martedì 23 dicembre 2014

La Stampa 23.12.14
Roma, il peggior Pd d’Italia riparte dai fischi in periferia
Troppi dirigenti da salotto, mentre Zingaretti prepara la fronda al premier
di Jacopo Iacoboni


«Buffoniii»... l’altra settimana Matteo Orfini, Nicola Zingaretti e Ignazio Marino sono stati fischiati così, al Laurentino 38, periferia Sud-Est di Roma, e non era la cosa peggiore che gli dicevano. Eppure, racconta Orfini, «ho voluto che andassimo lì, come ho voluto tre giorni fa che con tutti i coordinatori dei circoli andassimo a Corviale, perché se c’è una cosa che dobbiamo tornare a fare è essere nelle periferie, da dove eravamo spariti. Zingaretti e Marino mi guardavano, c’era un teatro di 250 posti e 600 persone fuori che rumoreggiavano... bene, siamo usciti e abbiamo parlato. Ci fischieranno, hanno ragione, prendiamo i fischi e parliamogli».
Questo per dire cos’è il Pd a Roma. O, meglio, cosa non è: i suoi tre principali dirigenti, il commissario, appena nominato da Matteo Renzi dopo lo scandalo mafia Capitale, il governatore e il sindaco, fanno però fatica ad affacciarsi in intere aree della città. Com’è potuto accadere, al partito erede di Petroselli – che fece uscire intere borgate dall’Ottocento – o, si parva licet, al partito erede dei fasti decaduti del «Modello Roma» del primo centrosinistra?
Le cause, se giri un po’ anche tra i circoli storici – Giubbonari, Trastevere, Mazzini – stanno innanzitutto in una totale alterazione della sua vita democratica. «Roma è il peggior Pd d’Italia», ha detto Renzi. Ma com’è successo? Un dirigente di primo piano che chiede l’anonimato racconta il quadro vero dei circoli: «A Roma esistono 150 circoli del Pd. Bene, un terzo sono veri, hanno iscritti veri e una dinamica reale, dibattito, sono contendibili. Un terzo sono totalmente falsi, non hanno attività, spesso neanche sede. E un terzo sono circoli proprietari, cioè interamente pagati da un consigliere. Questi circoli magari esistono, fanno attività, ma non sono contendibili». Insomma, quando si vota esprimono risultati tipo 100 a zero a favore di un candidato.
Alle ultime elezioni del segretario regionale Pd – ben prima dello scandalo – l’affluenza era già stata bassa. Aveva vinto Fabio Melilli, sostenuto da tutti i big del partito, Bettini, Zingaretti, il segretario romano Cosentino. Melilli è un sabino, fortissimo in provincia, con l’80%, mentre a Roma aveva prevalso la sua rivale, la renziana Lorenza Bonaccorsi. Ora lui dice: «I dirigenti del partito devono smettere di vedere nel Pd un mezzo per far carriera. E forse bisogna finirla con l’idea che conti solo l’amministrazione». Frecciata a Zingaretti?
Il governatore, vero avversario di Renzi in prospettiva, richiesto di un parere ci scrive «il mio unico compito è provare a governare bene. Del Pd mi occupo davvero poco o nulla». Singolare, il suo rivale Renzi ha del partito più o meno la stessa idea: starsene alla larga. Ma questo lascia campo libero alle peggiori dinamiche. Il commissario Orfini: «A Roma abbiamo imbarcato qualunque cosa. Per questo faremo una roba violenta nella bonifica. Intanto faremo un vero database per tenere sotto controllo le iscrizioni. Se vuoi un partito aperto devi avere una comunità vera, per fermare l’arrivo dei barbari».
E così si sono creati, a Roma, un Pd dei salotti e uno della strada (e della stradaccia, diciamo): con l’uno che si voltava dall’altra parte magari anche per non vedere ciò che faceva l’altro. Racconta Tobia Zevi, il candidato renziano, sconfitto, alle elezioni per la segreteria romana: «Lo scandalo nasce con la giunta di Alemanno. Ma siccome esponenti del centrosinistra sono coinvolti, non basta chiudere i circoli, dobbiamo chiederci: qual è la funzione del partito? Petroselli, e anni dopo Veltroni, avevano un modello di partito, ma noi oggi?».
Marino, che un mese fa il Pd voleva mettere sotto tutela, è improvvisamente diventato «l’argine contro la corruzione». Va a Tor Sapienza e, dove veniva cacciato, viene invitato a pranzo (ieri l’altro). Gli iscritti calano, nel 2012 erano dodicimila, oggi poco più di settemila. Mafia Capitale tocca un volume d’affari di 200 milioni, le vere partite in città sono altre, per esempio la metro C, impantanata, i cui costi sono lievitati da 1,6 a 4 miliardi: e pensate, su questa cosa dovrebbe vigilare il futuro Pd.
(4. Fine)

La Stampa 23.12.14
I cie, zoo per umani ma senza erba
di Barbara Spinelli


Il 19 dicembre, come deputato europeo, sono andata in visita al Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria presso Roma. Ero accompagnata da rappresentanti di alcune associazioni che si prendono cura della disperazione impotente di tanti migranti finiti in queste gabbie penitenziarie. Ho constatato quel che denuncio da mesi, e che è il fulcro della mia attività a Bruxelles: man mano che l’immigrazione aumenta in Europa, man mano che la sua natura muta (i più fuggono oggi da guerre o disastri climatici: per forza sono senza documenti), s’afferma nell’Unione un diritto emergenziale, che sospende leggi iscritte non solo nelle Costituzioni, ma nella Carta europea dei diritti fondamentali.
Così l’immigrazione diventa la nostra comune parte buia: buia perché inaccessibile all’informazione, buia per le ferite inflitte alla dignità della persona. Ogni giorno abbiamo notizie di violenze che colpiscono i migranti, nello spazio Schengen: a Melilla in Spagna, a Sangatte in Francia, e in Grecia, in Italia. Ogni giorno crescono partiti che raccolgono consensi trasformando il profugo in capro espiatorio: penso a Marine Le Pen e Salvini in Francia e Italia, a Dresda avamposto di islamofobi e neonazisti (Npd, Die Rechte). Penso all’Ukip inglese. Ovunque, i conservatori sono in competizione mimetica con l’estrema destra: da Cameron in Inghilterra a Rajoy in Spagna.
La visita a Ponte Galeria è tappa cruciale della battaglia che conduco dal primo giorno in Europa: contro la chiusura di Mare Nostrum e la rinuncia esplicita ai salvataggi in alto mare; in favore del riconoscimento reciproco dell’asilo nell’Ue e di corridoi umanitari che tolgano alle mafie il controllo sui fuggitivi; contro il disumano regolamento di Dublino che obbliga i migranti a chiedere asilo nel primo paese dove approdano, anche se la destinazione è un altro paese europeo.
Quel che ho visto nel Cie eccolo: uno zoo per umani, ma senza erba né alberi come quelli che oggi sono concessi agli animali. Una spianata di cemento e, anziché gli alberi, una fitta foresta di sbarre che delimita gli spazi dove i detenuti dormono, escono nelle gabbie antistanti le camerate, deambulano nel corridoio centrale, anch’esso cintato da barriere. Tutto a Ponte Galeria è grigio-ferro: le sbarre, il plexiglas che impedisce ai detenuti di salire sui tetti, le graticole che fasciano le finestre dei dormitori. Qui l’osceno si disvela per quello che è: un campo di concentramento per migranti non in regola con il permesso di soggiorno, di richiedenti asilo, di stranieri che hanno scontato pene ma non hanno documenti. Italia e Europa esibiscono la propria verità concentrazionaria senza pudore. E senza memoria.
Con alcuni militanti di associazioni che proteggono i migranti son qui a certificare l’orrore. Fuori dai cancelli, volanti e blindati. Dentro il Centro: un corridoio dove si susseguono stanze per gli incontri con i parenti, con i legali che convalidano detenzioni ed espulsioni, poi l’ambulatorio, poi lo psichiatra che però non c’è – è stato licenziato dai nuovi gestori.
Subito dopo, gli spazi geometricamente suddivisi del carcere-lager, a sinistra gli uomini a destra le donne: la geometria delle sbarre altissime, cui stanno aggrappati… come li chiamiamo? Il vocabolario dei custodi tentenna e scivola come liquido, senza solidificarsi. Li chiamano a volte detenuti, o perfino «utenti», «ospiti», più di rado «trattenuti».
Prima di entrare nei recinti chiedo ai custodi: «Si può parlare con loro?» – «Un momento, i capibanda sono altrove» - «I capibanda?» – Sì, capibanda. Così sono interpellati i rappresentanti dei detenuti. Il lessico a Ponte Galeria s’impregna di malavita. «Comunque non entrate, sono agitati, pericolosi.» Da lunedì 15 dicembre il Cie è amministrato dalla francese Gepsa, specializzata in carceri. L’agenzia ha vinto la gara perché ha promesso tagli al personale e diarie decurtate ai detenuti (2,5 euro al giorno). I prigionieri parlano ossessivamente di spending review: un vocabolo appreso in fretta. Da lunedì manca quasi tutto, nel Cie: vestiti caldi, biancheria, calze, lenzuola di ricambio, spazzolini e dentifricio, assorbenti per le donne. I nuovi gestori dicono: sono inconvenienti temporanei.
Ma in realtà le norme sono le stesse: l’emergenza genera queste zone d’incessante non diritto. Ai reclusi è proibito tenere matite o penne, per evitare che inghiottendole finiscano in ambulatorio. È vietata carta da scrivere, per motivi arcani. Hanno il telefonino, ma non la connessione internet. Non hanno accesso a giornali. I gestori smentiscono, ma i detenuti sono esasperati perché di notte le luci al neon sono sempre accese. Di qui – anche – l’alto uso di sonniferi. Le tensioni s’alzano e scendono come maree, e a seconda del loro livello si dispiegano le forze d’ordine, manganelli in vista e pistole alla cinta.
Entriamo nelle camerate, dove ci sono 8-10 letti in uno spazio che ne dovrebbe contenere quattro. Dentro fa freddo come fuori; il riscaldamento è intermittente. I reclusi indicano le poche cose che ricevono: lenzuola di carta sbrindellate, una coperta, cibo scarso. Un detenuto ci mostra di nascosto un pettinino sbocconcellato: i pettini sono proibiti, vai a sapere perché. I più calzano sandali infradito, anche se fa freddo. Sono vietati i lacci delle scarpe. Un migrante ride dell’insensatezza: i lacci no, ma una cintura di spago per i pantaloni troppo larghi, «quella sì la possiamo portare e eventualmente impiccarci».
Tutti sono angosciati dall’igiene: sono giorni che non ricevono sapone, che non possono andare alla «barberia» (son vietate le lamette). Si vergognano molto di quest’incuria. Sono giorni che non hanno vestiti di ricambio: «Non ci piace puzzare, ma ecco puzziamo».
Tutti i buoni propositi di un eurodeputato vanno a sbattere inani contro quei volti di supplica disperata, che chiedono quel che dovrebbe essere normale: poter uscire dall’inferno in cui precipitano tutti, incensurati e non; avere informazioni (ma mancano gli interpreti); poter raggiungere i parenti che a volte non sono fuori Europa ma a due passi da qui; essere assistiti (il barbiere e lo psicologo sono le figure più anelate). E soprattutto: scongiurare il respingimento che l’Unione in teoria vieta, il rimpatrio lì dove la morte li aspetta.
Ho passato un pomeriggio con loro, e alla fine avevo l’impressione che fosse un anno fatto di impotenze. Continueremo a batterci per loro, è certo. Ma con quale prospettiva d’essere ascoltati da autorità nazionali ed europee? Una cosa so: quale che sia la nostra azione, in Europa e nelle associazioni, tutti ci stiamo macchiando d’una colpa. Perché questi zoo li abbiamo fabbricati noi. Perché li definiamo inaccettabili, allontanandoci da quei volti che chiedono risposte fino all’ultimo minuto – insopportabile – in cui incroci i loro sguardi. Ma anche questo sappiamo: nello stesso istante in cui dici «inaccettabile» e poi prendi il treno per tornare a casa, già hai accettato. Già sei sceso a patti con il tremendo.

il Fatto 23.12.14
L’inferno dei migranti, un calcio alla xenofobia
di Elisabetta Ambrosi


L’immagine che ti resta dentro, e ti accompagnerà forse per sempre, è quella di un bambino in piedi accanto alla sua anzianissima nonna, abbandonata su una vecchia sedia a rotelle alla stazione centrale di Milano. Quella stazione dove magari sei passato decine di volte senza mai notarli: loro, i profughi siriani, in fuga dalla guerra e al tempo stesso in fuga dall’Italia, dove non vogliono essere riconosciuti perché il diritto di asilo lo chiedono altrove, in Svezia, in Germania. A raccontare in parallelo le esistenze di quelli che scappano da una situazione impossibile (siriani, ma anche africani, soprattutto provenienti da Eritrea e Sudan) per trovarne un’altra ugualmente impossibile – ma in un paese europeo, il nostro – è stato lo speciale di Piazza Pulita Crack, “Fortezza Europa”, andato in onda in prima serata ieri su La Sette.
La scelta è in linea con quella che il programma condotto da Corrado Formigli sta portando avanti da tempo: allargare lo sguardo dalle nostre piccole e grandi miserie per raccontare sul campo cosa succede oltre i confini europei, in particolare nei paesi dove ci sono guerre civili in corso e dove il nuovo fondamentalismo islamico si è radicato grazie alla connivenza e all’indifferenza occidentali. La videocamera mostra ciò che mai prima d’ora era stato visto: centinaia di uomini chiusi nelle gabbie in Libia, in attesa di essere rimandati indietro, insieme alle loro mogli e ai loro bambini.
SONO i più sfortunati, i profughi che, nonostante siano sopravvissuti alla traversata del deserto, non riusciranno mai ad arrivare alla costa dove gli scafisti si contendono i passeggeri. “Ormai in Libia c’è il caos”, spiega uno di loro, “mentre prima era c’erano più controlli, ora anche i ragazzini si sono messi a fare gli scafisti. Ai siriani chiediamo di più, sono più ricchi”. Per chi riesce a mettere piede sul suolo europeo non è finita: o si resta nei campi pugliesi, tra fogne e baracche piene di stracci, coi piedi che sanguinano e padroni italiani che ti chiamano “porco nero”, o si tenta di proseguire, per esempio cercando di attraversare la Manica nascosti in sacchi a pelo pieni di ghiaccio sui camion o direttamente nuoto.
Pochissimi i passaggi in studio di questo speciale, dove non ci sono ospiti in poltrona, ma solo cifre. Che spiegano le immagini (23.000 morti in mare dal 2000, 3.400 solo nel 2014), smascherano la retorica anti-immigrati (del milione di clandestini in Italia oggi ne rimane la metà, perché “l’Italia non è più l’Europa”), infine chiariscono perché, con il passaggio da Mare Nostrum all’operazione Triton, si aggraverà la situazione di chi fugge. È vero: l’osservazione diretta di tanta sofferenza provoca in chi guarda un senso di incancellabile sconforto e anche di impotenza e non sarebbe inutile chiedersi quanto male possiamo sopportare, oggi che esistono i mezzi per mostrarlo da vicino a tutte le ore. Ma nell’epoca della caccia-al-dolore i modi per raccontarlo non sono tutti uguali e chi lo fa perché ancora crede nel giornalismo non rischia di venire confuso. Poi, visto che la xenofobia sta diventando glamour e finisce nuda in copertina, di speciali così ne servirebbe uno a sera. Magari, però, con proiezione speciale nelle aule parlamentari.

il Fatto 23.12.14
LA CATTIVERIA
Alfano: “Stiamo per prendere Messina Denaro”. È il primo colpo del mercato invernale
www.spinoza.it  


il Fatto 23.12.14
I pericoli secondo re Giorgio: i corrotti ma anche i magistrati
Napolitano al Csm: “Basta col protagonismo dei giudici”
Critica la “guerra” tra poilitica e magistratura, accarezza il premier e si “preoccupa per la corruzione
di Gianni Barbacetto


Ha anche qualche parola contro la corruzione: “In ambito penale, colpisce l’intensità e il diffondersi della corruzione e della criminalità organizzata emersi anche in questi giorni”. Così Giorgio Napolitano davanti al Consiglio superiore della magistratura riunito in plenum straordinario. “L’intreccio inedito e molto rilevante” tra corruzione, mafia e politica è “un nodo molto grosso e anche gli ultimi aggiornamenti ce ne danno il senso”. Contro questi fenomeni, “è fondamentale l’azione repressiva affidata ai pm e alle forze di polizia”. Per il resto, sono bacchettate alle toghe. Per cominciare, contro il “protagonismo”: il capo dello Stato dice che va “segnalata” la questione di “comportamenti impropriamente protagonisti-ci e iniziative di dubbia sostenibilità assunte nel corso degli anni da alcuni magistrati della pubblica accusa” (a chi si riferisce? Quali inchieste attacca?).
POI AFFRONTA un tema che gli è caro da tempo: “Politica e giustizia non possono e non debbono percepirsi come mondi ostili guidati da reciproco sospetto”. È l’aggiornamento della vecchia tesi del cosiddetto “scontro tra politica e magistratura”, fondata sul presupposto non già che la magistratura debba svolgere il controllo di legalità nel confronto di una classe politica che, tra l’altro, è tra le più corrotte e inquinate del mondo occidentale, ma che sia da tempo in corso un conflitto tra due contendenti inspiegabilmente rissosi: “Lo stato di tensione e le contrapposizioni polemiche che per anni hanno caratterizzato i rapporti tra politica e magistratura, determinando”, dice questa volta il capo dello Stato, “un paralizzante conflitto tra maggioranza e opposizione in Parlamento sui temi della giustizia e sulla sua riforma, non hanno giovato né alla qualità della politica, né all’immagine della magistratura. Rimango fermamente convinto, come ho avuto modo di dire più volte fin dallo specifico intervento sul tema svolto al Consiglio nel febbraio 2008, che la politica e la giustizia non possono e non debbono percepirsi come mondi ostili guidati dal reciproco sospetto”. Sarebbe dunque necessario “che tutti” – politici e magistrati – “facessero prevalere il senso della misura e della comune responsabilità istituzionale, poiché la credibilità delle istituzioni e la saldezza dei principi democratici si fondano sulla divisione dei poteri e sul pieno e reciproco rispetto delle funzioni di ciascuno”.
Il sistema giudiziario deve essere “affidato a un organo indipendente e imparziale, che garantisce la regole della civile convivenza e la stessa credibilità delle istituzioni democratiche. Questi valori vengono posti in dubbio”, continua a bacchettare il presidente, “in presenza di ingiustificate lungaggini o di casi di scarsa professionalità, sia in campo civile che penale”. L’efficacia e la rapidità del sistema giudiziario sono “indispensabili” anche per “l’attività imprenditoriale, per il recupero di competitività della nostra economia, cui è associato il tema, oggi particolarmente dolente, dell’occupazione”. È quindi “indubbio che ciò a cui occorre mirare è un recupero di funzionalità, efficienza e trasparenza del sistema”.
La giustizia è dunque da riformare: “Serve un processo innovatore”, dice Napolitano, per “ritrovare efficienza”. E aggiunge: “Non tocca al capo dello Stato suggerire il percorso di riforma”, che resta “prerogativa del Parlamento nella dialettica tra maggioranza e opposizione” e può avvalersi anche di “qualificati apporti esterni” per giungere “a un’ampia condivisione”. Come quella avviata, sembra suggerire Napolitano, dal governo in carica, il quale “ha intrapreso un percorso che intende proseguire mediante una pluralità di interventi”. Ma le “innovazioni normative”, sostiene, “vanno decise con ponderazione, evitando interventi disorganici o ispirati a situazioni contingenti”. Infatti, “le frequenti modifiche dei codici processuali, spesso improvvisate e tecnicamente insoddisfacenti, accentuano la crisi della giustizia, poiché il processo ha bisogno di regole certe e stabili”.
NEGLI ULTIMI ANNI, più in generale, “la decretazione d’urgenza, i maxiemendamenti e gli articoli unici sono cresciuti a dismisura e non siamo più usciti da questa spirale”. Ma insieme a questa critica, arriva un formidabile assist al governo che ha posto mano alla riforma del Senato: “Il bicameralismo paritario è stato il principale passo falso dell’Assemblea costituente”, un “tarlo sottovalutato” che ora qualcuno cerca “di abbellire” parlando del Senato come di una semplice “camera di riflessione”. Poi il capo dello Stato torna alla bacchetta, che questa volta cala contro le correnti dei magistrati: sono legittime, “possono essere una ricchezza, stando bene attenti però che le ragioni ideali per cui nacquero non scompaiono. Altrimenti, senza radici vitali, diventano solo gruppi di potere”.

La Stampa 23.12.14
L’eclissi della regola
di Michele Ainis


L’ eccezione è sempre eccezionale, direbbe monsieur de La Palice. Invece alle nostre latitudini è normale. Nel senso che la misura straordinaria costituisce ormai la norma, la regola, la prassi. Il caso più eloquente investe l’abuso dei decreti: 20 in 10 mesi, per il governo Renzi. Una media in linea con quella dei suoi predecessori, dato che Letta ne aveva sparati 22, Monti 25. Sicché questo strumento normativo, che i costituenti brevettarono per fronteggiare i terremoti, è diventato il veicolo ordinario della legislazione. Significa che in Italia i terremoti sono quotidiani, peggio che in Giappone. Come d’altronde i voti di fiducia, che hanno l’effetto di terremotare il Parlamento. Quello ottenuto dal governo sulla legge di Stabilità era il trentesimo della serie: dunque una fiducia ogni 10 giorni, record planetario. E oltre la metà delle leggi approvate sotto il ricatto del voto di fiducia.
C’è sempre un argomento che giustifica la misura eccezionale: forza maggiore. Se non intervengo per decreto, chissà quando si decideranno a intervenire le due Camere. Se non pongo la fiducia, magari mi voteranno contro. E così via, fra un maxi emendamento e una seduta notturna sulla manovra finanziaria, per scongiurare l’esercizio provvisorio. Del resto la XVII legislatura s’aprì con la rielezione del presidente uscente. Non era mai avvenuto, ma quella scelta fu possibile — come disse lo stesso Napolitano — perché la Costituzione aveva lasciato «schiusa una finestra per tempi eccezionali». Dalla forza maggiore deriva l’eccezione, dall’eccezione l’eclissi della regola.
Dovrebbe trattarsi di un’eclissi temporanea; invece è divenuta permanente. Così, in ogni democrazia i governati conferiscono un mandato ai loro governanti; ma gli ultimi tre esecutivi (Monti, Letta, Renzi) non hanno ricevuto alcun mandato. La loro investitura deriva dalla necessità, dallo stato d’eccezione.
L’urgenza permanente inocula un elemento ansiogeno nella nostra vita pubblica. E anche in quella privata, come no. Tu scopri che l’ultimo Consiglio dei ministri si è tenuto alle 4.40 del mattino, t’accorgi che il prossimo è stato convocato alla vigilia del Natale, e allora ti ficchi un elmetto sulla testa: dev’esserci una guerra, benché nessuno l’abbia dichiarata. In secondo luogo, l’urgenza impedisce programmi a lungo termine, però in compenso alleva misure frettolose, strafalcioni, commi invisibili come quelli votati (si fa per dire) dai senatori sulla legge di Stabilità. In terzo luogo e infine, chi decide sull’urgenza? Per dirne una, quest’autunno il Parlamento si è riunito a raffica per eleggere due giudici costituzionali. Ne ha eletto uno, dell’altro non si sa più nulla. Il primo era urgente, il secondo no.
Da qui il frutto avvelenato che ci reca in dono il nostro tempo. Perché la dottrina del male minore — cara a Spinoza come a Sant’Agostino — ci abitua a stare in confidenza con il male, sia pure allo scopo d’evitarne uno peggiore. E perché, laddove sussista una causa di forza maggiore, dovrà pur esserci una forza minore, una vittima sacrificale. Ma quella vittima è la legalità.

Repubblica 23.12.14
Renzi: stavolta batto i 101. Il Pd cerca il nome ammazza-veleni
di Goffredo De Marchis


ROMA Da Palazzo Chigi osservano con una certa ironia i movimenti dei papabili al Quirinale. La visita a sorpresa di Piercarlo Padoan al brindisi natalizio di Largo del Nazareno con Renzi viene definita, sorridendo, «un atto di cortesia verso il maggior partito di governo». I renziani non si sono stupiti quando hanno visto ieri pomeriggio la senatrice Anna Finocchiaro passeggiare nel Transatlantico dell’altra Camera dove si contano ben 630 grandi elettori a differenza di Palazzo Madama che si ferma a 315.
Poi, raccontano nelle stanze vicine a quella del premier, «Fassino avrà fatto mille telefonate, Bassanini in cuor suo ci spera, Parisi è tornato in pista e Veltroni non si perde una direzione ». Non è detto che non sia uno di questi il nome giusto per un accordo largo tra la maggioranza di governo con Forza Italia, ma le carte nelle mani del premier sono più numerose.
Renzi ha chiesto ai parlamentari democratici «senso di responsabilità», evitando «gli errori del passato». L’apertura di Berlusconi in favore di un candidato Pd contenuta nell’intervista a Repubblica permette ora al capo del governo di individuare una figura che nasca dentro il suo partito. A patto di scongiurare il harakiri della volta scorsa che portò al bis di Giorgio Napolitano.
«Conto molto sulla voglia di riscatto dei gruppi parlamentari, dopo il disastro del 2013», dice il premier. Ma sa bene che il centrosinistra è il luogo delle faide più feroci della Seconda repubblica. E che i franchi tiratori (la maggior parte di essi) rischia di annidarsi proprio dentro la sua forza politica. Per questo le dichiarazioni di Berlusconi gli fanno gioco, pur rinviando la palla in un campo avverso piuttosto diviso. Significano, quelle parole, che si può cercare un accordo largo o meglio larghissimo e contenere, nella giusta misura, anche il voto segreto in dissenso dei grandi elettori dem. «Stavolta dobbiamo essere in grado di affrontare anche i 101. E di batterli », ripete Renzi ai suoi collaboratori.
Dalla quarta votazione, quando bastano 505 voti, si può fare. Partendo appunto da 460 elettori del Pd. Gli ultimi passaggi parlamentari hanno scattato questa fotografia: 40 deputati sono usciti dall’aula al momento dell’approvazione del Jobs Act. Al Senato invece 32 democratici hanno firmato gli emendamenti critici contro la riforma del lavoro. Sono quasi 80 voti a rischio, ai quali se ne possono aggiungere altri dell’area bersaniana.
Un eventuale accordo può scontentare anche un terzo degli azzurri, un gruppo di centristi e una parte dell’Ncd. «Ma se l’accordo è largo, ce lo possiamo permettere», dice il premier. L’importante è limitare la fronda dentro il Partito democratico che contiene in sé le potenzialità per individuare al suo interno il nome del capo dello Stato o per affossarlo.
In questo senso l’appello a dimenticare i veti incrociati soprattutto dentro il Pd, ribadito ieri dal ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, non sembra campato per aria. Gli ex segretari per esempio sono più esposti alle simpatie e alla antipatie di correnti contrapposte. Si parla di Fassino, Veltroni, Franceschini e Bersani. Il sindaco di Torino per esempio fa parte della componente guidata dal ministro della Cultura, ma potendo dire l’ultima parola Franceschini preferirebbe indicare un ex democristiano come lui: Sergio Mattarella o Pierluigi Castagnetti. Veltroni e Bersani sono stati competitori di Berlusconi alle elezioni, con i toni duri della campagna elettorale. Per l’ex Cavaliere sarebbe più difficile far digerire alla sua opinione pubblica uno sfidante diretto, pur non essendoci un’ostilità manifesta verso i due ex leader del Nazareno (Bersani fu addirittura il primo a visitare in ospedale il capo di Fi dopo il ferimento in piazza Duomo).
Per approfittare di questi veti e di vecchie ruggini, il ministro dell’Economia ha calato il suo asso presentandosi al brindisi nella sede del Pd e togliendosi così di dosso un po’ dell’etichetta di tecnico. Né renziano né berlusconiano, ha il profilo del candidato in cui nessun contraente del patto del Nazareno può definirsi vincitore o vinto della partita per il Colle. Ovvero del garante. In più risponde all’identikit tracciato da Bersani a In Mezz’ora: europeista ed economista. Non è un nome nuovo nel toto-Quirinale ma ieri ha compiuto un passo che lo può mettere in prima fila indossando la maglietta del partito che sceglierà il futuro presidente della Repubblica. «Lo so che si agitano in tanti — avverte però Renzi — . Proprio per questo partiremo dal metodo subito dopo le dimissioni di Napolitano ». E tenendo il nome giusto coperto.

Repubblica 23.12.14
Così cade il muro dei veti incrociati
Renzi e Berlusconi hanno capito che devono togliere i macigni dalla strada che conduce al Colle
di Stefano Folli


C’ERANO due macigni a ostruire il sentiero che porta al Quirinale e almeno in apparenza sono in via di rimozione. Il primo, più ingombrante, è costituito dai veti incrociati. Gruppi e correnti in guerra fra loro, con il rischio che la vicenda sfugga di mano senza che stavolta si possa ricorrere a un Giorgio Napolitano come estrema speranza.
Quella dei veti è una prospettiva distruttiva, in grado di rendere le aule parlamentari peggiori di una giungla vietnamita. Logico che Renzi si sforzi di sgombrare dal tavolo la più insidiosa delle armi improprie. Berlusconi gli ha dato man forte nell’intervista di ieri a questo giornale. Non ci saranno veti da parte di Forza Italia, fa sapere il capo di Forza Italia; e la sua richiesta è di quelle pienamente ricevibili, se si decide che la trattativa deve essere una cosa seria. Berlusconi chiede un candidato «non pregiudizialmente ostile» e un presidente in grado di essere «garante».
Il primo punto rappresenta un notevole passo avanti. Il premier-segretario ha ottenuto dal suo partito la rimozione delle pregiudiziali anti Forza Italia. E in parallelo ha indotto il suo interlocutore del Nazareno a compiere la stessa operazione. Niente proclami («mai un altro presidente che viene dalla sinistra») e posizioni rigide (del tipo: adesso tocca a un cattolico o a un esponente del centrodestra).
La caduta dei veti, se così sarà, non significa che sia stato individuato il nome del prossimo presidente. Significa però che si è posta la prima pietra per risolvere il rebus. Infatti veti e pregiudiziali sono la migliore ricetta per giungere fino alla trentesima votazione senza uno sbocco. Viceversa la vittoria preliminare del buon senso aiuta, un passo dopo l’altro, a rafforzare le convergenze. Per cui l’incontro di Renzi con i parlamentari del Pd in occasione degli auguri di Natale non va interpretato come l’annuncio di un nuovo orgoglioso isolazionismo («abbiamo quasi 460 grandi elettori »), bensì come l’esigenza di non disperdere le forze — che sono cospicue — ancor prima di negoziare con gli avversari. E di non commettere gli stessi errori del passato.
Anche questo si direbbe, con qualche ottimismo, un obiettivo a portata di mano. Renzi ha cambiato tono negli ultimi giorni. Adesso è più attento e riflessivo quando parla di Quirinale. Il suo istinto pragmatico gli suggerisce di non commettere errori per eccesso di sicurezza. Si capisce perché. Un presidente della Repubblica che fosse eletto contro di lui, sarebbe uno smacco tale da compromettere il futuro stesso del «renzismo». E se il premier ha accarezzato in qualche momento l’idea di avere sul colle un semplice notaio della vita repubblicana, un capo di Stato alla tedesca privo di qualsiasi tentazione interventista, questo progetto per ora sembra riposto in un cassetto. La stessa presenza del ministro Padoan al brindisi natalizio non merita troppe dietrologie.
La verità è che la minoranza del Pd chiede un «presidente di garanzia» nel solco di Napolitano. E Berlusconi, senza ovviamente citare il presidente uscente, reclama la stessa cosa. Anche se forse il termine «garanzia» non ha il medesimo significato nei due diversi campi. Renzi dovrà tenerne conto. Del resto, la caduta dei veti porta con sé proprio questo: un’elezione condivisa, almeno in via tendenziale. Il ritorno alle ipotesi «super partes» come suggello della rinuncia allo scontro. Se il capo dello Stato fosse eletto con i voti prevalenti di Pd e Forza Italia (più i centristi e i transfughi ex grillini, figli di una crisi del M5S sempre più accentuata, almeno nelle aule parlamentari), si dirà che il patto del Nazareno è stato confermato al massimo livello come «cornice» della legislatura.
Una cornice dentro la quale Renzi dovrà lavorare per attuare le riforme. Ovviamente è presto per tirare le conclusioni. Ma il premier sembra aver capito che, comunque vadano le cose, il prossimo presidente deve essere la proiezione di una vittoria di Palazzo Chigi, non di una banale sconfitta. Chiunque sia l’eletto. Il pragmatismo è anche questo.

La Stampa 23.12.14
L’accordo per il Colle il Pd deve cercarlo prima di tutto con se stesso
di Marcello Sorgi

Il caos creato ieri alla Camera dal Movimento 5 stelle, sanzionato con una raffica di espulsioni dei deputati autori di una simbolica occupazione dei banchi del governo, allunga un’ombra sempre più spessa sulla possibilità che i voti grillini possano realmente essere conteggiati, nella trattativa aperta ormai alla luce del sole sul Quirinale.
La partita vera è dentro il Pd, che può contare su 460 dei 505 voti che bastano a eleggere il nuovo Presidente. E Renzi non è, o non è ancora, padrone del gioco nel suo partito. Domenica, intervistato da Lucia Annunziata, il leader della minoranza Bersani ha dettato le sue condizioni: va bene cercare una maggioranza la più larga possibile per l’elezione del Capo dello Stato, ma prima di tutto occorre mettere insieme tutto il Pd. Renzi sbaglia, ha lasciato intendere l’ex-segretario, se pensa di mettersi d’accordo con Berlusconi, anche a costo di scontare il rischio dei franchi tiratori Democrat.
Coincidenza ha voluto che nella stessa giornata parlassero anche Berlusconi e Renzi. Il primo per dire al Messaggero che è pronto a votare anche un esponente del Pd, purché non pregiudizialmente anti-berlusconiano. E il secondo per ricordare che l’ex-Cavaliere ha già votato per un candidato al Colle del centrosinistra nel ’99 (Ciampi) e nel 2013 (rielezione di Napolitano).
Se ne ricava che all’interno del Pd il confronto prosegue, e non è detto che la minoranza accetti il percorso proposto da Renzi (trattiamo con tutti, senza accordi preferenziali, ma anche senza pregiudizi). Per il premier l’accordo con Forza Italia è nell’ordine delle cose e può accelerare l’elezione, rendendola possibile, a maggioranza semplice, fin dal quarto scrutinio. Per Bersani e gli uomini della minoranza, invece, Berlusconi, se vuole, può aggiungersi, ma non dev’essere determinante. Renzi dunque è stretto tra due posizioni simmetriche e opposte, che può superare solo se trova un nome in grado di mettere tutti d’accordo. Non a caso, in questa fase, il premier nomi non ne fa.
Napolitano ha compiuto ieri altre due tappe verso la sua uscita di scena, prevista nella seconda metà di gennaio. Ha incontrato i vertici militari e il Consiglio superiore della magistratura, ribadendo, in quest’ultima circostanza, il suo giudizio negativo sulla contrapposizione tra giudici e politici. Parole molto dure, che anticipano il bilancio che a fine anno il Capo dello Stato farà nel suo ultimo messaggio tv agli italiani. Ma attorno al Presidente, giorno dopo giorno, il clima è mutato: allo sgomento che aveva preso l’intero sistema politico al primo annuncio delle dimissioni, sono seguite, prima la rassegnazione, e adesso l’ansia di veder cominciare per davvero la corsa per la successione.

il Fatto 23.12.14
Il giurista
Cassese, il professore diventato renziano che non dispiace a B.
Sul Corriere scrive un editoriale che pare un manifesto: “Serve un presidente che sia soltanto equilibratore”
di Stefano Feltri


Se un candidato al Quirinale pubblica un articolo sul Corriere della Sera intitolato “l’elezione che verrà e il ruolo del presidente”, è inevitabile leggerlo come una dichiarazione di intenti. Scrive il professor Sabino Cassese: “Al presidente della Repubblica sarà richiesto soltanto di giocare il ruolo di equilibratore e regolatore dei tre poteri dello Stato e si ritornerà al modello presidenziale einaudiano”. Pochi, in Italia, possono vantare lo stesso talento “equilibratore” e la stessa capacità di stabilire i rapporti tra poteri dello Stato di Cassese. Per la prima volta in vita sua, a 79 anni, questo professore nato ad Atripalda, in provincia di Avellino, e diventato un giurista di fama internazionale, ha tempo libero da dedicare alle sue passioni: la musica da camera e, come sempre, lo studio, il suo motto preso da Plinio è “nulla dies sine linea”, nessun giorno deve passare senza studiare.
DA UN PAIO DI MESI ha lasciato la carica di giudice della Corte costituzionale. Libero dal ruolo istituzionale, può scrivere di più, è passato da Repubblica al Corriere, è in televisione con una frequenza crescente per presentare il suo ultimo libro, Governare gli italiani (Mulino) che, per la verità, è uscito già da diversi mesi. Attività che sarebbe poco rispettoso presentare come strumentali a una campagna elettorale per il Quirinale ma che, di sicuro, non danneggiano una candidatura che sempre più credibile. “Le cariche pubbliche non si sollecitano e non si rifiutano”, ha detto a fine novembre in una puntata di Otto e mezzo. Altri potenziali presidenti – da Romano Prodi a Mario Draghi – sono stati molto più perentori quando interpellati sui destini quirinalizi. Per Cassese è la seconda volta: già nel 2013 si era parlato molto di lui, ma la sua candidatura era svaporata tra quelle dei due colleghi giuristi Giuliano Amato e Stefano Rodotà. Sulla sua competenza e propensione al ruolo non c’è dubbio: il suo campo è il diritto amministrativo, ma nell’accezione più elevata, cioè la prassi dell’arte di governare. Ha all’attivo una sterminata bibliografia, non solo in italiano. Ha insegnato alla Normale di Pisa ma non è un accademico da convegno: negli anni Novanta è stato consigliere di amministrazione di Telecom Italia, nei primi anni Duemila di Lottomatica, Atlantia, Banco di Sicilia, Autostrade. È un professore generoso coi suoi allevi, molti hanno fatto carriera: il suo assistente alla Consulta, Lorenzo Casini è un esperto di politiche culturali e oggi è il braccio destro del ministro Dario Franceschini, un altro amministrativista diventato un’autorità è Giulio Napolitano, figlio dell’attuale inquilino del Quirinale. E poi c’è Luisa Torchia, che per un soffio non è diventata ministro della Giustizia nel governo Monti, colpa anche di un’inchiesta giudiziaria a Siena sull’aeroporto.
Difficile immaginare un candidato più competente di Cassese. Che ha anche tutte le caratteristiche per diventare presidente con un accordo Renzi-Berlusconi. Ma ci sarebbero altrettanti argomenti contrari. Silvio Berlusconi non dovrebbe amarlo: è stato Casse-se a scrivere la sentenza della Corte costituzionale che nel 2011 ha bloccato il tentativo del Cavaliere di sottrarsi ai processi di Milano causa “legittimo impedimento”. Eppure nel centrodestra Cassese piace: Giuliano Ferrara lo ha elogiato sul Foglio nel 2011 soprattutto perché il professore ha una visione dei rapporti tra politica e giustizia molto più moderata di quella di altri suoi colleghi tipo Gustavo Zagrebelski: “La magistratura è forte se è un potere autonomo ma anche separato, il giudice parla con le sentenze”, ha detto di recente a DiMartedì, su La7. Il candidato meno sgradito a Berlusconi per il Colle sarebbe Amato ma, come ha scritto su La Stampa Marcello Sorgi, Cassese è un po’ “un Amato cattolico”. E nel 2003 Berlusconi si oppose alla nomina di Cassese alla Consulta, voluta dal capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi. Ecco cosa scriveva allora il capo dello Stato nei suoi diari: “Berlusconi non condivide scelta e mi invita a ripensarci. Rispondo firmando il decreto di nomina. Non intende controfirmare, sostenendo che mie scelte dovrebbero bilanciare un – da lui asserito – squilibrio politico a sinistra della Corte, a lui confermato da due componenti”.
ED È DIFFICILE IMMAGINARE un candidato meno tipicamente renziano di Cassese: uomo di tutte le Repubbliche, con Ciampi era già ministro della Funzione pubblica nel 1993 e controllore di qualità di tutte le leggi più importanti, è un “professorone” di cui il premier sicuramente non ha mai letto un solo saggio, è anziano e non è donna. Ma c’è compatibilità. Renzi? “Come Filippo Turati anche lui sta provando a rifare l'italia”. Il grillismo? “Anche dopo l’Unità d’Italia ci fu il brigantaggio, ma si esaurì in quattro-cinque anni”. Dal Quirinale sarebbe proprio il capo dello Stato ideale per un premier poco incline a subire tutele: “Gli innovatori oggi vanno aiutati”, ha detto Cassese. E il presidente uscente, Napolitano, non potrebbe essere più felice di vedere l’antico amico prendere il suo posto.

il Fatto 23.12.14
Renzi, la fregatura è sotto l’albero
Domani, nel consiglio dei ministri prenatalizio, Jobs Act, decreto Ilva, Milleproroghe e nomine
di Wanda Marra


Da grande voglio fare l’estintore”. Eccola lì, che arriva la battuta di Matteo Renzi. Che poi, tanto battuta non è. Domenica sera, studio di Fabio Fazio, Che tempo che fa. Il premier in versione pre-natalizia cambiaverso: da Rottamatore a estintore. Nella fattispecie è occupatissimo a estinguere il dissenso, il lavoro parlamentare comunemente inteso, e pure lo spirito critico generale. Arma di distrazione di massa: il grande gioco del Quirinale (le grandi manovre ci sono, ma ovviamente sotto traccia).
Sul tavolo del governo domani ci saranno una serie di provvedimenti non secondari. Prima di tutto i decreti attuativi del jobs act. Ufficialmente a Palazzo Chigi stanno finendo di lavorare al testo. Il governo sta tenendo il più possibile coperte le sue intenzioni. “Non sarà una vigilia di pace”, li preannunciava alla Ca-musso Renzi durante la cerimonia degli auguri di Napolitano alle autorità. L’ipotesi è di non distinguere le fattispecie dei licenziamenti disciplinari, in maniera da chiarire quali possono avere diritto al reintegro. Promessa che il governo aveva fatto alle minoranze Pd. Ma lasciare al giudice solo il compito di decidere se il fatto materialmente sussiste. Un modo per restringere al minimo lo spazio per il reintegro. Ancora sul tavolo anche il licenziamento per scarso rendimento. Che non piace alle minoranze. Mentre si discute sull’entità dell’indennizzo.
TRA I DECRETI arriva anche un Mille-proroghe. E poi, c’è quello sull’Ilva. Così lo annunciava il premier alFoglio: “Ci permetterà di salvare l’Ilva”. I timori che si addensano sul provvedimento però sono tanti: il sospetto è che il governo voglia nazionalizzarla, dividendo i rami di azienda, e lasciando allo Stato gli oneri, come i debiti e le bonifiche. A Palazzo Chigi stanno lavorando anche a un altro provvedimento, sulla città di Taranto. Non finisce qui. Domani si attendono alcune nomine importanti. Prima di tutto, a capo dell’Arma dei Carabinieri dovrebbe arrivare il Generale Tullio Del Sette, capo di gabinetto del ministro Pinotti. Con buona pace dell’uscente Gallitelli, che, per quanto ufficialmente pensionato al 31 ottobre, voleva il tempo, prima di essere sostituito, di aspettare il prossimo inquilino del Quirinale e cercare di diventarne il consigliere militare. Atteso anche il nuovo Comandante dell’Esercito. E il nuovo Avvocato di Stato. Scaduto Michele Dipace, si cerca il sostituto. Possibile uno degli attuale vice, Giuseppe Fiengo, Massimo Massella Ducci Teri, Salvatore Messineo. In pole, Massella. In alternativa, l’avvocato del Mef, Capo ufficio del coordinamento legislativo, Carlo Sica.
Nel frattempo, continua il gioco di strategia sul Colle. “L’intervista di Berlusconi a Repubblica è stata importante”, commentavano ieri a Palazzo Chigi. È stato lo stesso Renzi a chiedere a Verdini di farla. Il capo di FI ha detto: “Il problema non sono le radici politiche. Ma che sia un garante”. E sottolineando che non fa parte del Nazareno: “Dico solo che votando insieme la Costituzione, si può votare insieme anche per il Quirinale”, con il concorso di tutti, e quindi Fi ma anche Lega e M5S. Niente veti, ha detto il presidente del Consiglio. E veti l’ex Cavaliere non ne pone. Allineato, pure nel metodo.
IL PREMIER CERCA un nome secco, che sarà messo ai voti a partire dalla quarta “chiama” quando basterà la maggioranza assoluta. Ieri l’ha detto pure al brindisi al Nazareno con i deputati Pd: “Non dobbiamo dividerci”. Anche se i franchi tiratori sono messi in conto. Mentre nel borsino quotidiano crescono le quotazioni di Padoan (come tecnico), ieri pure al brindisi dem, unico ministro non del partito, Sabino Cassese (come non politico), di Pierluigi Castagnetti (come cattolico) e di Piero Fassino. Come cresce la tela di chi vuole usare Prodi contro il Nazareno.

Corriere 23.12.14
Licenziamenti disciplinari, decide l’azienda
Verso lo stop al reintegro
Varrà solo per quelli discriminatori. Ma nei provvedimenti attuativi gli indennizzi saranno rinforzati
L’azienda potrà evitare il reintegro deciso dal giudice pagando un indennizzo più alto
di Lorenzo Salvia


Primo decreto attuativo sul Jobs act. Tra le novità, l’opzione aziendale per i licenziamenti disciplinari: l’impresa avrà la possibilità di «superare» il reintegro deciso dal giudice pagando però un indennizzo più alto. Per i licenziamenti economici, determinati dal cattivo andamento dell’impresa, l’indennizzo sale con la dimensione dell’azienda, e diventa massimo oltre i 200 dipendenti.

Per i licenziamenti economici, quelli decisi in base al cattivo andamento dell’impresa, l’indennizzo sale con la dimensione dell’azienda, e diventa massimo oltre i 200 dipendenti. Per i licenziamenti disciplinari, quelli decisi in base al comportamento del dipendente, potrebbe scattare l’opzione aziendale: e cioè la possibilità per l’impresa di «superare» il reintegro deciso dal giudice pagando però un indennizzo più alto. Sono dieci gli articoli del primo decreto attuativo sul Jobs act , che arriverà domani sul tavolo del Consiglio dei ministri per regolare le nuove assunzioni fatte con il contratto a tutele crescenti, compreso il nuovo articolo 18. Molti punti sono ancora in discussione e potrebbero cambiare, ma il quadro comincia ad essere più definito.
L’opzione aziendale, già prevista in Germania e in Spagna, era un’ipotesi sul tavolo fin dall’inizio della trattativa. Ma nelle ultime ore ha preso decisamente quota. Come funziona? Oltre che per i licenziamenti discriminatori, cioè quelli decisi per motivi politici o razziali, il reintegro nel posto di lavoro con sentenza del giudice resterà possibile solo per alcuni licenziamenti disciplinari, e cioè quelli decisi sulla base di un «fatto materiale insussistente». Fino a un paio di settimane fa sembrava che il reintegro potesse scattare solo quando l’azienda mandava via il dipendente accusandolo di un reato che non aveva commesso. I paletti del reintegro si sono allargati, dunque. Ma con l’opzione aziendale tornano a stringersi perché l’impresa potrebbe evitare il reintegro pagando un indennizzo fino a 30 o 36 mensilità, contro le massimo 24 previste negli altri casi. L’unica possibilità, per arrivare al reintegro, sarebbe quella di dimostrare che in realtà si è trattato di un licenziamento discriminatorio.
Per calcolare gli indennizzi dei licenziamenti economici, invece, vengono fissati tre scaglioni in base alla dimensione dell’azienda. Per le aziende al di sotto dei 16 dipendenti si calcolerà mezzo stipendio per ogni anno di anzianità di servizio, con un tetto massimo di sei mensilità. Per le aziende fra i 16 e i 200 dipendenti, si calcolerà una mensilità e mezzo per ogni anno di anzianità, mentre per quelle oltre i 200 dipendenti le mensilità per anno dovrebbero salire a due o comunque dovrebbe scattare un meccanismo che renda più alta la somma da pagare. L’indennizzo non potrà superare i due anni di stipendio ed essere più basso di tre mensilità per le aziende fino a 200 dipendenti, di 4 per quelle più grandi. Confermato che, in caso di conciliazione, cioè di accordo fra le parti, gli indennizzi saranno esentasse ma calcolati con un coefficiente più basso: una sola mensilità l’anno fino a 200 dipendenti, una e mezza per le aziende più grandi. Altra novità delle ultime ore è che le regole sui licenziamenti economici riguarderanno solo quelli individuali e non anche quelli collettivi.

Corriere 23.12.14
Spunta la grande sanatoria per favorire giochi e Fisco
Legalizzate 7 mila sale. Giudici in pensione per le concessioni
di Sergio Rizzo


Incalzato dai grillini al Senato, Matteo Renzi tuonò: «Adesso basta con le marchette in Parlamento!». Sentendosi rinfacciare sulla «Stampa» da uno del suo partito, il presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia: «Veramente il primo a fare le marchette è stato il governo. Al Senato ha presentato novanta emendamenti…». Alcuni del quali con nome e cognome.
Per esempio, quello sui giochi messo a punto dagli uffici delle Finanze, che ha un destinatario preciso: la Sisal, società concessionaria presieduta dall’ex ministro delle Finanze ed ex commissario dell’Alitalia Augusto Fantozzi, controllata dalla holding lussemburghese Gaming invest. L’obiettivo è rianimare il Superenalotto, ormai da tempo in caduta verticale. La ragione è che si vince troppo poco in rapporto con altri giochi d’azzardo. Per metterci una pezza non resta che consentire di aumentare la percentuale di vincita con, testuale, «l’adozione di ogni misura utile di sostegno della offerta di gioco». Interventi che però potrebbero anche avere ripercussioni sul gettito erariale: in un senso positivo, ma come pure nel senso opposto. Che fare, allora? Siccome nessuno ha la palla di vetro, ecco che nell’emendamento salta fuori una innovazione formidabile, tenuto conto dell’inflessibilità con cui i guardiani dei nostri conti dispensano il prezioso bollino. Qui, infatti, il problema della copertura non solo non viene preso in considerazione, ma si precisa che considerati «obiettivi e ineliminabili margini di aleatorietà» delle scelte che saranno fatte, «i provvedimenti adottati ai sensi del presente comma non comportano responsabilità erariale quanto ai loro effetti finanziari». Un capolavoro.
In quell’emendamento, in realtà, c’è anche una specie di sanatoria per le migliaia di negozi di scommesse privi di concessione statale ai quali verrebbe offerta «una opportunità di redenzione nella direzione del circuito ufficiale e legale di raccolta di scommesse». In che modo? Pagando una certa somma entro la fine di gennaio 2015 come tassa di ingresso nel sistema alla luce del sole. La questione ha almeno una decina d’anni e non è mai stata risolta: nasce da una serie di ricorsi presentati a Bruxelles da soggetti che si ritenevano discriminati, e per questo hanno ritenuto di poter operare anche senza aver ottenuto (ma neppure chiesto) la prevista autorizzazione. Parliamo di un fenomeno che negli anni ha raggiunto proporzioni enormi, se si pensa che il volume delle scommesse raccolte da costoro è dell’ordine di 2 miliardi e mezzo l’anno contro i 3,7 miliardi dei negozi regolari: semplicemente astronomica l’evasione fiscale connessa a questo sistema parallelo. La relazione tecnica quantifica lo stima in circa 7 mila punti, a fronte dei 7.400 legali, distribuiti sull’intero territorio nazionale. Anche se «dagli accertamenti condotti dalla guardia di Finanza emerge che la rete degli operatori non autorizzati è principalmente localizzata nelle grandi aree urbane e nelle zone meridionali, dove la raccolta media è di gran lunga più alta». Accertamenti che peraltro hanno innescato una forma di intimidazione senza precedenti nei confronti dei dirigenti dell’Agenzia dei Monopoli e dei finanzieri incaricati dei controlli e del recupero delle imposte non pagate presso questi negozi non autorizzati, che si sono visti recapitare almeno 160 cause e atti di diffida individuali.
Tutto questo avviene sullo sfondo di un passaggio cruciale. È quello del rinnovo delle concessioni in scadenza sia per i giochi numerici cosiddetti «a quota fissa» che per il lotto. E qui gli emendamenti del governo contengono un’altra sorpresa. Non per la durata delle concessioni, fissata in nove anni, né per la base d’asta stabilita in 700 milioni di euro, e neppure per il livello degli aggi o per gli altri obblighi imposti agli eventuali partecipanti. Ma per la composizione della commissione di gara: che dovrà essere «composta di cinque membri di cui almeno il presidente e due componenti scelti tra persone di alta qualificazione professionale (e i due rimanenti?, ndr ), inclusi magistrati o avvocati dello Stato in pensione». Ricordiamo male o il governo aveva deciso di vietare l’affidamento di incarichi pubblici ai pensionati statali? Verissimo. Salvo poi concedere, com’è stata concessa, una deroga per i componenti delle commissioni. La ragione? Che si fa fatica a convincere i dipendenti pubblici a farne parte, causa la modestia dei compensi. Allora, porte aperte ai pensionati…

Corriere 23.12.14
I giovani avvocati contro i minimi
Quattromila euro entro novanta giorni. Paghi o sei fuori dall’albo


In sostanza — pur avendo superato le «forche caudine» dell’esame di Stato — perdi lo «status» di avvocato. In questi giorni migliaia di giovani professionisti del foro hanno ricevuto una lettera della Cassa forense, l’ente previdenziale di categoria. Contiene una serie di istruzioni che hanno il sapore di un ultimatum, a seguito dell’emanazione del regolamento attuativo della legge 247 del 2012 (governo Monti). L’articolo 1 prescrive a ciascun legale l’obbligo di registrazione alla Cassa a partire dal giorno d’iscrizione all’albo degli avvocati, imponendo il versamento dei «contributi minimi». Finora un’ampia fascia di professionisti in erba ha alimentato una sorta di evasione contributiva, perché l’obbligo di iscrizione alla Cassa era previsto solo per chi superava i 10.300 euro all’anno. A rischio ci sarebbero 10 mila giovani professionisti. Davanti a sé hanno due scelte: perdere lo status oppure rimetterci di tasca propria.

il Fatto 23.12.14
Altro che Caimano
Matteo okkupa le tv. Fazio che strazio
di Andrea Scanzi


Renzi è in calo nei consensi e, misericordiosa, arriva larga parte di stampa e tivù a supportarlo. Rai in testa. Dopo l’avvincente intervista dei “balilla” incolpevoli di venerdì, nell’indimenticabile proscenio di Rai1 gestito da Clerici e Vespa, due sere fa è toccato al salotto buono di Che tempo che fa su Rai3. Ovviamente, e come quasi sempre, Fabio Fazio non ha fatto domande ma si è limitato a balbettare sospiri adulanti.
IL PUBBLICO è parso apprezzare, almeno giudicare dallo share (11.46 per cento). È stato un momento emozionante e non privo di una qual certa tensione. Da una parte c’era Fazio, che non avendo mai posto domande vere non si è mai aspettato di ricevere risposte vere, solo che l’ospite pareva esagerare – persino per lui – quanto a fumosità. Dall’altra parte troneggiava Renzi, senz’altro abituato a ricevere inchini, ma forse imbarazzato pure lui per l’overdose di salamelecchi del presentatore, che arrivava a definirlo espressione di “innovazione e positività”.
In un certo senso l’uno mandava in cortocircuito l’altro, in un parossismo irresistibile di retorica e autocelebrazione. Per una dimenticanza casuale e per nulla colpevole, Fazio non è parso granché interessato a temi come il papà del premier indagato per bancarotta, l’appalto senza gara a Farinetti e i 112 reati depenalizzati. Fortunatamente, per il giubilo degli astanti, Renzi ha regalato parole cariche di saggezza. Commoventi, in particolare, i passaggi “I magistrati scrivano le sentenze e non i comunicati stampa” e “Bisogna smettere di rubare, non di fare i grandi eventi”.
Non senza ardite dosi di spericolatezza, Renzi ha anche detto che “l’evasione fiscale è come una rapina”. Considerando che Berlusconi ha una condanna definitiva per frode fiscale, sarebbe stato forse d’uopo ricordargli che è dunque bizzarro riscrivere la Costituzione con un “rapinatore”, ma Fazio non gliel’ha fatto notare: per gentilezza, s’intende. Auspicando che, nella sua bulimia televisiva, Renzi accetti prima o poi di confrontarsi anche con quei giornalisti e programmi che detesta neanche troppo cordialmente, e che dunque evita come la peste (e il dietologo), corre qui l’obbligo di denunciare uno strano evento. Giusto in contemporanea con la deificazione renziana su Rai3, La7 trasmetteva “Natale nel paese delle meraviglie” (2.67 per cento). Un best of di Maurizio Crozza, durante il quale il finto Renzi partecipava a una conferenza stampa. Accanto a lui, la finta Madia e la finta Boschi. Renzi, cioè Crozza, lasciava che fossero le ministre a rispondere alle domande. Esse, con consueta e ormai nota competenza granitica, ripetevano ossessivamente due dei mantra preferiti dal renzismo: “80 euro” e “41 percento”. Renzi, cioè Crozza, sorrideva felice. Di quella felicità vagamente ottusa, un po’ ipnosi e un po’ paresi, che sa infondere sul volgo ottimismo e speranza.
NEL FRATTEMPO le finte ministre insistevano con gli 80 euro e il 41 percento. Solo che lo facevano così tanto che i (finti) giornalisti non ne potevano più, si arrabbiavano e cominciavano a sparare domande vere. Argute, spinose: per nulla concordate. E Renzi, cioè Crozza, abbandonava piccato la conferenza stampa. Vedere quel momento di satira in contemporanea con “l’intervista” di Fazio a Renzi era appena straniante. Quasi che, mai come oggi, la satira fosse ormai molto più reale della realtà stessa. Con una sola differenza, però sostanziale: pare assai improbabile che, nel mondo reale, i giornalisti (veri?) si ribellino come quelli finti.

il Fatto 23.12.14
I siti internet patacca lanciati dal governo E l’ultimo c’era già
Renzi annuncia a Che tempo che fa “Soldipubblici.gov.it”
Stesse funzioni di un portale della Banca d’Italia
di Tommaso Rodano


Un’interfaccia semplice, pulita, lineare, come da tradizione consolidata della comunicazione renziana. Un archivio che permette di consultare intuitivamente tutte le voci di spesa di comuni, province e regioni. Soldipubblici.gov.it   è online, dopo l’annuncio del premier in diretta tv da Fabio Fazio, domenica sera. L’avvio è stato stentato.
Il sito non ha funzionato per quasi un’ora a causa dell’elevato traffico di visitatori. Nemmeno il primissimo battesimo era stato fortunato: a inizio dicembre Renzi aveva anticipato la nascita del portale durante la trasmissione di Enrico Mentana Bersaglio Mobile, su La7. Solo che nessuno nel governo si era premurato di acquistare il dominio: l’indirizzo soldipubbli  ci.it  era stato “rubato” da un anonimo acquirente, causando a Renzi qualche imbarazzo e un buon numero di sberleffi in rete.
Come funziona. Si apre con tre grandi numeri che scorrono al centro della pagina: il totale del denaro speso da tutte le amministrazioni locali nel 2014 e poi le cifre – separate – di Comuni e Regioni. L’archivio è indirizzato attraverso tre direttive: chi, quanto e cosa. Chi spende (Comuni, Province, Regioni), quanto spende (con il confronto tra l’anno corrente e il 2013, che però in molti casi è assente) e per quali beni o servizi (personale, acquisti e noleggi, cancelleria, manutenzioni, e via dicendo).
In pochi secondi si può quindi verificare – per fare un esempio – che il Comune di Roma nel 2014 ha investito per i suoi mezzi di trasporto 59.667.369,87 euro, mentre nel 2013 la stessa voce era costata “solo” 1.133.188,01 euro. Per un cittadino, orientarsi con numeri nudi e definizioni generiche rimane piuttosto complicato. È davvero così utile sapere che – per fare un altro esempio – nel 2014 la Regione Liguria spende poco meno di 200 mila euro per “cancelleria e materiale informatico e tecnico? ”. Le cifre sono presentate senza ulteriori informazioni: non si conosce il prezzo d’acquisto unitario del materiale in questione, né la quantità, né le aziende a cui si è rivolta l’amministrazione. Bandi e appalti, su Sol  dipubblici.it , restano irrintracciabili.
Il doppione. A poche ore dal lancio, in rete sono comparse le prime polemiche. “Non è niente di nuovo”, si appoggia a “numeri che già avevamo”, un “servizio inutile, di cui – per paradosso – non si conosce nemmeno il costo. ” In effetti il sito utilizza le cifre elaborate da Banca d’Italia e dalla Ragioneria dello Stato, rese pubbliche su Siope.it . Un progetto nato addirittura nel 2006, molti anni e governi prima di Renzi. Siope.it   offre un servizio più approfondito di quello diSoldipubblici.it : permette l’analisi dei dati aggregati e il confronto diretto tra le voci di spesa di enti diversi in differenti periodi. Consente, inoltre, di salvare le proprie ricerche esportandole in un file. La grafica è sicuramente meno accattivante di quella del sito renziano, che è più immediato e semplice da consultare. In sostanza, più che di una rivoluzione della trasparenza, si tratterebbe dell’ennesimo restyling.
Passo dopo passo. A Soldi-  pubblici.it   bisogna concedere per lo meno il beneficio del dubbio: è appena stato lanciato, è nella versione di prova, i suoi servizi – promettono – saranno raffinati e implementati. Per adesso però c’è molta forma e poca sostanza. Non è una novità: anche l’altro cavallo di battaglia del renzismo internettiano – il sito passodopopasso.it   – è stato riempito di grafiche esteticamente gradevolissime quanto spoglie di contenuti. Era nato con la promessa di rendere conto con rigore e tempestività dei provvedimenti adottati dal governo nei “mille giorni per cambiare l’Italia. ” L’analisi più lucida e impietosa sui suoi insuccessi l’ha formulata il sito Openpolis: “Mancano informazioni base su tempi, azioni e attività del governo. Pochi e datati gli strumenti messi a disposizione dei cittadini (...). Risulta deficitario in tutti gli aspetti presi in considerazione. A questo dobbiamo aggiungere una scarsa attenzione alla questione della verificabilità delle informazioni pubblicate: le news non sono datate, le fonti non sono riportate e non vengono forniti link di approfondimento”. Il sito, nota di colore, è nato allo stesso indirizzo ip del portale ideato dall’ex ministra Micaela Vittoria Brambilla: vacanzea4zampe.info; i governi in rete non lasciano tracce indimenticabili.

Corriere 23.12.14
Spese online, il rischio di una mossa di facciata
di Riccardo Puglisi


Domenica sera il presidente del Consiglio ha annunciato il debutto del sito Soldipubblici.gov.it, il quale permette di conoscere quanto speso da Regioni ed enti locali nel 2014 per le diverse categorie di spesa. Citando il celebre economista Sraffa si tratta di un caso di «produzione di siti a mezzo di siti», in quanto questo nuovo sito si basa sui dati già presenti su Siope.it, gestito dalla Banca d’Italia, di fatto consultabile in maniera molto più sistematica.
Vi sono anche delle differenze nei contenuti: il nuovo sito permette l’accesso ai dati su Regioni, gestioni sanitarie regionali, Province e Comuni, mentre Siope contiene anche i dati relativi a comunità montane, università, strutture sanitarie (Asl e altre) e soprattutto allo Stato.
Il rischio è che il sito Soldipubblici.gov.it sia un’ennesima operazione di facciata. Ad esempio, non si sa quali siano le caratteristiche dei dati estraibili: sulla base delle lettere digitate la mascherina del sito suggerisce possibili enti locali o Regioni, e lo stesso accade per il tipo di spesa, ma non è visibile l’elenco di tutte le possibili amministrazioni e categorie di spesa. Per esempio ieri ho cercato la spesa «cene» per la Regione Lombardia, ma il sito suggerisce l’unica — e quasi funerea — alternativa «ceneri», categoria per cui peraltro la Regione Lombardia pare non abbia speso alcunché. E non si riesce neanche a trovare il colpevole, cioè l’ente che ha speso qualcosa per «ceneri» nel 2014.
In termini di tempistica, il sito Soldipubblici viene messo online subito dopo lo scoppio dello scandalo di Mafia Capitale, quando i cittadini sono giustamente indignati per la «cattiva gestione» di soldi pubblici — per usare un eufemismo — da parte del Comune di Roma. Ed ecco i dati di spesa su Regioni Province e Comuni, provvidenzialmente messi a disposizione dal Governo centrale. Con ogni probabilità il sito Soldipubblici verrà in futuro arricchito di informazioni sulle spese degli enti che già sono inclusi su Siope, a partire dallo Stato. Il mio sospetto è che ciò accadrà quando la notizia del debutto del sito sarà scomparsa dalle (prime) pagine dei giornali e dai Tg, e dimenticata dalla stragrande maggioranza dei cittadini.
Anche grazie all’intelligenza dello «spin doctor» Filippo Sensi, la gestione tattica dei media da parte del governo è quanto mai accorta: già dal luglio scorso era partito da queste pagine l’invito a pubblicare i 25 documenti finali della spending review di Cottarelli, e sembrava che qualcosa si stesse muovendo. Tuttavia, l’opinione pubblica si è poi focalizzata su altri temi (in particolare di politica internazionale: Ucraina e Medio Oriente) e questi documenti sono poi rimasti nei cassetti virtuali di Palazzo Chigi. Parafrasando Nanni Moretti: i dati (di finanza pubblica) sono importanti, ma le analisi di questi dati lo sono ancora di più. Soprattutto quando sono in ballo i tanti soldi dei contribuenti italiani.

il Fatto 23.12.14
Lo psicologo Paolo Legrenzi
“Sul risparmio Renzi sbaglia”
di Stefano Feltri


Dal 2012 al 2014 le famiglie italiane hanno tirato i remi in barca e hanno aumentato i propri risparmi di 400 miliardi”, spendono poco e quindi l’economia non riparte, ha detto il presidente del Consiglio Matteo Renzi a Che tempo che fa domenica sera. Non si sa da dove arrivi il dato citato: secondo la Banca d’Italia, la ricchezza delle famiglie italiane è di 8.728 miliardi, l’8 per cento in meno che nel 2007, prima della crisi. Ma in effetti dopo otto anni di cali nel 2013 il risparmio è tornato a crescere, da 34 a 46 miliardi. Ha ragione Renzi? Lo abbiamo chiesto a Paolo Legrenzi, professore emerito di psicologia cognitiva alla Cà Foscari di Venezia. Da anni studia il rapporto tra psicologia ed economia, cioè come prendiamo le decisioni sui soldi. Il suo ultimo libro, con Carlo Umiltà, è “Perché abbiamo bisogno dell’anima” (Il Mulino).
Professor Legrenzi, il premier sostiene che la ripresa non arriva per colpa degli italiani che non spendono perché stanno risparmiando troppo. È così?
No. Gli italiani secondo i dati di Bankitalia hanno circa 4.400 miliardi da parte di ricchezza non immobiliare, incluse le azioni. Il resto è immobiliare, più o meno 4.500 miliardi. Perché gli italiani erano convinti che il risparmio negli immobili non tradisca mai. Il vantaggio psicologico di questo investimento è che il prezzo lo sai solo quando compri o quando vendi, mentre di Eni e Fiat lo sai ogni giorno, in Borsa. E i prezzi delle case crescevano, almeno quelli nominali. Ora invece scendono addirittura i prezzi reali, cioè al netto dell’inflazione. E non era mai successo dagli anni Cinquanta.
Con quali conseguenze?
E dalle ricerche di Daniel Kahneman sappiamo di essere molto più sensibili alle perdite che ai guadagni: il fatto che le case perdano di valore è una rivoluzione per l'italiano medio. Che è preoccupato perché sta diventando più povero, visto che perfino gli immobili hanno smesso di crescere di valore. Le famiglie che riescono a mettere via qualcosa sono diminuite della metà dal 2007 a oggi. E la fascia ristretta che può ancora risparmiare continua a farlo perché è preoccupata, vedendo i risparmi accumulati nel passato stanno perdendo di valore.
Secondo Renzi sono italiani che hanno poca fiducia nel futuro e impediscono al Paese di ripartire.
Il governo dice che non hanno coraggio. No, sono saggiamente frugali perché pensano al futuro dei loro figli e alle loro prospettive di reddito.
Il governo ha scelto di incentivare i consumi e tassare il risparmio (“rendite finanziarie”) per spingere la spesa. Funzionerà?
Le persone sono razionali. Quei pochi che possono risparmiare lo fanno per integrare le perdite che il loro portafoglio ha subito. Sono più poveri di cinque anni fa e ora ne sono consapevoli, soprattutto perché vedono che addirittura le case stanno perdendo valore. Dopo l’aumento della tassa sui rendimenti dei conti correnti dal 20 al 26 per cento, in Italia c’è una tassazione media sul risparmio analoga a quella che Thomas Piketty auspica a livello mondiale per ridurre le disuguaglianze, attorno al 2 per cento.
Cosa dovrebbe fare quindi Renzi?
Per agevolare i risparmiatori dovrebbe abbassare drasticamente la tassazione perché i risparmi sono consumi differiti. Invece in questi anni la tassazione sul lavoro è sempre salita, per le piccole imprese e le partite Iva. E dovrebbe ridurre le tasse sul risparmio, limitare le perdite sui risparmi accumulati.
Dipende tutto dalle scelte del governo?
Gli italiani hanno molte colpe per non aver diversificato i loro investimenti: è tutto concentrato sull’Italia. Anche i risparmi non immobiliari, cioè non immobilizzati in case, sono soprattutto in titoli di Stato italiani o in obbligazioni delle nostre banche. E queste scelte non dipendono da ragioni patriottiche ma dal fatto che i risparmiatori hanno ragionato con lo specchietto retrovisore, allettati dai rendimenti passati. Una scelta che si sta rivelando profondamente sbagliata.
Quindi se l’Italia non si riprende, sono guai per tutti.
Esatto. In nessun altro Paese c’è questa situazione nell’allocazione dei risparmi.

Repubblica 23.12.14
Cavilli e ritardi così affonda la grande speranza dell’eterologa
Soltanto trenta casi dall’ultima sentenza della Consulta. Mancano gli ovuli e le leggi chiedono più esami che in tutta Europa
di Michele Bocci e Caterina Pasolini


ROMA Il 2014 doveva essere l’anno dell’eterologa in Italia. Il verbo è all’imperfetto perché il risultato tanto atteso da molte coppie non è stato raggiunto. Malgrado la sentenza della Corte costituzionale di aprile abbia reso di nuovo possibile il trattamento vietato dalla legge 40, una serie di ostacoli tecnici e politici stanno rendendo vana la decisione dei giudici. Ci vorrà tempo, molto tempo, perché il sistema entri a regime. Intanto nel nostro Paese si contano appena una trentina di trattamenti. Venti in Sicilia, nove in Toscana (dove l’ospedale partito per primo in Italia, Careggi, si è già fermato), qualcuno in Emilia Romagna e in Veneto. Troppo poco per soddisfare le richieste delle migliaia di coppie che chiedono di avere un figlio utilizzando i gameti di una terza persona.
Se in certe regioni, come la Lombardia, si è capito fin da subito che la politica non aveva alcun interesse a partire nelle strutture pubbliche, in altre ben più motivate ci sono stati comunque grandi problemi. Il quadro che ne esce è sconfortante. Nel nostro Paese non ci sono quasi donatrici. Il ministero della Sanità ha inserito nella legge di Stabilità un emendamento che sancisce la nascita di un registro donatori, per assicurare anonimato e possibilità di risalire comunque al genitore genetico in caso di problemi di salute. Per tutti si tratta di un successo, ma è un fatto che ad oggi manca la materia prima per far funzionare il registro, cioè i donatori. Si attende ancora, invece, l’inserimento della pratica nei Lea, i livelli essenziali di assistenza che devono essere garantiti da ogni Regione.
E se da noi i donatori non ci sono, è pressoché impossibile al momento trovare una banca dei gameti europea da cui acquisire il materiale biologico necessario all’eterologa. Le linee guida italiane richiedono infatti più esami di quelli previsti nel resto del continente, cosa che rende i gameti delle banche privi dei requisiti richiesti dal nostro ordinamento. Ci vorrà tempo per convincere queste società a cambiare i loro protocolli. Spesso, infatti, fanno capo a centri di fecondazione che hanno tutto l’interesse a non far partire l’eterologa in Italia, visto che sperano di avere ancora i nostri connazionali tra i loro clienti.
Così l’unico sistema che sta funzionando in questo momento è quello che con una brutta espressione tecnica si chiama egg sharing . Si tratta di ottenere la donazione da una donna che fa la fecondazione omologa per sé e il compagno. È la strada scelta ad esempio a Cortona (provincia di Arezzo), dove hanno già avviato sei casi con questa metodica (due le donne rimaste incinte) e promettono di procedere a un ritmo di due trattamenti alla settimana. Anche a Cattolica puntano sulla stessa linea, ma addirittura tentano la strada delle fecondazioni «incrociate». Come funziona lo spiega Carlo Bulletti, primario dell’unità di fisiopatologia della riproduzione: «I mariti di donne sterili hanno donato il loro seme, donne i cui compagni non potevano avere figli hanno regalato i loro ovociti in sovrannumero. Il risultato? Sei coppie ora hanno la speranza, e alcune di loro già la certezza, di aspettare un bambino. E altre dieci hanno già l’appuntamento per la fecondazione eterologa in gennaio. Donatrici e basta, si contano sulle dita di una mano, noi ne abbiamo trovate solo due. Con questo sistema la gente è più invogliata a donare perché è coinvolta: io do un gamete a qualcuno che donerà un ovocita ad un altro che regalerà il seme ad un terzo. Un circolo virtuoso tra sconosciuti ». Una strada improntata alla solidarietà che non può bastare a rispondere a tutte le richieste.

il Fatto 23.12.14
Potenza, licenziato il chirurgo che denunciò l’omicidio in sala
“Danni all’immagine”. Fece arrestare il primario per la morte di una donna
di Antonello Caporale


La denuncia, così estrema, chiara, dettagliata, lucida, corrispondente alla verità nuda dei fatti, ha provocato un tale discredito all’ospedale che il suo autore è stato licenziato. Quindi il denunciante, il cardiochirurgo Fausto Saponara, la settimana scorsa è stato licenziato dall’azienda ospedaliera San Carlo di Potenza, indispettita e incattivita per essersi rivista nei tg e sui giornali in ragione di una strana morte accaduta dentro le sue mura su un lettino operatorio due anni fa. Si spera così che la lezione serva a tutti e che Saponara, d’ora in avanti, impari a custodire le parole in tasca.
Sembra una trovata teatrale in cui il rovescio si fa diritto, l’omertà diviene clausola di stile, il silenzio sentimento vitale. Invece è tutto incredibilmente vero. La settimana scorsa il consiglio di disciplina ha notificato al dottor Saponara l’atto di licenziamento per aver denunciato i motivi che hanno condotto alla morte una paziente sottoposta a un intervento di cardiochirurgia nell’ospedale lucano. Elisa Presta, 71 anni, trovò due anni fa la morte nella sala chirurgica dell’ospedale per una serie inenarrabile di leggerezze e incompetenze, con operazioni di rianimazione fuori tempo massimo e interventi sul suo corpo al di là delle più elementari indicazioni del prontuario sanitario. Un’operazione chirurgica lieve nella sua problematica ma portata avanti nel più disastroso dei modi e, visto l’esito infausto, taciuta ai familiari, ai dirigenti dell’ospedale e persino al pubblico ministero. Una storiaccia di malasanità, con l’aggravante della correità e la stabilizzazione di una rete di silenzi incrociati poi però implosa in un video drammatico trasmesso da tutti i tg in cui uno dei presenti all’operazione, il cardiochirurgo Michele Cavone, dichiarava la sua colpa per aver assistito all’”ammazzamento” senza nulla fare, per essersi ritratto dalla denuncia, per essersi fatto – come esige la grammatica in voga del senatore Razzi – “i cazzi suoi”.
LA CONFESSIONE del medico è stata davvero scioccante, e ha poi condotto l’inchiesta giudiziaria ad avanzare nell’accertamento delle responsabilità arrivando fino all’arresto del primario del reparto, Nicola Marraudino, colui che operava quella notte, e alla disarticolazione della struttura dirigente del reparto, con effetti deflagranti successivi (le dimissioni del direttore generale).
Il conto esatto delle omissioni, delle correlazioni, del clima di ostilità interna l’aveva tenuto proprio Saponara che al Fatto Quotidiano aveva elencato la vicenda interponendola con la propria condizione di emarginazione. Aveva elencato minuziosamente la quantità di occasioni in cui aveva denunciato il caso alla gerarchia sanitaria senza mai ottenere risposta. Aveva prodotto documenti, fax, colloqui che però non avevano dato alcun esito. Alla fine, solo alla fine di una lunga litania fatta di sospensioni cautelari, dissidi, proteste, si era deciso a rendere pubblica la sua condizione.
E questo fatto, proprio questa ultima decisione, è stata assunta come elemento di causa dell’interruzione del rapporto di lavoro. La commissione disciplinare lo ha licenziato non una ma due volte. Con una prima contestazione, e successiva delibera, gli ha contestato “di aver reso dichiarazioni relative a presunti comportamenti omissivi da parte della Direzione dell’Azienda ospedaliera che avrebbe occultato volontariamente la nota vicenda della paziente E. P. La propalazione di tali affermazioni ha determinato e determina grave nocumento all’immagine dell’azienda”. Seconda contestazione e secondo licenziamento per aver proceduto “clandestinamente a registrare la conversazione tenuta con il collega e successivamente farla pervenire al quotidiano on line Basilicata24.it   senza aver prontamente proceduto alle debite segnalazioni alle autorità competenti e alla direzione generale”.
ECCO L’INCOLPAZIONE che incredibilmente tace sul silenzio che regnava intorno a quella che ora definisce “nota vicenda”. Nota solo grazie al dottor Saponara. E infatti quando il direttore generale, poi dimissionario, dispose la sospensione cautelativa di Saponara dal servizio, la regione Basilicata illustrò (era il 27 ottobre 2014) al commissario straordinario che intanto era stato nominato, l’opportunità di revocare il provvedimento per nullità della contestazione e perché l’interessato aveva segnalato il fatto. E il commissario aveva proceduto alla revoca e riammesso in reparto Saponara. Ma in quell’ospedale evidentemente telefoni e fax non funzionano, e l’ufficio di disciplina, senza tener conto del commissario, ha avanzato nella sua istruttoria fino al bi-licenziamento del medico (sorte analoga è toccata a un altro medico, il dottor Cavone, autore della confessione).

il Fatto 23.12.14
Abruzzo, gli esperti: “L’acqua di Bussi può ancora uccidere”
L’ex guardasigilli:
“Il reato di disastro ambientale non è incostituzionale, ma non c’è”
di Giovanni Maria Flick


Caro direttore, io non temo affatto che il reato di disastro ambientale possa essere incostituzionale (il Fatto Quotidiano di sabato 20 dicembre). Al contrario, sostengo che, purtroppo, quel reato non è finora previsto dal nostro Codice penale e auspico che possa entrarvi al più presto (com’è noto, dopo i tentativi falliti nelle precedenti legislature, il ddl sui delitti contro l’ambiente, approvato in febbraio dalla Camera, è all’esame delle commissioni Giustizia e Territorio del Senato). Ritengo – questo è vero – che l’attuale articolo 434 del Codice penale sarebbe (parzialmente) incostituzionale se, come sostiene una parte della giurisprudenza, si volesse includere il disastro ambientale nel generico “altro disastro” previsto e punito da quell’articolo. E questo perché la Costituzione prevede che i comportamenti e i fatti di rilievo penale siano espressamente previsti dalla legge (princìpi di determinatezza e tassatività). Inoltre, la norma attuale sarebbe comunque un’arma spuntata, perché la misura (bassa) della pena minima, e la difficoltà di prolungare nel tempo il momento in cui il reato si “consuma”, fanno sì che la prescrizione scatti in tempi abbastanza brevi, perfino anteriori al verificarsi degli effetti dannosi, ed eventualmente delittuosi, sulla popolazione e l’ambiente. L’epilogo recente del caso Eternit in Cassazione, e quello recentissimo – sia pure di primo grado, quindi non definitivo – per la discarica di rifiuti tossici e pericolosi nella Valpescara, stanno lì a dimostrarlo. Sulla questione la giurisprudenza non si è consolidata. Per questo la Corte costituzionale, in una sentenza del 2008 di cui fui relatore (n. 327), ritenne non fondata la questione di legittimità costituzionale (come sempre avviene quando, di una norma, siano possibili più interpretazioni, almeno una delle quali non sia incostituzionale). Ma avvertì che se la giurisprudenza si fosse consolidata nell’interpretazione, per così dire, “estensiva” dell’articolo 434 Codice penale, avrebbe potuto riconsiderare la questione. Soprattutto, definì “auspicabile che (...) il disastro ambientale (formi) oggetto di autonoma considerazione da parte del legislatore penale, anche nell’ottica dell’accresciuta attenzione alla tutela ambientale ed a quella dell’integrità fisica e della salute”. Siamo ancora in attesa del legislatore. Naturalmente l’assenza di un reato specifico non esclude la possibilità di sanzionare i danni alla salute e alle persone, come le lesioni, le patologie permanenti, i decessi (ma l’esperienza mostra la difficoltà  – almeno ai fini processuali – di stabilire il nesso diretto tra il danno ambientale e il danno alla salute delle singole persone, quando sia differito nel tempo). Soprattutto, non esclude i risarcimenti in sede civile e l’obbligo amministrativo di bonifica dei luoghi inquinati. Luigi Ferrarella, sul Corriere della Sera di sabato 20 dicembre, lo ha ricordato con una immagine efficace: per le aziende colpevoli dei disastri può essere più temibile il “fucile di precisione” delle azioni civili e amministrative, di un “bazooka penale” che spari a salve. Caro direttore, consideri questo mio intervento – per il quale le chiedo ospitalità – un contributo al dibattito e, soprattutto, alla soluzione di un problema grave; non già una rettifica ai sensi della legge sulla stampa, assolutamente non dovuta perché Antonio Massari ha correttamente citato in due occasioni la mia posizione e l’estraneità al processo di Chieti, tenendo conto delle mie risposte telefoniche alla sua richiesta di chiarimenti. Semmai mi riservo di verificare e approfondire quanto avrebbe detto in aula (uso il condizionale perché il rito abbreviato si svolge a porte chiuse, come pure è stato ricordato negli articoli) l’avvocato dello Stato, definendo il parere pro veritate da me reso in altro processo, “un messaggio per i giudici di Chieti” (il Fatto Quotidiano di venerdì 19 dicembre 2014). Un’insinuazione di questo tipo deve essere valutata in altre sedi. La mia posizione è nota da tempo agli addetti ai lavori e anche ai non tecnici (da ultimo, ne ho parlato nell’intervista al Corriere della Sera del 22 novembre). Soprattutto, non è mia abitudine inviare messaggi trasversali, intimidatori o mafiosi a nessuno, perché metto la firma e la faccia solo sulle cose che penso. Da quando ho lasciato la Corte costituzionale, e concluso alcuni incarichi da civil servant, sono numerose le richieste di parere che ricevo, ma assai rari i pareri che esprimo. Il motivo è semplice: i pareri pro veritate riguardano questioni di diritto (non fatti specifici) e sono chiesti dalla difesa degli imputati per rafforzare la propria linea difensiva e la posizione del cliente. Io non utilizzo la mia competenza giuridica per sostenere in qualche modo tesi che portino acqua al mulino della difesa. Studio la questione, anticipo le mie conclusioni, e chiedo al collega se davvero sia interessato alla mia opinione. Il più delle volte l’esito è negativo: l’avvocato riferisce al cliente la cattiva notizia del parere mancato, e la buona notizia della parcella risparmiata. Anche per questo troverei intollerabile l’insinuazione di utilizzare l’autorevolezza derivante da passati incarichi istituzionali, per esercitare pressioni sui giudici. Grazie per l’ospitalità.

Corriere 23.12.14
Lo spettro nero che torna dagli anni delle stragi e l’idea di un altro Italicus
I legami con il passato e la Costituzione scritta dall’ideologo 93enne
di Giovanni Bianconi


C’è il vecchio fondatore di Ordine nuovo, il novantatreenne che ha addirittura scritto un progetto di Costituzione per l’Italia neofascista; c’è il quasi cinquantenne suo seguace considerato il capo dell’organizzazione, che voleva «destabilizzare il Paese... ma non alla cieca come è stato fatto quarant’anni fa colpendo stazioni, bambini... va fatto mirato, ma va fatto»; e c’è il ragazzo poco più che trentenne, che rivendica la necessità di «colpire metropolitane tipo Bologna, Milano, Roma per incutere terrore nella popolazione... la gente deve essere costretta a chiedere aiuto e quindi, dopo aver attuato azioni violente, ci dev’essere chi si propone per la soluzione del problema».
Stragi nere
Attraversa tre generazioni il progetto di rifondare Ordine nuovo, movimento neofascista che più di tutti ha legato il suo nome alla strategia della tensione e alle stragi che hanno insanguinato l’Italia nel passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta. Una sigla rinata nel 1969 dopo che alcuni fondatori del circolo culturale omonimo, nato nel 1956, avevano deciso di rientrare nel Movimento sociale italiano. Protagonista di una storia nera, schiarita solo in parte dalle indagini — sempre e costantemente depistate dagli apparati dello Stato — e dai processi. Conclusi quasi tutti senza condanne per i colpevoli, ma dopo aver fornito una ricostruzione attendibile da cui emerge la matrice neofascista delle bombe e del progetto «destabilizzante per stabilizzare» che stava dietro gli attentati nelle piazze, nelle banche e sui treni. Dietro i quali in diverse occasioni è comparso il richiamo all’ascia bipenne, simbolo di un gruppo pericoloso e ambiguo, visti i legami con i Servizi segreti italiani e stranieri.
Il passato di sangue
Dalla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969, 17 morti e 88 feriti) a quella di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974, 8 morti e 100 feriti) il coinvolgimento degli ambienti ordinovisti veneti è stato dimostrato o considerato altamente probabile, oltre che in attentati «di contorno» durante quei cinque anni di esplosioni e fibrillazioni politiche. Poi venne l’eccidio sul treno Italicus (4 agosto ‘74, 12 morti e 48 feriti) citato come esempio da Stefano Manni, l’uomo della generazione neofascista di mezzo che prendeva spunti dall’esperienza di quella precedente — impersonata da Rutilio Sermonti, ex repubblichino che partecipò alla fondazione di On — e affidava istruzioni al «giovane» Luca Infantino, rappresentante dell’ultima nidiata.
«Io credo che sia il caso di... è brutto dirlo... ma credo sia il caso di riprendere la strada dell’Italicus... ma su ampissima scala... questo è un popolo che non merita nulla, l’ultima dimostrazione l’abbiamo data con il non funerale di Priebke...», spiegava Manni nell’ottobre 2013. È un’altra strage rimasta senza colpevoli ufficiali, quella del treno squarciato all’uscita da una galleria dell’Appennino tosco-emiliano. Ci fu una rivendicazione di Ordine nero, gruppo che aveva preso l’eredità di Ordine nuovo dopo il decreto di scioglimento (per ricostruzione del partito fascista, vietata dalla legge) firmato dall’allora ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani.
Alla sbarra fu portato Mario Tuti — ex ordinovista poi fondatore del Fronte nazionale rivoluzionario e assassino dei due poliziotti che erano andati ad arrestarlo nel gennaio 1975 — che uscì assolto, condannato e poi definitivamente assolto. Anche il nome di Tuti compare nelle carte dell’inchiesta aquilana, quando uno degli inquisiti dice a un altro: «A me interessa selezionare le persone, per questo voglio avere tutto il tempo di andare da Mario (e per gli investigatori è proprio Tuti, ndr ), parlare con lui, valutare chi poter inserire settore per settore... Credo che sia giunto il momento che insomma, gente come noi non se ne stia più con le mani in mano».
L’omicidio Occorsio
Nei primi anni di carcere (oggi è ancora detenuto, ma in semilibertà) Tuti uccise un «camerata» ritenuto inaffidabile, pericoloso perché avrebbe potuto dire qualcosa sulla strage di Brescia; lo strangolò con la collaborazione di Pierluigi Concutelli, militante di On e killer del pubblico ministero romano Vittorio Occorsio, ucciso la mattina del 10 luglio 1976, appena uscito di casa per andare in ufficio, ultimo giorno prima delle vacanze estive. Grazie alle indagini di quel magistrato, che portò a giudizio numerosi aderenti, Ordine nuovo fu sciolto, e oggi i seguaci di quella tradizione inneggiano su Facebook al suo omicidio. «1-10-100-1000 Occorsio», ha scritto il 26 settembre dello scorso anno Manni.
Concutelli e gli altri
Concutelli è un nome che collega le cronache legate ai neofascisti di ieri e di oggi anche perché è amico del «camerata» romano Emanuele Macchi di Cellere, già affiliato alle bande armate che volevano tenere alta la tradizione ordinovista, riarrestato qualche giorno fa per l’uccisione del presunto cassiere della banda di Gennaro Mokbel, assassinato il 3 luglio scorso a Roma. Questione di soldi, non di politica, ma sempre alimentata dai reduci di quella storia nera. Insieme a Macchi di Cellere, per l’omicidio di Roma è inquisito Egidio Giuliani, classe 1955, pure lui ex «soldato» della lotta armata di destra; il quale — secondo un rapporto della Squadra mobile della Capitale — era in contatto con Rainaldo Graziani, convolto nella gestione del ristorante e associazione culturale «Corte dei Brut» a Gavirate, in provincia di Varese. Le cronache di qualche anno fa l’hanno indicato come il reclutatore delle «guardie d’onore» alla tomba di Mussolini, ed è figlio di Clemente Graziani, un altro dei fondatori di Ordine nuovo. In uno dei messaggi telematici intercettati dai carabinieri nell’indagine aquilana, il neoarrestato Infantino aveva diffuso «un’anticipazione» del Manifesto scritto da Graziani senior al tempo del processo istruito da Occorsio, con la precisazione: «Per avere il file contattate me e/o Stefano Manni».

il Fatto 23.12.14
Il veterano di Salò che riscrive la Costituzione
di  AA. Mass.

La nazione italiana è una realtà unitaria morale, politica ed economica insieme, superiore per potenza e durata a quella degli individui che la compongono... ”. Quando il 24 agosto scorso Rutilio Sermonti, il novello padre costituente, per il suo 94esimo compleanno riceve in dono la tessera numero 1 del “Nuovo fronte politico italiano”, ha già in mente la futura Costituzione. Una Carta che in tema di “corruzione” e lotta alla “casta” sembra scritta per raccogliere malumori e i mal di pancia. Quello sulla “nazione italiana” è il primo articolo e al punto nove delle 12 disposizioni transitorie, Sermonti stabilisce che sarà “soppressa la Corte Costituzionale, fonte di perenne incertezza del diritto”.
I due carabinieri infiltrati dal Ros hanno imparato a conoscere il carisma di Sermonti nell’organizzazione. Da mesi raccolgono prove sulla effettiva pericolosità del gruppo, sull’effettiva disponibilità di armi, segnalando che sempre più spesso, nelle riunioni, quelle senza Sermonti, c’è gente che si presenta con armi da fuoco al seguito. Sarà pure folle, l’idea di redigere gli 85 articoli della nuova Costituzione, ma non è uno scherzo. Anzi. Nella traiettoria del “doppio binario” – quello ideologico e quello armato-rivoluzionario – Sermonti svolge il ruolo del padre nobile, lui che aveva sposato la causa di Ordine Nuovo, quello vero, in cui però non era una figura di primissimo piano, e in precedenza aveva aderito alla Repubblica di Salò. Oggi è accusato di essere tra i “promotori e gli ideatori di atti violenti” del presunto gruppo eversivo anche “per aver elaborato il progetto ideologico e la nuova Costituzione Italiana, sollecitando gli altri attraverso la divulgazione di idee rivoluzionarie, azioni di aggressione e la presa del potere”. Il gruppo può rifarsi ai suoi scritti e ai suoi articoli, come il quinto, nel quale “la Repubblica misconosce il concetto di diritti politici... ”, mentre il 7 vieta “ogni forma di propaganda elettorale” e il 15 si occupa delle donne, stabilendo che “lo Stato considera aberrante qualsiasi iniziativa diretta a indurre e a facilitare, alla parte femminile della popolazione, un crescente accesso alle attività economiche retribuite”. Non per sminuire l’altra metà del cielo ma perché “cura primaria dello Stato dovrà essere l’esaltazione e la nobilitazione – anche tecnica – della funzione casalinga”.
IL SUO CARISMA nel gruppo di estrema destra è ritenuto funzionale ai progetti di Manni, che lo incontra per la prima volta il 19 gennaio 2014, ed è un profluvio di “ave” per Sermonti, l’uomo che – annota il gip - nel 1942 partecipa da volontario alla seconda guerra mondiale come sottufficiale del Regio Esercito e, dopo l’8 settembre del 1943, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana come ufficiale del Battaglione San Marco e infine, nel dopoguerra esercita la professione forense. Un vecchietto inoffensivo? Ecco le sue parole quando viene intercettato con Manni: ritiene sufficiente l’azione di “pochi uomini, decisi, poco visibili, molto mobili, coraggiosi”e ammette l’aspirazione dei suoi ultimi anni. “Fatemi vedere germogliare tutta la fatica, voglio riuscire a crepare avendo visto un lampo di questa nuova luce”.
Rutilio Sermonti sembra aver fatto meno strada dei fratelli. Giuseppe, biologo “antidarwiniano” e soprattutto Vittorio, noto studioso di Dante e marito di Samaritana Rattazzi, a sua volta figlia di Susanna Agnelli: uno dei loro figli, Pietro, è un noto attore. L’anziano repubblichino non ha mai abbandonato la fede politica che già mezzo secolo fa l’aveva portato a scrivere una “Costituzione per lo Stato dell’Ordine Nuovo”, pubblicata sulla rivista fondata da Pino Rauti. Ora ha trovato nuovi adepti, è spesso ospite dei giovani militanti di Casa Pound, in Abruzzo e non solo. E adegua norme e linguaggio all’insofferenza dilagante.
È “lucidissimo” dice di lui Manni. Lucidi sono i riferimenti agli sprechi e alla corruzione con i quali, par di capire, punta a raccogliere consensi per lo Stato che verrà. “La Capitale, Roma, dovrà essere dotata di uno stabile architettonicamente pregevole, adorno d'opere d’arte e splendide sale, ambulacri e giardini... destinato al ricevimento di personalità nazionali e straniere… che nulla abbia a che fare con la ex reggia del Quirinale, il cui semplice costo di manutenzione equivale al bilancio intero di un piccolo Stato ed è un autentico oltraggio alle ristrettezze subìte dal popolo operante”. E in tema di corruzione ha la soluzione: “Il Genio civile potrà utilizzare l’ingente manodopera disponibile a bassissimo costo per compiere in proprio, senza fine di lucro, le più urgenti opere di pubblica utilità, senza far ricorso all’oneroso sistema degli appalti, all’ombra dei quali opera la ben nota corruzione”.

Corriere 23.12.14
Il presidente dell’Anpi e del Comitato permanente antifascista per la difesa dell’ordine repubblicano
Smuraglia: «I partiti deboli aumentano i rischi eversivi»
intervista di Paolo Foschini


MILANO «La verità?».
Certo.
«Ovvio che questi arresti mi preoccupano. Ma il vero rischio per la democrazia è la politica di oggi. La crisi dei partiti, è terribile da dire, mi fa ancora più paura di un possibile attentato».
Avvocato Carlo Smuraglia, lei è del ‘23, ha attraversato la storia d’Italia e oggi è presidente nazionale dell’Associazione partigiani. Teme davvero un ritorno del fascismo?
«Sempre. Ricordo piazza Fontana, gli anni delle stragi, i neofascisti di Ordine nuovo. Ricordo che già allora tanti li ritenevano “episodi occasionali”. Io ero tra quanti dicevano un’altra cosa: e cioè che noi italiani i conti col fascismo non li abbiamo mai chiusi sul serio».
Abbiamo la Costituzione più antifascista del mondo.
«Che infatti vogliono smontare. Il punto è che molti complici del sistema fascista, già allora, erano rimasti al loro posto. Il nostro apparato statale non si è mai liberato del tutto».
Una teoria un po’ generica.
«Mica tanto se si pensa alle due costanti di tutte le stragi italiane: una è la matrice fascista, l’altra è la copertura o in qualche modo la presenza di “pezzi” dello Stato. Deviati, si è sempre detto, ma sempre dello Stato. Un caso?».
Cosa vede in comune tra gli ordinovisti di piazza Fontana e quelli appena arrestati?
«Il rischio della nostra sottovalutazione. Vedere gente che inneggia al fascismo e dire “tanto son quattro gatti”. Si comincia così, si finisce per considerarlo normale».
Differenze?
«Una grandissima: negli Anni 70 i partiti furono la garanzia della tenuta democratica. Oggi la loro crisi etica, morale, politica, per il fascismo è il più fertile terreno che ci sia».
Perché?
«Perché allontana i cittadini dalla partecipazione, e quindi dalla democrazia. Soprattutto nei periodi di crisi, quando la gente si convince di non avere più niente da perdere. È lì che nascono le dittature».

il Fatto 23.12.14
Il prefetto di Roma Pecoraro:
“Buzzi? Me lo ha mandato Letta”
di Valeria Pacelli


Dovrà tornare in commissione antimafia, Giuseppe Pecoraro, il prefetto di Roma che lo scorso 18 marzo su segnalazione di Gianni Letta ricevette nel proprio ufficio Salvatore Buzzi, il braccio sinistro di Carminati. E, infatti, ieri scarica sull’ex sottosegretario: “A marzo Buzzi non sapevo neanche chi fosse. L’ho ricevuto sulla base del rispetto che ho per la persona che me l’ha mandato. Il dottor Letta l’ho sentito immediatamente dopo (l’incontro con Buzzi, ndr) e Letta poi non mi richiamò più, come magari si aspettava Buzzi - sottolinea Pecoraro - né il sindaco di Castelnuovo ha mai fatto pressioni su di me. Penso che le parole di Buzzi (che nell’intercettazione dice “col prefetto è andata molto bene”) siano dovute al fatto che pensava che il dottor Letta sarebbe intervenuto nuovamente”.
ALCUNI parlamentari della commissione antimafia vogliono chiarire realmente cosa avvenne durante e dopo l’incontro del prefetto con il patron delle coop. Ad imbarazzare Pecoraro una lettera, pubblicata ieri dal Corriere e dal Messaggero, in cui si dava conto del via libera della prefettura alla stipula di una convenzione con una cooperativa di Salvatore Buzzi, la Eriches 29, per la gestione dell’emergenza legata all’arrivo dei profughi a Castelnuovo di porto, vicino Roma. Al centro della questione un progetto che avrebbe dato ospitalità a 400/500 immigrati – come dicono alcuni indagati nelle conversazioni intercettate – all’interno di un edificio che si trovava proprio di fronte al Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo) di Castelnuovo di porto. La lettera in questione è stata firmata dal dirigente Roberto Leone e spedita “al sindaco di Castelnuovo di Porto e al questore”. L’oggetto è “l’afflusso di cittadini stranieri richiedenti la protezione internazionale e l’individuazione delle strutture di accoglienza”. Nella lettera si afferma che in mancanza di “elementi ostativi” sarebbe stato dato via alla stipula della convenzione in merito alla proposta della cooperativa Eriches 29, riconducibile a Salvatore Buzzi, del centro di accoglienza.
“Facendo seguito alla circolare del Ministero dell’Interno dell’8 gennaio scorso – riporta il documento – e alla luce delle manifestazioni di disponibilità ricevute, si chiede se sussistano motivi ostativi alla stipula di una convenzione con il soggetto sotto indicato: Eriches 29 consorzio di Cooperative Sociali. La sede proposta per l’accoglienza si trova in Borgo del Grillo (a Castelnuovo di Porto, ndr) ”. Oggi Giuseppe Pecoraro – costretto a riferire in conferenza stampa – spiega che “le lettere sono state inviate a tutti i sindaci e a tutti gli enti con posti disponibili”. Ma perchè inviarla anche al sindaco di Castelnuovo di Porto, quando, come ha detto in antimafia l’11 dicembre scorso, già aveva deciso di non accogliere altri immigrati in quel paesino? Ieri il Fatto ha provato a contattare – senza riuscirci – il prefetto Pecoraro per ulteriori spiegazioni. Non essendo riusciti ad avere risposta, riportiamo le due versioni fornite da Pecoraro, la prima l’11 dicembre in Antimafia, la seconda ieri. In commissione aveva riferito: “Il dottor Letta mi ha chiesto se potessi ricevere Buzzi”. Il presidente Bindi domanda: “Buzzi le ha fatto un’offerta? ”. E Pecoraro replica: “No. Mi metteva a disposizione 100 alloggi, 100 appartamenti a Castelnuovo di Porto. A Castelnuovo di Porto io ho già il Cara. Non potevo metterci le persone del Cara, che erano già 500 persone, più gli immigrati che sarebbero andati in questi 100 appartamenti. Un paesino di poche migliaia di anime avrebbe dovuto avere 10.000 immigrati. Ci sarebbero stati più immigrati che cittadini. Pertanto, avevo risposto che l’avrei fatto se il sindaco me l’avesse chiesto, ma era un modo per sfuggire, gli avrei detto di sì”.
IERI Pecoraro è partito da più lontano: “L’8 gennaio – ha detto in conferenza stampa – abbiamo ricevuto una circolare del Ministero che ci preannunciava gli arrivi dei migranti e ci invitava a interessare gli enti locali e gli enti del settore dell’accoglienza. Il 9 gennaio abbiamo scritto una lettera agli enti, a chi aveva disponibilità, e a tutti i sindaci dei Comuni interessati. Tra questi c’era anche la cooperativa Eriches 29 e altre. Sulla base delle offerte l’ufficio immigrazione della prefettura ha iniziato un’istruttoria e quindi il 18 marzo ha scritto al sindaco di Castelnuovo, alla questura di Roma e ad altri sindaci”. Alla fine “la Eriches a Castelnuovo è stata scartata”. “Ascolteremo ancora il prefetto – fa sapere il M5s – Ma vogliamo sentire i convocati come teste, utilizzando i pieni poteri di inchiesta. Così mentire in Antimafia sarà reato”.

Corriere 23.12.14
L’esposto del prefetto contro il giudice Tar «nemico» della coop
di Fiorenza Sarzanini


Nella gestione dei migranti Salvatore Buzzi ha potuto godere di una «rete» di protezione che andava dal Viminale alla prefettura di Roma, coinvolgendo anche il Campidoglio.
Persone disponibili a fornirgli anche notizie riservate sui «nemici», come l’ex viceprefetto Paola Varvazzo. E quando decide di ribellarsi al giudice del Tar che aveva annullato la gara vinta dalla sua cooperativa, trova un alleato proprio nel prefetto Giuseppe Pecoraro. A raccontarlo in un verbale rimasto finora segreto è stato lo stesso presidente del Tribunale Amministrativo del Lazio Calogero Piscitello. Le carte dell’inchiesta sull’organizzazione mafiosa — guidata secondo l’accusa dallo stesso Buzzi e dall’ex estremista dei Nar Massimo Carminati — che era riuscita a infiltrarsi nelle istituzioni capitoline, svelano nuovi retroscena sugli affari da milioni di euro conclusi dalle cooperative «29 giugno» ed «Eriches 29».
Il Riesame
Alla vigilia della nuova udienza del tribunale del Riesame che dovrà pronunciarsi sulla posizione di Franco Panzironi — l’ex amministratore delegato di «Ama spa» arrestato con l’accusa di aver fornito uno stabile contributo per l’aggiudicazione di appalti pubblici, per lo sblocco di pagamenti in favore delle imprese dell’associazione e per fare da garante dei rapporti con l’amministrazione comunale negli anni 2008/2013» guidata dal sindaco Gianni Alemanno — nuovi documenti ricostruiscono i rapporti di potere che hanno segnato l’ascesa di Buzzi e dei suoi soci nella gestione dell’emergenza profughi, soprattutto nel 2014 con l’arrivo di decine di migliaia di migranti poi smistati in tutt’Italia.
Il ricorso al Tar
Nel settembre 2013 «Eriches 29» vince la gara europea bandita dalla prefettura di Roma per gestire il Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Castelnuovo di Porto. Due società — Auxilium e Gespa — fanno ricorso e ottengono l’annullamento dell’assegnazione. C’è però un’irregolarità: la presidente Lidia Sandulli si pronuncia nonostante abbia un interesse personale. Possiede infatti il 33 per cento della «Proeti srl», società che fa manutenzione nella stessa struttura, mentre il 46 per cento appartiene al marito Salvatore Napoleoni. Buzzi, informato di questo retroscena dall’ex viceprefetto Paola Varvazzo (entrata anche nella giunta regionale guidata da Nicola Zingaretti ma poi costretta a dimettersi per un’inchiesta che ha coinvolto il marito), decide di ribellarsi. E così si rivolge ad alcuni giornalisti amici per rendere pubblico il conflitto d’interessi del giudice, ma minaccia anche di presentare una denuncia contro Sandulli alla procura di Roma.
Il verbale del presidente
In realtà un esposto e diversi interventi per farla astenere erano già stati fatti dal prefetto Pecoraro. A raccontarlo è stato il presidente del Tar nell’ambito del procedimento disciplinare avviato contro Sandulli proprio per la sua decisione relativa alla struttura di Castelnuovo di Porto. Il 28 maggio scorso, di fronte al Consiglio di Presidenza competente a pronunciarsi su eventuali illeciti commessi dai giudici amministrativi, Calogero Piscitello dichiara: «Poco dopo la mia assegnazione (tra fine 2012 e inizio 2013) ho ricevuto dal prefetto di Roma Pecoraro copia di un suo precedente esposto alla procura della Repubblica di Roma sul presidente Sandulli, relativo all’aggiudicazione di una gara d’appalto. Successivamente lo stesso prefetto ha chiesto se la questione concernente il presidente Sandulli avesse avuto sviluppi significativi e io ho risposto di no. Non ho ritenuto di parlarne con alcuno né di modificare alcunché sul piano organizzativo data l’irrilevanza di quanto appreso. Eventuali provvedimenti avrebbero potuto essere adottati dal Consiglio di Presidenza, residuando in capo al presidente del tribunale esclusivamente un eventuale parere di proposta di segnalazione all’organo di autogoverno competente, che non fu esercitato perché non fu ravvisata a tale fine la rilevanza della questione».
Il ruolo di Odevaine
Era stato Luca Odevaine, membro del Tavolo di gestione dei profughi del Viminale, ora arrestato con l’accusa di essere «stipendiato» dall’organizzazione, a sollecitare Buzzi affinché chiedesse a Gianni Letta l’aiuto di Pecoraro. Il 17 marzo scorso, dopo aver perso la causa davanti al Tar, i due si incontrano e Odevaine fa l’elenco dei Centri di accoglienza dove Buzzi potrebbe ottenere lavori. Poi suggerisce: «A Letta gli direi di sbloccarci Roma perché per loro non è un cazzo, deve fa’ una telefonata al prefetto e non ha problemi a fargliela...». Letta effettivamente telefona e Buzzi ottiene l’incontro con Pecoraro. Il giorno dopo dalla prefettura di Roma parte la lettera che sollecita la stipula della convenzione con «Eriches 29» per gestire un nuovo centro di accoglienza a Castelnuovo di Porto che supporti il Cara. Proposta che però viene bocciata dal sindaco del paese per motivi di sicurezza.

il Fatto 23.12.14
Report contro Gucci: operai cinesi e fornitori sfruttati
L’inchiesta sull’azienda fiorentina fa infuriare il governatore toscano Rossi
di Carlo Di Foggia


E sono due: mentre Moncler è ancora sotto choc, ieri è toccato a Gucci passare ai raggi x di Report. E per la storica azienda fiorentina – dagli anni 90 nelle mani del gigante francese Kering – l'operazione non è stata indolore: niente delocalizzazione, stavolta la trasmissione di Milena Gabanelli si è concentrata su fornitori e sub-fornitori italiani della mai-son di moda, mostrando le condizioni di alcuni laboratori in Toscana, da anni meta delle produzioni dei grandi marchi. Risultato? Una borsa che in vetrina costa oltre 800 euro, viene realizzata dagli artigiani a meno di 30: 24 precisa alla giornalista Sabrina Giannini, Aroldo Guidotti, un sub-fornitore di Scandicci che fa assemblaggio e tinta per i fornitori di primo livello (che incassano milioni semplicemente appaltando il lavoro).
A OGNI BORSA – stando alla versione riportata da Report – manca quindi il 30 per cento del valore. “E se moltiplicate 6-7 euro per mille borse arriviamo a 60-70 mila euro in meno per l'artigiano”, continua Guidotti, moderno Caronte che ha deciso di traghettare le telecamere della Gabanelli attraverso l'esasperazione dei distretti tessili del fiorentino, vittime di una feroce politica di contenimento die costi: “L’alternativa era chiudere o rimanere dentro per dimostrare che c’è questo sistema e viene usato anche da Gucci”. E così è stato.
Stando alle immagini, il meccanismo coinvolge decine di lavoratori cinesi: “Non c'è bisogno di fare Sherlock Holmes per vedere che alle 11 di sera a Scandicci ci sono fabbriche e laboratori illuminati dove lavorano i cinesi. Io stesso li ho assunti a 4 ore ma loro ne lavorano almeno 16. È questo il gioco che ci sta ammazzando. I cinesi lavorano 150 ore più di quelle segnate”, confessa Girotti, che ha un socio occulto cinese e rivela: “All’interno dell’azienda ci deve essere solo il prestanome italiano. Un paravento”. “Se ci dessero 2-3 euro in più a borsa, potremmo risollevarci”, si sfoga un'artigiana schermata in volto.
IERI, IL BOTTA e risposta tra la società e la trasmissione è rimbalzato sui tutti i siti, coinvolgendo il presidente della Regione Enrico Rossi. Il tutto mentre la rabbia invadeva i social network, frequentati dai potenziali clienti di Gucci. Rossi è stato tra i primi a replicare: “La Toscana è in prima linea contro la contraffazione. Gucci ha un accordo con sindacati e istituzioni per il controllo della filiera”. Ancora più dura l'azienda: “Telecamere nascoste o usate in maniera impropria, solo in aziende selezionate ad arte (3 laboratori su 576), non sono testimonianza della realtà”. Nel pomeriggio è arrivata la replica della Gabanelli: “Più che dissociarsi dovrebbero ringraziarci per aver documentato quello che avrebbero dovuto fare i loro ispettori”. Durante la puntata, infatti, si vede un controllore di Gucci non fare una piega di fronte alle irregolarità denunciate da Guidotti. Con una punta di sarcasmo Report ha poi sottolineato che “da anni Kering garantisce una filiera etica e controllata grazie alla certificazione SA8000 sulla responsabilità sociale, rilasciata dagli americani di Saas”. Che ora – ha continuato la Gabanelli – “devono decidere se continuare a certificarli”. L’ipotesi non è remota. Negli anni scorsi all'americana Nike venne ritirato il certificato (che impegna anche i sub-fornitori) perché sorpresa a fa cucire palloni ai bambini cinesi. Curiosamente l'Italia vanta il record di aziende certificate: 1064 su 3388, la maggio parte – oltre 300 – proprio in Toscana, la prima regione al mondo. Motivo? Gli sgravi Irap e i contributi pubblici erogati alle aziende che ottengono il prezioso documento. Si è così scatenata la corsa all’oro che ha garantito il primato. Gucci, però, a differenza di Kering l’ha ottenuto solo nell'aprile scorso. “L'azienda non ha preso soldi pubblici – spiegano dagli uffici di Fabbrica Etica, l'ufficio regionale che gestisce i bandi – ma i suoi fornitori sì. I controlli non spettano a noi ma a chi ha dato la certificazione (la Saas, ndr), noi verifichiamo il rispetto dei bandi poi aziende ed Enti hanno i loro controllori”. Come si spiega il record? “Qui non ci sono solo i cinesi di Prato e comunque Gucci ha fatto tanto per la qualità della filiera”. Il frastuono non ha invece sfiorato Kering. Ieri il colosso della moda del magnate François-Henri Pinault – che in Italia controlla Bottega Veneta, Sergio Rossi, Brioni e Pomellato – ha perfino chiuso la seduta in positivo: più 0,77 per cento a 165,8 euro. Eppure Gucci – 3,6 miliardi di fatturato – assicura ai Francesi margini superiori al miliardo e rappresenta il 30 per cento del fatturato.
GLI UTILI finiscono nella controllata in Olanda, dove le tasse sulle royalties sono un terzo di quelle italiane. Paradossalmente, il recente licenziamento sia dello storico direttore creativo Frida Giannini, sia dell’ad – nonché compagno della Giannini – Patrizio Di Marco (per i due si parla di un approdo in Cavalli) ha turbato il sonno degli investitori più di Report.

nel corso della serata ti rivelavi sempre più fedele alla figura di un Dio tradizionale, accertandone inesorabilmente l’esistenza
il Fatto 23.12.14
La lettera
Caro Benigni, sei grande ma ho nostalgia di Roberto
di Silvano Agosti


Caro Benigni, spinto a mia volta da un sentimento di gratitudine, di affetto e di ammirazione, decido di scriverti questo breve messaggio, anche a nome di tutti coloro cui sono state sottratte le energie necessarie per infrangere la corazza potente del tuo prestigio, della tua soavità, della tua certezza di essere Benigni e quindi di saper trasformare con innocenza qualsiasi pensiero, qualsiasi moto dell’anima in un evento di spettacolare semplicità.
Ho avuto il privilegio di incontrare Roberto, agli albori del viaggio verso la conquista di Roma, dell’Italia e infine del mondo, quando recitava la sublime disperazione di Cioni Mario, un operaio ormai scomparso con la quasi definitiva sparizione dell’intera classe operaia. Ogni volta che osservo e ammiro Benigni sento crescere in me una profonda nostalgia per Roberto.
Roberto, cui io, pur essendo quella sera il solo spettatore della tua recita insieme alla ragazza che avevo invitato, ho offerto da subito tutta la mia stima: “Vuoi sapere cosa penso di te? Tu sei immenso come Eduardo, perché come lui non reciti ma sei”. Così ti dissi allora circa 40 anni fa quando mi hai raggiunto all’uscita chiedendo il mio parere sulla tua recita.
Nelle due serate di lunedì e martedì questa volta non avevi come ai tuoi inizi solo due spettatori, ma dieci milioni e dal primo all’ultimo istante Benigni ha trionfato ma Roberto, messo in disparte, non è apparso. Lui che trent’anni fa, quando era ancora tuo socio in arte, ti seguiva ovunque.
Roberto e Benigni negli Anni 70 erano praticamente la stessa persona, e nel 1983 lo spettacolo di allora sui dieci comandamenti osava esordire attribuendo a Dio i dieci vizi capitali, affidando in modo magistrale la faccenda dell’esistenza di dio al buon senso di ognuno. Allora Dio lo chiamavi Guido e sostenevi che se moriva sarebbe andato certamente all’inferno.
GLI SPETTATORI allora non riuscivano a domare l’onda delle risate e anche tu dovevi fermarti ogni poco per non essere sommerso dagli applausi. Invito chiunque a conoscere il magnifico duo Roberto e Benigni, cercando oggi su Google I Dieci Comandamenti 30 anni fa. Ebbene, durante queste due attuali serate del 15 e del 16 dicembre è avvenuto un fatto che mi ha colpito e che ora desidero riferirti. Mentre tu parlavi e nel fluire inesorabile dei tuoi pensieri riconoscevo comunque la tua irraggiungibile abilità di intrattenitore, la tua immagine si andava via via trasfigurando e, se io avessi avuto in me l’aiuto della liturgia ufficiale, avrei detto che tu andavi sempre più assumendo la forma di un angelo, tanto che non era difficile immaginare che dietro a te stessero lentamente apparendo due candide ali. Ma poco dopo quando nei tuoi movimenti di danza, alla musica solo del tuo umorismo, ti sei messo di fianco ho avuto l’impressione che invece di due ali tu ne avessi soltanto una. E ho pensato, ma come potrà mai volare questo strano angelo con una sola ala? O forse nel tuo immaginario un angelo stava apparendo accanto a te e nel corso della serata ti rivelavi sempre più fedele alla figura di un Dio tradizionale, accertandone inesorabilmente l’esistenza.
Insomma invece di Roberto, ormai al tuo fianco stava apparendo l’angelo protettore, garante di un dio a sua volta Protettore “che tutto vede e provvede” e anche perfino lo scempio di una società ostile a qualsiasi valore umano. Roberto era dunque la tua ala mancante. Tu e Roberto potevate parlare di qualsiasi cosa senza mai offendere nessuno, neppure se definivate criminali coloro che altri chiamavano Onorevoli. Ti chiedo solo di riflettere: perché Eduardo, il grande Eduardo è entrato nella sua eternità non come “De Filippo”, ma come Eduardo? Forse per la sua fedeltà nella difesa dei diritti di coloro cui viene negato qualsiasi diritto? Quindi il senso di questo mio messaggio si riassume nell’invito affettuoso a ritrovare in te Roberto e perfezionare la tua unicità non solo come Benigni, ma appunto, anche come Roberto. Sono certo che Eduardo si unirebbe a questo mio abbraccio.

Corriere 23.12.14
Progressisti anti-Kennedy
Intellettuali scatenati su Cuba nel 1962
Ma Togliatti riteneva incauto Krusciov
di Paolo Mieli


Non sempre, in Italia, John Fitzgerald Kennedy è stato un mito. Ci fu un momento, nell’ottobre 1962, in cui qui da noi lo stato maggiore dell’intellettualità di sinistra si dispose in assetto di guerra contro il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Fu allorché il capo degli Usa sfidò l’Unione Sovietica, costringendola a ritirare i missili che Nikita Sergeevic Krusciov aveva iniziato ad installare a Cuba. Il Partito comunista italiano — ma ancor più il suo seguito di cineasti, scrittori, personaggi dello spettacolo e pittori — si schierò risolutamente dalla parte di Fidel Castro e dell’Urss. Luchino Visconti si disse «impressionato» e «costernato» dal gesto di Kennedy, giudicandolo «imprudente e molto pericoloso». Guido Piovene — che pure comunista non era — così minacciò i «responsabili» del nostro Paese: «Il popolo italiano deve far sentire la sua voce, premere su chi lo governa e fargli capire che l’Italia non è disposta ad entrare in avventure come queste».
Carlo Levi tenne a sottolineare il fatto che «quando fu consentito di costruire rampe di missili nei nostri aranceti di Puglia, non dovemmo subire blocchi da parte di chi era esposto all’offesa». Levi accusò Kennedy di essere una «bambola tecnologica». Di più: un uomo che, con il «tono isterico di chi taglia i ponti dietro di sé e pare animato da volontà suicida», perseguiva una politica di «nazismo atomico». Proprio così: Kennedy era un «nazista atomico». Cesare Zavattini non ebbe esitazioni a pronunciarsi in favore di Castro: «Sono sempre stato solidale con Cuba ed ho sempre creduto nella profonda necessità della sua rivoluzione… la sconvolgente notizia del blocco americano rende questa mia fede nella funzione di Cuba più drammatica, più reale, più totale; la pace è un bene troppo sacro e troppo prezioso perché debba essere compromesso e per di più sulla pelle di Cuba». L’editore Giangiacomo Feltrinelli già intravedeva la catastrofe della guerra nucleare e progettava di «trasformare i suoi stabilimenti in sotterranei antiatomici, in modo da poter essere pronto a stampare… i libri indispensabili a rieducare i sopravvissuti».
Il settimanale democristiano «La Discussione» accusava il «pacifismo ipocrita» di questi intellettuali e metteva in risalto gli «strani oblii» sulla contemporanea aggressione della Cina maoista all’India. Poi li sbeffeggiava uno ad uno: si segnalano tra questi uomini di cultura antiamericani «un romanziere specializzato in vicende erotiche» (Moravia), «un narratore di storie di prostitute e di sfruttatori» (Pasolini), «uno scrittore che fa il pittore» (Carlo Levi) e «un pittore che fa l’attivista comunista» (Renato Guttuso). Il vicesegretario della Dc Giovanni Battista Scaglia li definiva «intellettuali squillo» e questa battuta veniva considerata assai efficace nel dispacci riservati dell’ambasciata statunitense di via Veneto. Guttuso gli rispondeva per le rime. Il 25 ottobre si tenne un’assemblea al Teatro Brancaccio di Roma dove si susseguirono gli interventi fortemente antiamericani di Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Renato Guttuso, alcuni dirigenti del Pci e il socialista Emilio Lussu. Giungevano adesioni dello stesso segno da parte di Italo Calvino, Vittorio De Seta, Michelangelo Antonioni, Emilio Vedova, Luciano Berio, Gian Maria Volonté, Luigi Nono (che sarà coinvolto in scontri con la polizia nel corso di una manifestazione contro Kennedy).
In una manifestazione il 27 ottobre davanti al Duomo di Milano restava ucciso un giovane ventunenne, Giovanni Ardizzone (che, non senza generare qualche sconcerto, si scopriva poi essere stato iscritto qualche anno prima al Movimento sociale italiano). L’«Unità» scriveva che non si era trattato di un «incidente» e puntava l’indice contro la polizia: «Bravacci in divisa a disposizione dei donrodrighi scelbiani e tambroniani che ancora si annidano nelle questure italiane». Un altro socialista, Lelio Basso, definiva quello di Kennedy come «un atto di prepotenza internazionale così aperto e conclamato che sulla sua illiceità giuridica e morale non possono sussistere dubbi». Venivano conquistate alla causa le firme di Giulio Carlo Argan, Mino Maccari, Eduardo De Filippo, Francesco Rosi, Luigi Zampa, Elio Petri. E perfino quella di Giuseppe Ungaretti. Anche il giurista cattolico-liberale Arturo Carlo Jemolo si pronuncerà contro Kennedy, sostenendo che il vero aiuto che gli europei potevano dargli era quello di «disapprovare questo gesto diretto in definitiva contro i valori dell’Occidente, frutto della psicosi bellica da cui è dominato il popolo americano».
Si parla anche di questo in uno dei capitoli più avvincenti dell’interessantissimo libro di Leonardo Campus, I sei giorni che sconvolsero il mondo. La crisi dei missili di Cuba e le sue percezioni internazionali , appena pubblicato da Le Monnier. Ciò che incuriosisce non è che quegli intellettuali si muovessero all’unisono in solidarietà all’Unione Sovietica (lo fecero sempre, o quasi, e quella non fu neanche una delle occasioni più imbarazzanti), ma che in quell’ottobre del 1962 due di loro, pur schierandosi contro gli Stati Uniti, ritennero di distinguersi dagli altri. Il primo fu Elio Vittorini, che espresse qualche dubbio sulle iniziative del mondo della cultura e, per parte sua, rifiutò di dividere il mondo in buoni (Castro e Krusciov) e cattivi (Kennedy): «Le notizie sono allarmanti e preoccupanti», disse, «tuttavia non si può dare un giudizio moralistico; la questione di Cuba richiede di essere risolta su un piano di buona volontà internazionale, con il concorso di tutte le parti». Ancora più esplicito nell’esprimere le proprie perplessità fu il grande leader del pacifismo italiano, Aldo Capitini, che rifiutò di aderire alla manifestazione del Brancaccio dicendo: «A parte il fatto del regime interno di Cuba e delle uccisioni che sono avvenute in questi mesi anche senza processo di gente lì dentro… è chiaro che io sono contro l’imperialismo di Kennedy, ma non posso accettare che si mettano basi missilistiche né lì né in ogni altro punto». E lo stesso Jemolo, qualche giorno dopo il primo pronunciamento, si sentì in dovere di correggere leggermente il tiro: ribadì che, a suo avviso, «dal punto di vista giuridico gli Stati Uniti erano dalla parte del torto», ma riconobbe che «la Russia aveva cercato di turbare lo statu quo e di inserire armamenti in un punto nevralgico» e definì questa circostanza «un cattivo servizio alla causa della pace».
Il paradosso (ma non fu l’unica volta che nel secondo dopoguerra si verificò un caso del genere) è che la politica si caratterizzò per giudizi assai più sfumati e articolati di quelli degli intellettuali. Clamoroso fu il caso del Partito comunista. Mentre i compagni di strada e la stampa del Pci si pronunciavano nei termini di cui si è detto, nel partito soffiava un vento sempre più forte di critica all’«avventurismo» di Krusciov. Pur con qualche prudenza, in una riunione della direzione si pronunciano in tal senso, oltre allo stesso Palmiro Togliatti, Mario Alicata, Armando Cossutta ed un giovane Enrico Berlinguer.
Se ne accorge l’ambasciata statunitense, che nota la mancanza di una mobilitazione da parte del Pci del tipo di quelle che si erano avute in precedenti, simili circostanze. «Questa relativa tranquillità comunista», annota un dispaccio diplomatico, «sta suscitando crescenti commenti nei circoli non comunisti». Un dirigente, Luciano Barca, rileva nel suo diario che Togliatti considera che l’Urss sia uscita «indebolita» dalla prova di forza: «Il suo giudizio su Krusciov diviene ancora più severo… Paragona l’avventurismo dell’operazione militare a quello del rapporto segreto (la denuncia dei crimini di Stalin nel 1956, ndr ) non fondato su una seria analisi e privo di proposte correttive adeguate agli errori ed orrori denunciati».
 Ancora più articolata la questione in casa socialista. Il segretario del Partito socialdemocratico, Giuseppe Saragat — che di lì a due anni sarà eletto presidente della Repubblica — condanna inizialmente il blocco americano per il suo carattere «illegale ed eccessivo». Nei giorni successivi correggerà il tiro, accusando l’Urss di aver «cercato di violare la legge suprema degli equilibri». Anche il socialista Pietro Nenni censura il blocco americano e loda la prudenza di Krusciov, pur prendendo le distanze dalla sua decisione di istallare basi missilistiche a Cuba. «Posizioni abbastanza misurate», le definisce Campus, che però nota come «così barcamenandosi Nenni finì per scontentare tutti». Tant’è che un funzionario del dipartimento di Stato decise di incontrare altri dirigenti socialisti. Tra essi un ventottenne Bettino Craxi, citato in una relazione ad Arthur Schlesinger. «Sebbene Craxi», scrive il rapporto, «ovviamente considerasse di saperne parecchio sul problema cubano (molti socialisti ingenuamente credono che siccome sono “marxisti” hanno uno speciale intuito e comprensione per gli affari mondiali), egli non aveva neppure realizzato che Castro si era proclamato marxista-leninista… Dopo che il nostro incontro fu finito, Craxi era piuttosto riflessivo e mi ha fatto notare di aver imparato molto… ha spontaneamente affermato che avrebbe visto Nenni e gli avrebbe detto alcune delle cose che aveva imparato e fornito un bel po’ di materiale scritto che aveva ricevuto». Poche settimane dopo quell’incontro, Craxi scrive all’autore del rapporto, dicendogli di aver riferito quel che aveva appreso dai «miei amici milanesi, che avevano indugiato in un romantico filocastrismo» e che adesso «hanno riconsiderato parecchie posizioni dopo notevole discussione e riflessione».
Analoga ancorché confusa autocritica farà Nenni, il quale in una lettera ammetterà che «nella questione di Cuba non siamo stati capaci di individuare fin dal primo momento che le basi sovietiche erano una violazione dell’indipendenza cubana e fornivano un pretesto alla eccitata opinione pubblica americana per soffocare la rivoluzione in ciò che ha di autenticamente cubano e socialista».
Ancor più complicato quel che avviene in casa Dc. Il capo del governo, Amintore Fanfani, cerca una posizione «terza» tra Usa e Urss (e per questo riceverà l’apprezzamento russo), ma il leader inglese Harold Macmillan nel suo diario definisce l’atteggiamento fanfaniano ai tempi di questa crisi «windy» (verbosamente vuoto). Il presidente della Repubblica Antonio Segni si accorge dei misteriosi movimenti di Fanfani (affidati, come vedremo, all’attivismo di Giorgio La Pira) e lo denuncia agli americani. «Segni», riporta una nota della Cia, sostiene che mentre tutti gli altri Paesi occidentali hanno leader forti l’Italia è guidata da un uomo, Fanfani, «la cui mancanza di coraggio e il cui atteggiamento ambiguo la sta allontanando dai suoi alleati verso un irrealistico e pericoloso neutralismo del genere patrocinato dal suo amico utopista, La Pira».
Il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, effettivamente grande amico di Fanfani, coinvolge Giovanni XXIII in un’offensiva di pace all’indirizzo di Kennedy e Krusciov. Il Papa si muove sì, ma per conto proprio. E annota su una sua agenda personale: «Notevole la esibizione di La Pira… Che disgrazia! Così buono e retto; ma così poeta, e fuori dalla realtà». Il sindaco, a supporto dalla propria azione, mobilita la sua città. Ecco alcuni comunicati che furono diramati da Firenze: «I dipendenti della valigeria Leone si sono riuniti in assemblea generale per esaminare l’attuale situazione mondiale ed hanno unanimemente riconosciuto che il blocco navale operato dall’America contro l’isola di Cuba è un atto inconsiderato che può portare conseguenze disastrose per tutto il mondo»; «Gruppo Facchini mercato ortofrutticolo Novoli fa voti affinché la S.V. (il primo cittadino) a nome lavoratori fiorentini prenda concrete iniziative difesa pace et tranquillità mondiali»; «Le donne dell’Isolotto, vivamente allarmate dagli eventi, chiedono alle autorità competenti di farsi interpreti davanti agli organi di governo del loro stato d’animo»; «I giovani dei rioni di Monticelli, Legnaia, Isolotto, S. Frediano, riunitisi stasera in un’assemblea si rivolgono al Sindaco per richiedere, in nome della città, un urgente e immediato intervento verso il governo italiano e l’Onu per frenare la corsa alla guerra atomica e salvare la pace nel mondo». Colore, certo. Ma i movimenti politici furono reali.
Si può sottolineare una curiosa simmetria, rileva Campus: «Mentre Fanfani dava un supporto riluttante alle mosse statunitensi (che giudicava troppo rischiose), Togliatti lodava pubblicamente l’Urss covando non meno dubbi su quelle di Krusciov (che considerava troppo avventuristiche)». Entrambi i leader, insomma, in quel frangente «erano abbastanza scontenti della rispettiva superpotenza pur senza poterlo dire». In ogni caso furono più sottili di quanto lo fossero i loro apparati di propaganda. E, soprattutto, degli uomini di cultura da questi ultimi influenzati.

Corriere 23.12.14
Quando una Chiesa è Stato
La Santa Sede e la Cina
risponde Sergio Romano


È opinione comune di teologi e fedeli che papa Francesco rappresenti nella maniera più semplice le parole del Vangelo sia in quanto dice sia nei suoi comportamenti. Leggo che papa Francesco si è rifiutato di ricevere il Dalai Lama per non creare tensioni con la Cina. Nel Vangelo c’è scritto non accogliere la vittima per non disturbare il carnefice? Ero convinto ci fosse scritto di dare testimonianza.
Roberto Bellia

Caro Bellia,
La Chiesa romana ha un lungo passato statale a cui non ha mai rinunciato. Quando dovette constatare che lo Stato italiano non era una realtà effimera e non sarebbe scomparso dalla carta politica d’Europa, la Santa Sede accettò il fatto compiuto e la Conciliazione, ma volle un territorio, sia pure piccolo, su cui esercitare un potere terreno. È convinta che questo fattore, insieme al suo regime monocratico e alla sua autorità spirituale, le consenta di preservare l’unità di una struttura complessa, composta da una fitta rete di diocesi, parrocchie, istituzioni monastiche, associazioni educative e assistenziali. Queste responsabilità terrene hanno avuto qualche effetto negativo: due grandi scismi (della Chiesa ortodossa e della Chiesa anglicana) e la necessità di venire a patti, pur di salvare le proprie istituzioni, con regimi «pagani» e illiberali, come quello di Hitler, accettando compromessi che vanno sotto il nome di Concordati. Ma la sua struttura fortemente gerarchica e statale le ha permesso di evitare la frammentazione delle sette, vale a dire la sorte toccata ai seguaci di Lutero.
Nel caso della Cina, la Chiesa è alle prese con uno scisma organizzato dal regime. Come Pietro il Grande nel 1721, quando soppresse il Patriarcato di Mosca e lo sostituì con un Santo Sinodo presieduto dal Metropolita della città, Mao Tzedong ha creato una Chiesa nazionale cinese (l’Associazione patriottica cattolica) in cui i vescovi sono nominati dallo Stato. In Cina esistono quindi vescovi scelti dal regime, che la Chiesa romana non può riconoscere, e vescovi nominati da Roma che non sono riconosciuti dal potere comunista e ne subiscono le persecuzioni.
È una situazione che concerne un numero difficilmente verificabile di cattolici. Secondo i dati dell’Associazione nazionale patriottica, i cattolici «governativi» sarebbero poco meno di sei milioni. Secondo stime di altre fonti, i cattolici di obbedienza romana sarebbero altrettanti. A rigore di logica qualsiasi concordato fra queste due Chiese-Stato dovrebbe essere impossibile. Sino a quando la Chiesa romana vorrà essere anche «Stato», il regime comunista non dovrebbe permettere che i suoi cittadini siano contemporaneamente «sudditi» di una potenza straniera. Ma Cina e Chiesa hanno anche caratteri comuni: un lungo passato e un grande talento per conciliare rigore e duttilità.

Repubblica 23.12.14
Joe Lansdale
“Il razzismo è il nostro incubo ma è sbagliato accusare de Blasio”
Siamo un Paese che ha posto le sue basi su schiavitù segregazione e diffidenza
Ma siamo cambiati rispetto a 50 anni fa, i rapporti tra bianchi e neri non sono mai stati così buoni
Obama non ha fatto bene come molti di noi speravano, le incomprensioni restano forti
intervista di Anna Lombardi


«SONO stanco. L’America è molto meglio di così. La società è andata avanti. Poi succede qualcosa di orribile ed è come se tutti venissimo catapultati indietro, nel passato». Joe Lansdale, lo scrittore che ha trasformato in romanzo i nostri peggiori incubi, il maestro pulp che con i suoi libri - da Una stagione selvaggia a Freddo a luglio ha sviscerato il lato oscuro dell’America profonda, si dice «preoccupato» dalle tensioni razziali. Ma soprattutto «stanco ».
Prima i fatti di Ferguson e Staten Island. Ora l’omicidio di due poliziotti a Brooklyn. Cosa sta succedendo in America?
«Quello che accade oggi è sempre accaduto. Ha radici profonde. Siamo un Paese che ha posto le sue basi su schiavitù e segregazione razziale. Una società basata sulla diffidenza. Così la gente ha paura della polizia anche quando la polizia è nel giusto, si comporta bene. Ci sono state troppe ingiustizie: è difficile vedere oltre».
L’odio è tale da sparare a due poliziotti in strada?
«Non credo che l’uomo che ha sparato a New York pensasse alle tensioni razziali. Semmai ha sfruttato questo momento per giustificare la cosa terribile che aveva appena fatto: sparare alla fidanzata poche ore prima. Certo, è un’epoca difficile, le tensioni sociali e razziali sono tremende. Ma questo duplice omicidio così efferato non ha niente a che fare con Ferguson. L’assassino ha forse tentato un’estrema nobilitazione del suo gesto. Si è inventato una causa dell’ultim’ora ».
Eppure sembra che l’America non riesca a voltare pagina...
«Il fatto incredibile è che le relazioni fra bianchi e neri non sono mai state così buone. Provi a pensare a com’era 50 anni fa dove vivo io, in Texas: sarebbe stato inimmaginabile vedere una coppia mista: ora nessuno ci fa più caso. Anche l’omofobia appartiene al passato. La società americana è cambiata. Ma questo non vuol dire che non ci siano tensioni».
Noam Chomsky dice che la società americana è ancora profondamente razzista...
«Il razzismo esiste: in America come in Europa. Sono stato di recente da voi in Italia e ho sentito dire cose orribili delle persone che chiamate “africani”. Le persone che non riescono ad accettare la diversità sono ovunque. E questa è la nostra più grande sconfitta come esseri umani».
Ma fa particolarmente impressione in un Paese dove per la prima volta c’è un presidente afroamericano...
«Obama non è stato capace di fare così bene come molti di noi speravano. C’è il problema economico che rimane grave. E c’è un problema di incomprensione culturale tanto più dove diverse etnie convivono, ma non si mischiano. Poi c’è questa atavica diffidenza verso la polizia e della polizia verso tutti coloro che sono minimamente sospetti anche se innocenti. Siamo una società fondata sulla paura. E la paura porta a reazioni spropositate. Ma ripeto: in altri tempi era peggio».
Il sindacato dei poliziotti di New York ha detto che il sindaco de Blasio “ha le mani sporche di sangue” per aver sostenuto le proteste contro di loro: accuse pesanti...
«Sbagliano. La sola persona responsabile di quello che è accaduto a New York è l’assassino. E poi uno dei valori basilari di questo paese è la libertà d’espressione. Dobbiamo garantire alla gente il diritto di protestare pacificamente anche quando non siamo d’accordo con loro. Altrimenti non saremmo più l’America».
C’è speranza di uscirne?
«La gente reagisce in maniera sproporzionata e temo che gli americani abbiano l’attitudine a pensare che tutto possa essere risolto con la violenza. Ma sono ottimista: le cose andranno meglio proprio perché oggi la società è più avanti di 50, 25 anni fa. E non saranno fatti terribili come questi a farcelo dimenticare».