Italia abbiamo cercato pazienti sopravvissuti per chiedere di donare il loro sangue. Il sangue dei pazienti guariti può essere utilizzato per combattere la malattia. In 2 ore si sono presentati in cinque. Persone della Sierra Leone arrivate al nostro ospedale per aiutare un medico italiano che si è infettato combattendo Ebola.

Corriere Salute 21.12.14
C’è davvero una correlazione fra le malattie organiche e i disturbi della sfera psichica?
risponde Giovanni Migliarese

Dipartimento neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano

Sono una ragazza di 28 anni, da tempo ho problemi di depressione e somatizzazione (soffro di colite e di gastrite croniche) che scaturiscono da periodi prolungati di stress. L o psichiatra mi ha prescritto: amisulpride da prendere per soli 15 giorni, paroxetina 40 gocce al giorno, lorazepam una compressa e mezza al giorno. Ho anche iniziato da pochissimo una psicoter apia di gruppo. Mesi fa ho assunto fluvoxamina 50 mg al giorno per q uattro mesi, senza risultati e subendo solo gli effetti indesiderati del farmaco. Devo iniziare la nuova cura che ho descritto sopra?

La sua domanda mi permette di addentrarmi in un campo molto interessante - di cui molto si parla , ma per “sentito dire” più che su solide basi scientifiche - e cioè quello del rapporto tra stress, patologie psichiche e malattie somatiche. Gli effetti negativi dello stress, dei lutti, delle difficoltà coniugali sulla salute fisica e mentale sono noti fin dall’antichità. Aristotele ammoniva i medici del tempo a non curare il corpo senza curarsi dell’anima, mentre Virgilio nell’Eneide scriveva che “la mente muove la materia”. Decisamente assai più di recente diversi studi hanno mostrato una relazione stretta tra questi fenomeni. Da un lato, in persone che hanno già patologie organiche (ad esempio: malattie immunologiche - quali il Lupus eritematoso sistemico - o cardiache, ad esempio dopo infarto miocardico) le patologie psichiche sono presenti con frequenza maggiore; dall’altro, soggetti con patologie psichiche croniche hanno un rischio maggiore di sviluppare patologie organiche.
Inoltre, le patologie psichiche possono presentarsi come segnali precoci di malattie somatiche non ancora riconoscibili (ad esempio nelle patologie neuro-degenerative).
Infine, condizioni di stress prolungato e intenso sono state correlate a una maggior incidenza sia di patologie psichiche, sia di patologie organiche, ma anche a una peggior prognosi delle stesse, in caso lo stress non venga gestito adeguatamente. Sono state proposte varie ipotesi per dare una spiegazione scientifica al fenomeno, dando origine a una visione psico-neuro-immunologica delle patologie psichiche. In quest’ottica mente e corpo sarebbero strettamente interconnessi attraverso fattori neuro-endocrini e immunologici: la risposta dell’organismo agli stress, ad esempio, comporterebbe una cascata di eventi legati all’attivazione di un sistema (asse ipotalamo-ipofisario) con conseguente innalzamento di ormoni (cortisolo, adrenalina) che possono avere effetti tossici (se a dosaggi elevati) a livello cerebrale.
Allo stesso tempo è stato riscontrato un ruolo del sistema infiammatorio e immunologico (attraverso il rilascio di citochine e la loro influenza sul sistema neuro-endocrino). Semplificando: soprattutto se estremamente intenso e prolungato, lo stress può influenzare il sistema neuro-endocrino e condurre a un “esaurimento” delle risorse, facilitando lo sviluppo di malattie sia psichiche sia organiche (alle quali si era già predisposti). Inoltre l’insorgenza di tali condizioni tende a mantenere in disequilibrio il sistema e a facilitare l’insorgenza di nuove forme patologiche. Perciò è molto importante prendersi cura globalmente della propria situazione.
In relazione alla sua domanda: la terapia precedente con fluvoxamina appare sottodosata (i dosaggi medi infatti variano tra i 100 e i 300 mg al giorno), mentre l’impostazione più recente è - almeno sulla carta - sicuramente più adeguata. Il mio consiglio è di fidarsi del curante e di affrontare con lui eventuali insuccessi della terapia, senza rinunciare a trovare una soluzione corretta.

Corriere La Lettura 21.12.14
L’obbedienza è tornata a essere una virtù
di Umberto Curi


Il film di Ermanno Olmi Torneranno i prati ha riportato l’attenzione su un tema da qualche tempo dimenticato o rimosso, quello dell’obbedienza, che si ritrova già in alcuni testi fondativi della tradizione culturale dell’Occidente. In latino, l’atto dell’obbedire si dice oboedientia: deriva dal verbo ob-audire e significa aprirsi all’ascolto di qualcuno o di qualcosa. In questa accezione, l’ oboedientia non coincide affatto con una semplice acquiescienza, ma implica piuttosto l’atteggiamento selettivo di chi distingua ciò a cui prestare ascolto, rispetto a ciò che si sceglie di non ascoltare. L’esatto corrispettivo greco di ob-oedientia è ypakouo . È questo il termine usato nella Bibbia, dove «ascoltare» significa «aprire il cuore» e mettere in pratica ciò che si è ascoltato. Questo ascoltare profondo è l’obbedienza della fede, per cui si parla di «orecchio circonciso». Da una parte l’atto di ascoltare da parte dell’uomo rappresenta la risposta alla rivelazione della parola di Dio, poiché è proprio ascoltando che l’uomo ha la possibilità di accedere alla fede cristiana. Dall’altro lato, l’ascoltare e l’esaudire di Dio è il modo in cui egli aderisce alle preghiere dell’uomo ed è uno degli elementi fondamentali che lo distinguono dal non-udire degli altri dèi o idoli umani.
Gesù viene presentato in tutta la Scrittura come il capostipite degli obbedienti, in opposizione ad Adamo, capostipite dei disobbedienti. Ma al di là di quella di Cristo, la figura biblica più significativa per quanto riguarda un’obbedienza che coincide con la fede, coll’aprirsi alla parola, col farsi abitare dalla volontà di Dio, è Abramo, del quale si legge che «chiamato da Dio obbedì». A quella parola, Abramo obbedisce. L’ ascolto implica l’accoglimento. Non si sottrae, non fugge. Non si comporta come Adamo, il quale dopo aver mangiato il frutto offertogli da Eva, «si nascose dal Signore Dio in mezzo agli alberi del giardino» e dunque non obbedì .
L’inseparabilità fra le opposte modalità di cor-rispondere alla chiamata di una voce trova una importante conferma in almeno altre due figure appartenenti al mondo greco classico, al Critone platonico e all’ Antigone di Sofocle: i due protagonisti sono entrambi dis-obbedienti , indisponibili a prestare ascolto a una voce solo perché assorti nell’ ascoltarne un’altra. Al richiamo del prediletto allievo Critone, il quale gli addita la porta della prigione spalancata dalla quale fuggire, Socrate parakouei , «non ascolta», disobbedisce. Ad altra «voce», all’ammonimento di altra chiamata, egli non può sottrarsi. Socrate non rinuncia ad obbedire al richiamo delle leggi ( nomoi ) che lo hanno allevato e nutrito e alle quali non può non prestare ascolto. L’obbedienza ai nomoi implica la disobbedienza al richiamo di Critone. Una situazione anche più limpida è raffigurata nella tragedia di Sofocle. Qui la divaricazione delle voci che chiamano riguarda due ordini diversi di nomoi . L’indisponibilità di Antigone a prestare ascolto all’editto col quale Creonte disponeva di lasciare insepolto il cadavere di Polinice non scaturisce affatto da una presunta disobbedienza «assoluta» della figlia di Edipo, da una riottosità indiscriminata verso l’autorità statuale. È, invece, conseguenza dell’ascolto che ella presta ad altre voci, antagoniste rispetto al decreto del sovrano. Antigone disobbedisce proprio in quanto obbedisce.
La disobbedienza è dunque solo l’altra faccia dell’ obbedienza . Ne consegue che non si è mai unilateralmente «obbedienti» o «disobbedienti», perché si è sempre contemporaneamente l’una cosa e l’altra. Non si ascolta una voce, perché si ascolta un’altra voce. Bisogna far intendere ai giovani, scriveva don Lorenzo Milani nel 1965, «che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni». Il parroco di Barbiana avrebbe dovuto aggiungere che, nel caso concreto al quale si riferiva, quello di alcuni giovani che avevano rifiutato la chiamata alle armi, la loro «dis-obbedienza» esprimeva la scelta di «porsi all’ascolto» di una voce alternativa, rispetto a quella delle forze armate.

Corriere La Lettura 21.12.14
La fedeltà non è una colpa
Un sentimento trascurato e spesso disprezzato
Dal malcostume politico. E dai cittadini
di Michele Ainis


La fedeltà è una categoria etica, non giuridica. In qualche modo è pure un sentimento, come la gelosia, che ne costituisce l’immagine rovesciata. E al cuor non si comanda, come dichiara un vecchio adagio. O almeno non si comanda con le regole stampate nei caratteri di piombo delle Gazzette ufficiali. Perché il diritto reclama l’obbedienza, non l’amore. O invece no? O c’è viceversa una dimensione amorevole, c’è un timbro sentimentale che risuona sfogliando codici e pandette? Qual è l’atteggiamento del diritto verso il tradimento? E in che modo l’ordinamento giuridico reagisce alla menzogna dei politici, di cui è intessuta — oggi come ieri — la nostra esperienza quotidiana? Come diceva Bismarck, «non si mente mai così tanto come prima delle elezioni, durante la guerra e dopo la caccia». Eppure nessun uomo di Stato è andato in galera per le sue false promesse elettorali. Significa che l’infedeltà politica deve ritenersi giuridicamente irrilevante? Che il diritto e la morale vivono in stanze separate?
Dipende dalla prospettiva, dall’angolo visuale. Dipende inoltre dalla norma su cui volgiamo gli occhi. Se i nostri governanti fossero davvero i nostri dipendenti — secondo un ideale che risale ai Greci, ma che l’umanità non ha mai saputo coltivare — potremmo citarli in giudizio a giorni alterni: l’articolo 2105 del codice civile sancisce infatti l’obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro. Se poi fossimo sposati con l’intero Parlamento (una sciagura), varrebbe l’articolo 143: «Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà». Dunque è falso che il diritto rimanga indifferente rispetto al tradimento, che non distingua tra i fedeli e gli infedeli. È falso che il portone della legge resti chiuso quando bussano gli amanti. Quest’ultimo articolo del codice civile spalanca una finestra, e da lì la cittadella del diritto s’apre alla città del cuore.
Quanta letteratura è stata consumata per descriverla! E quante coppie d’amanti celebri popolano la nostra memoria collettiva! Elena e Paride (Omero, Iliade , libro III). Paolo e Francesca (Dante, Inferno , canto V). Altre storie e leggende medievali, come quelle incentrate su Lancillotto e Ginevra, o su Tristano e Isotta. Il triangolo adulterino rappresenta un topos dell’invenzione letteraria, dalle forme più nobili e più antiche a quelle popolari. Come la sceneggiata napoletana, forse l’espressione più vicina alle sceneggiate che ci elargisce la politica (Isso, Issa e ‘O Malamente come Prodi, D’Alema e Berlusconi?). Ma certo i suoi fasti maggiori si celebrarono durante l’Ottocento. Quattro romanzi, quattro capolavori ineguagliati: Goethe, Le affinità elettive (1809); Flaubert, Madame Bovary (1857); Tolstoj, Anna Karenina (1877); Fontane, Effi Briest (1894). Ma dopo d’allora l’adulterio finisce sotto un cono d’ombra, perde il suo ruolo centrale nella vita romanzata, non desta scandalo nella vita vissuta. Con la rivoluzione dei costumi, il nostro tempo ha lasciato svaporare la carica eversiva dell’infedeltà amorosa.
E l’infedeltà giuridica? E l’infedeltà politica? A leggere l’articolo 54 della Costituzione, la macchina del tempo ci fa viaggiare indietro di due secoli, ci trasporta nel bel mezzo dell’Ottocento: «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica». Ecco dunque una riprova — la più solenne, perché alberga al massimo livello dell’ordinamento — di come la fedeltà non venga affatto espulsa dal diritto italiano. Anche se lì per lì l’approvazione della norma fu molto contrastata. Due costituenti (Rodi e Condorelli) eccepirono che al dovere di fedeltà non avrebbe mai potuto accompagnarsi una sanzione, se non in foro conscientiae ; altri aggiunsero, senza mezzi termini, che la disposizione era pleonastica, retorica e in conclusione vuota. Ciò nonostante, i primi interpreti della Costituzione la presero fin troppo sul serio; e così per esempio Carlo Esposito, in un saggio del 1954, giunse a sostenere che la regola in questione legittimasse provvedimenti repressivi nei confronti delle opinioni antidemocratiche.
Quella tesi fu sconfitta, e meno male. Altrimenti l’Italia sarebbe diventata una caserma, la libertà di parola una chimera. Non c’è un vincolo ideologico che lega gli italiani al loro Stato; c’è solo un vincolo giuridico. Come ha scritto Paolo Barile nel 1984, il dovere di fedeltà impone l’obbedienza alla Costituzione e alle leggi, «dalle quali si può dissentire, ma alle quali, socraticamente, si deve obbedire». Sta di fatto però che dopo appena quattro anni la Consulta — con una sentenza celeberrima (n. 364 del 1988) — demolì il dogma dell’obbedienza incondizionata alle leggi, quale si esprime nell’antica massima Ignorantia iuris non excusat . No, l’ignoranza del diritto scusa, disse la Corte: scusa quando è inevitabile, ed è inevitabile quando le leggi vengono scritte in ostrogoto, quando lo Stato sorprende la buona fede dei cittadini attraverso comandi incomprensibili.
Da qui una doppia conseguenza. Primo: il concetto di fedeltà — già nella sua radice etimologica — ospita in sé la fede, l’affidamento, la fiducia. Non a caso il principio di buona fede costituisce un pilastro della tradizione giuridica occidentale. E non è casuale neppure l’assonanza fra «legale» e «leale»; altrimenti — dice Pericle ad Alcibiade, in un dialogo che ci ha trasmesso Senofonte — la legalità sleale diverrebbe una sopraffazione. Ma il dovere di lealtà non vale unicamente per il cittadino nei riguardi dello Stato; vale pure per lo Stato. E lo Stato che reclama fedeltà è a sua volta infedele, ci ha traditi mille volte.
Le prove? Basta contare le leggi retroattive, che stabiliscono una prestazione oggi per ieri, quando ieri non potevamo adempiervi, mica abbiamo la palla di vetro. O le leggi che determinano effetti retroattivi senza dichiararlo, anzi dichiarandosi ipocritamente leggi d’interpretazione «autentica» (furono appena 6, nei primi quarant’anni del Regno d’Italia; ne sono state battezzate 150, nei primi quarant’anni della Repubblica). Basta enumerare le leggi in frode ai referendum (come quella del 1997 che ha gonfiato il finanziamento pubblico ai partiti, benché gli elettori nel 1993 l’avessero soppresso). Basta evocare le promesse che il legislatore non mantiene (tu apri una fabbrica in Calabria perché t’alletta il contributo pubblico, che poi viene abrogato). O altrimenti basta aprire il capitolo della fedeltà fiscale. Tradita dagli evasori, dai contribuenti disonesti. Ma altrettanto spesso tradita dallo Stato. Succede quando fioccano i condoni, e i fiocchi cadono sul naso a chi invece aveva pagato le tasse come un grullo. Succede quando il fisco ci inganna, ci vessa, ci tormenta con pretese che farebbero spazientire san Francesco. In questi casi viene infranto il patto di lealtà fiscale, che una legge del 2000 (lo Statuto del contribuente) sbandiera ai quattro venti. E lo Stato sleale è uno Stato infedele.
Da qui il secondo frutto avvelenato. Sarà coda di paglia, ma lo Stato infedele rinunzia a pretendere la fedeltà dai cittadini. Il dovere di fedeltà si tramuta perciò, ben presto, nel diritto all’infedeltà. Nel 1969 una sentenza costituzionale si sbarazza del reato di adulterio, anche perché il codice Rocco lasciava indenne l’adulterio maschile. Nel 1993 un decreto abroga le sanzioni che fin lì colpivano quanti si fossero sottratti al dovere di votare (c’era perfino l’obbligo di giustificarsi, come scolaretti, presso il sindaco). Anche i votati, d’altronde, si liberano dei propri doveri. Nel teatro della politica va in scena la Grande Transumanza — uno spettacolo che ci ha sempre allietato, negli anni ruggenti della seconda Repubblica. Non si contano i parlamentari che cambiano partito un minuto dopo le elezioni, lasciando con un palmo di naso gli elettori. Anzi si contano: già 160 durante quest’anno e mezzo di legislatura, la stessa cifra della legislatura scorsa, che però fu lunga un quinquennio. Certo, il trasformismo descrive un’antica malattia italiana. Risale ai tempi di Depretis, sul volgere dell’Ottocento. Sennonché allora veniva biasimato, come mostra un passo di Carducci: «Trasformismo, brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri». Oggi invece viene tollerato, talvolta incensato. Anzi: non è più trasformismo, è scouting .
C’è sempre una parola d’ordine dietro la quale si trincera l’infedele: obiezione di coscienza. Anche se la nostra Carta non le dedica un rigo, a differenza di altre Costituzioni (Spagna, Giappone, Germania e via elencando). Anche se i costituenti italiani rifiutarono d’introdurvi il diritto di resistenza contro gli atti illegittimi dell’autorità (che c’è invece, per esempio, in Portogallo e in Grecia). Ma la legislazione successiva ne ha sancito il trionfo. La prima legge a riconoscerla fu quella sull’obiezione al servizio militare, nel 1972. Dopo di che altre leggi hanno moltiplicato gli obiettori, dalla sperimentazione animale all’aborto o alla fecondazione assistita. E qui c’entra ben poco Antigone, murata viva in una grotta da Creonte per essersi ribellata alla giustizia umana, obbedendo alla legge non scritta che pulsa nelle coscienze individuali. C’entra piuttosto la torsione della libertà in licenza, c’entra l’eclissi della fedeltà. Nel diritto come in politica o in letteratura, la fedeltà si è trasformata in una colpa.

Corriere La Lettura 21.12.14
1915-2015, è l’ora di fare giustizia
Per fare i conti con il passato prima occorre riabilitare le vittime delle esecuzioni sommarie
di Antonio Polito


Meno male che c’è la prova d’appello del 2015. Eh sì, perché il «nostro» anniversario della Grande guerra arriva un anno dopo, l’anno prossimo, esattamente il 24 maggio (quando il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei nostri fanti). E dunque c’è speranza che si risvegli una riflessione politica e culturale su quello che è stato, seppur mezzo secolo dopo l’Unità, un atto fondativo della nazione Italia.
Nonostante l’interesse dei media, le istituzioni hanno finora guardato quasi con indifferenza a questo centenario. Al Sacrario di Redipuglia, dove sono sepolti i morti nel fango del Carso, c’è andato il Pontefice, ma non il premier. Altri Paesi, come la Francia e il Regno Unito, hanno un rapporto più risolto con la loro memoria. In fin dei conti, per i francesi è l’ultima guerra veramente vinta, e per gli inglesi quella più dolorosa. Chiunque si sia trovato a Londra alle ore 11 del giorno 11 dell’undicesimo mese dell’anno, e abbia assistito al minuto di silenzio che ferma spontaneamente e letteralmente tutto il Paese, sa che significato ha tuttora per quel popolo l’armistizio che mise fine alla Grande guerra.
Noi italiani invece, pur avendola vinta, non amiamo ricordarla. Ci sono almeno tre buone spiegazioni di questa rimozione collettiva. Ed è proprio su di esse che varrebbe la pena di riaprire un dibattito nazionale.
La prima ragione è il pacifismo-irenismo che è diventato la religione civile della nostra cultura popolare. Ogni guerra è ingiusta, figurarsi quella marchiata a fuoco da Benedetto XV come un’inutile carneficina, e che nella storiografia viene sempre più presentata come il frutto di un impazzimento collettivo, la conseguenza irrazionale del comportamento di un gruppo di Sonnambuli , secondo il titolo del fortunato bestseller di Christopher Clark (Laterza). Come sostiene Mario Silvestri nello splendido Isonzo 1917 (Bur), un grande libro di storia scritto da un grande profano (l’autore era un docente di Impianti nucleari del Politecnico di Milano), nel discutere della Grande guerra «siamo ancora sotto il ricatto dell’enorme sacrificio compiuto», e della convinzione che «tale sacrificio fu sterile, anzi devastatore, che i caduti morirono invano e per ragioni ingiuste». Eppure, ciò nonostante, il nostro sentimento dovrebbe essere quello così ben riassunto da uno scrittore francese: «Odio la guerra, ma amo coloro che l’hanno fatta».
È infatti amore ciò che non può non sentire chi provi oggi a fare i conti con la memoria di quegli uomini, leggendo la vasta letteratura che — anche grazie all’iniziativa editoriale del «Corriere» — ha raggiunto le librerie e le edicole; o anche solo visitando i luoghi nei quali la tragedia si è consumata. Sono stato in pellegrinaggio quest’estate sul Pasubio, nel Trentino, dove si è combattuta per anni una guerra di così alta quota come mai prima e mai dopo nel mondo, tra la neve e il ghiaccio, prima che tornassero i prati, per parafrasare il titolo del film di Ermanno Olmi; una guerra nella quale, ancor più che il nemico, i Kaiserjäger , alpini austriaci, si sfidava la natura. Ebbene, basta guardare dal basso il Canalone Battisti, la stretta gola lungo la quale l’irredentista trentino si inerpicò con un centinaio di uomini, trascinando su una pendenza impossibile armi, artiglieria e muli, solo per essere catturato dagli austriaci una volta in cima e poi impiccato come traditore; basterebbe quella storia per amare chi ha fatto la guerra. E per chiedersi perché mai di Battisti, di Damiano Chiesa, di Fabio Filzi, nomi che ancora affiorano dalla mia memoria di scolaro alle elementari, oggi non parli più nessuno.
Averli amati poco, questi eroi per scelta o per caso, fu del resto la colpa all’origine della seconda causa di questa rimozione collettiva: il fascismo. È anche per reazione all’enfasi retorica che il regime mise sulla Vittoria, ben testimoniata proprio dalla magniloquenza del Sacrario di Redipuglia, che oggi ne abbiamo pudore. È come se la coscienza democratica del Paese temesse ancora di confondere la memoria e il rispetto per i caduti con un cedimento alla propaganda nazionalista di Mussolini. Eppure fu proprio per non aver saputo amare quegli ex combattenti, quei reduci, la generazione più mutilata della storia, che perse gambe, braccia, mani, occhi, talvolta perfino il volto, perché scagliata come carne da macello contro la più letale artiglieria della storia, che in Italia il mito della «vittoria mutilata» venne regalato all’autoritarismo fascista (a proposito di mutilazioni, è da leggere l’inquietante Ci rivediamo lassù , romanzo di Pierre Lemaitre uscito quest’anno da Mondadori).
Ma per amare coloro che hanno fatto la Grande guerra bisognerebbe infine, e forse innanzitutto, riparare a un grande torto, riconoscendo formalmente le atrocità commesse nei confronti dei soldati italiani dai comandi militari. In due saggi di grande successo editi quest’anno da Mondadori, La guerra dei nostri nonni di Aldo Cazzullo e Italiani voltagabbana di Bruno Vespa, si riapre questo dolorosissimo capitolo.
L’occasione del centenario italiano deve essere usata per avviare un rigoroso processo storico di riabilitazione delle tante vittime innocenti di una disciplina militare sanguinaria, che credeva di poter forgiare una forza combattente con la minaccia delle esecuzioni, e giustificare ogni sconfitta scaricandone la colpa sulla vigliaccheria o il tradimento della truppa. Era un’epoca in cui dominavano le teorie militari del colonnello francese de Grandmaison, che predicavano l’«attacco a oltranza», l’offensiva per l’offensiva, l’assalto alla baionetta contro una potenza di fuoco mai vista prima sui campi di battaglia. La dottrina che portò nel 1916 alla follia di Verdun, descritta da Alistair Horne nel suo Il prezzo della gloria (Bur). E dunque chiunque esitava, o anche solo ragionava, prima di andare incontro a morte certa (l’80% della fanteria italiana di prima linea è deceduta in combattimento), veniva punito, e ogni insubordinazione sanzionata con la fucilazione.
Vespa cita statistiche che assommano a 200 mila imputati per diserzione, 170 mila condannati, e 750 condanne a morte eseguite in Italia, le più numerose tra i Paesi belligeranti; cui vanno aggiunte almeno trecento esecuzioni sommarie e migliaia di vittime di decimazioni molto spesso scelte a sorteggio («Ho dato disposizione che alcuni soldati, colpevoli o no, fossero passati per le armi», scriveva il Duca d’Aosta, comandante della Terza Armata). Capitò perfino a uomini appena arrivati al fronte di essere puniti per atti di diserzione cui non potevano aver partecipato (Cazzullo racconta un processo farsa non dissimile da quello narrato da Stanley Kubrick nel suo Orizzonti di gloria ). Il ministro Roberta Pinotti ha insediato di recente una commissione «per far luce sui soldati italiani fucilati, vittime di singole esecuzioni o di decimazioni sommarie effettuate sul posto, senza processo». Il Pd ha presentato una proposta di legge. È un buon inizio. Nessun discorso nazionale sulla Grande guerra può infatti cominciare senza una solenne riconciliazione della Repubblica con i discendenti e le famiglie dei soldati il cui nome è stato infangato ingiustamente. Amare è prima di tutto rendere giustizia.

Il Sole Domenica 21.12.14
Storia naturale della mente umana
Prima si coopera, poi si parla
L'interazione sociale cooperativa distingue gli esseri umani, fin dalla più tenera età, anche dalle scimmie antropomorfe, gli animali che più ci somigliano
Michael Tomasello dimostra che non sono linguaggio e cultura a renderci unici ma quella che lui chiama intenzionalità condivisa
di Giorgio Vallortigara


Che cosa rende speciale il pensiero degli esseri umani? Molti scienziati stanno cercando la risposta direttamente nel cervello. Tuttavia, almeno fino ad oggi, l'individuazione di qualcosa che renda unico il nostro sistema nervoso rispetto a quello degli altri animali è risultata difficile. Varie ipotesi si sono succedute. Per esempio, quella per cui solo il nostro cervello possiederebbe un'intrinseca asimmetria di funzioni, con la parte destra e sinistra intente a svolgere compiti differenti. Oggi sappiamo che l'asimmetria di funzioni è presente persino in Caenorhabditis elegans, un nematode vermiforme di un millimetro di lunghezza che possiede poco più di trecento neuroni.
In maniera simile, abbiamo imparato che la celebrata grandezza del cervello umano è in effetti né più né meno quella che ci si deve aspettare per un primate della nostra taglia, e l'idea che alcune specifiche porzioni del cervello, come i lobi frontali, siano sproporzionatamente espanse rispetto a quelle delle grandi scimmie è stata fatta a pezzi recentemente da ricercatori come Robert Barton dell'Università di Durham.
Qualche anno fa un nuovo brivido aveva percorso la comunità scientifica, con la scoperta (o meglio la riscoperta) di una varietà di cellule nervose dall'aspetto fusiforme, dette neuroni di von Economo (dal nome dell'anatomico viennese, cresciuto a Trieste, che per primo le osservò nel 1929), che sarebbero presenti solo nel cervello umano (perlopiù nella corteccia cingolata anteriore e insulare). Di lì a poco, tuttavia, i neuroni di von Economo sono stati trovati nei cervelli delle grandi scimmie. Al che si è argomentato che soltanto gli esseri umani e le grandi scimmie possiederebbero i neuroni di von Economo, proprio perché questi neuroni hanno a che fare con la vita sociale e forse anche con la coscienza. Poi si è scoperto che sono presenti anche nei cervelli degli elefanti e delle balene. Forse allora si trovano solo nei cervelli grandi? Macché! Sono stati osservati pure nei cervelli dei macachi reso (seppure più minuti d'aspetto) e degli ippopotami pigmei…
Alcuni studiosi sono andati in cerca di maggior fortuna concentrandosi sugli aspetti funzionali dell'attività mentale, rinviando la soluzione del problema dell'individuazione delle loro basi cerebrali. È il caso dello psicologo Michael Tomasello, condirettore dell'Istituto Max Planck per l'Antropologia Evoluzionistica di Lipsia, in Germania, che da anni studia comparativamente l'attività cognitiva delle grandi scimmie (scimpanzé, bonobo, gorilla, oranghi), delle scimmie e dei piccoli degli esseri umani. Tutte queste creature hanno in comune il fatto di non possedere (o nel caso degli infanti e dei bambini di possedere solo in fieri) un'abilità per il linguaggio. Si tratta di capire quali adattamenti, se ve ne sono, abbiano reso possibili forme uniche del pensiero umano, precedendo o accompagnando lo sviluppo linguistico.
Il lavoro condotto da Tomasello e dai suoi collaboratori suggerisce che le antropomorfe siano capaci di comprendere, in una certa misura, gli altri individui come agenti intenzionali. Una serie di celebri esperimenti in cui due scimpanzé, uno dominante e uno subordinato, avevano entrambi accesso visivo a del cibo oppure questo era visibile solo al subordinato, perché nascosto al dominante da una barriera, hanno mostrato come il subordinato sia in grado di regolare il proprio comportamento inferendo che l'altro, il dominante, «vede», «sa» e, come notava Hannibal Lecter, «desidera».
Gli esseri umani, però, non si limitano a comprendere gli altri come agenti intenzionali, ma si uniscono agli altri per realizzare forme d'intenzionalità condivisa, per risolvere assieme i problemi. Quando gli individui collaborano creano assieme scopi congiunti e attenzione congiunta, con la conseguente necessità di coordinare i punti di vista individuali.
La cognizione sociale dei primati non umani si è evoluta fondamentalmente nel contesto della competizione per le risorse all'interno del gruppo (cibo, partner sessuali e così via). L'idea di Tomasello è che gli esseri umani posseggano però una forma di pensiero unica, l'intenzionalità condivisa, che sarebbe sorta in relazione ad adattamenti volti a risolvere problemi di coordinamento sociale, che emergono quando gli individui cercano di collaborare con gli altri anziché di competere.
La complessità delle capacità cognitive degli esseri umani potrebbe essere il risultato della complessità della loro vita di relazione. In tal caso, lo scenario evolutivo dovrebbe implicare la selezione delle capacità cognitive in qualche altro dominio e la sua successiva estensione all'ambito dei problemi sociali. I bambini di età prescolare non mostrano però grandi differenze rispetto alle scimmie antropomorfe nella risoluzione di problemi fisici, mentre le surclassano nel caso di problemi che riguardano la sfera sociale. È plausibile perciò, secondo Tomasello, che pressioni ecologiche quali il venir meno della necessità di procurarsi il cibo individualmente e la concorrenza esercitata da altri gruppi abbiano agito sullo sviluppo delle relazioni sociali di Homo sapiens favorendo l'evoluzione di modi di vivere fondamentalmente più cooperativi (raccolta cooperativa di cibo, cura cooperativa dei piccoli, forme cooperative di comunicazione e insegnamento, difesa cooperativa del gruppo) che richiedevano abilità cognitive fondate sull'intenzionalità congiunta.
In questa storia naturale della mente umana il linguaggio è stato importante secondo Tomasello, ma sarebbe entrato in gioco relativamente tardi, grazie agli adattamenti preesistenti per l'intenzionalità congiunta. Creature preculturali e prelinguistiche come i bambini di pochi mesi d'età possiedono caratteristiche che li differenziano nettamente dalle scimmie antropomorfe, suggerendo perciò che la peculiarità del pensiero umano non discenda tanto dal linguaggio e dalla cultura, bensì dai processi d'interazione sociale cooperativa unici della nostra specie, processi che han reso possibili il linguaggio e la cultura.

Michael Tomasello, Unicamente umano. Storia naturale del pensiero, traduzione di Maurizio Riccucci, Il Mulino, Bologna, pagg. 230, € 16,00

Il Sole Domenica 21.12.14
Fedele alle proprie scelte
Roberto Escobar tratteggia la figura di Don Giovanni: non come libertino, ma come un filosofo, eroe senza finalità
di Armando Torno


C'è stata una lunga stagione, dalla fine degli anni Ottanta agli inizi dei Duemila, sotto le direzioni di Locatelli, Carrubba e Auci, in cui "due Armandi", l'uno caporedattore, l'altro semplice redattore, hanno cooperato assiduamente per arricchire la Domenica dei temi che ancora oggi trovate di consueto: i classici del pensiero, della letteratura e della scienza, con un'attenzione per il modo in cui essi possono parlare al mondo attuale, magari rendendolo un po' più saggio e consapevole. Uno dei due, allora alle prime armi, è l'attuale responsabile del supplemento ed è grato ad Armando Torno di aver accettato la proposta del direttore Roberto Napoletano di tornare a collaborare per la Domenica, da lui in quegli anni sapientemente diretta. Ecco il suo primo articolo.
Armando Torno
Don Giovanni non ha una data di nascita precisa. C'è chi suggerisce il 1616, tempo in cui Tirso de Molina è a Siviglia, ma il lieto evento potrebbe essere accaduto nel 1623, a Madrid; altri indicano il 1625, in quel di Napoli. Si può giocare tra un palcoscenico e l'altro, anticipando i tempi o arrivando sino al 1629, giacché nel 1630 la stampa de El Burlador de Sevilla y Convidado de piedra vede la luce tra le opere attribuite a Tirso. Filologi ferratissimi riescono a trovare dei "predongiovanni" nel Cinquecento. Di certo sappiamo che a quattro secoli dalla sua comparsa il celebre "Burlador" gode di buona salute. Cacciari definì Amleto un politico, Roberto Escobar – filosofo della politica, dottissimo nel cinema – considera Don Giovanni il propugnatore della fedeltà a se stessi.
Ortega y Gasset lo vide come «eroe senza finalità», Escobar sottolinea che il suo nemico più insidioso si cela «dentro di noi, suoi lettori e spettatori, e dentro chi ne racconta e ne mette in scena l'avventura». Per un semplice motivo: «Se lo banalizziamo, se ne facciamo un dongiovanni, se ci ostiniamo a migliorarlo come pie Donna Elvira, se gli inventiamo patetiche velleità di pentimento, allora davvero rischia di morire». Sino a ora lo hanno tenuto vivo la nostra invidia e, sovente, la sconfinata ammirazione che ha riscosso. Certo, è anche un mito. Nel saggio di Roberto Escobar, La fedeltà di Don Giovanni, (il Mulino, Bologna, pagg. 166, € 16,00), si scopre che egli continua ad alimentare le leggende di cui si nutrono le vite. Un esempio tra i tanti possibili, eccolo nel film Don Juan di Alan Crosland del 1926, il primo con commento musicale ed effetti sonori sincronizzati all'azione: il quarantaquattrenne John Barrymore bacia 191 donne in 110 minuti, computo assicurato più dalla leggenda che dalle somme aritmetiche delle intimità. E poi Don Giovanni sfugge, soprattutto a taluni scrittorelli capaci di un solo romanzetto, forse continua a rifugiarsi in preziose pagine come quelle che Kierkegaard gli dedicò in Enten-Eller: nel suo eros tutto si sublima e si scorge l'ombra di Dio. Il Don Giovanni di Mozart resta l'opera più enigmatica del sommo musicista. Mettendola in scena nel 1987 alla Scala Strehler, maestro di regie, urlò a Muti alla fine della prova generale (e il celebre direttore ricorda sovente quelle parole): «Caro Riccardo, di Don Giovanni non abbiamo capito un c...». Eppure quell'edizione, con Carlo d'Inghilterra nel palco reale, resta tra le memorabili. Strehler non era uno sprovveduto e ben conosceva quanto Eckermann scrisse nei Colloqui con Goethe, dove si rammenta che il sommo letterato si irritava udendo la frase «Mozart ha composto il Don Giovanni», perché intendeva l'opera quale sintesi «di una creazione spirituale: le singole parti come il tutto sono compenetrate da un solo spirito, da un solo impeto, dal soffio di una vita sola». Don Giovanni, evidenzia Escobar, non è semplicemente un seduttore o un uomo che ama il peccato, egli resta il «campione di una scelta» filosoficamente libertina. Per dirla in breve, antepone desiderio, dignità e ragione alla tracotanza «di pietra» di un Convitato che rappresenta l'assoluto extraumano, o forse antiumano. Victor Hugo, non a caso, nella prefazione al suo Cromwell lo definisce «filosofo».
Di contro, quel dissoluto di Lord Byron lo ritrae ribelle, deluso e scrive per lui una satira epica negli ultimi anni di vita. Sghignazza nelle ottave, sceglie il comico. Per esempio, mette in bocca a donne attempate la scorrettissima domanda: «Perché non sono cominciati gli stupri?».
Don Giovanni, però, non ha mai stuprato. Ha sempre pagato – ed Escobar lo prova – la fedeltà che ha avuto per sé e per le proprie scelte.
Non è semplicemente un femminiere come Lorenzo Da Ponte, il librettista di Mozart, caso mai assomiglia in taluni giorni a Casanova che per conquistare le grazie di una donna era disposto a comprarle una casa e invitare a pranzo i parenti. A volte si è stancato, come accadde nel Settecento, quando – attendendo Mozart – strascicava i piedi sulle scene, demotivato, senza un guizzo. Nemmeno Goldoni riuscì a ravvivarne le avventure nel 1736, al Grimani di Venezia, dove fu rappresentato il suo Don Giovanni Tenorio o sia Il Dissoluto, opera in cui la statua del Commendatore venne sostituita da un colpo di fulmine (comunque resuscitò Donna Anna, soppressa da Molière).
Ora accade il contrario: il personaggio fedele a se stesso corre in aiuto alle opere del nostro tempo che sembrano concepite per non restare nella memoria. Si chiede aiuto a lui. Lo fece con charme e grazia anche una quarantenne Brigitte Bardot, vestendone i panni femminili in Una donna come me di Roger Vadim (1973); di certo Totò ne ha compreso più di altri la lezione, interpretandolo prima a teatro (Se fossi un Don Giovanni, 1938), poi alla televisione con un Don Giovannino nel 1967 (regia di Daniele D'Anza). In esso i tanti Commendatori, di pietra o con una divisa, furono sbugiardati e resi ridicoli. Finalmente.

Il Sole Domenica 21.12.14
Giacomo Noventa
Resistenza come dubbio fecondo
Pensatore eretico, cattolico, antifascista, critico con tutti gli schieramenti e con Togliatti che definiva il suo partito come quello degli onesti
di Filippo La Porta


La Resistenza è stata l'unica rivoluzione nel nostro Paese, indirizzata contro «l'indifferenza popolare italiana», un trovarsi insieme da parte non di «uomini tutti d'un pezzo» ma di persone comuni anche molto diverse tra loro, unite da una esigenza di profondo rinnovamento. Ah, se questo luminoso libretto di Giacomo Noventa – Tre parole sulla Resistenza (Castelvecchi, Roma, pagg. 72, € 9,00), scritti della fine anni '40 e anni '50 – fosse stato adottato nelle nostre scuole! Avremmo evitato tutta la vaporosa retorica resistenziale. L'autore vi distingue tra antifascismo, che «procede da una certezza», e Resistenza, la quale invece procede da un dubbio, e si interroga incessantemente sulle ragioni della violenza. Il primo è «virtuistico», pretende cioè di separare il bene e il male dentro il singolo, la seconda «è virtù, morale politica» (e ogni morale politica è tragica). C'è una frase che suona come attualissimo aforisma: «Nessun partito deve pretendere di essere il partito degli onesti», e, di seguito, «il primo dovere di ogni uomo politico è quello di combattere i disonesti» e «il modo più efficace di combatterli è quello di riconoscere gli onesti che esistono necessariamente in tutti partiti». Noventa, grande poeta e saggista originale, scomparso nel 1960 a 62 anni, è stato un pensatore eretico, "dilettantesco", di orientamento cattolico (ispirato al magistero di Dante, per lui «penalizzato» da De Sanctis), fortemente polemico sia verso la poesia ermetica e sia verso la filosofia dominante (Croce e Gentile), critico della modernità. Celebre la sua formula illuminante a proposito del fascismo: non errore contro la cultura ma «errore della cultura», la quale è poi l'idealismo italiano (storicismo, soggettivismo, stato etico…).
In qualche modo accostabile a un grande spirito laico come Nicola Chiaromonte (parallelismo suggerito da Daniela Marcheschi in Nessuno è poeta), Noventa si era formato a Torino negli anni '20, dentro l'alveo gobettiano, poi l'incontro con Maritain, l'esperienza del confino, e dopo la guerra l'avvicinamento alla rivista «Comunità» di Adriano Olivetti. Negli anni '50, quando escono le sue opere principali, continua a inseguire l'ircocervo del l'unione di cattolicesimo liberale e socialismo democratico, sviluppando temi già formulati dalla rivista «Riforma letteraria» diretta da lui e Carocci a metà degli anni '30. Non è semplice riassumere il pensiero noventiano. Non perché sia "complicato" (si potrebbe definirlo popolare-aristocratico), ma perché si oppone frontalmente alla filosofia del proprio tempo e preferisce "mostrare" le proprie idee più che dimostrarle.
Nel libro c'è un capitolo su una polemica Bobbio-Togliatti, in cui Noventa sottolinea l'ambiguità togliattiana verso «gli amici del comunismo», la pretesa rivolta a costoro di separare la politica attuale dalla dottrina comunista che riguarda il futuro. Ma il motivo dominante in queste pagine è proprio l'idea di Resistenza e, a essa connessa, quella del fascismo. Ora, dire che il fascismo è stato, «qualche volta, un errore e una colpa dei migliori», o rifiutarsi di definirlo un movimento «vuoto di pensiero, di cultura e di storia» non vuol dire assolverlo. Il fascismo è però stato "un male" e non "il male", e un male da combattere anzitutto dentro di sé, come aveva puntualizzato anche Carlo Levi (viene in mente, solo per una mera analogia che non intende istituire alcuna somiglianza storica, Giorgio Gaber: «Non mi fa paura Berlusconi in sé ma Berlusconi in me…»). Fino a un certo punto Noventa potrebbe condividere l'immagine gobettiana del fascismo come autobiografia della nazione, ma vi aggiunge una deduzione fondamentale: ciò significa «sentirsi corresponsabili degli errori e dei delitti» da esso compiuti. Insistere poi sulla fallibilità dell'essere umano, sulla compresenza di bene e male nella nostra natura – come fa Noventa – non significa rinunciare a lottare per il bene. Ma solo sapere che nessuna politica potrà creare l'uomo nuovo né darci il paradiso in terra, e che i propri avversari non sono criminali o moralmente inferiori. «Ah, deme, allora, de novo i tempi!,/ che mi no gero rivolto in mi»

Il Sole Domenica 21.12.14
Knut Hamsun (1859-1952)
Sentieri impietosi
Premio Nobel norvegese, appoggiò Hitler, fu processato e poi internato. Da quella vicenda il suo ultimo libro
di Marta Morazzoni


Knut Hamsun ha ottantasei anni nel 1945, quando mette mano alla sua ultima opera Per i sentieri dove cresce l'erba. È un vecchio sordo, ci vede male, ed è l'imputato di un processo in cui è coinvolta anche la moglie Marie. Tre anni dopo, il giorno di San Giovanni, il processo si chiude con la sentenza che condanna lo scrittore per tradimento alla patria, cui deve un risarcimento di 425.000 corone. Hamsun è stato l'orgoglio della Norvegia, non solo perché nel 1920 ha vinto il Nobel per la letteratura, ma perché le sue opere, su tutte Fame, sono considerate dei capolavori. Ma si è messo dalla parte sbagliata prima e durante la Seconda guerra mondiale: odiando profondamente il mondo anglosassone, ha creduto di vedere in Hitler il fondatore di un pangermanesimo che aprisse a una nuova umanità in cui la Norvegia avrebbe avuto un posto di primo piano. La realtà dell'occupazione nazista, la violenza della repressione di cui il reichkommisar Terboven è responsabile, le vittime di una tenace resistenza: tutto sembra arrivargli come un'eco lontana, mentre lui continua a immaginare una rinascita del suo Paese attraverso la Germania hitleriana. Fu, anche se sembra un eufemismo atroce, un terribile malinteso, di cui Hamsun si assunse la responsabilità, mentre il suo Paese, indignato e sconvolto, ne cercava le ragioni in una probabile follia, in una senilità aggravata dalla sordità. La cercarono lì anche i giudici, a dispetto delle dichiarazioni di piena consapevolezza dell'imputato. Da quel 24 giugno 1948 Hamsun sarebbe vissuto per altri quattro anni, senza più scrivere una riga. Ma nell'attesa della sentenza del processo, passando per cliniche psichiatriche, ricoveri per vecchi e ospedali, compone il suo ultimo lavoro, e non intende farne un testamento o una confessione. È altra la prospettiva del suo scrivere. Difficile collocare quest'opera in un genere; la parola "romanzo" non rispecchia con esattezza le cento facce della trama dei tre anni di attesa, una trama composta dalle tessere di una quotidianità lenta, umiliante, dentro cui si insinuano micro osservazioni e squarci del passato. Qui trovano spazio evocazioni, notazioni diaristiche, racconti brevi e memorie incuneate tra le considerazioni di un vecchio tra i vecchi, ma dalla mente vigile.
Nei tre anni di un'anomala prigionia Hamsun annota i passi, dai più insignificanti ai decisivi, non ultima la sua difesa al processo; annota la reazione della gente a lui, l'idolo che li ha traditi, ne sente il ripudio e insieme, quasi a loro dispetto, l'incancellata stima per lo scrittore. È una carrellata di figure che entrano per un momento nel suo cerchio magico, e forse ne intuiscono quel che viene difficile definire la sua buona fede. Sullo stillicidio dei giorni raccontati con puntualità, vissuti ora con pazienza, ora con insofferenza a mala pena domata, di colpo si alza la voce del grande scrittore, un timbro solenne, shakespeariano: è il suo sguardo sulla condizione umana. Nella vecchiaia che vive sotto il marchio di infamia del traditore, c'è una modulata ironia, la tenerezza per le cose, l'attesa delle stagioni, una saggezza quieta dopo il furore visionario degli anni di Fame: «Siamo tutti in viaggio verso un paese che di sicuro raggiungeremo. Fretta non ne abbiamo e ci fermiamo a raccogliere le casualità che incontriamo per strada».
Il lettore di oggi ha la distanza necessaria e gli strumenti per capire la condizione obliqua di questo grande compromesso da una scelta sciagurata, e per sentirne la tragica contraddizione: nel 1978, lo scrittore danese Thorkild Hansen pubblicò un romanzo saggio sul processo e sulla figura dell'imputato, verso cui lo mosse una profonda e sofferta stima. Più rigido e tagliente il lavoro di sceneggiatura che Enquist fece per il film di Jan Troel nel 1996, protagonista Max von Sidow. Un processo iniquo a un vecchio, secondo Hansen; un giusto processo che non rinnega la qualità dello scrittore, secondo Enquist. Sulle voci diverse che si sono alzate in proposito, vale la pena di ascoltare quella di Hamsun, senza pietismi, senza inutili giustificazioni, come la testimonianza di uno iato tra grandezza d'arte e consapevolezza politica.

Knut Hamsun, Per i sentieri dove cresce l'erba, traduzione di Maria Valeria D'Avino, Ed. Fazi, Roma, pagg. 166, € 16,00
Per Elov Enquist, Processo a Hamsun, traduzione di Carmen Giorgetti Cima, prefazione di Goffredo Fofi, Ed. Iperborea, Milano, pagg. 244, € 11,50

Il Sole Domenica 21.12.14
Filosofia dell'amore / 1
Chimica della passione
Siamo sicuri che l'esperienza amorosa irrazionale, sregolata vissuta con il cuore e il fegato più che con la testa sia veramente appagante?
Forse è meglio aprire gli occhi
di Alessandro Pagnini


Vi ricordate quando, negli anni 60, qualche letterato (tra cui Pasolini) si indignò perché scienza e tecnica, favorendo i viaggi spaziali, si stavano rendendo responsabili della perdita dell'aura poetica della luna? Come si sarebbero potuti declamare con lo stesso incantato sentimento i versi leopardiani del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia? E chi avrebbe potuto più scrivere di una «solinga» luna, quando il piede umano si accingeva, oltraggioso, a calpestarla? Qualcuno, oggi, reagirà nello stesso modo di fronte a questi due libri, accomunati dall'ardito proposito di parlare d'amore nei termini che ci mettono a disposizione, in uno, la chimica e le neuroscienze, nell'altro, l'epistemologia e l'argomentazione razionale. A dire il vero, anche la letteratura la sua parte di spoetizzazione nei confronti dell'amore l'ha giocata, tollerata perché la sua è solo finzione e ironia. Come quella contenuta nella nota provocazione di Oscar Wilde che potrebbe ben figurare a epigrafe, e a conforto, del libro di Diez e Iacona: «Quando si è innamorati, si comincia con l'ingannare se stessi e si finisce con l'ingannare gli altri. E tutto questo il mondo lo chiama poesia (romance)». Fine e geniale, ma finora accettabile come motto di spirito, non certo come verità filosofica.
Consapevoli dei trascorsi poco fortunati, presso l'opinione corrente, della ricerca scientifica su certi temi, lo scienziato Larry Young e il giornalista scientifico Brian Alexander si chiedono se la conoscenza dei meccanismi biologici e cerebrali dell'amore potrebbe addirittura avere l'effetto di distruggerlo. La risposta, motivata e argomentata, che bacchetta anche le conclusioni scettiche di coloro che vedono minacciato da quella conoscenza il libero arbitrio, è senz'altro "no". Che il libero arbitrio esista o meno, non è più importante del fatto che ci comportiamo come se ne disponessimo. Noi infatti continuiamo a raccontarci storie, ed è «questo il significato di essere un membro della specie umana, in particolare una persona innamorata». Dunque, possiamo benissimo accettare l'idea che l'amore sia una forma di "dipendenza", che lo si possa ridurre a molecole di ossitocina e dopammina, a ormoni come la vasopressina, o a programmazione genetica; così come possiamo accettare che esso "serva" per massimizzare la nostra fitness evoluzionistica. Perché questo non ci impedisce di continuare ad amare (Jankélévitch diceva che «difficilmente si dà il caso che l'essere bene informati abbia disgustato un amante del proprio amore») o a raccontarci delle storie di sogni languidi, di prìncipi azzurri, di cupìdi arcieri, di libri e balconi galeotti. Tutt'al più può cambiare la tonalità emotiva con cui inventeremmo e ascolteremmo quelle storie, forse con meno spiritualità e senz'altro con più spirito. Ma così è accaduto da sempre, perché la "fenomenologia" dell'amore è profondamente cambiata nella storia del genere umano e nella storia culturale, e l'amour passion, l'amore romantico, al quale il nostro apparato affettivo-emozionale sembrerebbe legato come a qualcosa di naturale, non ne è altro che un momento (e a proposito è ancora da leggere L'amore e l'occidente di Denis de Rougemont, Rizzoli). Ed è proprio quella fenomenologia, le manifestazioni della gelosia e della seduzione, della fedeltà e del rispetto, che potrebbe essere modificata dalla conoscenza. Per esempio, come sostengono Young e Alexander, le neuroscienze sociali potrebbero «contribuire a smussare le manifestazioni più pericolose, più patologiche, dell'amore tragico», incidendo sulle modalità di relazione umana, sui valori che le normano, sulla giustezza e opportunità dei nostri comportamenti. E questa non è solo conoscenza, ma diventa anche morale e, alla fine, diritto.
Comunque, nel continuare a raccontare storie sull'amore, Young e Alexander raccomandano di stare «molto attenti a quello che diciamo di noi stessi». Non è detto che si debba dire la verità, ma è senz'altro utile saperla. La pensano così anche i logici e epistemologi Diez e Iacona: «Siccome le azioni si fondano sulle credenze è generalmente più utile avere credenze vere che avere credenze false». Le credenze amorose «sono credenze come tutte la altre»: io credo che la mia compagna non mi tradirà mai, credo che come lei non ci sia nessuno e credo anche che se non mi fa mai regali non mi ami abbastanza. Ma queste credenze sono spesso ingiustificate, non supportate da sufficiente evidenza, dettate per lo più dal volere che le cose stiano in un certo modo piuttosto che dal saperlo (la classica forma di autoinganno che si chiama wishful thinking) e più spesso da un ragionamento fallace. Qualcuno dirà che è proprio questa la "qualità" più caratteristica dell'amore: l'essere irrazionale, sregolato, vissuto più con il cuore e con il fegato che non con la testa. Se si sta bene così, nell'abbandono e nella sensualità più appagante, perché doverci ragionare sopra? Perché aprire gli occhi quando a tenerli chiusi ci si sente meglio? C'è una risposta che ha a che fare con l'etica: perché vedere le cose come stanno ci fa capire meglio quali responsabilità verso noi stessi e verso gli altri dovremmo assumerci. E dunque analizzare il "discorso amoroso" assumendo che l'amore sia, secondo l'idea di Diez e Iacona, uno stato disposizionale, non significa negare che sia anche una sensazione puramente qualitativa, e tantomeno che abbia un significato esistenziale o un valore spirituale. Si sa che l'amore è anche altro, dipendendo da cosa si chiede a una definizione. Ma qui ne cerchiamo una che ci consenta di andare al fondo di una sua caratteristica essenziale: quella di comportare (quasi) sempre delle anomalie nel comportamento e nel modo di pensare, le più rilevanti delle quali dipendono da credenze irrazionali a loro volta effetto di meccanismi cognitivi ricorrenti. Un esempio è quella che Diez e Iacona chiamano la fallacia dei fiori, «non mi ami perché non mi regali mai fiori», che si commette quando si crede che la persona amata non faccia quello che dovrebbe per meritarsi l'amore che riceve e per essere a sua volta credibile quando dice di amare. Come è bene conoscere la chimica dell'amore, è bene anche conoscere fallacie dell'amore come questa («aiuta a non commetterle», ci dicono Diez e Iacona). E ancora una volta quella conoscenza ha una rilevanza pratica e etica.
Certo, la filosofia che da Platone ha parlato di amore ci ha abituati diversamente, soprattutto a un linguaggio più ricco di metafore e di implicazioni metafisiche. Michela Marzano (L'amore è tutto, Utet), per esempio, prende molto sul serio e commenta una definizione di Lacan: «Amore è donare quello che non si ha a chi non lo vuole». Bello, profondo, davvero "filosofico"; questa sì che è una "storia" che fa riflettere! Con l'addiction e gli inganni si vola sicuramente più bassi che con il dono e il perdono. Ma si vola, eccome; e magari, da quell'altezza meno vertiginosa, si vedono più cose.

Larry Young, Brian Alexander, La chimica dell'amore, traduzione di Libero Sosio, Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 360, € 24,00
José A. Diez, Andrea Iacona, Amore e altri inganni, Indiana, Milano, pagg. 174, € 13,50

Il Sole Domenica 21.12.14
Il potere è donna
di Angelo Varni


Esiste o no un esercizio del potere al femminile? Esiste o no un'inevitabile divisione di ruoli nella società tra uomini e donne con i primi destinati a funzioni pubbliche e le seconde indirizzate a quelle private? Esiste o no, in definitiva, una sostanziale, insuperabile differenza fra i due sessi, derivante dalle stesse leggi della natura, tale da imporne comportamenti, attitudini, modelli di pensiero profondamente tra loro distanti?
Questi, e tanti altri a questi connessi, gli eterni interrogativi in cui ci si imbatte ogniqualvolta si tocca il tema della presenza della donna in incarichi politici, senza un'effettiva soluzione di continuità dalle giustificazioni pseudoscientifiche sull'inferiorità femminile, lasciateci da antichi maestri quali Aristotile od Esiodo, su su lungo i secoli delle streghe, dell'incarnazione nelle donne del peccato dei sensi, dell'assenza in loro di una razionalità riservata agli uomini ed ancora delle lente conquiste di dignità individuale dopo la Rivoluzione dell' '89 o del ritardato diritto di voto nelle democrazie, fino alle attuali quote rosa (vittoria o ennesima sconfitta pure questa?), mentre diviene sempre più intollerabile il perdurante tragico confronto con mondi "altri", culturali e religiosi, prepotentemente alla ribalta nella realtà globalizzata di oggi,che ne negano ogni presenza sociale, se non subordinata all'uomo, vietandone persino la visibilità personale.
Un indiretto contributo a cercare di portare ulteriori elementi utili a comprendere, alla luce delle vicende della storia, quanto l'"altra metà del cielo" ha realizzato nello svolgere compiti di altissima responsabilità politica, è affidato alle esemplificazioni di questo agile lavoro di sintesi, curato da Donatella Campus in accordo con il Comitato Pari Opportunità dell'università di Bologna. Nelle sue pagine scorrono gli avvenimenti che ebbero a protagoniste alcune personalità femminili, certo straordinarie per virtù personali e per condizioni sociali, ma che pure seppero comprendere le opportunità offerte nei loro tempi, trasferendo in positivo le chiusure e le ostilità presenti nelle società in cui operarono.
Ecco, allora, Federico Condello presentarci un approfondito ritratto della regina d'Egitto Cleopatra, colta nella pienezza della sua valenza mitica perdurante dall'età augustea fino ad oggi. Le narrazioni più o meno documentate della sua vicenda storica, con l'enfasi finale dedicata alla spettacolarizzazione del suicidio, si sono da subito alternate con una ritrattistica aneddotica e romanzata dove la sua figura era di volta in volta rappresentata come divoratrice di uomini, voluttuosa seduttrice, o martire vittima della ragion di stato. Senza dimenticare le tante rappresentazioni pittoriche succedutesi lungo i secoli e le più recenti numerose trasposizioni filmiche di una vicenda che con tutta evidenza continua a suscitare, di generazione in generazione, un sentimento di coinvolgente partecipazione. Bene fa l'autore a richiamare in proposito la dimensione politico-culturale del ruolo svolto da Cleopatra, già agli occhi dei contemporanei, di problematico punto d 'incontro tra la virile potenza del mondo romano e le mollezze di un orientalismo di maniera, quasi eterna raffigurazione dello scontro tra i due sessi a tutto vantaggio, evidentemente, della superiorità fisica e morale del primo. Ricordandoci pure che il potere politico della regina sembra fuoriuscire dalla dimensione della realtà storica per diventare eterno simbolo di tutti i sentimenti, di tutte le passioni, di tutti gli idealizzazioni, che si intrecciano nelle scelte dell'umanità: dove pubblico e privato sempre si mescolano, la politica dei grandi obbiettivi e dei solenni principi sempre deve fare i conti con le esigenze di singoli, le speranze collettive dei popoli sempre vengono condizionate dalle motivazioni dei loro governanti, uomini e donne che siano, con Cleopatra ed il suo potere regale a far da compendio inestricabile di tale insuperabile condizione.
Ancora sovrane, principesse e nobildonne a dar sostanza ad un ruolo di potere politico ricoperto da donne nel Medioevo. Ce lo dimostrano i due persuasivi ritratti di Matilde di Canossa e di Ildegarda di Bingen disegnati nell'intervento di Francesca Roversi Monaco. Dove si descrive un'epoca che, ad onta dei luoghi comuni sulle sue chiusure, apriva spazi di presenza femminile ai vertici più alti della gestione della cosa pubblica finanche internazionale, irradiantesi dalle corti e dai monasteri affidati per vicende ereditarie e nobiltà di lignaggio alle loro cure.
Fu la Rivoluzione francese a rimettere in discussione simili opportunità tutte derivate dall'appartenenza di casta: nella società borghese dell'uguaglianza dei diritti e dei doveri non parve affatto naturale riconoscere alle donne una loro paritaria presenza nella dimensione pubblica, mentre il positivismo ottocentesco si sforzava di trovare ragioni oggettive per relegarle nei limiti del privato. E questo, proprio mentre industrialismo, società di massa, esplosioni rivoluzionarie coinvolgenti le nazioni nel loro insieme, richiedevano all'universo femminile una partecipazione sempre più attiva alla vita collettiva. Una contraddizione che fu colta e combattuta dalla prima convenzione "femminista" approvata negli Usa al congresso svoltosi a Seneca Falls nel 1848. Vi fu stilato un manifesto, la Dichiarazione dei sentimenti, che volgeva in positivo la diversità della donna dominata dai sentimenti (ne parla Maria Pia Casalena): proprio per questa condizione la gestione della politica doveva esserle affidata, nella certezza che il senso di giustizia, di tolleranza, di umanità avrebbe trionfato per l'intera società.
Cominciava allora un cammino ben lontano dall'essersi positivamente concluso, relativo alla possibilità che le donne riescano ad affermare una diversa e specifica modalità di esercizio del potere politico, eliminando alcuni stereotipi di aggressività e decisionismo considerati sinonimo di virile mascolinità. Lo dimostrano le complesse vicende della Thatcher e di Hillary Clinton (esaminate dalla curatrice del volume), costrette a giocare un ruolo, pur con diverse sensibilità e consapevolezze, non dissimile da quello dei colleghi maschi. Certo è oggi auspicabile che una simile esperienza si realizzi al più presto, se non altro per offrire una speranza di cambiamento, magari in meglio, all'attuale drammatico sfarinarsi dell'esercizio di governo nelle smarrite democrazie del mondo occidentale.

Donna Domina. Potere al femminile da Cleopatra a Margaret Thatcher , a cura di Donatella Campus, Bologna, Bononia University Press, pagg. 126, € 22,00

Il Sole Domenica 21.12.14
Novecento italiano / 1
Eroici e tragici Gap
Santo Peli ricostruisce (mischiando fonti documentarie e memorie) la storia delle formazioni partigiane
di Sergio Luzzatto


«Imparerò meglio", disse l'operaio». Avrebbe imparato meglio a uccidere il nemico, e a ucciderlo a sangue freddo. Questa nell'estate 1945 – all'indomani della Liberazione – la forte chiusa di Uomini e no di Vittorini, primo romanzo della Resistenza italiana. O piuttosto: primo romanzo del gappismo. Non il romanzo di una Resistenza fatta dai partigiani delle montagne, riuniti in banda a respirare già, lassù, l'aria aperta dell'Italia libera. Il romanzo (scritto nel '44, nel pieno dell'occupazione tedesca) di una Resistenza fatta quaggiù, in città come Milano, dai militanti isolati e accerchiati dei Gruppi di azione patriottica: gli interpreti di un terrorismo urbano, clandestino e claustrofobico, che per riuscire tanto più efficace aveva da essere tanto più spietato.
Da allora – per settant'anni – il gappismo è rimasto legato alla dimensione del romanzo (o di un antiromanzo alla Bruno Vespa, distorsivo e criminalizzante) piuttosto che approdare alla dimensione della storiografia. Fino al libro pubblicato adesso da Santo Peli, Storie di Gap, si può dire mancasse qualunque tentativo organico di consegnare alla storia nazionale oltreché alla storia locale i diversi Gruppi di azione patriottica attivi nell'Italia dell'occupazione: dai tre vertici del triangolo industriale a Roma città aperta, attraverso la via Emilia e i ponti di Firenze.
Anche il libro di Peli, in verità, fatica a uscire dal romanzesco. Volendo rimediare all'irrimediabile penuria della documentazione d'epoca (per ovvi motivi, il terrorismo del 1943-45 tendeva a cancellare piuttosto che a disseminare le proprie tracce), Peli compie infatti la scelta di servirsi indifferentemente di fonti d'epoca come di fonti retrospettive. Per lui, una relazione interna prodotta nel 1944 da un capo della lotta clandestina vale a ricostruire la vicenda dei Gap esattamente quanto una pagina autobiografica partorita da un ex gappista negli anni Settanta o Novanta del Novecento. Così la sfera dell'esperienza e la sfera della memoria si intrecciano fino a confondersi, e queste Storie di Gap restano eccessivamente tributarie del romanzo di formazione dei gappisti stessi.
Al netto di un tale limite, il libro di Peli ha il merito sia di seguire il gappismo nella successione delle sue fasi politico-militari, sia di decifrarlo nella varietà delle sue implicazioni ideologiche e morali. Contribuendo a focalizzare, fra l'altro, la questione della "diversità" comunista nella storia della Resistenza. Perché fin dagli esordi, a ridosso dell'8 settembre '43, dire "Gap" significa dire "Pci". Significa evocare i dirigenti di un Partito venuti alla scelta del terrorismo lungo tutto un percorso di apprendistato, prima da volontari delle Brigate internazionali nella Spagna della guerra civile, poi da compagni dei maquisards nella Francia di Vichy. Significa evocare i quadri e i militanti di un Partito il quale – a differenza di altri nella coalizione ciellenista – programmaticamente respingeva la logica secondo cui bisognava rinunciare agli attentati per scongiurare le rappresaglie.
Come ogni terrorismo degno del nome, il gappismo non esitava a mettere in scena la violenza. E metteva in conto di scatenare la violenza dell'avversario, così da alimentare contro di esso un sovrappiù di ostilità. Durante il primo autunno e il primo inverno d'occupazione gli attentati contro l'uno o l'altro obiettivo nemico, un federale di Salò, un console della Milizia, un ufficiale della Wehrmacht, ebbero valore simbolico più che valore militare: servirono a negare che l'ordine nazifascista regnasse incontrastato sulle città italiane. Compiendo in piena luce – per strada, al ristorante, al bordello – un numero sorprendentemente alto di colpi, poche decine di terroristi a tempo pieno (meno di cento in tutto, calcola Peli, all'altezza cronologica del dicembre 1943) mascherarono la realtà di un gappismo che avrebbe poi fallito nel progetto di portare la lotta armata all'interno delle fabbriche.
Entro la primavera del 1944 la prima stagione dei Gap si concluse un po' dappertutto, a Milano come a Roma, a Genova come a Torino. Una varietà di fattori – la leggerezza cospirativa di troppi elementi, l'organizzarsi della repressione nazifascista, la tortura sistematica degli arrestati, con un effetto a catena di nuovi arresti – precipitò la fine della fase più dirompente ed eroica del gappismo. Nell'estate del '44 si aprirà una seconda fase, che già coinciderà con la stagione del declino. Dopo la «svolta di Salerno» e la nascita del «partito nuovo», il comunismo italiano avrà bisogno meno dei Gap che delle Sap: le Squadre di azione patriottica, che Palmiro Togliatti in persona promuoverà quale segno di un intervento delle «masse» nella guerra di liberazione nazionale.
Il sappista sarà, per molti aspetti, agli antipodi del gappista. Non avrà l'obbligo di essere comunista, né di entrare in clandestinità, né di operare da terrorista a tempo pieno. Al contrario, gli si chiederà di combattere part-time. Di giorno dovrà essere un operaio inappuntabile; e nottetempo, o comunque fuori dalla fabbrica, non si pretenderà da lui che pratichi forme di lotta armata. L'autentico scopo delle Sap consisterà nel preparare – all'avvicinarsi dell'ora x – la dinamica politica dell'insurrezione. Anche perciò, dall'estate del '44 alla primavera del '45 il gappismo non riuscirà più a incidere significativamente nella sua cifra originaria di terrorismo urbano. In pratica, risulterà tanto più efficace là dove (come in Emilia, o nella Romagna di Arrigo Boldrini, il mitico Comandante Bulow) uscirà dalle città per radicarsi nelle campagne. Il gappismo trionferà quando rinuncerà a essere metropolitano, elitario, selettivo, per farsi paesano, popolare, diffuso. Trionferà quando rinuncerà a se stesso.
Fin dall'autunno 1943, la determinazione con cui i gappisti delle maggiori città italiane avevano preso a colpire i simboli del collaborazionismo di Salò era stata deplorata dai benpensanti, a cominciare dai prelati della Chiesa. Il cardinale arcivescovo di Firenze – ad esempio – aveva pubblicamente lamentato le «uccisioni commesse d'arbitrio» che provocavano inevitabili «reazioni» dei nazifascisti. Si era meritato così la replica severa di Enzo Enriques Agnoletti, massimo dirigente del Partito d'azione in Toscana: «Lei non può ignorare, Eminenza, che in questo momento, in questo stesso istante forse in cui noi scriviamo, o Lei legge, uomini nostri fratelli, creature umane, subiscono torture che fanno vergogna all'umanità. ... Si battono a morte gli arrestati, s'appendono con le braccia legate finché non svengono dal dolore, si traforano con le baionette, si butta loro dell'acqua bollente in bocca. ... Queste cose, Eminenza, durano già da molte settimane e Lei, Eminenza, lo sappiamo, ne è a conoscenza. Non abbiamo inteso nessuna parola di disapprovazione dalle sue labbra».
Di lì a qualche mese la sorella di Enriques Agnoletti, Anna Maria, subì proprio la sorte descritta da Enzo: torturata per giorni da una banda di aguzzini collaborazionisti, morì fucilata il 12 giugno 1944. Senonché proprio a Firenze il gappismo ebbe a dimostrare, tra la primavera e l'estate del '44, tutti i limiti della sua forza. Quando un commando guidato da un operaio comunista – Bruno Fanciullacci – colpì a morte l'intellettuale simbolo del fascismo saloino, Giovanni Gentile, furono i dirigenti stessi del Partito d'azione toscano a deplorare l'uccisione di un vecchio disarmato e senza scorta che non occupava ruolo alcuno nella macchina repressiva. Gentile era stato assassinato da «quattro irresponsabili», sentenziò Tristano Codignola sull'organo dell'azionismo clandestino.
A Firenze se non a Milano, l'«operaio» vittoriniano aveva imparato al meglio – evidentemente – a uccidere il nemico a sangue freddo. Ma la vicenda di Fanciullacci testimonia, per l'appunto, della debolezza del gappismo più ancora che della sua forza. E non soltanto per l'improntitudine politica della scelta di uccidere Giovanni Gentile. Quella del gappista era anche, spesso, improntitudine militare. Arrestato pochi giorni dopo l'attentato a Gentile, e orrendamente torturato, Fanciullacci fu rocambolescamente liberato da un nucleo di gappisti, venne precariamente ricoverato nello studio del pittore Ottone Rosai, e non appena rimesso in piedi venne impegnato in nuove azioni di commando, salvo essere nuovamente arrestato, torturato, spinto al suicidio.
La storia dei Gap è intrinsecamente tragica anche (o soprattutto) per questo: perché i veri gappisti furono sempre maledettamente pochi.

Santo Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, Einaudi, Torino, pagg. 280, € 30,00

Il Sole Domenica 21.12.14
Novecento italiano / 2
Tracce di sangue e piombo
Il libro scritto da Giovanni Senzani (ex brigatista) e Pippo Delbono (teatrante) prosegue la pellicola che fu protagonista a Locarno
di Camilla Tagliabue


Sangue è un libro da andarci con i piedi di piombo, considerato il passato di uno degli autori: Giovanni Senzani, ex militante delle Brigate Rosse, ex ergastolano, mai pentito. L'altra firma è, invece, di Pippo Delbono, blasonato teatrante con incursioni pure nel cinema e nell'editoria. Da un casuale incontro in camerino, e con una buona dose di sacra diffidenza, pochi anni fa è nata tra i due una pudica amicizia, che ha fruttato anche un film nel 2013, proiettato e premiato al festival di Locarno tra mille polemiche e qualche apprezzamento di critica. Ora il saggio è un'ideale prosecuzione e approfondimento della pellicola, da cui mutua il titolo e di cui riporta la sceneggiatura originale: è un fecondo e articolato Dialogo tra un artista buddista e un ex brigatista tornato in libertà, un confronto – anche duro – tra esseri umani, prima ancora che tra visioni del mondo, o ideologie o fedine penali...
Filo rosso è la morte, quella morte che li accompagna «come un vizio assurdo», quel lutto che entrambi «si portano a spasso»: «Io e Giovanni, così lontani nelle nostre vite, ora da pochi giorni orfani tutti e due, forse veramente per la prima volta siamo vicini, nella morte», scrive Delbono, che ha appena perso la madre, mentre all'altro veniva a mancare la compagna. Il libro si configura, pertanto, come «un viaggio tra teatro, funerali e storia», un racconto «al di là del bene e del male», filtrato dallo sguardo pre-morale, non immorale, dell'artista: «Pippo così naïf sentiva il bisogno di capire, si poneva molti interrogativi e faceva le sue domande dirette: Ma perché uccidere? Com'è possibile?». Viceversa, il regista paragona Giovanni al suo amico attore Bobò, un sordomuto vissuto per anni in manicomio: «Tutte e due portano i segni di una lunga detenzione in luoghi orribili. Di reclusione. Tutti e due ora liberi», e similmente "autistici", insondabili.
Tra rivoluzione spirituale e lotta armata, Hiv e omicidi, dittature interiori e torture di stato, Sangue è una testimonianza forte «della morte di chi ha dato la vita e della vita di chi ha dato la morte», delle madri che hanno perso i figli in teatro, delle mogli che hanno assistito i mariti in carcere. Delbono riesce, però, a distillare poesia dal sangue, edulcorando con i suoi toni miti e visionari i drammi privati e le tragedie collettive: certo l'artista non vuole, né può, riscrivere la Storia, ma ha il diritto, e forse persino il dovere, di raccontare i Macbeth, i grandi dittatori, i terroristi. E alla fine il suo non è un "urlo" di rabbia o di speranza, ma una timida e commossa parola di fede: «Nessuno può sfuggire alla vita. Nemmeno con la morte».

Pippo Delbono e Giovanni Senzani, Sangue, Clichy, pagg. 298, € 18,00

il Fatto 21.12.14
RaiCinque e RaiStoria, il vero servizio pubblico
di Paolo Ojetti


Trentatrè. Come gli anni di Cristo – coincidenza – è lo share dei Dieci Comandamenti di Benigni. La Rai si attacca ai numeri anche quando i numeri sarebbero superflui. Com’era Benigni? Parrocchiale, elevato, banale, noioso, tristanzuolo, sublime secondo la stampa cattolica. Di aggettivi se ne sono sprecati a vagonate, quando il vero bilancio stava tutto in una domanda: c’era bisogno di rinfrescare la memoria sulle tavole della legge che il Padreterno caricò sulla schiena di Mosè quale rappresentante dell’umanità intera che adorava – ieri come oggi – vitelli d’oro? Sì, certamente sì, come era indispensabile rileggere la Costituzione più bella del mondo, la Divina Commedia mamma della lingua italiana e come sarebbe indispensabile tenere sempre aperto il grande volume della cultura che la maggioranza degli italiani tiene chiuso da troppo tempo, accontentandosi di soap opere spacciate – ultimo disastro - per l’Odissea di Omero.
Eppure, come ha scritto Antonio Dipollina su Repubblica, la Rai può tornare a essere un luogo dignitoso. Almeno due angoli dignitosi tuttavia esistono. C’è Rai5 che ha diffuso le lezioni verdiane (Ernani, Simon Boccanegra), tenute da Riccardo Muti alla Sapienza di Roma, con una incomparabile levità. E siccome fra arte e storia tutto si lega, Muti ha anche ricordato il Verdi attore e simbolo del Risorgimento. Nel 1848 i milanesi inondarono la Scala di manifestini con stampato Viva Verdi come acronimo di Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia.
ACCANTO a Rai5, Rai Storia: le lezioni di Eco sulla babele europea, i racconti di Renzo Piano sull’arte della cantieristica, la riproposizione del La Notte della Repubblica di Zavoli, che lascia a bocca aperta chi ha meno di 30 anni, come se quella notte riguardasse un altro esotico paese. E tutto senza un attimo di noia perché abbiamo ancora venerati maestri – per dirla con Arbasino ed Edmondo Berselli – che hanno appreso l’arte di raccontare e non l’hanno mai dimenticata. Con un certo coraggio, la Rai dovrebbe allora pensare alla propria rifondazione come servizio pubblico e riannodare (aggiungiamo altri nomi: Lucarelli, Angela, Pif) i fili culturali che hanno dato all’Italia una sovranità ora perduta. Mandando altrove le stelle (stelle?) che ballano, i ragazzini canori e le loro factory, le telenovelas spazzatura, i cuochi semidei dell’uovosodo, le sit com scritte con i piedi e gli assurdi festival del qualunquismo da salotto che sono i “pomeriggi in”.

La Stampa 21.12.14
Il senso dei nuragici per la circonferenza


I nuragici avevano competenze tecniche e le loro costruzioni seguivano modelli altamente precisi, considerando la totale assenza di strumenti tecnologici. È quanto emerso dal quarto convegno di archeoastronomia ospitato all’Università di Sassari. La giornata di studi, che aveva per tema «La misura del tempo», ha evidenziato che i nuraghi non erano risultato casuale ma frutto di studio. Le popolazioni antiche della Sardegna avevano ben chiaro il concetto di circonferenza, che applicavano attraverso compassi arcaici costruiti con due pali legati da una corda vegetale. L’unità di misura sarda è analoga e quasi identica a quella delle altre popolazioni del Mediterraneo, di poco superiori al mezzo metro odierno. Attraverso gli incroci delle circonferenze, i nuragici costruivano sistemi triangolari la cui rappresentazione più alta è il complesso di Santu Antine (foto), nei pressi di Torralba (Sassari), costituita da un triangolo quasi perfettamente equilatero. Analizzando le «domus de janas», i complessi sepolcrali preistorici scavati nella roccia, si è capito che gli antichi sardi avevano una progettualità alla base della costruzione e non realizzavano queste strutture a caso.