domenica 28 dicembre 2014

Corriere 28.12.14
Sbarchi, 8 mila immigrati al mese
Il nuovo piano europeo finora ha fallito. E in Italia scoppia la polemica
I tecnici del Viminale accusano la Marina: applica i vecchi protocolli
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Doveva essere la soluzione per fermare gli sbarchi, soprattutto per scoraggiare le partenze dall’Africa ed evitare nuove tragedie in mare. Invece l’operazione Triton non ha dato, almeno per ora, i risultati sperati.
In due mesi, da quando è partita la missione pianificata con l’Ue dopo il naufragio davanti all’isola di Lampedusa che causò centinaia di vittime, sono approdati sulle nostre coste oltre 16.000 migranti, una media di 8.000 al mese. E dunque l’andamento dei flussi è rimasto in linea con quanto accadeva prima che si decidesse di avviare i pattugliamenti impiegando mezzi e uomini in accordo con gli altri Stati membri. I dati aggiornati a ieri mattina sono eloquenti: dal 1° gennaio al 27 dicembre sono arrivati 169.215 stranieri, di cui 120.150 in Sicilia. Quelli sbarcati fino al 31 ottobre, alla vigilia dell’entrata in vigore di Triton, erano 153.389.
E tanto basta per scatenare la polemica, con i tecnici dell’Immigrazione del Viminale che accusano la Marina militare di non aver mai interrotto il soccorso avanzato, di fatto lasciando in piedi Mare Nostrum e così vanificando quanto è stato deciso a Bruxelles e poi messo in atto dal nostro governo.
Lo schieramento a 30 miglia
Il piano messo a punto nei mesi scorsi in sede Frontex prevedeva una linea di sbarramento sistemata a 30 miglia dalla Sicilia. Per effettuare i controlli è stato previsto l’impiego di 25 mezzi navali e 9 mezzi aerei, a guidare sono gli italiani dal Centro di coordinamento aeronavale della Guardia di Finanza a Pratica di Mare, dove sono presenti anche gli ufficiali degli altri Paesi e quelli di Frontex.
L’accordo prevede che Malta si preoccupi esclusivamente dei migranti soccorsi o individuati all’interno delle proprie acque. Il resto riguarda l’Italia, che deve occuparsi sia degli irregolari, sia dei richiedenti asilo anche se l’individuazione è stata effettuata da un mezzo straniero. Sono invece vietati i respingimenti: i migranti dovranno essere sempre portati a terra per individuare chi ha diritto allo status di rifugiato.
Il progetto, studiato dagli specialisti della Direzione immigrazione del Viminale e approvato anche a livello politico dall’Unione, è comunque un’operazione di polizia varata per contrastare i flussi illegali e dunque i mezzi messi a disposizione possono partecipare all’attività di soccorso soltanto in casi di massima emergenza.
Il recupero in mare rimane invece affidato alla Guardia costiera che naturalmente può chiedere rinforzi per fare fronte a situazioni di pericolo.
Le tre navi in linea avanzata
In realtà, nonostante l’impegno del governo a chiudere «Mare Nostrum» entro la fine dell’anno, nel Mediterraneo sono ancora operative tre navi della Marina militare che si occupano proprio dei soccorsi. Operazione naturalmente meritoria, che consente di salvare moltissime vite. Il problema rimane però quello del coordinamento perché i mezzi si muovono in linea avanzata e questo, secondo i tecnici del Viminale, rischia di vanificare l’attività svolta da Frontex.
In ambienti della Difesa si fa però notare che la Marina si limita a svolgere i compiti assegnati «anche perché sarebbe impensabile, vista la grave situazione che persiste in Nordafrica, che queste persone venissero lasciate senza aiuto». E si ricorda come «il governo ha autorizzato fino al 31 dicembre l’operazione di sicurezza e sorveglianza dei nostri mari, dunque le navi possono spingersi più avanti in caso di richiesta d’aiuto e poi far sbarcare i migranti nei porti autorizzati dal ministero dell’Interno».
La relazione  dei tecnici
Nei giorni scorsi i vertici del Dipartimento immigrazione hanno elencato al ministro dell’Interno Angelino Alfano le difficoltà operative e hanno evidenziato proprio i problemi nati nel coordinamento con la Marina e in particolare l’impossibilità di effettuare i pattugliamenti vista la scelta di lasciare le navi in posizione così avanzata. In sostanza i tecnici del Viminale ritengono che con questi «assetti» Frontex potrebbe non avere l’effetto deterrente che si voleva ottenere quando si è deciso di varare l’operazione di pattugliamento e soprattutto che il numero dei migranti in arrivo sulle nostre coste rischia di aumentare con la bella stagione.
Il problema posto a livello tecnico riguarda anche i costi. L’Europea mette a disposizione 2 milioni e 900 mila euro mensili che coprono il 100 per cento delle spese sostenute dagli Stati stranieri e il 38 per cento di quelle affrontate dall’Italia che ha in più l’onere di occuparsi delle proprie frontiere: per i mezzi navali ci vogliono dai 550 ai 1.000 euro all’ora, 3.500 per gli aerei. L’impegno di Bruxelles è legato anche ai risultati raggiunti e il timore dei tecnici è che — a fronte di un bilancio non pienamente soddisfacente — si decida di sospendere l’intervento.

La Stampa 28.12.14
Neanche l’Ue frena gli sbarchi. In due mesi soccorsi in 20 mila
La Marina “accusata” di agire in mare aperto. La replica: c’è il sì del governo
di Guido Ruotolo

qui

Corriere 28.12.14
L’Alto commissariato Onu e Sant’Egidio:
«C’è il rischio che le vittime aumentino»
di Leonard Berberi


Triton non va. «Era meglio Mare Nostrum». Così come non funziona la risposta a chi — almeno centomila quest’anno — ha chiesto rifugio ai Paesi dell’Unione Europea. «L’accoglienza va fatta prima che i profughi si imbarchino». Soprattutto se è vero che l’anno prossimo il flusso dei disperati — dalla Siria, ma anche dall’Iraq e dall’Africa subsahariana — aumenterà. È questo il pensiero di agenzie e associazioni che si occupano di profughi e migranti al termine di un anno vissuto pericolosamente. In un pezzo di mondo — il Mar Mediterraneo — che non è soltanto la frontiera dell’Europa, ma anche «la più pericolosa al mondo», come sintetizza la Comunità di Sant’Egidio.
«Nel 2014 hanno attraversato il Mediterraneo 208 mila persone: di queste 170 mila sono approdate in Italia», calcola Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. «Numeri che confermano che alcune crisi internazionali si sono aggravate. Siamo ormai al quinto anno della crisi siriana e l’ascesa dello Stato islamico costringe sempre più persone a salire in barca e tentare di arrivare in Europa. Non partono solo i siriani, ma da qualche mese anche gli iracheni».
L’anno prossimo, secondo l’Unhcr, la situazione non dovrebbe migliorare. «Temiamo che il flusso aumenti, soprattutto dalla Siria», spiega Sami. «Ci sono 9 milioni di persone in fuga e gli Stati che li accolgono — Libano, Giordania, Turchia — sono quasi al limite».
«Ma da qualche settimana anche la Libia è un problema che dobbiamo affrontare sul serio», aggiunge Daniela Pompei, responsabile per gli immigrati della Comunità di Sant’Egidio. Che ci tiene a ricordare: «La maggior parte delle 170 mila persone arrivate in Italia ha diritto a chiedere asilo: di queste, poi, qui ne sono rimaste 62 mila». «A Milano quest’anno ne sono transitati 50 mila — calcola Carlotta Sami —: solo una quarantina ha chiesto asilo politico qui. Gli altri hanno preferito il Nord Europa».
C’è un punto, però, concordano tutti, su cui bisogna intervenire: le operazioni in mare. «C’è stata una polemica inutile secondo la quale la missione italiana Mare Nostrum incentivava l’arrivo dei migranti», ricorda la portavoce dell’Unhcr. «Ma i dati di novembre, in piena fase Triton, smentiscono questa diceria». All’Alto commissariato Onu Triton non piace. «I mezzi sono più piccoli, la missione si occupa del pattugliamento e non del salvataggio. Temiamo un maggior numero di vittime». «Mare Nostrum era stata pensata per salvare vite, Triton no», sintetizza Daniela Pompei. «Speriamo che l’Ue torni sui suoi passi e riporti in vita la nostra operazione. Per questo la Marina militare italiana fa benissimo ad andare oltre il limite delle 30 miglia».
Che fare quindi? L’Unhcr propone di «avviare un piano europeo che permetta a chi scappa dalla guerra di arrivare da noi in sicurezza». L’altra tappa è quella di prevedere «piani di carico e scarico» dei richiedenti asilo tra i Paesi europei, in modo da ridistribuirli: «Ci sono Stati che non ne accolgono nemmeno uno», dice Carlotta Sami.
«Ma prima va cambiata la legge comunitaria che regola le richieste dei profughi», precisa la responsabile per gli immigrati della Comunità di Sant’Egidio. «Chi mette piede a Lampedusa o in Sicilia mette piede in Europa, non solo in Italia. Pensiamo poi anche a un nuovo modo di ingresso nell’Unione Europea: le persone dovrebbero chiedere asilo già nei Paesi in cui transitano, come Marocco ed Etiopia».
Un modo, questo, che dovrebbe evitare la traversata in barcone e, soprattutto, «di finire nelle mani dei trafficanti di uomini».

il Fatto 28.12.14
Quirinale, non c’è soluzione
di Fabrizio d’Esposito


Il Caos allo stato puro. A partire da oggi manca un mese e un giorno al probabile primo scrutinio per il futuro capo dello Stato e il totonomi dell’Era renziana e nazarena assomiglia a un gigantesco gioco dove si fa a gara per bruciare quanti più candidati possibili, sul modello della casa del Grande Fratello. L’ultima nomination per andare al rogo riguarda l’ex dalemiano Pier Carlo Padoan, oggi ministro dell’Economia. È dal 16 dicembre, da quando cioè Giorgio Napolitano lo elogiò nel discorso di auguri alle alte cariche, che il suo nome è cresciuto nel chiacchiericcio politico-parlamentare. Poi i titoli letali per vedere l’effetto che facevano, tipo “La carta di Renzi è Padoan”. Ma la candidatura del ministro perlopiù tecnico dell’esecutivo di Matteo Renzi non ha smosso passioni ed entusiasmi in direzione di un metodo Ciampi (o Cossiga) sin dal primo scrutinio. Risultato: un altro candidato bruciato. In tutto sono almeno trenta le personalità indicate sinora per la successione a Giorgio il Breve, riconfermato al Colle nell’aprile del 2013. Tra questi, archiviati come Padoan ci sono: Walter Veltroni, Paola Severino, Riccardo Muti, Sabino Cassese, Gianni Letta, Renzo Piano, Anna Finocchiaro, Roberta Pinotti, Emma Bonino, Pier Ferdinando Casini, Dario Franceschini. Romano Prodi e Giuliano Amato meritano invece un paragrafoa parte.
Le dimissioni e il primo scrutinio del 29 gennaio
Le uniche certezze riguardano allora solo il percorso tracciato da Napolitano. Prossimo ai 90 anni, la sera del 31 dicembre, nel tradizionale discorso di fine anno dalla durata di venti minuti, dirà agli italiani che si dimetterà per l’età e per la salute. E troverà una sintesi diversa da quella affidata recentemente nel dialetto natìo, il napoletano, al vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri: “Nun c’a faccio cchiù”. “Non ce la faccio più”. A quel punto il 14 gennaio, il giorno successivo alla fine del semestre europeo a guida italiana, invierà le sue dimissioni a Pietro Grasso, Laura Boldrini e Renzi. Al primo, presidente del Senato, sarà affidata la delicata supplenza del vertice della Repubblica. Alla seconda, alla guida della Camera, spetterà la convocazione a Montecitorio dei grandi elettori (il numero è 1.009) entro le due settimane previste dalla Costituzione. Si comincerà verosimilmente il 29 gennaio, di giovedì.
Lo sfogo di Re Giorgio a Natale: “Renzi non mi ascolta”
Il primo a essere drammaticamente consapevole del Caos che si impadronirà del Parlamento in seduta comune è proprio Napolitano. Non a caso il pessimismo è il sentimento prevalente tra i suoi antichi amici. Tipo Emanuele Macaluso che in un’intervista ha detto esplicitamente che “sarà l’elezione più caotica di sempre”. E tipo Ugo Sposetti, ex tesoriere ds e senatore, che al Foglio ha pronosticato con minaccioso sarcasmo almeno 202 franchi tiratori, il doppio dei 101 antiprodiani del 2013. Di qui la controffensiva renziana per spargere ottimismo e serenità, diffondendo numeri altisonanti e rassicuranti. Ma la realtà non è così, se lo stesso capo dello Stato, in occasione degli ultimi incontri al Colle per le feste natalizie, ha avuto un lungo sfogo sulle maldestre e spregiudicate manovre del premier. Ecco Napolitano, nella versione riferita dai suoi interlocutori: “A Renzi ho tentato di dare alcuni consigli ma lui non mi ha mai ascoltato. Adesso però non ce la faccio più fisicamente e devo andarmene. L’unica cosa che ho potuto fare è quella di blindarlo in nome della stabilità ma molto dipenderà da chi verrà qui dopo di me. Ci vuole una figura autorevole e autonoma, non un personaggio scelto in base ai sondaggi del momento oppure per assecondare senza se e senza ma il patto del Nazareno”. I rischi di quest’ultimo punto, l’accordo tra
B. e Renzi, sono evidenti a Napolitano. Ed è per questo che volutamente, secondo quanto riportato dall’Huffington Post, il presidente della Repubblica ha ricordato in questi colloqui i momenti di “opposizione e contrasto” all’ex Cavaliere. Il motivo è semplice: il futuro capo dello Stato, per Napolitano, deve essere autonomo da Renzi ma anche da Berlusconi, il quale al contrario va dicendo ai suoi che gli andrebbe bene persino Romano Prodi se questi gli garantisse una grazia piena, in grado di estinguere gli effetti della Severino (interdizione per 6 anni) e consentirgli così la sesta candidatura a premier quando sarà. La solita solfa della pacificazione ad personam.
Esiste il Mister X del premier? I capitoli Amato e Prodi
Tra l’ennesimo ricatto di B. (che può garantire solo 100 grandi elettori, tolti i ribelli di Raffaele Fitto) e il modello democristiano che ha in testa Renzi (un presidente al servizio di Palazzo Chigi e non viceversa, stile Prima Repubblica), si inseriscono le perfidie tattiche del troncone centrista diviso in tre: alfaniani di Ncd, casiniani dell’Udc, ex montiani di Scelta Civica. In questo quadro, è impensabile un metodo Ciampi. Anche perché in giro non c’è nessuno che corrisponda al profilo unificante del misterioso Mister X, il famigerato asso che Renzi dice di avere nella manica della sua camicia bianca. A meno di un mese i candidati veri sono pochissimi. Se tutti si adeguassero all’ultima, estrema moral suasion di Napolitano il nome è quello di Giuliano Amato, su cui oltre a Berlusconi potrebbero convergere alcuni volti della minoranza dem, da Bersani a Fassina. Ma i bersaniani, in prima battuta, useranno Romano Prodi come manganello antirenziano con l’obiettivo di dire sì a un ex ds (Piero Fassino?). C’è quindi la carta Grasso: il presidente del Senato è attento a non farsi bruciare ed è in prima fila. Alla fine verrà fuori il metodo Napolitano, quello della prima elezione. L’attuale capo dello Stato fu una seconda scelta dei Ds (la prima era D’Alema) e venne eletto al quarto scrutinio con 543 voti, con la maggioranza assoluta. Nel frattempo si continuano a bruciare nomi. Stavolta dovrebbe toccare all’ineffabile Luigi Zanda, capogruppo del Pd a Palazzo Madama.

La Stampa 28.12.14
Jobs Act, si riapre lo scontro
Divisioni nella maggioranza
Ichino attacca il governo: cancellato il comma che escludeva gli statali
di Francesco Grignetti


Critiche a non finire, contro il governo. Ma Matteo Renzi tira dritto. E ironizza, su Twitter: «Si arrenderanno all’improvviso, quando non potranno più negare la realtà. Per adesso, noi, al lavoro!». E quella parolina, «lavoro», non sembra scelta a caso.
Ha scatenato polemiche, intanto, il senatore Pietro Ichino, uno tra i più importanti giuslavoristi d’Italia prestato alla politica, in quanto apre un inaspettato fronte di discussione: la nuova normativa sui licenziamenti e il contratto a tutele crescenti vale soltanto per il settore privato o anche per il settore pubblico? Il governo, per bocca del ministro Madia, ha chiarito subito che i dipendenti pubblici sono un’altra cosa. A sua volta il ministro del Welfare, Giuliano Poletti, taglia corto: «Tutta la discussione sulla legge delega è stata fatta sul lavoro privato e quindi non è applicabile al pubblico impiego».
Fin qui le tensioni tra forze politiche ed esponenti di governo. Quindi, quelle tra governo e sindacati. Nel mezzo, ci sono pure i licenziamenti collettivi. «Inaspettatamente» il decreto prevede, infatti, che le regole sui licenziamenti individuali valgono anche per quelli di almeno cinque lavoratori. Una regola che se da un lato ha placato le tensioni nella maggioranza dall’altro ha acuito lo scontro, peraltro già acceso, con i sindacati che chiedono modifiche e soprattutto annunciano altri scioperi.
Le posizioni
I temi, dunque, restano aperti come pure restano distanti le posizioni: sia dentro il pd che tra il partito guidato dal premier e il Nuovo centrodestra. La rotta, se cambierà, si capirà quando le commissioni parlamentari invieranno al governo il loro parere. Per ora, le indicazioni dell’esecutivo sono chiare: avanti tutta, indietro non si torna. Non a caso Filippo Taddei (responsabile economico del pd) ribatte a Pietro Ichino che, «alla fine conta il testo che esce, non conta il gossip. La stesura del provvedimento è prodotta dal ministero del Lavoro e dalla Presidenza del Consiglio, e di nessuno di questi due luoghi fa parte il senatore Ichino». E così dice anche Cesare Damiano, della combattiva minoranza Pd: «È stato chiaro fin dall’inizio, i lavoratori del pubblico sono con altre regole rispetto all’impiego privato». Di pare opposto, invece, il sottosegretario al Tesoro, Enrico Zanetti (Sc) che abbraccia le tesi del senatore Ichino: «Trovo francamente sconcertante questo affannarsi di alcuni ministri nel negare l’applicabilità del jobs act al pubblico impiego. Come si fa a non capire che certi distinguo non rappresentano giuste rassicurazioni per il pubblico impiego, bensì ingiuste discriminazioni per i dipendenti del settore privato?».

Repubblica 28.12.14
“Referendum per abrogare il Jobs Act”
Minoranza Pd sul piede di guerra
Fassina: “Le Camere hanno le mani legate, torniamo a parlare con chi sta fuori dai palazzi”
Damiano: “I licenziamenti collettivi non erano previsti, servono modifiche”
Gotor: “Vedo una lesione costituzionale”
di Giovanna Casadio e Valentina Conte


ROMA Un referendum per abrogare il Jobs Act. «È un’ipotesi da valutare con grande attenzione », ammette Stefano Fassina, minoranza pd. D’altro canto, con una partita parlamentare praticamente chiusa «mani legate» le definisce l’ex viceministro dell’Economia forse è opportuno «tornare a parlare con chi sta fuori dai palazzi, a tutti, anche quelli non toccati dalla legge, come fu per la consultazione sull’acqua». E magari spiegare che cos’è il Jobs Act. Ci crede Fassina. Anche perché come ammette Miguel Gotor, senatore bersaniano, «la battaglia politica non può avere più una ricaduta parlamentare ». La delega sul lavoro - il Jobs Act - è ormai legge, la 183 del 2014. Il governo ha approvato i primi due decreti delegati. Alle Commissioni di Camera e Senato spetta un parere, ma solo consultivo.
«L’opinione delle Commissioni pesa», osserva Guglielmo Epifani, ex leader Cgil, ex segretario del Pd, ora deputato, che però ha votato sì alla riforma del lavoro di Renzi. Potrebbe pesare politicamente se il governo ne tenesse conto. Difficile, annusata l’aria che tira. «Si tratta di capire da un punto di vista costituzionale se c’è stato eccesso di delega da parte del governo», spiega Gotor. Altro i parlamentari non possono fare. Esiste poi la possibilità di un ricorso alla Corte Costituzionale, perché «per la prima volta, a parità di contratto a tempo indeterminato, hai due lavoratori con diritti diversi». Quello con l’articolo 18 e quello senza. «Vedo una lesione costituzionale», sibila Gotor. Ci vorranno mesi.
Eccesso di delega. Corte. Referendum abrogativo. Queste le strade per contrastare il Jobs Act. La consultazione popolare è di certo la più forte. Si vedrà. Intanto tornano sulle barricate anche i “trattativisti” del Pd capitanati da Cesare Damiano e dal capogruppo dem Roberto Speranza. Damiano è alla guida della Commissione Lavoro che alla Camera è chiamata a dare il parere al governo. Un parere non vincolante ma - sottolinea Speranza - politicamente rilevante. Bocciano le deleghe così come sono state scritte e chiedono la modifica di tre punti. Innanzitutto un “no” deciso ai licenziamenti collettivi, che «non erano previsti», spiega Damiano. E poi «da correggere l’indennità di licenziamento che non può essere di 4 mensilità ma almeno di 6, e da reintrodurre il riferimento ai contratti collettivi a proposito di licenziamento ». L’ex sindacalista Fiom ricorda che su questa trincea ci sono una settantina di deputati dem, che si riconoscono nella corrente “Area riformista”. «Trattare non significa scendere dalle barricate».
Anche se la battaglia parlamentare è ormai superata, il pressing politico resta e agita il Pd. Non sarebbe bene affrontare il passaggio delicato dell’elezione del presidente della Repubblica a fine gennaio, reduci da uno scontro duro nel partito proprio sul lavoro. È l’avvertimento a Renzi. Guglielmo Epifani, Enzo Amendola, Andrea Manciulli sono in prima fila sul fronte delle correzioni, pur avendo assunto sul Jobs Act posizioni di dialogo con il governo e evitato la fronda della sinistra di Cuperlo, Fassina, Civati. Speranza valuta positivamente i risultati ottenuti: «Abbiamo evitato la pretesa impropria di azzerare la possibilità di reintegro. Ora però i pareri del Parlamento devono valere per modificare ulteriormente il testo definitivo del governo».

La Stampa 28.12.14
Damiano: vanno esclusi i licenziamenti collettivi dalla nuova disciplina
di Alessandro Barbera


Soddisfatto non nega di esserlo già. «Renzi era favorevole ad una maggiore flessibilità in uscita, l’abbiamo convinto a trovare una soluzione più ragionevole». Spera in ogni caso di ottenere di più. Le commissioni Lavoro di Camera e Senato avranno a disposizione trenta giorni dalla ripresa dopo la Befana. Il loro parere a questo punto non è vincolante, ma «noi combattiamo». A nome della minoranza Pd Cesare Damiano ha pronte tre richieste: l’esclusione dei licenziamenti collettivi dalle nuove regole, una lista specifica delle cause per le quali si può essere licenziati per motivi disciplinari, un aumento del numero minimo di mensilità per il risarcimento. «Vogliamo anzitutto evitare che le regole per il licenziamento collettivo siano diverse fra vecchi e nuovi assunti». Del resto, se fosse dipeso da lui, le regole non sarebbero state toccate. Né si sarebbe fatto alcuna modifica alle regole sul licenziamento disciplinare. «Non è corretto limitare il reintegro alla insussistenza del fatto contestato, sarebbe più corretto prevedere un richiamo ai codici già definiti nei contratti collettivi. Per intenderci: occorre stabilire per legge quali sono i comportamenti meritevoli di richiamo - orale o scritto - e quelli estremi meritevoli di licenziamento». Terzo: «L’indennità minima prevista come risarcimento è ancora troppo bassa, deve salire da quattro a sei mensilità. Il governo ha accolto la nostra richiesta di aumentarla di due mesi per ogni anno di lavoro, ma si può fare di più». Damiano è ottimista: «All’inizio dovevano essere introdotti anche l’opting out (il meccanismo per permettere il licenziamento anche in caso di reintegra con un risarcimento più alto, ndr) e il licenziamento per scarso rendimento, ma siamo riusciti a farci ascoltare». L’ex ministro non ha dubbi sul fatto che le nuove regole non si applicheranno al pubblico impiego - «così ci ha sempre detto il governo» - mentre glissa alla domanda se ciò aumenti il rischio di ricorsi alla Corte costituzionale per disparità di trattamento. Fosse dipeso da lui, la disparità non sarebbe mai stata introdotta.

il Fatto 28.12.14
Licenziamenti collettivi e statali, pericolo Jobs Act
La Cgil si mobilita ma per ora niente referendum
di Salvatore Cannavò


Da una parte il Nuovo centrodestra mastica amaro per alcune mancanze del Jobs Act e aizza la polemica sugli statali. Dall’altra è la Cgil (più Stefano Fassina del Pd) a sparare a zero sulle modifiche all’articolo 18. Matteo Renzi si barcamena tra due posizioni opposte che, di fatto, si elidono finendo per rafforzare il premier. Agli uni, infatti, dirà di aver scontentato gli altri e viceversa. E così non è un caso se la giornata semi-festiva ruoti attorno all’immancabile tweet di Renzi: “#24dic: svolta su Taranto, lavoro, delega fiscale, Inps mentre si chiudevano vertenze Termini Imerese e Meridiana. #lavoltabuona, #nonsimolla”. Oltre a questo messaggio il presidente del Consiglio aggiunge: “Si arrenderanno all’improvviso, quando non potranno più negare la realtà. Per adesso, noi al lavoro! ”. In un turbinio di messaggini poi, a uno dei suoi tanti follower, che lo incoraggiano ad andare avanti, risponde: “Sarà fatto! Andiamo avanti a testa alta”. Messaggi che sembrano fatti apposta per irritare sindacati e sinistra interna al Pd, che infatti si irritano. Anche la polemica, a mezzo stampa, esplosa in mattinata tra la ministra Marianna Madia e il senatore di Scelta Civica, Pietro Ichino, sull’estendibilità del Jobs Act agli Statali, sembra rientrare dopo il bonario intervento di Giuliano Poletti: “Il Jobs Act non vale anche per i lavoratori del pubblico impiego, assicura il ministro del Lavoro, perché tutta la discussione sulla legge delega è stata fatta sul lavoro privato e quindi non è applicabile al pubblico impiego”.
Avanti tutta, dunque, come promesso da Renzi. Resta il nodo dell’iniziativa sindacale. Susanna Camusso ha promesso una battaglia a tutto campo. All’ultimo direttivo la Cgil ha approvato un ordine del giorno che avvia una fase di conflittualità nelle fabbriche e luoghi di lavoro. Ma non viene esclusa la via dei ricorsi giudiziari mediante l’articolo 2106 del codice civile che riguarda il rapporto proporzionato tra infrazione e sanzione. Difficile, per ora, che si vada a un referendum abrogativo come proposto dal giuslavorista Piergiovanni Alleva in un articolo sul manifesto. Il provvedimento riguarda il 40% della popolazione, dicono in Cgil, non è il caso di chiamare tutti a pronunciarsi.

il Fatto 28.12.14
Previsioni
Assumere e poi licenziare può essere un ottimo affare
di Sal. Can.


Si era attirata diverse accuse, al grido di “vedrete i documenti finali”. Leggendo i decreti legislativi, però, occorre sottolineare che aveva ragione la Uil quando aveva denunciato il vantaggio che avranno le imprese ad assumere con il nuovo contratto a tutele crescenti anche in caso di indennizzi per licenziamento illegittimo. Le tabelle, messe a punto dal responsabile Lavoro privato Guglielmo Loy, sono molto chiare. Per i datori di lavori che assumeranno dal 2015, risulta un beneficio positivo in ognuna delle simulazioni effettuate dal sindacato di Carmelo Barbagallo sia in caso di licenziamento dopo uno, dopo tre o dopo cinque anni dall’assunzione nell’ipotesi di redditi annuali variabili dai 12 ai 45 mila euro annui.
Nel caso intermedio di licenziamenti avvenuti al termine dei tre anni di benefici previsti dalla legge di Stabilità, il saldo positivo oscilla dai 5.742 euro per un dipendente da 12 mila euro annui ai 14.451 euro per un dipendente da 25 mila euro annui.
I benefici sono dati dalla somma tra gli sgravi contributivi per i primi tre anni di assunzione (con un tetto massimo di 8.060 euro) e il taglio dell’Irap. Il costo stimato, invece, riguarda il calcolo di due mensilità per ogni anno di assunzione con le quattro mensilità minime indicate dai decreti legislativi. Il vantaggio per le imprese, dato dall’incrocio tra Jobs Act e legge di Stabilità, è pieno e misurabile. E rientra nello spirito del provvedimento: sin dall'inizio, ha puntato sull’idea che incentivare le aziende costituisce il miglior volano all’occupazione. “Non ci sono più alibi”, ripete Matteo Renzi. Il sostegno alle imprese è tale che, assicurano fonti sindacali, le assunzioni da qualche settimana, cioè da quando è prevedibile la nuova norma, si sono diradate. Se funzionerà lo si verificherà solo tra un po’, quando sarà chiaro – ma con quali strumenti di misura? – se l’occupazione sarà o meno aumentata.
A meno che il governo non decida di rendere permanenti gli sgravi contributivi. Allora, il gioco dei licenziamenti per assumere nuovi dipendenti, beneficiando di sconti, sarebbe talmente evidente che servirà una norma anti-furbetti.

il Fatto 28.12.14
Posto a rischio
Lavoratori pubblici, Poletti e Madia non rassicurano
di Sal. Can.


Se la riforma del mercato del lavoro dovesse essere estesa o meno ai lavoratori del pubblico impiego è polemica che si era già avuta nel 2012, al tempo delle prime modifiche effettuate dalla ministra Elsa Fornero.
All’epoca, la spuntò la tesi “conservativa” dei diritti, difesa dall’allora ministro del Pubblico impiego, Filippo Patroni Griffi. Oggi la stessa posizione è tenuta dall’attuale ministra, Marianna Madia, che ha controbattuto all’ipotesi dell’estensione delle norme avanzata dal senatore Pietro Ichino. “I lavoratori pubblici sono assunti per concorso”, ha detto Madia, “quindi il licenziamento non li riguarda”. “Il ministro sbaglia – ha risposto Ichino –la subordinazione alle regole del lavoro privato è già prevista dal Testo unico sul pubblico impiego e la prova che sia così”, aggiunge il senatore di Scelta Civica, “è che all'ultimo momento è stata cancellata la norma che ne prevedeva espressamente l’esclusione”. Ieri il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha bloccato il senatore giuslavorista assicurando che la legge riguarda “solo il lavoro privato”.
Però il Testo unico del pubblico impiego stabilisce che “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto che costituiscono disposizioni a carattere imperativo”. L’articolo 51, inoltre, stabilisce che “la legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori) e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.
Le “successive modificazioni” sembrano chiaramente riferirsi al Jobs Act. In questo senso, quindi, dovrebbe avere ragione Ichino. Va però detto che lo stesso Testo unico, dall’articolo 55 e seguenti, definisce “disposizioni che costituiscono norme imperative”, proprio a proposito delle sanzioni e delle infrazioni regolando specificamente il licenziamento disciplinare. Ma la polemica in corso, e il merito del Jobs Act, riguardano la possibilità di reintegro che, al momento, non sembra potersi estendere a contratti a tempo indeterminato per gli statali. A meno che il governo, preso atto della dubbia interpretazione, non intervenga ancora.

La Stampa 28.12.14
Madia: “Le regole valgono solo per i dipendenti privati”
intervista di Francesca Schianchi

qui

Corriere 28.12.14
Poletti esclude il Jobs act per il pubblico impiego
Insorgono i sindacati (anche la Cisl). Il ministro contestato dal sottosegretario Zanetti: sconcertanti precisazioni
di Giovanna Cavalli


ROMA Di crescente c’è più che altro lo scontento dei sindacati. Ricompattati — la più «morbida» Cisl accanto ai duri di Cgil e Uil — sulla questione se le norme sui licenziamenti del Jobs act possano valere anche per i dipendenti pubblici, come ha sostenuto ieri sul Corriere della Sera il professor Pietro Ichino, uno dei padri del contratto a tutele crescenti. No, no e no, è stata la risposta.
Poi ognuno ha le proprie argomentazioni. «Premesso che l’unica novità di questa normativa è che il datore di lavoro ti può mandare a casa quando e come gli pare, ci si dimentica che i licenziamenti disciplinari per gli statali già esistono: se rubi, vai a casa», si arrabbia Rossana Dettori, segretario generale Funzione pubblica della Cgil. «Per quelli economici poi la vedo complicata: un ministero in crisi, chiude. E che fa, lo Stato, dichiara bancarotta? Infine ricordo che si entra per concorso, a tempo indeterminato. Andrebbero riscritte le regole. Se passa la riforma, faremo tante cause».
O tutto o niente, sostiene Guglielmo Loy, segretario confederale Uil. «Il governo non può bloccare contrattazione e salari e privatizzare il rapporto di lavoro pubblico solo per avere accesso ai licenziamenti. Il pacchetto si prende completo, non solo la parte negativa: allora si riapra la contrattazione». Ma non ritiene che Renzi voglia davvero arrivare a questo: «La mia impressione è che Ichino ci abbia messo del suo, ma che non fosse questa l’intenzione del governo».
Del resto, dopo il no del ministro per la Pubblica amministrazione Marianna Madia, anche quello del Welfare, Giuliano Poletti, ha ribadito che «il Jobs act non vale per i lavoratori del pubblico impiego». Precisazioni che hanno irritato il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti (di Scelta civica, come il senatore Ichino): «Sconcertante questo affannarsi di alcuni ministri nel negare l’applicabilità del Jobs act al pubblico impiego».
Quanto ai licenziamenti collettivi, Poletti assicura che le procedure per risolvere le crisi aziendali, come nel caso Electrolux, resteranno immutate. Ma è il dibattito sugli statali a tenere banco. Giù le mani dal dipendente pubblico, ammonisce Francesco Scrima, segretario generale Scuola della Cisl (settore in cui è la sigla più forte), finora il sindacato più propenso al confronto. Non su questo punto. «Nel pubblico impiego ci sono lavoratori precari da decenni che vanno risarciti. Nessun privato avrebbe trattato così male i propri dipendenti, da sei anni senza contratto. Lo statale non è un privilegiato». Se la Cisl si è dimostrata possibilista sul Jobs act nel privato, con la formula delle tutele crescenti per i nuovi assunti, «è solo per eliminare il precariato».
Un dibattito intenso, come testimonia anche un fitto scambio su Twitter di Tommaso Nannicini, tra gli estensori dei decreti attuativi per Palazzo Chigi, con economisti e giuslavoristi (lungo botta e risposta con Michele Tiraboschi). «Qualsiasi riforma finisce nel tritacarne di chiacchiere da bar, ideologismi e personalismi» scriveva ieri.

Corriere 28.12.14
Taddei: «Gli statali? In teoria tutto è possibile Ma noi non lo vogliamo»
«Le riforme vanno fatte senza i blitz»
di Lorenzo Salvia


ROMA «Dal punto di vista tecnico tutto è possibile ma quello che conta è la volontà politica. E l’intenzione del governo è che le nuove regole non valgano per i dipendenti pubblici. Se è necessario lo chiariremo nei prossimi passaggi del provvedimento». Filippo Taddei, responsabile Economia del Pd, ha guidato la trattativa sul primo decreto attuativo del Jobs act , quello che introduce il contratto a tutele crescenti.
Professore, Piero Ichino, relatore al Senato del Jobs act, ha spiegato che le regole diverse per gli statali riguardano solo assunzioni e promozioni. Perché lei dice che sono esclusi da tutta la riforma?
«Perché le riforme non si fanno con i blitz. Se si vogliono applicare queste norme anche a loro bisognerà avviare un processo di confronto e coinvolgere anche il ministro competente, Marianna Madia».
Ma, al di là delle intenzioni, così come è scritta la norma si applica oppure no a loro?
«Ripeto, vale la volontà politica che è quella di trattare la materia in un altro provvedimento, la delega sulla pubblica amministrazione. In ogni caso il decreto ora passa alle Camere per i pareri e poi torna in Consiglio dei ministri. Piccoli aggiustamenti sono possibili».
La norma che li escludeva c’era, racconta sempre Ichino, ma è stata cancellata all’ultimo momento.
«Trovo molto scorretto portare alla discussione pubblica solo alcuni passaggi intermedi di una discussione complessa. Ciò che conta è il risultato finale. Se ognuno si mette a sollevare il suo punto di vista...».
La sento piuttosto arrabbiato con il senatore Ichino.
«Assolutamente no, massimo rispetto per il senatore. Ma il decreto è stato scritto da presidenza del Consiglio e ministero del Lavoro. Molti sono stati ascoltati, questo non significa che siano gli estensori materiali del testo».
Ma è giusto che per pubblico e privato valgano le stesse regole oppure no?
«Bisogna tener conto della specificità della pubblica amministrazione, la cui logica non è gerarchica come nelle aziende che devono massimizzare il profitto. Nella pubblica amministrazione gli obiettivi sono molteplici e la gerarchia molto più orizzontale. I margini di autonomia del dipendente pubblico possono essere diversi. Però con questa discussione stiamo perdendo di vista il cuore del provvedimento».
E qual è?
«Abbiamo rimesso al centro il lavoro stabile, quello più colpito dalla crisi di questi anni».
Però a marzo avete reso più flessibili i contratti a termine.
«Infatti secondo me bisogna intervenire anche lì. I contratti a termine sono usati, anche in modo improprio, come una sorta di periodo di prova. Questo poteva aver senso con il vecchio contratto a tempo indeterminato ma non con quello a tutele crescenti. La durata massima dei contratti a termine, che oggi è di tre anni, a mio giudizio dovrebbe essere ridotta».
Sui licenziamenti collettivi ci saranno vecchie e nuove regole. Non si rischia il caos?
«Secondo noi non è un grosso problema. Mentre era importante garantire uniformità di trattamento tra i licenziamenti economici individuali e quelli collettivi, che sono economici per definizione».
Anche perché le nuove regole saranno estese a tutti, giusto?
«Capisco l’ossessione normativa ma il ricambio naturale sarà molto più veloce di quanto si creda. Oggi il 10% dei dipendenti ha un’anzianità di servizio inferiore ai dodici mesi. Nel giro di quattro anni, le nuove entrate cambieranno radicalmente il mercato del lavoro».
Ci vuole un chiarimento tra Poletti e Renzi?
«Qui siamo nel retrobottega della politica, mi rifiuto di commentare. I rapporti fra il presidente del Consiglio e il ministro del Lavoro sono eccellenti. E al di fuori del raccordo anulare di Roma questa storia non interessa a nessuno».

Corriere 28.12.14
Del Conte: «Il doppio regime delle tutele durerà per poco»
di Rita Querzè


Milano Inutile cercare di individuarlo tra le facce della Leopolda. Maurizio Del Conte non c’era. Nulla ha a che fare con il cerchio magico renziano. Nonostante ciò, a ottobre ha ricevuto una telefonata. Proposta: diventare consulente giuridico di Palazzo Chigi e occuparsi della stesura del Jobs act. «C’era da aspettarselo, tutti scontenti, a destra e a sinistra», allarga le braccia Del Conte, 49 anni, professore di diritto del lavoro in Bocconi. «Ma il vero problema è che troppi stanno guardando a queste nuove norme con occhiali sbagliati». E quali sarebbero quelli giusti? «Il fatto che nella maggioranza dei casi la reintegrazione venga sostituita da un indennizzo è comprensibile solo se consideriamo il rapporto di lavoro come un patto basato sulla fiducia. Non si può imporre dall’alto la convivenza tra un datore di lavoro e un dipendente. Se il rapporto di fiducia viene a cessare, allora il risarcimento può essere una soluzione più ragionevole di una ricostruzione forzosa del rapporto». Lo stesso Del Conte è consapevole del fatto che il doppio binario delle tutele — forti per chi è già assunto, allentate per chi entrerà d’ora in poi — non potrà reggere a lungo. «L’efficacia delle tutele crescenti si misurerà dalla capacità di creare più posti a tempo indeterminato e ridurre le forme di contratto atipico. Se questo accadrà, allora il doppio regime delle tutele reggerà per poco. Cinque anni o anche meno». Il giuslavorista si volge a destra, a sinistra e al centro per difendere l’impianto della legge. Il licenziamento per scarso rendimento caro a Ncd? «L’idea è del tutto arbitraria, questo sì avrebbe lasciato mani totalmente libere al datore di lavoro e al giudice». Il sistema dell’ opting out ? «Avrebbe contraddetto la delega che il governo ha ricevuto dal Parlamento dove si dice che devono esistere fattispecie di licenziamento disciplinare che prevedano la reintegrazione». Il doppio binario di tutele anche per quanto riguarda i licenziamenti collettivi? «Una scelta necessaria alla coerenza dell’impianto della legge. Visto che il licenziamento individuale di tipo economico viene ad avere un doppio binario di tutele, è logico che la stessa dicotomia si rispecchi nel licenziamento collettivo». Anche il sindacato promette battaglia. «Il sindacato rischia la marginalizzazione, questa legge in realtà gli offre un’opportunità. Se i lavoratori torneranno ad avere contratti a tempo indeterminato il lavoro della rappresentanza diventerà più facile».

il Fatto 28.12.14
Il treno Italia rimane ancora fermo in stazione
di Furio Colombo


Molti Paesi, in questo mondo difficile, hanno vari problemi. Ma solo l’Italia li ha tutti: le istituzioni, il governo, il Parlamento, i partiti, l’economia e le sue tre parti fondamentali, l’impresa, il lavoro, il consumo. E anche l’immigrazione (accogliere o respingere) i giovani (senza scuola e senza lavoro), gli anziani (le pensioni, esagerate o ridicole), la salute (l’intero Paese). Questa sorta di miracolo negativo è avvenuto per la curiosa idea di riverniciare un treno fermo nella strana convinzione che, una volta cambiato aspetto, il treno fermo avrebbe ripreso la corsa, applaudito da tutti. Riverniciare un treno fermo è un progetto non rapidissimo, persino se si adotta l’espediente (che favorisce gli errori) di accelerare ogni gesto, come nelle vecchie comiche.
MA IL VERO punto negativo è che non serve. Esempio: tutto il tempo e il costo impiegato finora per abolire il Senato non ha abolito il Senato. E quando lo avrà fatto, a parte qualche discorso molto efficace di celebrazione e auto-elogio, il treno sarà ancora fermo nello stesso punto e sullo stesso binario. Nel frattempo manca una legge elettorale che non si può fare fino a quando non sapremo se abbiamo due Camere o una Camera sola. E quando lo sapremo, vari, diversi progetti, mischiati o sovrapposti o scambiati fra gruppi (non necessariamente degli stessi partiti) continueranno a tenere fermo il convoglio. Grandi i lavori di cambiamento nel vagone lavoro, soprattutto spostamento di sedili e dei modi di salire a bordo. Si potrebbe discutere se tutto questo serve, e a chi. Ma non è necessario. Il treno non è agganciato ad alcuna locomotiva e dunque, per quanto si modifichino le sue parti interne, ciascun vagone rimarrà immobile.
Per fare un esempio, c’è un altro vagone indicato come Pubblica amministrazione. Era già gremito di passeggeri disorientati che non sanno dove andranno. Sono passati controlli a promettere multe e trasferimenti, ma non hanno dato alcuna spiegazione sulla partenza. Per esempio, in questa parte del treno fermo, vogliono più Stato o meno Stato? Ovvero, far scendere gli impiegati e salire i privati (che però hanno i loro mezzi di trasporto e i loro prezzi per muoversi)? Ma diamo un’occhiata al vagone Giustizia. Qui, ci hanno detto che, per poter ripartire, è necessario che i passeggeri abbiano meno vacanze e parlino solo con le sentenze (che però – è stato precisato con fermezza – non devono interferire con gli organigrammi della politica né con quello delle aziende: ovvero niente avvisi di garanzia a chi comanda).
Pare che i passeggeri, qui, siano riottosi, ma non sono loro a tenere fermo il treno. Se anche all’improvviso regnasse la disciplina subordinata del silenzioso sistema giudiziario che è stato disegnato per loro, resterebbero dove sono, senza mezzi e senza organico. Grande discussione, nel vagone Scuola, sulla opportunità di avere il computer e l’inglese subito o aspettare che passi qualche anno di maturazione. Ma nessuno ha caricato a bordo bagagli e personale adatto. Se il treno si muovesse adesso si dovrebbe fare a meno di computer e di inglese. Sul vagone Previdenza dove, per risparmiare, si tengono spente le luci, siedono in ansia persone che, di volta in volta, vengono accusate di ricevere troppo (senza badare al lavoro svolto, alle tasse pagate, ai contributi versati in proporzione) o troppo poco (e in questo caso devono provvedere i vicini di sedile) e di essere comunque un peso eccessivo perché sono troppi, dato il prolungamento della vita. Nessuno ha notato che questi anziani dalla vita prolungata passano continuamente sostegno al vagone dei giovani, tenendoli in vita, a scuola, e con un filo di speranza in tempi migliori.
Ma perché il treno resta fermo? La risposta è che nessuno è in grado di rispondere alla domanda: se si muove, dove va? Il fatto è che in questa Italia, dopo vent’anni di vita spericolata e fuorilegge dei governi Berlusconi, qualcuno ha improvvisamente deciso che si doveva stare insieme e decidere tutto insieme, dapprima nel modo strano e imprevedibile detto “larghe intese”, che ha liquidato in un istante tutto il lavoro di opposizione (per quanto mite e indeciso) di venti anni di centrosinistra.
POI, CON UN impasto ancora più difficile da spiegare, in cui il partito di Berlusconi si dichiara all’opposizione, Berlusconi resta partner stretto di governo, è rigorosamente coinvolto nelle decisioni di ogni atto e iniziativa che ha a che fare con il passato (la cosiddetta “riforma della Giustizia”) e che ha a che fare con il futuro (vedi la ricerca di una nuova legge elettorale). Ma non basta. Una scheggia di destra è dentro e accanto al governo, inteso come gabinetto, e detiene il ministero dell’Interno, un potente freno a mano. Perciò il treno, anche volendo, non può partire. Poiché bisogna tenere tutti indaffarati, dentro il governo che sosta sul marciapiede, la parola chiave è riforma. Fare le riforme. Non importa che cosa, non importa come, basta mostrare frenetici lavori in corso. Molti non partecipano, perché vedono fervere lavori che non li riguardano. Perché non hanno alcun lavoro, o lo hanno perduto. Perché vedono il treno fermo, e sanno che niente sta per accadere. Perché si aspettano che nelle locomotiva salirà un eterogeneo personale di viaggio che non può stare insieme e non può separarsi. Tutto comincia qui. E hai un bel chiacchierare, se il treno di governo è sempre fermo in stazione.

Corriere 28.12.14
Renzi lancia la sfida ai critici: si arrenderanno all’improvviso
di Alessandro Trocino


Offensiva via Twitter: «La legge elettorale? Arriva, a gennaio seconda lettura al Senato»
ROMA «#lavoltabuona» e «#nonsimolla». Il presidente del Consiglio Matteo Renzi sceglie Twitter per fare il punto dei lavori del suo esecutivo, dopo la pausa natalizia. E lo fa lanciando l’enne sima sfida ai critici e a chi, come gli ricorda un follower sul social network, accusa l’esecutivo di non fare nulla: «Si arrenderanno all’improvviso, quando non potranno più negare la realtà. Per adesso, noi, al lavoro». Riferimento chiaro a chi critica il Jobs act e ai «gufi» (è di Natale il tweet ironico e polemico della segretaria della Cgil Susanna Camusso che ha pubblicato l’immagine di un gufo).
Tra le critiche anche quella di Cesare Damiano che ieri spiegava: «Abbiamo sconfitto la pretesa di Ncd di imporre al governo norme irricevibili. Ma le obiezioni al Jobs act sono ragionevoli, giustificate: dobbiamo lavorare per escludere dalle nuove norme i licenziamenti collettivi».
E, in attesa di rispondere ai cronisti nella conferenza stampa di fine anno, che si terrà il 29 dicembre, Renzi risponde a chi lo segue su Twitter, suo social network preferito per gli annunci ma anche per le conversazioni con giornalisti ed elettori. Comincia il premier di primo mattino, sintetico, come richiede il mezzo: «Svolta su Taranto, lavoro, delega fiscale, Inps mentre si chiudevano vertenze Termini Imerese e Meridiana». Fioccano le risposte. Il premier sceglie di evitare boutade e insulti e di replicare a chi fa domande o pone questioni concrete. A chi gli dice, «se possibile su #ilva diamo precedenza a progetti prima che a scelta commissari e poltrone grazie», risponde: «Il progetto è serio ed è un progetto Taranto (cultura, porto, bonifiche, ospedale). Non solo Ilva». Nella conferenza stampa della vigilia di Natale, Renzi aveva spiegato che «dall’inizio dell’anno il governo ha chiuso diverse vertenze con le quali sono stati salvati oltre 20.000 posti di lavoro».
«Tutto questo non ha senso, se non si fa la legge elettorale», obiettano i lettori. «Arriva arriva — twitta il premier —. A gennaio siamo in seconda lettura al Senato, ormai ci siamo anche lì». Poi esclude che si tenga un Consiglio dei ministri il 31 dicembre, rassicura chi è preoccupato dell’inquinamento («interveniamo pesanti anche sul risanamento ambientale») e promette: «Andiamo avanti a testa alta».
C’è spazio anche per una sollecitazione sui tribunali: «Presidente ora tocca alla giustizia (inutile) amministrativa. Ci sono processi che durano una vita per capire chi è il giudice». Il presidente del Consiglio risponde secco: «Verissimo. È una delle priorità del 2015».

il Fatto 28.12.14
L’Italia sotto il governo di mafia
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, non hai l’impressione che “mafia capitale” abbia governato molto più che il Campidoglio?
Adelina

PER RISPONDERE userò un bell’articolo pubblicato dal giornale valdese “Riforma” (Chiese evangeliche, battiste, metodiste italiane) a firma Franca Di Lecce (12 dicembre). Ci sono i dati, le cifre, le ragioni. Ma comincerò dalla lettera. Devo dire che l’impressione (forse è meglio dire riflessione) è doppia e rovesciata. Prima riflessione: se invadi e distruggi uno di quei luoghi detti “campi nomadi” (in cui quasi sempre gli abitanti sono stati spinti dopo l'invasione e distruzione di un altro “campo nomadi”) vuol dire che questa è la mossa di un gioco molto più vasto. “L’emergenza nomadi”, qualcosa che coinvolge anche brave persone che ritirano i loro bambini dagli asili se ci sono dei bambini “zingari” è una feroce e crudele invenzione. È un’invenzione politica (bisogna avere un nemico da odiare e respingere i rom, si sa, sono gente dedita al furto, anche di bambini), che ha la sua prima radice negli squallidi personaggi della Lega Nord tipo Borghezio. Pensavamo a una invenzione, dunque a una bugia, con un fine ignobile (l’odio) ma una ragione pratica: cavalcare il pregiudizio per conquistare attenzione. Così circolavano con vigore due leggende: per loro si paga e per gli italiani no. E anche “i rom assediano le nostre periferie”. È strano che quest'ultima, diffusissima affermazione, ripetuta anche da normali “cittadini indignati”, abbia potuto circolare con successo nonostante i fatti: in questo Paese di 60 milioni di persone, i rom e i sinti sono in tutto 180 mila. Metà sono cittadini italiani da secoli, metà vivono e lavorano in modo sedentario e in case normali come tutti gli altri cittadini, metà sono donne e bambini. Allora di che emergenza parliamo? Quando arrivano i documenti giudiziari sul “sacco di Roma” cominciamo a capire la formula: cooperative di varia coloritura politica, radici fasciste, frequentazione a sinistra, e una buona parte di corruzione nelle istituzioni. A questo punto è prezioso l’articolo di “Riforma”, il giornale delle Chiese Protestanti. Il loro editoriale parte da una curiosa svista dei media. Fa osservare che ciò che è accaduto ed è diventato materia di indagini, imputazioni e arresti a Roma e ha ridato celebrità a personaggi di un brutto passato, avviene ogni giorno quasi dovunque in Italia. Poiché tutto è motivato dalla corruzione (piazzo i rom per danaro, rimuovo i rom per danaro, distruggo i loro campi per danaro, ne costruisco altri, altrettanto brutti, per danaro, e le somme sono grandi), e poiché tutto ciò accade ogni giorno in ogni città italiana “assediata dagli zingari”, il cerchio della corruzione e molto più vasto. Non riguarda una città, riguarda il Paese. E bisogna moltiplicarlo, perché accanto alle cooperative dei rom, partecipano al gioco altre cooperative (finto cattoliche, finto fasciste, finto comuniste) molto più forti ed esose che si occupano di immigrati, decidono quanti ne occorrono, dove e come. Nelle spaventose condizioni in cui vivono, possono adeguatamente diventare un tesoro per i manovratori di esseri umani. E qui nasce il più tremendo dei dubbi: pensiamo davvero che queste mani lunghe e ben ambientate nel delitto (decenni di esperienza) non arrivino fino a toccare l'organizzazione dei trasporti di vite umane su cui accumulare altro profitto?

Repubblica 28.12.14
La coerenza è merce rara, ma in Italia la conosce solo la Mafia
di Eugenio Scalfari


QUALCHE tempo fa, prendendo spunto dalle parole pronunciate da papa Francesco che giudicava la povertà come il più grave male che affligge il mondo degli umani, dedicai il mio articolo a quel tema il quale non si limita a dividere gli abitanti del nostro pianeta in ricchi e poveri. Da questa (crescente) diseguaglianza nascono una serie di altri malanni: la sopraffazione, le più varie forme di schiavitù sia pure chiamate in modi diversi, l’invidia, la gelosia, la corruzione, il malgoverno, le rendite parassitarie e perfino guerre e sanguinose rivoluzioni.
Anche oggi utilizzerò parole recentissime di Francesco che hanno come tema la coerenza. «Gli uomini e le donne — ha detto — dovrebbero comportarsi in modo coerente con il loro pensiero e la loro visione della vita, ma purtroppo molto spesso le cose non vanno così. Accade che coloro che si dichiarano cristiani e pensano di esserlo, nella realtà vivono da pagani mettendosi sotto i piedi ogni straccio di coerenza. Questo è un peccato gravissimo e non deve più accadere. La Chiesa sarà molto vigile su questo peccato di incoerenza che ne provoca molti altri, fuori dalla Chiesa ma anche dentro la Chiesa». Francesco ha detto queste parole dal balcone del Palazzo Apostolico ad una piazza gremita e quando ha pronunciato la frase sulla gravità del peccato di incoerenza ha gridato quelle parole a voce altissima con quanto fiato aveva in corpo.
Questo è dunque il tema sul quale oggi vi intratterrò: la coerenza, la sua frequentissima violazione e i danni gravi che ne derivano.
PRIMA di affrontare il tema mi corre tuttavia l’obbligo di dire alcune verità (così almeno credo che siano) su tre questioni di bruciante attualità: il Jobs Act, la legge delega approvata dal Parlamento ha dato luogo ai primi due decreti attuativi; la legge elettorale che sarà tra breve trasmessa in Parlamento e la riforma della legge di Bilancio che il governo proporrà alle Camere il prossimo autunno.
Tre temi della massima importanza, i primi due hanno già suscitato profonde divisioni e aperto un confronto molto serrato con le organizzazioni sindacali dei lavoratori, mentre il terzo è finora ignorato da giornali e pubblica opinione, ma il governo ci sta lavorando e susciterà anch’esso nel momento in cui sarà presentato in Parlamento, proteste altissime e profonde divisioni.
***
Ho già scritto domenica scorsa che il Jobs Act non crea alcun nuovo posto di lavoro, semmai può distruggerne alcuni. Saranno infatti assunti altri precari per un periodo massimo di tre anni, con salari inizialmente assai bassi ma lentamente crescenti. Dopo tre anni gli imprenditori decideranno se assumerli con un contratto a tempo indeterminato ma fermo restando che non godranno — come invece ancora accade per i vecchi assunti — dell’articolo 18. Per i nuovi assunti il 18 non esiste più; ci sarà dunque una diversa contrattualità per lavoratori che fanno il medesimo lavoro nella medesima azienda. La questione potrebbe creare imbarazzi con la Corte costituzionale.
Il Jobs Act non crea dunque alcun posto di lavoro. Potrà forse promuovere i precari in dipendenti regolari di quell’azienda (ma senza articolo 18) concedendo contemporaneamente un forte risparmio agli imprenditori che saranno premiati con l’esenzione dai contributi e con la piena libertà di licenziare i neoassunti durante i primi tre anni ma anche dopo, contro pagamento di un indennizzo da trattare tra le parti.
Il Jobs Act ha avuto nel corso del suo iter parlamentare sotto forma di legge delega molteplici mutamenti, quasi tutti in maggior favore degli imprenditori. In questi ultimi giorni sono usciti i due primi decreti attuativi che saranno presentati alla commissione parlamentare incaricata di fornire al governo un parere puramente consultivo, ma già si sa che in quei decreti c’è anche un trattamento per i licenziati collettivamente (in numero da cinque in su): anche in questo caso indennizzi ma non reintegro deciso — come era un tempo — dal giudice del lavoro.
Grande soddisfazione degli imprenditori ma altrettanto grande opposizione dei sindacati che protestano, invieranno ricorsi alla Corte di Bruxelles contestando i licenziamenti collettivi e forse indiranno nuovi scioperi di categoria o generali. Si può ovviamente dissentire in merito ma sta di fatto che il governo ha scelto da che parte stare e non è una scelta accettabile quella dei forti mettendosi sotto i piedi i deboli.
Si dice che leggi di questo tipo sono gradite dalla Commissione europea, dalla Bce e dal Fmi. A me non pare. Quei tre enti desiderano che l’Italia, come tutti i governi dell’Eurozona, rispetti gli impegni presi: il “fiscal compact”, una politica tendente a ridurre il debito pubblico sia pure con qualche concessione nei tempi e nella quantità, l’aumento della produttività e della competitività. Con quali strumenti questi due ultimi obiettivi debbano essere realizzati non c’è scritto da nessuna parte. Secondo me dovrebbero essere realizzati dagli imprenditori attraverso la creazione di nuovi prodotti e nuovi metodi di produzione e distribuzione. Dell’articolo 18 all’Europa non interessa nulla, riguarda il governo italiano. Produttività e competitività riguardano le aziende e chi le guida, il costo del lavoro, i licenziamenti eventuali e quanto ne deriva pesano esclusivamente sui lavoratori. Per un partito che si definisce di sinistra democratica questa scelta non mi sembra molto coerente.
***
La legge elettorale approderà in Parlamento la prossima settimana e il primo voto dovrebbe avvenire prima del 14 gennaio, giorno in cui sembra che Napolitano lascerà il Quirinale. A me quella legge complessivamente sembra una buona legge che contiene nell’ultimo articolo la clausola di garanzia secondo la quale non potrà essere applicata prima dell’autunno 2016.
La chiamano l’Italicum e — lo ripeto — mi sembra efficace ma è aggrappata all’abolizione del Senato, riforma che mi sembra invece pessima. Ne ho spiegato più volte i motivi e non starò dunque a ripetermi, ma è evidente che la legge elettorale della Camera senza più un Senato crea un regime monocamerale che rafforza moltissimo il potere esecutivo e attenua i poteri di controllo del potere legislativo.
Questo è l’aspetto estremamente negativo: non l’Italicum ma il Senato relegato ad occuparsi delle attività delle Regioni essendo i suoi membri eletti dai rispettivi Consigli regionali. Per un governo che vuole rafforzare i propri poteri questa riforma è l’ideale.
***
Terzo argomento la legge di Bilancio. Attualmente ce ne sono tre: quello che fu un consuntivo del bilancio alla fine dell’anno; quella che un tempo si chiamò legge finanziaria e indica la politica economica e i suoi obiettivi per l’anno futuro; la terza è il trattato europeo dal quale deriva il “fiscal compact” applicato all’Italia da una deliberazione di Bruxelles che ha valore costituzionale per tutti i Paesi dell’Unione. Ricordo tra parentesi che nella Costituzione italiana esiste l’articolo 81 (che fu ispirato da Luigi Einaudi, a quell’epoca ministro del Bilancio e ancora governatore della Banca d’Italia).
Era molto semplice l’articolo 81: tre commi in cui la frase decisiva diceva: «Non può esser fatta alcuna spesa senza che ne sia indicata l’entrata corrispondente ». Ricordo che negli anni Sessanta esisteva alla Camera un comitato di Bilancio (del quale io feci parte nella legislatura 1968’72) al quale andavano tutte le leggi di spesa per un controllo preliminare. Il comitato aveva a disposizione tutti i dati necessari per valutare se il dettato dell’articolo 81 fosse stato rispettato. Se il parere era negativo il governo ritirava il disegno di legge per rifarlo su basi completamente diverse.
Credo che quel comitato sia stato sciolto e forse ricostituito con nuove e più elastiche mansioni. Ma la legge di Bilancio, sia pure attenuata, esiste tuttora e discute, approva o respinge il bilancio sempre sulla base dell’articolo 81 che però è stato alleggerito con l’abolizione del terzo comma dal governo Monti nel 2012.
Nel prossimo autunno quella legge sarà fusa con l’attuale legge di stabilizzazione. Nel frattempo la parola pareggio è stata sostituita (negli studi preparatori in corso) dalla parola equilibrio. La legge deve cioè dimostrare per il passato e promuovere per il futuro l’equilibrio tra le entrate e le spese. All’articolo 81 dunque diamo addio. È chiaro che l’equilibrio sarà anche valutato dal Parlamento cioè dalla Camera ed è chiaro altrettanto che la Camera è un’assemblea in gran parte di “nominati” dalle segreterie del partito che vincerà le elezioni. E poiché siamo un Paese di spendaccioni, è legittimo pensare che il debito continuerà ad aumentare come del resto sta già avvenendo sia pure in regime di “fiscal compact”. Avveniva perfino con l’81 vigente, aggirato in vari modi; figurarci ora che sarà completamente abolito che cosa farà la “Compagnia dei magnaccioni”. Dio ci scampi, ma temo che il Padreterno sia in tutt’altre faccende affaccendato.
***
Ed ora la coerenza. Mi è rimasto meno spazio di quanto pensassi ma qualcosa dirò.
Noi non siamo un Paese abitato da persone coerenti. Parlo naturalmente di coerenza nei rapporti con la società e quindi con la vita pubblica e le istituzioni che la rappresentano.
Noi non amiamo lo Stato, non amiamo le Regioni (che del resto fanno poco o nulla per meritarselo). Non amiamo i giudici e i loro tribunali. Insomma non amiamo chi emette regole alle quali dovremmo attenerci. Detestiamo le tasse e cerchiamo di evaderle. Noi amiamo il “fai da te”. È una libertà? Certo è una grande e importante libertà, ma con un limite: la puoi applicare in pieno purché non danneggi gli altri e la società che tutti ci contiene.
Le mafie prosperano in Italia perché i capi ottengono completa obbedienza e rispetto dello statuto dell’organizzazione e ai riti di iniziazione. Se li tradiscono li aspetta il giudizio del capo e la punizione da lui decretata. Perciò, salvo rare eccezioni, i mafiosi sono coerenti. I non mafiosi no. L’esercito ausiliario della mafia è fatto da non mafiosi il cui “fai da te” ha scelto quella zona grigia che tiene un piede dentro la scarpa mafiosa ed uno fuori. Senza di loro la mafia conterebbe assai poco ma con loro conta moltissimo. Le mafie sono Stati nello Stato perché lo combattono ma ci vivono dentro.
Le persone coerenti della nostra vita pubblica sono molto poche. Li chiamiamo “padri della Patria”, una buona definizione, ma quanti sono da quando nacque lo Stato unitario? Certamente Mazzini, Garibaldi, Cavour lo furono. In modi diversi e spesso conflittuali ma l’obiettivo era unico.
Gran parte della Destra storica che andò al governo dopo la morte di Cavour, e lo tenne per sedici anni costruendo lo Stato unitario nel bene e nel male, merita quel titolo: Ricasoli, Sella, Minghetti, Fortunato, Silvio Spaventa, Nitti e in tempi più recenti Einaudi, De Gasperi, Parri, La Malfa, Di Vittorio, Trentin, Lama, Adriano Olivetti, Calamandrei, Berlinguer, Raffaele Mattioli, Menichella, Pertini, Ciampi, Napolitano.
Ma poi ci furono scrittori e personaggi da loro creati, in Italia e in Europa, che sono esempi di coerenza. Pensate a padre Cristoforo dei “Promessi Sposi” e pensate a Jean Valjean dei “Miserabili” di Victor Hugo. Ed alcuni santi, specialmente monaci, a cominciare da Francesco d’Assisi e Benedetto.
Sembrano tanti questi nomi e molti altri me ne scordo. Ma gli incoerenti sono una massa, senza nome e senza volto ma una quantità che esiste in ogni Paese del mondo. Qui da noi è una moltitudine, una popolazione che vuole ignorare la sua storia e vivere il presente ignorando passato e non riuscendo ad immaginare futuro. Se i docenti delle nostre scuole partissero dal concetto della coerenza e lo applicassero nel bene e nel male ai fatti accaduti, credo farebbero un’opera santa e fornirebbero un’educazione che costituisce la base di un Paese civile.

Corriere 28.12.14
L’Italia non è un Paese interessante per gli investitori
La classifica che il premier dovrebbe tenere a mente
di Francesco Daveri


Mentre l’anno si chiude con l’approvazione del Jobs act, sulla strada del premier Matteo Renzi c’è una classifica che rappresenta la cartina di tornasole dei suoi sforzi per cambiare verso all’Italia. La classifica — stilata ogni anno dalla Banca mondiale — riguarda la facilità di fare affari nei vari Paesi, in funzione delle loro leggi e regole in essere. Il problema del premier è che l’indice della Banca mondiale colloca il nostro Paese al 56° posto nel mondo e al 18° in Europa. Gli indici e le classifiche semplificano troppo ma hanno riflessi sulle decisioni degli investitori internazionali.
La bassa posizione dell’Italia nella classifica sul clima degli affari non dipende dalla lentezza nel riformare la legislazione del lavoro, ma piuttosto dai valori di un solo indicatore in cui l’Italia figura davvero male, quello relativo al numero di giorni richiesti per risolvere una controversia commerciale. In Italia, infatti, calcola la Banca mondiale, per risolvere una lite commerciale ci vogliono 1.185 giorni, tre volte di più che nei grandi Paesi europei. Ai 15 giorni che servono per iniziare la pratica si sommano i 900 richiesti per il processo e la decisione del giudice e i 270 giorni necessari per attuare la sentenza.
E non è una questione Nord-Sud. Certo, a Torino la giustizia civile si muove più velocemente e i giorni per l’attuazione di un contratto si riducono a 855. Il record della lentezza non spetta però ai (lenti) tribunali del Sud ma a quello di Padova dove i giorni richiesti diventano 1.665. E anche a Milano e Bologna chi si rivolge a un tribunale deve aspettare 1.300 giorni, quattro anni e più, per vedere riconosciute le proprie ragioni o i propri torti.
Il premier guarda avanti e non si fa scoraggiare dalle critiche. Ma nello stabilire le priorità farebbe bene a tenere d’occhio i valori di un indice calcolato a Washington. Altrimenti gli sforzi di cambiare verso non basteranno per riportare i capitali in Italia.

Corriere 28.12.14
Enti inutili e resistenti della poltrona
Tutte le tecniche di sopravvivenza
I casi delle società salvate in extremis da emendamenti in Parlamento
di Sergio Rizzo


Resistere, resistere, resistere: imperativo categorico per l’anno che viene.
Resiste il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, di cui un disegno di legge costituzionale ha previsto l’estinzione. E che il disfacimento sia prossimo è evidente non solo dalle dimissioni del presidente dell’Abi Antonio Patuelli e di altri consiglieri, con il risultato che sono rimasti a presidiare Villa Lubin in 45 su 64. Il governo ha deciso di investire il segretario generale Franco Massi, che aveva tagliato i costi e si opponeva al delirio delle consulenze, di un compito decisamente più fruttuoso: la spending review del ministero della Difesa. Mentre la legge di Stabilità ha del tutto azzerato la dotazione, fra le vibranti proteste del presidente Antonio Marzano. Qualche settimana fa, quando la scure stava per calare, ha addirittura scritto a Matteo Renzi chiedendo di avviare le procedure per il rinnovo delle cariche, come previsto, ha preci-sato, «dalla legge n. 936 del 1986». Marzano perderà l’indennità, ma in cambio ritroverà il vitalizio da parlamentare. Intanto c’è ancora qualche milioncino da parte per pagare gli stipendi del personale. Nella segreta speranza che si vada a votare in primavera e la legge costituzionale possa saltare, regalando a tutti qualche scampolo di terapia intensiva.
E magari c’è qualcuno che ancora spera negli spiccioli del ministero del Lavoro. Perché pochi sanno che al Cnel arrivavano quattrini anche da lì: destinazione una struttura interna chiamata «Onc». Presieduta fin dal primo vagito dall’ex sindacalista Cisl Giorgio Alessandrini, classe 1938, fra il 1999 e il 2014 ha avuto dal ministero 5,3 milioni di euro. A un ritmo medio di 250 mila euro l’anno. È il compenso per la realizzazione ogni dodici mesi di un rapporto sugli immigrati e il mercato del lavoro: rapporto pressoché identico a quello prodotto annualmente dallo stesso ministero del Lavoro.
Ma resistono anche i 1.612 enti che l’ex ministro della Semplificazione Roberto Calderoli era arrivato a qualificare come «dannosi», promettendo di spazzarli via. E invece lui al governo non c’è più mentre loro sono vivi e vegeti. Nessuno ha più sollevato il problema con la necessaria decisione. Vivi i difensori civici. Altrettanto i Tribunali delle acque, i Bacini imbriferi montani, gli Ato, come pure i 600 «enti strumentali» delle Regioni che nel frattempo sono pure aumentati di numero. Vivissimi i 138 enti parco regionali nonché la pletora dei consorzi di bonifica fra i quali se ne trovò uno, nelle colline livornesi, che aveva 16 dipendenti e 33 fra consiglieri e revisori.
Per non parlare degli altri enti che si salvarono per il rotto della cuffia durante l’ultimo governo di Silvio Berlusconi grazie a un cavillo concesso loro: rifare in fretta in fretta lo statuto. Salvo l’Istituto agronomico per l’Oltremare. Salva la Cassa conguaglio per il Gpl (Gas di petrolio liquefatto). Salva la Fondazione Marconi. Salva l’Unione italiana Tiro a segno, del cui presidente Ernfried Obrist la Gazzetta dello sport pubblicò cinque anni fa la foto mentre posava accanto ad alcuni tiratori che indossavano la divisa storica delle SS, scatenando l’indignazione delle associazioni dei partigiani.
E salve, soprattutto, le società che Carlo Cottarelli aveva suggerito di chiudere subito. Un caso per tutti? Continua a esistere Arcus, creata dieci anni fa dall’ex ministro dei Beni culturali Giuliano Urbani. Il governo Monti l’aveva chiusa, poi durante la discussione di un decreto del governo di Enrico Letta un emendamento della forzista Elena Centemero l’ha resuscitata, con l’assenso di destra e sinistra. Da allora, l’ex ambasciatore Ludovico Ortona la amministra indisturbato.
Sopravvive pure l’Istituto per lo sviluppo agroalimentare, anch’esso decretato inutile da Monti e poi rianimato in Parlamento. Al pari dell’Istituto per il commercio estero, che poi se l’è cavata con la trasformazione in Agenzia. Anche se con un regalino incorporato: l’obbligo di ingoiare il personale di Buonitalia, società del ministero dell’Agricoltura finita (caso unico) in liquidazione. Sempre meglio, però, del funerale.
Un rischio corso pure dall’Ente nazionale per il Microcredito fondato da Mario Baccini che ne è presidente dalla fondazione, avvenuta nove anni fa quando era ministro. Monti aveva chiuso anche questo, ma il solito emendamento gli ha risparmiato la sepoltura. Per la felicità dell’onorevole Baccini, protagonista di un autentico capolavoro. Perché ha evitato non solo la soppressione della sua creatura, ma pure che le fossero tagliati i fondi pubblici: 1,8 milioni. Ciò grazie a un successivo emendamento alla legge di Stabilità di Monti. Autore, Mario Baccini.
Resta un rammarico. Che votando questi emendamenti i suoi colleghi parlamentari non abbiano mostrato analoga considerazione per un altro soggetto pubblico. Altrimenti, avrebbe resistito anche l’Agenzia per la regolamentazione del settore postale: nata a marzo, morta a novembre 2011. Una delle rarissime vittime dell’apparente lotta agli enti inutili.

il Fatto 28.12.14
Pinotti alla tv della Cei diventa più “cattolica”


“MI SONO ISCRITTA al Pci nell’89, l’anno della caduta del Muro e della svolta di Occhetto, che aveva chiamato a raccolta anche le associazioni cattoliche, come le Acli, la Caritas, in quella che si chiamava ‘Costituente’. Non ho vissuto la Fgci, l’esperienza della formazione comunista, ma votavo Pci, perchè lo sentivo il partito più attento a quelli che ritenevo gli ultimi, secondo una mia lettura del Vangelo”. Nell’appressarsi dell’elezione per il Quirinale la “papabile” ministra della Difesa Roberta Pinotti, intervistata da Tv2000, la televisione della Cei, esalta il proprio lato “cattolico”.
Riflettendo sulla paura, il ministro non nasconde ad esempio di usare l’antidoto della preghiera per far fronte al “groviglio” che è in noi e di sentirsi invece attonita davanti alla violenza del terrorismo più efferato. ”Davanti alla paura la preghiera sicuramente dà forza. Poter pensare che esiste uno sguardo di Dio che va dritto al cuore e guardandoti dentro vede il male e il bene che è in te, e ti ama, pur vedendo il groviglio di cui sei fatto... questo toglie la paura”. Da ex caposcout e ministro in carica, la Pinotti riflette sul senso del comando che sta nel “mettersi al servizio“.

il Fatto 28.12.14
Via Solferino
Corriere, De Bortoli si congeda. Ma l’addio non è ancora sicuro
Con gli auguri il direttore ribadisce l’uscita ad Aprile, se lo scontro tra i soci non lo porterà a rimanere
di Camilla Conti


Milano Natale in casa Rcs: “Forse sono rimasto troppi anni”, ha detto il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli alzando il calice davanti alla redazione riunita per il tradizionale brindisi natalizio. Un discorso che ad alcuni giornalisti è parso come un commiato in vista delle annunciate dimissioni attese in primavera. Altri sono meno sicuri dell’addio. Anzi, nei corridoi della Rizzoli c’è qualcuno che scommette su un altro mandato a sorpresa di De Bortoli anche dopo la scadenza “legale” del suo contratto a fine aprile 2015 nonostante il tassativo niet degli Agnelli, soci di maggioranza del gruppo editoriale. Di certo al brindisi natalizio è stata notata l’assenza, per la prima volta, dell’amministratore delegato Pietro Scott Jovane, cui la Fiat di John Elkann ha affidato il futuro della società. A rappresentare l’azienda c’era solo Alessandro Bompieri. Direttore della divisione Media di Rcs e considerato un manager “amico” dell’attuale direzione del Corriere.
A chi lo ha chiamato per gli auguri negli ultimi giorni De Bortoli continua a dire di essere in partenza dopo undici anni al timone. A Torino, intanto, continua a scaldarsi il direttore de La Stampa Mario Calabresi che proprio negli ultimi giorni ha varato una nuova tornata di nomine e una riorganizzazione della redazione del quotidiano sabaudo proprio come fece qualche mese fa quando sembrava imminente il trasloco in via Solferino e la cessione della guida del quotidiano torinese al suo vice, Massimo Gramellini.
MA APRILE È ANCORA lontano e nei prossimi mesi molte cose potrebbero cambiare, fuori e dentro al quotidiano milanese. Fuori perché i salotti del potere aspettano di conoscere il nome del nuovo presidente della Repubblica. E se il prossimo inquilino del Quirinale dovesse davvero essere Romano Prodi, dicono nei corridoi della Rizzoli, De Bortoli avrà molte chances in più per rinnovare il mandato. Dentro perché fra i soci di Rcs vige una pax armata che potrebbe rompersi all’avvicinarsi dell’assemblea che sempre a primavera sarà chiamata a rinnovare il consiglio di amministrazione. Una pace precaria anche perché non c’è più un patto di sindacato che blindi tutti i giochi. Lo statuto è inoltre stato modificato e con il prossimo cda la lista di maggioranza prenderà i due terzi del board. Non è un caso, come ha fatto notare ieri Milano Finanza, se a tutt'oggi non c'è seppure informalmente l'elenco dei futuri consiglieri del gruppo editoriale che fra qualche mese probabilmente cambierà anche la poltrona del presidente, ora occupata da Angelo Provasoli (come suo successore circolano i nomi di Luca Garavoglia, azionista di controllo di Campari, e di Paolo Mieli, presidente di Rcs Libri).
I due fronti contrapposti sono sempre gli stessi: da un lato la Fca capitanata da John Elkann (che ha il 16,73 per cento), dall’altro Diego Della Valle (con il 7,32). In movimento è però lo scacchiere degli alleati per ora a bordo campo: non solo Urbano Cairo (al 3,67 per cento) e la famiglia Rotelli (3,37) che potrebbero schierarsi con Mister Tod’s. Cruciale sarà infatti il ruolo delle banche: in primis, di Intesa Sanpaolo (4,18 per cento) guidata da Carlo Messina ma soprattutto presieduta da Giovanni Bazoli che di De Bortoli (e di Romano Prodi) è sempre stato un grande sponsor. Intesa potrebbe decidere di convertire in azioni i debiti vantati con Rcs (come del resto ha già fatto nel caso di Sorgenia e dovrebbe fare per l’Ilva di Taranto) spingendo anche Unicredit a seguire la stessa strada. In quel caso, i due soci bancari diventerebbero assai più pesanti e dunque in grado di sparigliare le strategie di gioco di Elkann che nel frattempo starebbe cercando la sponda dei fondi d'investimento esteri, sfruttando le sue ottime relazioni internazionali.
RESTA DA CAPIRE se prenderà posizione Mediobanca (9,93 per cento, ma la quota è in constante diminuzione) mentre il suo vicepresidente Marco Tronchetti Provera (socio attraverso Pirelli di Rcs con il 4,43%) non si schiererebbe di certo contro Intesa e Unicredit. Senza trascurare il peso di UnipolSai (4,6 per cento) che in una logica di due liste contrapposte potrebbe risultare decisivo. Un assist da fuori campo a Della Valle, potrebbe infine arrivare dall’amico Luca Cordero Montzemolo che dopo l’uscita assai poco spontanea dalla Ferrari e l’ultimo botta e risposta con l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, non perderebbe occasione per esaltare la gestione di Ferruccio de Bortoli. Che se davvero lascerà il Corriere ad aprile riceverà subito altre importanti offerte di lavoro: le scommesse dei bookmaker milanesi scommettono sul un futuro nel gruppo Sole 24Ore o in Confindustria. O in alternativa a Palazzo Marino come sindaco. Chissà.

Corriere 28.12.14
Assalto a colpi di pistola nel campo nomadi di Acilia
Sparati nove colpi nella notte di Santo Stefano da due uomini arrivati in sella a una moto
Secondo gli stranieri del campo gli aggressori erano italiani
di Valeria Costantini

qui

il Fatto 28.12.14
Lo spreco dei 105 milioni per Pompei
I soldi stanziati da Bruxelles nel 2012 che vanno spesi entro il 2015
di Antonio Massari


L’ultimo scandalo è di appena 48 ore fa: Pompei chiusa ai turisti nel giorno di Natale. All’ira dei tour operator e degli albergatori, il ministro Dario Franceschini oppone la fredda statistica delle scarse affluenze: “Nel Natale 2013, a Pompei, sono stati staccati appena 800 biglietti”. Il punto è che la direttiva del ministero riguarda tutti i musei e le strutture statali. E se non bastasse, Franceschini tiene a sottolineare che “del resto anche il Louvre è chiuso a Natale e il primo giorno dell’anno”. Già, il Louvre: con i suoi 9,7 milioni di visitatori l’anno è il museo più visitato al mondo nel 2013. Al terzo posto troviamo i Musei Vaticani, con 5,9 milioni di biglietti staccati, mentre la prima struttura italiana è in 21esima posizione – la Galleria degli Uffizi – con 1,7 milioni.
POMPEI INVECE vanta ben altro record: 105 milioni di euro – stanziati dall’Unione europea – da spendere entro il 2015, pena la perdita del finanziamento, datato 2012 e destinato a messa in sicurezza, restauri, informatizzazione e comunicazione. Cinque mesi fa, di quei 105 milioni, ne era stato speso appena l’1%. A luglio scorso, Bruxelles ci ha inviato di persona il Commissario agli Affari regionali, Johannes Hahn, che con Franceschini e il sottosegretario Graziano Del-rio, ha “prescritto” l’accelerazione dei lavori. In sostanza: Pompei ha un anno per spendere 105 milioni ed è tutta una corsa a chiudere progetti, avviare gare, affidare lavori.
Spicca il “lotto unico per servizi di ideazione, realizzazione, sviluppo e gestione del piano di comunicazione”. La gara, peraltro ancora in via di aggiudicazione, prevede ben 500 calendari da tavolo, 2mila block notes da 50 fogli, 5mila bigliettini da visita, 4mila fogli di carta intestata, 2mila buste di varie di varie dimensioni, l’ideazione di un marchio per Pompei e la locale Soprintendenza (Sapes). Il piano di comunicazione potrà partire – si spera – nel 2015, a patto d’incollare i francobolli, anche se la cancelleria non è l’unica arma a disposizione di ministero e soprintendenza. Il “piano della fruizione” comprende un sito web – al momento inattivo, ma è stato pubblicato il bando per il “contenitore informatico” – e tre mostre. Tutto da bandire entro gennaio: operatività prevista per aprile 2015, costo del piano 7 milioni di euro. Appena un milione in meno del “piano della conoscenza”, previsto in sei lotti, che prevede l’archiviazione informatica di ogni centimetro dei 44 ettari pompeiani. Tempo previsto per la realizzazione del progetto: dieci mesi.
Se i cantieri dovessero aprire il primo gennaio, insomma, lavorando con precisione cronometrica, il “Piano della conoscenza” – costo 8,2 milioni – sarebbe ultimato il 30 ottobre, appena due mesi prima del fatidico ultimo giorno di dicembre, data stimata per la fine dei lavori. L’assunto che prevede la “conoscenza” del sito, come passo preliminare alla messa in sicurezza, o al restauro, qui a Pompei viene di fatto ribaltato: sono partiti prima (pochi) cantieri già messi in sicurezza mentre il resto, previsto nel “piano delle opere” da 85 milioni, andrà di pari passo con la “conoscenza”, se va bene, oppure si daranno il turno, l’importante è spendere i 105 milioni per dicembre meglio che si può, anche a dispetto della logica.
“In effetti – commenta il soprintendente Massimo Osanna – il ‘piano della conoscenza’ doveva essere il primo atto anche se, aspettando la sua realizzazione, i tecnici avrebbero dovuto lavorare in cantieri che non erano ancora stati messi in sicurezza. Anzi, aspettando, rischiavamo di non poter spendere i soldi per la stessa messa in sicurezza”. Invece qualcosa è stato realizzato: “Tre cantieri sono stati già ultimati, dal primo agosto sono aperte al pubblico dieci Domus, e con i fondi sono state assunte 60 persone, a tempo determinato, dalla Ales, che è una società del ministero”.
OSANNA del resto è arrivato poco meno di un anno fa, non gli si possono addebitare i ritardi della gestione precedente, dalla quale ha ereditato anche l’assenza di un bel po’ di progetti: “Abbiamo dovuto progettare ex novo la messa in sicurezza di ben tre Regiones”, spiega, “di certo prima del nostro arrivo è stato perso tempo, ma l’optimum non si sarebbe potuto realizzare neanche con una tempistica perfetta, perché mettere in sicurezza e salvare Pompei è un'impresa molto complessa”.
E il ritardo del “piano della conoscenza”? “Vorrà dire che coordineremo i cantieri: in alcuni si lavorerà al restauro e alla messa in sicurezza, in altri all’archiviazione dei dati, e poi viceversa. E comunque: dei 105 milioni, ne abbiamo già banditi 96, e metà di questi riguardano lavori già partiti”.

La Stampa 28.12.14
Quel miscuglio di fedi e di etnie
L’altra America che rifiuta il razzismo
I democratici dovranno ascoltare la folla del Christ Tabernacle
di Gianni Riotta


Il governatore di New York Andrew Cuomo, cresciuto da queste parti con il padre Mario Cuomo, ex speranza democratica per la Casa Bianca, dice a Justin e Jaden, figli del poliziotto Rafael Ramos, ucciso a sangue freddo con il collega Wenjian Liu: «Siete due duri, sapete soffrire e sognare, siete tifosi dei Mets».

Il baseball nella chiesa Christ Tabernacle, circondata da migliaia di agenti di polizia in divisa blu, 670 arrivati da ogni parte d’America, richiama davanti al vicepresidente Biden e al sindaco de Blasio la cultura di Queens, il rione di Ramos, un portoricano ex artista di graffiti, poi poliziotto, che studiava per diventare cappellano militare cattolico e in parrocchia faceva corsi prematrimoniali ai fidanzati «Mai litigare, cercate sempre di ascoltare l’altro…». I Mets sono la squadra di Long Island e Queens, sobborghi dove le casette di operai e ceto medio guardano da lontano i grattacieli di Wall Street, patria degli aristocratici tifosi Yankees. Due Americhe separate da poche fermate di metro, ma che già nel classico romanzo di Fitzgerald Il Grande Gatsby, segnano due mondi, da una parte i ricchi, dall’altra parte i colletti blu, in quella che lo scrittore battezza Valle delle Ceneri, oggi Long Island City.
I cittadini, i poliziotti, gli amici, i parrocchiani, le famiglie hanno tenuto intorno alla chiesa una straordinaria manifestazione civile, non politica, di orgoglio culturale, riaffermando tra preghiere, discorsi, abbracci, bandiere e lacrime che due emigranti, uno di origine cinese l’altro portoricana, non possono essere marchiati da kapò del razzismo bianco. I tragici casi di Michael Brown a Ferguson, Missouri, e Eric Garner a New York, uccisi da poliziotti in diverse circostanze hanno rivelato in America una tensione politica che populisti e demagoghi, a destra e sinistra, alimentano, che la Russia strumentalizza goffa e che in Europa genera sussiegose banalità di intellettuali vanesi. La verità è che gli afroamericani, in maggioranza, diffidano della polizia, spesso prevenuta nei loro confronti. La polizia si difende citando l’alta percentuale di reati commessa da minoranze. E anche a New York dove, al contrario di molti Stati del Midwest, il Dipartimento di polizia è integrato da anni, l’animosità divampa. Ieri una parte degli agenti ha voltato le spalle al sindaco democratico de Blasio, che ha rilasciato avventate dichiarazioni sulla «cautela» consigliata al figlio Dante – che ha la mamma afroamericana – «quando incontra i poliziotti». La battuta entusiasma gli attivisti, ma infuria la polizia visto che Dante e gli altri familiari del sindaco sono protetti da guardie del corpo del Nypd «Lo mette in guardia anche contro di loro?», protestano online i poliziotti.
La spaccatura, conferma un sondaggio del Washington Post, oppone però anche democratici e repubblicani, i primi scettici sulla polizia, i secondi favorevoli. Non si tratta dunque di un «divide» razziale, ma di un paese ormai sempre polarizzato, tra rosso repubblicano e blu di Obama.
Ieri nel sole natalizio di Queens, ha manifestato l’America degli emigranti che vogliono quartieri popolari senza criminali, credono nel lavoro e nel progresso mandando i figli a scuola con sacrificio. «Sei il mio eroe papà» ha scritto il figlio minore di Ramos su Facebook, mentre al maggiore, ieri con sulle spalle la giacca del Dipartimento, l’università ha concesso una borsa di studio. Quanto ai funerali dell’altro agente caduto, Wenjian Liu, si aspetta che i parenti arrivino dalla Cina, la linea aerea Jet Blue ha offerto i biglietti, come ai poliziotti venuti da lontano. A Queens Obama ha trionfato su Romney, non è certo arena di reazionari, e sbaglierebbero i candidati democratici alla Casa Bianca a lasciar bollare la folla del Christ Tabernacle, in divisa e no, da eredi del Ku Klux Klan. Molto.

Corriere 28.12.14
Il «sindacato» delle divise blu e l’eccesso di maniere forti
di Massimo Gaggi


Le parole cortesia, professionalità e rispetto sono stampate a caratteri cubitali azzurri sulle fiancate di tutte le auto della polizia di New York. Parole che dovrebbero servire ad alimentare la fiducia dei cittadini nei confronti degli agenti e anche a ricordare ai poliziotti che sono lì per proteggere tutti utilizzando, finché possibile, le buone maniere. In una città difficilissima da governare come New York — il bersaglio numero uno del terrorismo internazionale, la sede dell’Onu, una metropoli piena di contrasti, incrocio di mille potenziali conflitti a sfondo etnico o religioso — la polizia ha fatto per decenni un lavoro egregio. Ma ha usato spesso modi rudi. I sindaci hanno cercato di tenere a bada quello che in fondo è un dipartimento municipale. Ma in America poliziotti e vigili del fuoco non sono solo servitori dello Stato: sono anche considerati «eroi» della comunità. Soprattutto dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 che costò la vita anche a centinaia di agenti e pompieri. La forza enorme così acquisita consente oggi a un leader sindacale, il capo delle Benevolent Association, di alimentare la rivolta silenziosa contro Bill de Blasio, reo di aver criticato i suoi agenti. Il sindaco ha certamente usato più volte espressioni dure, che potevano offendere la sensibilità del Nypd, il corpo di polizia. E sono in molti in città a pensare che il leader democratico, eletto grazie al voto delle minoranze etniche, stia mettendo a repentaglio la sicurezza di New York per cercare di sdebitarsi coi suoi elettori. Ma è lui che governa su mandato dei cittadini: una ribellione che si ripete e si cronicizza, alimentata da un leader sindacale, Patrick Lynch, più visibile del capo della polizia Bratton, sarebbe molto pericolosa. È tempo di raffreddare gli animi smettendo di parlare a vanvera di razzismo della polizia. Affrontando, invece, il vero problema: l’eccessiva durezza di chi si sente autorizzato a ricorrere a un uso della forza senza limiti al minimo accenno di resistenza all’arresto.

Repubblica 28.12.14
I poliziotti e le spalle voltate a de Blasio
di Vittorio Zucconi


NEL silenzio le loro spalle mute si sono girate contro il sindaco “traditore” Bill de Blasio, al funerale del fratello ucciso.
I36 mila uomini e donne dell’esercito blu che combatte, muore e uccide al fronte della guerra nelle strade di New York, si sono ammutinati contro l’autorità civile. Non marceranno, armi alla mano, su Gracie Mansion, la residenza ufficiale del sindaco. Non smetteranno di pattugliare le frontiere di asfalto e di cemento nei cinque “Borghi” di New York, Manhattan, Queens, Brooklyn, Staten Island e Bronx, rischiando la vita propria e quelle dei cittadini che avrebbero il dovere giurato di servire e proteggere Fidelis ad mortem, come dice il loro motto ufficiale, anche fino alla mortem di innocenti. Ma la rivolta silenziosa di quei soldati blu offesi dal loro comandante che accusano di averli abbandonati alla vendetta degli esaltati e alla collera dell’America nera è l’avvertimento che la guerra continua.
«Che Dio benedica la polizia di New York e scarichi de Blasio» invocava un cartello fuori dalla Chiesa del Tabernacolo a Queens, dove si celebrava il funerale di Rafael Ramos, uno dei due agenti uccisi a freddo e senza provocazione da un criminale pregiudicato che si era autonominato il vendicatore delle troppe vittime della polizia. E quel cartello non era esposto da un agente in pensione o da uno dei sindacalisti della “Fratellanza” immuni da punizione o rap- presaglie. Era un poliziotto in servizio che chiedeva la vendetta di Dio e della città contro il suo diretto superiore, contro il sindaco che è, nelle città americane, il comandante in capo civile della forza pubblica locale.
La sfida, quindi, è sfacciata, sbalorditiva se rammentiamo la santificazione, spesso ben giustificata, di quegli stessi agenti nelle ore infernali dell’11 settembre 2001. È alimentata da un impasto esplosivo di rancore doloroso, comune agli uomini e alle donne che devono muoversi in quelle terre di nessuno nelle quali ogni agente è un “porco” da rosolare. È attizzata dai politicanti come Rudy Giuliani, che attribuisce quei due omicidi «alla viltà della sinistra», dimenticando gli omicidi di polizia a Ferguson, a New York, a Cleveland, condonati dalla destra. Ed è solidificata dal senso corporativo che unisce i cops , i poliziotti, di colori, opinioni, origini, genere diversi ma tutti sempre compatti nella difesa dei loro.
Me se rarissimi sono i casi di infedeltà o di insubordinazione degli americani in uniforme contro il potere civile che costituzionalmente li comanda, dall’Esercito nazionale agli agenti metropolitani, sotto la crosta del rispetto istituzionale da sempre, nella storia degli Stati Uniti, ha brontolato il sospetto carsico di possibili ribellioni e ammutina- menti. E sempre lungo il tracciato del peccato originale e indelebile della repubblica, l’odio di razza. Dal Kennedy che mobilitò 15 mila uomini di una divisione della US Army per garantire la sicurezza di Birmingham dove una bomba aveva dilaniato bambine di colore in una chiesa, a Bush il Vecchio che dovette spedire la 40esima Divisione di Fanteria a Los Angeles nel 1992 per sedare la guerriglia dopo l’assoluzione di Rodney King e l’uccisione di un camionista bianco, ogni presidente, ogni governatore, ogni sindaco sa quanto esposta, quanto fragile, quanto nervosa sia quella “sottile linea blu” che deve garantire sicurezza nella giustizia.
Per questo ogni sindaco, indipendentemente dalle insegne della sua giubba politica, deve accattivarsi quelle forze di pubblica sicurezza che pure legalmente comanda, essendo tutte le polizie, con l’eccezione dello Fbi che ha soltanto compiti investigativi e non di controllo del territorio, sempre strettamente locali. Proprio il NYPD, il New York Police Department, che è una lobby formidabile e capace di spostare facilmente gli aghi segreti dei sismografi elettorali, doveva essere l’alleato indispensabile di un sindaco come de Blasio, eletto sul filo acrobatico della fusion etnica, lui italoamericano con moglie nera e figli quindi misti. I salari dei soldati blu a NY, in media sui 65 mila dollari — 53 mila euro — lordi all’anno più benefit e pensioni generosi non sono per caso molto superiori alla media americana, testimonianza della loro forza contrattuale.
Nel suo essere un newyorkese che riassumeva in sé il doppio volto della città delle città, de Blasio, eletto trionfalmente appena un anno fa, aveva rappresentato in sé la speranza e dunque il rischio della contraddizione razziale. Gli omicidi compiuti da poliziotti nella sua e in altre città, la riapertura sanguinosa della ferita mai cicatrizzata hanno squarciato la sua dualità rivoltandolo contro di lui, divenuto un altro simbolo perfetto di un’America sempre in guerra con se stessa, alla frontiera del colore della pelle. E sempre pronta a perdonare i propri pretoriani in battaglia contro la “minaccia nera” e a vedere nell’autorità bianca l’erede del “massa”, del master della piantagione.
La politica, come deve fare la politica nelle nazioni evolute, e i soldati in blu del NYPD troveranno un compromesso, magari attraverso qualche penitenza pubblica di de Blasio che dovrà tradire una parte della propria faccia per salvare l’altra, quando anche i demagoghi come il reverendo Al Sharpton e il “Blu Pitbull”, il capo del sindacato, avranno ottenuto la loro libbra di carne e la soddisfazione di avere umiliato il sindaco pubblicamente. Nelle trincee di asfalto e cemento, le armi taceranno. Per qualche giorno.

Repubblica 28.12.14
Ava Du Vernay
La marcia di Martin Luther King ancora non è terminata
Obama? Rispetto ai suoi predecessori ha fatto molto
“Ma la nostra polizia deve cambiare spari di meno e parli con i poveri”
di Silvia Bizio


LOS ANGELES SIAMO negli studios della Paramount, dove 10 anni fa Ava Du Vernay si occupava di pubbliche relazioni. Oggi, a 42 anni, è in corsa ai Golden Globes come miglior regista per il film su Martin Luther King appena uscito in Usa, e potrebbe continuare a fare storia diventando la prima regista di colore candidata all’Oscar. Prodotto da Oprah Winfrey e Brad Pitt, Selma narra un episodio cruciale della storia dei diritti civili negli Stati Uniti: la marcia di Luther King da Selma, in Alabama, verso la capitale dello Stato, Montgomery, nel 1965. I dimostranti furono vituperati, presi d’assalto, picchiati e alcuni di loro uccisi dall’autorità reazionaria bianca. Eppure King trascinò il suo movimento al parziale trionfo: l’allora presidente Lyndon Johnson finì per varare il diritto dei neri al voto. Ne parliamo con Ava mentre tornano a crescere nelle grandi metropoli americane le tensioni e le proteste degli afroamericani contro le forze di polizia. «Io spero che la gente, uscendo dal cinema, si senta stimolata e motivata, e che magari si attivi a livello sociale e politico per cambiare e migliorare la situazione nel nostro paese», dice la DuVernay.
PENSA alle decisioni del Grand Jury a Ferguson e New York che hanno deciso di non procedere nei confronti dei poliziotti per le morti di Michael Brown ed Eric Garner?
«Ci penso tutto il tempo, penso all’aggressione della polizia e alla riforma fasulla della polizia, alle difficoltà della gente di colore in questo paese. La marcia di Selma, l’impegno di Martin Luther King, fu l’inizio di qualcosa che è ancora in via di sviluppo. Girare la scena in cui i poliziotti bianchi di Selma uccidono il giovane Jimmy Lee Jackson per noi è stato un momento emotivamente molto forte. Sapevamo che stavamo ricreando un momento che è ancora così vero nel nostro paese, cinquant’anni dopo».
Il sindaco di New York Bill De Blasio, con le sue aperture verso le proteste, è accusato dalla polizia di aver indirettamente provocato la morte dei due agenti a Brooklyn? Che ne pensa?
«Sono di Los Angeles e controllo, per così dire, il mio sindaco Eric Garcetti e osservo da vicino le cose che succedendo qui in California. Sospendo il mio giudizio su New York e i rapporti di forza tra il potere municipale, le forze di polizia e la cittadi- nanza».
Non le sembra grave che con Barack Obama alla presidenza ci sia ancora questo clima di sospetto tra neri e bianchi?
«Si tende sempre a puntare il dito su qualcuno. Il sindacato della polizia punta il dito su De Blasio, i repubblicani e quelli di destra su Obama, e io penso: e questo tipo che ha ammazzato i due poliziotti? Non dovremmo biasimare lui? C’è così tanto biasimo da tutte le parti... Certamente c’è stato un progresso dal 1965 a oggi, il fatto che io stia qui a parlare con lei in questo studio hollywoodiano ne è la prova. Lei è bianca, io sono nera e ci parliamo da pari a pari: non avrebbe potuto succedere prima di King. Questa conversazione è di per sé un segno di progresso».
Cosa si dovrebbe fare per migliorare la situazione qui in America, per allentare la tensione tra polizia e comunità afroamericana?
«Di sicuro bisogna affrontare una riforma seria delle forze dell’ordine e della polizia, compresi l’addestramento degli agenti, le misure di controllo, i metodi di de-escalation di situazioni conflittuali al fine di non far scattare gesti violenti e così via. Si spara troppo, e con troppa disinvoltura. La polizia è troppo militarizzata. Occorre una maggior comunicazione e interazione tra la polizia e le comunità meno abbienti nelle città americane».
Cosa pensa di Obama?
«Rispetto ai suoi predecessori Obama ha fatto tantissimo per noi neri, e per questo merita il nostro plauso. Certamente c’è molto ancora da fare. Ma pensiamo a quanti presidenti nel passato non hanno mai aperto la bocca sul tema del razzismo o delle tensioni razziali. Obama almeno ha avuto il coraggio di parlarne apertamente».

il Fatto 28.12.14
Nuovo presepe svedese
Immigrati, razzisti e troppi impoveriti
Con un escamotage il governo evita la crisi che avrebbe portato al potere il partito xenofobo
di Michela Danieli


Stoccolma L’anno del nuovo governo socialdemocratico salvatosi in zona Cesarini. Del trionfo dell’estrema destra alle urne europee e nazionali. Della crescita esponenziale di richiedenti asilo, accolti. Delle moschee incendiate. Delle panchine bandite ai mendicanti. Questo è il 2014 che la Svezia si appresta a lasciarsi alle spalle.
SCONGIURATE le elezioni anticipate. Che da settimane il meno votato premier della storia di Svezia, il socialdemocratico Stefan Löfvèn, stesse “segretamente” negoziando con le parti per evitare nuove e costose elezioni, era noto. Così ieri, a conclusione di un sottobosco di trattative, con uno strategico rimpasto delle norme per l’approvazione del Bilancio (nodo sul quale la risicata maggioranza era capitolata) e un rocambolesco “Accordo di dicembre” (come è stato definito dal premier) l’Alleanza di centrodestra all’opposizione, ha salvato il governo. Esclusi solo i veri vincitori delle elezioni di settembre, gli estremisti di destra Democratici di Svezia, che ora promettono una “mozione di sfiducia” contro il premier.
FUOCO ALLE MOSCHEE. Undici gli attentati subiti quest’anno da una decina di luoghi di culto musulmani, tra Stoccolma e il resto del Paese. Colpita due volte Eskilstuna (100 chilometri a ovest della capitale), l’ultima il giorno di Natale. Messaggio inequivocabile. Così come emblematico è il pellegrinare di svedesi che il giorno seguente l’attentato si sono recati sul luogo, con bambini al seguito, per osservare quel che resta della moschea ricavata dal seminterrato di un condominio. La porticina divelta. I vetri rotti dal lancio di liquido infiammabile e dai fedeli in fuga (20 in tutto, 5 i feriti). Nel loro chiacchiericcio parlano solo di “incendio”. Anche i curiosi che si fermano con l’auto chiedono “È questo il luogo dell’incendio? ”. Nessuno osa parlare di attentato. O attacco. Sembra che il fatto che a essere colpita sia stata una moschea sia irrilevante. Qualcuno ha deposto un lumino, un cuore e un cartello di solidarietà contro il razzismo, davanti alle transenne della polizia. I musulmani scattano foto. Gli svedesi stornano lo sguardo.
RECORD RIFUGIATI. La crisi economica ha ridefinito lo scenario anche dell’ex ricco Nord, dedito all’export. A farne le spese il vecchio, solido welfare, che oggi permette che i suoi anziani si mescolino ai disperati extracomunitari nelle mense dei poveri. Tra il 2011 e il 2014 il numero di richiedenti asilo in Svezia è passato da 29.648 a 83.000. Si prevede che nel 2015 saranno 95.000. A questi si uniscono innumerevoli mendicanti, provenienti prevalentemente dalla Romania, che negli ultimi mesi hanno letteralmente invaso la Svezia. Tutto il clima sociale risente di questo presepe dei tempi moderni.
BANDITE LE PANCHINE ai mendicanti. Accade nella stazione ferroviaria di Linköping, dove i gestori del trasporto pubblico hanno affisso un cartello in cui riservano i posti a sedere ai passeggeri paganti. Principio che vale anche per i servizi igienici e le prese elettriche per ricaricare i telefonini dei viaggiatori. Una decisione presa dopo la tempesta di email ricevute da pendolari esasperati dalla visione di panchine-dormitorio, che denunciavano tra l’altro anche l’affollamento di accattoni nelle piattaforme riservate ai non vedenti.

Corriere 28.12.14
Reportage dal fronte
Kabul addio
Dopo tredici anni di scontri è tempo di ritiro
di Andrea Nicastro


HERAT Occhi a mandorla, viso aguzzo da volpe, il colonnello Sultan Ahmad Warasi incarna lo stereotipo dello spione. E’ il responsabile dell’intelligence militare del 207esimo Corpo d’Armata afghano ad Herat. Tentenna solo sui nomi di un paio di governatori-ombra talebani, perché, si scusa, «quelli precedenti li abbiamo eliminati qualche mese fa». Per il resto sfodera solo certezze. «I talebani sono infiltrati ovunque. In città obbediscono a Wali Mahmad spostato dal Mullah Omar da Uruzghan a qui. I finanziamenti vengono da Pakistan, Iran, oppio e hashish. Il loro numero cambia con le stagioni, ma in quest’area si aggira intorno ai diecimila combattenti. Ora che gli italiani hanno smesso di pattugliare e di aiutarci nelle attività ai check point facciamo più fatica a contenerli perché ci mancano armi e attrezzature».
Rincara la dose il tenente colonnello Jamal Abdul Naser Sidiqi: «Un mio soldato è stato ucciso tre giorni fa perché gli si è inceppata l’arma davanti a un talebano. Non abbiamo metal detector per individuare le trappole esplosive né sistemi elettronici che possano bloccare i telecomandi. Il fatto è che i loro attacchi costano meno delle nostre difese. Su noi ufficiali hanno posto addirittura delle taglie: seimila dollari per un colonnello morto, diecimila per un comandante di kandak», battaglione. Come d’abitudine il colonnello batte cassa, ma sono i numeri, in fondo, a dargli ragione. L’«afghanizzazione» della guerra permette di risparmiare denaro occidentale, ci sono meno occhi elettronici, meno dirigibili, meno droni e meno intercettazioni per captare conversazioni sospette, ma per l’esercito afghano le perdite sono cresciute del 40 per cento rispetto al 2013. «La settimana scorsa sono stati uccisi tre ufficiali afghani fuori servizio — conferma il comandante del contingente italiano generale Maurizio Scardino — le killing mission , gli omicidi mirati, sono un problema reale». Con ancora meno supporto internazionale che accadrà?
Per dei militari, «ritiro» è una parola tabù, assomiglia troppo a «sconfitta». Preferiscono «ripiegamento» e nel caso afghano hanno tecnicamente ragione. Non sono i talebani a cacciare la coalizione Nato, è la politica. Siamo noi tax payer a non essere più disponibili a pagare il conto. Dopo tredici anni di combattimenti, 3.500 morti occidentali in divisa (54 italiani), la coalizione a guida americana ripiegherà entro un anno su Kabul. Il piano è che nel 2017 se ne vada dall’Afghanistan anche l’ultimo occidentale e, nel frattempo, si faccia sostanzialmente solo addestramento.
Con i soldati Nato anche le Ong umanitarie si stanno ritirando. Rapimenti e attacchi suicidi arrivano ovunque, restare è un rischio. La politica ha smesso di fingere che l’intervento internazionale abbia pacificato il Paese. Il conto dei burqa per le strade non è più il termometro sul rispetto dei diritti umani anche perché sono sempre meno i luoghi che gli occidentali, in divisa o meno, riescono ad osservare.
«Le priorità geostrategiche sono cambiate — ammette l’ambasciatore a Kabul Luciano Pezzotti —. Ora abbiamo la Libia e l’Isis di cui preoccuparci. Però sono convinto che l’assistenza a Kabul continuerà. Egitto e Pakistan, ad esempio, hanno forze armate sostenute dagli Stati Uniti, perché non anche l’Afghanistan?». A tredici anni dall’invasione gli Stati Uniti hanno speso, a seconda delle stime, da 700 a 1.500 miliardi di dollari. Tre, quattro miliardi l’anno potrebbero evitare un caos post ritiro stile iracheno. Forse.
L’Italia si sta dimostrando tra gli alleati americani più fedeli. Per tutto il 2015 abbiamo deciso di lasciare più uomini persino dei britannici: 500 di media contro 200, per una spesa complessiva di 160 milioni. I vantaggi dei nuovi ordini sono almeno due. Primo, uscendo poco da Camp Arena si rischiano meno imboscate. Secondo, c’è finalmente acqua calda per tutti perché dove vivevano 4 mila soldati ce ne saranno appena 750, quanto basta, con l’aiuto di 500 spagnoli, per difendersi.
Gli svantaggi sono invece evidenti nelle battute di chi sa di dover restare fino a ottobre quando è previsto che gli ultimi 70 militari lascino Herat per Kabul. «Finirà come a Saigon, scapperemo dai tetti con i talebani al piano terra». Esagerato, ma non troppo.
«Fino a che rimarranno i Mangusta — dice Agostino Iacicco, capitano pilota dei nostri elicotteri d’attacco — avremo un deterrente importante». Poi bisognerà inventarsi qualcosa. Soprattutto per superare l’estate, la tradizionale stagione dei combattimenti. Spaventa l’idea di lasciare i soldati afghani a guardarci le spalle quando l’ultimo aereo prenderà il volo. Già ora gli italiani girano per la base con la pistola nella fondina. Il timore è di «green-on-blue», verde su blu, cioè che qualche soldato afghano si metta a sparare sui colleghi occidentali come è successo già decine di volte con quasi 150 vittime compreso un generale americano.
E gli afghani? Come si preparano al ritiro Nato? Il mese scorso il vecchio mujaheddin Ismail Khan ha organizzato ad Herat un raduno con un migliaio di ex combattenti. «Dobbiamo organizzarci — li ha arringati —. Senza gli stranieri, l’esercito afghano è inefficiente. I talebani arriveranno per tagliarci la gola. Riprendiamo le armi».

Corriere 28.12.14
Saint-Exupéry naufrago dei cieli
La forza di gravità è come l’amore
Volare non significa allentare il nostro legame con la terra: al contrario lo esalta
di Paolo Giordano


Nella sua fuga da Las Vegas a New York, lo sventurato protagonista del Cardellino Theo Decker porta con sé un quadro rubato, un cane nascosto dentro una borsa, uno spazzolino da denti e un libro: Terra degli uomini di Antoine de Saint-Exupéry. La testa poggiata malamente contro il finestrino freddo dell’autobus, nel dormiveglia tormentoso tipico dei viaggi troppo lunghi, Theo sogna di Saint-Exupéry che precipita in un punto sconosciuto del Sahara e cerca scampo da una morte quasi certa.
Esiste una naturale proprietà transitiva della lettura, tale per cui assumiamo di amare i libri prediletti dagli autori (o dalle autrici) che ammiriamo — una transitività che si estende perfino ai gusti letterari dei personaggi che incontriamo nelle loro storie. Posso dire che sia stato Theodore Decker in persona a consigliarmi la lettura di Terra degli uomini .
Quando, alcuni mesi fa, attraversai con lui gli Stati Uniti e da lui ascoltai delle disavventure aeree di «Saint-Ex», ebbi l’impressione di avere perso una tappa importante nel corso delle mie letture più avventurose. Forse, l’imbattibile antipatia che nutrivo verso Il piccolo principe e le sue molteplici strumentalizzazioni mi stava precludendo qualcosa di prezioso. Mi sono fidato di Theo e di Donna Tartt. Provvidenziale, poi, è arrivata incontro al mio desiderio una nuova edizione italiana del romanzo che nel 1939 valse a Saint-Exupéry il Grand Prix de l’Académie française e — per la traduzione inglese uscita in contemporanea con il titolo affatto diverso Wind, Sand and Stars — il National Book Award.
Terra degli uomini è un racconto sul cielo che parla, in realtà, della terra. Un libro sul volo che elogia semmai la caduta, il precipitare. «La terra ci dice su di noi più di tutti i libri. Perché ci oppone resistenza». Non a caso, Donna Tartt lo evoca per amplificare il senso di perdita, il naufragio esistenziale nel quale Theo si trova gettato dopo la morte della madre, uno schianto da altezze vertiginose dal quale non saprà mai davvero rialzarsi. Pubblicato quattro anni prima del Piccolo principe , Terra degli uomini contiene per intero la poetica e la poeticità del libricino che renderà Saint-Ex immortale (nonché prigioniero eterno dell’infanzia e del famigerato spirito natalizio), ne anticipa la leggerezza di tono e la nostalgia caratteristica, la tentazione costante delle stelle e lo sprezzo per i beni materiali, l’anelito verso la fanciullezza perduta e il vagare interplanetario, ma senza l’artefatta costruzione allegorica, bensì dentro la realtà della vita e dei ricordi dell’autore. È in parte memoria, in parte romanzo puro, riflessione filosofica e reportage. Narra di rotte e aeroplani e con la sua essenza lieve e spuria si libra alto nell’atmosfera, restando tuttavia incatenato al suolo, agli uomini e alle loro imprese, concepito, si direbbe, prima che lo spirito perdesse la sua ultima zavorra e se ne andasse per sempre alla deriva fra le stelle mute. Ed è per questo, almeno per me, un libro più interessante di quello che poi riuscì a surclassarlo.
Nel 1926 Saint-Ex era un giovane pilota, un «novizio», della Société Latécoère, che si occupava del trasporto aereo della posta sulla linea Tolosa-Dakar. Su quella rotta avvenne il suo battesimo del cielo. L’annuncio del primo vero incarico gli fu dato un giorno per il successivo («Partirà domani») ed egli trascorse la notte insieme al maestro Guillaumet, cui il libro è dedicato. Guillaumet gl’illustrò con pazienza le mappe, le insidie nascoste sotto le nuvole, tra le montagne spagnole, ma anche dove cercare ristoro in una certa fattoria in caso di atterraggio di emergenza; gli mostrò per la prima volta come la vista dall’alto fosse sì un appiattimento della prospettiva, ma come là sotto, in quei poligoni di colore, esistessero pur sempre gli uomini e i loro intricati lacci sentimentali — tutto ciò che conta davvero.
Proprio mentre è in volo, immerso in una notte tanto buia che gli astri risultano indistinguibili dai bagliori fiochi delle città, apparentemente libero da ogni vincolo, Antoine comprende ciò che Guillaumet volesse dire, si scopre «annodato alla terra dalla testa ai piedi. Provavo una sorta di quieto piacere» confessa, «ad abbandonarmi a lei con tutto il mio peso. La gravità mi appariva sovrana come l’amore», una gravità fatta di «lacrime, addii, rimproveri, gioie, di tutto quel che un uomo accarezza o strappa ogni volta che abbozza un gesto, quei mille legami che lo stringono agli altri, e lo rendono pesante».
In Terra degli uomini ci sono pagine che commuovono per il modo che hanno di unire improvvisamente terra e cielo, come nell’avvitamento acrobatico di un aeroplano ultraleggero. (Non mancano, d’altra parte, certe tirate filosofeggianti: l’intero ultimo capitolo per esempio, nel quale Saint-Ex è più vicino all’avaria che all’evoluzione acrobatica...). Ma, soprattutto, Terra degli uomini è carico di una schietta suspense — un altro aspetto che deve avere sedotto l’immaginazione rocambolesca di Donna Tartt —: ci sono gruppi di ribelli armati, velivoli che precipitano negli oceani, su dune molli al centro del deserto, fra le vette ghiacciate delle montagne, e uomini che sopravvivono (a volte no) in quelle situazioni estreme. «Quel che ho fatto, lo giuro, nessuna bestia lo avrebbe fatto» dice Guillaumet, fornendo il resoconto di come è scampato a cinque giorni senza cibo né riparo fra le nevi delle Ande, scalando pareti di ghiaccio a mani nude. Nessuna bestia lo avrebbe fatto, perché nessuna bestia sarebbe stata guidata, com’era guidato lui, dalla preoccupazione che, senza il ritrovamento del suo corpo, la moglie non avrebbe potuto riscattare la polizza di assicurazione. Non l’eroismo, dunque, ma il peso dei legami affettivi e la gravità delle relazioni umane lo hanno salvato.
Anche Saint-Exupéry precipitava volentieri. In un capitolo di Staccando l’ombra da terra , Daniele Del Giudice lo descrive come «un pilota eccellente e istintivo, ma irregolare e distratto». Nel Sahara, insieme al marconista Prévot, morì quasi di sete, sbeffeggiato dai miraggi. Raggiunse il punto in cui neppure la disperazione è più tale, ma viene sostituita da una serena assenza di significato: «Ieri sognavo paradisi di aranci. Ma oggi per me non c’è più alcun paradiso. Non credo più all’esistenza delle arance». Sopravvisse, forse apposta per raccontarlo, e quell’incidente ritornò in ogni suo scritto, costituì il fondamento della solitudine meravigliata del Piccolo principe e decenni dopo s’infiltrò nei sogni frammentati di Theo Decker, sull’autobus che lo conduceva verso una solitudine molto simile, nel deserto abitato di New York.
In un tragitto di troppo, durante la guerra, Saint-Exupéry pilotava un Lightning P 38 che forse non padroneggiava abbastanza. Venne colpito a un motore da un caccia tedesco e s’inabissò al largo della Costa Azzurra. I resti irriconoscibili di un corpo furono in seguito trovati e attribuiti a lui. «Gravity always wins» cantavano i Radiohead e la gravità vinse infine su Antoine, interrompendone anche le cabrate spericolate di scrittore. Fortuna fu, per noi, che gli concedesse almeno il tempo di osservare questa povera terra degli uomini da una visuale privilegiata, di sfiorare, lassù oltre le nuvole, «qualcosa di universale».

Corriere 28.12.14
Trotula, la prima ginecologa. Ma non chiamatela femminista
Biografia in forma di romanzo per la donna che sapeva ascoltare il dolore. E divenne Magistra tra i dottori di Salerno
di Maria Serena Natale


È un mondo di principesse longobarde che impugnano la spada, di pensatori arabi che traducono testi greci, di memorie pagane che si intrecciano alla liturgia cristiana. Tempo di congiure e invasioni nel quale un drappello di mercenari può fondare una dinastia, un Papa sfidare l’imperatore, un re tradire un giuramento.
«Era l’anno del Signore 1020, il primo giorno del mese di settembre, l’ora seconda del mattino, poco dopo il sorgere del sole». La nascita di Trotula de Ruggiero è avvolta nella leggenda, come la sua vita di scienziata nell’«opulenta Salerno» dell’XI secolo. Mix di sangue normanno, longobardo e greco, Trotula vive il momento con l’intensità e l’impazienza di chi avverte la connessione tra le epoche, il senso di una ricerca personale che si salda alla grande avventura umana e si esprime nella cura del singolo istante, nel rispetto di ogni creatura. Un sentimento panico di immersione nel potente mistero della natura che rivive nel libro di Dorotea Memoli Apicella, studiosa appassionata della «medichessa» celebrata in tutta l’Europa medievale per i suoi rimedi ai mali del corpo e dell’anima, Io, Trotula (Marlin 2013, ora giunto alla terza ristampa, finalista al Premio Fiuggi Storia 2014 per la sezione Romanzo storico).
Un lavoro scrupoloso di ricucitura che fa confluire nel gioco della finzione letteraria le tracce disseminate attraverso i secoli da un personaggio spinto ai margini delle cronache ufficiali — ne fu messa in dubbio l’esistenza — ed entrato nel mito. Opera di scavo sin dal titolo, da quell’Io che pone con forza la questione dell’identità e l’urgenza di riaffermare la soggettività della prima ginecologa della storia, decisa a trasformare il sapere empirico in scienza e a far breccia nel non detto che grava sulla sessualità femminile, sottomessa al patriarcato.
Il racconto procede in prima persona dall’infanzia all’amore impossibile per Edoardo il Confessore, re d’Inghilterra tra il 1042 e il 1066, fino alla consacrazione come Magistra. L’aspirazione della protagonista a uno spazio individuale di indipendenza critica si fonde con lo sviluppo di una coscienza «di genere» fondata sulla condivisione delle intime fragilità delle sue pazienti, incapaci di dare un nome a una sofferenza che, in un sistema dove il pudore diventa strumento di potere, è fisica e psicologica. Nesso che Trotula comprende in anticipo sulla modernità.
Un approccio laico e razionale, maturato nel contesto cosmopolita della Scuola medica salernitana che vede collaborare scienziati arabi, ebrei, bizantini. Una visione trasferita nei pionieristici studi di cosmetica, nell’idea della bellezza come forza liberatrice che trova nel corpo il luogo privilegiato della scoperta di sé.
Trotula femminista ante litteram ? Fedele a un progetto di massima aderenza alla verosimiglianza storica sulle orme di Jacques Le Goff, l’autrice indaga una sensibilità estranea alle tensioni rivendicative della contemporaneità, sottraendo la narrazione della maternità al piano politico del conflitto tra i sessi per riconsegnarla a un orizzonte naturale intriso di sacra devozione che lega l’immanente al trascendente in un eterno rigenerarsi. «Non è vero — si domanda Trotula — che il sole del tramonto a volte sembra quello dell’alba?».

Corriere 28.12.14
Il suicidio sospetto del genio Turing
di Antonio Carioti


In alcuni Paesi la castrazione chimica viene tuttora applicata a pedofili e stupratori. Ma il matematico inglese Alan Turing (1912-1954) non era né l’uno né l’altro: era semplicemente gay. Solo che nella Gran Bretagna del 1952 i rapporti omosessuali erano reato e lo scienziato si sottopose a una massiccia ingestione di ormoni femminili per evitare il carcere. La versione ufficiale dei fatti dice che quella brutta esperienza lo portò al suicidio, due anni dopo, ma la biografia di Nigel Cawthorne L’enigma di un genio (traduzione di Fabio Bernabei, Newton Compton, pp. 191, e 9,90) avanza forti riserve: a parenti e amici Turing, deceduto per avvelenamento da cianuro, pareva sereno e «innamorato della vita». Non è da escludere che la sua morte celi qualche segreto di Stato, come ipotizza anche un altro biografo, Andrew Hodges, nel libro (edito da Bollati Boringhieri) da cui è tratto il film The Imitation Game , dal 1° gennaio nelle sale italiane. Ai dubbi sulla tragica fine di Turing corrispondono tuttavia solide certezze sui meriti immensi da lui conquistati decrittando i codici segreti tedeschi, durante la guerra, e lavorando allo sviluppo dell’informatica. Contributi preziosi ripagati nel peggiore dei modi.

Repubblica 28.12.14
Fabiola Gianotti
Io, tra Dio e il Big Bang
Guiderà diecimila scienziati alla scoperta della materia oscura: “Ma l’uomo non potrà mai sapere tutto”
Si può essere fisici e credenti però è meglio che scienza e fede mantengano la giusta distanza
È un mestiere simile all’artista: anche noi dobbiamo andare oltre la realtà davanti ai nostri occhi
E ora vi spiego a cosa serve il bosone di Higgs
colloquio con Dario Cresto-Dina


GINEVRA LE INSEGNE RISPLENDONO e annunciano: Snacks, Salades, Desserts, Drinks. Sotto, quasi ogni ben di dio. I manifesti di due film, Bridget Jones e Angeli e Demoni. La locandina della sesta “Higgs Hunting”, la caccia, la conferenza che si svolgerà dal 30 luglio al primo agosto 2015 a Orsay, Francia, su risultati e prospettive dell’EWSB (ElectroWeak Symmetry Breaking) accanto a quella di un corso di danza scozzese. Stinchi pelosi spuntano da un kilt. Le lingue del mondo si immergono e risalgono nel vociare di decine di ragazzi di colore e sguardi diversi che si mischiano in un gruppo, poi in un altro, qualcuno sulle code di una donna o di un uomo appena un poco più grande, qualche filo di grigio nei capelli, nessuno in tailleur o giacca e cravatta. Crocchi di tre o quattro in posa per un selfie sillabano prima dello scatto «higgs boson» che qui, ha sostituito il «cheese» conservandone la stessa funzione propedeutica al sorriso. Il tutto sorvegliato, sotto la cupola dello stabilimento principale del Cern, l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare, dalla gigantografia del rivelatore Atlas che a prima vista sembra una stazione spaziale, ma in realtà è un colossale microscopio capace di fotografare la collisione di particelle con una potenza di fuoco di quaranta milioni di scatti al secondo e una risoluzione di cento milioni di pixel.

Tutto è rotondo al Cern: edifici, piazze, uffici, corridoi. Quasi a rappresentare plasticamente come questo sia un luogo che smussa, arrotonda appunto, le antinomie, i conflitti. Passato e futuro, giovani e vecchi, uomini e donne, scienza e fede. Il direttore attuale, Rolf Dieter Heuer, tedesco del Sud di sessantacinque anni, in carica dal 2009, uno scienziato che ama la danza artistica, le sculture di Giacometti e i poemi di Neruda mes- in musica da Mikis Theodorakis, è stato paragonato a Re Artù per la ieratica somiglianza con il sovrano della leggenda portata sugli schermi e perché qui come spirito ci si sente un po’ tutti cavalieri della tavola rotonda. Mesi fa, allo svizzero Le Temps, Heuer ha detto: «La scienza non è esotica, gran parte della nostra vita ha a che fare con la fisica. I giornali dovrebbero essere più attenti alle belle notizie, quelle che ci danno gioia, ravvivano la mente, stimolano il sapere. Non dovremmo mai dimenticare che scoprire è un piacere». Nel gennaio 2016 Heuer passerà il testimone a Fabiola Gianotti.
SARÀ IL TERZO DIRETTORE ITALIANO DEL CERN, dopo Carlo Rubbia e Luciano Maiani (Edoardo Amaldi fu invece tra i fondatori, nel ‘54, e segretario generale). La prima donna a ricoprire questa carica. «Lei e Rolf — raccontano i colleghi — hanno un’esperienza molto simile. Entrambi sono stati spokesperson di un grande progetto, Atlas e Opal, entrambi sono stati staff Cern, quindi hanno sviluppato una cultura comune».
Fabiola Gianotti ha cinquantaquattro anni e una voce argentina ed entusiasta da liceale. Una vita tra Roma e Milano, studi classici, le canzoni di Baglioni, il pianoforte, Bach e Schubert, Flaiano, Dostoevskij, Zola e la Némirovsky, Van Gogh e i pittori del Rinascimento italiano. Ha appena visto Torneranno i prati di Olmi e le è piaciuto moltissimo, si è commossa, ha ricordi indelebili di Lezioni di piano, Il postino e Pallottole su Broadway . Conserva i rimpianti della ballerina classica, la passione per la cucina, per le scarpe e per una domanda: «Perché la mela cade dall’albero?». L’incontro fatale con la fisica l’ha avuto nel cuore grazie a una biografia di Marie Curie, nelle mani a Milano in un capannone della facoltà di Fisica a Città Studi, l’alternativa professionale sarebbe stata nelle neuroscienze perché non c’è poi così tanta differenza tra i misteri dell’universo e quelli che si nascondono nella mente umana. Magrissima e timida fino alla diffidenza, indossa una maglia arancione, una collana di pietre d’acqua e un paio di jeans. Un’eleganza sdrucciola che tende a scivolare via distrattamente dagli occhi di chi la osserva. Eppure la prima sensazione che si percepisce è quella di una donna felice: «Il Cern è il laboratorio del mondo. Tra queste mura mi sento come una bambina in un negozio di dolci. Non c’è altro luogo in cui desidero stare».
La felicità porta con sé un’aura di bellezza. Che cos’è la bellezza?
«Attingo dalla fisica: la bellezza è la simmetria imperfetta. La fisica ha una sua estetica che si può contemplare nelle leggi della natura fino agli esseri microscopici. Comprenderla è un gioco intellettuale relativamente semplice. Pensi che le equazioni fondamentali del Modello standard delle particelle elementari si possono scrivere su una t-shirt.
Sono tre righe appena ».
La fisica si muove tra passato e futuro. Siete esploratori. Il prossimo obiettivo è proprio la super simmetria dell’Universo. L’ipotesi che ciascuna delle 17 particelle elementari finora scoperte abbia un partner “supersimmetrico” non ancora osservato. Quando vi rimetterete in viaggio?
«In primavera, quando tornerà operativo il Large Hadron Collider. Il più grande acceleratore mai costruito, un tunnel circolare di ventisette chilometri localizzato a circa cento metri di profondità nella campagna tra la Svizzera e la Francia. Ha funzionato con successo tra il 2009 e il 2013, ci ha portato alla scoperta del Bosone di Higgs. Per consentirci di affrontare domande molto importanti sulla materia oscura, che è circa il venti per cento dell’Universo, un’energia più elevata potrebbe essere fondamentale. Passeremo da otto a tredici tera-elettronvolt, l’unità di misura dell’energia delle particelle. Un TeV equivale all’energia di volo di una zanzara, ma il protone è circa mille miliardi di volte più piccolo della zanzara».
Che cosa succede sotto terra quando l’LHC e i suoi esperimenti sono in operazione?
«Due fasci di protoni vengono accelerati attraverso campi elettrici. Campi magneti superconduttori di altissima tecnologia li intrappolano nell’anello e li guidano in collisione. I protoni si scontrano in quattro punti del tunnel dove apparati sperimentali ci permettono di studiare il prodotto delle collisioni».
Come definirebbe filosoficamente la materia oscura?
«La misura della nostra ignoranza. Nessuna particella elementare fin qui scoperta presenta le caratteristiche della materia oscura. Ci serve una teoria più ricca, come quella della super simmetria, ma, chissà?, magari la natura ha segretamente in serbo un’altra soluzione».
In campo scientifico ogni risposta produce
nuove domande. Almeno per ora. Arriverà un tempo in cui sapremo tutto?
«Non credo. La conoscenza è un cammino senza fine. Possono privarci del lavoro, dello stipendio, della casa ma nessuno può portarci via il nostro cervello».
Quanto siete vicini al Big Bang?
«Siamo lontanissimi. Siamo riusciti a capire quello che è successo a partire da un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, circa quattordici miliardi di anni fa. Ma siamo lontani dal capire che cosa è successo al tempo del Big Bang».
Cercate Dio?
«No. Non credo che la fisica potrà mai rispondere alla domanda. Scienza e religione sono discipline separate, anche se non antitetiche. Si può essere fisici e avere fede oppure no. È meglio che Dio e la scienza mantengano la giusta distanza».
Ma avete chiamato il Bosone di Higgs “la particella di Dio”.
«Mai uno scienziato ha avuto l’ardire di definirla così. Lo dobbiamo all’editore del libro scritto dal premio Nobel Leon Lederman. Voleva rivestire l’opera con un velo letterario di sicuro effetto. Lederman aveva suggerito un altro titolo, La particella dannata , perché ci aveva fatto disperare, l’avevamo cercata per decenni. È senza dubbio una particella speciale, ma avvicinarla a Dio è una sciocchezza».
Rispetto la sua opinione. Ma un suo collega di fede anglicana che insegna nanotecnologia a Oxford, Andrew Briggs, dice che non è neppure il caso di scegliere tra Dio e scienza. Li tiene assieme e cita il salmo all’ingresso del laboratorio Cavendish dell’università di Cambridge: «Grandi sono le opere dell’Eterno, ricercate da tutti coloro che si dilettano in esse». Suona come un inno alla vostra professione. Chi non è aiutato dalla fede può esserlo da qualche grammo di follia?
«Non follia, ma creatività. Forse le due cose hanno confini che possono sembrare comuni quando si addentrano nello spazio del sogno. Lo scienziato deve essere capace di sognare. Ho sempre pensato che il mestiere del fisico si avvicini a quello dell’artista perché la sua intelligenza deve andare al di là della realtà che ha ogni giorno davanti agli occhi. Credo che la musica e la pittura siano le arti più prossime alla fisica ».
Nel suo lavoro quanto sono decisive le mani?
«Per quanto mi riguarda sono fondamentali. Da bambina mi piaceva modellare il pongo, oggi mi piace costruire rivelatori. Avverto il bisogno fisico di essere vicino alla sperimentazione. Ho partecipato allo sviluppo dei rilevatori di particelle, per esempio il calorimetro ad argon liquido di Atlas, un cilindro lungo circa quattro metri e con un raggio interno di oltre uno. Le mani restituiscono al lavoro un aspetto familiare della ricerca. Nella scienza come in cucina ci vogliono regole matematiche e rigore. La termodinamica, la fluidodinamica... Ma ci vogliono anche creatività e fantasia. Un soufflé non riesce se la temperatura del forno e la durata della cottura non sono precise, ma seguire una ricetta in maniera pedissequa non è per nulla interessante ».
Ogni passo avanti del sapere prima o poi produce progresso. In che modo la ricerca sulle particelle elementari ha influito e influirà sulla nostra vita?
«Guardi, mi limito a un elenco di tre punti. Il primo: la realizzazione di un desiderio primario dell’umanità, la conoscenza, una delle ragioni più elevate della nostra specie. Il secondo: l’indispensabilità di fare ricerca di base per proseguire sul cammino del progresso, dell’evoluzione. Senza la meccanica quantistica e la relatività non avremmo avuto transistor e gps. Il terzo, lo sviluppo di tecnologie di punta che ci migliorano l’esistenza e diventano patrimonio dell’umanità com’è scritto nell’atto fondativo del Cern. Gli acceleratori di particelle sono già usati in fisica medica per bombardare i tumori con fasci di protoni o ioni-carbonio. Esistono due centri in Europa, a Heidelberg e a Pavia. Il Cnao fondato da Ugo Amaldi ha finora curato oltre quattrocento pazienti».
Un suo collega ha detto: «Anche nel nostro mestiere quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. E di solito sono donne». Le si attaglia questo aforisma?
«Il Cern è un luogo che celebra la diversità. Vi lavorano undicimila scienziati di cento nazionalità differenti, studenti che operano gomito a gomito con premi Nobel. Il genere, l’etnia, l’età e il passaporto contano poco. Sono qui perché sono un buon fisico, non perché sono donna».
Madre palermitana laureata in filologia romanza, papà piemontese di Isola d’Asti, geologo. Siamo tutti il risultato di un padre e di una madre. Cosa le hanno trasmesso i suoi?
«Devo loro moltissimo. Con il loro esempio mi hanno insegnato l’onestà, il rigore morale e intellettuale, la generosità, il sacrificio, l’apertura mentale verso tanti campi e interessi. Ma, soprattutto, mi hanno dato molto amore».
Lei non è sposata. È della stessa idea di Rita Levi Montalcini che diceva: «Sono io il marito di me stessa»?
«Assolutamente no. Da ragazzina avrei voluto avere cinque figli. È semplicemente andata diversamente».
La Caverna numero cinque è stata scavata a Cessy, villaggio francese a una ventina di chilometri dal Cern. Piove sui prati, sui cavalli e le vacche al pascolo. L’ascensore scende di cento metri in pochi secondi. Sopra c’è una montagna bellissima e famosa che si chiama Jura. È la caverna delle meraviglie dove si dibatte la nostra ignoranza. Qui si scontreranno tra pochi mesi i protoni liberati da una bottiglia di idrogeno. Decine di ragazzi si aggirano tra migliaia di cavi, li conoscono uno a uno. Dice Gigi Rolandi, fisico sperimentale e professore alla Normale di Pisa: «Negli ultimi trent’anni è cambiato tutto. Prima si lavorava a piccoli gruppi, oggi ci sono tremila scienziati su ogni singolo progetto. È la Dottrina delle Formiche». Domando a Fabiola Gianotti come guiderà un esercito di oltre diecimila persone. Mi risponde così: «Non siamo un’azienda. Guai a soffocare con il controllo e un’organizzazione pesante l’essenza della ricerca, che si basa sulle idee. Penso a una direzione leggera, attraverso il consenso. Se il più giovane degli studenti ha l’idea giusta si proverà a fare ciò che il suo intuito ha suggerito. Siamo spinti dalle idee, non dalle gerarchie».

Repubblica 28.12.14
Scrittori senza Furore
I capolavori di Balzac e di Hugo non erano piagnistei: gli autori erano convinti che la loro parola sarebbe stata d’aiuto per cambiare il mondo
Oggi il conflitto è racchiuso all’interno dell’individuo
Nell’era segnata dalla disuguaglianza dei pochi che hanno molto e dei molti che hanno poco dove è finito il grande romanzo sociale? Dove sono Steinbeck e Zola?
di Wlodek Goldkorn


FUOR di dubbio: l’anno che sta finendo è stato l’anno di Thomas Piketty, l’autore del Capitale nel X-XI secolo.
Pochi contestano ormai la sua tesi per cui le disuguaglianze sociali sono in crescita anziché diminuire. Per costruire la sua teoria l’economista francese ha frequentato non solo le statistiche, ma anche la narrativa. E in base a queste letture dice che la situazione oggi assomiglia a quella descritta nei romanzi di Honoré de Balzac e Jane Austen: società dove aumenta il divario tra chi possiede il capitale e chi invece vive del proprio lavoro. È stata la rivista americana online Slate ad affrontare polemicamente l’argomento, non per contestare i fatti citati Piketty, ma per mettere in questione un’altra sua tesi, esposta in incontri pubblici: nei romanzi degli ultimi decenni non si parla dei soldi. Se ne parla invece, dicono i critici letterari autori dell’articolo, ma in un’altra maniera. Rimane tuttavia il problema, sollevato da molti esperti di letteratura e arti (ad esempio da A. O. Scott, sul New York Times) : come mai oggi non si scrivono romanzi sociali, ancorati nella vita quotidiana della gente che lotta per la sopravvivenza? Come mai nessuno scrive un nuovo Germinal sull’esempio di Émile Zola, un nuovo Furore come John Steinbeck, un altro I miserabili come Victor Hugo?
Forse la domanda andrebbe riformulata. Met- tiamola così: è possibile oggi scrivere opere simili? Intanto qualcuno ci prova ancora; anche in Italia e basti pensare alla Prato descritta da Edoardo Nesi, alla Piombino versione Silvia Avallone, o al call center secondo Michela Murgia (per non parlare della Dismissione di Ermanno Rea). Ma si tratta di eccezioni e non di letteratura che fa tendenza. E allora, cosa è successo? Una prima risposta possibile è questa: il romanzo sociale come l’abbiamo conosciuto dall’Ottocento e fino alla prima metà del secolo scorso nasce non dalla constatazione che il mondo del lavoro va male, ma al contrario, dalla protesta perché la modernità non mantiene le proprie promesse. Quali promesse? Semplice, quelle legate all’idea del progresso: eguaglianza (non equità), crescita del benessere, ascesa sociale frutto dell’istruzione, conquista collettiva dei diritti; se non addirittura la Rivoluzione e palingenesi.
Così Zola raccontava le lotte dei lavoratori perché era convinto che la sua parola sarebbe stata d’aiuto nel cambiamento del mondo. E ancora, John Steinbeck, nel Furore , narrava le ingiustizie subite dai contadini del Sud degli States perché era certo dell’intrinseca validità del sogno americano. E lo stesso si può dire di Hugo, monumento vivente alla fede nella rettitudine e bontà insiti nell’ethos repubblicano. Il romanzo sociale insomma non è stato un piagnisteo ma un risultato del confronto tra il progetto dell’avvenire e la realtà. Quell’avvenire, almeno in Europa occidentale era legato a forme di vita concrete. I lavoratori della stessa fabbrica vivevano nello stesso quartiere, si incontravano negli stessi luoghi di svago (sport compreso) o di agitazione politica. Peraltro, la sinistra (titolare dell’idea del progresso) nel nostro continente è nata ed è vissuta così, legata ai territori degli operai.
Oggi, cosa rimane di tutto questo? Poco o niente. Non solo dal punto di vista sociologico: tra deindustrializzazione e disgregazione di quel che era il mondo del lavoro, ma anche come fede nel mito del progresso. Non c’è bisogno di tirare in ballo Theodor Adorno e Max Horkheimer ( La dialettica dell’illuminismo) o Guenther Anders ( L’uomo è antiquato ) e neanche Zygmunt Bauman con il suo magistrale Olocausto e Modernità, per capire quanto la parola progresso sia un arnese, uno strumento lessicale vuoto di contenuto e fallito. Il futuro, ci dicono gli intellettuali à la page, è decrescita: felice nel migliore dei casi; e un mondo di moltitudini, che sono il contrario di massa. Moltitudine significa infatti una serie di individui, non un insieme di persone legate dallo stesso vissuto e interesse sociale. E l’istruzione non assicura più un futuro migliore.
E tuttavia, molti scrittori continuano a fare il loro mestiere e a raccontarci la società in cui viviamo; salvo che questa è una società e un mondo impossibili da narrare come un universo coerente, in cui è chiaro il nesso tra causa e effetto. Esempio ne è il newyorchese Paul Auster. Nei suoi romanzi, le cose che accadono ai protagonisti sono frutto del caso, dell’arbitrio del destino. E allora, forse non rimane che cercare lontane appartenenze, identità mitiche e leggendarie da rivendicare; specie se fanno parte di eventi violenti e spostamenti e migrazioni legati a una storia che rasenta l’Apocalisse, accaduta però davvero. Lo fanno, e da questo punto di vista sono romanzieri contemporanei, gli americani Nicole Krauss ( La storia dell’amore, La Grande Casa) e Jonathan Safran Foer ( Ogni cosa è illuminata), ambedue alla ricerca di un mondo europeo antecedente la Shoah e da cui vengono i loro antenati, profughi. Del destino dei rifugiati si occupa l’americano di origine etiope Dinaw Menghestu ( Leggere il vento). E in un romanzo di grande attualità, Non dirmi che hai paura , il nostro Giuseppe Catozzella, ha raccontato la storia di una atleta africana annegata nel Canale di Sicilia.
Ma forse è Il Cerchio di Dave Eggers, americano pure lui, 44enne, californiano d’adozione, il romanzo, tra quelli recenti, che più degli altri è ancorato nel vissuto e nei valori della società contemporanea. Eggers ambienta il suo racconto in un campus di una grande azienda, e qui siamo vicini alla fabbrica di Zola. Ma la protagonista è una ragazza sola, che sola rimane; senza alcun orizzonte di azione collettiva e di solidarietà di classe. L’azienda non produce beni materiali. Il suo scopo è mettere in connessione il numero più alto di persone; ma anche renderle trasparenti, indurle a rinunciare a ogni privacy; ciascuno in un futuro distopico (perché dell’avvenire parla Eggers) girerà con una serie di apparecchi addosso, grazie ai quali potrà essere visto e “partecipato” da decine di milioni di altri individui.
Corollario e premessa di tutto questo (come del resto dei libri che raccontano i profughi) è l’empatia. Empatia è la parola chiave oggi. Ciascuno di noi deve provare a entrare nella testa altrui. Siamo tutti separati, ma uniti da un flusso di sentimenti che ci accomunano e che proviamo all’istante. L’azienda chiamata il Cerchio vuole chiudere il cerchio appunto, per creare un mondo di individui empatici: un universo perfetto e armonioso. Ma attenzione, connessione, empatia e trasparenza, escludono il conflitto come categoria: se litighiamo è perché qualcuno nasconde un segreto, perché non siamo capaci di capire l’altro; il contrario di Zola o Steinbeck e delle lotte sociali.
Invenzione futuristica, si dirà e non descrizione di realtà, come ne era capace un Balzac, appunto. Ma ne siamo sicuri? C’è una bellissimo testo di Henry James ( Tre lezioni su Balzac) in cui lo scrittore americano spiega come l’autore francese si inventasse tutto. E proprio grazie alla sua immaginazione riusciva a raccontare la realtà meglio di ogni presunto realista.

Repubblica 28.12.14
Alberto Asor Rosa “Siamo rimasti senza il popolo”
intervista di Raffaelle De Santis


POCHI intellettuali come Alberto Asor Rosa hanno contribuito ad indagare a fondo il rapporto tra società e cultura. Asor Rosa è tra gli studiosi maggiormente animati da passione civile, autore di opere chiave, da Scrittori e popolo, in procinto di una nuova edizione a cinquant’anni dalla prima, alla Storia europea della letteratura italiana. Al ruolo del popolo nella nostra letteratura ha dedicato pagine importanti della sua vasta produzione critica.
Professore, è vero che oggi manca un grande romanzo sociale sul modello di quelli del passato?
«Quel tipo di romanzo nasce quando si ha alle spalle una realtà psicologica e intellettuale in cui la questione sociale ha un rilievo straordinario, che va al di là dei confini della letteratura. È stato così per Verga ma anche più recentemente per i neorealisti. Non è più così oggi».
Fatichiamo a prendere atto della realtà in cui viviamo?
«Dovremmo ragionare sul perché nonostante l’aumento delle diseguaglianze la questione sociale non vive nella coscienza della gente. Anche sui media assistiamo alla stessa disattenzione».
Eppure il bestseller di Thomas Piketty Il capitale nel X-XI secolo ha portato di nuovo alla ribalta il tema delle disuguaglianze sociali.
«Piketty è un fenomeno puramente intellettuale che ha avuto un enorme successo ma non trasforma la teoria in coscienza della prassi. Il tema dell’ingiustizia sociale rimane però assolutamente non popolare. La percezione e la condanna delle disuguaglianze nelle nostre società è stata respinta ai margini, non interessa ».
È una colpa da imputare agli scrittori?
«Il romanziere non può provocare qualcosa che non c’è. Come fa ad occuparsi del conflitto sociale e delle sue prospettive quando questi temi, soprattutto in Italia, non sono centrali, anzi sono marginalizzati? I teorici e gli analisti che se ne occupano si contano sulle dita di una mano e non sfondano il muro dell’indifferenza ».
Manca il coraggio della denuncia?
«Non parlerei di coraggio, perché in passato questa formula è stata spesso usata per chiedere agli scrittori cose sbagliate. In realtà i processi creativi sono più spontanei e naturali che indotti. Altrimenti si rischia di cadere in una posizione ideologica».
Nel suo libro Scrittori e popolo, lei demistificava il populismo di molti nostri letterati.
«Il libro, pubblicato nel 1965, è nato nel clima operaista di quegli anni. Allora denunciavo l’aspetto velleitario e ideologico di una critica sociale che non nasceva da intenti esclusivamente artistici ».
Come cambia oggi la prospettiva? È possibile che tra i nuovi scrittori nessuno abbia una coscienza sociale?
«Nella nuova edizione del libro ci saranno, tra gli altri, Melania Mazzucco, Giorgio Vasta, Nicola Lagioia, Mario Desiati, Valeria Parrella, ma non voglio dire di più. Se oggi gli scrittori non guardano al popolo è comprensibile: perché dovrebbero inventare qualcosa che non c’è?» Fa anche questo parte del “grande silenzio” di cui parla nel libro intervista con Simonetta Fiori?
«Negli scrittori del neorealismo, in Vasco Pratolini, Carlo Bernari, Elio Vittorini, un’idea di popolo c’era, anche se riduttiva o sopraffatta dall’istanza ideologica. Era sanzionabile l’idea populista, ma questi scrittori contribuivano a far conoscere la realtà, la documentavano. Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri è un grande testo di testimonianza sul mondo operaio. Ragazzi di vita e Una vita violenta di Pasolini hanno un marchio ideologico discutibile ma in quei libri c’è un’impronta reale. Il silenzio attuale di scrittori e intellettuali nasce dalla cecità rispetto alla questione sociale. La gente volta la testa dall’altra parte».
Rimpiange lo scrittore engagé?
«Come abitudine mentale tendo a non rimpiangere niente. Mi sembra una stagione passata, a cui è seguita nella letteratura una ricerca più povera, ristretta alle vicende dell’io, senza aperture al mondo esterno. Ormai i personaggi della narrativa sono fondamentalmente incardinati nella propria vicenda individuale».

Repubblica 28.12.14
Tu scendi dalle stelle pitagoriche
di Piergiorgio Odifreddi


IN TEMPI natalizi, si sente spesso parlare di stelle mitologiche. Gli astronomi possono riportare il discorso nell’ambito della scienza, parlando di reali stelle fisiche. Ma anche i matematici hanno varie stelle da esibire: si tratta dei cosiddetti poligoni e solidi stellati , ottenuti aggiungendo triangoli sui lati dei poligoni, o piramidi sulle facce dei solidi. L’esempio più spettacolare è la stella pitagorica , determinata dalle diagonali di un pentagono regolare. I Pitagorici la usavano come simbolo della loro confraternita, ma è stata usata anche nell’arte. A volte in maniera esplicita, come nel Cinque di Demuth di Robert Indiana, del 1963. E altre in maniera implicita, come nella Leda atomica di Salvador Dalí, del 1949, in cui la figura è stata iscritta in una stella pitagorica per farle assumere le proporzioni auree. La proprietà essenziale della stella, infatti, è che il rapporto fra i suoi lati e quelli del pentagono in cui è iscritta, è pari alla sezione aurea. Chiudendo nello spazio una stella pitagorica si ottiene una piramide aurea, avente base pentagonale e facce a triangolo aureo. E aggiungendo dodici di queste piramidi sulle facce di un dodecaedro si ottiene un piccolo dodecaedro stellato , spesso usato in Oriente come lampada, e costituente un’illuminazione ideale per il presepe delle stelle matematiche.

Repubblica 28.12.14
Quel Dio che Dante non può descrivere
La Commedia è una “visione in sonno” e il suo autore è convinto della portata profetica della propria narrazione. Egli si sente un predestinato
di Walter Siti


Nei versi finali del Paradiso si compie l’obiettivo che il poeta porta con sé durante tutto il viaggio ultraterreno. Ma è difficile raccontare quel che vede perché la sua potenza
immaginativa e rappresentativa si è annullata nell’istante stesso in cui si realizzava il proprio fine


STAVOLTA non si tratta di una lirica autonoma: sono i 31 versi finali dell’ultimo canto del Paradiso. Qui giunge al termine, e al culmine, un’opera che Dante si portava dietro da una ventina d’anni — e qui il viaggio ultraterreno tocca il suo obiettivo, la visione di Dio. È dall’inizio del canto, e anche da prima, che Dante sta lottando (lui che ha sofferto di malattie oftalmiche e per questo si è raccomandato a Santa Lucia) con la propria acutezza visiva: le preghiere dei beati e l’intercessione di Beatrice gli danno la Grazia necessaria per ficcare sempre più gli occhi nei misteri dell’essenza divina, per successive approssimazioni. Già ha visto, nei versi precedenti, come in Dio sia racchiuso e compresso l’universo, «legato con amore in un volume »; le categorie di spazio e tempo sono saltate e lui continua a scusarsi dell’impotenza espressiva («riesco a raccontare quel che ho visto, e inteso, in percentuale così minima che dire “poco” non rende l’idea»).
Ora vede altre due cose che rappresentano incomprensibili dogmi della religione: la Trinità e le due nature di Cristo. Gli appaiono tre cerchi sovrapposti, con stesso centro e stesso raggio, ma che, ciò nonostante, si distinguono l’uno dall’altro: il secondo sembra un riflesso del primo e il terzo (lo Spirito Santo) si riflette come un fuoco su entrambi. Il secondo poi (quello “riflesso”), dà l’impressione di aver dipinta dentro una figura nel medesimo colore dello sfondo — ulteriore impossibilità fisica che però si impone all’intelletto e allo sguardo. Il secondo cerchio rappresenta il Figlio ed è l’umanità di Cristo quella che si disegna, visibile- invisibile, nella divinità del cerchio. Dante si sforza di capire come l’immagine si stagli sullo sfondo ad essa omogeneo e fa lo stesso sforzo degli studiosi di geometria quando cercano di venire a capo della quadratura del circolo; ma la sua mente non arriva a tanto — senonché proprio in quel momento viene colpito da una folgorazione in cui la comprensione assoluta si realizza. Dante ha capito i dogmi, ha capito Dio; ma non riesce a raccontarlo perché la sua potenza immaginativa e rappresentativa (la “fantasia”) si è annullata nell’istante stesso in cui realizzava il proprio fine.
Si è discusso a lungo se il viaggio della Commedia sia da intendere come finzione poetica o come effettiva visione mistica dell’aldilà; insomma se Dante credesse davvero di aver “visto” ciò che racconta. Io sono tra chi ritiene che la Commedia sia una “visione in sonno” e che Dante fosse convinto della portata profetica del suo racconto; soffriva periodicamente di crisi epilettiche e fin dal tempo della Vita nova aveva interpretato queste crisi come segno di predestinazione, che il suo corpo fosse un recipiente adatto a illuminazioni trans-sensoriali. Nella sua epoca le visioni venivano prese sul serio, se ne distinguevano varie specie e nessuno metteva in dubbio che fossero un veicolo per la verità (una volta escluse le loro contraffazioni diaboliche). Inoltre la “visio” era un genere letterario diffuso, un collaudato contenitore narrativo. Dante è «pien di sonno» quando entra nella selva oscura e qui in paradiso, nel penultimo canto, San Bernardo lo incita ad affrettarsi perché il tempo del sonno sta per finire.
Nella lunga durata del poema questo assunto talvolta si perde, Dante stesso un po’ se lo dimentica e il viaggio diventa, sul modello dei classici latini, epico e fantastico; ma nel finale l’esperienza mistica risorge potente. Anzi, accade qualcosa di straordinario e inedito: l’esperienza è talmente viva che impegna non solo il Dante “addormentato” ma lui tutto intero nello spingere all’estremo le proprie umane possibilità — qui supera le “visioni” intese come genere letterario e per forza di introspezione arriva a intuire i meccanismi onirici come li intendiamo noi. Il pi-greco della quadratura del circolo è un numero irrazionale che ha rapporto con l’infinito; la distinzione dei cerchi sovrapposti sarebbe comprensibile solo in uno spazio multi-dimensionale; l’acume visivo può coincidere col torpore patologico solo in una logica che superi il principio di non-contraddizione: tutte caratteristiche che la moderna psicanalisi ha riconosciuto come proprie dell’inconscio. Dante insomma, per genio di coerenza poetica, ha reso realistico e autobiografico il “sonno” della tradizione.
Per descrivere l’indescrivibile mette a frutto quello che sa: il linguaggio della filosofia scolastica (la “sussistenza” cioè l’esistenza di un ente senza bisogno di altri enti, il “velle” cioè la volontà), le conoscenze di geometria, le occasioni personali (la nave Argo vista dal basso, di cui si parla in un paragone pochi versi prima dei nostri, ha la stessa forma delle “mandorle” degli affreschi che aveva visto a Roma durante il Giubileo); inventa perfino un verbo che non esiste (“indovarsi” nel senso di “situarsi”); niente di questo basta — entrare nel meccanismo rotatorio dell’Assoluto significa esaurire se stessi (Dante morirà poco dopo) e insieme aver realizzato un’opera che ha l’analogo ritmo ternario di quel meccanismo (la parola “stelle” che conclude ogni cantica); un libro che può gareggiare con quello riassunto in Dio.

Il Sole Domenica 24.12.14
Lettera da Liegi
Arte degenerata all'incanto
Il nuovo museo della città ospita la mostra di opere (tra cui Chagall e Ensor) che i nazisti ritenevano incompatibili con la purezza ariana e che furono vendute all'asta nel '39 a Lucerna
di Beda Romano


Le città sono spesso vittime della loro immagine, ostaggio della loro storia. Per molti, Liegi non è altro che una delle tristi capitali della siderurgia europea, alla stregua di Manchester o di Essen: nera di lignite, bagnata dalla pioggia e sfigurata dalla guerra. Oggi, il carbone è sinonimo di povertà e disoccupazione. Ieri, era fonte di ricchezza, e anche di dinamismo culturale. La mostra intitolata «L'art dégénéré selon Hitler», che si è appena aperta in un nuovo centro museale nella città sulla Mosa, smentisce molti luoghi comuni ed è uno straordinario scorcio in un periodo travagliato della storia europea.
Per la prima volta, i curatori dell'esposizione hanno raccolto opere che il regime nazista considerava entartete Kunst, arte degenerata, e che furono vendute all'asta nel 1939 a Lucerna, appena poche settimane prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale e dell'invasione del Belgio da parte della Wehrmacht. A sorpresa, tele di Marc Chagall e Paul Gauguin, James Ensor e Oskar Kokoschka furono acquistate dal comune di Liegi. Insieme ad altri reperti di quella vendita, sono oggi esposte alla Cité Miroir, una ex piscina comunale degli anni Trenta trasformata in museo dopo dieci anni di lavori nel centro della città vallona.
Secondo il curatore dell'allestimento Jean-Patrick Duchesne, «organizzare una tale esposizione equivale talvolta a una inchiesta poliziesca». Molte opere sono infatti finite in collezioni private, sempre più difficili da rintracciare. Poco importa: la mostra è il riuscito tentativo di ricordare la vicenda, e proietta una luce insolita su Liegi, una città che ha dato i natali a Georges Simenon così come ai registi Jean-Pierre e Luc Dardenne e che Jacques Brel definiva «la più folle del Belgio», segnata da «una specie di follia aerea che provoca gli anarchici, ma anche i poeti». Nella terra dei surrealisti, il giudizio nascondeva un complimento.
Il regime nazista considerava l'espressionismo e l'impressionismo stili incompatibili con la purezza della razza ariana. Prostituzione, omosessualità, pornografia erano raffigurazioni bandite, esattamente come tutto ciò che poteva «danneggiare il sentimento del popolo tedesco», secondo Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda. Fin dalla metà degli anni Trenta, il governo si adoperò per selezionare nelle collezioni dei musei tedeschi quadri, statue e altre opere d'arte inaccettabili secondo i canoni artistici del Terzo Reich. Una mostra-denuncia si tenne nell'Istituto archeologico di Monaco nel 1937: seicento opere in dieci sale.
Successivamente, il regime tradì i suoi principi e permise ad alcuni mercanti di acquistare con valuta straniera numerosi dipinti. Così fece Hildebrand Gurlitt, l'uomo salito alla ribalta delle cronache nel 2012 quando la Germania venne a scoprire che l'appartamento a Monaco del figlio Cornelius era una galleria d'arte, ignota agli amanti dell'espressionismo così come ai funzionari del fisco. Bisognoso di moneta sonante per finanziare il riarmo del paese, il regime nazista decise nel 1939 di vendere all'asta alcuni dipinti. Qualche anno dopo lo stesso avrebbe fatto la polizia segreta della Ddr, dopo aver requisito le collezioni private dei suoi cittadini.
Secondo i giornali dell'epoca, all'asta organizzata dalla Galleria Theodor Fischer nel Grand Hôtel National di Lucerna il 30 giugno 1939 parteciparono circa 300 invitati, tra cui il commerciante francese Pierre Matisse, il collezionista svizzero Emil Bührle, il regista austriaco Josef von Sternberg, ma anche rappresentanti di musei americani, inglesi, francesi e belgi. La città di Liegi vi partecipò in forze dopo aver raccolto non meno di cinque milioni di franchi belgi provenienti da donazioni private e dal comune. La vendita iniziò alle 14:15 di un venerdì, in «un'atmosfera», secondo un giornalista presente, «di concorso di tiro».
Il catalogo d'asta elencava 109 dipinti e 16 sculture di 39 artisti. Solo 85 pezzi furono acquistati, di cui nove dalla città belga. Il comune di Liegi si aggiudicò tra gli altri La maison bleue di Marc Chagall (1920), La mort et les masques di James Ensor (1897), Monte-Carlo di Oskar Kokoschka (1925), Portrait de jeune fille di Marie Laurencin (1924), Le déjeuner di Jules Pascin (1923), La famille Soler di Pablo Picasso (1903), e Le sorcier d'Hiva Oa di Paul Gauguin (1902). La Cité Miroir raggruppa in tutto una trentina di opere provenienti dalla vendita di Lucerna, tra cui dipinti anche di Lovis Corinth e Karl Hofer.
La vicenda racconta meglio di altre la storia di Liegi, dal carattere indipendente, se non addirittura anarchico. Dietro all'iniziativa svizzera si nasconde una città che si arricchì sfruttando fin dal Settecento le miniere di carbone. A differenza di altri centri della Vallonia, Liegi fu nei primi anni del Belgio orangiste e non rattachiste: non voleva la riunificazione con la Francia, ma la nascita di uno stato belga. Negli anni 1880, fu teatro dei primi movimenti sindacali. Nel 1950, senza successo, la città votò contro il ritorno delle funzioni costituzionali a Re Leopoldo III, a cui si rimproverava di avere firmato la resa nei confronti dei tedeschi nel 1940.
Alla fine degli anni Trenta, la cité ardente, come viene chiamata in Belgio, si stava scrollando di dosso le ferite della Grande Depressione, nel tentativo di ritornare ricca e prospera, prima di subire nel secondo dopoguerra un ineluttabile declino. Proprio nel 1939, anno della vendita in Svizzera, la città addossata alla frontiera tedesca fu collegata al mare con il Canale Alberto, lungo 130 chilometri. Qualche anno prima, nel 1930, Liegi ospitava una grande esposizione internazionale per celebrare il centenario della nascita del Belgio e i successi della sua industria. Visitata da sei milioni di persone, la manifestazione accolse venti paesi espositori.
La decisione di partecipare all'asta di Lucerna, spiegò ai tempi l'assessore alla cultura Auguste Buisseret, era il tentativo di fare di Liegi «un centro d'arte aperto a tutte le correnti dell'estetica moderna». C'è chi protestò all'idea che nell'acquistare opere d'arte i collezionisti stessero finanziando il Terzo Reich. Altri ribatterono che partecipare all'asta era l'unico modo per salvare quadri e sculture, e ricordarono che nel marzo del 1939 il regime hitleriano aveva organizzato un gigantesco autodafé nel cortile di una caserma di Berlino, bruciando migliaia di dipinti. È facile nel catalogo della mostra rendere merito alla preveggenza degli amministratori di allora.

L'art dégénéré selon Hitler, Liegi, Cité Miroir, fino al 29 marzo 2015. www.citemiroir.be

Il Sole Domenica 28.12.14
logica /1
L'invenzione di Aristotele
Le inferenze vere dipendono esclusivamente dalla loro forma: questa è stata la grande scoperta che portò alla catalogazione degli schemi del ragionamento
di Hilary Putnam


Come sanno bene tutti quelli che apprezzano l'arte, gli oggetti esposti nei musei possono essere molto belli, e, nelle epoche in cui sono stati creati, hanno spesso segnato l'inizio di nuovi modi di vedere, di pensare e di creare. Questo vale anche per la logica antica. Aristotele ha avuto l'idea da cui è scaturito l'intero dominio della logica, l'idea secondo la quale le inferenze valide, le inferenze la cui la conclusione, come si dice, "segue logicamente" dalle premesse, dipendono per la loro validità esclusivamente dalla loro forma.
Ad esempio, non solo quello che segue è un sillogismo valido –
Tutti gli esseri umani sono mortali
Tutti i Greci sono esseri umani
(quindi) Tutti i Greci sono mortali
– ma lo è ogni altra inferenza della «forma logica»
Tutti gli S sono M
Tutti gli M sono P
(quindi) Tutti gli S sono P
– a patto che le parole sostituite a «S», «M» e «P» si riferiscano tutte alla stessa classe di cose in entrambe le loro occorrenze (naturalmente Aristotele usava le lettere greche, non le lettere latine). Nella terminologia odierna, «S», «M» e «P» sono dette variabili predicative. Aristotele ha inventato le variabili. Aristotele ha studiato nei dettagli 256 inferenze (dette «sillogismi categorici» o semplicemente «sillogismi») in cui premesse e conclusione hanno tutte una delle seguenti quattro forme: tutti gli S sono P, qualche S è P, qualche S è non P (o più fedelmente rispetto al testo aristotelico, non tutti gli S sono P), e nessun S è P, e ha fatto vedere come stabilire quali sono valide (24 lo sono) e quali sono invalide (la grande parte). Così facendo ha inaugurato il programma consistente nella creazione di un organo del ragionamento deduttivo, di un resoconto sistematico dei modi della deduzione valida. Con una sola mossa ci ha dato le nozioni di forma logica, di validità logica e l'intero programma di cui ho appena parlato. Come questo risultato magnifico sia diventato un pezzo da museo è una lunga storia, e questa lezione riguarda la logica moderna, e per questo sarò breve. I più importanti successori di Aristotele furono i logici stoici (III secolo avanti Cristo), e fra le loro conquiste ci sono i primi passi di quello che oggi chiamiamo «calcolo proposizionale». Nei cosiddetti secoli bui (che, per quanto riguarda la logica, furono davvero «bui») non solo la logica stoica fu dimenticata, ma quasi tutti i libri di Aristotele andarono perduti per tutto l'Occidente latino (l'opera logica De Interpretatione costituisce una rara eccezione). Molti più libri di Aristotele tornarono a circolare nel XII secolo, e nel XIII secolo vi fu un revival della logica (sono molto importanti, ad esempio, gli studi medievali sulla teoria della supposizione e la teoria delle conseguenze), ma quasi tutti i testi stoici erano andati perduti, e il curriculum diffuso nell'alto medioevo non venne mai ad integrare la logica stoica (di fatto la logica stoica fu «riscoperta» dagli studiosi del XII secolo). È questa la ragione per la quale Kant poteva scrivere nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura (B viii) che «dopo Aristotele la logica non ha potuto fare un passo avanti, di modo che, secondo ogni apparenza, essa è da ritenersi come chiusa e completa». Arrivati a quel punto, la logica era davvero un pezzo da museo.

Il Sole Domenica 28.12.14
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La svolta di Frege
di Nicla Vassallo


Possiamo ancora dire qualcosa di nuovo su Gottlob Frege, su cui tanto ormai si è di già riflettuto e scritto, e senza cui, almeno stando ad alcuni, Michael Dummett, in primis, la filosofia analitica dipende proprio da Frege, non solo perché quest'ultimo ne verrebbe considerato il nonno o, in termini incisivi, il patriarca? Crediamo di sì.
Personalmente, non confido più di tanto nelle grandi categorizzazioni, del tipo filosofia continentale da una parte e filosofia analitica dall'altra: sopra ogni cosa, preferisco la buona filosofia, ben argomentata. E dubito pure di classificazioni nell'ambito della storia della filosofia, quali «costoro sono razionalisti, mentre costoro sono empiristi», come, del resto rimango assai perplessa di fronte a chi identifica la filosofia antica e medioevale con metafisica e ontologia, e la filosofia moderna con la teoria della conoscenza. Basti ricordare quanto i filosofi antichi si siano occupati di conoscenza, sempre che non vengano interpretati da contemporanei incapaci di altro se non di triviale filologia.
Dummett sostiene che «il risultato di base di Frege sta nel fatto che ha ignorato totalmente la tradizione cartesiana», ovvero una tradizione che molti legano alla riflessione epistemologica. Per chiarire ciò, Dummett non esita a parlare di rivoluzioni, con un Frege che «inizia dal significato nel senso che prende la teoria del significato come l'unica parte della filosofia i cui risultati non dipendono da quelli di nessun'altra parte, ma sta alla base di tutto il resto. Nel fare così, ha effettuato una rivoluzione in filosofia grande almeno quanto la simile rivoluzione precedentemente effettuata da Descartes; e fu capace di fare così anche se applicò i risultati ottenuti nella teoria del significato solo a una parte della filosofia. Possiamo quindi datare un'intera epoca in filosofia a partire dal lavoro di Frege, proprio come facciamo con Descartes». Quest'intera epoca passa notoriamente sotto il nome di «svolta linguistica» o di filosofia analitica, e benché non mi sia mai parsa esatta l'interpretazione in questione, né nei confronti di Frege, né della filosofia analitica – se non ridotta a miseri termini – non nasce essa forse con Socrate, mentre la cosiddetta filosofia continentale non emerge a partire dall'Ottocento, con una mistura tra filosofia e poesia che Platone abborriva? Sta però di fatto che c'è ancora chi ritiene che Frege sia soprattutto un filosofo del linguaggio, oltre che un filosofo della logica e della matematica. Certo, fare filosofia della logica e della matematica comporta notevoli riflessioni sulla teoria della conoscenza, ma, finora non mi risulta si sia conferita una sufficiente rilevanza alla riflessione di Frege sul pensare, pensare anche logico e matematico, ma pure psicologico e logico-psicologico, come tento di mostrare, insieme a Pieranna Garavaso, professore da decenni negli States, in Frege on Thinking and Its Epistemic Significance. Pensare, il processo di pensare, e conoscere risultano strettamente interconnessi. In Frege è stata sottovalutata la concezione della conoscenza, al pari della concezione del pensare, perché la riflessione sul pensare in una certa filosofia viene delegata alle scienze cognitive, e qui agisce, direttamente o indirettamente la convinzione dummettiana, stando a cui il pensare debba rimanere «l'oggetto proprio della psicologia». Si ribadirebbe pertanto che Frege è il nonno della filosofia analitica, a causa del suo poderoso accento sul pensiero (contenuto e non processo) e della sua supposta propensione antipsicologistica o antinaturalistica a separare nettamente la filosofia del pensiero dalla filosofia del pensare, la filosofia di quanto si suppone oggettivo ed indipendente dalla nostra attività mentale dalla filosofia di quanto si suppone soggettivo e che consiste in un processo mentale.
Partendo dalla "banale" convinzione che le traduzioni debbano valere e meritino precisione, e che nel caso specifico, das Denken (pensare) non possa venire confuso con il der Gedanke (pensiero), al fine, tra l'altro, di non precipitare in indebite confusioni sulla filosofia di Frege e sulla filosofia analitica, Frege on Thinking and Its Epistemic Significance è stato comunque concepito e scritto non tanto e non solo per porre in discussione alcune interpretazioni standard di Frege e della filosofia analitica, quando per proiettare la filosofia di Frege nella filosofia contemporanea, e far sì che la prima acquisisca un significato, non solo storico, per la seconda, attraverso temi di prim'ordine quali: le molte sfaccettature dell'antipsicologismo e dell'antinaturalismo, che non riescono ad evitare "cadute" nello psicologismo o nel naturalismo, le diverse preminenti concezioni del pensare che non concedono il "senso unico", la speculazione sulla teoria della conoscenza, con analisi anticipatrici, e, infine, il ruolo svolto dal linguaggio nel pensare e nel pensiero, ruolo che però non si lega al solo pensiero. Ad altri il giudizio su questo "nostro" Frege e sull'essere "il nonno" di quale filosofia.
www.niclavassallo.net
Pieranna Garavaso e Nicla Vassallo, Frege on Thinking and Its Epistemic Significance, Lexington Books-Rowman & Littlefield, Lanham, MD, Usa, pagg. 138, $ 75.00

Il Sole Domenica 28.12.14
I traditori di Socrate
di Roberta De Monticelli

qui

Il Sole Domenica 28.12.14
George Boole (1815-1864)
Classi rivoluzionarie
Nel 2015 il bicentenario del logico matematico che ha inventato il nuovo linguaggio formale andando oltre il sillogismo
di Umberto Bottazzini


«Indagare le leggi fondamentali di quelle operazioni della mente per mezzo delle quali si attua il ragionamento», tradurle «nel linguaggio simbolico di un calcolo» e, su questo fondamento, «istituire la scienza della logica». Infine, ricavare dagli «elementi di verità» emersi da queste indagini «alcune indicazioni probabili sulla natura e la costituzione della mente umana». È questo l'ambizioso scopo dichiarato da George Boole in apertura della sua Indagine sulle leggi del pensiero su cui sono fondate le teorie matematiche della logica e della probabilità (1854), il volume che ha segnato la nascita della moderna logica matematica e ha consegnato il suo nome alla storia. Quando dà alle stampe l'Indagine Boole è professore di matematica al Queen's College di Cork, in Irlanda, dove è approdato da qualche anno seguendo un percorso che di accademico ha molto poco. Le sue origini sono modeste. Il padre è un ciabattino con una bottega a Lincoln in Inghilterra, e una grande passione per la letteratura, la matematica, l'ottica e l'astronomia, passione che trasmette al figlio insegnandogli i primi rudimenti di geometria e trigonometria, e costruendo con lui caleidoscopi, microscopi, telescopi e anche una meridiana. Ma il giovane George si appassiona anche alle lingue classiche, padroneggia il latino e il greco e poi impara il francese (e l'italiano) di modo che, a sedici anni, quando comincia a dedicarsi seriamente alla matematica, è in grado di affrontare da solo lo studio in lingua originale del manuale di calcolo differenziale di Lacroix.
Le condizioni economiche della famiglia, mai floride, subiscono un tracollo quando il padre, più attento alla cultura classica e alla scienza sperimentale che alla propria attività, è costretto a chiudere la bottega di ciabattino e il primogenito George deve farsi carico di provvedere alla famiglia andando a insegnare in una scuola elementare, dapprima in un paese a quaranta miglia da casa poi a Liverpool e infine a Lincoln, dove decide di aprire una propria scuola. La mancanza di una educazione formale all'università è stata forse una delle ragioni dei successi di Boole, un geniale autodidatta abituato fin da ragazzo a lavorare da solo e a sviluppare in maniera autonoma le proprie linee di pensiero. È «un principio generale del linguaggio, e non solo del peculiare linguaggio della matematica, che sia consentito di usare simboli per rappresentare qualunque cosa scegliamo che essi debbano rappresentare», si legge in un profetico passo di una lettera del diciannovenne Boole a un amico.
A quell'epoca Boole accompagna l'attività di insegnante elementare con lo studio di ponderosi trattati come la Meccanica analitica di Lagrange e la Meccanica celeste di Laplace, oltre naturalmente ai Principia di Newton. E alla Meccanica di Lagrange sono ispirate le sue prime pubblicazioni apparse nel prestigioso «Cambridge Mathematical Journal». Nel 1844 a Boole viene assegnata la prima medaglia d'oro per la matematica attribuita dalla Royal Society per un lungo articolo Su un metodo generale in analisi (1844) che segna una svolta nella sua carriera e gli apre la via all'insegnamento al Queen's College di Cork. L'idea che sta alla base di quell'articolo – l'essenza della matematica pura consiste nella manipolazione formale di operatori e di simboli nel senso più ampio del termine – trova espressione compiuta qualche anno più tardi nell'Analisi matematica della logica (1847). L'occasione per dare alle stampe idee maturate da tempo («riprendere il filo quasi dimenticato di precedenti indagini») venne a Boole dalla furibonda disputa di priorità che oppose de Morgan a William Hamilton, un filosofo e metafisico scozzese che riteneva lo studio della matematica «pericoloso e inutile». L'oggetto del contendere era la cosiddetta quantificazione del predicato": al posto dell'enunciato "Tutti gli A sono B" della sillogistica classica, tenendo conto della quantità del predicato, Hamilton proponeva gli enunciati "Tutti gli A sono tutti i B" oppure "Tutti gli A sono qualche B", e analogamente per le altre figure del sillogismo. L'idea era venuta anche a De Morgan (e in verità non era molto originale e risaliva addirittura a Leibniz) e venne adottata anche da Boole.
Ma non è certo questo il tratto più originale dell'Analisi, così come non lo è l'idea di considerare la logica in relazione alla quantità. È legittimo invece «considerarla basata su fatti di altro ordine che hanno la propria sede nella struttura della mente», afferma Boole anticipando il tema dominante nell'Indagine sulle leggi del pensiero. Introdotto il simbolo 1 per rappresentare l'universo, ossia «ogni classe concepibile di oggetti», il simbolo 0 per la classe nulla (o vuota) e le operazioni sui simboli, Boole riusciva a tradurre in termini algebrici le classiche figure del sillogismo. Non solo. Interpretando poi i simboli non come oggetti e classi di oggetti, ma come verità di proposizioni (x = 1 o, rispettivamente, x = 0 significa che la corrispondente proposizione è sempre vera o sempre falsa) costruiva una vera e propria algebra della logica (a due valori) in grado di rappresentare i modi di ragionamento della logica classica. La successiva Indagine sulle leggi del pensiero offriva non solo miglioramenti tecnici ma delineava un vasto programma di indagine «nei due domini della conoscenza probabile e dimostrativa». Era nata l'algebra booleana, che dal secolo scorso ha trovato e trova le più diverse applicazioni, dalla costruzione dei computer, ai circuiti elettronici, ai sistemi di controllo e comunicazione. La vita di Boole giunse prematuramente a termine nel 1864. Un giorno, andando al College camminò per un paio di miglia sotto una pioggia battente e fece lezione bagnato fradicio. Tornò a casa febbricitante, ma per giunta la moglie – una nipote di George Everest, lo scalatore che ha dato il nome alla montagna omonima – convinta che il rimedio di una malattia dovesse assomigliare alla causa, lo mise a letto e lo prese a secchiate d'acqua gelida. La febbre si tramutò in una polmonite che portò Boole alla tomba a soli 49 anni, essendo nato nel 1815. E il Queen's College, ora University College Cork, si appresta nel 2015 a festeggiare i 200 anni dalla nascita di questo genio, che con la sua opera pionieristica ha inaugurato una nuova era nella storia della logica e della matematica.

Il Sole 28.12.14
La lasciva figlia dell'imperatore
di Carlo Carena


Cesare Augusto seppe costruire e reggere un impero comprendente quasi tutto l'orbe conosciuto, e non seppe governare la sua famiglia. Càpita. D'altronde se la creò e se la trovò tanto complicata che occorre una mappa per districarsi. Dunque, nipote di Giulio Cesare, egli sposò in prime nozze Clodia e in seconde Scribonia, già consorte di Cornelio Scipione, e in terze nozze Livia, già consorte di Druso Nerone, dal quale aveva un figlio, Tiberio, mentre Augusto aveva avuto da Scribonia una figlia, Giulia. Giulia sposò in prime nozze il giovane cugino Marcello e in seconde Agrippa, a sua volta già sposo di Pomponia la cui figlia Vipsania sposò Tiberio, che in seconde nozze sposò poi Giulia. Per completare il quadro dovremmo aggiungere una decina di altri nipoti e cugini discendenti per tutti questi e altri rami.
Nella tribù spiccano soprattutto due personaggi, due donne che l'animarono con le loro ambizioni e scontri ed ebbero un posto cospicuo nella storia e nel romanzo dell'impero romano: Livia e Giulia. La prima, scostante e frenetica per assicurare la successione al trono di Tiberio; la seconda altrettanto frenetica di avventure amorose, per le quali e come tale capace di fare increspare il ciglio a Tacito e di deliziare il pettegolezzo di Svetonio.
Augusto, conservatore, si era studiato bensì di allevarla come un'antica matrona che fila la lana; ma le sue avventure furono tali e tante che essa un bel giorno consacrò a Marte altrettante corone di quante volte si era abbandonata a diversi amanti nella notte precedente. Ciò che aggiungono Velleio Patercolo e Seneca rasenta l'irriferibile.
Ma si può anche rivedere o almeno sfumare questo ritratto acre e reinterpretare il personaggio con una prospettiva meno torbida e una sensibilità progredita, con passione e complici silenzi. Se ne scorgono molti elementi, ed è ciò che ha cercato di fare Giulia Sulpizi (nomen omen?) in Sotto il segno di Venere. Giulia: la figlia di Ottaviano Cesare Augusto.
La giovane Autrice si districa e naviga sicura nel mare tempestoso dello stato di famiglia del primo imperatore di cui abbiano fornito solo un sunto parziale; delineando ampi o minuscoli ritratti e accompagnando la protagonista, che narra in prima persona, attraverso un tumulto di guai e lo smarrimento della solitudine; facendo emergere da quel covo di vipere una personalità ribelle e fiera, determinata, curiosa del mondo e desiderosa di scavarvi la sua parte di donna libera, triste nella sua solitudine e capace di tenere testa anche ai più grandi di lei, tormentata da un irrefrenabile bisogno di amare ancor più che di essere amata. Fedele quasi sino alla fine soltanto al padre, verso cui a dispetto di tutto conserva un affetto indomito, analizzato ripetutamente, in ogni circostanza saliente, e interpretato in modo ogni volta interessante e convincente dall'Autrice: dal momento in cui Giulia lo scorge per la prima volta, al tempo del divorzio da sua madre: «un giovane uomo biondo, con occhi azzurri e intensi, uno sguardo di ghiaccio, talmente freddo e implacabile che non riuscii a capire come molti potessero guardarlo negli occhi»; e poi nella maturità, quando Augusto sta invecchiando e in una suprema contraddizione persino lei, sua figlia, congiura per abbatterlo, ormai con i capelli grigiastri ma i suoi occhi ancora azzurri, "un insieme di debolezza e di forza, di serenità e tormento, di opposti".
Dapprima sono rappresentate l'infanzia e l'adolescenza irrequiete; poi i tre matrimoni a lei imposti dalla ragione politica, ma accettati e a loro modo felici i primi due, concluso il primo con l'improvvisa e precoce morte di Marcello, nipote e speranza stroncata di Augusto, celebrato da Virgilio nel sesto canto (tu Marcellus eris…) e da Ingres in una scena evocata anche dalla Sulpizi in una pagina sobria ma efficace. E tutto sommato felice anche il secondo matrimonio, con l'attempato generale Agricola, benedetto da numerosa prole. Spaventoso invece il terzo e breve con Tiberio, che Giulia aveva disprezzato e tradì come indegno, e che la ricambiò inasprendo le sue condizioni al confino sull'isola di Pandeteria nel mare Campano, dove era stata relegata e segregata dal padre stesso e dove ben presto muore, anche lei nel 14 d.C. poco più che cinquantenne, sfinita.
Può riuscire pleonastico il paragrafo su questo episodio nell'Io, Claudio di Robert Graves, ma serve a far risaltare per contrasto la netta prospettiva della scrittrice: «Tiberio aveva smesso di dormire con lei per tre ragioni: la prima era che Giulia, ormai non più giovane, stava ingrassando, e a Tiberio piacevano le donne sottili. La seconda era che Giulia si mostrava molto esigente, diventava isterica quand'egli si schermiva. La terza era che aveva scoperto che si vendicava della sue ripulse chiedendo ad altri ciò che egli le negava».
Romanzo invece, quello della Sulpizi, appassionato e ammirato, folto e ricco d'immaginazione, se non perfetto per infiltrazioni anacronistiche del discorrere odierno con i suoi stereotipi.

Giulia Sulpizi, Sotto il segno di Venere, Diabasis, Parma, pagg. 540, € 19,00

Il Sole Domenica 28.12.14
Inni orfici
Preghiere pagane senza sacrifici
di Armando Torno


Negli ultimi decenni diversi documenti degli antichi Orfici – movimento religioso che influenzò la filosofia greca sin dalle origini – sono venuti alla luce. Innanzitutto, nel 1962, si scoprì il Papiro di Derveni (città della Grecia, presso Salonicco): prezioso testo in dialetto ionico, con elementi in attico, contenente una cosmogonia che principia da Zeus. Si rivolge ai soli "iniziati". Sono poi state ritrovate nel 1978 le Tavolette in Osso di Olbia (sita sul Mar Nero), né sono mancate diverse acquisizioni di laminette su cui furono scritte istruzioni religiose utili al defunto per il transito nel l'Ade. Inoltre, nel 2004, lo spagnolo Aberto Bernabé ha dato una nuova edizione dei frammenti e delle testimonianze degli Orfici (Poetae epici Graeci, parte II, fascicolo I, Bibliotheca Teubneriana) che sostituisce quella di Otto Kern, risalente al 1922. Il cantore Orfeo, il mitico fondatore, suscitò dibattiti sin da Platone, filosofo che fece suo il dualismo corpo-anima di questa scuola; Aristotele, invece, nell'opera Sulla filosofia espresse dubbi sulla reale esistenza storica del personaggio.
Tra i documenti tardi dell'orfismo ci sono giunti 87 inni, preceduti da un proemio a Museo. Si tratta, per usare una definizione che prendiamo dall'edizione della Fondazione Lorenzo Valla dell'opera, curata da Gabriella Ricciardelli nel 2000, della più singolare raccolta di preghiere pagane. La loro datazione non trova concordi i filologi, ma è possibile situarla alla fine del II o all'inizio del III secolo della nostra era, in Asia Minore, forse a Pergamo. Nascerebbe in seno a un gruppo di devoti a Dioniso: i fedeli credono che Orfeo abbia fondato i misteri del dio e preparano un libro a testimonianza. Ogni inno è dedicato a una divinità e le preghiere evocano profumi: il tutto senza sacrifici cruenti, ché il culto dionisiaco-orfico ha orrore del sangue versato. Gli dei moltiplicano i loro nomi, o meglio si assimilano ad altri: Dioniso può essere Eracle e Zeus, a sua volta Eracle è anche il Sole, Artemide diviene Ecate (dea alla quale era consacrata la Sibilla Cumana). Il processo di passaggio da un dio all'altro non esclude ricorsi alla filosofia, che in tal caso è sovente quella della tradizione stoica, altre volte si ricorre al neoplatonismo.
Gli Inni Orfici saranno apprezzati e studiati nel Rinascimento; anzi Marsilio Ficino e non pochi suoi contemporanei credevano fossero opera dello stesso Orfeo. Giovanni Pico della Mirandola in una delle Conclusiones Orphicae scrive: «Nell'ambito della magia spirituale non c'è niente di più efficace degli Inni di Orfeo, se si eseguono con il consenso di una musica adatta, di un'opportuna disposizione dell'animo e delle altre circostanze ben note al saggio». Anche se queste preghiere pagane sono diventate per noi un documento tardo, e non hanno per esempio la medesima valenza dei frammenti tramandatici da Onomacrito di Atene (fine VI secolo a.C.), contemporaneo di Pisistrato, restano utili per chi crede nei valori della tradizione. Non furono scritte da Orfeo ma ne testimoniano il messaggio religioso.
Ora Marie-Christine Fayant (Università di Valenciennes), nella collana dei classici greci delle Belles Lettres, offre una nuova edizione con tutti gli aggiornamenti possibili degli inni in questione: Hymnes Orphiques, con testo critico greco, traduzione francese e un formidabile apparato di note. Ogni singola composizione è introdotta e dettagliatamente annotata. Chiude il lavoro un vasto saggio sulla teologia presente nei brevi componimenti scritti in esametri, rilevando i punti comuni della cosmogonia degli Inni e delle teogonie orfiche. La studiosa nota tra l'altro: «Sembra probabile che la raccolta sia l'opera di un solo autore» (introduzione, p. XXX). E ancora, richiamandosi alla Ricciarelli, la Fayant sostiene che tali Inni siano stati composti e riuniti per accompagnare i riti religiosi di un'associazione privata (in essi non vi sono allusioni a un culto ufficiale).
Orfici troppo poco per taluni, decisamente poco poetici per altri, questi incantesimi rivelano – al pari degli Inni omerici, di quelli di Callimaco o di Proclo – l'infinito sussurro mistico di un mondo abitato dagli dei. Litanie ferventi – le chiama la Fayant – seppur dotate di un certo formalismo, riflettono una dimensione divina che si apprestava a cedere spazio a un'altra rivelazione. Tra le liberalità religiose e le filosofie del mondo imperiale romano.

Hymnes Orphiques, testo stabilito e tradotto da Marie-Christine Fayant, Les Belles pagg. CII+888, € 118,00

Il Sole Domenica 28.12.14
gli oracoli
Psello e la teologia caldaica
di Dorella Cianci

«Il corteo degli astri non è stato posto per te». Era una Bisanzio in pieno risveglio culturale, al centro di un crocevia politico e commerciale e in quel contesto felice e bizzarro è vissuto Michele Psello, uno di quegli intellettuali che più ha appassionato il mondo antico, anzi «l'uomo più versatile della sua generazione» come avrebbero detto Reynolds e Wilson. Di lui sappiamo che probabilmente il suo vero nome laicale era Costantino, che venne poi mutato per quell'esperienza monastica vissuta controvoglia in un momento di sconforto ed emarginazione dai fasti della corte. Psello nacque nei sobborghi di Bisanzio, vivendo spesso un lacerato contrasto fra la sua vita religiosa e la sua ansia verso un sapere razionale (Si veda il libro stupendo di Del Corno con la trad. di Silvia Ronchey del 1984). In quella Bisanzio poliedrica Michele Psello seppe distinguersi per il suo amore verso ogni tipo di sapere: riteneva che la fisica e la matematica fossero la vera scala per salire alla trascendenza della filosofia. Fu autore di parafrasi come quella all'Iliade, ma scrisse anche commenti alla logica e alla fisica di Aristotele, senza tuttavia tralasciare le opere platoniche (anzi egli si era avvicinato al neoplatonismo). Il suo sistema filosofico è complesso, ma anche anticipatore, come ha ricordato Pizzari, di quei circoli culturali fiorentini iniziati alle dottrine platoniche, pronte ad attivare una significativa inversione di tendenza dell'aristotelismo. Ma la Bisanzio del tempo era un luogo di doppiezza e infatti vanno messi in luce due aspetti dell'autore: quello mondano, capace anche di intrighi di palazzo, di doppiogiochismo, di assenza di scrupoli morali e un suo lato più profondo di un uomo innamorato della ricerca, teologo e filosofo. La sua idea più interessante fu quella di voler fondere i sistemi filosofici senza escludere da questi il cristianesimo, sperando di poter trovare un punto di incontro nelle dottrine neoplatoniche. Si dedicò anche alla stesura degli Oracoli Caldaici, un'opera perduta dell'antichità, e rivelatrice di concezioni sapienziali appartenenti alla tradizione misterica greco-romana probabilmente della fine del II secolo d.C. ma ricostruibile attraverso i commentatori di Psello: ad esempio in epoca comnena, il dotto Michele Italo riassunse la teologia caldaica riprendendo proprio quanto lasciato da Psello. Un bell'oracolo dice: «e non lasciare al baratro il residuo della materia» intendendo per "residuo" materiale il corpo che andrebbe ricongiunto alla cosiddetta anima per impedire che esso rimanga intrappolato nello scompiglio della materia. Il posto quaggiù, preda di stravolgimenti del cuore, è chiamato baratro e per elevarsi dalla trappola l'oracolo sostiene di non porre eccessiva attenzione ai fatti terreni e di lasciar perdere "il ronzio della luna", non per invitare l'uomo a lasciar da parte il sapere scientifico, ma come si dice nel commento: «per non darti pensiero del perfetto ciclo della luna; questa infatti procede non per tuo volere, ma spinta da una volontà (o meccanismo) più alto».

Michele Psello, «Oracoli caldaici». Con appendici su Proclo e Michele Italo, a cura di S. Lanzi, Mimesis, Milano, pagg. 148, € 5,90

Il Sole Domenica 28.12.14
Pensare la politica
Perché i partiti sono necessari
di Nadia Urbinati


La democrazia non può fare a meno dei partiti e, probabilmente, per questa ragione ha goduto di pessima fama, nel mondo antico come in quello moderno. Se infatti il bene comune ha un senso, come può non essere unanime e non stare prima della politica praticata? Su questa domanda i teorici settecenteschi della sovranità popolare (Rousseau in particolare) hanno combattuto lo spirito di parte, ovvero l'interesse generale come esito di una transazione di interessi e peferenze. La partigianeria sta, come si intuisce, in stretta relazione con la conta dei voti, un altro riconoscimento esplicito che non c'è consenso tra gli attori politici. Delle due l'una: o si rende la dimensione pubblica silenziosa e allora il voto può sperare di convergere verso l'interesse generale, oppure la democrazia è una procedura che presume e accetta il dissenso interpretativo e quindi lascia la riflessione sul bene generale alla trattativa e all'interpretazione partigiana. Regola di maggioranza e partiti sono inscindibili e hanno bisogno di un'arena pubblica aperta e libera. Prevedibilmente, la critica alla democrazia è critica di entrambi. L'antipartitismo è figlio di visione consensuali, idealmente unanimi, dell'interesse generale o perchè dedotte da un principio supremo di bene (la volontà generale, la terra, la razza, la divinità, ecc.) rispetto al quale la democrazia è solo mezzo, o perchè ispirate a un principio di razionalità semplice e univoca.
In questo eccellente libro, Russell Muirhead traduce queste riflessioni in un'analisi molto convincente sulla natura e la ragione dei partiti politici nella democrazia (con particolare attenzione a quella americana), e si guadagna il sostegno di Michael Sandel che lo mette tra i classici, insieme ai testi di Beer e di Schattschneider.
Allievo di Nancy Rosenblum, il cui libro del 2010 «On the Side of the Angels» ha fatto da battistrada al riscatto della partigianeria, Muirhead rovescia l'attacco contro i partiti non solo mostrando come essi siano coerenti con la procedura democratica, ma soprattutto rivendicandone la funzione civica ed educativa. Il partito politico non è un meno peggio dovuto alla debolezza umana (la difficoltà a ragionare come se fossimo angeli) ma invece condizione di pensabilità e di azione nello spazio della politica, una condizione non identificabile nè con l'ideale epistemico nè con l'aspirazione al potere nudo e totale. In questa cornice aristoteltica e arendtiana, Muirhead ritaglia lo spazio all'interpretazione partigiana dei principi condivisi. «Spirito di partito», per usare una felice espressione che fu di Lord Bolingbroke, è l'anima della partecipazione politica di liberi cittadini.
Lo spirito antipartito è la corrente corrosiva che circola oggi sotto l'ordine istituzionale delle democrazie (e che Muirhead esamina anche attraverso le varie specie di primarie che hanno cambiato la natura dei partiti americani). Esso può vestire panni insospettabili, come quelli ritagliati sui principi della democrazia deliberativa, l'espressione più accattivante della resistenza contemporanea alla politica partigiana. Secondo i teorici della democrazia deliberativa infatti lo scambio pubblico di ragioni pro e contro, se fatto con spirito sincero e non retorico, non può che cordurci ad abbandonare le identità partigiane. Muirhead ci mostra invece come più le lealtà partigiane si indeboliscono più scema l'interesse per le questioni pubbliche, e più i gestori del potere si fanno faziosi dei loro interessi o di quelli del ristretto gruppo di interessati al quale sono legati. Lo spirito di partito nobilita la partecipazione larga assegnandole una sorta di imparzialità poichè chi si spende per una parte è disposto a farlo anche a costo di sacrificare interessi personali e privati. Se l'imparzialità comandata dalla legge può governare i comportamenti dei magistrati e dei funzionari pubblici dunque, è quella fondata su valori e idee di parte che può governare i cittadini e i loro rappresentanti. Partendo di qui le regole e la costituzioni sono onorate e interpretate. L'antipartitismo è pertanto una pessima ideologia per la democrazia che espelle dalla politica i cittadini ordinari e lascia in campo solo quelli che nella politica ci stanno per ragioni meno nobili di quelle di partito. Li espelle insieme all'interpretazione non desiderata e al dissenso, che sono segni di interesse perchè noi in genere ci impegnamo a discutere e a dissentire per le cose a cui teniamo. L'indifferenza può stare senza partito, non l'attenzione del cittadino per le questioni pubbliche. Delega ai competenti e plebiscito di leader che a tutto provvedono sono i maggiori segni di declino dello sprito di parte che attraversa le società contemporanee e per correggere il quale Muirhead sostiene l'importanza della riabilitazione dello spirito di partito, una reintepretazione della politica come strutturalmente basata sul conflitto e che non considera l'antagonismo e il dissenso come segni sconfortanti di una crisi di stabilità e di governabilità del corpo politico.

Russell Muirhead, The Promise of Party in a Polarized Age, Cambridge, Mass.: Harvard University Press, pagg. 316, s.i.p.

il Fatto 28.12.14
La “banda dei quattro” e il massacro dei maledetti Natali
di Andrea Scanzi


La Rete ha permesso che molti talenti autentici emergessero. È accaduto nella musica, ma più ancora nella satira e nel cinema. Capita spesso di imbattersi su Youtube in scampoli di genio puro, travestito da mero cazzeggio. I nomi di culto sono Maccio Capa-tonda, Terzo Segreto di Satira, The Jackal e The Pills. Quattro modi diversi, anche se talora affini, di declinare la satira. C’è chi vira sul demenziale, chi sul grottesco e chi sul tragicomico. Tutti sono in grado di fornire uno sguardo “altro” prezioso, che tv e cinema spesso non sono più in grado di proporre. Non è un caso che sia proprio il piccolo schermo a cercare questi talenti: Maccio Capatonda è stato in qualche modo lanciato dalla Gialappa’s Band e Antonello Piroso lo volle per il progetto pomeridiano su La7 di Ma anche no, da cui nacque il trailer Italiano medio (che ha generato a sua volta il film omonimo in uscita il 29 gennaio, esordio sul grande schermo di Capatonda). E Corrado Formi-gli ha puntato sul Terzo Segreto di Satira per Piazzapulita.
TUTTI QUESTI ARTISTI si sono confrontati con il Natale. Il primo è stato Capatonda con Natale al cesso, che in novanta secondi demolisce tutti gli stereotipi dei cinepanettoni. Anche The Pills, già tre anni fa, affrontava le feste natalizie. Nulla di particolarmente elaborato: uno dei protagonisti sfruttava il Natale per sniffare in santa pace, solo che arrivava un amico non previsto e a quel punto la cocaina veniva usata come zucchero a velo sopra il pandoro. Nella seconda puntata lo stesso protagonista, stordito di MDMA (ecstasy), straparla con un amico di una tombola indimenticabile.
Si sale di livello con The Jackal, divenuti celebri per la satira della serie Gomorra (tutt’altro che la loro creazione migliore). Gli autori di Boris gli hanno chiesto di creare un trailer virale di Ogni maledetto Natale. Lo hanno fatto e le visualizzazioni su Youtube hanno superato quota 800 mila. In poco meno di cinque minuti, il collettivo declina il tema del Natale come se fosse un film diretto da vari registi: c’è la versione spaghetti western di Sergio Leone, quella criptico-onirica di Sorrentino, la variante neorealista di Vittorio De Sica, l’irresistibile chiave urlata-postromantica di Muccino, il plot trucido alla Sollima e il cinepanettone alla Vanzina (debitore della satira di Capatonda).
Un gioiello, così come la versione del Terzo Segreto di Satira. I più “politici” dei quattro. Nei loro lavori avevano già sbertucciato Pd e 5Stelle, D’Alema e Cuperlo, Pisapia e suffragio universale. Con “Natale col Pd 2014 (La rivincita) ” innalzano ulteriormente il livello. C’è più analisi sociale-politica nei loro 8 minuti che negli editoriali di tanti tromboni. Un quartetto depresso e si presume bersaniano, o forse civatiano, fissa con malinconia la sede chiusa del Pd: non è più tempo dei vecchi Natale politicizzati, il renzismo ha trasformato tutto in un eterno happyhour. Così, poco convinti, dopo “aver slegato le bici” e “vestiti come se dovessero andare al G8”, si presentano nella discoteca dove i renziani hanno organizzato la festa. Tante donne, neanche troppo carine ma comunque spacciate per “fighe”, vodka offerta dallo sponsor e Jovanotti come “massimo di cantautore italiano impegnato”. I quattro provano a esprimere il loro dissenso, ma non contano nulla e nessuno li ascolta perché “gufi”. Il più agguerrito si ribella e impone alla festa i vecchi stilemi: il ricordo dei partigiani, la lettura del Capitale di Marx, la musica di Guccini (o meglio ancora “Contessa” trasmessa dal walkman), Moni Ovadia che dà i compiti per le vacanze e Lambrusco al banco. La loro ribellione è però solo un sogno e il rivoluzionario ipotetico – fotografia implacabile di Civati – accetta tutto e si limita a guardare i “compagni” sghignazzare alle battute idiote dei Soliti Idioti. Si ride, e tanto. Ma è quasi sempre una satira più vera del vero, e dunque assai dolente.