lunedì 22 dicembre 2014

Corriere 22.12.14
La verità svelata dai gesuiti sui milioni del Vaticano

È proprio vero che in Vaticano sono stati scoperti dal cardinale George Pell, prefetto della Segreteria dell’Economia, centinaia di milioni di euro extrabilancio? L’autorevole rivista dei gesuiti statunitensi America Magazineha appena pubblicato un lungo articolo per confutare le affermazioni di Pell, pubblicate sull’inglese Catholic Herald, che hanno fatto il giro del mondo, con la loro scia di sospetti. Secondo America le cose non stanno così. Non solo perché ne era stata informata la Cosea, Commissione d’inchiesta sulle finanze, ben prima della nomina di Pell. Ma soprattutto per alcuni fatti più sostanziali. Citando una «Nota» di sette pagine interna al Vaticano, la rivista spiega che questi fondi sono in realtà «fondi papali» costituiti da donazioni in base al canone 1.271 (contributi delle diocesi alla Santa Sede) e all’Obolo di San Pietro (contributi dei fedeli al Santo Padre). Ricorda che fu Paolo VI, agli inizi del 1970, a decidere di creare un fondo «strutturale» per far fronte a problemi economici futuri, cioè un fondo rigorosamente «di riserva», gestito prudenzialmente e con buoni risultati, che permise, ad esempio, di far fronte all’enorme richiesta di risarcimento dei creditori esteri del Banco Ambrosiano. Tutti questi redditi e le spese sono stati debitamente registrati nell’arco di quarant’anni, sempre a disposizione del Papa e del Consiglio dei 15 cardinali. Quindi, nulla che prima fosse «nascosto» e adesso «scoperto». Dopo che America Magazine è tornata sull’argomento resta aperta la domanda se anche il «fondo di riserva» della Segreteria di Stato dovrà d’ora in poi essere usato per pagare il costo corrente della burocrazia vaticana, iscrivendolo entro il prossimo 31 dicembre nel bilancio generale, secondo quanto ha annunciato l’ultimo Bollettino del Consiglio dell’Economia .

il Fatto 22.12.14
Lo spot natalizio su Rai3
Renzi contro i giudici: “Basta coi comunicati”
di Carlo Tecce


Con l’espressione un po’ torva, Matteo Renzi aveva appena domandato a Fabio Fazio: “Perché la Rai non deve essere a servizio della riforma della scuola che stiamo facendo?”. A servizio, sai che novità. E poi Renzi ha finto di scrutare l’orologio, e ha scandito i minuti: “Sono le 21 e 9, il sito soldipub  blici.gov.it   è stato varato”. Fazio ordina ai suoi collaboratori di controllare, compare una schermata, una stringa di numeri con il simbolo euro. Adesso, Renzi è tronfio. Chi prova a collegarsi al portale è respinto perché il traffico non viene retto. Più tardi, funzionerà. Non importa. Il successo per Renzi è l’annuncio, opportuno che sia in televisione. A che tempo che fa su Rai3, il fiorentino spesso parla direttamente al pubblico in studio, che applaude a ogni risposta. C’era più adrenalina a Un mondo da amare su Rai1 con Renzi circondato dai bambini, Bruno Vespa e Antonella Clerici. Fazio introduce il colloquio con una domanda senza punto interrogativo. Il premier esordisce col marchio di fabbrica: “Non è modalità gufo”. Fazio l’aveva presentato come il simbolo del progresso, del cambiamento e della modernizzazione. Oltre, non poteva davvero spingersi. E Renzi, a Fazio, ha illustrato vagamente come intende rivedere l’assetto del canone e di Viale Mazzini: “Vorrei una Rai che sappia emozionarci, una Rai che ci renda orgogliosi come ha fatto questa settimana con Benigni e che faccia formazione”.
L’ATMOSFERA da tombolata viene rotta dal tema “giustizia”, qui Renzi estrae un disco d’annata, un classico che unisce, quasi più del Patto, i berlusconiani e Palazzo Chigi: “Ho visto che l’Associazione Nazionale dei magistrati ha diffuso un bel comunicato stampa. I magistrati devono scrivere le sentenze”. E rasserena gli ascoltatori: “Alla corruzione si risponde con le leggi”. E Renzi pare convinto che la sua risposta sia adatta, ma per l’Anm le proposte sono deboli.
Il premier si prende un buon quarto d’ora per elencare i provvedimenti del prossimo Consiglio dei ministri, fissato per il 24 dicembre. Conferma l’apporto pubblico all’Ilva di Taranto, garantisce sui decreti attuativi per la riforma del lavoro (jobs act). Assale Fazio con una serie di percentuali per dimostrare che la pressione fiscale diminuisce. Ma arrivati al Quirinale, il premier si fa taciturno. Spiega che non vuole bruciare nessuno, e aggiunge: “Il prossimo inquilino del Colle sarà eletto da una maggioranza ampia, che spero vada da Sel a Forza Italia”. Fazio mette il Quirinale sui titoli di coda, ma ieri è stato sui titoli di testa. Che siano bandite, quest’anno, le letterine con i desideri dei politici. Vige l’argomento unico, la successione di Giorgio Napolitano. E l’ultima domenica prima di Natale, in televisione è un continuo vociare di richieste e auspici, incapsulati in messaggi non tanto in codice. È la domenica di una minoranza democratica che scalpita senza osare troppo. Pier Luigi Bersani, a In Mezz'ora, è categorico, non traccia profili, ma scrive a Renzi: “Ci vuole una figura di garanzia, autonoma e autorevole”. Come a dire, non un presidente che sia legato ai capricci del giovane fiorentino, che per Bersani è una macchina da Formula 1: “Non può mica pensare di guidare un paese complesso da solo, non ce la fai”. L’ex segretario cita Fabrizio De André, Il testamento di Tito, per scardinare il legame ormai infrangibile tra i berlusconiani più ossequiosi e i democratici più renziani: “Temo che il Nazareno passi alla storia per il patto, pur essendo la sede del Pd. ‘Guardate la fine di quel Nazareno’, diceva il poeta... ”. Il patto, rassicura Renzi, non prevede l’accordo per il Quirinale, un concetto che il premier ripete spesso, nonostante le indiscrezioni e le rivelazioni di Silvio Berlusconi. E Bersani, scaltro, non esclude Forza Italia: “L’ex Cavaliere può convergere con noi sull'autonomia del candidato”. Interessante la sortita del capogruppo dem Roberto Speranza, a Sky Tg24: “Io Romano Prodi l’ho votato nel 2013, credo che sia una persona di grandissima qualità e non avrei problemi a rivotarlo”. In fondo, era una battuta.

Corriere 22.12.14
Renzi critica i giudici: «I magistrati scrivano le sentenze, non comunicati stampa»
Il presidente dell’Authority Raffaele Cantone al Corriere commenta: «Si poteva fare di meglio»
intervista di Virginia Piccolillo


ROMA Da presidente dell’Authority Anticorruzione, Raffaele Cantone ha evitato giudizi «avventati» sulle nuove norme in arrivo.
Ma ora che l’Associazione nazionale magistrati, di cui lei è stato dirigente, critica il premier, presidente Cantone: ha ragione Renzi o l’Anm?
«Sono iscritto all’Anm da quando ero uditore. Sono stato presidente di quella napoletana. Non ho mai pensato di stracciare la tessera. E difendo la scelta dell’Anm di far sentire la propria voce, non solo sul piano strettamente sindacale, ma su questioni politiche».
Però?
«Non era una mera premessa. Ci credo davvero. È già accaduto nel passato per la lotta alla mafia».
Detto questo?
«Detto questo la critica al singolo disegno di legge, di cui ancora nessuno per altro ha letto il testo, credo non tenga conto che il governo in questo anno ha fatto cose importanti».
Si riferisce alla sua Authority?
«Veramente mi riferivo al fatto che abbiamo finalmente il reato di autoriciclaggio e che contro il voto di scambio politico-mafioso abbiamo un testo di legge che il capo della Direzione nazionale antimafia ha definito perfetto».
Aumentare le pene per la corruzione non basta dice l’Anm. Se il ddl è come gli annunci, le piacerà?
«Poteva essere qualcosa di meglio. Però è un passo avanti rispetto al passato. La valutazione deve essere complessiva, altrimenti si sbaglia la prospettiva».
Non sarebbe stato meglio un decreto?
«No, penso che il disegno di legge sia una scelta corretta non solo perché in materia penale è meglio, ma anche perché il testo può essere arricchito in Parlamento».
E se si arena di nuovo?
«No, il governo deve attivarsi per una corsia che sia più veloce possibile. È assolutamente urgente».
Tecnicamente l’intervento sulla prescrizione è debole?
«La prescrizione va modificata. Questo è certo. In commissione Giustizia, fra l’altro presieduta da una ex magistrato, c’è un testo di riforma assolutamente positivo. In questo senso la scelta del ddl è corretta. Così pure sarebbe meglio ampliare lo strumento per fare emergere la corruzione con misure premiali per chi collabora. E poi c’è da fare un intervento sulle intercettazioni».
In quale direzione?
«Utilizzare la stessa normativa dei reati di mafia. In parlamento poi il testo si può arricchire con la riforma del falso in bilancio, la prescrizione, il codice degli appalti. Sono tutte riforme che, volenti o nolenti, sono già all’esame delle Camere».
Renzi ha chiesto ai magistrati meno parole e più sentenze. Da ex pm come l’ha vissuta?
«I processi troppo lunghi sono frutto di errori normativi che si accorpano a defaillance organizzative. La magistratura, se è corretta, lo deve dire. Non dipende dal singolo magistrato, ma un pezzo di responsabilità è anche nella organizzazione degli uffici».
Tutti usano la sua nomina all’Anticorruzione come prova delle buone intenzioni del governo. Come vive la cosa?
«Un po’ mi inorgoglisce, un po’ mi spaventa».
Non teme di diventare una sorta di «foglia di fico»?
«Non sono Superman. Gli strumenti che sono stati forniti all’Authority sono importanti. Era composta da 20 persone, ora da 300. Ma se qualcuno pensa che in tempi brevi possiamo risolvere un problema così enorme è fuori dal mondo. Le responsabilità me le prendo tutte, ma non voglio portarmi sulle spalle fardelli che non mi competono».
Ma cosa spera di poter riuscire a fare?
«Alcuni piccoli passi sono stati fatti. Lo abbiamo visto in alcuni passaggi della vicenda Mose, per la prima volta si è potuto commissariare il Consorzio Venezia Nuova. O nella vicenda Expo. In sei mesi abbiamo dato una diversa impostazione della vigilanza sugli appalti e le stazioni appaltanti. Certo non ho la bacchetta magica».
Pensa che la vicenda Mafia Capitale possa accelerare una soluzione o no?
«Ha causato una grande indignazione. Ma noi siamo il Paese delle monetine e dei cappi, però dopo un po’ la gente si stanca e tutto torna come prima. Noi non abbiamo bisogno di indignazione, ma di impegno costante».
Pensa davvero che dipenda dagli italiani e non da chi ha ruoli di responsabilità?
«La corruzione è un tassello di un affresco più ampio. Ciascuno deve fare la propria parte».

Corriere 22.12.14
Norme confuse e pasticci evidenti
I troppi errori sulla giustizia
di Luigi Ferrarella


Sulla giustizia, il quadro delle misure in cantiere è ancora allo stato gassoso: e troppe delle norme approvate sono pasticciate.
Appena 87 risarcimenti a fronte dei primi 7.351 ricorsi esaminati sui 18.000 presentati dai detenuti: l’effetto paradossale delle incertezze testuali del decreto legge d’agosto, che per sottrarre l’Italia alla condanna europea prometteva di risarcire chi fosse stato carcerato in meno di tre metri quadrati, è solo l’ultimo esempio della distanza che spesso misura i buoni propositi dalla loro realizzazione pratica.
Già lo si era colto nel pasticcio delle tabelle sulla droga nel decreto legge dopo la sentenza della Consulta; nell’imbarazzante correzione (in altro decreto legge sulla custodia cautelare per alleggerire le carceri) dello svarione del parametro della «pena da eseguire» con quello della «pena irrogata»; o nella mesta epopea dei braccialetti elettronici, ripiegata sul riciclo di quelli esistenti una volta già esaurito il piccolo stock pagato a peso d’oro. E in questi giorni stridente è il contrasto tra le trionfalistiche slide governative sulla giustizia digitalizzata e l’ennesimo «crollo», il 18 dicembre, del server nazionale, peraltro nelle ore in cui il caos delle notifiche telematiche penali non veniva sciolto da una circolare ministeriale diramata appena 48 ore prima del via nazionale.
Neppure giova la vaga sensazione di una cosmesi della realtà. Quando ad esempio il governo imbelletta con la cipria di un incentivo fiscale la già controversa esternalizzazione ai privati di larghe fette della giustizia civile, a mesi di distanza emerge che la copertura finanziaria verrebbe dall’aumento del «contributo unificato» sui processi, e cioè in realtà da una tassa; e quando giudici di sorveglianza si incuriosiscono a verificare se oggi un detenuto abbia davvero almeno i tre metri quadrati di spazio in cella pretesi da Strasburgo, le perizie (come di recente a Verona) documentano risultati talvolta difformi dai più ottimistici conteggi forniti dall’amministrazione.
Il premier fa mostra di esibire i muscoli con la «casta» dei magistrati, ad esempio sul taglio delle loro ferie con una legge scritta alla fine talmente male da non aver forse neppure raggiunto lo scopo: ma come influente sottosegretario al ministero della Giustizia si tiene intanto stretto, pur dopo le polemiche per il suo interventismo nelle recenti elezioni del Csm, proprio il capo di una delle più forti correnti di magistratura. E sulla condivisibile (se progressiva) riduzione a 70 anni dell’età pensionabile dei magistrati, è però per decreto legge — appena meno indigeribile di quello bocciato nel 2012 dalla Corte di giustizia Ue per l’Ungheria di Orban — che Renzi pone le basi perché, da un anno con l’altro a fine 2015, 400 nuovi capi di uffici giudiziari italiani siano avvicendati da un Csm dove vicepresidente siede chi appena prima faceva il sottosegretario all’Economia del suo governo, e dove pesa la corrente capeggiata proprio dal suo sottosegretario alla Giustizia.
Dato atto al premier di aver chiuso con le leggi ad personam , e al suo ministro Orlando di almeno provare a pensare alla giustizia come servizio per i cittadini, la quotidianità governativa vive però di targhe alterne: c’è il giorno in cui si riduce la carcerazione preventiva, si sperimenta la messa alla prova fino a non banali limiti di pena, si apre alla tenuità del fatto, e c’è invece il giorno in cui si fa la faccia feroce dettata dal marketing elettorale e si promette carcere per l’emergenza mediatica di turno.
Il minimo sindacale, come lo scongelamento dell’Autorità anticorruzione e il commissariamento di appalti Expo e Mose dopo quanto rivelato dalle indagini, viene infiocchettato come rivoluzione; mentre il ricorso ai contributi di magistrati come Cantone, Barbuto o Gratteri non toglie che sinora il quadro delle misure in cantiere resti allo stato gassoso del riannuncio dell’annuncio il 29 agosto del «pacchetto giustizia», declamato all’epoca come in sostanza già realizzato. E quando si fa qualcosa, il poter dire di aver «già fatto» sembra prevalere sul poter vantare di aver «ben fatto»: sicché anche attese misure appena approvate escono o già da rimaneggiare (come ad esempio il voto di scambio) o di incerta applicazione perché pasticciate nel faticoso parto, come l’autoriciclaggio infine introdotto in qualche modo perché senza di esso la legge sul rientro dei capitali dall’estero sarebbe suonata troppo simile a un condono.
E va bene che Fanfani siede nel pantheon ideale di più di un ministro del giovanilistico governo, ma non si vorrebbe di questo passo dover presto ripescare l’Einaudi del 1955: «Le leggi frettolose partoriscono nuove leggi intese ad emendare, a perfezionare; ma le nuove, essendo dettate dall’urgenza di rimediare a difetti propri di quelle male studiate, sono inapplicabili, se non a costo di sotterfugi, e fa d’uopo perfezionarle ancora, sicché ben presto il tutto diviene un groviglio inestricabile, da cui nessuno cava più i piedi; e si è costretti a scegliere la via di minore resistenza, che è di non far niente e frattanto tenere adunanze e scrivere rapporti e tirare stipendi in uffici occupatissimi a pestar l’acqua nel mortaio delle riforme urgenti».

Il Sole 22.12.14
Sulla lotta alla corruzione la politica resta in ritardo
di Lionello Mancini


Sono passati dieci giorni dallo shock della Grande retata Capitale. Si possono così valutare i primi effetti del Big bang originato da Piazzale Clodio, dopo due anni di indagini sulle vischiosità del “Mondo di mezzo” e cogliere il senso delle reazioni più immediate.
Da mesi il Centro studi Confindustria analizza i danni che la corruzione provoca al Paese e così, il giorno in cui il Rapporto annuale viene reso pubblico, gli imprenditori annunciano di volersi costituire parte civile nel processo a “Mafia capitale”. In qualche corridoio del Palazzo c’è chi ha liquidato questa posizione come frutto di una fortuita coincidenza o di opportunismo mediatico senza sostanza, parole d’effetto dette al momento giusto. Ma non è così.
Non si intitola un capitolo degli Scenari economici “La corruzione è il vero freno per l’economia e le imprese” se non si è compiuto un percorso culturale specifico, ponendo il tema al centro della riflessione. Siamo infatti nella scia del pensiero che sette anni fa portò Confindustria Sicilia a mutare le regole interne in chiave antimafia: anche allora ci fu chi irrise alla “propaganda”, senza capire quanto stava accadendo. Quanto alla costituzione come parte civile, non è certo l’invenzione dell’ultimo secondo, bensì una prassi consolidata per l’associazione, ma anche enti locali e categorie, quando i reati offendono le libertà democratiche ed economiche: una scelta ponderata, ratificata e attuata in territori ben più ardui che non Roma o il Lazio. Dunque, allo scoppio di “Mafia capitale”, la familiarità di certe tematiche e la riflessione critica su errori passati diventano iniziativa matura e per niente casuale.
Lo stesso non si può dire della politica. Ben lontani dalla comprensione generale del fenomeno da loro stessi alimentato, molti uomini politici si illudono di limitare i danni attuando il solito scaricabarile sull’avversario del momento, senza disdegnare qualche regolamento di conti all’interno del partito; immancabile, poi, è fiorito il bouquet delle leggi ad hoc, dei pericolosi (perché improvvisati) inasprimenti di pena, delle rivalse-lampo sui patrimoni: idee anche utili, ma già buttate sullo scivolo della verifica parlamentare, arena in cui sono sempre attivissime le stesse lobby che, proteggendo sodali e malvissuti, hanno cancellato il falso in bilancio, ammorbidito la legge anticorruzione, senza perdere occasione per insinuare – meglio se in tv – che le toghe ogni tanto esagerano nelle loro costruzioni e tracimano nelle loro competenze. Mentre il partito di maggioranza se la prende con il prefetto di Roma, i sindacati già si oppongono alla rotazione dei capi dei Vigili urbani, prevista dai piani anticorruzione. Tra pochissimo il dibattito si concentrerà sulla “tenuta” dell’ipotesi mafiosa, come se l’eventuale decisione di un giudice facesse sparire il marciume e restituisse la verginità al sistema dei corrotti.
Intorno a “Mafia capitale” è già possibile misurare il grado di protezione immunitaria stimolata dalle vicende di questi anni, verificare chi ha fatto con diligenza i compiti a casa (anzi in azienda) e chi invece ha bigiato la scuola, scopiazzando qua e là solo il giorno della verifica in classe.

il Fatto 22.12.14
Mutamenti
La ministra Boschi parla come B. e Capezzone
di Eduardo Di Blasi


Sarà anche vero che, come ebbe a confessare Maria Elena Boschi al presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky “abbiamo a che fare con la stampa, per cui le parole che usiamo più sono pesanti, più passano”.
Sarà anche vero che il ruolo di ministro delle Riforme, con un Parlamento diviso in medie, piccole e grandi fazioni, e con nessuna idea condivisa su come si possa riformare il Paese, debba essere compito particolarmente gravoso.
Sarà che le riforme annunciate fin qui hanno ricevuto bocciature da professori di diritto e una dubbia acquiescenza da parte dei gruppi politici, prima di impantanarsi nelle secche tra Montecitorio e Palazzo Madama. O che quella lanciata come la grande riforma delle Province abbia partorito per adesso solo un’elezione farsa e la protesta dei dipendenti sotto i palazzi della politica. Fatto sta che sabato, il ministro per le Riforme e i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi si è tramutata in una sorta di Capezzone d’altri tempi. In risposta all’Anm che aveva criticato la leggerezza del governo nell’affrontare il problema della corruzione e ne aveva denunciato l’ossessione verso la responsabilità civile dei magistrati, Boschi aveva detto: “I magistrati dovrebbero parlare attraverso le loro sentenze, applicare le leggi, non commentarle o scriverle, quello spetta ai parlamentari”.
È QUESTO UN CONCETTO caro al centrodestra degli ultimi vent’anni. Da Daniele Capezzone a Fabrizio Cicchitto, passando per l’indimenticato Sandro Bondi, il sindacato delle toghe non dovrebbe mettere bocca sull’operato di chi governa.
Questo, ad esempio, è un Capezzone d’annata: 27 novembre 2009. Dice, l’ex segretario Radicale all’epoca portavoce di Forza Italia: “Spiace dover ricordare nozioni che dovrebbero essere elementari in un Paese civile. Ma in uno Stato di diritto le leggi le fa il Parlamento, sulla base del mandato popolare, e non il dott. Cascini, l’Anm e i magistrati. Il compito dei magistrati è quello di applicare le norme, non di discuterle politicamente”. È praticamente la stessa dichiarazione di Boschi.
Ha più piglio, certo il Sandro Bondi che nel settembre dell’anno passato tuonava: “Il segretario dell’Anm, Rodolfo Sabelli, fornisce l’ennesima conferma di una casta di funzionari dell’amministrazione pubblica che pretende di stabilire e di dettare al Parlamento quali siano le leggi conformi o meno alla nostra Costituzione, soverchiando in maniera illegittima le istituzioni democratiche preposte a tutelare i diritti fondamentali della nostra democrazia e delle libertà dei cittadini”.
Sul tema della politicizzazione della magistratura è del resto Fabrizio Cicchitto l’analista più attento: “Questa non è una battaglia per cercare tutti insieme di migliorare la macchina della giustizia. - vergava nel lontano gennaio del 2005 - Questa è una battaglia politica, uno scontro, con una parte della magistratura e l’intera Anm schierata in modo esplicito ed estremista a fianco di uno schieramento politico per abbatterne un altro”.
Il ministro Boschi, che è giovane, deve averlo ascoltato il saggio Cicchitto. Nel settembre scorso, sul tema, annotava del resto: “Bisogna uscire dalla guerriglia che ha caratterizzato il nostro paese negli ultimi anni”. Eppure un tempo il Partito democratico difendeva quasi sempre le prese di posizione dell’Anm. A Bondi si rispondeva così: “Registriamo la singolare concezione della democrazia del ministro Bondi, che nega persino il diritto ad esprimere il dissenso a chi ha il compito di rappresentare i magistrati (...). Il governo ha dimostrato di usare la sua maggioranza per fare e disfare a proprio piacimento in tema di giustizia ora lasci almeno a chi ci lavora il diritto di dissentire”. Nello specifico era Andrea Orlando. Oggi ministro della Giustizia del governo Renzi. Che però la pensa come Boschi.

il Fatto 22.12.14
La Finanziaria
Stabilità, le marchette della legge notturna
di Stefano Feltri e Marco Palombi


Neppure i senatori sapevano bene cosa stavano votando giovedì notte, con il maxiemendamento del governo riscritto in fretta perché Matteo Renzi voleva l'approvazione immediata della legge di Stabilità. Solo ora che la manovra è approvata alla Camera, grazie ai dossier della commissione Bilancio guidata da Francesco Boccia (Pd) possiamo sapere che cosa ha approvato davvero il Senato. “E’ vero, gli interventi territoriali e settoriali sono rimasti”m ha dovuto ammettere il viceministro dell'Economia Enrico Morando, ieri mattina alla Camera. In politichese questo è il nome delle “marchette”. Aiutini di ogni tipo, che non dovrebbero trovare spazio in un provvedimento per sua natura generale come la legge di Stabilità incaricata di fissare i cardini del bilancio dello Stato, non di stabilire minuzie di interesse esclusivo di alcune lobby come i sussidi agli aliscafi nel Ponte sullo Stretto di Messina (30 milioni) o i 15 milioni Andora-Finale Ligure. Vediamo le sorprese principali.
Eni. Semplificazione del regime autorizzativo per il trasferimento e lo stoccaggio di idrocarburi, a cui viene esteso il regime delle “opere strategiche” già concesso agli impianti. Questo velocizza l’iter sul suo contestato progetto a Tempa Rossa, in Basilicata. All’Eni – e colossi come Hera – piace sicuramente anche l’aumento dell’Iva dal 10 al 22% sul “pellet da riscaldamento” – segatura essiccata e compressa che si usa per le stufe – e mette fuori mercato un concorrente del gas.
Giochi. È un sostanziale condono per i “soggetti che offrono scommesse con vincite in denaro senza essere collegati al totalizzatore nazionale di regolarizzare la propria posizione”. Devono solo, entro il 31 gennaio, presentare all'Agenzia dei monopoli “una dichiarazione di impegno alla regolarizzazione fiscale per emersione” e versare 10.000 euro.
Autotrasportatori. Dovevano subire il taglio del 15% del credito d’imposta sul gasolio, ma hanno ottenuto un rinvio addirittura al 2019.
Partiti. La detraibilità dei versamenti effettuati ai partiti politici (la bellezza del 26%) vale anche per le “donazioni”. La norma interessa proprio parlamentari e eletti, che in genere versano una parte del loro stipendio al partito.
Frequenze tv. Finora l’Agcom aveva il compito di assegnare quelle non utilizzate a livello nazionale alle televisioni locali: ora l’Autorità – in alcuni casi – potrà dare queste frequenze anche a Rai, La7 e Mediaset.
Armatori. Cinque milioni l’anno per i prossimi venti per “progetti innovativi nel campo navale”.
Lupi/1. Il ministero di Maurizio Lupi – cioè Infrastrutture e Trasporti – ottiene di poter affidare, in deroga alla legge, ancora per un altro anno un bel po’ di consulenze con contratti di collaborazione coordinata e continuativa.
Lupi/2. Cinque milioni e mezzo sono stanziati per la tutela e la promozione del patrimonio culturare “e storico”. Come spenderli li decide, chissà perché, il ministero delle Infrastrutture dopo aver fatto una telefonata a quello dei Beni culturali.
Expo 2015. Nonostante gli scandali sulla corruzione e gli appalti, un piccolo comma consente a Expo Spa di fare gare d’appalto senza passare per Consip, cioè la centrale degli acquisti che dovrebbe individuare i prezzi più convenienti. Non proprio una grande idea per un’impresa che è già nell’occhio del ciclone per vicende non edificanti. Un’altra norma, invece, autorizza la spesa di 7,5 milioni di euro per interventi sul Duomo di Milano in vista di Expo 2015.
Sicilia 1990. Trenta milioni l’anno fino al 2017 per “i soggetti colpiti dal sisma del 1990 che ha interessato le province di Catania, Ragusa e Siracusa”.
Molise 2002. Cinque milioni di euro per le zone colpite dal terremoto del 2002, quello in cui crollò la scuola di San Giuliano.
Sardegna. La regione guidata dal democratico Pigliaru è autorizzata, non si sa perché, a utilizzare 50 milioni di trasferimenti statali destinati al pagamento del debito per finanziare investimenti. Sempre alla sola Sardegna vengono destinati 5 milioni di euro per la ristrutturazione delle scuole (anche se palazzo Chigi sta attuando un piano nazionale sul tema che riguarda, ovviamente, anche la Sardegna).
Poste. Il governo trova 535 milioni che spettano al gruppo di Francesco Caio (erano dovuti in base a una sentenza Ue su aiuti di Stato), la “copertura” arriva riducendo il fondo per pagare i debiti dei ministeri. Per garantire il servizio universale(cioè la distribuzione di lettere) ci sono 264 milioni l’anno dal 2015, meno che in passato ma i postini hanno quattro giorni lavorativi per consegnare la posta non prioritaria.
Irap. Attenzione, dicono i tecnici della Camera: introdurre un credito d’imposta Irap per i lavoratori autonomi senza dipendenti potrebbe causare una procedura d’infrazione Ue.
Ci sono 130 emendamenti alla Camera, ma il testo pare blindato ed è difficile che ci siano modifiche, perché poi dovrebbe tornare al Senato.

il Fatto 22.12.14
Dopo l’inchiesta a Genova
Il circolo Pd sostituisce papà Renzi


Franco Bonciani è il nuovo segretario del Partito democratico di Rignano sull'Arno (Firenze), il paese natale di Matteo Renzi. È stato nel congresso comunale del partito dove prima c'è stata un’ampia discussione dedicata al Jobs act. Bonciani sostituisce Tiziano Renzi, papà del presidente del Consiglio. Si era dimesso da segretario il 18 settembre, due giorni dopo aver ricevuto un avviso di garanzia dalla Procura di Genova con l’accusa di bancarotta fraudolenta per il fallimento di una sua società la Chil Post, per la distribuzione di giornali e campagne pubblicitarie. Tiziano Renzi nei giorni scorsi è stato anche interrogato dai pm genovesi.

Corriere 22.12.14
I simboli della P2 a Bologna sulle luminarie delle Feste
Progetto patrocinato dal Comune. La Curia: ambiguo e inquietante
di Francesco Alberti


BOLOGNA I presepi. Gli alberi di Natale. L’allegria delle luci sotto i portici. Secondo tradizione. Poi, ecco: il simbolo della P2. Sì, proprio quella: meglio conosciuta come Propaganda due, manovrata dall’aretino Licio Gelli, bollata come «organizzazione eversiva» dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta negli Anni 80 da Tina Anselmi e quindi sciolta nel 1982 con apposita legge.
Da almeno 10 giorni il simbolo di questa loggia massonica deviata, la cui scoperta ebbe l’effetto di un ciclone sull’allora Prima Repubblica, campeggia a Bologna su ponte Matteotti, a due passi dal centro e dalla stazione: tre grandi luminarie che rappresentano il triangolo, l’occhio e il circolo dei raggi, collocate in maniera da richiamare l’iconografia massonica della famigerata loggia. Per molti cittadini, equivale a un quiz: che c’azzecca con il Natale? Per una parte della politica, si tratta invece di arte densa di significato. Per un’altra, un’inutile provocazione. Mancava l’opinione autorevole della Curia. Ieri è arrivata. Ed è una solenne bocciatura: «È come se si celebrasse la Resistenza con un’esibizione di svastiche» scrive Bologna Sette , supplemento domenicale del quotidiano dei vescovi, Avvenire , in un articolo intitolato «Quelle oscure luminarie». Evviva la creatività, ci mancherebbe. Il problema è che Bologna è la città della strage alla Stazione (2 agosto 1980: 85 morti, 200 feriti, mai scoperti i mandanti) per la quale Licio Gelli ha rimediato, assieme all’ex agente Sismi, Pietro Musumeci, una condanna definitiva per calunnia per aver tentato di depistare le indagini. Tema scivoloso, quindi. Che non ha impedito al Comune guidato dal sindaco Merola di patrocinare l’installazione dell’opera ideata da Luca Vitone all’interno del progetto «Bologna si accende».
E in effetti Bologna si è accesa. Anche troppo. Se per l’assessore alla Cultura, Alberto Ronchi, «l’obiettivo è aprire una riflessione sulla memoria e comunque non spetta a un’amministrazione discutere il messaggio di un artista», per molti si tratta invece di iniziativa a dir poco ermetica, se non fuorviante. La Curia, nel suo articolo, ci va pesante: «È apologia o condanna? Deriva cervellotica o cinismo ben camuffato?». Comunque sia, conclude, «uno spettacolo ambiguo e inquietante». Dubbi anche da Paolo Bolognesi, deputato pd e presidente dell’Associazione delle vittime: «Quando mi esposero il progetto condivisi l’intento — dice a ilfattoquotidiano.it —, ma feci presente che l’assenza di spiegazioni avrebbe potuto generare equivoci». Cosa puntualmente verificatasi su Facebook dove, al grido «Via la P2 dal cielo di Bologna», si parla di «schiaffo alla memoria».

Repubblica 22.12.14
Le luminarie di Bologna col simbolo della P2 protesta anche la Curia
Lite sull’installazione di un artista vicino alla stazione della strage L’assessore alla cultura: niente censure. La diocesi: inquietante
di Luigi Spezia


BOLOGNA La Curia si scaglia contro una luminaria sopra il ponte della ferrovia, vicino alla stazione. Una semplice luminaria che però da qualche giorno a Bologna sta scatenando furiose polemiche. Un occhio, un triangolo, raggi di luce: tre simboli massonici in sequenza che si sovrappongono, se vengono inquadrati da due punti precisi e opposti. Anche se si confonde facilmente con le luci natalizie, visto il periodo, questa tuttavia è un’opera d’arte, «con lampadine a incandescenza per dare l’idea della luminaria popolare», dice l’artista, Luca Vitone, che lavora molto all’estero e che ha voluto ricordare in questo modo «i morti e i vivi rimasti con il loro dolore» della strage alla stazione del 2 Agosto 1980 (85 morti, 200 feriti). Siccome i processi hanno detto che Licio Gelli, maestro venerabile della gran loggia massonica P2, ha depistato le indagini sulla strage ed è stato condannato, ecco l’idea di riproporre in strada i simboli che ricordano le responsabilità.
Ma anche la Curia di Bologna non accetta l’operazione. «Quelle oscure luminarie», le definisce Avvenire in un corsivo in cui pone domande e dubbi: «In molti non hanno capito. Viene da chiedersi: apologia o condanna? Deriva cervellotica o cinismo ben camuffato? La gente comune sente puzza di imbroglio; si indigna nel veder speso così il denaro pubblico; aspetta spiegazioni dai finanziatori di uno spettacolo ambiguo e inquietante. Come se si celebrasse la Resistenza con una esibizione di svastiche».
È solo l’ultima intervenuta, la Curia, nella polemica pre-natalizia che non c’entra con il Natale ma con una delle più gravi ferite inferte dal terrorismo a Bologna e all’Italia. Mentre la Rete si infiamma con il dibattito sul senso dell’arte contemporanea, esponenti della politica e della società civile, soprattutto a sinistra, insorgono. Su Facebook è addirittura comparsa una pagina a favore dello spegnimento immediato della luminaria incompresa. Tra l’altro con le firme di rappresentanti del Pd e del consiglio comunale. Dice Riccardo Lenzi, portavoce dell’associazione “Piantiamo la memoria”: «La città non ha colto il messaggio dell’autore, ma ora sarebbe il caso si smetterla di chiedersi che fare, mentre questa potrebbe essere un’ottima occasione per fare informazione sulla strage».
La reazione all’opera che illumina con i suoi simboli criptici ed esoterici il ponte accanto alla stazione della strage ha colto di sorpresa anche il presidente dell’Associazione delle vittime, il deputato Pd Paolo Bolognesi, che pure aveva condiviso lo spirito dell’installazione: «Forse dopo più di 30 anni è facile che la gente si chieda cosa ci fanno lì quei tre simboli, senza riuscire a collegarli al discorso della strage». Dubbio del poi, mentre l’assessore alla cultura del Comune, Alberto Ronchi, bacchetta chiunque osi chiedere lo spegnimento dell’opera: «Questa si chiama censura, ma nelle società liberali l’arte deve essere libera di esprimersi, è l’abc. L’arte pone domande, non dà ricette». Il Comune ha approvato quest’opera di Vitone e un’altra di due artisti romeni, nell’ambito di un progetto finanziato dalla Fondazione del Monte. «Noi abbiamo messo solo 5 mila euro, il progetto era valido - assicura Ronchi - e guai se le istituzioni pubbliche intervenissero, prima o dopo, sulla libera espressione artistica. Torneremmo a Stalin o, visto che siamo in Italia, al Minculpop dei tempi del fascismo».

Repubblica 22.12.14
Luca Vitone, l’ideatore
“Ma quale ambiguità, volevo solo ricordare i depistaggi della massoneria deviata”
intervisya di L. Sp.


BOLOGNA «Credo che questa sia un’occasione culturale per ricordare il dramma della strage alla stazione di Bologna. La P2 vi ha avuto parte, Licio Gelli è stato condannato per depistaggio. Quest’opera è dedicata alle vittime, ricordando quel che disse Carmelo Bene nel 1991 dalla Torre degli Asinelli: più che dei morti bisogna parlare dei vivi, di chi resta e serba il dolore ».
Luca Vitone, in questi giorni però lei ha ricevuto molte critiche per quella luminaria con tre simboli massonici. Molti la giudicano oscura se non ambigua.
«Mi dispiace per questo malinteso, ma spero che le polemiche portino a comprendere che cosa volevo dire, a capire il ruolo che la loggia P2 ha avuto nella strage e in Italia. Io credo che il suo obiettivo in senso autoritario sia stato realizzato in Italia negli ultimi vent’anni. L’avevo rappresentato con una mostra a Parigi nel 2010, esponendo una grafica, una lapide “a futura memoria” con i 962 nomi degli iscritti alla P2. La mostra si chiamava “Souvenir d’Italie”».
Qui però siamo a Bologna con un progetto pubblico, non a una mostra dove si va preparati. E le luminarie del Natale si confondono con quelle della sua arte...
«Ho scelto la luminaria perché è popolare, davanti alla stazione non si poteva installare per problemi tecnici... Io credo che l’arte è sempre stata di rottura, nemmeno le opera di Giotto o Caravaggio vennero capite. Per capire bisogna discutere e studiare». ( l. sp.)

Corriere 22.12.14
Jobs act, nei decreti il salario minimo alla fine non c’è
di D.D.V.

Il governo presieduto da Matteo Renzi ha rinunciato a introdurre da subito il salario minimo. Se ne era parlato a più riprese e si sarebbe trattato di una novità importante che avrebbe introdotto, utilizzando il veicolo del Jobs act, un principio che si trova in quasi tutti gli altri ordinamenti europei. Si era aperto anche un dibattito critico perché i sindacati confederali - segnatamente la Cgil di Susanna Camusso - avevano avanzato il timore che il salario minimo riducesse spazio e valore dei contratti nazionali di lavoro. Da qualche altra parte, invece, si era sostenuto che poter «sventolare» un minimo retributivo di legge avrebbe rappresentato un segnale di attenzione e cittadinanza nei confronti di quei lavoratori extracomunitari che nell’agricoltura o nella logistica sono super-sfruttati dai padroncini o dalle coop spurie con orari giornalieri interminabili e paghe che definire misere è un eufemismo. Se queste erano le premesse e gli intendimenti, il governo però si è convinto a rinviare per non mettere troppa carne a cuocere. E così i decreti legislativi attuativi della legge-delega sul Jobs act saranno per ora solo due e si limiteranno al contratto a tutele crescenti e agli ammortizzatori.

Repubblica 22.12.14
Province, il taglio di 1 miliardo ora può far saltare i servizi
di Rosaria Amato


ROMA I dipendenti sono in stato di agitazione in tutta Italia, molte Province temono il default finanziario già nei prossimi mesi e il presidente dell’Upi, Alessandro Pastacci, pur dando ampie assicurazioni sul pagamento degli stipendi, spiega che «se la legge di stabilità non cambia non sarà possibile garantire ai cittadini tutti i servizi che oggi vengono erogati, dalla manutenzione delle strade alla gestione delle scuole». Il nodo è quello delle risorse: «La legge di stabilità prevede il trasferimento di un miliardo di euro di tributi locali nel 2015, a parità di funzioni e di dipendenti». Infatti tutti i dipendenti rimarranno in capo alle province per due anni, nelle more dell’attuazione della riforma. Dopo, il futuro è incerto, rileva Michele Gentile, Cgil funzione pubblica: «La legge non prevede un meccanismo unico, rischia di esserci una soluzione diversa per ogni Regione.
Rimane poi il problema dei 1000 precari i cui contratti scadono a fine anno: al momento non è previsto alcun rinnovo». I dipendenti sono sul piede di guerra, ma non solo per i propri stipendi: «Noi vogliamo che ai cittadini vengano garantiti i servizi a cui hanno diritto, e con i tagli della manovra non sarà più possibile farlo», dice Marco Zatini, che con i colleghi occupa da giovedì la sala consiliare della Provincia di Firenze.

Corriere 22.12.14
Il sottosegretario Angelo Rughetti
«I dipendenti delle Province? Decideranno le Regioni»
intervista di Antonella Baccaro


ROMA «Ecco qua: siamo passati da chi definiva la riforma delle Province una farsa a chi ora ne verifica con stupore gli effetti su 20 mila persone. La riforma c’è: va solo governata».
Sottosegretario Angelo Rughetti (Funzione pubblica), le proteste segnalerebbero che vi è sfuggita di mano.
«L’equivoco che ha generato questa agitazione nasce dal protagonismo dei territori, alcuni dei quali non collaborano o addirittura strumentalizzano la protesta».
Le Regioni a guida leghista che hanno già detto che non assumeranno il personale delle Province?
«Già. Ma il 2 gennaio ci sarà un decreto che imporrà alle Regioni di scegliere se acquisire le competenze delle Province e il relativo personale, o lasciarle alle Province o ai Comuni».
E se le delegano?
«Dovranno fornire le risorse per gestirle».
Quindi comunque il carico economico è delle Regioni?
«Esatto. Già oggi le Province svolgevano funzioni delegate dalle Regioni».
Ma per finanziarsi imponevano proprie tasse. C’è il rischio che le Regioni ne impongano di proprie?
«Le Regioni hanno ampi margini per ristrutturare i propri uffici e fare economia».
Dopo i tagli subiti dalla legge di Stabilità?
«Non ci sono tagli, ci sono mancati aumenti del Fondo sanitario. È diverso. Il Lazio ha risparmiato 700 milioni con la centrale unica degli acquisti: si può fare».
Ma intanto l’aliquota dell’addizionale è raddoppiata.
«Per l’ultimo anno. Poi il Lazio avrà completato il piano di rientro».
Torniamo ai dipendenti. Le Regioni faranno le loro scelte ma per questo ci vuole tempo. Per i dipendenti delle Province invece il biennio entro cui dovranno essere ricollocati scatta da gennaio.
«Sì, per questo Regioni e Comuni che si trovino buchi di organico da subito non potranno fare più concorsi ma dovranno pescare tra i vincitori di concorso o nei 20 mila delle Province».
Assumeranno un vincitore di concorso. Costa meno.
«Ma ha meno esperienza. Dipenderà dalle necessità».
Che succede quando si esauriscono i due anni in cui i dipendenti mantengono il 100% dello stipendio?
«Ci sono altri due anni di tempo per ricollocarsi con stipendio all’80%».
E poi, nel caso in cui non ci fosse ricollocazione, escono?
«Sì, ma in quattro anni molti saranno già (pre)pensionabili. E sulla ricollocazione abbiamo intenzione di impegnarci sul territorio Regione per Regione perché nessuno vada a casa».

La Stampa 22.12.14
“Io, falsa iscritta Pd”
Una giornalista alla prova della tessera 20 euro e zero controlli
Nome di fantasia, niente documenti né codice fiscale: il numero di finti iscritti può crescere anche in questo modo
di Flavia Amabile


Da cinque giorni ho in tasca una tessera del Pd totalmente falsa. Non è stato poi troppo difficile ottenerla, mi è bastato dare il primo nome che mi è venuto in mente. Nessuno mi ha chiesto né una carta d’identità né una patente. Mi è stato specificato che anche il codice fiscale non è importante: conta solo versare i 20 euro necessari.
Vuol dire che due anni sono stati presi e buttati via. Era l’aprile del 2013 quando esplosero le polemiche intorno alle primarie per il sindaco di Roma con le file di rom fuori dai seggi denunciate da Cristiana Alicata - allora dirigente del partito nel Lazio - e ignorate. E poi lo scandalo delle tessere gonfiate, le rivelazioni dell’inchiesta Mafia Capitale e il commissariamento. Tutto questo non sembra aver ancora insegnato nulla al Pd romano.
Matteo Orfini, il presidente del partito mandato dal segretario Matteo Renzi a fare pulizia tra i circoli della capitale, dieci giorni fa aveva annunciato di voler iniziare il suo lavoro dagli 8mila iscritti nella capitale per passare le loro tessere ai raggi X. Ha ragione perché iscriversi al Pd in alcuni casi è davvero troppo semplice.
Molto dipende dal fatto che è l’ultimo partito ad avere una presenza davvero capillare sul territorio, oltre 6mila circoli, un punto di forza dal punto di vista elettorale ma anche un’opportunità per chi abbia voglia di sottrarsi ai controlli centrali e usare partito e tessere per i propri interessi.
La lista completa dei circoli non è semplice da trovare, sul sito del Pd c’è una mappa 2.0 molto bella ed avanzata con le regioni da cliccare. Peccato che non funzioni.
Per trovare l’elenco dei circoli della capitale è più utile andare a cercare sul sito del Pd Roma. Nella mia zona di residenza ne sono indicati almeno sei. Due sono semichiusi perché, fatta eccezione per i circoli storici, gli altri si appoggiano a strutture dove affittano spazi per poche ore a settimana: trovarli aperti al primo colpo è difficile. Il terzo tentativo è in via Galilei 57, un enorme locale al piano terra gestito da diverse associazioni. Per il Pd devo tornare di giovedì, dopo le 18.
Giovedì 18 dicembre alle sei sono lì, accolta con incredulità e una certa emozione da un giovane pieddino: deve essere trascorso molto tempo dall’ultimo nuovo tesserato arrivato a sostenere il partito. Mi fa entrare nella stanza a disposizione del partito una volta a settimana, racconta che pagano 400 euro al mese per averla e che 15 dei 20 euro della mia futura tessera andranno al circolo, gli altri 5 alla federazione. Mi spiega che è in corso l’ultimissima fase del tesseramento 2014 ma che per avere la tessera del 2015 bisognerà aspettare almeno sei mesi.
Lo rassicuro, voglio sostenere il Pd, verserò la mia quota comunque e inizio a compilare i moduli. Invento un nome, lo scrivo. Invento un numero di telefono, lo scrivo. Sbaglio il codice fiscale, sto per scriverlo di nuovo in base al nome che ho inventato ma il giovane mi spiega che non è necessario, a loro non serve. Scrivo di essere disoccupata, invento una mail che sarà uno scherzo aprire al ritorno a casa per ricevere le comunicazioni, firmo, pago, ringrazio, saluto, vado via. Flavia Alessi è iscritta: non una parola su di me, sui motivi che mi hanno portata a scegliere all’improvviso il Pd.
Quando il giorno dopo Flavia Alessi prova a forzare ancora di più il gioco iscrivendosi anche agli altri partiti si trova di fronte ad un’atmosfera molto diversa. Nessuno ha più soldi a sufficienza per tenere aperte tante strutture, i tesseramenti avvengono esclusivamente online oppure all’interno di circoli dove si è talmente pochi che tutti si conoscono e i nuovi arrivati vengono osservati con attenzione. Resta una possibilità aperta solo con Sel: nel tesseramento online non è richiesto alcun tipo di documento. Ma è più facile che in questo momento faccia gola un eventuale assalto al Pd che a Sel.

La Stampa 22.12.14
«Cambieremo le regole: nel 2015 nel partito sarà fatta pulizia»


Matteo Orfini, commissario del Pd a Roma, ottenere una tessera falsa del Pd è uno scherzo.
«Non mi sorprende. Non è un caso che Roma sia stata commissariata».
Che cosa farete ora?
«Partiremo dai tesserati di quest’anno per verificare che tutti siano iscritti. Alla fine le tessere false saranno annullate. Ma il tesseramento del 2015 verrà fatto con nuove regole».
Non esistevano regole finora?
«In teoria sì. Non dovrebbe essere possibile rilasciare una tessera senza chiedere documenti di identità. Ma non voglio crocifiggere nessuno, chiedo solo che ci si abitui al rispetto delle regole anche quando, come probabilmente in questo caso, non si controlla in totale buonafede».
Pensa davvero di riuscire a pulire il Pd romano?
«Non solo verificheremo tutti gli iscritti ma chiederemo ad ogni circolo di effettuare ogni mese un rendiconto all’interno di un database per evitare picchi strani di iscrizioni in alcuni circoli. Chiuderemo i circoli finti, quelli che vivono solo il giorno del congresso. Aggiusteremo tutto».

Corriere 22.12.14
Le facili medaglie d’oro dell’ottimismo di Stato
di Pierluigi Battista


Sei contrario alla candidatura olimpica di Roma per il 2024? Allora sei un «pessimista» cronico, vedi tutto nero, non hai fiducia, sei restio a ripartire, non vuoi dare un chance al nostro Paese, non pensi che ce la possiamo fare, uccidi la speranza. Non si dice: guarda che i tuoi argomenti sono fragili, il progetto di un nuovo velodromo è fantastico, hai fatto male i conti, i risultati saranno meravigliosi, l’economia nazionale migliorerà. No, si certifica la prevalenza della dimensione psicologica su quella fattuale, della rigogliosa umoralità sulla banale realtà, dell’emotivo sul razionale, del cuore sulla prosaica realtà. Siamo così depressi e sfiniti da non aspettare altro che il brivido dell’ottimismo. Il nuovo messia dovrà essere tutto sprint, uno che dica «speranza» ogni tre parole, che sia vitale, ipercinetico, energizzante: forse lo abbiamo trovato.
   Sulla prevalenza dell’umorale sul reale si costruisce un’intera politica economica fondata su questa sequenza della psicologia collettiva: gli italiani hanno paura, si tengono i quattrini nel materasso con lo stesso spirito di chi fa provvista al supermercato per affrontare i momenti più bui, ma se noi diamo fiducia e speranza, se si annunciano domani formidabili, allora gli italiani ricominceranno a consumare, a spendere, a investire e l’economia, come per incanto, ripartirà. La stessa cosa per la candidatura olimpica di Roma. Non si dice: facciamo una legge sugli appalti che eviti i colossali sprechi che hanno devastato Roma in tutti i grandi eventi dove sono state sistematicamente disilluse tutte le speranze del passato. Ma si dice invece: facciamo un bello sforzo di volontà e vedrete che stavolta sarà diverso. Non si dice: abbiamo fatto tesoro del passato, non butteremo nell’immondizia i grandiosi investimenti che hanno umiliato Roma. Si dice: abbiate fiducia, riponete tutta la speranza in gente così vitale come noi, non vedete come siamo pieni di sprint? Gli argomenti svaniscono, i fatti evaporano. Chi critica è un «gufo», chi chiede dati di realtà flirta con il disfattismo, chi obietta sulla magnificenza di un annuncio indulge al più cupo «pessimismo». Il dominio dello psicologico esige un adeguamento incondizionato all’ingiunzione dell’ottimismo di Stato. Il resto è molesta misantropia, umor nero, tetraggine. Ma non si potrebbe fare diversamente? «Benaltrista, conservatore». Ma è vero che l'Olimpiade ad Atene ha contribuito al default greco? «Rosicone».

Corriere 22.12.14
Quirinale, analisi di un ruolo
di Sabino Cassese


Il presidente del Consiglio dei ministri si è chiesto, qualche giorno fa, «cosa servirà all’Italia nei prossimi sette anni». Mi pare la domanda giusta. Non «chi» andrà al Quirinale, ma «che cosa» ci aspettiamo dal prossimo presidente.
Per rispondere a questa domanda, proviamo a fare
un bilancio dell’ultimo ventennio. In 22 anni, abbiamo avuto 3 presidenti della Repubblica, 15 governi, 7 elezioni politiche. Durante la presidenza Napolitano si sono succeduti 5 governi e
2 elezioni politiche. L’instabilità della politica (un governo nuovo ogni anno e mezzo, in media) ha richiesto ai presidenti dell’ultimo ventennio un impegno straordinario. Essi sono
i gestori delle crisi, e il frequente succedersi di crisi ha accentuato il ruolo dei presidenti come perno intorno al quale gira l’intera politica italiana.
La modificazione della formula elettorale in senso maggioritario avrebbe dovuto rendere meno rilevante la scelta presidenziale del capo del governo e, quindi, la gestione delle crisi. Si osservò, a suo tempo, che persino le consultazioni che precedono l’incarico di formare un governo sono un rituale inutile, se il popolo stesso ha scelto la maggioranza parlamentare
e il suo «leader».
Come è potuto accadere, dunque, che i presidenti della Repubblica degli ultimi vent’anni abbiano svolto un ruolo tanto importante nell’imprimere un indirizzo alla politica, siano divenuti — come osservato da uno dei nostri maggiori costituzionalisti — i titolari dell’indirizzo politico-costituzionale?
La spiegazione di questo paradosso sta probabilmente nell’estinzione della Democrazia cristiana, il partito cardine, intorno al quale ruotava la vita politica italiana, che ne controllava gli sviluppi e condizionava la scelta dei governi. Finito il partito di maggioranza relativa, una parte di questa funzione si è scaricata sulle spalle dei presidenti. Questi dovevano veder diminuire il loro ruolo, col sistema maggioritario. Invece, se
lo sono visto accresciuto. Potrebbero maturare, ora,
tre condizioni in grado di modificare questo equilibrio. La formula elettorale maggioritaria, dopo gli scossoni dell’ultimo ventennio, si avvia a diventare — come quelle degli altri Paesi a democrazia matura — una scelta condivisa e longeva, destinata a durare.
I governi potrebbero nascere e morire con i relativi Parlamenti, durando anch’essi 5 anni, come accade quasi sempre altrove, richiedendo a ogni presidente di gestire al massimo due volte le crisi. Nei partiti, le minoranze sembrano rendersi conto che il loro futuro non sta nelle scissioni, ma nel cercare di diventare maggioranze, accettando anche all’interno delle formazioni politiche la democrazia dell’alternanza. Se queste condizioni si realizzeranno, la figura presidenziale, appena abbozzata dalla Costituzione, è destinata a trasformarsi nuovamente. Al presidente della Repubblica sarà richiesto soltanto di giocare
il ruolo di equilibratore e regolatore dei tre poteri dello Stato e si ritornerà al modello presidenziale einaudiano.

La Stampa 22.12.14
Flessibilità contro precarietà
di Francesco Manacorda


Il 2014 dell’economia se ne andrà - lo sappiamo - senza rimpianti. Il Pil italiano ha perso ancora terreno, la disoccupazione è ai massimi storici, anche l’iniezione di liquidità per i redditi più bassi con gli 80 euro in busta paga non pare aver dato per ora effetti sensibili sulla domanda interna. Il prossimo anno, invece, è quello in cui si prevede una minima ripresa del Pil, un primo spiraglio di luce. Ma per l’occupazione, dicono le stesse previsioni, non ci saranno miglioramenti. E una ripresa senza lavoro per molte famiglie italiane, specie quelle dove c’è chi il lavoro lo ha perso o quelle dove ci sono dei giovani in cerca di prima occupazione, non sarà davvero una ripresa.
Quando e come potrà incidere la politica del governo su questa situazione? Lo studio della Cisl, di cui scrive oggi sul giornale Paolo Baroni, afferma che grazie al bonus previsto assumere a tempo indeterminato quattro nuovi lavoratori potrà costare quanto assumerne tre a tempo indeterminato.
Se è così c’è da sperare che già nei prossimi mesi l’effetto del Jobs Act si faccia sentire non solo sulla quantità, ma anche sulla qualità dell’occupazione.
Uscire dalla giungla dei contratti parasubordinati e dalle forme di collaborazione più o meno fittizie usate da molte aziende in modo improprio, per avviarsi sulla strada del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti può significare per molti giovani anche l’abbandono di una precarietà che prima che economica è esistenziale e limita i progetti, impedisce scelte di autonomia. Essere soggetti deboli, come spesso sono i giovani, in un mercato del lavoro rigido come quello che abbiamo avuto finora significa venire sottoposti alle tensioni maggiori, rischiare di trovarsi là dove quelle rigidità finiscono per creare una rottura che espelle o mette ai margini. Essere giovani in un mercato del lavoro più flessibile - in entrata come in uscita - può invece dare prospettive diverse. Per un venticinquenne di oggi è più importante essere inserito in un percorso che mano a mano aumenti le sue tutele o venire subito garantito contro i rischi di perdere un lavoro - che peraltro oggi non ha - dall’Articolo 18? La risposta non pare difficile.
Anche dal mondo dei giovani professionisti giungono segnali di grande difficoltà, come raccontiamo nelle nostre pagine. Per loro, che guadagnano in media la metà degli «over 40» che fanno la stessa professione, il problema non è solo l’oggi, ma anche il domani. Si avviano, infatti, a una carriera dove sarà difficile aumentare i redditi e dove risulterà complicato anche assicurarsi una pensione dignitosa. E anche in questo caso ci sono rigidità da abbattere: i vincoli degli ordini, le tariffe minime, le caste parentali, ostacolano un mercato dei servizi davvero libero.
Con i decreti delegati attesi prima di Natale e molte aziende che già aspettano di capire se da gennaio potranno trasformare i contratti in scadenza nella nuova formula a tempo indeterminato, siamo davvero di fronte a una svolta cruciale. Se la flessibilità sarà prevalente sulla precarietà allora tutti - aziende, lavoratori e soprattutto quei giovani che nel mondo del lavoro vogliono e devono entrare - avranno fatto un buon affare. Se invece dovesse avvenire il contrario anche la politica ne pagherebbe il prezzo: un esercito di giovani sempre meno garantiti ma anche sempre più precari sarebbe sempre più tentato di non scegliere le urne per farsi sentire.

il Fatto 22.12.14
Gli immobili vuoti: tesoro da utilizzare
di Domenico Finiguerra


In Italia ci sono sei milioni d immobili inutilizzati. La stragrande maggioranza sono case vuote: se ne stimano almeno 2 milioni. Mezzo milione sono i negozi chiusi. E poi capannoni industriali dismessi, ex fabbriche, ex scuole, ex caserme, ospedali non compiuti, ex case cantoniere, stazioni e caselli ferroviari, ex hotel ed ex centri commerciali, ex cascine, ex malghe, ex masserie, chiese e conventi. Addirittura ex paesi interi: www.paesifantasma.it.
Ma non abbiamo solo “roba vecchia”. Esiste anche un enorme stock di edifici appena costruiti. Cemento gettato sulla terra per coltivare rendita fondiaria.
Cosa ne facciamo di questo enorme patrimonio? Poco o nulla.
Milioni di volumi senza contenuto; milioni di ragazze e di ragazzi senza lavoro o che vagano per il mondo perché questo Paese non è più in grado di dare validi motivi per restare.
Se in cima alla lista delle priorità ci fosse davvero il dramma della disoccupazione giovanile, le risorse (che ci sono… basta chiedere a Franco Bassanini, Presidente della Cassa Depositi e Prestiti) sarebbero orientate soprattutto alla soluzione di questo problema che affligge diverse generazioni di genitori e figli. Una buona pratica, una fortissima leva per la promozione di nuove imprese giovanili, di nuovi spazi di socialità, di welfare, di cultura ed educazione, e che al contempo affronterebbe il degrado ambientale ed urbanistico di molte città, sarebbe proprio il riutilizzo e la sistemazione di questi miliardi di metri cubi lasciati a marcire. Una rassegna di recuperi virtuosi si trova su www.riusiamolitalia.it , sito parallelo al libro di Giovanni Campagnoli: incubatori e co-working, produzioni teatrali e artistiche, botteghe artigianali, nuovi coltivatori urbani. Migliaia di posti di lavoro creati dove c’era un problema, nuovi servizi alle famiglie dove c’erano sterpaglie, alloggi a canone calmierato dove c’erano alberghi a 5 stelle.
Nei corsi di formazione manageriale e nei convegni dei super esperti di micro e macro economia vi è una slide piuttosto ricorrente: saper trasformare le crisi in opportunità.
E quale occasione migliore per metterla in pratica? Trasformando l’abbandono del calcestruzzo decadente in opportunità di lavoro e di vita di comunità.
Ma questo comporta un cambio radicale di paradigma, anche mentale.
E soprattutto l’espulsione dell’avidità e della tendenza ad accumulare ricchezza dai nostri pensieri. Quell’avidità che fa preferire lasciare ricchezza morta in terra, piuttosto che metterla a disposizione della collettività. Ma cambiare si può.
Cominciamo a riascoltare il monologo di Chaplin nel Grande Dittatore. E magari inviamone il link come regalo di Natale, anche a chi alberga nelle stanze dei bottoni…

Corriere 22.12.14
Il caso dei marò, E le reazioni popolari
risponde Sergio Romano


È tornata di pressante attualità la vicenda dei due marò, Latorre e Girone. Tutti se ne occupano, dal presidente della Repubblica al presidente del Consiglio, dal ministro della Difesa a quello degli Esteri; ogni quotidiano ne parla diffusamente e tutti praticamente concordano sul fatto che i due militari italiani devono essere liberati e devono tornare definitivamente in patria. Non sarò certo io a mettere in dubbio l’innocenza dei due connazionali; quello che mi stupisce è il fatto che nessuno chieda con la stessa determinazione che si chiede per il rilascio, anche l’individuazione dei veri responsabili della morte dei due pescatori indiani. In modo da non far pensare che le autorità italiane se ne infischino altamente della sorte di due lavoratori e delle loro famiglie...
Mauro Chiostri

Caro Chiostri,
I due punti sollevati nella sua lettera sono egualmente importanti. La linea adottata dal governo italiano è difficilmente comprensibile. Pensavo che vi sarebbe stato, prima o dopo, un «libro bianco» in cui i ministeri competenti della Repubblica (Esteri e Difesa) avrebbero riassunto i termini della questione e descritto i passi fatti con il governo indiano per ottenere che i due marinai venissero consegnati alle nostre autorità militari e giudiziarie. Ma questo documento non esiste e la sua mancanza sembra confermare che vi sono aspetti della vicenda di cui non si vuole parlare pubblicamente. Come hanno ricordato più volte Danilo Taino sul Corriere e Roberto Toscano (ambasciatore a Nuova Delhi dal 2008 al 2010) su La Stampa, ancora non sappiamo perché sia stato permesso alla nave Enrica Lexie di entrare in un porto indiano, perché i due marinai, quando tornarono per la prima volta, non siano stati trattenuti per una indagine della giustizia italiana, perché il governo si sia astenuto dall’iniziare unilateralmente il procedimento dell’arbitrato previsto dalla Convenzione Onu sul diritto del mare.
L’opinione pubblica, dal canto suo, ha pungolato il governo e lo ha severamente criticato. Ma in questa legittima reazione di un Paese che chiede alle autorità nazionali di proteggere i propri cittadini in uniforme, vi sono stati spesso toni eccessivi, esplosioni di una rabbia compiaciuta. Ho avuto l’impressione che le molte proteste contenessero una sorta di livore anti istituzionale, il desiderio di aggiungere il caso dei marò alla lunga lista delle lagnanze nazionali. Non basta. Mi è anche sembrato che in questo apparente patriottismo vi fosse una buona dose di cinismo e qualche volta persino un pizzico di razzismo. Era giusto dimenticare che vi erano stati due morti, che anche quei morti avevano una famiglia, che anche le autorità indiane sarebbero state chiamate dalla loro opinione pubblica a fare giustizia? Che cosa sarebbe accaduto se due cittadini italiani fossero stati coinvolti in un incidente analogo?

il Fatto 22.12.14
Noi “possiamo”
La terza via del Duemila: radicale e pronta a vincere
di Pippo Civati


E noi Possiamo? La vera Terza Via degli anni in cui viviamo.
Un movimento di indignati, che gridavano “non ci rappresentate” e, quindi, dichiaratamente in cerca di una rappresentanza politica che non c’è (in Italia l’avremmo dato per perso, quell’elettorato, relegandolo nell’indistinto universo dell’astensionismo). Un gruppo di professori di un’università di Madrid che hanno elaborato un progetto politico coerente e efficace: “tecnici” sì, potremmo dire, ma della “rivoluzione”. Un’organizzazione basata sull’adesione via web e una sapiente miscela tra la partecipazione aperta a tutti e le più tradizionali incursioni televisive. Una profonda critica al modello imperante, che sa declinarsi dal populismo anticasta, che in Italia conosciamo benissimo, a un’idea di società radicalmente diversa (perché l'attacco alla “casta” può avere senso solo se inserito in una più complessiva lotta contro le disuguaglianze).
UN PROGETTO POLITICO visto spesso come massimalista ed estremista, ha detto lo stesso Pablo Iglesias, confrontandosi con Alexis Tsipras ad Atene, il 5 ottobre di quest’anno: eppure, “riforma fiscale, audit del debito, controllo collettivo dei settori strategici dell’economia, tutela e miglioramento dei servizi ancora in mano allo Stato, recupero della nostra sovranità in campi importanti come quello dell’economia, misure che possano favorire il consumo, assicurarsi che gli enti finanziari statali proteggano la piccola e media impresa e le famiglie: sono parole che i socialdemocratici dell’Europa occidentale avrebbero avuto il dovere di dire 30 o 40 anni fa” (cfr. Giacomo Russo Spena e Matteo Pucciarelli, Podemos. La sinistra spagnola oltre la sinistra). Un programma che, se la sinistra cosiddetta riformista non si fosse persa tempo fa, trasformandosi in una sorta di “altra destra”, ricorda i principi fondamentali della tradizione del socialismo europeo (lo ha recentemente notato anche Luciano Gallino, su Repubblica, il 16 dicembre: “Nell’insieme, i due programmi di Syriza e di Podemos appaiono essere più solidamente social-democratici, concreti e adeguati alla situazione attuale della Ue e alle sue cause di quanto qualsiasi altro partito europeo abbia finora saputo esprimere. Non per nulla i due partiti sono già oggetto di un furibondo bombardamento denigratorio da parte dei media, della Troika, dei think tanks sovvenzionati dal mondo finanziario, e dei politici incapaci di pensare che al di là dell’Europa della finanza si potrebbe costruire un’Europa dei cittadini”).
Se pensiamo che in Italia quasi metà delle forze politiche sostengono che si debba uscire dall’euro o, in ogni caso, creare due monete diverse, non deve sorprendere che Podemos come Syriza non intendano abbandonare la moneta unica, chiedendo piuttosto un cambiamento comune che riguardi tutta l’Europa. Una prospettiva radicale, ma sempre e comunque di governo, in cui il populismo è sempre corretto e arginato dall’analisi economica.
Un leader riconoscibile, che ha una certa idea leninista 2.0 dell’organizzazione politica e della sua proposta, che si rivolge al 99% o, più precisamente, a quella che in Italia sarebbe la “maggioranza invisibile” descritta da Emanuele Ferragina: i precari, i poveri, i non-rappresentati, gli outsider.
Ecco che cos’è Podemos. Una formazione di sinistra, che non ha motivi però per ricordarlo a ogni passo, anche perché - sostiene Iglesias - siamo di sinistra ma non lo diciamo, anche perché si capisce benissimo e le categorie, oggigiorno, è più importante illustrarle con le soluzioni che con le dichiarazioni di principio.
LA SINISTRA DIVENTA competitiva se rinuncia ai suoi culti e alle sue etichette esteriori che rinviano a chissà quale esperienza storica: “Trying to transform society by mimicking history, mimicking symbols, is ridiculous. There is no repeating other countries’ experiences, past historical events. The key is to analyze processes, history’s lessons. And to understand that at each point in time, ‘bread and peace’ if it is not connected to what people think and feel, is just repeating, as farce, a tragic victory from the past, come Iglesias ha scritto per la rivista Jacobin, in un pezzo intitolato “La sinistra può vincere”. A patto che non si limiti a sommare cose che ci sono o, peggio, ci sono state, a patto che ripensi fin dalle fondamenta all’organizzazione politica (siamo nel Tremila), a patto che il suo programma sia credibile e insieme capace di liberarsi dall'ossessione del presente - che per sua natura passa subito, sostituito da un altro presente - per saper progettare qualcosa di diverso per il futuro. Perché una cosa è certa: le attuali ricette non solo sono sbagliate, se guardate sotto il punto di vista dell’uguaglianza (collegato come ha recentemente riconosciuto a quello della crescita), ma con buona probabilità sono anche inutili.
Tra Iglesias e Tsipras si sta creando una linea condivisa, molto più incisiva delle camicie in bianco dei leader socialisti, che dopo la kermesse non sono riusciti a delineare un progetto comune. In Italia è necessario collegarsi con loro al più presto, se si vuole indicare una strada tra il rigore prussiano e il populismo di tutti quanti gli altri. La vera Terza Via degli anni in cui viviamo: la via della politica, della rappresentanza, del superamento delle disuguaglianze, condizione necessaria più di ogni altra.

il Fatto 22.12.14
Qui Madrid
Gli spagnoli di Podemos, quando i grillini sono di sinistra
di Salvatore Cannavò


La retribuzione netta mensile dei parlamentari europei di Podemos sarà, come massimo, tre volte il salario minimo intercategoriale spagnolo (645 euro). Ad oggi sono 14 mensilità da 1.935 euro”. Così si leggeva, lo scorso aprile, sulla Carta dei candidati di Podemos per le elezioni europee, un “decalogo” degli impegni dei candidati della giovane, allora, formazione politica spagnola che alle europee di maggio ha ottenuto, sorprendentemente, 5 deputati europei con l’8% dei voti. Arrivati a Strasburgo i parlamentari del Movimento 5Stelle sono rimasti spiazzati da un impegno così radicale che loro non sono stati in grado di assumere.
Il confronto aiuta a capire come la spinta dal basso che ha dato origine al movimento di Grillo in Italia esista anche in altri paesi. In Spagna ha preso le sembianze, giovani e movimentiste, di un’organizzazione che lo scorso novembre era accreditata del 28,3% dei voti, davanti agli storici partiti spagnoli, Pp e Psoe, quindi in grado di vincere le elezioni. In otto mesi Podemos, da una trentina di attivisti riunitisi in una libreria al centro di Madrid, è arrivata a circa 300 mila iscritti e si sta preparando alle elezioni a colpi di democrazia, partecipazione e programmi di cambiamento radicale (vedi il libro di Giacomo Russo Spena e Matteo Pucciarelli).
Figli dell’anticasta
Per spiegare quanto è accaduto bisogna ricorrere a una parola spagnola ormai nota a tutti: indignados. Quando a settembre è venuto in Italia, il giovane attivista di Podemos, Miguel Urban - uno dei protagonisti del libro di Pucciarelli e Russo Spena - lo ha spiegato con nettezza: “Podemos è figlia del movimento degli indignados: noi veniamo dal basso per sconfiggere l’alto”. Oltre le tradizionali linee di fratture cui ci ha abituato la politica del Novecento - destra/sinistra, lavoro/capitale ma anche ecologia/profitti - negli ultimi anni si è affermata un’altra polarizzazione. Quella che contrappone la calle, la strada, “il popolo” e i governanti, chiunque essi siano. Gli slogan del movimento degli indignados erano già indicativi: Demoracia real ya, Democrazia reale, ora gridato da un luogo mutato dalla Primavera egiziana, l’accampamento, l’acampada. Alla Puerta del Sol madrilena la sera del 15 maggio quando nacque il movimento 15M, le tende furono allestite da una trentina di persone ma a poco a poco diventarono migliaia. L’immagine fece il giro del mondo, ispirò altre mobilitazioni, costruirono una tendenza. Le mobilitazioni spagnole non otterranno risultati immediati ma produrranno un senso comune diffuso che si diffonde nella società. Le iniziative del movimento 15M si moltiplicano a livello locale, la perdita di legittimità dei partiti di governo si allarga a macchia d’olio. E si inizia a non fare più differenza tra destra e sinistra. Le accuse di aver tradito il popolo e di aver fatto gli interessi solo della grande finanza vengono rivolte sia al Partito popular di Mariano Rajoy che al Psoe, oggi diretto dalla “camicia bianca” di Pedro Sanchez.
La crisi si è abbattuta violentemente sulla Spagna che ha visto schizzare la disoccupazione a oltre il 26% nel 2013 (quest’anno è scesa al 23) e ha assistito inerte all’esplosione della bolla speculativa sull’immobiliare. La recessione si è mescolata agli scandali: nel 2013 è l’Infanta Crisittina a essere accusata di appropriazione indebita per milioni di euro mentre alla Caja Madrid scoppia lo scandalo delle carte di credito generose ai consiglieri e manager dell’istituto. La Caja fa anche parte di un’azienda, la Bankia, per salvare la quale la Spagna ha dovuto sborsare 23 miliardi di euro. Il circolo vizioso tra politica, affari, finanza e impoverimento di milioni di persone è evidente. E il sistema politico diviene il bersaglio principale.
Il caso italiano, Prodi e la casta
Qualcosa del genere è accaduto anche in Italia. Quando Grillo lancia il suo V-Day, nel 2007, il centrosinistra è da poco riuscito a tornare al governo sconfiggendo Silvio Berlusconi ma la sua azione si rivela subito deludente. Non è un caso che quello sia lo stesso anno in cui si affermano libri come La Casta di Sergio Rizzo e Gianantonio Stella oppure Se li conosci, li eviti di Peter Gomez e Marco Travaglio, che puntano il dito proprio sull’inadeguatezza della politica italiana. In Italia, però, anche per effetto delle scelte di Grillo e Casaleggio, il M5S si tiene alla larga da posizioni di sinistra più o meno movimentista. In parte è comprensibile: partiti come Rifondazione comunista si sono mescolati alla gestione fallimentare dei governi di centrosinistra fino al paradosso di Fausto Bertinotti, ormai archiviato come uno dei simboli della “casta”.
Podemos, invece, anche per effetto della pervasività del movimento 15M compie una scelta diversa. Con il suo leader, Pablo Iglesias, parlantina sciolta e codino lungo - da dove deriva il soprannome el coleta - è professore universitario ma diviene celebre come conduttore televisivo. Insieme a pochi altri intuisce che c’è uno spazio politico molto ampio da riempire. Lo fa senza il timore di mescolare ideologicamente Antonio Gramsci e il filosofo argentino Ernesto Laclau, analista del peronismo e teorico del populismo di sinistra.
Il leaderismo di “el coleta”
Lo fa con un’impostazione leaderistica. Al congresso di Podemos, quando deve rintuzzare le critiche degli oppositori interni, che propongono di eleggere tre portavoce invece di un segretario generale, risponde che “tre segretari generali non vincono le elezioni contro Rajoy e Sanchez, uno solo sì”. L’atteggiamento è spavaldo, si vede da come conduce i lavori congressuali, molto sicuro di sé e del proprio fiuto politico. Però, allo stesso tempo, Podemos si struttura in una forma più o meno democratica, i militanti hanno diritto di parola e di voto, si eleggono gli organismi dirigenti. Si decide con il voto online - altra innovazione importante - e si offre uno strumento a chi vuole far saltare il sistema.
Ma la collocazione a sinistra è chiara. Prima di creare Podemos, Iglesias stava trattando una sua candidatura alle europee con la vecchia formazione di sinistra Izquierda Unida. Quando ancora era un professore sconosciuto si recava a Padova per scrivere un libro come Disobedientes, prefazione di Luca Casarini. Appena eletto europarlamentare, poi, decide di giocare in tandem con Alexis Tsipras, il leader greco spauracchio dei mercati finanziari di mezza europa. Così, ha guadagnato estimatori italiani. A sinistra viene citato da Paolo Ferrero di Rifondazione comunista ma anche da Pippo Civati (vedi articolo a fianco). In Francia, Jean Luc Melenchon, che ha rappresentato la sinistra alle ultime presidenziali con l’11% dei voti, ha deciso di varare un nuovo movimento ispirandosi a Podemos. È ammirato anche da aree della sinistra movimentista, dai centri sociali, da intellettuali impegnati. L’Iglesias-mania è tutta da verificare. Di fronte alle nuove responsabilità, Podemos ha varato un programma di governo dal titolo “Un progetto economico per la gente” in cui l’impostazione di fondo è keynesiana anche se non si rinuncia a misure più radicali come la riduzione dell’orario di lavoro o il reddito minimo di cittadinanza (comune al M5S). Ma sull’euro si punta a “ridisegnare” l’Europa per “fare funzionare” la moneta unica, si parla di “flessibilità” del Patto di stabiiltà e di “riforma” della Bce. L’establishment ha iniziato a temerlo facendo circolare le voci sui rapporti con il Venezuela o, addirittura, con l’Iran. Se dovesse vincere in Spagna, così come Tsipras in Grecia, Podemos modificherebbe il quadro politico europeo. Stando agli ultimi sondaggi, “è possibile”.

il Fatto 22.12.14
Il movimento spazzerà via la corruzione
di Pablo Iglesias

da El Pais

IL PENSIERO del leader in pillole: Per paura, l’illusione
Sappiamo che sarà difficile però non abbiamo paura. La paura ce l’ha JP Morgan. Quello che fa paura è che nell’ultimo anno è cresciuto del 24% il numero dei cittadini ricchi, terrorizza sapere che il 65% delle persone a rischio di povertà non ne escono quando poi trovano lavoro. Di fronte alla paura c’è il sorriso, l’allegria, un paese che difende la dignità del cibo, che difende la sanità pubblica. Quando ci insultano, ci diffamono, quando mentono, lo fanno perché vinceremo.
La scopa della corruzione
Podemos è una scopa, una scopa per spazzare la società. La corruzione non ha niente a che fare con mele marce, ha a che fare con il pagamento delle tasse e la democratizzazione dell'economia. Non siamo un esperimento politico, Podemos è il risultato del fallimento del regime, dei suoi oligarchi, quelli del “vecchio cuore” Beh, le persone hanno loro risposto: ‘È chiaro che possiamo’.
Un "Paese di Paesi"
Sono stufo della concezione di una Spagna aggressiva, che detta la lingua che devono parlare i suoi cittadini. La Spagna è un paese di paesi, una nazione di nazioni.
Penso che il PP e CiU siano partiti della casta che si autoalimentano. Per avere il diritto a decidere occorre decidere sull’economia. Discutiamo di tutto con tutti: di democratizzare l’economía, della questione territoriale di tutto e di ogni cosa.
Lavoro e economia
Bisogna lavorare meno ore, serve un lavoro differente.
Aborto
Difendiamo la vita, difendiamo il diritto che una donna decida quando vuole tenere un figlio.
La sfida del governo
Le vere difficoltà cominciano ora, quando vinceremo le elezioni iniziano le difficoltà vere.

Corriere 22.12.14
«La mia città ora è divisa. Ma nessuno vuole il caos neppure i neri discriminati»
Lo scrittore Aciman: «Tutti diciamo ai figli di stare attenti con la polizia»
intervista di Viviana Mazza


L’agguato di sabato ai due poliziotti avviene in una città divisa, in un momento di fortissima tensione tra gli afroamericani e la polizia e anche tra il sindaco e gli agenti. «Anch’io sono diviso — dice al Corriere lo scrittore André Aciman, autore di «Chiamami col tuo nome» e «Harvard Square» (Guanda), nato nel 1951 ad Alessandria d’Egitto ma new-yorchese d’adozione dall’età di 19 anni — perché capisco le ragioni di entrambi».
Dopo che il Gran Giurì ha deciso di non incriminare gli agenti coinvolti sia nell’uccisione di due afroamericani, il diciottenne Michael Brown a Ferguson in Missouri, e Eric Garner, morto soffocato da un poliziotto proprio a New York, decine di migliaia di persone sono scese in piazza a prote-stare contro la violenza con lo slogan «Non riesco a res pirare».
«La polizia non può continuare a fare ciò che ha fatto — dice Aciman —. La marcia di Manhattan è stata gigantesca, non erano in 25 mila (come ha scritto il New York Times , ndr) ma molti di più, e li capisco, perché questi comportamenti estremamente brutali vanno condannati. Io non credo che l’America sia questo. Ma è anche vero che la polizia è una forza necessaria. Gli agenti ora si vedono trattati come se fossero tutti dei violenti. Ma quando arrivi a New York è ai poliziotti che chiedi informazioni, e sono sempre estremamente gentili. Questa è la mia esperienza. Ma so anche che la mia esperienza personale non è sufficiente a giudicare: non ho mai sperimentato cosa significhi per un nero avere a che fare con la polizia e ho visto video terrificanti in proposito».
Oggi che la metropoli è assai più sicura, con la violenza ai minimi storici, l’agguato dei due poliziotti risulta ancora più scioccante.
«Nessuno, nemmeno la gente di Ferguson o i familiari di Garner, vuole la violenza. L’attentatore che ha ucciso i due poliziotti era chiaramente un caso psichiatrico. E l’aggressione ad altri due agenti, picchiati da alcuni manifestanti sul Ponte di Brooklyn durante una protesta contro la polizia non sarebbe mai dovuta avvenire e io credo che non accadrà mai più».
I rapporti tra il municipio e il dipartimento di polizia di New York non sono mai stati così brutti per anni. Lei pensa che de Blasio sia stato troppo critico nei confronti della polizia?
«Gli abusi della polizia ovviamente vanno condannati. Però c’è la sensazione da parte della polizia che questo sindaco, più liberal del solito, non li appoggi. I suoi predecessori, Giuliani e Bloomberg, avevano dato un maggiore sostegno alla polizia, anche perché ne avevano bisogno, mentre questo sindaco sin dall’inizio ha avuto un atteggiamento più critico. È comprensibile che non li abbia ciecamente appoggiati, ma si sono sentiti trascurati ed eccessivamente criticati. Da quando i poliziotti sono stati aggrediti sul Ponte di Brooklyn, gli agenti hanno creato una petizione che chiede che il sindaco non partecipi ai loro funerali se dovessero restare uccisi sul lavoro».
La sfiducia si è inasprita ancor più quando, di recente, de Blasio ha raccontato di aver avvertito suo figlio Dante che deve «stare particolarmente attento» se incontra la polizia di notte.
«Quelle dichiarazioni non avrebbero mai dovuto essere rese pubbliche. È stato un grosso errore. La verità è che tutti noi diciamo ai nostri figli che non devono litigare con la polizia e non devono ribellarsi, l’ho fatto anch’io con i miei. Ma il fatto che suo figlio sia nero, ha trasformato quelle parole in un messaggio diverso».
Giuliani, cui viene riconosciuto il merito di aver reso New York sicura, oggi accusa Obama di aver fomentato l’odio contro la polizia.
«La politica di tolleranza zero nei confronti del crimine attuata da Giuliani cambiò le cose rispetto al lassismo che c’era sotto Dinkins. Se da quel punto di vista Giuliani è stato un sindaco forte, ormai non lo ascolto più: è solo un politico di destra lontano dalla mentalità dei newyorchesi. Obama ha condannato l’uccisione dei due poliziotti, e ha detto chiaramente che niente giustifica i saccheggi e le violenze».

Repubblica 22.12.14
Lo scrittore Adam Gopnik
“Dal primo cittadino parole irresponsabili”
di Antonella Guerrera


«SIAMO tutti sconvolti dall’omicidio dei due agenti. Certo, il sindaco de Blasio è stato un irresponsabile con quelle dichiarazioni contro la polizia. Ma anche quest’ultima, a New York, ha una lunga storia di militanza e opposizione politica. E il problema resta sempre lo stesso: le armi libere». Adam Gopnik, newyorkese doc, penna di punta del New Yorker e autore di “Una casa a New York” (Guanda) è scosso: la sua città è di nuovo sotto shock e le crepe razziali rischino di ri-allargarsi paurosamente.
Signor Gopnik, dopo Ferguson ora le tensioni razziali invadono New York?
«Non esageriamo. Certo, siamo di fronte a un pazzo scatenato che, dopo aver sparato all’ex ragazza, ha ucciso per motivi razziali. La tensione rimane sicuramente alta dopo la morte di Michael Brown ed Eric Garner. Di sicuro non abbiamo raggiunto l’integrazione che sognavamo. Ma il Paese, nonostante gli ultimi avvenimenti, è molto meno diviso rispetto a quaranta o cinquanta anni fa. Il problema è un altro».
E cioè?
«La politica delle armi per tutti in America. È vero che i neri sono più a rischio quando incontrano un agente, questo purtroppo deriva dalla nostra storia. Ma è altrettanto vero che i poliziotti hanno il terrore di beccare una pallottola da chiunque in strada e quindi reagiscono in maniera troppo impulsiva. Perché si sentono sempre a rischio. In Europa è diverso».
I sindacati di polizia dicono che il sindaco de Blasio ha le “mani sporche di sangue” per le sue recenti affermazioni contro gli agenti. E anche il cardinale Timothy Dolan l’ha duramente criticato un mese fa.
Lei è d’accordo?
«De Blasio è stato un irresponsabile. Le sue critiche hanno solo esacerbato gli animi. Il sindaco di New York non può comportarsi così».
Cosa ha letto nelle sue lacrime pubbliche di ieri?
«Che, finalmente, dopo questo tragico avvenimento, è cresciuto. De Blasio deve capire che governa una delle città più importanti del mondo, non è più solo un brillante politico di sinistra. Forse ora imparerà a misurare le parole e diventerà davvero un leader. Però anche la polizia ha le sue colpe».
Perché?
«I sindacati degli agenti hanno sempre fatto politica a New York e si sono sempre opposti a quei sindaci che, secondo loro, non li proteggono adeguatamente. Anche loro devono abbassare i toni. Girare le spalle ieri a de Blasio è stato un gesto altrettanto folle. Dovrebbero imparare tutti da Obama, che, nella sua vicinanza alla comunità afroamericana, non ha mai detto una parola contro la polizia».
Eppure l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani ha dichiarato ieri che l’uccisione dei due agenti è anche colpa del presidente, che da quattro mesi fa «una propaganda di odio contro la polizia». Lei che ne pensa?
«Questa è una follia. Giuliani pensa solo ad aizzare gli animi, forse perché sta perdendo sempre più influenza a New York. È una visione assolutamente distorta della realtà, un po’ come quella dei social network. È il triste trionfo della “cultura spontanea”, in 140 caratteri. La realtà è più complicata».

Repubblica 22.12.14
Così l’America antirazzista sconterà l’odio dei neri sui social
Il killer dei poliziotti si sentiva un vendicatore e i suoi deliri su Instagram avevano ricevuto sostegno e incitazioni
Il modo più diretto per confermare i pregiudizi e le ingiustizie
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON IL SANGUE chiama sangue e «oggi molte mani grondano sangue » grida il leader del sindacato di polizia di New York, Pat Lynch, davanti alle bare dei due agenti ammazzati a Brooklyn per vendicare i «fratelli» neri. E le mani alle quali pensa sono quelle del sindaco de Blasio, colui che ha tradito e abbandonato, «gli uomini in blu», dicono loro, alla frontiera della guerra urbana i bianco e nero. C’è un evidente tracciato di follia che lega le morti di americani afro per mano di poliziotti impuniti a Ferguson, a Cleveland, a Staten Island ai colpi esplosi a freddo, attraverso i vetri dell’autopattuglia, da Ismaaiyl Abdullah Brinsley, un ragazzo con un lunga fedina penale, due condanne per assalti a mano armata e un colpo di pistola tirato al ventre della sua ragazza poche ore prima di uccidere gli agenti Wenjian Liu e Rafal Ramos. Brinsley, che si è poi ucciso con la stessa pistola Taurus calibro 9 usata per colpire gli agenti, non era un militante, non era un attivista, non era altro che un giovanotto squinternato che si era autoproclamato il vendicatore delle ingiustizie. E aveva preannunciato, nella propria pagina di Instagram con selfie della propria uniforme mimetica, delle scarpe da basket argentee e della pistola automatica, di voler «mettere le ali ai porci». Di ucciderli.
Soltanto il destino, la sfortuna dei due poveri «porci», ha voluto che Brinsley s’imbattesse nell’autopattuglia del Nypd, della polizia di New York, ferma davanti a un “project”, uno di quei casermoni popolari che concentrano nello squallore di sé le vite, i rischi, i crimini, la fatica di essere ghetto. Liu e Ramos non facevano nulla, erano soltanto presenza di polizia a Bedford Stuyvesant, il quartiere di Brooklyn dove sta il casermone. Non hanno neppure reagito quando lui li ha fatti secchi, nello stile delle esecuzioni mafiose e di gang, attraverso i vetri dei finestrini con la pistola fabbricata in Brasile, la Taurus cal.9, che in strada si compera usata per meno di 100 dollari. Un triangolo di sangue così feroce e insieme così newyorkese, fra un cinese, un latino e un afroamericano.
Nulla ha senso, nell’esecuzione dei due “cop”, dei due poliziotti annoiati che piantonavano un palazzo e nel suicidio del loro assassino, in una stazione del metro G eppure tutto si tiene in una concatenazione tanto tragica quanto prevedibile. Le polizie, che siano nei sobborghi di St. Louis, nel ghetto di Cleveland, nelle strade di Staten Island, nei corridoi bui di un altro falansterio di Queens dove un agente uccise un innocente giovanotto afro che era appena uscito dall’appartamento della moglie e del figlio bambino, si sentono abbandonate dai «politici » al fronte di una guerra nella quale a loro è chiesto di combattere e sparare, senza avere le spalle coperte.
La gente di colore, che sente nella propria carne e soprattutto in quella dei suoi giovani, gli effetti delle pallottole, tenta di ripetere che semmai quelle spalle sono fin troppo coperte, da procuratori della repubblica, giudici, magistrati e boss sindacali come “The Blue Bulldog”, il capo dei sindacati in blu di New York, Pat Lynch, che puntualmente salvano, o puniscono con bacchettate sulle dita, coloro che uccidono i neri, dalla Los Angeles di Rodney King allo strangolatore innocente di Garner, il contrabbandiere di sigarette. E in mezzo, “loro”, i politici, i sindaci, i governatori, i capi delle polizie che qui sono scelti dai sindaci, e che, come Bill de Blasio, marito di una signora afroamericana e padre di figli naturalmente di sangue misto, assorbono la rabbia degli uni e degli altri, vaganti nella terra di nessuno fra le trincee.
Obama, che nel proprio Dna misto bianco e nero, sarebbe dovuto essere lo strumento vivente per l’armistizio, se non per la pace razziale, era alle Hawaii, per le vacanze natalizie con Michelle e le ragazze mentre Brinsley «giustiziava » i due poliziotti. E se non ci può essere nulla di riprovevole in un riposo festivo per un presidente, tanto più in uno Stato dell’Unione come la Hawaii, questa sua innocente lontananza fisica crea un sentimento di distacco dalla brutale, cruente realtà delle “Mean Street”, delle strade cattive, dove si combatte e si muore.
Naturalmente sangue, mani sporche, proiettili, code di paglia, paure, tutto si coagula e si riversa nella lotta politica. L’ex governatore repubblicano di New Yorl, Pataki, accusa de Blasio di avere dato in pasto ai criminali i suoi uomini e le sue donne in uniforme, schierandosi con i dimostranti che due domeniche or sono sciamavano per le strade di New York con le mani alzate e l’invito sarcastico a «non sparare». Gli agenti, che formano muri umani e sconvolti al passaggio della bare di Liu e Ramos, voltano ostentatamente le spalle al sindaco, quando vuole essere presente all’addio.
Un calderone infernale di paure vere, di intenzioni opportunistiche, di demagoghi e di dolenti sinceri, di iniquità storiche e irrisolte si riversa come carburante sulla mente infuocata di uno sciagurato ragazzo georgiano, con pesanti precedenti penali, ed esplode nell’autoreferenzialità di un social network. Nel palazzo degli specchi di Instagram, si sente un angelo vendicatore, ottiene, come illustrano i commenti nella sua pagina ora chiusa ma già archiviata, l’approvazione e il sostegno di “amici virtuali” e anonimi che lo incitano, lo fanno sentire importante, lui che non è mai stato nulla. «Go dawg», vai, cane, lo incitano dove cane è un termine di fraternizzazione e di riconoscimento.
Non sa, perché non può saperlo, che proprio azioni come queste possono segnare la morte di quella spinta legittima, pacifica, tranquilla che si era risvegliata e scossa senza violenza dopo i proscioglimenti degli agenti sospettati di omicidio. Che la maniera più diretta e certa per rassicurare il razzismo dei bianchi è confermare il pregiudizio e lo stereotipo del «giovanotto negro armato» e omicida. Illudendosi di fare giustizia, Ismaaiyl Abdullah Brinsley ha contribuito a perpetuare l’ingiustizia, che ora tornerà dove sempre scorre, fiume carsico sotto la crosta americana. Almeno la ragazza alla quale ha sparato al ventre a Baltimora, prima di partire per Brooklyn e mettere ali ai «porci», si salverà.

La Stampa 22.12.14
I peshmerga sbaragliano l’Isis sul monte Sinjar
Migliaia di civili in salvo
di Giordano Stabile


L’operazione più spettacolare è stata la presa della base di Tal Afar da parte dei corpi speciali iracheni, appena riaddestrati dagli americani. La Golden Brigade è scesa direttamente dal cielo sugli aerei da trasporto, dopo che i cacciabombardieri della coalizione anti-Isis e le avanguardie dei guerriglieri curdi peshmerga avevano distrutto le postazioni di difesa degli islamisti, e dalla pista di atterraggio si è impadronita della roccaforte circondata da trappole esplosive.
Tal Afar, conquistata dagli jihadisti fra giugno e agosto dopo furibondi attacchi kamikaze, è un nodo strategico per due mete decisive nella guerra all’Isis in Iraq: il monte Sinjar verso Ovest, Mosul verso Est. E l’offensiva che hanno scatenato i peshmerga nei giorni scorsi è il preludio per quella di gennaio che dovrebbe portare alla riconquista della città.
In attesa di Mosul, che è curda solo in parte, i peshmerga spingono verso Sinjar, il capoluogo dell’omonima zona montuosa, dove da tre mesi sono intrappolati i loro fratelli yazidi, tremila combattenti e settemila civili. Il corridoio per l’evacuazione e l’invio di vivere è stato aperto venerdì, ieri i guerriglieri hanno conquistato i sobborghi della città. Si combatte casa per casa, come a Kobani, in Siria, altro simbolo dello scontro fra curdi e islamisti.
L’offensiva sul monte Sinjar, con ottomila uomini appoggiati dai raid alleati e dalle forze speciali irachene è la prima vera riconquista di territorio in mano all’Isis da agosto, quando sono cominciati i raid aerei alleati. I curdi sostengono di aver ucciso 300 islamisti, che da agosto, solo nei raid e a Kobani ne avrebbero perso 1400. E cominciano ad affiorare le fosse comuni dove gli islamisti hanno sepolto sotto poche dita di terra i civili eliminati senza pietà. Almeno 70 corpi sono riemersi.

La Stampa 22.12.14
Ora l’islam fa paura. Tunisi sceglie il laico
di Francesca Paci


Chi ha vinto il ballottaggio per le presidenziali tunisine, le prime in regime di libertà nel paese che nel 2011 accese la miccia della primavera araba? A seggi appena chiusi il partito laico Nidaa Tounes annuncia il trionfo del suo candidato, l’88enne Béji Caid Essebsi passato indenne dai governi Bourghiba a Ben Ali fino all’era post dittatura. L’avversario Moncef Marzouki, ex Capo di Stato a interim sostenuto dai giovani della rivoluzione per paura del ritorno al passato, contesta un esito che pure sembra probabile (secondo 3 istituti di ricerca il vantaggio di Essebsi è tra 5 e 10 punti). Ad aver vinto di sicuro, per ora, è il 59,4% degli elettori andato a votare in barba a una transizione faticosa contraddistinta dalla crisi economica (oltre il 15% di disoccupazione), una forte polarizzazione tra islamisti e anti-islamisti, le minacce degli jihadisti dalla Libia (e non solo).
Quando il raiss aveva il 100%
La Tunisia però, è anche una cartina di tornasole per l’eredità del terremoto regionale di 4 anni fa. Qui, come in Egitto e in Libia, l’islam politico fa i conti con la sconfitta della propria prima storica performance alla plancia di comando. Passi Essebsi o a sorpresa Marzouki, a confrontarsi sono state grossomodo ancora due visioni della «democrazia», quella che per averli sperimentati al governo teme i partiti religiosi al punto di rituffarsi tra le braccia dell’«usato garantito» (Essebsi qui, Sisi in Egitto, il generale Haftar in Libia) e l’altra irriducibile al cambiamento anche se significa silenziare le caserme per dar voce (temporaneamente?) alle moschee (di fatto l’unica agorà efficiente in società digiune di democrazia).
La maggior parte dei tunisini non ha votato per un candidato ma contro l’altro. Quel che si imputa a Essebsi è la partecipazione al regime di Ben Ali ma anche a quello di Bourguiba (che pur avendo favorito l’emancipazione delle donne vinse 3 elezioni con il 100%). Marzouki invece viene incolpato di aver macchiato l’impeccabile pedigree di dissidente laico (attivista dei diritti umani ha provato il carcere di Ben Ali) con la collaborazione con Ennahda, i Fratelli Musulmani tunisini emersi vincitori dalle prime elezioni post rivoluzione ma poi accusati da molti di ambizioni assolutiste come i cugini egiziani (anche se qui Ennahda ha mediato sciogliendo il governo contestato dalla piazza per tutto il 2013 e accettando di scrivere collettivamente l’ottima Costituzione varata a gennaio).
«Come Erdogan e Morsi»
Business as usual nel mondo arabo? È la vecchia dialettica blindata tra regime islamista e regime militare (o passatista)? I protagonisti, anche i malmostosi, giurano di no, la democrazia come la rivoluzione è un processo lungo. «Se guardo alla Turchia di Erdogan che dopo un decennio di “democrazia” svela le sue mire islamiste penso che il fascismo di oggi è meno peggio del rischio Morsi» dice un attivista egiziano assai scontento di Sisi. Anche un coetaneo tunisino cita Erdogan per giustificare il voto «a naso turato» per Essebsi. Due passi avanti e uno indietro, la novità, pur piccola, è eleggere un vincitore con poco più del 50%.

Corriere 22.12.14
«La mia Tunisia moderata accetta tutti (Italia in testa)»
Essebsi ha battuto gli islamisti alle urne: il passato non torna
intervista di Francesco Battistini


TUNISI Mabrouk, scrive l’Economist: congratulazioni Tunisia, «Paese dell’anno». Nuova Costituzione, urne no stop, diritti alle donne. E da oggi un presidente scelto dal popolo. Un caso unico, nel disastro delle primavere arabe: «La Tunisia ha preso una sua strada, siamo musulmani moderati che accettano tutti…». L’avvocato Beji Caid Essebsi, per i giornali Bce, porta occhiali da sole che valgono più d’un manifesto politico: uguali a quelli che usava Habib Bourghiba, padre della Tunisia moderna. Un vezzo. Con Bourghiba, Bce condivise il governo e la stessa idea di Tunisia.
A 88 anni, ha sorpreso tutti per la rapidità con cui ha fondato il partito Nidaa Tounes e s’è preso il Paese, quasi trasformando la Rivoluzione dei Gelsomini in una seconda indipendenza: «Ma no — obbietta al Corriere —, la rivoluzione è stata una tappa nella storia. Abbiamo avuto i liberali del Destour, poi Bourghiba. Ora tocca a noi. Gli ultimi vent’anni con Ben Ali hanno deviato la nostra marcia riformista verso uno Stato moderno. Spero d’avere la forza per arrivarci».
Lei è il primo leader d’una Primavera araba che abbia bloccato gl’islamisti con regolari elezioni.
«Io voglio essere il presidente di tutti i tunisini. La Primavera araba è un’altra cosa. Questo Paese ha fatto una rivoluzione tunisina, non araba. Ponevamo il problema della libertà e la libertà, si sa, non ha frontiere. Però lo scopo non era d’intromettersi negli affari dell’Egitto o della Libia. Se vogliono prendere esempio, facciano. Ma sia chiaro: noi non esportiamo rivoluzioni».
Perché i Fratelli musulmani hanno fallito?
«Hanno tentato di risolvere i problemi. Ma una soluzione va accettata dalla volontà popolare e quella non era la soluzione che i tunisini cercavano. Quel che va bene per alcuni, non deve per forza andar bene a tutti».
Ma farà coalizione con loro?
«Bisogna aspettare i dati definitivi. Il governo attuale sta in carica fino a gennaio, poi ci saranno i ricorsi e un premier da proporre: almeno un mese. Non so se faremo coalizione con loro, ma non è urgente. E poi non sono più solo: devo consultarmi con gli alleati».
L’accusano di riportare al potere i benalisti…
«Dentro Nidaa Tounes, nessuno s’è compromesso con Ben Ali. E lo stesso Ben Ali è già stato processato e condannato. Noi continueremo a cercare di recuperare i soldi finiti all’estero».
Ma prima di rompere con Ben Ali, lei fu suo portavoce: salva qualcosa di quel regime?
«Non prendo posizioni di principio, devo governare il Paese con la nuova Costituzione. Mi smarco non dalle persone, perché non ha senso, ma dalle politiche terribili dell’epoca di Ben Ali. Non guiderò il Paese da dittatore, ma da cittadino fra i cittadini. Credete che alla mia età voglia prendermi tutto?».
Nei quattro anni dopo la rivoluzione, avete sentito la vicinanza dell’Occidente?
«L’Occidente ha salutato il nuovo modello di società tunisina, poi però non ci ha offerto molto. Di noi s’è occupato il Fondo monetario, che fa il suo lavoro: il sostegno politico è un’altra cosa».
Lei ha detto che rompere con Assad fu un errore. Riaprite l’ambasciata a Damasco?
«Lo deciderà il governo, ma io farò tutto il possibile in questa direzione. I principi di dialogo, ai quali voglio tornare, possono dare risultati».
La Tunisia è il Paese che dà più volontari al jihadismo…
«Il terrorismo è una sfida. Cercheremo la verità sugli esponenti politici uccisi negli ultimi due anni, il silenzio sulle loro morti è un’umiliazione per il nostro popolo. Con un Paese vicino come l’Algeria, le relazioni sono migliorate proprio nella cooperazione sulla sicurezza».
L’altro vicino è la Libia.
«La Libia è un problema enorme. Non esiste più uno Stato, solo gruppi armati. Un accordo tocca ai libici: sono contrario a ogni intervento esterno. Forse, è pensabile un’azione regionale con Algeria, Mali, Niger, Egitto... Ma non possono esserci forze militari straniere, solo un intervento politico che preme a tutti, Italia compresa».
La Tunisia è il primo Paese visitato da Renzi premier…
«Siete i nostri vicini più vicini. Voi ci capite e noi vi capiamo. Lo sa che i miei avi venivano dalla Sardegna? Continueremo a incoraggiare le aziende italiane perché delocalizzino qui».
È il leader più anziano dopo Mugabe, il re saudita, Napolitano ed Elisabetta II. Non le pesa un mandato di 5 anni?
«Napolitano e la regina hanno svolto un ruolo fondamentale nella stabilità di Italia e Regno Unito. L’età non mi disturba: la giovinezza è uno stato dello spirito. Adenauer ha guidato la Germania in età avanzata».
Per non dire di Bourghiba: tiene il suo busto nello studio.
«Sono cose importanti. Il prestigio d’uno Stato si restaura con l’equilibrio delle istituzioni, con la qualità degli uomini e con la maestà dei monumenti. La statua sull’Avenue Bourghiba, la via principale di Tunisi, è una questione nazionale…».
Quale statua?
«L’Avenue si chiamava Jules Ferry, dal presidente francese del protettorato, e aveva una statua di Ferry con un beduino ai suoi piedi. Con l’indipendenza fu messo un monumento equestre di Bourghiba, ma Ben Ali lo fece togliere. Che senso ha l’avenue Bourghiba senza Bourghiba? C’era anche una statua del cardinale Lavigerie, primate d’Africa. Oggi lì c’è Ibn Khaldoun, il padre della sociologia moderna, e per fortuna l’hanno lasciato. Bourghiba e Kaldoun. Questo è il messaggio: siamo gente aperta, c’interessa la conoscenza. Ora che la storia s’è ripresa lo spazio della cronaca, se la statua di Bourghiba torna dove stava, significa che la Tunisia torna ai suoi figli».
Presidente Essebsi, lei è l’erede di Bourghiba?
«Bourghiba non ha eredi. Però vengo dalla sua scuola e ho imparato molto».

Corriere 22.12.14
La donna che scoprì Bin Laden ora è «la regina della tortura»
Accusata di metodi brutali. E Greenwald rende pubblico il suo nome
di Guido Olimpio


Testarda, dura, ambiziosa. Una donna tanto in gamba da aver creduto in piste ritenute inutili da vecchi marpioni dello spionaggio. Tracce che alla fine hanno portato all’individuazione del nascondiglio di Bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan. Una donna capace anche di mentire al Congresso Usa per proteggere se stessa e la sua ditta, la Cia, quando usava sistemi brutali sui terroristi. Per questo, e altro, l’hanno ribattezzata la regina della tortura. Soprannome che nascondeva un’identità vera, svelata ieri dal sito di Greenwald, The Intercept , e da qualche media.
Il suo profilo non è lontano da Maya, l’analista protagonista del film Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow dove si racconta la caccia a Osama. Adesso è uscito il lato oscuro: una donna con una carriera segnata da episodi poco positivi che comunque non le hanno impedito di guadagnarsi promozioni. Non conta come, conta solo il fine. E se si sbaglia non importa, perché — come diceva un ufficiale non americano — i terroristi hanno meno diritti dei cittadini normali.
Oggi, a 49 anni, l’agente A è sulla difensiva, impallinata dalle indiscrezioni spiacevoli di chi ha condiviso con lei missioni, report e scrivania. Ieri la celebravano, ora la scorticano. Il primo inciampo — dicono — è nei mesi che precedono l’attacco alle Torri Gemelle. Un funzionario alle sue dipendenze non passa alla Fbi informazioni importanti su Khalid al Mihdar e Nawaf al Hazmi, due dirottatori che parteciperanno al massacro. Un errore che si rivelerà, insieme ad altri, fatale. Forse li avrebbero potuti fermare, ma la storica rivalità con il Bureau unito a un passo falso imperdonabile lo impediscono. L’incidente, pur grave, non tocca il «ruolino» di marcia dell’agente A che continua a dedicarsi alla missione della sua vita: scovare il capo di Al Qaeda. E lo fa da una posizione di rilievo: è la numero due della Alec Station, l’unità speciale che non deve pensare ad altro.
La donna-agente si trova coinvolta nelle attività clandestine che devono far piazza pulita della gerarchia qaedista e dei suoi emissari. E quando alcuni dirigenti jihadisti sono catturati ne segue il trattamento speciale. Dal waterboarding, la tecnica che simula l’annegamento, alla privazione del sonno. Raccontano che è direttamente al centro di due eventi spesso citati: quelli di Khaled Sheikh Mohammed e Abu Zubeyda. Probabilmente è li a guardare mentre cercano di farli parlare. A ogni costo. E quelli parlano, ammettendo anche ciò che non sanno.
A è accusata di aver scatenato un’indagine su una presunta cellula islamista in Montana. Tutto basato su notizie estratte con la tortura e per nulla veritiere. Poi finisce nel pasticcio di Khalid al Masri, vittima innocente del programma delle rendition , i sequestri condotti dalla Cia. Un team lo rapisce in Macedonia pensando che si tratti di una figura importante dell’estremismo, ma è costretta a rilasciarlo. Un abbaglio.
Il vero problema sono però le bugie, quello scudo creato a tutela delle operazioni. La Maya cattiva, accusano, ha mentito al Congresso sostenendo che i metodi di interrogatorio violenti «hanno salvato centinaia di vite» e si sono rivelati una tattica efficace nella lotta ad Al Qaeda.
Verità capovolta dall’indagine dei parlamentari. Nelle 600 pagine del dossier si dice che la Cia ha ingannato senatori e deputati giustificando pratiche inaccettabili e enfatizzandone i risultati ottenuti. Per questo la regina, insistono alcuni, dovrebbe essere processata. Tutti d’accordo? Per nulla. Molti americani pensano che quel «lato oscuro» sia stato necessario in uno scontro che non si è ancora concluso.

Repubblica 22.12.14
Un’altra Cuba
Messa in soffitta da tempo la rivoluzione comunista, un popolo impoverito e stanco si interroga sul futuro: riuscirà Raúl a guidare la svolta senza far perdere l’anima al suo paese?
Cosa resta dell’utopia di Fidel? Viaggio nell’isola prima che tutto cambi
di Bernardo Valli


L’AVANA NESSUNO ti fa la domanda, anche se è negli sguardi. Nessuno ti chiede se sei venuto per il funerale della rivoluzione, o per la festa della pace. Per tutte due, è evidente, avresti voglia di rispondere. Senti subito l’interrogativo silenzioso, insistente, colmo d’ansia, anche negli incontri casuali. Chi ha vinto e chi ha perso? Vorrebbero saperlo persino a Miramar, quartiere dell’Avana privilegiata, dove abita gente benestante di solito convinta di sapere anche quel che non sa. Ha vinto la ragione, è altrettanto evidente. Questa è l’altra mia risposta.
Barack Obama ha la sua parte di quella ragione: cerca di liberarsi di una sinistra persecuzione durata troppo a lungo, che non fa onore al suo paese. Raúl Castro amministra invece il fallimento del suo comunismo tropicale. Di solito chi fallisce subisce un’altra sorte. Armato pure lui di una parte di ragione, per ora l’ha scampata. Ma siamo soltanto all’inizio.
Nel ‘61 capitai a Cuba in primavera. Poco dopo fu proclamata la Repubblica socialista. Il manto comunista che avrebbe senza preavviso di lì a poco avvolto l’isola, le sue piantagioni di canna da zucchero, la sue spiagge splendide, le belle chiese barocche e i più eleganti quartieri del continente latino americano all’Avana, prima che quella scelta politica fino allora nascosta diventasse ufficiale, visitai il paese pensando ai generosi progetti di Fidel Castro, guerrigliero sulla Sierra Maestra. Nel mezzo secolo che seguì la storia dell’isola ha imboccato un’altra strada. Un ritorno a quelle origini è impossibile. Ma è comprensibile che in queste ore prevalga la fretta di conoscere il futuro immediato, che potrebbe essere, col tempo, non tanto dissimile da quello progettato mezzo secolo fa e poi tradito. Un’altra utopia?
Dopo l’annuncio che ha tolto il fiato a mezzo mondo pur essendo atteso da tempo, si aspettano i fatti e le incognite sono tante. E’ già buio e la città è ancora in preda a un’agitazione nevrotica. C’è folla anche sui viali residenziali di solito deserti a quest’ora. E’ tuttavia meno fitta di ieri.
Gli attempati vicini spiegano a me straniero come il cerchio che strangolava l’isola si sia spaccato. La conversazione è sempre più accesa sul marciapiede nell’attesa di un taxi, tra un’orda di turisti europei di Natale. Non credo si parlasse fino a pochi giorni fa di politica ad alta voce in pubblico. Ma l’opinione dei presenti, associatisi di slancio alla conversazione, è favorevole all’“abbraccio” tra Barack e Raúl, tra l’America e Cuba, e quindi non spiacerebbe certo al potere che l’ha voluto. Quando affiora tuttavia la questione dei 250mila e più esuli cubani di Miami qualcuno esita. Tace. Torneranno? E se torneranno cercheranno di recuperare i loro beni? E accetteranno il potere che si dice ancora comunista? E come sarà la concorrenza americana negli affari? Nessuno chiede se i fratelli Castro reggeranno alla svolta. Non è il caso nonostante la tolleranza poliziesca di questo particolare momento. Certi argomenti guastano l’entusiasmo.
Adesso riassumendo i pareri raccolti in vari posti e occasioni nella città emerge il dubbio, creato dai tanti punti che restano oscuri. Un dubbio che non annulla, scalfisce soltanto, la gioia iniziale del 17 dicembre quando Barack e Raúl hanno detto, uno a Washington e l’altro all’Avana, che era giunto il momento di farla finita con il conflitto di cinquant’anni. Molti cubani adesso dicono “Barack e Raúl”, come se fossero loro vecchi amici. E Fidel? L’impressione è che se ne parli poco, come se fosse stato inghiottito dal passato. Dalla storia.
La pace, quando scoppia, la si festeggia comunque. Poi, dopo il primo grande senso di sollievo, sorgono sentimenti più sfumati. Anche su chi sono i vinti e chi sono i vincitori. Degli uni e degli altri ce ne sono sempre in un conflitto che sta per finire. I colpi di scena, fino a pace fatta sul serio (in questo caso la fine delle sanzioni economiche) sono sempre possibili. La fragilità economica relega il regime cubano nel campo dei vinti. E tuttavia la svolta è stata gestita, almeno per il momento, da quel regime. La sopravvivenza politica è già un successo. Una vittoria, ma effimera. Il processo è appena iniziato e le scosse politiche al vertice non sono da escludere.
Fatte le debite proporzioni uno pensa alla Cina che pur dichiarandosi comunista applica l’economia di mercato, e che ha stretto rapporti con gli Stati Uniti mentre armava il Nord Vietnam in guerra con gli Stati Uniti. Paragonare il piccolo, sgangherato comunismo tropicale con la grande Cina può far sorridere. Il fatto che il comunismo, o quel che si ritiene tale, non costituisca più un avversario, o non rappresenti più un’alternativa, dà alla odierna vicenda di Cuba un valore soprattutto simbolico. Un coriandolo rispetto alla super potenza asiatica. Ma qualche similitudine c’è. Non sono simboliche le sofferenze di uomini e donne per la simultanea responsabilità del regime locale e delle sanzioni imposte dal vicino e ricco colosso americano. Così come non è simbolica, ma grottesca, l’insistenza dei repubblicani che al Congresso di Washington esitano o rifiutano di togliere l’embargo obsoleto e vendicativo contro Cuba.
La rivoluzione è agonizzante da tempo. L’alchimia politica ha mischiato la sua agonia con la pace. Esausta, scarnita, con sempre meno soccorritori, la rivoluzione cubana non suscita più l’intenso odio di un tempo, e ancor meno costituisce una minaccia. La rivoluzione disinnescata consente la pace. Barack Obama l’ha capi- to e cerca di chiudere il capitolo.
Nella primavera di 53 anni fa, nell’aprile del 1961, percorrevo le stesse strade buie di adesso venendo dall’aeroporto. Sul taxi ascoltavo alla radio la forte voce di Fidel che processava in pubblico i controrivoluzionari sbarcati e catturati sulla Playa Giròn e la Playa Larga, nella Baia dei Porci. Li aveva armati e mandati la CIA, e Fidel chiedeva cosa se ne dovesse fare. La gente scandiva «al muro». I “cusanos” (i «vermi» come li chiamava Fidel), i prigionieri, furono poi scambiati contro 53 milioni di dollari, dei prodotti alimentari e sanitari. In gennaio gli Stati Uniti avevano rotto i rapporti diplomatici con Cuba. L’America di Kennedy fece una figuraccia. Fidel sbandierò la sua vittoria. Il pigmeo cubano umiliò allora il gigante americano.
La rivoluzione cubana ebbe un inizio romantico. Fidel, il Che, Camillo Cienfuegos affiancati hanno acceso le fantasie non soltanto rivoluzionarie. Avevano profili da divi di Hollywood ed erano dei guerriglieri audaci e colti. Camillo morì presto in modo non chiaro, il Che fu ucciso in Bolivia, Fidel fu un dittatore longevo e non certo rispettoso dei diritti dell’uomo che aveva predicato sulla Sierra Maestra. Ma nonostante le sue prigioni fossero popolate di oppositori politici, usufruì sempre di una certa indulgenza. La sfida alla superpotenza, invasiva, arrogante, assolse spesso le sue alleanze con i dittatori comunisti sparsi nel mondo. Le giustificò come inevitabili, anche se non lo erano. In particolare l’intesa interessata con l’Unione sovietica che comperava lo zucchero invenduto. Il comunismo tropicale conservò anche nei suoi momenti peggiori (ad esempio la persecuzione dei gay nel mezzo dei Sessanta) molte simpatie.
Barack ha capito che malgrado le colpe di Fidel l’isolamento diplomatico e le sanzioni imposte dagli Stati Uniti erano puro sadismo. Erano una punizione indegna. L’isola immiserita (e pur sempre invasa da turisti benestanti e non, affascinati dai suoi abitanti e le sue bellezze naturali) era il teatro di un’utopia fallita, alimentata anche dall’orgoglio. Visto da vicino era lo spettacolo triste di un orgoglio stanco e tarato da mille furbizie indispensabili per sopravvivere. Ma quell’orgoglio, al contrario dell’economia sempre più debole, dava energia. Di quel sentimento ha approfittato, con l’ausilio della polizia, il gruppo dirigente, attorno ai fratelli Castro. Fratelli sempre uniti ma di recente costretti a una diversità dei ruoli imposta dall’emergenza.
Raùl, 83 anni, il fratello minore di Fidel, che di anni ne ha 88, è approdato a un pragmatismo che lo allontana dagli ideali e lo spinge a guardare al concreto. Vale a dire al dollaro. Non è una svolta volgare, un tradimento, è la saggezza. Il paese soffre. Non può più essere il teatro di una rivoluzione con la sola prospettiva della bancarotta. Con la fine degli aiuti dell’Unione Sovietica l’economia cubana è crollata del 40 per cento. Ed ora, con la crisi che attanaglia il Venezuela, dove non c’è più il generoso amico Chavez e il prezzo del petrolio precipita, anche gli aiuti latino americani vitali sono praticamente finiti. Cuba era sempre più sola. L’abbraccio alla super potenza è la via di scampo. Per ora avviene con dignità. Raúl non rinnega formalmente il comunismo, cui si richiama tuttora con retorica clericale. Salva così l’orgoglio e soddisfa il fratello Fidel, indebolito dalla malattia e ritiratosi nella Storia. Forse lo risentiremo. Non è escluso che parli ancora dalle rovine della rivoluzione. Ma la sua voce arriverà dal passato.

Corriere 22.12.14
E Kissinger ordinò: bombe su Cuba
Nei documenti appena svelati, il piano segreto contro Castro dopo i negoziati falliti del ‘76
di Ennio Caretto


È il 24 marzo del 1976 e il Washington Special Action Group tiene la sua prima riunione alla Casa Bianca. Solo il presidente Gerald Ford e il nuovo direttore della Cia George Bush padre, che verrà eletto presidente nel 1988, sanno della sua esistenza. Lo ha appena formato in assoluta segretezza il segretario di Stato Henry Kissinger. Partecipano ai lavori il ministro della difesa Donald Rumsfeld, che ricoprirà di nuovo la carica dal 2001 al 2006 sotto Bush figlio, e il capo di stato maggiore delle forze armate, il generale John Brown. Kissinger ordina al Gruppo di preparare un piano di guerra limitata contro Cuba in caso di emergenza: il bombardamento e la disseminazione di mine nei porti cubani, la distruzione di obbiettivi militari e paramilitari, un blocco navale totale. Memore della disfatta dei fuorusciti cubani e degli agenti della Cia allo sbarco nella Baia dei porci nel 1961, il segretario di Stato ammonisce Brown: «Se decidiamo di usare la forza, dobbiamo vincere. Non vogliamo mezze misure».
Un mese dopo, il Washington Special Action Group presenta il piano di guerra a Kissinger. Ma lo ammonisce che un attacco americano a Cuba potrebbe provocare un conflitto con l’Urss, «a differenza di quanto avvenne nella crisi nucleare del 1962». Consiglia pertanto al segretario di Stato di «preparare un conflitto più ampio solo se le circostanze ci imporranno di intervenire con la forza a Cuba». Il Washington Special Action Group non fa cenno a eventuali ricorsi ad armi nucleari. Suggerisce invece l’invio di un massiccio contingente di marines a Guantanamo, il rafforzamento delle difese di Portorico e il presidio aereo navale dei Caraibi.
A svelare la storia del Gruppo, su cui Kissinger, oggi nonagenario, ha rifiutato qualsiasi commento, è stato un Istituto di ricerca di Washington, il National Security Archive, che lo scorso ottobre è riuscito a desecretare i documenti al riguardo della Biblioteca presidenziale Gerald Ford. William Leogrande e Peter Kornbluh ne hanno tratto un libro, «Back channel to Cuba», che ha scosso il mondo politico e diplomatico. Quello della «distruzione» de l’Avana, un termine ripetutamente usato da Kissinger, era un capitolo sconosciuto della storia della Guerra fredda. Fortunatamente il piano d’emergenza dell’Action Group non fu attuato perché Kissinger e Ford decisero di congelarlo fino a dopo le elezioni presidenziali del novembre del 1976. Ford venne sconfitto dal democratico Jimmy Carter, che lo accantonò.
Ciò che più sorprende dei documenti desecretati è l’astio di Kissinger nei confronti di Castro, un «pipsqueak», una nullità o mezza calzetta, «che prima o poi bisogna schiacciare, bisogna umiliare». Il segretario di stato è furioso per l’intervento militare cubano in Angola nel dicembre 1975, non può accettare che Cuba sfidi così la Superpotenza americana. Solleva con Ford il problema della sua penetrazione in Africa in aiuto all’Urss a febbraio del 1976. La questione, dice, non è solo che Castro può entrare in Namibia o Rodesia, è anche che può scatenare una guerra razziale nel nostro emisfero: «Se le truppe cubane vincono, sarà la volta del Sud Africa». E a quel punto, l’America Latina e i Caraibi si troveranno in pericolo. «Non dobbiamo permettere ai cubani di diventare la punta di lancia della rivoluzione africana né di appellarsi alle minoranze discriminate … perché lo farebbero anche nel nostro paese. Non dobbiamo apparire deboli».
Secondo Leogrande e Kornbluh, l’animosità del segretario di stato verso il «lìder maximo» è dovuta al fallimento dei negoziati segreti tra Washington e l’Avana del 1975. Kissinger, premio Nobel della pace nel 1973, è universalmente considerato il principe della diplomazia grazie alla distensione con l’Urss, all’apertura alla Cina e al disimpegno in Vietnam. Ha offerto a Cuba di trattare, puntando a un altro grande successo. L’11 gennaio 1975 il suo braccio destro Larry Eagleburger ha discusso segretamente con una delegazione cubana all’aeroporto La Guardia di New York «in un’atmosfera molto amichevole». E il 9 luglio successivo, all’Hotel Pierre, sempre a New York, ha proposto un vertice tra il ministro degli Esteri cubano e Kissinger per una graduale normalizzazione. Il segretario di Stato si aspetta un «sì». Castro invece lo ha tradito, ha fatto da Cavallo di Troia sovietico in Angola. Uno schiaffo all’America e un insulto personale che Kissinger non gli perdonerà.

Repubblica 22.12.14
Il sogno europeo di Bucarest venticinque anni dopo Ceausescu
Nell’anniversario della caduta del dittatore il paese, spossato dalla corruzione, cerca un nuovo inizio
Il presidente Iohannis promette pulizia
“Putin fa paura, meglio l’Ue”, dicono in molti
Viaggio nella capitale rumena, dove la gente spera in una seconda rivoluzione
di Andrea Tarquini


BUCAREST ABETI di natale illuminati ovunque, grandi stelle blu o dorate che vedi accese anche attraverso la nebbia, “Craciun fericit” (buon Natale) che scritte lucenti ti augurano a ogni angolo. E ovunque, dall’Arco di Trionfo che evoca Parigi ai maestosi edifici neoclassici del centro, il traffico impazzito dello shopping delle feste, a ridurlo non basta nemmeno la fitta rete di métro. Così, natalizia e gioiosa, celando ricordi di quei giorni del sangue di 25 anni fa, ti accoglie Bucarest un quarto di secolo dopo la caduta del tiranno. Rammentando come la vidi allora, attento a schivare i tiri dei cecchini, mi appare irriconoscibile. Qui, una generazione addietro, questo paese oggi economia in decollo e società civile pulsante e libera chiuse l’‘89 della grande svolta d’Europa col capitolo più drammatico. E oggi col neopresidente Klaus Iohannis, “mister mani pulite”, spera in un nuovo inizio, addio alla corruzione del potere. Benvenuti nella seconda rivoluzione romena, alla vigilia di Natale.
«Io lo conoscevo bene, fui suo consigliere, invano al ritorno insieme da Pyongyang cercai di dissuaderlo dal culto della personalità dinastico nordcoreano che lo aveva sedotto. Mi punì togliendomi ogni carica. Divenni piccolo impiegato in una casa editoriale di provincia, e tre auto della Securitate seguivano me e mia moglie a ogni passo, lui era divenuto vittima di paranoie megalomani », mi narra oggi sereno Ion Iliescu, il gorbacioviano del Pcr cui nella tempesta del golpe-rivoluzione toccò divenire presidente provvisorio. Percorriamo insieme la città, nel traffico, tra palazzoni realsocialisti e grattacieli delle multinazionali (molte italiane) arriviamo all’enorme cimitero di Ghencea. «Sono sepolti là, vada a vedere». In un angolo una tomba laica in marmo rosso ospita Nicolae Ceausescu e la moglie Elena, a pochi passi Nicu, l’erede designato, riposa sotto una lapide bianca, chi sa perché con una croce. Pochi ma freschi, garofani rossi e lampioncini votivi adornano quelle tombe: scarsi nostalgici, e la famiglia.
«Per loro - ricorda Iliescu - mi battei per un processo regolare, civile, pubblico davanti al mondo Ma erano ore cruciali. Il generale Stanculescu, capo di stato maggiore, aveva portato l’Armata con la rivoluzione, e chiese di eliminarli subito, per privare dell’idolo i resistenti del vecchio ordine». Esecuzione sommaria in una caserma, trasmessa subito dalla tv primo obiettivo strategico conquistato dai rivoluzionari. Oggi, la pietà cristiana d’una tomba che Ceausescu negò a migliaia di sue vittime: i bimbi uccisi a baionettate a Timisoara a inizio dicembre ‘89, o nel 1957 i contadini di Vadu Rosca, in rivolta contro la collettivizzazione forzata. «Ceausescu in persona guidò la repressione, chi non cadde sotto i mitra della Securitate ebbe i denti strappati uno a uno, per suo ordine ».
L’atroce Spoon river delle vittime del Conducator è Memoria un po’ diluita dal tempo. «Adesso, 25 anni dopo, con il nuovo stile di Iohannis presidente viviamo una nuova rivoluzione, da europei », mi dice Petre Roman, eroe sulle barricate 25 anni fa, poi primo premier democratico e riformatore, passeggiando nel centro in febbre da shopping. «Iohannis ha scelto proprio i giorni dell’anniversario per ammonire che al voto ha vinto la società civile che dice basta alla corruzione. E’ bello, fa sperare».
È come leggere “Vite parallele” di Plutarco, quando ascolti Iliescu e Roman, i due eroi di allora che poi si divisero e og- gi si frequentano con stima leale. «Io quel mattino ero nella casa editrice di provincia, mio esilio interno, i colleghi mi fecero notare che le auto della Securitate al mio seguito erano scomparse, segno strano. Accorsi a Bucarest, creammo il Consiglio supremo». Roman aveva cominciato a rischiare poche ore prima. «Ero docente - spiega - seguii i miei studenti sulla grande barricata nel cuore del centro. Sapevamo di poter morire da un momento all’altro, eppure i nostri volti sereni celavano la paura anche a noi stessi. Anni dopo rivedendoci ricordammo un verso di Evtushenko, “non sentirti morto prima che la morte arrivi”. Sapevamo allora che potevamo solo temere di finire sconfitti, torturati e uccisi».
Poche ore dopo, Roman ricorda, gli toccò essere il primo leader della rivoluzione a parlare alla gente dal balcone di Ceausescu. E Iliescu creò il governo provvisorio, «per fortuna prendemmo subito la centrale tv, la nostra fu la prima rivoluzione resa globale dalle tv globali. Poi si divisero: Roman voleva riforme radicali subito come in Polonia, Iliescu si piegò al vecchio apparato bolscevico, deciso a riciclarsi. Li denunciò invano come “nuovi ricchi d’un capitalismo di famiglie e di amici degli amici”, e invano da avversario politico auspicò per Roman più futuro da leader, subito.
Gattopardismo, corruzione, astuzie arroganti hanno frenato il paese per decenni, mi dice il columnist di grido Dan Turturica. Adesso, con Ue e Nato a fianco anche contro Putin, e dopo le presidenziali, il clima è diverso: nessuno è riuscito a imbavagliare giustizia e media come ha fatto in Ungheria Orbàn — visto qui come l’incubo al confine. «25 anni dopo, clima incoraggiante», mi dice Norman Manea, scrittore del momento. «Incredibile - ragiona - un protestante della minoranza tedesca scelto in un paese neolatino e ortodosso…la gente si mostra stanca della parodia di lotta politica tra potenti della cosiddetta sinistra e della destra dominata da risentimenti. Iohannis ha davanti a sé compiti difficili, contro politici dalle abitudini mafiose, ma oggi come allora è troppo difficile abbandonare la speranza».

Corriere 22.12.14
Il Mulino, la crisi di un’élite che si è trasformata in oligarchia
di Ernesto Galli della Loggia


N el suo piccolo (ma poi non tanto) la crisi che oggi colpisce il Mulino è uno specchio della crisi che ha colpito l’Italia. È una pagina della sua storia, della storia della Repubblica che merita di essere ripercorsa.
È l’inizio degli anni Cinquanta quando un gruppo di giovani intellettuali si riunisce in un’associazione e decide, come di prammatica, di dare vita a una rivista; subito dopo di pubblicare qualche libro. Sono liberal-democratici e cattolici, decisamente antifascisti e anticomunisti, che vogliono diffondere nella giovane democrazia italiana un sapere moderno, orientato alle scienze sociali, ispirato ai grandi classici del costituzionalismo. E sono bolognesi. Ma avendo in Benedetto Croce uno dei loro punti di riferimento, stabiliscono immediatamente un legame con Napoli, dove il crociano Istituto di studi storici e una nuova rivista, «Nord e Sud», si muovono in qualche modo sulla loro medesima lunghezza d’onda. Insomma, il Mulino, nato a Bologna, fin dall’inizio si sente e vuole essere italiano.
L’idea di quei giovani progredisce. La loro casa editrice cresce. E per la loro associazione, che riesce a restarne proprietaria, i fondatori prendono una decisione che per l’Italia è originale: essa vivrà sulla base della cooptazione, chiamando a farne parte coloro che i soci riterranno più in linea con l’ispirazione iniziale.
Il successo dell’associazione e della casa editrice si confonde rapidamente con il successo dei suoi singoli membri, ormai cresciuti fino a un centinaio. Sono per lo più professori universitari, giornalisti importanti, intellettuali, anche se non mancano uomini del fare, manager dell’industria pubblica, banchieri. E poiché tutto finisce necessariamente in politica, e gli anni Sessanta vedono un profondo rinnovamento dell’intera scena politica, molti di loro cominciano a muoversi su quella scena che ormai, con l’avvento del centrosinistra, anche ideologicamente è sempre più la loro. In molti, così, diventano alto personale politico della nuova coalizione, consiglieri del potere, occupano posti di governo. Ma mai (o quasi mai) come uomini di partito. Bensì in quanto «esperti», «competenti». Perché «sanno»: anche se a un certo punto la distinzione finirà troppo spesso per perdersi.
Adesso il Mulino accompagna in posizione di forza l’estate di San Martino della Prima Repubblica. Con gli anni Settanta-Ottanta esso è ormai divenuto un’importante casa editrice, ambita per il suo rigore e la sua serietà. E al tempo stesso, con l’Associazione, è un luogo di crescita e d’incontro di quella cosa alquanto rara nella Penisola che si chiama classe dirigente: una classe dirigente (ciò che è ancor più raro) con un deciso connotato culturale. Le lectures del Mulino sono occasioni che vedono periodicamente riuniti, in una piacevole atmosfera di convivialità emiliana, politici, industriali, intellettuali, accademici.
Ma è a questo punto che avviene la svolta di cui la crisi attuale è l’esito estremo. O meglio, che non avviene nessuna svolta e invece — secondo un tipico andamento della storia italiana — avviene la chiusura, la trasformazione di un’élite in un’oligarchia: il Mulino, che è stato un pulpito del riformismo, si rivelerà incapace di riformare se stesso. Favorisce questo arroccamento l’avvento di Berlusconi. È un mondo nuovo che si affaccia, per più versi sgradevole, nel quale non si hanno amicizie, incomprensibile e sentito come totalmente ostile. Dal quale bisogna solo difendersi. E dunque a tutto ciò che di nuovo viene di lì, a tutto ciò che di socialmente inedito l’avvento al potere della Destra rappresenta, a tutti — anche i più degni, e certo non sono molti — che gli danno voce, non si può che opporre un muro.
Avviene così che quello che è nato come un luogo d’incontro di culture politiche diverse, un laboratorio di discussioni, si pietrifichi in un’arcigna fortezza ideologica del centrosinistra, in un custode di tutti i suoi fragili miti: mentre ormai non si contano i suoi soci che a vario titolo ne infoltiscono i quadri istituzionali come sindaci, ministri, presidenti del Consiglio, presidenti di tutto. Così il Mulino si trova a rappresentare per un verso l’opposizione più chiusa, per l’altro il potere più consolidato: una schizofrenia micidiale che ne segna la progressiva paralisi intellettuale. Lo testimonia la cooptazione autoreferenziale dei soci: i nuovi, salvo qualche autorevole membro dell’establishment, sono pressoché esclusivamente membri delle cordate accademiche o similari che fanno capo a quelli anziani. In complesso l’Università di Bologna ne conta suppergiù un terzo; l’età media è oltre i sessanta; pochissime le donne; nessun socio da Roma in giù. Il Mulino, insomma, è diventato la perfetta fotografia di un Paese vecchio, diviso, corporativizzato, immobile. Resta una casa editrice, una grande casa editrice: che ormai è quasi l’unica cosa che conta.

il Fatto 22.12.14
Il gusto di vivere nella famiglia di Ester
di Furio Colombo


Katja Petrowskaja è nata quasi all’improvviso nella scrittura di una signora ucraina di lingua russa che, vivendo in Germania, si è messa a scrivere in tedesco. E, come in un esperimento mediatico, è andata alla ricerca di ciò che, forse, poteva essere accaduto alcuni decenni e tre lingue prima (perchè c’entrano anche l’ebraico e l’yddish, oltre al polacco). Il libro della Petrowskaja ha il bellissimo titolo Forse Ester (Adelphi editore). E ad Adelphi va dato il merito di avere pubblicato il libro per primo (mentre se lo contendono molti editori del mondo) e della eccellente traduzione di Ada Vigliani.
IL LIBRO HA UN TONO LIEVE, elegante, quasi spensierato e questo rende ancora più teso il racconto, che è un vero thriller. Nient’altro che la storia di una famiglia, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale e un domandarsi come su un pianerottolo: Ma lo zio quando è morto? Non era a Varsavia? I bambini erano qui o li hanno portati via in quei treni degli orfani? “Non mi ero mai accorta che Lida avesse qualcosa di ebraico e in effetti non aveva nulla di ebraico, se non che cucinava quei piatti cui ho potuto dare una attribuzione solo dopo la sua morte. “Attraversare il libro - che diventerà fatalmente un culto anche perchè è un libro lento, quasi placido, che racconta di scomparsa e di morte, ed è irrorato dal gusto di vivere, e devi leggerlo alla velocità un po’ affannata di uno straordinario romanzo a chiave - è come vivere in una stanza varie volte ridipinta, un colore sull’altro, e dove ogni colore ha lasciato traccia. Ecco che siamo nella Germania contemporanea a cui la Petrowskaja benevolmente spiega e chiarisce dettagli altrimenti incomprensibili di tempi immensamente diversi che sono (quasi) lo stesso tempo.
Il mondo sovietico-comunista colora di patriottismo l’Ucraina che ci viene descritta e nella quale passano treni che vengono e vanno da qualcosa che potrebbe essere il fronte, ma anche solo una mite emigrazione interna, come andare a rifugiarsi in una ammirata e amata Polonia come se fosse la terra promessa. E intanto, se scrosti le varie vernici, ci sono ebrei dentro l’ermetico contenitore sovietico. Ebrei ukraini, sovietici e scomparsi, ma non ci sono nè cimiteri nè lapidi e quasi nessuno ricorda.
Forse Ester è l’indagine di un reticolato di vite strettamente o vagamente connesse che si sono ritrovate altrove, per morire, senza conoscersi, senza sapere o capire dove e perchè. O salvi e frastornati, in Israele o nei vecchi paesi, con legami perduti e memorie gravemente danneggiate dai fatti. Uno dei fatti, in questo memorabile libro, è che tutti coloro di cui ci si può ricordare, in questo albero genealogico semi-perduto, insegnavano a bambini orfani e sordomuti. Sarebbe stato impossibile trovare una metafora più bella, più tragica. Detta con una narrazione lieve che ti fa pensare di essere in viaggio che, nonostante tutto, continua.

il Fatto 22.12.14
Addio Costa, umorista umorale
di Giulia Zaccariello


UN GIOCOLIERE della parola, a metà strada tra il surreale e il satirico. Abituato a sovvertire il senso comune con delicatezza, per restituire l'immagine dell'Italia in corsivi, che erano piccoli esercizi d'intelligenza e umorismo. Mancherà Enzo Costa. Le biografie lo definiscono giornalista e autore satirico, ma lui preferiva un più stravagante “umorista umorale”. Era nel suo stile. Costa è morto vicino alla Genova dove era nato, lui diceva “a sua insaputa”, nel 1964. Lunedì scorso si è arreso di fronte a una crisi respiratoria. Del resto, in mezzo secolo, la vita non era mai stata troppo indulgente con lui: l'aveva costretto a convivere fin da giovane con un fisico fragile e debole. Un paradosso, visti la fantasia e lo spirito che lo animavano. Graffianti, ironici, talvolta con delle punte malinconiche, i suoi testi non erano mai volgari, offensivi o provocatori solo per il gusto di esserlo. Costa aveva la virtù di saper pungere, ma con garbo, per ragionare e non distruggere. La sua carriera era iniziata nei fogli che hanno fatto grande la satira: Cuore, Linus e Smemoranda erano stati le sue scuole. Era passato poi a Repubblica, con cui aveva iniziato una collaborazione che sarebbe durata fino alla fine. Sull'edizione locale di Genova aveva firmato il Lanternino, appuntamento fisso, dove gli piaceva punzecchiare la politica locale (l’ultimo l’aveva consegnato poche ore prima di morire). Scriveva anche sulle pagine dell'Unità. Nella sua rubrica, Chiari di lunedì, Silvio Berlusconi era diventato "il Bisunto del Signore" e il suo governo "il regime delle ban(d) ane". Negli ultimi anni, sempre sull'Unità, gestiva anche un blog: Malumorismi. Una produzione ricchissima la sua, che tra calendari, libri e raccolte di aforismi, comprende anche opere teatrali. Suoi alcuni passaggi del lavoro di Ugo Dighero, Rimbocchiamoci le natiche. Mentre nel 2011, lo Stabile di Genova aveva messo in scena i suoi testi, in uno spettacolo dal titolo “Quanto Costa! ”.