mercoledì 24 dicembre 2014

CITATO
«le malattie della mente e del cuore»
Repubblica 23.12.14
I 15 peccati della Chiesa secondo Francesco
di Vito Mancuso


VIVA il Papa e abbasso la Curia!, verrebbe spontaneo gridare dopo il magnifico e severo discorso che papa Francesco ha rivolto ieri ai responsabili della Curia romana. Il discorso con un’analisi ammirevole e coraggiosa elenca ben quindici malattie che secondo il Papa aggrediscono l’organismo di potere vaticano, ma in realtà si tratta di un’analisi perfettamente estendibile a tutte le altre nomenclature, a tutte le corti che nel mondo si formano inevitabilmente attorno a chi detiene il potere. Ieri il Papa si è rivolto alla Curia romana, ma le sue parole colpiscono praticamente tutti gli organi di potere dell’odierna società, dalla politica all’economia, dalle università ai tribunali, in Italia e ovunque nel mondo. Tra le malattie della mente e del cuore dei burocrati vaticani e non, il Papa pone al primo posto ciò che definisce (1) la “malattia del sentirsi immortale o indispensabile”, vale a dire l’identificazione del proprio sé con il potere.
SEGUONO (2) “la malattia dell’eccessiva operosità” e (3) “l’impietrimento mentale e spirituale”, intendendo con ciò l’atteggiamento di coloro che “perdono la vivacità e l’audacia e si nascondono sotto le carte diventando macchine di pratiche”. Le altre malattie del potere, elencate dal Papa spesso con termini colorati, sono: (4) l’eccessiva pianificazione, (5) il cattivo coordinamento che trasforma una squadra in “un’orchestra che produce chiasso”, (6) “l’Alzheimer spirituale” che fa perdere la memoria dell’incontro con il Signore e consegna in balìa delle passioni, (7) la rivalità e la vanagloria, (8) la schizofrenia esistenziale che porta a vivere una doppia vita, di cui la seconda è all’insegna della dissolutezza, (9) le chiacchiere e i pettegolezzi che arrivano a un vero e proprio “terrorismo” delle parole, (10) la divinizzazione dei capi in funzione del carrierismo, (11) l’indifferenza verso i colleghi che priva della solidarietà e del calore umano e che anzi fa gioire delle difficoltà altrui, (12) la faccia funerea di chi è duro e arrogante e non sa che cosa siano l’umorismo e l’autoironia, (13) il desiderio di accumulare ricchezze, (14) i circoli chiusi e infine (15) l’esibizionismo.
Queste sono le numerose malattie che secondo il Papa aggrediscono la Curia romana e i suoi responsabili. Ma una domanda s’impone: è davvero così semplice separare il Pontefice dalla sua amministrazione? La Curia romana è una creatura dei Papi, è l’espressione di ciò che per secoli è stato il Papato, governata dagli infallibili successori di Pietro dei quali tra l’altro quasi tutti coloro che hanno regnato nel ‘900 sono stati proclamati santi o beati. Com’è quindi possibile il paradosso di papi così vicini a Dio e tuttavia incapaci di mettere ordine tra i più stretti collaboratori, scelti da loro stessi? Come si concilia lo splendore dei pontefici canonizzati con una curia che dipende da loro direttamente e che è così tanto malata?
La Curia romana non è piovuta in Vaticano dal cielo, né è stata messa lì da qualche potentato straniero, ma è sorta quale logica emanazione della politica ecclesiastica papale che ha fatto del Vaticano un centro di potere assoluto, e non un organo di servizio come vorrebbe oggi papa Francesco. Se si vuole la coerenza del ragionamento, indispensabile alla coerenza della vita giustamente tanto cara a papa Francesco, occorre concludere che i mali della Curia romana non possono non essere esattamente i mali dello stesso potere pontificio.
Il papato per secoli ha concepito se stesso come potere assoluto senza spazio per una minima forma di critica e meno che mai di opposizione, traducendo fisicamente questa impostazione in precisi segni di spettacolare effetto quali il bacio della pantofola, la sedia gestatoria, e la tiara pontificia detta anche triregno tempestata di pietre preziose. Chi lavorava in Curia respirava quotidianamente quest’aria e non c’è nulla da meravigliarsi se poi, nella sua vita privata, tendesse a riprodurne la logica circondandosi a sua volta di lusso e di potere. È stato così per secoli e, come fa intendere il discorso di papa Francesco, è così ancora oggi. Emblematico è il caso del cardinal Bertone, per anni a capo della Curia romana e ora autopremiatosi con un lussuoso superattico nel quale probabilmente si aggira fiero contemplando i frutti di un fedele servizio alla logica del potere.
L’impietrimento mentale e spirituale denunciato da papa Francesco come malattia n. 3 non è altro che la conseguenza di come nei secoli è stata interpretata la figura del successore di Pietro. Quindi la riforma della curia non può che condurre a una riforma del papato. Avrà la forza papa Francesco per intraprendere questa strada? La volontà, di sicuro, sì.

Corriere 24.12.14
Il Papa predicatore che parla all’«ambigua argilla», cioè noi
Molta umanità. E i nodi teologici affrontati senza pavoneggiarsi
Così i sermoni di Bergoglio surclassano le abitudini del clero

di Alberto Melloni

Una delle grandi criticità della chiesa che il papato di Francesco non risolve, ma se mai acuisce proprio con la sua testimonianza , è quella della predicazione. Punto discriminante durante il Cinquecento fra chi aderisce alla riforma e chi aderisce al rinnovamento tridentino della chiesa cattolica, la predicazione s’è spesso consumata di qua e di là del confine della divisione confessionale. Oggi, a differenza di cinque secoli fa, non è così automatico riconoscere una predica protestante da una cattolica, se non forse per quel riferimento mariano che marca il discorso della chiesa di Roma. Ma in entrambi i casi si vedrà una predominanza di tematiche morali, quando non del moralismo sudaticcio che proprio con la sua enfasi rigorista denuncia le dissipazioni di chi vi ricorre con inutile zelo.
Francesco, dicevo, con la sua predicazione mostra l’insufficienza di quella che c’è: la surclassa, per tanti ne rappresenta un pericoloso sostituto. Ma non per molti è facile riconoscerne le radici e la costruzione. Francesco ha sempre predicato così: con un’immediatezza che sa diventare frustata (da questa settimana lo sa anche l’intera curia romana, sferzata da quello che doveva essere un discorso di auguri ed è diventato un sermone de emendanda ecclesia che intrecciava con martellante potenza Rosmini, Pier Damiani, Grossatesta, Gregorio Magno e il dossier dei tre cardinali emeriti sui mali di Roma); e con una dolcezza che commuove chi al posto della chiesa madre s’è trovato talora innanzi una matrigna distratta dall’autocontemplazione.
«L’uomo è così», disse di Francesco il cardinal Bertello la mattina dopo l’elezione, facendogli il complimento più vero e radicale: e chi oggi legga le sue parole sulla Speranza lo ritroverà predicare in tempi non sospetti e a ridosso di circostanze tragiche (una sparatoria in una scuola, un incendio in una discoteca) la sostanza della speranza cristiana. Tema chiave del Natale che è racconto di redenzione compiuta nella incarnazione del Verbo e annuncio di un ritardo: creazione nuova di un infratempo della speranza, che sa che solo ciò che tarda avverrà.
Prediche e discorsi di un vescovo che parla al suo popolo: alla sua ambizione di essere educatore educato, e non semplicemente stridula enunciazione di un’«emergenza educativa» che scivola spesso nella monetizzazione. E qui viene fuori la forza del Bergoglio predicatore che sa entrare con naturalezza nei grandi nodi teologici. Il Bergoglio vescovo enuncia la forza della speranza rifacendosi alla polemica anti-donatista: una querelle del IV-V secolo che vede la grande chiesa opporsi al rigorismo di Donato, che cerca una purezza ecclesiastica che è guardata con sospetto non per le esigenze che pone, ma per l’immagine di chiesa — una chiesa pura per i puri — che sorregge. Antidonatismo in Argentina? Bergoglio lo fa: e presenta l’attesa cristiana come «un’energia per impastare quell’ambigua argilla di cui è fatta la storia umana, per poi da lì plasmare un mondo più degno per i figli e le figlie di Dio. Non il cielo in terra: soltanto un mondo più umano, in attesa dell’azione escatologica di Dio».
Bergoglio non indica mai — mai, né da vescovo né da Papa — i confini intellettuali del suo discorso: e quel Principio speranza che Ernst Bloch aveva iniziato nel 1938 e stampato nel 1959 corre sotto molte delle sue parole. Bergoglio forse non è teologo (nel senso moderno del termine): di certo non è professore pignolo e nemmeno un pavone che si pavoneggia delle sue letture. Ma col principio piacere e col principio di realtà si misura fino a quel principio — «il principio di un altro Amore» — che apre a una vita diversa e possibile.
Davanti al rischio di un’educazione all’eccellenza classista e discriminante, indica una «nuova umanità» come orizzonte della formazione che supera le antinomie fra rigore e solidarietà, fra novità e continuità, fra identità e maturazione. Per Bergoglio, infatti, la «maturità presuppone una capacità di vivere il tempo come memoria, come visione e come attesa, andando oltre l’immediatismo per essere in grado di strutturare la parte migliore della nostra memoria e dei nostri desideri in un’azione meditata ed efficace».
È in questa visione lucida del dinamismo delle persone e delle istituzioni che Bergoglio posa la sua visione cristiana della speranza: quanto mai utile in questo tempo natalizio che per noi, oggi, si consuma all’ombra di guerre implacabili e di istinti assassini che non esitano a sbranare bambini inermi, forse per vendicare il dolore di altri bambini uccisi, ma certo alimentando la spirale del sangue di cui si nutre la Bestia. Per chi viva questo tempo per ciò che è la questione rimane quella: una redenzione che annuncia la croce e una croce che annuncia una redenzione collocata dentro la «storia umana come a un luogo di discernimento tra le offerte della grazia, orientate verso la piena realizzazione dell’uomo, della società e della storia nella redenzione escatologica».

La Stampa 24.12.14
Odissea Mediterraneo, le rotte e i morti
Ecco tutti i numeri del traffico di uomini
di Paolo Bernocco e Lidia Catalano
#ViteInMovimento, prima puntata dell’inchiesta La Stampa sull’immigrazione
di Paolo Bernocco e Lidia Catalano

qui


«Il Partito democratico è una "associazione per delinquere"?»
La Stampa 24.12.14
La metà della somma sequestrata riguarda il capogruppo del Pd Marco Monari
Sequestrate case e indennità ai politici per le spese pazze in Emilia Romagna
“Congelati” 1,2 milioni a 8 capigruppo: la metà della somma riguarda quello del Pd


Il conto più pesante è toccato all’ex capogruppo Pd in consiglio regionale Marco Monari, quello che secondo l’inchiesta «Spese pazze» pranzava nei ristoranti stellati a spese della regione Emilia Romagna: il nucleo tributario della Guardia di finanza è andato a sequestrargli beni immobili, crediti e indennità per 610mila euro, quasi la metà della cifra contestata complessivamente a tutti i responsabili dei gruppi coinvolti, cioè 1 milione 200 mila euro. Già, perché nella lista dei capigruppo raggiunti dal provvedimento deciso dalla Corte dei conti ci sono anche, in ordine di valore sequestrato, Liana Barbati dell’Idv con 147mila euro, Gian Guido Naldi di Sel-Verdi con 105mila, Luigi Giuseppe Villani del Pdl con 100mila, Matteo Riva del Gruppo misto con 96mila, Roberto Sconciaforni di Fds con 90mila, Andrea Defranceschi del M5S con 67mila euro e Silvia Noè dell’Udc con 45mila. Manca giusto l’ex capogruppo della Lega Nord, Mauro Manfredini, che nel frattempo è deceduto.
Atto cautelare
Si tratta di un atto cautelare, chiesto dalla procura regionale della Corte dei conti, dopo che l’assemblea regionale aveva agito in sede amministrativa in quanto ente danneggiato dal comportamento dei consiglieri. L’entità dell’importo è il frutto della quantificazione del danno patrimoniale subito dall’istituzione. I capigruppo sono chiamati a risponderne perché sono responsabili della rendicontazione, della tenuta documentale delle spese e della verifica della regolarità degli esborsi compiuti dai componenti dei gruppi. Gli accertamenti contabili della Finanza si sono concentrati sui soldi spesi da tutti i gruppi consiliari nel 2012: ne è risultato, spiegano le Fiamme gialle, un utilizzo dei contributi a carico del bilancio regionale per scopi «non inerenti all’attività istituzionale e al funzionamento dei gruppi». In particolare, ci sono costi sostenuti per spostamenti in taxi, auto private e treni, pedaggi autostradali, soggiorni in albergo, acquisto di giornali. E poi c’è la voce «consulenze», leit-motiv ricorrente anche nell’indagine della procura di Bologna, spese ritenute dalla magistratura contabile prive di giustificazione e collegamento con l’attività istituzionale. I provvedimenti eseguiti ieri sono altra cosa, anche se collegata, rispetto all’inchiesta che si è da poco conclusa con 41 avvisi di fine indagine per peculato a carico di altrettanti consiglieri della passata legislatura (il nuovo Consiglio è stato eletto il mese scorso e la giunta guidata da Stefano Bonaccini si è appena insediata, ndr). L’indagine penale infatti si riferisce ai rimborsi del periodo giugno 2010 - dicembre 2011.
Udienza in gennaio
Tornando al sequestro di ieri, la prossima tappa del procedimento amministrativo è fissata per fine gennaio, quando sarà fissata l’udienza davanti alla Corte dei conti. A breve dovrebbe essere anche decisa la data dell’udienza in cui si entrerà nel merito delle contestazioni. L’azione della magistratura contabile, coi relativi inviti a dedurre, riguarda peraltro quasi tutti i consiglieri uscenti, compreso l’attuale presidente della Regione Bonaccini. Gli ex capigruppo non commentano, lo fa per loro l’avvocato Antonio Carullo che definisce «abnorme» la richiesta della procura contabile, dato che le regole sarebbero state rispettate: «La Corte costituzionale ha annullato le deliberazioni della Corte dei conti assunte nel 2013 e relative proprio ai rendiconti 2012 dei gruppi assembleari». Quanto all’inchiesta penale, «varrebbe la pena precisare che su di essa si dovrà pronunciare il Gip, o con un rinvio a giudizio o con una richiesta di archiviazione».

Corriere 24.12.14
«Pd, rimborsi fasulli per 2,6 milioni»
Sei parlamentari laziali sotto inchiesta
L’indagine di Rieti: ostriche, vecchie multe e olio con i fondi regionali 2010-2012
di Alessandro Capponi e Ilaria Sacchettoni


ROMA Olio extravergine d’oliva soprattutto. Che, nel reatino, non sarà come in Liguria, ma è pur sempre d’origine controllata. Ma anche rimborsi per vecchie multe, cesti natalizi e le immancabili cene che (elettorali e no, anche a base di ostriche) sempre figurano in nota spese. Come ricostruito dai finanzieri del Tributario per la procura di Rieti, le «spese pazze» dei consiglieri regionali del Pd, fra il 2010 e il 2012, varrebbero 2 milioni e 600 mila euro.
E se per i consiglieri pidiellini della giunta di Renata Polverini — Franco «Batman» Fiorito, il più rappresentativo — sono già scattate le prime condanne (o assoluzioni), ora potrebbe aprirsi il capitolo processuale che riguarda l’allora opposizione del Partito democratico. Perché gli investigatori coordinati dal procuratore Giuseppe Saieva sono prossimi alla notifica delle conclusione delle indagini a diverse persone. Sotto accusa l’intero gruppo Pd in Regione durante la consiliatura Polverini con accuse che vanno dal peculato, alla truffa aggravata, dal finanziamento illecito al falso.
Una volta caduta la giunta Polverini, l’allora candidato del centrosinistra Nicola Zingaretti condusse una battaglia col partito per non far ripresentare in Regione neanche uno dei consiglieri uscenti. Così molti di loro, oggi sotto accusa, sono stati candidati direttamente in Parlamento.
Fra gli indagati, infatti, ci sono gli attuali senatori Claudio Moscardelli, Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Francesco Scalia e Daniela Valentini. Sotto inchiesta anche il sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, il cui nome era affiorato all’avvio delle indagini, così come quelli di Enzo Foschi, già nella segreteria del sindaco di Roma Ignazio Marino e del tesoriere Mario Perilli.
Indagato anche il deputato Marco Di Stefano, già coinvolto in un’altra vicenda giudiziaria: è accusato di corruzione per fatti che risalgono alla giunta Marrazzo, quando da assessore al Demanio avrebbe intascato una tangente milionaria per alloggiare la società «Lazio Service» nei locali dei costruttori romani Pulcini. Un’inchiesta che ha intersecato anche il giallo della scomparsa del suo ex collaboratore Alfredo Guagnelli.
Di Stefano e gli altri saranno ascoltati in procura per rispondere a una serie di contestazioni. Secondo gli investigatori avrebbero chiesto al partito rimborsi maggiorati su spese ordinarie, da quella per il taxi ai biglietti ferroviari e aerei. In nota al partito anche spese ordinarie, pranzi e cene in ristoranti dal menu a base di pesce.
Perfettamente bipartisan le ostriche: contestate ai consiglieri Pdl e ora in conto ai rappresentanti del Pd che le avrebbero mangiate vicino al Pantheon. In qualche caso si mascheravano singole elargizioni attraverso la formula delle collaborazioni occasionali che di fatto, per i pm, non sarebbero mai avvenute. Nel mirino degli investigatori anche rimborsi per murales nel quartiere popolare del Quadraro. Sul conto del partito in Regione sarebbero finiti pure il finanziamento di una serie di sagre paesane, di tornei di calcio e, per l’accusa, di attività non riconducibili alla politica.

il Fatto 24.12.14
Sagre e cene, Pd a rischio processo
A Rieti chiusa l’indagine sui rimborsi della Regione Lazio sino al 2012
Coinvolti Montino, Foschi e altri dodici
di Rita Di Giovacchino


Riesplode a Rieti lo scandalo sulle “spese pazze” alla Regione Lazio che due anni fa ha travolto la giunta di Renata Polverini. Ormai lontano il ricordo di Franco Fiorito, er Batman di Anagni, o di Carlo De Romanis, celebre per le feste con maschere di maiale, l’attenzione del procuratore reatino Giuseppe Saieva si è incentrata stavolta sul gruppo Pd alla Pisana che nel triennio 2010 – 2012 avrebbe dilapidato 2 milioni e 600 mila euro in spese elettorali e sponsorizzazioni varie come pranzi cene e perfino partite a caccia e sagre del tartufo. Secondo un’anticipazione de “La7”, l’inchiesta dopo un anno e mezzo di indagini, 200 controlli incrociati e 300 testimoni ascoltati, sta per concludersi con la richiesta di rinvio a giudizio per 13 ex consiglieri regionali accusati di reati che vanno dalla truffa aggravata al peculato, dalle fatture false all’illecito finanziamento ai partiti. Nomi di primo piano come quelli dei cinque senatori, come Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini. Ma c’è anche il deputato Marco Di Stefano, renziano dell’ultima ora e subito promosso coordinatore alla Leopolda, già nei guai alla procura di Roma che lo sospetta di aver aperto un conto in Svizzera, come collettore di tangenti, e lo indaga per una mazzetta da 1 milione e 800 mila euro che avrebbe ricevuto dal costruttore Pulcini in cambio di una sede per Lazio service. A Rieti è accusato di aver incassato 36 mila euro per pubblicare 25 mila copie della sua autobiografia. A mangiare a quattro ganasce non era soltanto il centro destra, una nuova amarezza per il sindaco Marino, ancora scosso dalla scandalo delle ccop rosse, che qui ritrova l’ex capo della sua segreteria Enzo Foschi, ma anche Esterino Montino, nome di punta del Pd romano e attuale sindaco di Fiumicino.
L’indagine ha preso le mosse dal reatino Mario Perilli, con i soldi destinati al funzionamento del gruppo la “quindicina ” (due nel frattempo sono deceduti) avrebbero offerto ad amici e simpatizzanti pranzi e feste dagli otto ai 20 mila euro. Esilarante, si fa per dire, la storia dei 25 fagiani frutto di una battuta di caccia a Fiumicino, messi a tavola ma anche sul conto. Il direttore del circolo ha raccontato alla Finanza che qualcuno ha inneggiato al Pd con il calice alzato. Prosit. I consiglieri si pagavano con i soldi pubblici le multe, i biglietti aerei e pure gli addobbi per l’albero di Natale, c’è chi ha messo in conto una bottiglietta d’acqua da 45 centesimi. Per non parlare delle assunzioni di familiari, a Perilli viene contestata una sagra del tartufo, finanziata con 5.000 euro e spacciata come convegno. C’è poi il tentativo di rinascita di Paese sera, nel 2011, finanziato con 26 mila euro senza contratto. Ci sono anche fatture per spese inesistenti “steccate” con il consigliere interessato. Fra pochi giorni sapremo se nell’inchiesta sono indagate altre 44 persone tra esponenti pd del Lazio, imprenditori, fornitori, collaboratori.

Repubblica 24.12.14
E Cantone commissaria i primi due appalti alle Coop
di Mauro Favale e Giovanna Vitale


ROMA . Ne parlano in continuazione, per telefono o durante le riunioni intercettate dai carabinieri del Ros: discutono dell’andamento delle gare, ma soprattutto delle mazzette, soldi promessi a politici e funzionari pubblici per “oliare” due appalti, quello per la raccolta differenziata del “multimateriale” e quello per il trasporto dei rifiuti organici. Contratti pesanti, da 13 e 21 milioni di euro, affidati dalla municipalizzata capitolina Ama al Cns (Consorzio nazionale servizi) e alla Cooperativa Edera, entrambe in rapporti con la “29 giugno” di Salvatore Buzzi, il braccio destro di Massimo Carminati.
Potrebbero essere questi i primi appalti a finire commissariati dall’Autorità Anticorruzione. L’organismo diretto da Raffaele Cantone, due giorni fa, ha avviato le procedure regolate dal decreto legge 90: l’iter prevede la possibilità per le due aziende di presentare, entro 15 giorni, una memoria. Poi sarà il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, a emettere l’eventuale decreto di commissariamento sulla base della richiesta di Cantone. Sia la bolognese Cns (colosso della cooperazione, associato a Legacoop) sia la romana Edera avanzeranno le loro “controdeduzioni”, specificando, la prima, «che non sussistono i presupposti per il commissariamento » e, la seconda, «di non far parte di una vera o presunta “galassia Buzzi”».
Intanto, mentre l’inchiesta procede e, in Campidoglio, vanno avanti le ispezioni di prefetto e Anac, ieri il sindaco Ignazio Marino ha presentato la sua nuova giunta. Un rimpasto di cui si discuteva già dall’estate e “partorito” 20 giorni dopo i primi arresti di “mafia capitale”. L’indagine, infatti, tra gli altri ha visto coinvolto anche l’assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, costretto alle dimissioni. Al suo posto è entrata in squadra Francesca Danese che arriva dal mondo del volontariato. L’ingresso più pesante, però, è quello del magistrato Alfonso Sabella che ha assunto le deleghe alla Legalità e alla Trasparenza. E non sono mancate le polemiche per la nomina di Maurizio Pucci, già superdirigente capitolino, che si occuperà di Lavori Pubblici. Così parlava di lui Buzzi, intercettato: «È un ladro», diceva. «Una prova — dice Pucci — che non facevo parte di quel sistema».

il Fatto 24.12.14
Giovanna Melandri e lo stipendio Maxxi “non autorizzato”
Per la direzione generale del Ministero la presidente della fondazione museale non aveva compensi
91.500 euro lordi all’anno e il diritto anche a un bonus sull’andamento dei ricavi fino a una somma di 24 mila euro o ancora di più se l’incremento di biglietti, sponsor e introiti supera il 30 per cento
di Marco Lillo


Non bastava lo stipendio. Giovanna Melandri, presidente della Fondazione MAXXI, a fine anno troverà sotto l’albero anche un bel premio. Ricordate le polemiche sul ‘MAXXI stipendio’ del politico? Melandri il 22 novembre del 2013 al Messaggero rivelava che il suo stipendio ammontava a 45 mila euro netti.
Il 6 novembre, pochi giorni prima, il Cda presieduto da lei stessa approvava la delibera n. 12 che Il Fatto ha visionato. Si scopre che lo stipendio è di 91.500 euro lordi all’anno e che Melandri avrà diritto anche a un bonus sull’andamento dei ricavi fino a una somma di 24 mila euro o ancora di più se l’incremento di biglietti, sponsor e introiti supera il 30 per cento. Non solo. Il Fatto ha visionato anche il voluminoso carteggio seguito alla travagliata scelta di elargire uno stipendio all’ex ministro. La delibera del cda del MAXXI è oggetto di un duro braccio di ferro. Prima la delibera è stata annullata sulla base di un parere negativo del Ragioniere Franco. Poi su spinta del segretario generale e del capo gabinetto del ministro, il capo dell’ufficio legislativo si è espresso contro l’annullamento che è stato ritirato in autotutela. Ora proprio la Ragioneria Generale dello Stato sta esaminando il voluminoso carteggio per stabilire una volta per tutte se il MAXXI sia davvero una fondazione di ricerca e possa quindi pagare Giovanna Melandri.
TUTTO INIZIA con la nomina alla presidenza della Fondazione MAXXI dell’allora parlamentare Melandri il 19 ottobre del 2012. Melandri si dimette da deputato per dirigere l’ente che controlla il museo di arte contemporanea ma la nomina del ministro della cultura del Governo Monti, Lorenzo Ornaghi fa discutere. Il rottamatore Matteo Renzi sbotta: “Facciamoci del male! Com’è possibile dopo il Parlamento avere subito lo scivolo del Ma-xxi? ”. Giovanna Melandri se la cava sostenendo che avrebbe lavorato gratis: “prenderò 90 euro all’anno”.
A luglio del 2013 Gian Antonio Stella scopre che, grazie alla trasformazione dell’ente in fondazione di ricerca, il MA-XXI poteva finalmente pagare il suo presidente. Le polemiche consigliano di soprassedere fino al 6 novembre. Quel giorno con la presidenza di Giovanna Melandri, il cda propone “in favore del presidente per ciascun anno di esercizio il compenso (...) di 91.500 euro quale componente fissa (...) su base mensile posticipata al netto delle ritenute previste (...) più un ulteriore ammontare quale componente variabile (premio) da determinarsi in ‘misura fissa’ come sintetizzato nella tabella che segue in funzione dell’incremento rispetto al precedente esercizio della sommatoria delle voci di proventi quali: I) biglietteria; II) Contributi di gestione; III) Sponsorizzazioni; IV) Altri ricavi e proventi. Le somme di componente variabile devono intendersi quali componenti netti”. Segue tabella: se l’incremento va dal 5 al 15 per cento, il premio è di 12 mila euro (netti) se raggiunge la forchetta 15-20 arriva a 18 mila euro; se si pone tra il 25 e il 30 per cento Melandri prende un premio di 24 mila euro. Se aumenta più del 30 per cento il premio sarà “quanto deliberato di volta in volta dal Cda”.
Melandri si astiene ma il suo stipendio passa con un verbale a sua firma grazie al voto degli altri due consiglieri: Monique Veaute e Beatrice Trussardi. La delibera del Cda si chiude così: l’atto “è trasmesso all’Autorità Vigilante ai sensi dell’articolo 20 comma 2 dello Statuto per la relativa approvazione”.
L’autorità vigilante è la direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale diretta da Anna Maria Buzzi, sorella di Salvatore Buzzi. Si potrebbe pensare che la sorella di un soggetto in affari e arrestato con Luca Odevaine, vicino a Giovanna Melandri, avrebbe avuto un occhio di riguardo per l’ex ministro Pd. Invece è accaduto il contrario. La direttrice Buzzi ha chiesto un parere alla Ragioneria Generale sulla delibera. Lo stipendio è giustificato dal Cda del MAXXI con l’inserimento della Fondazione nell’elenco di quelle ammesse alle agevolazioni fiscali. In risposta al quesito di Buzzi, il Ragioniere generale in persona, Davide Franco, scrive una nota il 13 gennaio 2014 per sostenere che l’inserimento del MAXXI nell’aprile del 2013 nell’elenco suddetto “assume rilievo solo ai fini fiscali”. Sembra di capire, quindi, non ai fini dello stipendio del presidente. Il 22 gennaio la direttrice Buzzi scrive una nota per annullare la delibera del cda che dava lo stipendio a Giovanna Melandri. Il 21 marzo del 2014 però il capo dell’ufficio legislativo del ministero Paolo Carpentieri scrive una nota dai toni duri, concordata con il capo di gabinetto del ministro Franceschini, Giampaolo D’Andrea, e con il segretario generale Antonia Pasqua Recchia. Carpentieri boccia la scelta del direttore generale, forte di un parere favorevole allo status di ente di ricerca di Emanuele Fidora, direttore generale della ricerca del MIUR. Carpentieri intima a Buzzi di annullare in autotutela il suo atto perché ha male interpretato la nota del Ragioniere Franco. Per Carpentieri il MAXXI va valutato come ente di ricerca nel concreto e non ci sono storie: Giovanna Melandri ha diritto allo stipendio. A quel punto Anna Maria Buzzi si adegua. Annulla il suo annullamento ma comunque non approva la delibera del MAXXI.
Quindi ancora oggi Giovanna Melandri percepisce uno stipendio sulla base di una delibera non approvata dall’Autorità vigilante. A metà aprile tutto il carteggio finisce sul tavolo della Ragioneria Generale dello Stato. Ora sarà Davide Franco in persona a dover dire se lo stipendio e il premio del presidente Melandri sono da approvare o no.

il Fatto 24.12.14
Re Giorgio lascerà il Colle tra il 14 e il 16 gennaio
Ormai è deciso: neanche un giorno in più per aspettare il sì all’Italicum
di Wanda Marra


La strada delle riforme è iniziata, io me ne vado”. Giorgio Napolitano l’ha ribadito più o meno così a Renzi, durante l’incontro al Quirinale di ieri. La pratica è chiusa da un mese, per quel che riguarda il Colle, e anche la data non è più negoziabile, nonostante i tentativi anche dell’ultima settimana da parte del premier di verificare se fosse possibile guadagnare qualche altro giorno per approvare l’Italicum, prima di dare il via all’elezione del successore di Re Giorgio.
CHE DUNQUE, se ne andrà il 14 o al massimo il 15 o il 16 gennaio. Dopo che il 13 si chiude ufficialmente il semestre europeo. Il Senato ha incardinato la legge elettorale: arriva in aula il 7 gennaio. E a Montecitorio in aula c’è la seconda lettura della riforma costituzionale.
E se ci volesse solo qualche giorno in più per il sì alla nuova legge elettorale, il traguardo che il premier vuole assolutamente raggiungere prima di affrontare gli agguati del Parlamento sul nuovo inquilino del Colle?
“Le riforme non si sono fatte finora, non è questione di qualche giorno in più”, è la linea di Napolitano. Che a questo punto si prepara all’uscita, con l’idea di aver fatto tutto il possibile per dare una mano al giovane Matteo. E dopo il discorso iper-renziano in occasione degli auguri alle alte cariche dello Stato, il concetto è che ormai se la deve cavare da solo.
L’idea renziana è quella di approvare la legge elettorale entro il 23 gennaio, approfittando dei 15 giorni necessari per indire l’elezione del successore. Traguardo tutto da verificare.
Ieri, i due comunque si sono visti per fare il punto sulle ultime pratiche aperte. Il Cdm di oggi, con tutti i provvedimenti sul piatto (dal jobs act all’Ilva). E soprattutto le nomine del comandante dell’Esercito, di quello dei Carabinieri e dell’Avvocato dello Stato. Sono previste, ma saranno in forse fino all’ultimo momento.
RENZI E NAPOLITANO, soprattutto, hanno parlato dei marò. Ha detto ieri il premier a Rtl 102.5: “Il governo italiano è impegnato per trovare una soluzione condivisa con il governo indiano il prima possibile”. Sottolineando come ci sia stato un “incredibile pasticcio causato da una serie di errori grossolani”. La vicenda è di quelle che possono nuocere all’esecutivo. Renzi è in carica da più di 10 mesi e non è ancora risolta: cosa che lui ha ben presente. Napolitano era intervenuto con forza sulla questione lunedì. E il presidente del Consiglio ha tutte le intenzioni di sfruttare fino all’ultimo ogni assist che l’altro vuole offrirgli.
Finché c’è, insomma, il presidente del Consiglio sfrutta gli assist praticamente quotidiani che gli fornisce il capo dello Stato. Il quale vorrebbe dire la sua pure sul futuro inquilino del Colle. In maniera esplicita si è limitato alle coordinate generali: una persona che goda di “vasto consenso” e non troppo vicina agli schieramenti. E che sia “credibile” e “riconosciuta” anche in Europa. Per questo, dalle parti del Quirinale, si comincia a guardare a figure di garanzia come ex giudici della Consulta: Sabino Cassese, Sergio Mattarella, Valerio Onida. Crescono le quotazioni di un cattolico: si fa anche il nome di Pier Ferdinando Casini. Da ex presidente della Camera, sarebbe anche lui una figura di garanzia di quelle auspicate da Napolitano.
RENZI, intanto, se pure ha in mente una persona specifica, su questo (ancora) non si è confrontato ufficialmente con Napolitano. Ieri in radio ha paragonato la corsa al Quirinale a Indovina chi.
Un modo per non scoprire le carte e depotenziare almeno in parte l’effetto attesa. Nel frattempo, Matteo Salvini, leader della Lega, ha detto la sua: “Un uomo del Pd non lo votiamo”.

La Stampa 24.12.14
Bonino: “Quirinale? Ero pronta nel 1999 e lo sono oggi”
intervista di Francesca Sforza

qui

La Stampa 24.12.14
Berlusconi, sul Colle pronto a tutto per restare con Matteo
Nemmeno su Prodi il veto del leader di Fi è totale
Ma il suo nome preferito resta Finocchiaro
di Ugo Magri


Tormentato. Forse anche pentito. Di sicuro con le mani legate. Berlusconi non è per nulla convinto che sia stata una buona idea quel suo via libera a Renzi sul Quirinale. Se potesse tornare indietro, il Cav se lo rimangerebbe volentieri, magari non dichiarerebbe più a «Repubblica» che voterebbe perfino un esponente Pd: un regalo che neppure il premier si sarebbe aspettato. Ma chi è partecipe dei dubbi di Silvio, e in queste ore ne raccoglie gli sfoghi, pensa che però al dunque l’uomo farà proprio quanto chiede Matteo. Perché troppe volte si sono viste scene del genere («di quello io non mi fido, il ragazzo è pericoloso, so che mi prenderà in giro e resterò con un pugno di mosche») salvo che poi Berlusconi ha fatto il rovescio e si è sistematicamente adeguato con rapidi dietrofront. Perché, al di là dei mugugni, non è in condizione di comportarsi diversamente. L’ex premier ha disperato bisogno di santi in paradiso. La benevolenza operosa del suo successore gli serve come l’aria. Nel giro politico romano riprendono quota le solite chiacchiere sulle difficoltà (vere o presunte) del Biscione, su fantomatiche operazioni di sostegno alle reti Mediaset che mai andranno in porto se il governo non darà una mano. Si aggiunga lo status di condannato, con i servizi sociali agli sgoccioli e il terrore, tipico di chi viene privato della libertà personale, che i magistrati possano appigliarsi a qualche comportamento sopra le righe, per esempio nella prossima campagna quirinalizia, per posticipargli la fine della pena.
Le scelte dell’ex Cavaliere
Insomma, gli avventori della mensa di Arcore sono convinti che Renzi non debba minimamente impensierirsi. Non solo Berlusconi farà votare i suoi in base alle indicazioni di Palazzo Chigi, ma si acconcerà al ruolo di buttafuori, ponendo veti su questo o quel candidato sgradito al premier dimodoché quest’ultimo possa allargare le braccia sospirando e sorridere a Prodi, per esempio, dicendogli: «Io ti avrei voluto sul Colle ma purtroppo Forza Italia non è d’accordo...». In realtà, se si crede alle fonti berlusconiane più genuine, tutta questa ostilità nei confronti di Prodi il Cavaliere non la nutre per niente. I due non si amano, bella scoperta. Però neppure sono ai ferri corti. Prova ne sia il processo di Napoli sulla compravendita di senatori dove a luglio Romano era andato in veste di testimone. Avrebbe potuto scatenarsi contro chi fece cadere il suo secondo governo, e invece disse ai giudici che mai aveva subdorato operazioni così indecenti.
Neppure Veltroni fa impazzire l’ex-Cav. Idem Bersani (sebbene a entrambi Berlusconi riconosca un tratto di umanità). Lui certo preferirebbe Amato e al limite la Finocchiaro, donna che stima per l’equilibrio. Però in fondo, se Renzi gli chiedesse di sostenerli, nemmeno contro Pierluigi e Walter lui solleverebbe obiezioni, sempre beninteso che qualcuno lassù non gli chieda di sollevarle. Sogna Draghi e teme candidature tecniche alla Padoan, ministro dell’Economia, o alla Cantone, il censore dei cattivi costumi nella pubblica amministrazione. Considera entrambi parecchio fragili per un ruolo che richiederebbe polso specie nei momenti di crisi. Ma un conto è dirlo a cena, altra cosa convincere Renzi. Per farla breve: a Berlusconi stanno bene tutti e in cambio della gratitudine politica del premier il personaggio è pronto a qualunque operazione. Il leader della Lega Salvini, che ha ben capito dove si va a parare, ieri ha sparato un colpo di avvertimento: «Se si tratta di votare uno del Pd, vi provvedano Berlusconi e Renzi. Io non ci sto».

Corriere 24.12.14
Il pallottoliere del Nazareno
In Aula il patto può reggere fino a 195 franchi tiratori
di Tommaso Labate


ROMA Nell’agenda che Denis Verdini ha mostrato agli amici prima della pausa natalizia sono appuntate tre lettere e un numero. «Max 100». Ed è la stessa stima che risulta, in corrispondenza alla voce «possibili franchi tiratori», ai responsabili del pallottoliere del Pd. Lo dice anche il renziano Ernesto Carbone, che è tra questi ultimi. «Lasceremo per strada meno di cento voti. Nessuno ci ha fatto caso ma negli ultimi mesi, con le votazioni per la Consulta, abbiamo eletto 16 potenziali capi dello Stato. In ben 16 votazioni, infatti, il Parlamento a voto segreto ha superato quota 505 su un singolo nome».
Sono 1.009 i grandi elettori che sceglieranno il successore di Napolitano. E a 505 è fissata l’asticella per eleggerlo dalla quarta votazione. Dei 1.009, circa 700 sono quelli che ufficialmente stanno sotto l’ombrello del Patto del Nazareno. Ci sono i 460 del Pd, i 130 di Forza Italia, i 70 del gruppone Ncd-Udc fino a quelli dei gruppi minori. Di conseguenza, un candidato formalmente espresso dalla maggioranza di governo più FI può permettersi fino a 195 franchi tiratori senza veder compromessa l’elezione. Come se, in una finale dei mondiali ai rigori, una squadra potesse vincere il titolo sbagliando dal dischetto quasi due volte su cinque.
Che ci sia poco spazio per i franchi tiratori lo ammette anche Paolo Naccarato, il senatore autonomista che l’arte di come far pesare i voti in Parlamento anche oltre il loro valore aritmetico l’ha imparata da Francesco Cossiga: «Non è partita per franchi tiratori questa. Quand’anche fossero 150 non basterebbero a sabotare un candidato scelto da Renzi e Berlusconi. La partita si gioca sul nome. Più è di indiscussa levatura, più si riducono gli spazi per i giochetti». Uno schema su cui concorda anche Augusto Minzolini, che aggiunge un dettaglio: «Se Renzi trova il modo di garantire al Parlamento che non ci saranno elezioni anticipate, tutto sarà più semplice».
Eppure, tra chi sta sotto l’ombrello del Patto del Nazareno, c’è chi affila le armi.
«Se Berlusconi non ci dà le garanzie politiche che chiediamo», dice il fittiano Maurizio Bianconi, «i nostri voti per il Colle li useremo per farli fruttare al meglio. Alleandoci con chiunque, dai singoli ex montiani ai leghisti…». Partendo da che base? «Siamo in 40, 36 a viso scoperto, 4 in incognito. E possiamo crescere ancora…», risponde. Arrivare a 195, il quorum al contrario, il numero di franchi tiratori che servono a far saltare il banco, pare difficile. Almeno sulla carta.
Due settimane fa, andando a trovare Berlusconi, l’ex ministro (centrista) Mario Mauro gli disse che «secondo me Alfano ha fatto il gruppone con l’Udc perché proverà a giocare in proprio».
Oggi quelle sensazioni sono finite nel dimenticatoio. Merito della tenuta del Pd, ovviamente. Ma anche del lavoro di sponda tra Berlusconi e lo stesso Alfano. Che, secondo molte voci di dentro, nelle ultime settimane si sarebbero sentiti e forse anche incontrati. Il tutto per tenere i franchi tiratori il più possibile lontano da quel numero 195 che oggi sembra sempre più inarrivabile. Sembra.

Repubblica 24.12.14
Il fantasma della Grecia sul Quirinale
di Stefano Folli


Di fatto Renzi individuerà una rosa dei nomi e li sottoporrà al suo partito: quei circa 460 grandi elettori che possono vincere la battaglia oppure perderla in modo rovinoso. La minoranza può ancora sperare di essere chiamata a condividere la scelta, attraverso un nome in cui possa riconoscersi. Ma la mossa di Berlusconi ha cambiato le carte in tavola e reso più impervia la strada di Bersani e D’Alema. In ogni caso non c’è da aspettare molto: dal 7 gennaio si discuterà la legge elettorale e il quadro sarà più nitido.
Un grave stallo a Montecitorio non passerebbe inosservato ai vertici politici di Bruxelles
AD ATENE anche la seconda votazione per eleggere il presidente della Repubblica è fallita. Ne resta solo una e poi i greci saranno chiamati alle urne per le elezioni generali. Come è noto, il partito largamente favorito, vincitore pressoché certo, è la nuova sinistra di Syriza, con il suo programma anti-austerità e la richiesta di rinegoziare il debito. Si tratta della più aperta e insidiosa sfida all’Europa come è oggi. Le conseguenze non sono prevedibili, ma di certo non saranno insignificanti e potrebbero investire larga parte dell’eurozona.
Non c’è ovviamente un nesso diretto fra quello che avviene nel Parlamento greco e quello che potrà accadere fra poche settimane nel Parlamento italiano. Da noi non esiste la clausola che obbliga alle elezioni dopo tre voti nulli. In teoria si può andare avanti all’infinito, eguagliando e superando il record delle 23 votazioni che furono necessarie nel 1971 per eleggere Giovanni Leone. Tuttavia il mondo è parecchio cambiato in quarant’anni. Un tempo le convulsioni istituzionali erano un vizio solo domestico, oggi s’intrecciano con i destini dell’Unione, a Roma nn meno che ad Atene. E se è realistico supporre che la Grecia, un piccolo paese, è in grado di intaccare gli equilibri europei, forse di sconvolgerli, è altrettanto verosimile immaginare che un grave stallo a Montecitorio non passerebbe inosservato.
L’Italia è un paese ancora bisognoso di vedere riconosciuta la propria affidabilità, un fragile patrimonio che non riguarda solo i conti pubblici sostenibili ma tocca vari aspetti della sfera politica. Quindi l’ipotesi di una ventina di votazioni a vuoto per eleggere il capo dello Stato, in un tripudio di franchi tiratori e di nomi «bruciati», è drammatica per Renzi: rischia di essere distruttiva per la sua immagine in Europa prima ancora che in Italia. Non solo: la crisi greca potrebbe proiettare le sue ombre sulle rive del Tevere e dare alimento a tutti i gruppi antieuropei, spesso ostili anche alla moneta unica.
Ecco perché il lavorìo sotterraneo per evitare il collasso è già cominciato, mentre Napolitano è ancora al Quirinale e da lì tiene a dimostrare di non essere un presidente dimezzato. Sembra di capire, anzi, che il capo dello Stato vorrebbe vedere risolta l’annosa questione dei due marò, lasciata macerare per troppo tempo anche a causa di errori di valutazione e talvolta per indifferenza. In tal senso, la sua sollecitazione al governo è diventata negli ultimi giorni piuttosto pressante. Si vedrà nelle prossime settimane.
Quel che è certo, la partita della legge elettorale è più che mai essenziale per capire come andrà il gioco dell’oca del Quirinale. E’ significativo che Berlusconi non parli più di posticipare il voto sulla riforma alla scelta del successore di Napolitano. Ora lascia credere che si possa votare in prima istanza la legge elettorale, offrendo così un grande vantaggio tattico a Renzi, e subito dopo dedicarsi al Colle. Di fatto, la rinuncia ai veti è un altro regalo che il semi-alleato fa al giovane premier. Il quale può adesso dedicarsi alla minoranza del Pd con qualche carta in più. In fondo, è come se Berlusconi gli avesse detto: «scegli tu il nome e a me andrà bene, purché non si tratti di una provocazione» (e a questo punto Romano Prodi avrà avuto la conferma di essere il nemico numero uno del patto del Nazareno o di come si preferisce chiamarlo).

Repubblica 24.12.14
Guglielmo Epifani
“Un candidato Pd al Colle e si coinvolga tutto il partito”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Avremo gli occhi del paese e anche dell’Europa puntati addosso, il Pd non può sbagliare. Né abbandonarsi a fronde interne ». Guglielmo Epifani, l’ex segretario dem, uno dei leader della minoranza del partito, avvisa il premier. È convinto inoltre che al Colle «sarebbe ragionevole andasse una personalità del Pd».
Epifani, saranno gli stessi dem a mettere i bastoni tra le ruote a Renzi nella partita per il Quirinale?
«Quando partirà il vero e proprio lavoro istruttorio, e non potrà che avvenire dopo le dimissioni del capo dello Stato anche per rispetto verso una grande figura come quella di Napolitano, il Pd deve munirsi di due atteggiamenti convergenti. Il primo: evitare quello che successe un anno e mezzo fa, quando furono bruciati dei candidati e non si riuscì a trovare una soluzione se non chiedendo a Napolitano un sacrificio. L’altro: la consapevolezza che se il Pd riesce a restare unito ha un peso determinante. I Democratici non possono sentirsi il tutto, però siamo più di una parte ».
Ma tutto questo mette al riparo dalle fronde interne, dai sabotaggi?
«Dobbiamo essere all’altezza della situazione. Il criterio principale è puntare a un presidente di alto profilo, di garanzia, che abbia esperienza. Il Pd non può imporre, ma neppure subire veti. Sentire alcuni partiti dire “no a una persona di sinistra” era ed è inaccettabile».
Sarà sempre un’Assemblea del Pd a indicare chi corre per il Quirinale?
«Deve decidere il partito insieme ai gruppi parlamentari».
Il rischio sono i “sì” di facciata e poi i 101 “franchi tiratori” di Prodi?
«Siccome veniamo da un’esperienza di quel tipo e, soprattutto chi è entrato in Parlamento per la prima volta, è rimasto scottato da quello che avvenne, spero davvero che possa esserci quel senso di responsabilità che allora mancò».
Pensa che ci sarà una appendice del Patto del Nazareno tra Pd e Forza Italia per il Colle?
«Nel momento in cui ci si rivolge a tutti, anche a Forza Italia ma non solo, non è una convention a due, ma la ricerca di consenso più ampio. Il consenso deve essere massimo ma il Pd deve avere il suo ruolo e un peso fondamentale ».
Deve essere del Pd il prossimo presidente?
«Naturalmente non è obbligatorio ma coerentemente sarebbe molto ragionevole che lo fosse ».
La sinistra del partito si smarcherà dalle proposte renziane? Lo fa spesso.
«Tutte le discussioni interne in questi due anni sono state su questioni di merito, su provvedimenti, su alcuni aspetti della riforma costituzionale e il Jobs Act. Un grande partito deve essere fatto anche di opinioni diverse, non può essere una caserma. Ma qui il passaggio è impegnativo, è il più importante dell’anno insieme alle riforme costituzionali e alla politica di uscita dalla crisi. Tutti si devono sentire coinvolti nella scelta e avvertire lo stesso senso di responsabilità ».
Scommette sul caos o che alla quarta votazione ci sia già il nuovo capo dello Stato?
«Se si fanno bene le cose, credo che si possa riuscire presto e bene. Lo stesso Franco Marini un anno e mezzo fa se fosse stato portato alla quarta votazione avrebbe avuto i numeri, pensandoci con il senno di poi».
E anche Prodi?
«Quella vicenda dolorosissima fu figlia di un passo falso fatto all’inizio».
Il futuro presidente della Repubblica deve essere una figura poco renziana, deve fare da contrappeso al premier?
«È una discussione inutile. È la nostra Costituzione che dà compiti diversi al capo del governo e al capo dello Stato. Sono i ruoli, appunto distinti e complementari, a configurare il peso delle persone. Per questo ci vuole una persona giusta per quella funzione».
Lei ha un nome?
«Ho qualche idea, che dirò al momento opportuno»

il Fatto 24.12.14
Porcellum, la sentenza dimenticata da Renzi
di Oliviero Beha


CARO RENZI, confesso di aver a lungo esitato tra Lei e i due Presidenti delle Camere come destinatari di questa letterina natalizia: ma l’ho vista così deciso in tv con i bambini e con tutti gli altri che mi è parso urgente rivolgermi proprio a Lei, perché faccia qualcosa di pubblico nei confronti di Grasso e Boldrini. Sempre che malgrado le apparenze Lei abbia cuore le sorti democratiche di un Parlamento che ad oggi è ancora uno dei tre poteri di Montesquieu che si dividono la democrazia. Si tratta di questo: se non cale a nessuno della sentenza della Consulta e poi della Cassazione, sentenza che per la prima volta nella storia della nostra Repubblica definisce per vari aspetti incostituzionale la legge “Porcellum” con cui abbiamo votato nel 2006, nel 2008 e nel 2013, come democrazia siamo praticamente rovinati. Per motivi ovvi, addirittura da bar, che chiederò a Benigni – se ne ha il coraggio – di riassumere in una serata televisiva dedicata al trema. Quali sono questi motivi? Che della sentenza citata nessuno, dico nessuno, a partire da Lei, finora ha tenuto alcun conto. Prova ne sia che l’Italicum in gestazione (d’accordo con Berlusconi oppure no, non lo so e non me ne intendo…) si avvia sulla stessa strada incostituzionale denunciata dalla Consulta.
Il sistema è semplice: mi faccio la mia legge elettorale suina o non suina come più aggrada a me o alla mia maggioranza, me ne frego se è o meno costituzionale, se si deve andare a votare si va con la nuova anche se dovesse ricalcare lavecchia, e per cinque anni siamo a posto. Nel senso che si può mettere mano nel frattempo a un’altra riforma della legge elettorale altrettanto incostituzionale. Tanto chi ce lo può impedire? Lo so, sembra un racconto di Buzzati, ma Renzi mio, nei confronti del quale non ho giuro alcun pregiudizio ma solo post-giudizi, è invece la pura realtà. Alla faccia di quell’art. 1 sul “principio generale della trasparenza” del decreto legislativo 33 del 2013 che su dettato europeo pretenderebbe un comportamento affatto diverso. Qui è in voga piuttosto l’articolo 2 sull’opacità, ma della costituzione cosiddetta materiale e non della Carta dei Padri Costituenti ridotti ormai alla memoria a una bocciofila di alticci. Per esempio mi fa sapere, anche consultandosi con Boldrini e Grasso che non rispondono a nessuno di questi quesiti neppure se esposti da dotti costituzionalisti, perché non è stato applicato l’art. 66 della Carta sulla convalida degli eletti? Se il premio di maggioranza è stato dichiarato illegittimo, avrò almeno il diritto di conoscere i nomi di chi è in Parlamento in base a tale espediente bocciato dalla Consulta?
n LO SO, alla Camera costoro sono tutti Pd, ma ne faccio una questione di principio non di partito. Ancora: mentre in meno di due anni in questa legislatura hanno cambiato casacca in 160 tra le due Camere, un sesto del totale, alla faccia di un malinteso svincolo di mandato, posso sapere chi è entrato in Parlamento al posto di chi è stato eletto in maggio al Parlamento Europeo, è morto oppure si è stufato (l’ultima voce credo sia derubricabile…)? Perché vede, caro Premier, Lei certo non ci crederà ma chi è subentrato è subentrato con gli stessi criteri elettorali negati dalla Consulta, ovverosia della sentenza famosa se ne è bellamente fottuto. Come se non ci fosse stata. Infine: Lei ci tiene al Quirinale, vero, alla regolarità dell’elezione del successore di Napolitano. Ebbene, lo voterà gente che non dovrebbe star lì a votare, perché eletta in Parlamento secondo norme elettorali incostituzionali. Del tutto ignorate. Potrebbe occuparsene, caro Renzi, se considera la faccenda di qualche interesse? Auguri, allora. Suo Oliviero Beha

Repubblica 24.12.14
Italicum, duello sulla norma anti-voto
Renzi deciso a concederla solo al termine dell’iter della riforma elettorale: prima i dissidenti di entrambi i fronti dovranno dar via libera alle modifiche “sgradite”
Ma da Forza Italia sale la protesta: non erano questi i patti
di Francesco Bei


ROMA Si riaccende, lontani dai riflettori, la battaglia dell’Italicum. E rischia di saltare l’accordo stretto una settimana fa tra Denis Verdini, ambasciatore di Berlusconi, con Luca Lotti e Matteo Renzi. Un’intesa che prevedeva di inserire nella legge elettorale quell’ormai famosa “clausola di garanzia” (antielezioni) per far entrare in vigore la nuova normativa solo a partire dal settembre del 2016. Garantendo così un sereno biennio di legislatura, con la spada di Damocle del Consultellum, un proporzionale puro, nel caso Renzi fosse stato tentato dalle elezioni anticipate.
Tutto è cambiato sabato scorso, alle prime luci dell’alba, quando la Boschi ha avvertito un imbufalito Renzi che alcuni senatori di maggioranza — Ncd, fittiani, ma anche della minoranza dem — stavano provando a far mancare il numero legale sulla legge di stabilità per impedire al governo di incardinare l’Italicum per portarlo in aula dopo l’Epifania. Da allora il sospetto della «trappola» — sventata solo grazie a una telefonata di Lotti a Verdini, con la richiesta immediata di un “soccorso azzurro” poi prontamente concesso — tormenta il premier. Che ha assoluto bisogno di arrivare al voto finale sull’Italicum prima che si aprano le votazioni per il nuovo presidente della Repubblica. Renzi ha meditato la sua vendetta per qualche giorno. Poi la svolta è arrivata alla vigilia di Natale, in perfetto stile fiorentino: «Vogliono la clausola di garanzia? Benissimo, gliela daremo. Ma quell’emendamento sarà presentato per ultimo. Prima dovranno votare tutte le modifiche concordate sull’Italicum, non subisco i loro ricatti». È la strategia del bastone della carota. O meglio, come riassume il renziano Roberto Giachetti, è l’antica politica del «prima moneta, poi vedere cammello».
Così è stato stabilito che la norma transitoria, che appunto vincola l’entrata in vigore dell’Italicum al settembre 2016, arriverà soltanto alla fine del percorso. Dopo che i malpancisti del nuovo centrodestra, i dissidenti forzisti e la minoranza dem — ovvero le tre aree principali di ribellione sull’Italicum — avranno votato la legge così com’è prevista nella sua ultima versione: premio di maggioranza alla lista meglio piazzata, sbarramento al 3% e, soprattutto, cento capilista bloccati. Una strategia favorita dalla circostanza che la legge elettorale è stata sradicata a forza dalla commissione e portata in aula senza relatore. Un fatto che consente ora al governo, grazie al regolamento, di essere il dominus del processo emendativo in aula. Certo, l’irrigidimento improvviso del premier, se da un lato costituisce un’arma di pressione potente sui ribelli, dall’altra rischia di far saltare il fragile equilibrio con Forza Italia. «L’accordo — ammette il capogruppo Paolo Romani — era per presentare subito la clausola di garanzia. In maniera preventiva. Ora le cose rischiano di complicarsi».
Romani conosce i suoi polli. E sa bene che, senza quella clausola, i dissidenti forzisti come Fitto e Minzolini (che da tempo, come Cassandra, mette in guardia dal presunto disegno del premier di correre al voto anticipato con l’Italicum) la nuova legge non la voteranno mai. «Prima — ha messo in chiaro Raffaele Fitto con i suoi — io quella clausola sul 2016 la voglio vedere scritta nella pietra». L’area del sospetto riguarda anche una decina di senatori Ndc, gli stessi che sabato notte stavano per far mancare il numero legale al Senato. Alcuni si conoscono: Viceconte, Esposito, Pagano, Torrisi, Aiello, Bilardi, Gentile, Colucci, Bonaiuti e Giovanardi. Vincenzo D’Anna, vicepresidente del gruppo Gal, soffia sul fuoco della rivolta interna: «Alfano ha deciso di salvare se stesso e la ristretta nomenclatura dell’Ncd lasciando tutti gli altri parlamentari al proprio destino. Chi, tra loro, non ha la vocazione del tacchino farà bene a tenerne conto quando il provvedimento sarà posto in discussione nel mese di gennaio nell’Aula del Senato».
Ma anche la minoranza dem è tutt’altro che “pacificata”. Anzi sulle preferenze torna, con Miguel Gotor e Vannino Chiti, a proporre un listino bloccato di soli 25% posti lasciando alla lotta per le preferenze il restante 75%.

il Fatto 24.12.14
La Stabilità, il modello tedesco di Renzi
Pie illusioni: l’idea è far calare il costo del lavoro in modo che le imprese (almeno le esportatrici) assumano facendo diminuire i disoccupati
intervista di  Ma. Pa.


Il ddl Stabilità ora è legge dello Stato: l’intervento economico pubblico sul 2015 è insomma in gran parte definito. È il momento, dunque, di tracciare un bilancio di quale idea di paese traccia il governo Renzi nella sua legge fondamentale.
Qual è l’obiettivo della legge di Stabilità firmata da Pier Carlo Padoan?
Intanto una premessa: i governi nazionali, specialmente di paesi con alto debito, hanno pochi margini di manovra visto che non hanno in mano la politica monetaria e quella fiscale solo in parte visti i vincoli Ue. Per uscire dalla recessione/stagnazione in cui affonda l’economia italiana, quindi, l’esecutivo s’affida al privato. Le direzioni sono due: stimolare i consumi individuali e spingere le imprese a investire.
In che modo pensa di riuscirci?
L’intervento sui consumi è abbastanza debole: si tratta della conferma strutturale degli 80 euro di bonus Irpef (che hanno inciso poco nel 2014) e della possibilità di avere il Tfr in busta paga per tre anni. Questa scelta, peraltro, non è indolore visto che la tassazione è più alta rispetto al normale. Per “incentivarla”, comunque, il governo Renzi ha anche deciso di alzare le tasse tanto sul Tfr che resta in azienda che su quello devoluto ai fondi pensione. Non proprio un atto amichevole verso il risparmio. Nel quadro di incentivi ai consumi può essere inserito anche il bonus per chi fa figli nel 2015 o l’ecobonus sulle ristrutturazioni edilizie.
E per gli investimenti delle imprese?
Questo è il vero core business della manovra e s’intreccia col Jobs Act. Renzi e Padoan hanno deciso che è la grande impresa - e in particolare quella che punta sull’export - che ci porterà fuori dalla palude. L’idea è far calare il costo del lavoro: a suo modo, è il modello tedesco. E allora il governo dà alle imprese lo sgravio completo della componente lavoro dell’Irap e la detassazione delle assunzioni per tre anni. Oggi, intanto, il Cdm dovrebbe cancellare l’articolo 18 e creare il contratto unico a tutele crescenti. “A questo punto gli imprenditori non hanno più alibi”, ha detto Renzi. Nessuno però produce per riempire il magazzino: per assumere l’imprenditore deve avere mercato.
È vero che c’è stato un taglio delle tasse da 18 miliardi?
Non proprio. Il saldo tra maggiori e minori entrate dice che la detassazione all’ingrosso vale meno di 8 miliardi, il resto sono partite di giro o meglio spostamenti di tasse da un settore all’altro. Roba che per i comuni cittadini sarà comunque ampiamente controbilanciata dall’aumento della tassazione locale (o dal taglio dei servizi come la sanità o il welfare di prossimità, che poi andranno acquistati sul mercato) dovuto ai tagli lineari sugli enti locali.
E la spending review?
Poca roba. A parte le sforbiciate su Regioni, Province e Comuni - che sono lineari alla Tremonti - il conto per i ministeri non arriva ai 2 miliardi.
Chi ci perde da questa manovra?
Sicuramente il Mezzogiorno non è stato trattato bene da questa legge di Stabilità. Una parte di quelli che Renzi chiama “risparmi di spesa” infatti - all’ingrosso 4 miliardi - sono soldi sottratti ai fondi destinati agli investimenti pubblici nel Sud. In generale, il governo Renzi ha scritto nei suoi conti che gli investimenti pubblici continueranno a calare nei prossimi tre anni. Un grave errore. Delle piccole partite Iva, invece, vi parliamo qui accanto.
Quali sono i problemi più grossi?
Come hanno scritto i Servizi bilancio di Camera e Senato il quadro macroeconomico non è del tutto credibile: le nuove entrate, ad esempio, sono in parte aleatorie (vedi la “lotta all’evasione”) e pure i dati su cui è disegnato il bilancio (crescita del Pil, inflazione, domanda interna e esterna) non paiono solidissimi. La cosa non è tranquillizzante perché a coprire il tutto ci sono le clausole di salvaguardia...
Cioè gli aumenti di Iva e accise.
Sono un eredità addirittura del governo Berlusconi (che però aveva piazzato la mina sotto forma di taglio delle deduzioni fiscali), ma sono ancora lì: si tratta di possibili aumenti di tasse e accise per 12,8 miliardi nel 2016, 19,2 miliardi l’anno dopo e 21,2 miliardi dal 2018.
Almeno la manovra è espansiva.
A stare ai numeri di Renzi nient’affatto: il deficit in rapporto al Pil oggi è al 3 per cento e a fine 2015 sarà al 2,9 per cento. Tradotto: il bilancio pubblico si contrae, non si espande.
Si parla di “marchette”.
Qualcuna ce n’è, le abbiamo elencate nei giorni scorsi. Una sembra particolarmente sgradevole: la sanatoria per le sale scommesse illegali senza neanche pagare per il passato, come pure il favore alla Sisal per rilanciare il Superenalotto. Nella stessa legge in cui si dice di voler combattere la ludopatia.

il Fatto 24.12.14
La giravolta di Renzi. Lo Stato ricompra l’Ilva
A vent’anni dalla vendita dell’acciaieria ai Riva, il governo si trova costretto a scommettere di nuovo sulla soluzione pubblica
di Giorgio Meletti


Matteo Renzi è notoriamente dotato di una certa flessibilità di pensiero che lo rende inaffidabile agli occhi dei critici. Però nel caso dell'Ilva di Taranto la consueta capriola sembra segnalare più che altro una sana dose di realismo. Il 29 maggio scorso il premier manifestò l'urgenza di affidare il gigante siderurgico a una cordata di imprenditori privati: “Così non si va avanti: c'è bisogno di un cambio di passo nel giro di qualche giorno”. Lo stesso giorno il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi incontrò i rappresentanti di Arcelor Mittal (il gruppo a guida indiana oggi leader mondiale dell'acciaio) e di Marcegaglia spa, candidati all'acquisto.
Per il gruppo italiano erano presenti il presidente Antonio Marcegaglia – che nel 2008 aveva patteggiato una condanna per aver corrotto un dirigente dell'Eni in cambio di commesse – e sua sorella, la vicepresidente Emma Marcegaglia, nominata nel frattempo da Renzi presidente dell'Eni stesso. Il quale è fornitore di gas dell'Ilva, quindi oggi suo creditore, mentre la Marcegaglia compra a Taranto le lamiere con cui fa i tubi piegandole e saldandole. Già questa fotografia avrebbe dovuto sconsigliare eccessi di entusiasmo per i mitici privati, ma Renzi era troppo lanciato: nel giro di pochi giorni fece fuori il commissario Enrico Bondi, il manager che aveva risollevato la Parmalat dal crac da 14 miliardi di Calisto Tanzi, e lo sostituì con Piero Gnudi, noto commercialista di Bologna, già ministro e presidente dell'Iri e dell'Enel. L'uomo giusto per gestire una vendita anziché un'azienda.
NEL GIRO DI SEI MESI esatti Renzi ha dovuto capovolgere il suo punto di vista. Il 30 novembre scorso l'ha detto: “A Taranto stiamo valutando se intervenire sull'Ilva con un soggetto pubblico: rimettere in sesto quell'azienda per due o tre anni, difendere l'occupazione, tutelare l'ambiente e poi rilanciarla sul mercato”. Una volta per queste operazioni c’era l’Iri, acronimo di Istituto per la Ricostruzione Industriale. Proprio l'Iri aveva costruito nel Dopoguerra la siderurgia italiana, le acciaierie a ciclo integrale (dal minerale ferroso al laminato grazie ai costosissimi altiforni), a Genova Cornigliano, Napoli Bagnoli e infine Taranto. Il problema era lo stesso di oggi. L'industria metalmeccanica italiana lavora l'acciaio. Lo trasforma in elettrodomestici, automobili, macchine utensili, guard rail per le autostrade, tralicci elettrici, barattoli di conserva. Oggi come allora dobbiamo decidere se i dieci milioni di tonnellate di acciaio che si fanno a Taranto vogliamo continuare a farceli in casa o esportarli.
IL GOVERNO ha deciso che l'Ilva va salvata, e per questo il Consiglio dei ministri di oggi dovrebbe varare, salvo sorprese, la modifica alla legge Marzano (che fu fatta per la Parmalat) che consenta l'intervento anche su Taranto. Due sono le ragioni che hanno costretto Renzi a piegarsi a una soluzione statalista.
La prima è quella ambientale. Chiudere l'Ilva perché comunque inquina troppo è illogico: significherebbe importare acciaio prodotto da impianti che inquinano altre città e uccidono altri bambini. Tanto vale mettere l'Ilva in grado di produrre senza provocare tumori a nessuno. Costa, secondo le stime del governo, 1,8 miliardi. Non c’è nessun privato che ce li voglia mettere. La storia è antica. Quando l'Ilva Laminati Piani di Taranto fu privatizzata nel 1994, l'acquirente Emilio Riva, subito dopo aver pagato circa 1.400 miliardi di lire, ne chiese indietro oltre la metà sostenendo di aver scoperto solo a cose fatte che l'impianto richiedeva massicci investimenti per contenere le emissioni nocive. Un collegio arbitrale gli dette torto e lui si guardò bene dal fare comunque gli interventi.
La seconda difficoltà è il groviglio di questioni legali e giudiziarie che incombono sull'azienda di Taranto. La proprietà è ancora della famiglia Riva, e gli eredi di Emilio, il capostipite morto il 30 aprile scorso, hanno già in campo fior di avvocati per contestare quello che considerano un esproprio a suon di decreti legge. Intorno all’Ilva si stima una nebulosa di contenziosi legali del valore totale di 30 miliardi. Gli impianti sono ancora sotto sequestro giudiziario, e il tribunale di Taranto ha imposto (per ragioni ambientali) un tetto alla produzione di 8 milioni di tonnellate all'anno. Un limite che confligge con il senso comune industriale. Le acciaierie funzionano prevalentemente con costi fissi, quindi la quantità prodotta è decisiva per la redditività: con soli otto milioni di tonnellate di acciaio sfornato Taranto non può che essere un'azienda in perdita. Infine, per finanziare il rilancio di un’azienda che oggi lavora a ritmo ridotto e perde ogni mese decine di milioni di euro, sono decisivi i soldi sequestrati ai Riva nell'ambito delle severe inchieste giudiziarie che li hanno travolti. Si tratta di 1,2 miliardi appunto sequestrati, non ancora confiscati, e quindi anch'essi a rischio di contenzioso. Difficilmente un privato si accollerebbe il rischio sia pure remoto di doverli un giorno restituire.
Le due cordate rivali – contro Arcelor Mittal e Marcegaglia c'è il siderurgico di Cremona Giovanni Arvedi con la Csn del brasiliano Benjamin Steinbruch capito che per aggiudicarsi l'ambito boccone dovranno aspettare come minimo un anno, durante il quale il vituperato Stato italiano dovrebbe rimettere le cose a posto. Operazione tutt'altro che semplice, e per la quale non a caso il presidente della commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti, ha chiesto a Renzi di mettere in campo il suo consulente di maggior spicco, l'ex amministratore delegato della Luxottica Andrea Guerra, un manager di razza come Bondi.
IL PASSAGGIO ha un suo fascino. Prima di diventare premier, Renzi amava farsi beffe degli imprenditori privati qualora, come nel caso dei Riva, avessero in passato finanziato Pier Luigi Bersani. Da quando è a palazzo Chigi riserva a tutti indistintamente lodi sperticate. Ma sull’Ilva è costretto a mettere la faccia sulle insostituibili virtù dello statalismo e anche sui suoi insopportabili difetti. Il più pericoloso è quello di sempre: quando lo Stato è inefficiente c’è sempre un privato che ci guadagna. Per esempio, molti amano ricordare che l’Ilva fu privatizzata per disperazione perché perdeva soldi a palate. Ma gli stessi fingono di dimenticare che la siderurgia statale ne perdeva metà per finanziare i partiti e le loro clientele locali, metà strapagando le imprese private fornitrici e concedendo sconti sontuosi alle imprese private che riforniva di acciaio. Una strettoia che si è riproposta pericolosamente nelle scorse settimane quando la Cassa Depositi e Prestiti (che ambisce al ruolo di nuovo Iri), non potendo per statuto mettere capitali direttamente in un’azienda in perdita come Ilva, ha pensato di finanziare la Marcegaglia. Come se il denaro pubblico potesse sostenere lo sviluppo di un’azienda privata che ha tutto l’interesse a sottopagare l’acciaio all’azienda neo-statale che si dovrebbe rilanciare.

Corriere 24.12.14
Renzi chiama un altro fedelissimo
Filippo Bonaccorsi, ex presidente di Ataf e fratello della deputata Pd Lorenza, sbarca
a Palazzo Chigi
Stipendio da 100 mila lordi l’anno: guiderà la task force per l’edilizia scolastica, piano per cui il governo ha stanziato un miliardo di euro
di Claudio Bozza

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il Fatto 24.12.14
Marino vara la giunta, sempre meno Dem

IL RIMPASTO settimane fa, lo chiedeva il Pd per contare di più nella giunta di Ignazio Marino. Ieri la squadra è stata rinnovata dal sindaco, che ora conta un solo esponente proveniente in senso stretto dalle file del Pd romano, quel Paolo Masini traghettato dal primo cittadino dai Lavori pubblici alla Scuola (tema a lui da sempre caro). In squadra confermati Guido Improta (Trasporti), Giovanni Caudo (Urbanistica), Silvia Scozzese (Bilancio), Estella Marino (Ambiente). Al Patrimonio va la fedelissima Alessandra Cattoi. Marta Leonori avrà la delega all’Expo. Il vicesindaco di Sel Luigi Nieri prende oltre al Personale la delega alle Periferie. Giovanna Marinelli conserva la Cultura e aggiunge il Turismo. Francesca Danese avrà le Politiche Sociali, Alfonso Sabella la Trasparenza, Maurizio Pucci prende i Lavori pubblici.

il Fatto 24.12.14
Roma, Cantone commissaria i primi due contratti
L’Ama, ex municipalizzata dei rifiuti e gli appalti dati agli amici di Buzzi
Tra le società fermate anche l’Edera dell’ex di “Guerriglia comunista”
di Tommaso Rodano


Roma prova a rialzarsi dalla voragine etica spalancata dall’inchiesta Mafia Capitale. Il presidente dell'Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, ha messo nel mirino le prime due aziende che avrebbero ottenuto appalti illeciti. Lunedì è stato avviato l’iter per il commissariamento di due contratti affidati al Consorzio Nazionale Servizi e alla cooperativa Edera. Il nome di queste società compare nella galassia criminale che orbitava attorno alla figura di Salvatore Buzzi. Cns e Edera avevano messo le mani su attività preziose e remunerative nel campo della raccolta dei rifiuti romani. Ora hanno 15 giorni di tempo per inviare a Cantone una memoria difensiva, poi il presidente dell’Anac potrà chiedere il commissariamento al prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro. L’ultima parola spetterà a lui.
CNS
Il Consorzio Nazionale Servizi, con sede a Bologna, è uno dei colossi della cooperazione nazionale, con un fatturato da 644 milioni di euro all’anno. Il legame con Buzzi è stretto: l’uomo della coop 29 giugno era uno dei membri del consiglio di sorveglianza. Il consorzio ha in pancia un altro indagato, Salvatore Forlenza, dirigente del settore rifiuti. Per lui l’accusa è di turbativa d’asta, anche se il gip Flavia Costantini ha escluso l’aggravante mafiosa e ha respinto la richiesta di custodia in carcere dei pm romani. Nelle carte di Mafia Capitale, il nome del Cns compare in relazione a più di un appalto. Il primo, affidato da Ama nel 2012, riguardava un bando per la raccolta dell’immondizia da 21,5 milioni di euro. Cns si aggiudicò quattro lotti su 5 e ne assegnò una parte alla 29 giugno di Buzzi. Secondo gli inquirenti, per vincere quella gara furono donati 30 mila euro alla fondazione dell’ex sindaco Gianni Alemanno. Nelle indagini il nome di Forlenza è accostato anche a un altro contratto: 12 milioni di euro per la raccolta differenziata nel biennio 2013-2014. Per gli inquirenti, Forlenza sarebbe intervenuto nelle vesti di “paciere” per cercare di sedare gli appetiti che stavano spaccando il gruppo. I dissidi erano nati proprio con la cooperativa Edera. Forlenza – si legge nelle intercettazioni – interviene “per trovare la quadra”. Il lavoro di mediazione, secondo i pm, viene “premiato” da Buzzi con una bustarellada 5 mila euro.
EDERA
Edera è una delle consorziate del Cns, con il quale si è spartita, nel tempo, una fetta sostanziosa della raccolta dei rifiuti di Roma. Come ha scritto per primo Marco Lillo sul Fatto, la cooperativa è una creatura di Franco Cancelli, ex militante del gruppo Guerriglia Comunista, con una lunga storia criminale e due omicidi alle spalle. Il primo, nel 1978, ai danni del gioielliere Giorgio Corbelli. Il secondo, nell’82, nel supercarcere di Trani, quando insieme ad altri detenuti assassinò il compagno “traditore” Ennio Di Rocco. Uscito di galera nel 2001, Cancelli si è scoperto imprenditore. Anche lui, come Forlenza, è accusato di turbativa d’asta. Dal 2012 Edera controlla uno dei cinque lotti della raccolta degli scarti alimentari. Gli altri quattro sono del Cns, grazie alla “quadra” trovata da Forlenza. Per il biennio 2013-2014, poi, Edera si è accaparrata due dei quattro lotti del servizio “porta a porta” presso il 45 per cento dei bar, ristoranti e mense di Roma. Gli altri, neanche a dirlo, sono stati vinti proprio dal Cns. Secondo il Ros, per favorire l’assegnazione, sarebbe intervenuto il consigliere regionale del Pd Eugenio Patanè, che avrebbe preteso una mazzetta da 120 mila euro. In questo fiume di denaro e immondizia, qualcuno ha peccato di “distrazione”: tutti gli appalti sono stati assegnati da Ama, l’indebitatissima municipalizzata che gestisce la raccolta dei rifiuti a Roma.

Corriere 24.12.14
Policlinico Umberto I, cercansi medici per praticare aborti volontari
Ancora sospeso il servizio aborti volontari
La direzione sanitaria dell’istituto romano ha pubblicato il bando per rimpiazzare l’unico medico non obiettore andato in pensione. Il servizio è sospeso da novembre
di Ambra Murè

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Corriere 24.12.14
Dalla destra europea al sindacato rosso
L’asse in fabbrica tra Salvini e la Fiom
di Marco Cremonesi


MILANO La giornata è gelida, e Matteo Salvini parla in un luogo leggendario nella vecchia mitologia leghista: è a Legnano, di fronte alla statua di Alberto da Giussano che ispirò a Umberto Bossi il simbolo della Lega lombarda. Ma accanto al segretario leghista, sorpresa: ecco Mirco Rota, il segretario della Fiom lombarda, la federazione più dura e più pura della Cgil. Perché Salvini non è lì per la statua. Quest’ultima, semplicemente, si trova di fronte all’ingresso della Franco Tosi, azienda con oltre 130 anni di storia che rischia di chiudere i battenti dopo la messa in liquidazione dal tribunale di Milano.
In realtà, la compresenza dei leghisti e della Fiom non è poi una gran sorpresa:
da mesi Salvini elogia i sindacalisti dei metalmeccanici. È la prima volta, però,
che i dirigenti del partito e del sindacato si trovano insieme di fronte a una fabbrica. E Salvini, il post ideologico, lo rivendica: «Non ho barriere politiche, nessuno steccato. In alcune vertenze sindacali abbiamo lavorato con la Cisl; nella vertenza della Franco Tosi,
i rappresentanti della Fiom mi sembrano quelli con le idee più chiare e i progetti più utili». Insomma: «Uno può essere rosso, bianco, giallo o verde; se però ha idee buone, io lo sostengo», ha proseguito.
Il punto è che Rota, il segretario Fiom, è più o meno della stessa opinione: «Guardi che se domani venisse Renzi, noi verremmo qui anche il giorno della Vigilia. Il problema è che Renzi non c’è». Il punto di svolta, secondo Rota, è stato il referendum promosso dal Carroccio (in attesa di ammissibilità da parte della Consulta) per l’abolizione della riforma Fornero: «Se si arriverà al referendum, noi diremo a tutti i nostri iscritti di andare a votare». E non si tratta soltanto della vertenza per la Franco Tosi: «Giusto oggi (ieri), la Regione Lombardia ha stanziato due milioni di euro per i contratti di solidarietà. Matteo Renzi, che dovrebbe essere di sinistra continua a tagliare. Roberto Maroni, che è leghista, ha stanziato le risorse perché i lavoratori accedano ai contratti di solidarietà». Con tutto ciò, Rota dice che «il parlare di collaborazione con la Lega è eccessivo».
Ma Salvini è tranquillo e continua per la sua strada. Alleandosi con i partiti europei della destra estrema da leader di un movimento che Bossi definì «antifascista». A testa bassa con il No euro che non tutto il partito apprezza. Sprezzante dell’alleanza con Forza Italia che pure in molti nel movimento si aspettano per tornare forza di governo. E la statua di Alberto da Giussano resta lì, a sognare la Lega che fu.

Corriere 24.12.14
«I nuovi ordinovisti? Cantavamo insieme le canzoni delle SS» Il repubblichino 93enne ideologo dei neofascisti «Ma quali miei adepti, sono solo chiacchieroni»
di Fabrizio Caccia


COLLI DEL TRONTO (Ascoli Piceno) Lo troviamo intento a disegnare un lupo, «l’animale per eccellenza simbolo di ferocia e violenza, non è così?», ironizza Rutilio Sermonti, 93 anni e la mano ancora ferma, col pennino che tratteggia alla perfezione l’animale digrignante sotto lo sguardo fiero della sua seconda moglie, Krisse, Clarissa, nata in Finlandia e «sposata davanti al sole, con rito solo nostro, in cima al Monte Pellecchia, in Abruzzo, a 2 mila metri d’altezza, molto vicino al nido delle aquile...».
La notte del 22 dicembre a casa sua sono arrivati i carabinieri: «Erano le tre, dormivamo — ricorda Sermonti —. Si sono messi a fare luce con le torce contro le nostre finestre. “Aprite!” ci dicevano. E noi due, spaventatissimi: “Neanche per sogno, ora chiamiamo la polizia”. Alla fine ci hanno convinti, sono entrati e si sono messi a perquisire la casa, portando via il computer. Bene, io dico, perché nel mio computer c’è tutta la verità. E quello che penso è scritto nei miei libri».
Secondo la Procura dell’Aquila, invece, sarebbe proprio lui — l’ex repubblichino, tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano e poi di Ordine Nuovo — l’ideologo di «Aquila Nera», il grande vecchio che avrebbe ispirato con le sue teorie rivoluzionarie il progetto terroristico della banda di «Avanguardia ordinovista», il gruppo di neo-fascisti che avrebbe voluto sovvertire la Repubblica a colpi di attentati, rapine e omicidi. Ma lui non ci sta: «Avanguardia ordinovista? Mai sentita nominare. La verità è che io sono l’ideologo di tanti che non conosco, che leggono i miei libri e poi chissà cosa gli viene in mente. E chi sarebbero i miei adepti? L’ex carabiniere Stefano Manni e sua moglie Marina? Sì, ora ricordo, son venuti più volte qui a casa mia...».
La signora Clarissa rammenta che venivano «quasi in adorazione», il signor Manni, la moglie e altri che i coniugi Sermonti chiamavano «il gruppo di Pescara». «Vennero da noi tre o quattro volte, erano simpatici, amichevoli, poi mettevano su Facebook le mie foto e i miei testi».
E passavano le ore a farsi raccontare da Rutilio i tempi della guerra o di quando giurò davanti al Duce allo Stadio dei Marmi il 28 ottobre 1938. E qualche volta cantavano anche, tutti insieme, le canzoni fasciste («Diventiamo tutti eroi con la morte a tu per tu») oppure delle SS («Waffen Waffen Waffen»), ma senza mai accennare a propositi bellicosi, come quello di uccidere i politici e gli extracomunitari e addirittura replicare la strage dell’Italicus e «carbonizzare» il capo dello Stato.
«Chi è Stefano Manni? Solo un millantatore — s’indigna Rutilio Sermonti sulla sua sedia a rotelle —. Un chiacchierone che riempiva i discorsi di fregnacce e bla-bla-bla. Uno a cui piaceva sentirsi qualcuno. Ma per essere qualcuno bisogna fare qualcosa e lui non ha mai fatto niente. Manni il deus ex machina dell’organizzazione? Ma scherziamo, al massimo della macchina del caffè...».
Il vecchio pittore e scrittore, autore con Pino Rauti di «Una storia del fascismo», confessa di sentirsi preso in giro: «Manni l’ultima volta mi promise mille euro per dare alle stampe il mio ultimo libro “Non omnis moriar”, ma il suo bonifico ancora l’aspetto e due mesi fa gli scrissi al computer un elenco di insulti che i carabinieri potranno riscontrare. Da quel giorno chiusi con lui».
Rutilio Sermonti è fratello di Giuseppe lo scienziato e Vittorio l’illustre dantista: «Giuseppe mi ha telefonato appena saputa la notizia dal telegiornale, con Vittorio non ci vediamo da sette anni e mi piacerebbe tanto riabbracciarci, come quando un tempo ci vedevamo a Roma al ristorante di mio nipote Andrea, il figlio di Giuseppe, a Trastevere».
Oggi fanno impressione i suoi racconti dal fronte jugoslavo, dopo l’8 settembre, lui arruolato nella Schutzpolizei («Gli ufficiali tedeschi amavano ripetere: con Sermonti non si muore...»).
Senza l’ombra di un pentimento, neppure un dubbio sul fatto di essersi schierato coi nazisti. Anzi mostra con orgoglio la croce di ferro della Wehrmacht appesa al muro, vicino a un manifesto di Julius Evola e a una foto in bianco e nero di Pio Filippani-Ronconi («Mio grande amico») con l’uniforme delle Waffen-SS. «È vero, sono un ideologo — conclude Sermonti —. Ma non della violenza! Uccisi della gente, in guerra, con la mitragliatrice: ma appunto solo in guerra uccidere è legittimo, per me! La violenza popolare io l’ho prevista, mai incoraggiata».

il Fatto 24.12.14
Inchiesta sui neo-ordinovisti
Facebook non collabora
di Antonio Massari


Di un fatto siamo certi: erano vicini a compiere un’azione irreparabile – ragiona l’investigatore – ma questi arresti sono repressivi per il 10 per cento e preventivi per il 90, perché abbiamo dovuto fermarli prima, proprio per evitare il rischio che l’irreparabile diventasse realtà. Quindi non sapremo mai fin dove sarebbero potuti arrivare”. L’inchiesta “Aquila nera” della Procura di L’Aquila, che conta 41 indagati in tutta Italia e 14 arresti nel movimento Avanguardia ordinovista, non racconta solo la storia di un gruppo deciso a colpire e a rapinare armi per raggiungere l’obiettivo. Racconta l’organizzazione del terrorismo (e dell’Antiterrorismo) nell’era di Facebook. Non è un caso che gran parte dell'inchiesta sia stata realizzata attraverso intercettazioni nei pc con l’introduzione di uno “sniffer” che captava chat private dove si puntava a colpire le sedi di Equitalia con i loro dipendenti. E non è un caso che il Ros dei carabinieri si sia imbattuto nel rifiuto di Facebook a collaborare alle indagini quando, nel tentativo di identificare un uomo al quale l’organizzazione intendeva chiedere soldi per raggiungere i propri scopi, la società di Zuckerberg s’è rifiutata di concedere la “rogatoria internazionale” al fine di “identificare la persona che ha generato il profilo”.
RICERCA DI SOLDI e proseliti: gran parte dei quest’attività, per Avanguardia ordino-vista, s’è svolta su Facebook e sulle sue chat. Hanno soldi per acquistare armi in Slovenia ma, per un incidente all’auto, l’affare salta. Decidono di rubarle a un collezionista, ma la Procura le sequestra prima che possano rapinarle. La loro ostinazione nel cercare armi, soldi e proseliti e concreta. Ed è proprio lì, su Facebook, che i militari devono affacciarsi, per riuscire a infiltrarsi nell’organizzazione, incontrare di persona i membri e conquistarne la fiducia, fino a scoprire che qualcuno si presenta con armi da fuoco alle riunioni. L’obiettivo di Avanguardia ordinovista sulla rete è chiaro: “Sto collaborando con un gruppo che li ho conosciuti sul nascere – dice l’arrestato Franco Grespi – e ho allargato un po’ di contatti... sono i Nazionalisti Friulani... partiamo dal Friuli... e andando in giù vediamo di abbracciare tutti i nazionalisti d’Italia... ”. Il leader Stefano Manni è costantemente in contatto con l'avvocato napoletano Nicola Striusciuoglio che su Facebook edita la pagina “Uomo Nuovo”, un movimento che si occupa di ex detenuti. Strisciuoglio confessa a Manni di avere migliaia di contatti e un solo “drammatico e amletico dubbio”: “Doverli indirizzare poi verso qualche cosa… mi si mettono a disposizione”, il “movimento (Uomo Nuovo, ndr) su Fb ha 5.300 adesioni, levane 1.000 che fanno schifo, ma noi abbiamo sotto veramente persone che partecipano... è un peccato buttare una forza umana di questo tipo... ”.

il Fatto 24.12.14
Ridateci i colonnelli
Fascisti su Marte, ma via Facebook
di Nanni Delbecchi


Nemmeno i fascisti sono più quelli di una volta. Il che, per un Paese fondamentalmente fascista da sempre, è una bella mazzata, da gettare nel dubbio anche Pasolini. Bei tempi – per le camicie nere – quelli in cui Ordine Nuovo trescava con i Servizi, seminava stragi, progettava golpe e, insomma, le trame erano una cosa seria. “Trama nera, trama nera, sol con te si fa carriera”, cantava fiero il gruppo Gli amici del vento.
Caro, vecchio Ordine Nuovo. Ma che dire di questi neoavanguardisti ordinovisti sgamati dall'operazione “Aquila Nera”, capitanati dall’ex carabiniere Stefano Manni, infiltrata di peso nelle istituzioni una consigliera comunale di Poggiofiorito (e ho detto Poggiofiorito), agenti provocatori sparpagliati per tutte le province d’Italia, gemellati con Militia Christi e base operativa a Montesilvano, prova evidente che anche il terrorismo ha scoperto la delocalizzazione?
Costoro si richiamavano alla famigerata organizzazione neofascista in continuità con l’eversione degli Anni Settanta, e per questo sono stati incarcerati, ci mancherebbe. Ma certo che, se si vanno a vedere i loro progetti e soprattutto le loro radici, ci si trova di fronte a un declino clamoroso. Farneticazioni omicide di Mein Kampf a parte (non a caso amate anche da Manni e compagnia), il pensiero di destra mescola da sempre orrore e profondità. Un calderone ribollente a base di teoria della razza, culto delle élite, superomismo, cicli cosmici, fiamme, rune e asce bipenni in cui tra tanta paccottiglia ci si può imbattere anche in Nietzsche, Heidegger, Guenon, Céline, Tolkien e, ci vogliamo rovinare, anche in Evola e Malaparte.
MA QUELLI di “Aquila nera” più che della terra degli Hobbit sembrano frequentatori di Il mio hobby; nel loro caso il ciclo non è cosmico, ma decisamente comico. Sognavano di uccidere Giorgio Napolitano o in subordine almeno Pier Ferdinando Casini. Ma nella pratica quotidiana avevano anche obiettivi più alla mano, come coprire di insulti gli extracomunitari sui social network, un occhio di riguardo per l'ex ministro Cécile Kyenge con virile sprezzo della macumba. E poi, l’hobby prediletto: progettare rapine e attentati proprio come se fossero modellini di aeroplani. Dal sogno nel cassetto, “riprendere la strada dell'Italicus su ampia scala”, a quello più realistico ma anche creativo l’attentato a Equitalia “con i dipendenti dentro” (tutta un’altra cosa, diciamolo, se i dipendenti sono in pausa pranzo). Se tanto mi dà tanto, il cerchio dei riferimenti culturali si restringe parecchio. Addio Nietzsche, Guenon e Céline. Il Pantheon di Manni parte da Calderoli e Borghezio, passa per Ben Hur (“Siamo figli di Roma imperiale. Siamo eredi di un glorioso passato”), il reality I re della griglia (“Voglio sentire odore di carne bruciata”), il capo della Spectre che sogna di distruggere il mondo schiacciando un pulsante, il Corrado Guzzanti di Fascisti su Marte, alla conquista del Pianeta rosso al grido di battaglia di “A mali estremi, estrema destra”, e si conclude trionfalmente con gli ufficiali nostalgici reclutati dall’onorevole Giuseppe Tritoni (alias Ugo Tognazzi) in Vogliamo i colonnelli di Monicelli.
Certo che per essere delle aquile nere volavano piuttosto basso.
Un momento però; c’era anche l’ideologo di riferimento, il padre nobile del “nuovo ordine nuovo”, seppure non nuovissimo di suo, visti i 94 anni compiuti. L’ex repubblichino Rutilio Sermonti, che si era evoluto dai tempi di Salò al punto da confezionare una Carta costituzionale nei cui articoli venivano messi nero su bianco il divieto ai diritti politici e l'obbligo per le donne di restarsene dentro casa, ai fornelli. Insomma, questi camerati con uso cucina che discutevano i loro progetti eversivi su Facebook (però sui canali riservati agli amici, le precauzioni non sono mai troppe) e sognavano la dittatura per via costituzionale, sono oltre i Fascisti immaginari descritti da Luciano Lanna e Filippo Rossi e anche oltre i Fascisti su Marte. Questi sono fascisti economici, taroccati da qualche fabbrichetta clandestina. Nella Storia, dice Marx, le tragedie ritornano in forma di farsa, ma questi avanguardisti sono peggio nella farsa che nella tragedia. Aridatece i colonnelli.

il Fatto 24.12.14
Non scherziamo
Attenzione prima di ridere, anche Mussolini fu sbeffeggiato
di Angelo d’Orsi


Quando Benito Mussolini era ai primi passi della carriera di fascista, dopo aver salito rapidamente i gradini di quella di dirigente socialista, fu perlopiù irriso dai suoi ex compagni. Alle elezioni del novembre 1919 – i Fasci erano stati fondati a marzo – il futuro duce rimediò una sonora sconfitta, e l’Avanti!, organo del Psi, titolò: “Un cadavere è stato ripescato nel Naviglio. Trattasi di Benito Mussolini”. In realtà i Fasci si riorganizzarono, ricevendo finanziamenti dai ceti possidenti, prima agrari, poi anche industriali e un aiuto diretto o indiretto dalle stesse istituzioni: magistratura, carabinieri, esercito, e dall’autunno del 1920, fallita l’occupazione delle fabbriche, ripartirono e si intensificarono le “spedizioni punitive”, disegnando una scia di sangue lungo la Penisola, e durò un intero biennio. Ma prima che si comprendesse il pericolo rappresentato dalle camicie nere, e dal blocco sociale che si stava costituendo, di cui le “squadre d’azione” erano il braccio armato, ne passò di tempo. Liberali, cattolici, socialisti e poi i neonati comunisti, furono unificati da una assoluta sottovalutazione di quel pericolo. A destra si era certi di poter governare quel romagnolo ambizioso, usandolo opportunamente finché fosse stato necessario per “dare una lezione ai socialisti”, per poi dargli il benservito; a sinistra addirittura non si colse la differenza tra Giolitti e Mussolini, ritenendo che la classe dominante avesse semplicemente “cambiato spalla al fucile”. Sappiamo come andò a finire.
Gli arresti di ieri hanno messo in luce un reticolo di cellule fasciste, pronte a tentare, secondo i precetti mussoliniani, rivisitati dal neofascismo anni Settanta, l’assalto allo Stato, giudicato imbelle, ossia cedevole verso tutto ciò che in qualche modo rappresenta, nell’immaginario dell’ignorante, “la sinistra”. Esattamente la linea del fascismo classico.
EPPURE, c’è da rimanere perplessi davanti ai del resto prevedibili commenti (Sono quattro buffoni, Il fascismo è morto e sepolto, La democrazia è salda, Esiste l’Unione europea che ci difende, comunque…): siamo proprio sicuri che non esista quel pericolo? Basterebbe anche una sommaria ricognizione di quel che sta avvenendo a livello internazionale, a cominciare proprio dall’Europa a far vacillare quella sicurezza. In Grecia esiste Alba Dorata: se ne parla poco negli ultimi tempi, ma si tratta di un movimento politico e militare vivo e vegeto, con caratteri squisitamente fascisti.
E che dire dell’Ucraina? Là addirittura un colpo di Stato eseguito da elementi locali, con l’occulto sostegno degli Usa e della stessa Ue, ha visto come protagonisti gruppi neonazisti, con forti legami internazionali. E ora quelle forze sono al governo, insieme ai “liberali”. Nei Paesi Baltici (si veda ora l’arresto di Giulietto Chiesa in Estonia, “colpevole” di essere in procinto di tenere una conferenza sulla situazione geopolitica dell’Est europeo), come in generale nel blocco ex sovietico, i rigurgiti di fascismo sono forti, e attecchiscono nelle forze di governo; movimenti che un tempo avremmo francamente etichettati fascisti, e che ora pudicamente chiamiamo xenofobi e razzisti, si stanno facendo largo in tanti Stati dell’Unione, dalla Francia all’Inghilterra, dall’Olanda alla nostra Italia, addirittura divenuta teatro di un raduno internazionale pochi giorni or sono a Milano: un bel biglietto da visita per l’Expo!
E la cronaca politica, quando si tratta di fascisti, vecchi e nuovi, si intreccia inevitabilmente con la cronaca nera: assalti, aggressioni, intimidazioni, devastazioni. Siamo sicuri che stragi come Piazza Fontana, stazione di Bologna, treno Italicus, Piazza della Loggia e così via, le possiamo rivedere solo nei vecchi, sbiaditi fotogrammi? E intanto il nuovo fascismo opera su altri terreni – scuola, giornalismo, editoria – per produrre egemonia. Casa Pound è una realtà ormai molecolare con cui occorre fare i conti.
Certo, a leggere le intercettazioni telefoniche dei protagonisti, il “complotto nero” ha caratteri più di farsa che di tragedia, ma anche i gesti di Mussolini e dei suoi “quadrumviri”, suscitavano ilarità. Eppure... Insomma, saranno pure “fascisti su Marte”, ma la lezione della storia ci invita a non sottovalutare mai l’avversario.

il Fatto 24.12.14
Corsi e ricorsi. Dall’Uomo Qualunque al M5S
Grillini tra espulsioni e fughe. Tutto già visto con Giannini
di Fabrizio d’Esposito


Messa così, un grillino ortodosso può accusare Giorgio Napolitano, tra le tantissime cose, di portare pure sfiga. Fu Re Giorgio, infatti, a fare il paragone tra il Movimento 5 Stelle e l’Uomo Qualunque e a prevedere: “I partiti sono insostituibili. L’Uomo Qualunque sparì senza lasciare alcuna traccia”. Era il 2012 e il Colle – infrangendo peraltro la Costituzione che impone al capo dello Stato di rappresentare l’unità nazionale – schernì il successo pentastellato alle amministrative e disse di non aver sentito alcun boom. Da allora sono passati due anni e il Movimento 5 stelle dopo aver raggiunto il climax alle politiche del 2013, 163 parlamentari e più di otto milioni e mezzo di voti, ha iniziato un’allarmante parabola discendente, con tre milioni di voti in meno e 26 tra deputati e senatori andati via o espulsi su 163 iniziali. Un’emorragia che richiama appunto la meteora qualunquista del biennio 1946-1947.
L’UQ (che suona, in senso onomatopeico, quasi come il britannico Ukip) fu fondato da un napoletano col monocolo di nome Guglielmo Giannini, commediografo e giornalista. L’Uomo Qualunque fu dapprima un giornale, arrivato a vendere 850mila copie, e poi nel 1946 si ritrovò in Parlamento con quasi quaranta deputati, quinta forza politica. Nel ’47 esplose alle amministrative col venti per cento ma le faide interne e la contestazione al leader, ritenuto autoritario e dittatore, nel ’48 lo condannarono all’estinzione parlamentare, con appena cinque deputate alle politiche. Le analogie con il Movimento 5 Stelle sono tante e non solo perché Beppe Grillo ha iniziato con il blog ed è finito con i gruppi a Montecitorio e Palazzo Madama. La questione più evidente riguarda il processo di erosione e di autodistruzione che può investire una forza che nasce e prospera sull’antipolitica. I qualunquisti fondevano comunisti e fascisti nel nomignolo di “cameragni”, camerati più compagni, Grillo invece ha scovato la formula “Pdmenoelle”, riferita al Pd. L’effetto è lo stesso ma quando poi il gioco diventa parlamentare, cioè politico, la cosiddetta purezza delle origini deve fare i conti con le ambizioni personali, l’arrivismo, la democrazia interna.
L’Uq aveva un’anima profonda di destra e si squassò sulla tentazione di dare la fiducia all’esecutivo dello statista dc Alcide De Gasperi, dopo che gli aiuti americani del piano Truman estromisero il Pci dal governo. Giannini voleva fare blocco con le sinistre per far cadere De Gasperi ma questo scatenò la rivolta interna dei pretoriani, che accusarono di autoritarismo il leader dell’Uq e votarono comunque la fiducia al premier democristiano. In pratica, l’antipolitica si fece partito con tutti i difetti del professionismo della politica. Quasi settant’anni dopo, il punto di partenza è sempre lo stesso, la purezza delle origini, ma lo svolgimento grillino è stato opposto per tenersi lontani dalle trattative e dalle tentazioni. Tuttavia, il problema dell’erosione è rimasto intatto. Anche perché perdere una percentuale di parlamentari superiore al 10 per cento innesca storicamente una dinamica di dissoluzione. Importante notare, poi, come il flusso di questa continua scissione grillina è pressoché unilaterale, verso l’area di governo e di centrosinistra, e conferma il fastidio per un’inclinazione populista e isolazionista dei vertici. Come nel caso dell’Uq, il punto di rottura totale potrebbe avvenire tra il leader e il gruppo parlamentare.
Per un partito radicare e sviluppare il consenso è sempre un’operazione complessa. La politica è una scienza esatta ed è forse utile ripassare un po’ le cronache repubblicane, antiche e nuove. Nell’ultimo ventennio, per esempio, l’unica forza nuova e antipolitica che ha resistito allo stillicidio delle espulsioni e delle scissioni è stata la Lega, basata a lungo su una gestione leninista del capo, Umberto Bossi. Al contrario, il vero declino di Silvio Berlusconi, che inizialmente fu un altro fenomeno di antipolitica, ha il marchio di due scissioni e mezzo in soli quattro anni: i finiani di Fli, gli alfaniani di Ncd e adesso i ribelli fittiani.
A FRONTE di espulsi e fuoriusciti, perlopiù senza futuro politico, l’unico dato che può rincuorare Grillo è la percentuale ancora alta nei sondaggi, intorno al venti per cento. Ma senza una selezione darwiniana della classe dirigente (e non un direttorio calato dall’alto), quel venti per cento produrrà la prossima volta meno parlamentari del 2013, che a loro volta saranno protagonisti di altri dissidi e polemiche. E così via in un circolo vizioso che terminerà con l’estinzione del movimento. Un’incognita pesante è infine il ruolo di Grillo. Quanto pesa il suo volto? Scelta civica, nel giro di un anno, senza Monti è passata dall’8 per cento allo zero e qualcosa. La mobilità del voto e l’astensionismo sono un miscuglio micidiale, senza considerare le sirene della nuova Dc di Matteo Renzi.

Repubblica 24.12.14
Il pianto di Nathan Englander “Che orrore New York ferita dal razzismo”
Lo scrittore parla dell’omicidio dei due poliziotti e delle polemiche sul sindaco de Blasio
intervista di Antonella Guerrera


«L’ALTRA notte, mentre tornavo a casa, ho pensato ai due poliziotti morti. Mi è sembrato di essere ripiombato a Gerusalemme, nelle sue brucianti ferite. Allora ho pianto. Ma New York ce la farà. Supereremo le ansie, le divisioni di questi giorni, questo Natale così teso. New York vince sempre». L’esecuzione degli agenti Wenjian Liu e Rafael Ramos, giustiziati lo scorso weekend dal giovane nero Ismaaiyl Brinsley, è «orrore puro» per Nathan Englander: «È accaduto a poche centinaia di metri da casa mia, stavo scrivendo il nuovo libro. Ho subito capito che si trattava di una tragedia». Il grande scrittore americano (ultimo libro “Di cosa parliamo quando parliamo di Anna Frank”, Einaudi) vive proprio a Brooklyn, il quartiere della strage. Ma non rinuncia all’ottimismo. Per Englander la speranza di Stati davvero Uniti deve ripartire proprio dalla multiculturale e accogliente New York. Nelle ultime ore il sindaco de Blasio e i sindacati di polizia, dopo roventi polemiche e accuse incrociate, hanno stretto una tregua, almeno fino ai funerali dei due agenti. E proprio quella per Englander sarà l’occasione della riuccisioni conciliazione, nonostante molti poliziotti abbiano già intimato a de Blasio di non farsi vedere: «Finalmente la politica ne rimarrà fuori e forse tutti rinsaviranno».
Come vive New York questi giorni così torbidi?
«C’è molta tensione in città, lo si percepisce anche dagli sguardi in metropolitana. Per un momento ho riprovato le angosce di Gerusalemme, dove ho vissuto per un po’: una città che ami, ma che ti spezza il cuore. Tuttavia, come ci ha insegnato l’11/9, non bisogna mai perdere la lucidità. Siamo attratti dal caos. Ma il nostro compito è quello di mettere ordine».
Molti giornali americani ricordano le tensioni a New York degli anni Settanta. È un paragone fondato?
«No. Oggi la città è incredibilmente sicura. Niente a confronto di anni fa, quando era davvero pericolosa. Ma vedo che purtroppo in molti continuano a diffondere assurdità».
A chi si riferisce?
«A poliziotti e politici come l’ex governatore Pataki che definiscono l’omicidio dei due agenti una conseguenza delle recenti manifestazioni organizzate dopo le degli afroamericani Michael Brown e Eric Garner. Questo è falso e pericolosissimo: manifestare pacificamente è un diritto inalienabile, così come darei la vita perché i prigionieri di Guantanamo possano avere un giusto processo. Le manifestazioni di New York sono state pacifiche e meravigliose: vi hanno preso parte bianchi, neri, asiatici, chiunque. E neanche un dramma può negare questo diritto. Altrimenti ci si autocensura, come accaduto con il film “The Interview”. Il fatto che Brinsley abbia partecipato a quelle proteste non significa niente».
Che idea si è fatto del killer?
«Era un pazzo scatenato, tanto che prima ha sparato alla sua ex ragazza, e certo non perché aveva partecipato alle proteste. Lo scorso settembre, in Pennsylvania, un altro psicopatico, Eric Frain, ha ucciso brutalmente un poliziotto, in circostanze simili. Ma Frain non era nero e, guarda caso, i media di destra sono rimasti mansueti. Mentre, per un repubblicano come Rand Paul, se il disarmato Eric Garner muore dopo essere stato braccato dalla polizia con delle sigarette sfuse in mano, la colpa non è degli agenti, ma della tassa sui tabacchi. Si rende conto? Finché gli irresponsabili faranno il tifo per una parte o per l’altra, non ne usciremo mai».
Però Brinsley, prima di sparare, ha rivendicato il suo gesto legandolo direttamente alle uccisioni di Brown e Garner. Non crede che il suo caso sia diverso da quello di Frain?
«Questo è vero. Ma ripeto, come il matto della caffetteria di Sydney che invocava la jihad, secondo me il suo feroce gesto non ha nulla a che fare con la questione razziale in America. Che certo è innegabile, così come lo sono le laceranti disuguaglianze di questo Paese: quando eravamo giovani io e i miei amici bianchi non siamo mai stati fermati nemmeno per uno spinello; mentre se sei nero ancora oggi un bambino di 12 anni con una pistola giocattolo viene freddato dopo due secondi. Molti americani purtroppo hanno perso fiducia nella giustizia. Ed è comprensibile se, per esempio, negli ultimi decenni solo una manciata di poliziotti su migliaia che hanno ucciso persone disarmate è finita sotto processo. Ma, nel caso specifico, la vera questione è: perché in certi Stati degli Usa un malato di mente come Brinsley, già beccato dalla polizia quasi venti volte, può acquistare un’arma letale? Chi ha permesso questa cosa è criminale quanto lui».
Secondo lei, de Blasio ha sbagliato a dire quella controversa frase “dico sempre a mio figlio di stare attento ai poliziotti”?
«Ha detto la verità. Ma de Blasio deve capire che un politico non può sempre dire la verità».
E dei poliziotti newyorchesi accusati di “fare solo politica” lei che ne pensa?
«Non me la sento di affibbiare questa colpa agli agenti. Io quando vedo un poliziotto a New York sono felice, perché fanno un lavoro straordinario e mi sento davvero al sicuro. Ma questa sicurezza devono percepirla tutti, bianchi e neri. È questo il passo decisivo che dobbiamo compiere».

Corriere 24.12.14
L’Ucraina rinuncia alla neutralità
Ira della Russia: «Reagiremo»
Il voto del Parlamento di Kiev apre la strada all’adesione futura alla Nato
di Fabrizio Dragosei


MOSCA La decisione del Parlamento ucraino è arrivata proprio alla vigilia di quello che doveva essere il round decisivo dei colloqui di pace tra Kiev e i separatisti: il Paese abbandona il suo status di non-allineato e imbocca la strada dell’adesione alla Nato. Una strada assai lunga e incerta che però ha già suscitato vivaci reazioni in Russia. E che renderà certamente difficile il lavoro di Francia e Germania che dovrebbero agire da mediatori nel corso delle trattative previste a Minsk, in Bielorussia.
La Rada, nella quale la parte russofona del Paese non è praticamente più rappresentata da quando il Sudest ha dichiarato la secessione, ha votato quasi all’unanimità con soli nove contrari. Kiev intende così avvicinarsi sempre più all’Occidente e all’Europa, come ha detto il presidente Petro Poroshenko. Da Bruxelles la Nato ha fatto sapere che «le porte sono aperte» anche se in realtà molti Paesi membri giudicano l’ipotesi di adesione dell’Ucraina piuttosto pericolosa, visto lo stato delle relazioni con la Russia. In ogni caso Kiev non è attualmente nelle condizioni economiche, civili e militari per poter essere accettata nell’Alleanza. In più, il fatto che ci sia un conflitto armato all’interno del Paese (con oltre 4.700 morti fino ad ora), rende praticamente impossibile l’ingresso nell’organizzazione atlantica.
È chiaro che a questo punto sarà comunque molto più difficile, per non dire impossibile, raggiungere una intesa con i separatisti che vedono come il fumo negli occhi l’ipotesi Nato. Inoltre è bene ricordare che in epoca non sospetta, prima dello scoppio del conflitto, buona parte della popolazione ucraina si era espressa contro l’adesione all’alleanza militare.
Il Parlamento ieri ha anche votato una mozione per impegnare il governo a chiedere l’espulsione della Russia dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Altra iniziativa che non contribuirà certo ad allentare la tensione. Questo mentre la tregua decisa all’inizio del mese sembrava tenere, nonostante sporadici scontri e sparatorie.
Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha definito il voto della Rada «controproducente e certamente non nell’interesse dell’Ucraina». Lavrov ha detto che le decisioni prese oggi «rafforzano il partito della guerra a Kiev». Il primo ministro Dmitrij Medvedev è andato oltre, sostenendo che l’avvicinamento alla Nato «trasforma l’Ucraina in un potenziale avversario militare della Russia». Secondo il premier, il suo Paese «dovrà reagire».
Le trattative di pace che iniziano oggi dovrebbero risolvere due punti cruciali. I separatisti vogliono che Kiev riprenda il trasferimento di fondi statali alle aree sotto il loro controllo, mentre il presidente Poroshenko chiede che vengano annullate le elezioni tenute nelle scorse settimane sotto il controllo dei filorussi. Ma ora sarà assai difficile arrivare a un compromesso.
Proprio mentre la Rada votava, a Mosca Putin celebrava la creazione ufficiale dell’Unione economica euroasiatica alla quale avrebbe dovuto partecipare anche l’Ucraina. Ne fanno parte invece, oltre alla Russia, solo Kazakistan, Armenia, Kirghizistan e Bielorussia .

Corriere 24.12.14
Cresce il rischio del colpo di coda di Vladimir Putin
di Luigi Ippolito


L’Ucraina nell’Unione Europea, per la Russia, è un brutto sogno. Ma l’Ucraina nella Nato è semplicemente un incubo. Il primo ministro di Mosca Dimitrj Medvedev ha subito avvertito che ci saranno «conseguenze» al voto con cui Kiev ha abbandonato il suo status di neutralità. Perché un’Ucraina inserita nelle strutture militari occidentali sarebbe vista dal Cremlino come una minaccia strategica diretta. Si può dire che tutta la politica estera russa negli ultimi dieci anni è stata una reazione a quello che è stato percepito come un tentativo di accerchiamento da parte dell’alleanza euro-americana: un tentativo portato avanti attraverso le cosiddette «rivoluzioni colorate» che hanno attraversato i Paesi ex sovietici, dalla Georgia al Kirghizistan. Di più, la politica di «partnership orientale» dell’Unione Europea, mirata a offrire un ancoraggio economico e politico ai Paesi usciti dall’Urss , è stata letta come una deliberata erosione della tradizionale sfera d’influenza russa: una strategia cui Mosca ha risposto lanciando la propria Unione euroasiatica. Ora, è vero che quella presa ieri dal Parlamento di Kiev è una decisione sovrana: come ha detto nel recente passato Barack Obama, è tramontata l’epoca delle sfere d’influenza e del diritto di veto sui propri vicini. Se l’Ucraina chiede liberamente di entrare nella Nato e nell’Unione Europea, ha tutto il diritto di farlo. Ciò non toglie che il tempismo dell’iniziativa rischia di essere controproducente. In questo momento la Russia è in un angolo: il crollo del prezzo del petrolio e le sanzioni occidentali hanno spinto l’economia in recessione, il rublo è in caduta libera, la fuga di capitali ha raggiunto proporzioni spaventose, molte aziende e banche sono sull’orlo della bancarotta per l’eccessivo indebitamento. In queste condizioni il rischio è quello di un colpo di coda di Vladimir Putin, che potrebbe essere tentato di rilanciare pericolosamente la sfida per uscire dalla trappola. E la prima vittima della reazione sarebbe sicuramente l’Ucraina.

Corriere 24.12.14
Cina e Corea del Nord. Complicità e divergenze
risponde Sergio Romano


Nella lunga disputa fra la Corea del Nord e gli Stati Uniti non è tanto il minaccioso atteggiamento del dittatore comunista che stupisce, quanto la sorniona indifferenza, ai limiti della complicità, del colosso cinese.
Lei pensa che questo comportamento — che
si traduce alla fine in un punzecchiamento provocatorio della pulce nordcoreana ai
danni degli Usa — possa far parte della strategia diplomatica di Pechino? Ma, in ultima analisi, considerati i colossali interessi economico-finanziari della Cina in territorio americano, non potrebbe ritorcersi proprio a suo danno?
Lorenzo Milanesi

Caro Milanesi,
Fra la Cina e la Corea del Nord vi è un rapporto di reciproca convenienza. Isolato dal mondo e colpito da sanzioni che ne limitano considerevolmente la libertà di movimento, il regime di Pyongyang ha bisogno di un alleato che gli permetta qualche scambio commerciale e incuta rispetto ai suoi nemici; mentre la Cina ha interesse all’esistenza di uno Stato che le garantisce la divisione della penisola. La riunificazione, se avesse luogo, avverrebbe dopo un conflitto sanguinoso e potrebbe avere per effetto l’allargamento dell’influenza americana sino al confine cinese. È questa la ragione per cui Pechino, negli innumerevoli incontri degli scorsi anni con Giappone, Russia e Stati Uniti, si è sempre opposta a qualsiasi misura che avrebbe potuto rafforzare la presenza militare americana nella regione.
Questo non significa che ai cinesi piaccia l’atteggiamento ribaldo e provocatorio dei nordcoreani. Non desiderano avere una potenza nucleare sui loro confini e hanno spesso cercato di frenare le ambizioni di Pyongyang. Recentemente questi malumori sono stati espressi pubblicamente da un generale cinese, Wang Hongguang, in un articolo pubblicato da un giornale e successivamente riprodotto sul sito ufficiale dell’Esercito popolare di liberazione. Secondo resoconti apparsi sulla stampa americana, Wang ha accusato la Corea del Nord di avere violato, con i suoi esperimenti nucleari, il principio della consultazione reciproca, iscritto nel Trattato di reciproca difesa stipulato fra i due Paesi. Ha detto anche che la Cina ha già dovuto «fare pulizia» parecchie volte dopo i guai provocati dalla Corea del Nord, e che non è tenuta a farlo in futuro. Non tutti i cinesi condividono le idee di Wang. Lo stesso giornale, qualche giorno prima, aveva pubblicato l’analisi di uno studioso per cui la Corea del Nord è un capitale strategico a cui la Cina non può rinunciare. Ma negli ambienti militari cinesi la politica della Corea del Nord sembra provocare disagio e insofferenza.

Repubblica 24.12.14
Nei bar dell’Avana aspettando i gringos. Su affari e socialismo le mani dell’esercito
Raúl Castro insiste: nessuno può toccare la nostra indipendenza
Ma il potere delle forze armate è oggi l’unica certezza
L’isola si interroga sul suo futuro
Gli Usa aboliranno l’embargo? Arriveranno gli investimenti in dollari?
di Bernardo Valli


I generali sono presenti in tutte le massime istituzioni e appoggiano la svolta
Il regime rischia la bancarotta. E con gli americani gli scontri non mancheranno

L’AVANA BEVO un “mojito” alla Bodeguita del Medio. Per uno straniero di passaggio equivale a una comunione laica. Quella sacra la si riceve nella vicina Cattedrale. Siamo in tanti a celebrare il rito, ormai un’abitudine, quasi un obbligo. C’è una ressa natalizia di europei pallidi, slavati, chiassosi, accorsi ai tropici, dove si spegne la rivoluzione, ma non il sole. Qualche accento nordamericano emerge dal vocio poliglotta. È reale o frutto della mia immaginazione? Penso che tra qualche settimana o mese sarà dominante.
Alla Bodeguita del Medio non ci si rilassa, si partecipa a un’euforia rumorosa, senza niente di mistico. È scomoda come i santuari del turismo. Ci sono venuti a bere il “mojito” o il “daiquiri” celebri personaggi della poesia e della politica, e ubbidienti pellegrini delle abitudini, come Neruda e Allende. E naturalmente Hemingway, per lunghi periodi di casa. Lui trovava migliore il daiquiri accanto, quello del Floridita. Alla Bodeguita del Medio aspettano l’assalto dei turisti gringos. Sarà l’arrivo della cavalleria.
Mezzo secolo fa, spose o amanti mature avevano il visone sotto il braccio da indossare nei night club gelidi come frigoriferi. Adesso si sono emancipate, avranno i blue jeans, più adeguati al tempo tropicale. L’importante è che potranno usare le carte di credito, perché oltre alle ambasciate, abolito l’embargo (se il Congresso lo consentirà), dovrebbero aprire le porte anche le banche di New York e di Chicago. Verranno gli investimenti in dollari? Vado troppo in fretta. Il futuro immediato si profila più contorto, incerto, ambiguo. L’immaginazione va per conto suo, non è però detto nella direzione del tutto sbagliata.
Se le memorie dirette del tempo prima di Castro sono ormai rare, non sono pochi i figli o i nipoti, stanchi o indifferenti alla rivoluzione, che sognano il ritorno a quel passato. Ne ho vissuto di persona gli ultimi momenti. Castro era già al potere, ma il comunismo non era ancora in vigore. E quindi funzionavano, ormai agonizzanti, i casinò, al Capri, al Rivera, al National, fondati da Lucky Luciano, Meyer Lansky, Frank Costello o George Raft, mafiosi o amici dei mafiosi. I croupier avevano al collo foulards rossi, segno che erano adesso impiegati della rivoluzione. Al telefono degli alberghi le centraliniste ti svegliavano esclamando « patria o muerte ». Rispondevo «per favore, non esageri!» e loro ridevano. La mia amica Saharita, segretaria di Raúl Castro, allora ministro della Difesa, mi portava a inaugurare l’apertura della sua spiaggia riservata fino allora ai bianchi ricchi e alternava le lacrime ai sorrisi. Piangeva per la sua spiaggia violata dai neri, ed era felice per la fine della segregazione balneare. Aveva due anime, non era la sola: una rivoluzionaria e una borghese. Prevalse infine la seconda e fuggì negli Stati Uniti, nonostante fosse la cognata di Raúl Roa, il ministro degli Esteri. Le famiglie cominciavano a frantumarsi.
Non si parla d’altro. Non si pensa ad altro. E anche se non fosse proprio cosi, sei tu a fantasticare che sulle labbra o nelle menti l’argomento dominante non possa essere che la pace con gli Stati Uniti. Dopo mezzo secolo di rottura sembra logico.
Gli scenari sono tanti. Sulla terrazza del National, affacciato sul Malecon, il lungo mare, un conoscente cubano mi assicura che tornerà Bacardi, quello del white rum, che ha la sua base a Hamilton nelle Bermuda. Bacardi è il “ vecchio tempo”, il nome fa sognare i figli dei ricchi controrivoluzionari fuggiti a Miami o nei dintorni. Bacardi era uno dei simboli della vecchia Cuba. I castristi non lo bevevano.
Il mio interlocutore mi annuncia che stanno per essere sfrattate le compagnie petrolifere sul posto per far largo a quelle nordamericane, che promuoveranno le ricerche in mare. Durante i negoziati precedenti la pace diplomatica è stata insomma progettata la nuova Cuba, post rivoluzionaria. Non credo a tutto quel che mi viene detto. Faccio la tara. Tutto è ancora nebbioso. Più che sapere la gente immagina. Sogna. Si illude. Ci sono anche coloro, in verità pochi, che hanno paura della competizione, e della necessità di darsi più da fare, di lavorare di più. La superpotenza metterà sul tavolo le sue esigenze di superdemocrazia. Predicherà il rispetto di principi elementari in un Paese in cui non esiste libertà d’opinione e non mancano i prigionieri politici. Gli scontri non mancheranno.
Per loro natura gli Stati Uniti hanno due morali. Quella dei principi e quella degli interessi. Con Cuba hanno sempre adottato le due in alternativa. Quando alla fine dell’Ottocento, era il 1898, nel nome della dottrina Monroe, liberarono l’isola dal colonialismo spagnolo, agirono secondo la buona coscienza, ma pochi anni dopo, nel 1901, con l’emendamento Platt, decretarono il loro dominio sui cubani. Ancora, in nome della libertà, negli anni Settanta, contribuirono alla fine di Salvador Allende in Cile e finanziarono il dittatore che gli succedette. L’entusiasmo per la pace con gli Stati Uniti prevale, e si conta sulla fine (si spera imminente) delle sanzioni, ma alcuni pensano che nei nord americani la morale degli interessi col tempo scatterà ancora. I pesanti guai presenti provocati dalla rivoluzione fallita fanno comunque trascurare quelli futuri.
Raúl Castro lo ripete. Nessuno può toccare l’indipendenza di Cuba. La quale resterà socialista. E il socialismo sarà la sua difesa. Ma si tratta di un socialismo sull’orlo della bancarotta. È uno scudo bucato. Raúl si sta rivelando tuttavia un personaggio ben diverso da quello che è apparso a lungo. Non è el burro ( l’asinello) rispetto al el caballo ( il cavallo) Fidel. Mingherlo, bruttaccio, senza carisma, non sollevava entusiasmo. Anche perché rappresentava l’esercito e con l’esercito la polizia politica.
Oggi le forze armate (con i sui 50, 60 mila uomini) sono la principale e forse unica spina dorsale che tiene in piedi il regime. E sono la sola istituzione capace di accompagnare la trasformazione, già in corso da quando Raúl è al potere, “di tipo cinese”. Basata sul principio che le regole cambiano ma il potere resta lo stesso, con gli identici riti. Il vecchio Esercito ribelle, nato dal movimento del 26 luglio che cacciò dall’Avana Fulgencio Batista il primo gennaio del 1959, dispone di una industria di armamenti giudicata la migliore del paese. Nella prima sfilata dopo dieci anni, il 2 dicembre 2006, gli esperti militari stranieri si stupirono di come i reparti fossero dotati di mezzi aggiornati rispetto a quelli ricevuti dall’Unione Sovietica negli anni passati.
Le Forze Armate rivoluzionarie sono reduci da numerosi conflitti in Angola, in Eritrea, in Etiopia, a Granada ed anche dalla guerra del Kippur, nel 1983. Millecinquecento uomini a fianco degli arabi contro Israele. Ma la loro peculiarità è la massiccia partecipazione alla vita economica dell’isola, avvenuta per volontà del loro ministro per quasi mezzo secolo, Raúl Castro. Attraverso la società Gaviota i militari controllano gran parte del turismo (alberghi e stazioni balneari) e quindi raccolgono le divise straniere lasciate ogni anno da tre milioni di visitatori. Dei militari dirigono industrie di pesca, società di trasporti e aziende che raccolgono e raffinano lo zucchero. Ma soprattutto i generali sono presenti in tutte le massime istituzioni governative e legislative. Uno di loro, fedelissimo a Raúl Castro, in quanto ministro degli Interni controlla la polizia politica. Altri figurano nell’ufficio politico del partito. Nonostante qualche scandalo individuale, le Forze armate non hanno mai avuto seri dissidi con il Pc. Le due forze si intrecciano. Ed entrambe partecipano alle decisioni economiche e politiche. Quando Raúl Castro annuncia la svolta americana, ha dietro di sé l’esercito, che lui stesso ha formato. Esercito che, oltre ai suoi normali effettivi, amministra la Difesa popolare, composta da sessantamila brigate di protezione che possono mobilitare in teoria tre milioni e mezzo di persone (su 11, 2 milioni di abitanti). L’organizzazione delle forze armate cubane assomiglia a quella di altri paesi emergenti. In particolare per la loro presenza nella vita economica. Ma in questo loro dinamismo, unico nella quasi generale crisi delle altre istituzioni rivoluzionarie, c’è chi vede lo slittamento del regime. Il quale avendo come principale supporto i militari finirà con l’assumerne l’impronta, al momento della successione. Anche se tra i giovani senza divisa del partito esistono personaggi di forte ambizione. Per ora gli Stati Uniti avranno a che fare con un paese in cui l’esercito è il guardiano di quel che resta della rivoluzione. E quindi sarà il loro interlocutore. Raúl, sua massima espressione. in prima fila.

Repubblica 24.12.14
Il populista tedesco. E la Germania si spacca
La loro sigla è “Pegida” e si definiscono patrioti
Tra gli slogan “Wir sind das Volk”: noi siamo il popolo
In nome dei “veri valori nazionali” riempiono le piazze. Ce l’hanno con i migranti, gli islamici e la “stampa bugiarda”
Cantano inni e urlano slogan rubati agli eroi che nell’89 fecero cadere il Muro: “Noi siamo il popolo”
Poche le teste rasate: per la maggior parte sono padri di famiglia. Ma fanno paura in un Paese che dal 1945 a oggi non aveva conosciuto movimenti di destra così grandi
di Andrea Tarquini


DRESDA ERANO in tanti, più di quanti siano mai stati, e ogni volta sono più numerosi. Eccoli di nuovo in piazza — “passeggiata”, cioè corteo, il lunedì — per scippare un simbolo delle manifestazioni coraggiose del mitico 1989 pro-Gorby e pro-libertà, e contro la dittatura. Diciassettemilacinquecento nella sola Dresda, altre migliaia altrove. «Wir sind das Volk!», noi siamo il popolo, rubando agli eroi dell’89 anche lo slogan. E non solo: «No a una Germania islamica», «Sharia fuori dall’Europa», «Ali Baba e i quaranta spacciatori vanno espulsi subito». Poi nel crescendo dell’emozione salgono al climax, «politici a casa, potere alle masse», prima di intonare motivi natalizi e poi l’inno nazionale. Germania, parte est, antivigilia di Natale: benvenuti nel cuore del nuovo Movimento anti islamico che crea folle di destra, per la prima volta dal 1945. Pegida, cioè Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente, si chiama. Die Bewegung , lo ribattezzano i pessimisti, come John Le Carré battezzò l’immaginaria rivolta nazionale contro gli alleati in A small town in Germany . E cresce la resistenza dei democratici: da Monaco con dodicimila in piazza a Bonn, da Wuerzburg a Kassel alla stessa Dresda, progressisti, sinistra alternativa e borghesia colta sfilano al suono di musiche multietniche gridando contro i «nuovi vomitevoli fascisti».
Feste amare per la zarina d’Europa Angela Merkel: in piena tempesta di eurocrisi e scontro con Roma e Parigi, la Germania riscopre piazza e proteste, e la cancelliera affronta il rischio di un embrione di Front National in salsa tedesca. Un incubo in più per i partner, e sui media (che lo condannano e combattono) una resurrezione dell’eterno “tedesco cattivo”.
Era stracolma, la suggestiva Theaterplatz di Dresda dove si affacciano la Semperoper, lo Zwinger e le maestose chiese. A poco o nulla è servita l’idea dell’Opera e del Comune, di oscurare la piazza spegnendo illuminazione pubblica e candelabri del Teatro. 17.500 persone pigiate ma calme a chiedere politiche dure anti-migranti, un mare di bandiere al vento freddo del pur mite inverno, ma solo bandiere nazionali postbelliche, o quelle dei Bundesländer, più una svedese e una norvegese, solidarietà dei populisti del nord. Mobilitazione e festa, comizio, slogan, birra dolci o vino caldo del mercatino di Natale dietro l’angolo. Niente vessilli del Reich o imperiali, non una svastica, non un simbolo apertamente razzista o antisemita. Folla di gente normale: più uomini che donne, ma molti giovani, coppie e famiglie con bambini. Teste rasate? Poche, qua e là miste nella folla, ma a bocca chiusa e senza distintivi. Con la mia faccia mediterranea ho passeggiato per ore nella folla e nessuno mi ha insultato con parole razziste.
«I media bugiardi c’ignorano, perché diciamo la verità», esordisce il leader Lutz Bachmann, elettrotecnico, fedina non pulita, «basta con la stampa bugiarda!», esclama lui che nega ogni intervista. «Noi siamo per i veri valori tedeschi, oggi Neukoelln (il quartiere turco di Berlino, ndr) è dappertutto, spendono tutto per i profughi e se ne infischiano dei nostri anziani poveri. Noi lottiamo per il futuro dei nostri figli». Applausi, slogan ritmati. Un giovane rasato mi parla sorridente: «Sei italiano, no? Ho un amico da voi nel Sud, so che anche giù da voi soffrite per l’invasione incontrollata dei migranti». L’altra Dresda tenta di ribellarsi: coi quattromila giovani e borghesi illuminati del contro corteo. E con le scritte che un beamer piazzato dal Comune proietta sulla facciata della Semperoper: «Aprite i cuori, aprite gli occhi, apriamoci a chi fugge », o ancora «La dignità della persona umana è inviolabile, al suo rispetto va subordinato l’esercizio d’ogni potere» (articolo 1 della Costituzione federale, ndr).
Fischi e «buuuh» in risposta, e poi ancora, scandito, «Wir sind das Volk! Wir sind das Volk!». Contandoli in piazza, Pegida vince.
«I politici non sanno più ascoltarci, ma noi sappiamo farci sentire », continua Bachmann. È il suo momento trionfale: quando ha fondato su Facebook la sua Bewegung , forse non sperava di muovere tali folle. Specie a Dresda, suo bastione. Preferiscono non farsi citare per nome, non si fidano. Si sfogano, però. «Basta con la marea umana dei migranti», mi dice un 48enne. E accanto a lui, un uomo sulla sessantina e una giovane donna evocano spettri del passato: «E basta con l’America e la Nato che ci spingono contro la Russia e ci coinvolgono in ogni guerra, e ognuna di queste guerre porta più profughi da noi».
«Razzisti, fate schifo, Dresda non è vostra», echeggiano da lontano gli slogan dei quattromila avversari. Pochi tafferugli, la polizia presidia il centro in forze dal mattino. «Non capiscono nulla, siamo noi la gente normale», mi dicono due padri di famiglia. Uno è venuto apposta dalla vicina Grimma, l’altro dalla Baviera, «per curiosità, a festeggiare qui Natale festa della Famiglia con loro che dicono cose che molti tedeschi pensano e si tengono dentro. Sì, sentiamo nostalgia d’identità tedesca». E altri, più agitati: «Assaltano caffè a Sidney, massacrano bimbi in Pakistan... volete questo anche da noi, o che avvelenino il cibo?».
La Germania istituzionale reagisce, ma con voci singole. Il ministro della Giustizia Heiko Maas parla di «vergogna nazionale», l’ex cancelliere Schroeder invita a una «mobilitazione dei Giusti, come le Lichterketten nei primi ‘90 contro il neonazismo». Merkel in persona ha chiesto «tolleranza zero per qualsiasi propaganda di odio o razzismo». L’allarme è al calor bianco. E a Pegida si affiancano, o tentano di confluirvi, altre correnti antisistema: neonazi col manganello lasciato a casa, hooligans di tifoserie di destra. O parte di Alternative für Deutschland (AfD), il nuovo partito euroscettico in ascesa. «Molte delle loro richieste esprimono esigenze legittime », dice il suo leader, il freddo, preciso professor Bernd Lucke. E il suo vice Alexander Gauland, columnist di grido, esegeta dell’autocrate ungherese Viktor Orbàn e della sua «giusta fierezza nazionale », era entusiasta a Dresda in piazza. «Siamo alleati naturali di questa Bewegung».
Così l’Europa va verso il Natale, senza sapere quale dei suoi due volti che si contendono le piazze avrà domani la Germania. «Denk ich an Deutschland in der Nacht, dann bin ich um den Schlaf gebracht »: pensare alla Germania nella notte mi fa perdere il sonno, scrisse il grande poeta e patriota democratico Heinrich Heine.

Corriere 24.12.14
Il miracolo del 25 dicembre 1914
Cento anni fa il silenzio delle armi
Tedeschi e inglesi non più nemici per una notte e un giorno

di Paolo Rastelli

Il video è bello e ben girato. Due gruppi di giovani uomini vestiti con uniformi diverse, in un campo innevato devastato dalla battaglia, che si scambiano fotografie, liquori, cioccolata in un’atmosfera di pace e fratellanza resa con colori tenui. Ma lo spot di Sainsbury è stato vissuto come un oltraggio da almeno una parte del pubblico britannico: la catena di supermercati ha deciso di sfruttare a fini commerciali (appena mascherati dal sostegno dato alla Royal British Legion, l’equivalente della nostra Associazione Combattenti e Reduci) una delle memorie più sacre della Prima Guerra Mondiale, la cosiddetta «tregua di Natale» del 1914 tra tedeschi e inglesi.
Fu un’iniziativa presa dal basso, dai soldati in trincea, che il 25 dicembre di cento anni fa uscirono spontaneamente allo scoperto in alcune zone del fronte occidentale per andare a salutare e a fare gli auguri ai «nemici» senza che ci fosse, da parte dei comandi, alcun via libera. Anzi, proprio il contrario. Quando la notizia si diffuse grazie alle lettere dei soldati alle famiglie, i vertici militari di entrambi i contendenti si affrettarono a proibire altre iniziative simili: il generale Horace Smith Dorrien, comandante del secondo corpo d’armata della Bef, la forza di spedizione britannica in Francia, arrivò a minacciare la corte marziale per chi si fosse reso colpevole di fraternizzazione.
Il «miracolo» del Natale 1914, di due avversari che dimenticano l’odio per unirsi in un abbraccio fraterno, rimase un fatto quasi isolato (ci sono poi stati altri episodi di «vivi e lascia vivere» ma mai più così eclatanti) e ben presto trascolorò nel mito, tanto più quando il sentimento popolare degli europei nei confronti della Grande Guerra cambiò di segno: non più glorioso fatto d’arme ma massacro insensato, che aveva spazzato via una generazione. La tregua di Natale venne quindi vista come la dimostrazione che gli uomini sono fondamentalmente buoni e che erano stati spinti alla guerra da governi stupidi e irresponsabili, tanto che appena liberi di farlo avevano scelto la pace e la fratellanza.
Ma come andarono realmente le cose? Facciamolo raccontare a chi ne fu testimone diretto, il caporale Leon Harris del 13esimo battaglione del London Regiment in una lettera scritta ai genitori che stavano a Exeter (riprodotta sul sito www.christmastruce.co.uk interamente dedicato a quanto successe cento anni fa): «È stato il Natale più meraviglioso che io abbia mai passato. Eravamo in trincea la vigilia di Natale e verso le otto e mezzo di sera il fuoco era quasi cessato. Poi i tedeschi hanno cominciato a urlarci gli auguri di Buon Natale e a mettere sui parapetti delle trincee un sacco di alberi di Natale con centinaia di candele. Alcuni dei nostri si sono incontrati con loro a metà strada e gli ufficiali hanno concordato una tregua fino alla mezzanotte di Natale. Invece poi la tregua è andata avanti fino alla mezzanotte del 26, siamo tutti usciti dai ricoveri, ci siamo incontrati con i tedeschi nella terra di nessuno e ci siamo scambiati souvenir, bottoni, tabacco e sigarette. Parecchi di loro parlavano inglese. Grandi falò sono rimasti accesi tutta la notte e abbiamo cantato le carole. È stato un momento meraviglioso e il tempo era splendido, sia la vigilia che il giorno di Natale, freddo e con le notti brillanti per la luna e le stelle».
Il riferimento al tempo non è di poco conto: «La vigilia — scrive Alan Cleaver nella prefazione al libro La tregua di Natale (Lindau edizioni) che raccoglie molte lettere dei soldati dell’epoca — segnò la fine di settimane di pioggia battente, e una gelata rigida e tagliente avvolse il paesaggio. Gli uomini al loro risveglio si trovarono immersi in un Bianco Natale».
Non si sa dove fosse schierata l’unità dal caporale Harris ma gli eventi da lui descritti con tanta vivacità si ripeterono più o meno identici in molti punti del fronte. In una lettera alla famiglia del 28 dicembre, il bavarese Josef Wenzl racconta di essere rimasto incredulo quando uno dei soldati cui la sua unità stava dando il cambio gli disse di aver passato il giorno di Natale scambiando souvenir con gli inglesi. Ma quando spuntò l’alba del 26 dicembre vide con i suoi occhi i soldati britannici uscire dalle trincee e cominciare a parlare e scambiarsi oggetti ricordo con lui e con i suoi compagni. Poi ci furono canti, balli e bevute. «Era commovente — si legge nella lettera — tra le trincee uomini fino a quel momento nemici feroci stavano insieme intorno a un albero in fiamme a cantare le canzoni di Natale. Non dimenticherò mai questa scena. Si vede che i sentimenti umani sopravvivono persino in questi tempi di uccisioni e morte».
Scene simili si verificarono anche tra tedeschi e francesi e tra tedeschi e belgi, pur se in misura molto minore: dopo cinque mesi di guerra sanguinosissima (era iniziata il primo agosto)con circa un milione di vittime, con molte zone del Belgio e della Francia orientale occupate e dopo i massacri di civili compiuti dai soldati tedeschi, i sentimenti di fraternità erano parecchio meno diffusi. E comunque anche nelle zone inglesi ci furono morti e feriti per il fuoco nemico perfino nel giorno di Natale: alcuni soldati che avevano cercato di prendere contatto con il nemico sporgendosi dai parapetti delle trincee furono fulminati dai cecchini avversari. «A Natale — racconta lo storico Max Hastings in Catastrofe 1914 (Neri Pozza) — il Secondo granatieri inglese ebbe tre uomini uccisi, due dispersi e 19 feriti; un altro soldato fu ricoverato in ospedale con sintomi di congelamento, come altri 22 la mattina dopo».
Ovviamente queste storie finirono rapidamente sui giornali dell’epoca, con titoli abbastanza sensazionali. Il Manchester Guardian del 31 dicembre 1914 titolava: «Tregua di Natale al fronte — I nemici giocano a calcio — I tedeschi ricevono un amichevole taglio di capelli». E il 6 gennaio lo stesso quotidiano strillava: «Nuove notizie sullo straordinario armistizio ufficioso — I Cheshires (un’unità inglese, ndr ) cantano Tipperary a un pubblico di tedeschi». Fu sui quotidiani britannici che fu raccontata la vicenda della partita di calcio giocata nella terra di nessuno da inglesi e tedeschi in una zona imprecisata del fronte, che sarebbe finita 3-2 per i tedeschi. Per molto tempo fu una storia considerata non sufficientemente provata dagli storici (tutte le fonti erano indirette, qualcuno che raccontava che qualcun altro gli aveva detto che c’era stata una partita…), ma che entrò prepotentemente nel mito: la si ritrova nello spot della Sainsbury, nel film ferocemente antimilitarista Oh che bella guerra di Richard Attenborough (1969) e anche nel videoclip di Pipes of Peace di Paul Mc Cartney del 1983. E pochi giorni fa, l’11 dicembre, nella cittadina belga di Ploegsteert, il presidente dell’Uefa Michel Platini ha inaugurato un monumento a ricordo del giorno in cui il calciò unì i giovani di due nazioni nemiche.
Alla fin fine, comunque, pare che il mito avesse ragione e gli storici scettici torto: è stata scoperta una lettera del generale Walter Congreve (decorato con la Victoria cross, la più alta decorazione britannica al valor militare) che racconta alla moglie della tregua e della partita di calcio anche se ammette di non averla vista con i propri occhi ma di averlo saputo da testimoni oculari. Ma poiché era un generale, non si faceva illusioni e sapeva i bei momenti sarebbero finiti. Ne dà conto, con una battuta piuttosto macabra, nella stessa lettera: «Uno dei miei ha fumato un sigaro con il miglior cecchino dell’esercito tedesco, non più che diciottenne. Dicono che ha ucciso più uomini di tutti ma ora sappiamo da dove spara e spero di abbatterlo domani». Sì, la guerra sarebbe continuata.

Repubblica 23.12.14
“I numeri si inseguono fino alla fine del mondo”
Michael Atiyah, medaglia Fields e membro dell’Ordine al Merito britannico, racconta le peregrinazioni nelle scuole in Sudan, Egitto, Libano, Inghilterra
di Piergiorgio Odifreddi


SIR Michael Atiyah è l’eminenza grigia dei matematici. Oltre ad aver ricevuto i massimi onori ai quali un matematico può ambire, dalla medaglia Fields per i giovani nel 1966 al premio Abel alla carriera nel 2004, ha presieduto la Royal Society inglese e il Trinity College di Cambridge, entrambi di newtoniana memoria, e dal 1992 è uno dei ventiquattro membri dell’Ordine al Merito, la massima onorificenza britannica.
Al valore scientifico ha anche unito un impegno politico che l’ha portato a presiedere per sette anni il Movimento Pugwash degli Scienziati per il Disarmo, fondato da Albert Einstein e Bertrand Russell nel 1955 e vincitore nel 1995 del premio Nobel per la pace. Con lui, al meeting di Heidelberg delle medaglie Fields abbiamo ripercorso alcune tappe della sua lunga e tumultuosa vita, e della matematica dello scorso secolo.
Quali sono le sue origini?
«Sono nato a Londra, ma solo perché mia madre andava in vacanza in Inghilterra ogni anno. In realtà sono cresciuto prima in Sudan, a Khartoum, e poi in Egitto, al Cairo e Alessandria, fino alla fine della guerra».
Ha studiato in scuole arabe?
«No, inglesi, com’era l’abitudine per i figli dei funzionari del Civil Service. Mio padre era libanese, e lavorava per il governo sudanese come intermediario con gli inglesi. All’epoca in teoria il Sudan era governato in condominio dall’Egitto e l’Inghilterra, ma l’Egitto era in pratica una colonia inglese».
Com’era studiare a Khartoum a quei tempi?
«La mia scuola aveva soltanto venticinque studenti, e c’era un’unica classe e un’unica insegnante. Era una scuola religiosa, della Chiesa d’Inghilterra. Si trattava delle elementari, ma invece di cinque rimasi sette anni».
Come mai?
«Perché le medie erano al Cairo, in una scuola dei padri comboniani del Sacro Cuore. Mi ci mandarono a dieci anni, ma si insegnava in arabo, che io non parlavo bene, e la cultura era troppo diversa da quella a cui ero abituato. Ci stavo talmente male, che dopo qualche giorno i miei genitori mi fecero tornare in Sudan, e la scuola elementare mi permise di rimanere un altro paio d’anni».
Ma poi dovette comunque andare alle medie!
«No, le saltai e andai direttamente alle superiori. Che dovevano essere ad Alessandria, ma erano state trasferite al Cairo per la guerra. Questa volta era una scuola inglese, con studenti internazionali che venivano da ogni dove: Egitto, Grecia, Italia. Ci stetti un paio d’anni, e dopo la battaglia di El Alamein andammo ad Alessandria, dove rimasi fino alla fine della guerra».
Si è diplomato in Egitto?
«Si, a sedici anni. Ero avanti di due anni, ma il livello della scuola che avevo frequentato non era sufficiente per farmi passare il test di ammissione a Cambridge, e per due anni ho studiato a Manchester, in quella che mio padre aveva identificato come la miglior scuola superiore per la matematica. Ce la insegnavano cinque ore al giorno. Fu lì che scoprii la mia strada».
E poi, finalmente, l’università!
«Macché. Ho dovuto fare il militare per due anni, ma per non perdere tempo seguivo corsi per corrispondenza di matematica avanzata. Il giorno che mi hanno congedato è stato il più felice della mia vita, e a vent’anni sono infine approdato al Trinity College di Cambridge, nel 1949».
Quindi, benché la sua famiglia fosse di origine libanese, il Libano non ha giocato nessun ruolo nella sua formazione.
«Molto piccolo, e solo per caso. Nel 1939, quando la guerra scoppiò, eravamo in vacanza in Inghilterra e ci rimanemmo fino all’aprile del 1940. Poi viaggiamo attraverso la Francia poco prima della sua caduta, prendemmo una nave del Lloyd Triestino per Beirut, e restammo per qualche mese. Lì frequentai una scuola francese, ma il loro sistema non mi piacque per nulla: ci facevano imparare molte cose a memoria, una cosa senza senso».
Quali altre lingue conosce, oltre a inglese, francese e arabo?
«I miei genitori parlavano italiano, perché mio padre aveva lavorato un po’ in Italia, prima di andare in Sudan: riuscivano a leggere Dante e non a caso mi chiamarono Michelangelo. Io lo conosco meno bene, ma abbastanza da aver letto nell’originale molti lavori sui Rendiconti del circolo matematico di Palermo e sul Nuovo Cimento : in particolare, quelli della scuola italiana di geometria di Federigo Enriques, Francesco Severi, Guido Castelnuovo, eccetera».
Lei condivide l’opinione di alcuni, che gli italiani avessero molte intuizioni e nessuna dimostrazione?
«È la scuola francese di André Weil, a pensarla così. In parte era vero: ad esempio, le loro dimostrazioni non erano rigorose, anche se alcune potevano essere rese tali, come poi fecero Oscar Zariski e altri. Ma questo non toglie che abbiano avuto molte idee brillanti e fatto molte scoperte. E poi, è stato proprio Weil a sviluppare la teoria che ha permesso di rendere solide le loro intuizioni».
La scuola italiana all’epoca era competitiva con quella francese. Come mai in seguito ci sono state una dozzina di medaglie Fields francesi, e una sola italiana?
«La scienza italiana, in generale, ha sofferto per il fascismo e la guerra, e molti cervelli se ne sono andati. E la matematica, in particolare, era dominata da Severi, che era un barone fascista: il mio professore e amico William Hodge mi ha detto che quando andò una volta a trovarlo e chiese di poter vedere “il professore”, lo corressero con “Sua Eccellenza!”. Severi era un bravo matematico, ma ebbe una pessima influenza sulla matematica italiana».
Lei l’ha conosciuto?
«Certo. A Roma, nel 1949, per le celebrazioni dei suoi settant’anni. E ad Amsterdam nel 1954, al Congresso Internazionale di Matematica, dove arrivò con una ragazza che presentava come sua nipote. Ma l’Italia ha avuto molti grandi matematici nella prima metà del Novecento, da Giuseppe Peano a Vito Volterra. Dopo la guerra subì un po’ la sorte della matematica tedesca, per motivi analoghi: anche la Germania ha avuto finora un’unica medaglia Fields».
Niente di simile in Francia, invece.
«No. Anche loro ebbero dei problemi, ma recuperarono meglio. Molti matematici morirono, ovviamente, ma non tanti quanti nella Prima Guerra Mondiale. Gli unici due di valore che sopravvissero furono Élie Cartan e Jacques Hadamard. Nella Seconda Guerra Mondiale i matematici francesi vennero invece impiegati in maniera più “razionale”, ad esempio nei centri di ricerca bellica. Alcuni addirittura furono lasciati in università: Henri Cartan, ad esempio, che poi ebbe come studenti due future medaglie Fields come Jean-Pierre Serre e René Thom. Tutto questo per dire che le condizioni storiche influiscono pesantemente sull’evoluzione della matematica, a volte in maniera imprevedibile».

LA SERIE Con Michael Atiyah si conclude la serie dedicata ai matematici del mondo. Le precedenti interviste sono state pubblicate l’1 (Manjul Bhargava), il 3 (Efim Zelmanov), il 9 (Shigefumi Mori) e il 15 dicembre (Ngô Bao Châu)

il Fatto 24.12.14
Il teatro regge, la lirica va a picco
di Camilla Tagliabue


Se i cinepanettoni sono in crisi, meglio emigrare sui palcoscenici: forse così ha pensato Christian De Sica, che al debutto del suo spettacolo Cinecittà, dopo soli sei mesi di recite ha già registrato un ottimo terzo posto nella classifica delle opere teatrali con più incassi al botteghino nel primo semestre 2014. Sono i dati più recenti disponibili, elaborati dalla Siae: fa compagnia a De Sica, in vetta al Top Ten, Enrico Brignano con lo storico Rugantino di Garinei e Giovannini, in scena ormai da quattro anni e approdato pure a New York: nel 2013, lo show si era classificato secondo dopo Ammutta Muddica di Aldo, Giovanni e Giacomo (quasi 120 mila ingressi in quell’anno solare), presenti al multiplex in questi giorni con un panettoncino low cost. Da gennaio a giugno si piazzano, poi, al quinto e sesto posto altri due famosi guitti: Maurizio Crozza con Crozza delle Meraviglie e Angelo Pintus con 50 sfumature di Pintus.
Gli unici in grado di scalfire il successo della compagnia di giro, affollata dai soliti comici di cinema e tv, sono i Legnanesi, posizionatisi al quarto posto con La scala è mobile: un anno fa, il loro Lasciate che i pendolari vengano a me era arrivato settimo per spesa al botteghino e nono per ingressi, con oltre 73 mila presenze.
Ma sono i musical i veri carri armati della lista: al numero due c’è Romeo e Giulietta. Ama e cambia il mondo; al sette Jesus Christ Superstar; al nove Grease; al dieci Cats.
Mosca bianca, invece, pur essendo la sola opera squisitamente di prosa, è l’Agamennone, allestito al Teatro Greco di Siracusa all’interno di un progetto kolossal sull’Orestiade. La tragedia tira sempre: anche nel 2013, l’unica presenza in classifica, dopo gli showman, i balletti e i dialetti, è stata l’Antigone, prodotta anch’essa dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa, con poco più di 70 mila ingressi (per avere un termine di paragone: i Muse all’Olimpico di Roma hanno collezionato oltre 62 mila ingressi in una data).
TECNICAMENTE, però, il comparto Teatro è stazionario, non in recessione: “Sono in sostanziale tenuta gli indicatori rilevati nella Prosa, nel Balletto, nei Burattini e Marionette e nell’Arte Varia”, mentre “si evidenziano preoccupanti segni di cedimento nella Lirica, nella Rivista e Commedia Musicale e nel Circo”. In soldoni, se la spesa del pubblico è scesa del 4,74% è da imputarsi soprattutto al vertiginoso calo del teatro musicale, benché quegli spettacoli continuino a essere tra i più gettonati dagli spettatori (Lirica -16,48%, Rivista e Commedia Musicale -18,62%) ; stesso discorso per il volume d’affari, diminuito del 5,06%. Crescono moderatamente il numero degli spettacoli (+0,60%), gli ingressi (+0,97%) e la spesa al botteghino (+0,12%).
L’unico settore che va bene, o comunque è in espansione, è quello delle Mostre ed Esposizioni (benché i valori siano leggermente falsati da una nuova modalità di rilevazione): gli eventi aumentano del 6,20%, gli ingressi del 23,14%, la spesa al botteghino del 30,72% e il volume d’affari dell’8,99%.

il Fatto 24.12.14
E-book, Iva al 4% come per la carta. Gli editori esultano

Buone notizieper l’editoria digitale. È stato infatti approvato anche alla Camera l’emendamento alla legge di Stabilità che equipara l’Iva degli eBook, al 21%, a quella dei libri cartacei, ferma al 4. Il provvedimento sarà valido dal 1° gennaio. Un ottimo risultato raggiunto per editori, lettori e gli stessi autori, impegnati in questi mesi nella campagna mediatica “Un libro è un libro”, lanciata contro la discriminazione del prodotto elettronico rispetto al tradizionale libro di carta. All’appello aveva anche risposto positivamente il ministro ai Beni culturali Franceschini. La campagna ha visto la mobilitazione di decine di migliaia di persone sui social network. Adesso si apre una nuova era per la diffusione della conoscenza “senza carta”. L’Italia ha scelto di battere la stessa strada di Francia e Lussemburgo, che hanno disposto agevolazioni più consistenti rispetto a quelle previste in altri paesi europei.