lunedì 29 dicembre 2014

il  Fatto 29.12.14
Licenziare è possibile
Jobs Act, Renzi mette nel mirino anche gli statali
di Salvatore Cannavò


Sul Jobs Act il governo di Matteo Renzi ha deciso di sfoderare la formula del tridente. Il premier al centro, i ministri Marianna Madia e Giuliano Poletti a sinistra, l’Ncd a destra. È questa la fotografia che emerge dalle polemiche sull’estendibilità delle nuove norme agli Statali ormai nel mirino del governo. Se, infatti, in due distinte interviste Poletti e Madia, ieri mattina, escludevano che il nuovo contratto a tutele crescente, con il corollario dell’abolizione dell’articolo 18, potesse essere esteso ai dipendenti pubblici, il presidente del Consiglio nella sua intervista a Qn è stato molto più sfuggente: “Sarà il Parlamento a pronunciarsi su questo punto, sollevato da Ichino” ha risposto Renzi al direttore del quotidiano. “Esiste giurisprudenza nell’uno e nell’altro senso. Ma non sarà il governo a decidere. A febbraio, quando il provvedimento sul pubblico impiego firmato da Marianna Madia verrà discusso in Parlamento, saranno le Camere a scegliere. Non mancherà il dibattito, certo”.
RENZI ASSOMIGLIA sempre di più al gatto che si diverte a giocare con il topo e quel rinvio al dibattito parlamentare assomiglia all’apertura di un nuovo fronte di guerra con il sindacato. E assomiglia, anche, a una nuova sconfessione dei due ministri più esposti al contatto, e all’interlocuzione, con i sindacati. Questa divaricazione tra le parole del premier e quelle del suo responsabile lavoro vengono impietosamente sottolineate dal senatore Pietro Ichino (già Pd, oggi Scelta Civica, giuslavorista tra i più noti) il quale ha pubblicato sul proprio blog una ricostruzione “segreta” del dibattito avvenuto a lato e dentro al Consiglio dei ministri che ha varato i decreti legislativi sul Jobs Act. Secondo Ichino, infatti, “fino alla mezzanotte fra il 23 e il 24 dicembre” nel testo era presenta un comma che “ sostanzialmente escludeva l’impiego pubblico dall’applicazione della disciplina contenuta nel nuovo decreto”. Quella esclusione è stata poi “espunta in extremis” generando quella dubbia interpretazione di cui si discute ora. Il Pubblico impiego, infatti, è governato dal Testo unico del 2001 il quale stabilisce che gli Statali vanno equiparati ai dipendenti del settore privato, norme sull’articolo 18 comprese, anche se poi disciplina separatamente le norme sul licenziamento. Se Renzi avesse voluto sgombrare il campo da ogni equivoco, sarebbe bastato ricordare questa realtà oppure, come ha fatto il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, dichiarare che la “volontà politica dell’esecutivo non è quella di estendere il Jobs Act agli Statali”. Ma non l’ha fatto. Per la semplice ragione che il dossier resta aperto. E, come fa notare la Cgil, rimane sul tavolo in vista di ulteriori trattative con gli alleati di governo. Pietro Ichino, ad esempio, ricorda ancora che nel testo approvato dal Consiglio dei ministri, è scomparsa all’ultimo istante una modifica dei contratti a termine, con la riduzione da 36 a 24 mesi della durata massima dei contratti precari. Così come è scomparsa l’abolizione di contratti come l’Associazione in partecipazione o il lavoro intermittente, richieste esplicite della Cisl che Poletti aveva inserito nel testo e che, con ogni probabilità, ha dovuto sacrificare ai desiderata del Ncd di Alfano e Sacconi. Dallo stesso testo, infatti, è scomparso il riferimento allo “scarso rendimento” richiesto a gran voce da Maurizio Sacconi.
La trattativa, quindi non è ancora conclusa. Il governo dovrà varare ancora altri decreti applicativi, in particolare il “Codice semplificato” delle norme sul lavoro, l’oggetto più ambizioso di questa attività riformatrice. Che ad oggi, come notava ieri il giuslavorista Michele Tiraboschi, non è certamente traducibile in inglese come Renzi aveva promesso circa un anno fa.
Chi non fa alcuno sconto al governo è Beppe Grillo che rilancia la difesa dei diritti del lavoro. Sul suo blog, infatti, le nuove norme sono definite “le fregature crescenti”: “Tra qualche giorno iniziano i saldi, e il governo quest’anno propone la svendita del diritto al lavoro” scrive il leader del M5S. “Nessuna tutela reale, ma solo un ristoro economico, vero ricatto morale che fa leva sulla fragilità di chi oggi non si può permettere di perdere il lavoro, di chi è costretto ad adeguarsi, per sopravvivere, al detto ‘pochi, maledetti e subito’”.

La Stampa 29.12.14
Jobs Act
Si riapre la questione degli statali
Il Jobs Act Rischia di essere impugnato?
I decreti sono appena stati approvatima già si sollevano dubbi di incostituzionalità Esperti, partiti e sindacati si interrogano sui rischi di violare il principio di uguaglianza
di Alessandro Barbera


A chi va applicata la riforma dell’articolo 18? Solo ai dipendenti privati o anche ai pubblici? E che ne sarà di chi lavora in aziende formalmente private ma a totale controllo pubblico? In queste ore le domande degli addetti ai lavori sono molte. La decisione del governo di escludere i tre milioni e mezzo di dipendenti statali e degli enti locali ha creato malumori e sollevato più di un dubbio: applicando la riforma ai soli dipendenti delle aziende private non c’è il rischio di creare una disparità di trattamento? E non c’è il rischio che qualche lavoratore, o sindacato, sollevi la questione fino alla Corte costituzionale? Abbiamo girato il quesito a tre giuristi con competenze diverse. Su un punto si sono trovati tutti d’accordo: pur essendoci una legge che nel 2001 ha formalmente privatizzato il rapporto di lavoro, la riforma non può essere applicata automaticamente al settore pubblico senza che la norma ne faccia esplicito riferimento. Ma il rischio di affermare una disparità di trattamento fra pubblici e privati è in ogni caso alta, dicono Tesauro e Ceccanti. Carinci è invece convinto che la riforma crei una disparità fra vecchi e nuovi assunti.

La Stampa 29.12.14
Renzi riapre il fronte
“Riforma per gli statali? Decida il Parlamento”
E sulla partita del Quirinale proverà a incontrare anche Grillo
di Carlo Bertini


Mentre infuriano le polemiche sul perimetro del Jobs Act limitato ai privati, Matteo Renzi apre sulla possibilità di estendere la riforma del lavoro anche agli statali. Il premier non entra nel merito, dice che deciderà il Parlamento nell’ambito della delega sulla pubblica amministrazione, ma fa capire che nuove regole del lavoro potranno riguardare anche i lavoratori pubblici. Lo dice in un’intervista a QN, in cui affronta vari temi alla vigilia della conferenza stampa di fine anno che terrà oggi a Palazzo Chigi. «Sarà il Parlamento a pronunciarsi» sulla licenziabilità o no degli statali. «Esiste giurisprudenza nell’uno e nell’altro senso. Ma non sarà il governo a decidere. A febbraio, quando il provvedimento sul pubblico impiego firmato da Marianna Madia verrà discusso in Parlamento, saranno le Camere a scegliere. Non mancherà il dibattito, certo».
Ma il dibattito già impazza. Chi segue da vicino la delega sul pubblico impiego all’esame della commissione Affari Costituzionali in Senato spiega che sarà in quella sede che si dovrà intervenire con una nuova disciplina per gli statali. Il segnale è che per il governo nulla osta, dunque nessuna pregiudiziale in tal senso. «La posizione del governo è di apertura», conferma Filippo Taddei, consigliere economico del premier. «Tenendo presenti la specificità e il livello di complessità aggiuntiva della pubblica amministrazione, la materia va presa in considerazione e non rinunciamo a farlo».
Il premier chiarirà meglio oggi a Palazzo Chigi: quando farà il punto su quanto fatto nel 2014 - lavoro, riforme, semestre europeo, crisi industriali affrontate. E sull’agenda 2015, puntando sulla responsabilità rispetto agli impegni presi, con un occhio particolare alla crescita e alla flessibilità richiesta all’Europa. Un anno che si aprirà con la partita più dura, quella del Quirinale, che andrà in scena in concomitanza con l’ingorgo parlamentare per le riforme cruciali, quella elettorale e quella costituzionale. Che Renzi conta di portare a casa entro la fine del prossimo mese, ben sapendo che non sarà facile sbloccare le resistenze di chi teme le urne anticipate. Specie dopo aver chiarito di voler concedere il voto sulla clausola di salvaguardia che lega l’entrata in vigore dell’Italicum a settembre 2016 solo dopo che saranno votati tutti gli articoli della legge e non prima. E se molti temono che una volta formalizzate le dimissioni di Napolitano la scena politica sarà di fatto paralizzata, il premier invece è fiducioso di sbloccare almeno al Senato la nuova legge elettorale prima di dare la parola ai grandi elettori. Per una partita che Renzi conta di giocare allargando il più possibile la platea degli interlocutori. Tanto che batterà tutte le strade per un’intesa il più ampia possibile, provando ad incontrare quando sarà il momento pure i leader della Lega e dei Cinque Stelle, cioè Salvini e Grillo, sempre che le condizioni lo consentiranno.
«Noi cerchiamo il dialogo con tutti coloro che sono disponibili a farlo», spiega Lorenzo Guerini, braccio destro di Renzi per le questioni istituzionali. «Quindi pure con Salvini e Grillo, cercando il più ampio consenso possibile, certo se c’è condivisione di un metodo che prevede il riconoscimento reciproco e un’assunzione di responsabilità comune. Vediamo le dichiarazioni dei prossimi giorni dei Cinque Stelle, poi andremo a vedere le carte, per ora siamo in una fase di studio». Con una postilla significativa che mostra come questo snodo sarà il banco di prova per la durata della legislatura. Perché pur dicendosi fiducioso che la prova sarà superata con onore, Guerini ammette che «un Parlamento che rimettesse in scena il dramma dello scorso aprile 2013 sarebbe delegittimato agli occhi di italiani».

Corriere 29.12.14
Scontro sul Jobs act, spiazzati Poletti e Madia
Estensione delle norme alla Pubblica amministrazione, Palazzo Chigi si rimette all’Aula
L’attacco di Fassina
di Francesco Di Frischia


ROMA Le parole di Matteo Renzi intervistato dal Quotidiano nazionale arrivano come una doccia fredda per buona parte del governo e una bella fetta del Partito democratico. Se in tanti, a partire dal ministro Marianna Madia, si sono affrettati a dire che «no, il Jobs act non si applica agli statali», è proprio il premier a rimettere tutto in discussione: «Sarà il Parlamento a pronunciarsi su questo punto, sollevato da Ichino. Esiste giurisprudenza nell’uno e nell’altro senso, ma non sarà il governo a decidere».
Il premier dà appuntamento a febbraio, quando la riforma del pubblico impiego, firmata da Marianna Madia, verrà discussa in Parlamento: «Saranno le Camere a scegliere, non mancherà il dibattito, certo». Parole che suonano quasi come una retromarcia rispetto a quanto sostenuto pure da Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, che come la Madia aveva chiuso la discussione prima ancora di avviarla formalmente. Ieri Poletti ha commentato: «Dirò la mia opinione quando il Parlamento affronterà la riforma della Pubblica amministrazione. E comunque non penso sia corretto anticiparla».
Resta il fatto che il premier, dopo essersi assunto la responsabilità per il testo dei decreti attuativi usciti dal Consiglio dei ministri il 24 dicembre, innesca un terremoto nel suo partito, tornando a sfidare la minoranza pd. Stefano Fassina, che guida il fronte degli oppositori al Jobs act , attacca direttamente il segretario del suo partito: «Fino a oggi nessuno aveva parlato di licenziamenti per motivi economici nella Pubblica amministrazione: ora Renzi usa la sponda di Ncd per portare avanti la sua linea. Questa è una scappatoia demagogica. Renzi scarica sulla pelle degli statali la carenza di investimenti e la mancata riorganizzazione del pubblico impiego. Così, però, si scatena una guerra tra poveri». Sulla stessa linea Cesare Damiano (Pd), che però preferisce ignorare Renzi e attaccare l’alleato di governo: «Questo è solo un polverone sollevato da Ncd in cerca di rivincite. Del resto il governo è stato chiaro: la norma non riguarda la P.a.». La partita, invece, resta aperta su un altro fronte: «Fin dall’inizio l’esecutivo ha sempre e solo parlato di articolo 18 e di licenziamento individuale, non collettivo — fa notare Damiano —. Chiederemo quindi di modificare questi articoli. Poi valuteremo nei decreti eventuali casi di “eccesso di delega”». E Ichino (Sc) insiste e dal suo blog sottolinea: «È semplicemente assurda l’esclusione dei nuovi assunti nella P.a. dalla nuova disciplina. Quando il governo ha deciso di non escludere dal campo di applicazione i nuovi assunti nel pubblico impiego erano presenti anche Poletti e Madia». Poi ripete: «Il 23 dicembre il testo del documento conteneva il terzo comma dell’articolo 1 che escludeva l’applicazione per il pubblico impiego. Il 24 il Consiglio dei ministri ha approvato un testo del decreto nel quale quel comma non c’era più». Inoltre il 27 dicembre gli stessi ministri «dichiarano che i nuovi rapporti nel settore pubblico devono essere esclusi dal Jobs act — precisa Ichino —. Evidentemente Poletti e Madia hanno cambiato idea, ma dovranno convincerne il resto del governo e della maggioranza». Immediata l’alleanza con Maurizio Sacconi: «In Parlamento Ncd presentò e poi ritirò un emendamento per la omologazione del lavoro, pubblico e privato, perché il governo si impegnò ad attuare la norma sull’unificazione. Ora ci spieghi perché ha fatto marcia indietro».

Corriere 29.12.14
Nuove regole anche per gli statali
Così Renzi ha tenuto la porta aperta
Il premier ha voluto far saltare un comma che escludeva l’opzione
di Marco Galluzzo


ROMA «Renzi è sempre stato favorevole all’estensione del Jobs act al pubblico impiego e ci mancherebbe altro, questo governo è nato per cambiare le cose non per conservarle così come sono, soprattutto se rappresentano, in modo oggettivo e agli occhi della pubblica opinione, un ingiustificato privilegio».
Nello staff del presidente del Consiglio, fra i suoi consulenti più stretti, la questione è messa in questi termini: Renzi deve decidere solo quando spingere sull’acceleratore e affrontare un’altra battaglia con il suo partito, o con quel pezzo del Pd che si oppone, insieme ad una rete ministeriale e burocratica, all’estensione delle nuove norme sul lavoro alla Pubblica amministrazione.
Con la dichiarazione di ieri, rilasciata in un’intervista a Qn , sembra che il capo del governo abbia in sostanza lanciato un messaggio. Se a decidere sarà il Parlamento, come dice ora Renzi, certamente dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato, e in sede di discussione dei provvedimenti sulla Pubblica amministrazione, è abbastanza verosimile pronosticare una maggioranza, non per forza di cose uguale a quella attuale: Ncd e Scelta civica, le due prime costole dell’alleanza, sono favorevoli all’estensione, ma anche Forza Italia, e probabilmente anche la Lega, se le Camere dovessero votare, sarebbero della partita. A quel punto il Pd vivrebbe l’ennesima crisi interna, che potrebbe essere superata solo con un’adesione maggioritaria alla parificazione fra pubblico e privato.
Del resto proprio in sede di Consiglio dei ministri, la vigilia di Natale, e durante i lavori preparatori dello stesso, fu proprio Renzi a pretendere che fosse eliminato quel comma che in un primo tempo escludeva in modo esplicito l’estensione dei decreti delegati sul lavoro al settore pubblico. «Nessuna decisione è stata presa senza che Renzi non l’abbia vagliata in prima persona», racconta chi ha partecipato al confezionamento del testo.
Chi ha assistito a una trattativa a tratti concitata, il 24 scorso, raccontava ieri che il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia erano perfettamente d’accordo sul punto e che quest’ultimo ha detto in modo esplicito che l’estensione delle norme del Jobs act al settore pubblico sono «un pezzo fondamentale» proprio della riforma della Pubblica amministrazione che il governo si propone di varare nei primi mesi del 2015.
Una posizione che nella stessa maggioranza di governo viene commentata da Scelta civica, dal capogruppo Andrea Mazziotti, in questo modo: «Renzi dovrà dimostrare anche in questa sede di essere capace di battere le resistenze conservatrici della sinistra del Pd, noi siamo certi che lo farà, almeno il Renzi che conosciamo noi».
Valutazioni che si abbinano a quelle che circolano nel partito di Angelino Alfano, che ha già dovuto incassare parecchie delusioni e che si dichiara indisponibile a lasciar correre anche sul tema del pubblico impiego. «Il governo non può essere un monocolore», ha dichiarato ieri Roberto Formigoni, preannunciando che proprio sul tema del Jobs act e del rapporto con la P.a. il suo partito non è disponibile a incassare altri stop.
Insomma sembra che con le parole di ieri Renzi abbia voluto guadagnare tempo: per i prossimi passaggi su Italicum, riforme costituzionali ed elezione del nuovo capo dello Stato, gli serve un Pd che non sia attraversato da altre scosse. Con un nuovo inquilino del Colle e con la legge elettorale all’ultima boa deciderà se e come condurre l’ennesima battaglia interna al suo partito.

Repubblica 29.12.14
Dai lavoratori pubblici alle piccole imprese tutti i “dualismi” che pesano sul Jobs Act
I sindacati: “Se si vuole l’equiparazione statali-privati, allora sia a 360 gradi” Renzi:“Se ne riparla con la riforma Madia”
di Valentina Conte


ROMA È il Jobs act dei dualismi. Anziché appianare divergenze, allarga i fossati. Invece di colmare le distanze, acuisce le differenze. Insomma il contrario esatto dell’obiettivo di partenza. Basta leggere i primi due decreti attuativi per rendersene conto. Lavoratori post e pre 2015, giovani e anziani, nuovi e vecchi. Settore pubblico e privato. Aspi e Discoll, ammortizzatori per i garantiti e per i precari. Aziende grandi e aziende piccole. E ancora aziende grandi ed ex aziende piccole. Una babele di discrasie.
Gli assunti del 2015 lo sperimenteranno a breve, sia giovani che costretti a cambiare lavoro e quindi contratto. Avranno meno tutele dei colleghi di scrivania, zero articolo 18, indennizzi al posto della reintegra (e anche più bassi degli attuali, specie se il licenziamento avviene nei primi anni). Tutto da dimostrare il teorema renziano: meno cocopro, più contratti a tutele crescenti. Intanto perché i contratti precari (per ora) non sono stati cancellati. E ancora: statali contro dipendenti privati. I primi esclusi dalla riforma, anche se Renzi dice che se ne riparlerà a febbraio, «sarà il Parlamento a pronunciarsi », quando si discuterà la riforma Madia della Pubblica amministrazione. Aspi contro Discoll: la prima è l’assicurazione riservata ai lavoratori dipendenti che restano disoccupati, fino a 24 mesi, il secondo è l’assegno per i precari, fino a 6 mesi. Aziende grandi contro piccole: sotto i 15 dipendenti la rein- tegra non c’è mai stata e ora diminuisce anche l’indennizzo, in ogni caso sempre inferiore a quello delle big (massimo 6 mensilità contro 24). Infine il paradosso dei paradossi: le piccole imprese sotto i 15 che assumono e diventano grandi mantengono il regime delle piccole, dunque niente articolo 18 e mini indennizzo. Dualismi. Spaccature.
«Sa cosa vedo io? Un governo nel caos», commenta Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera. «Il contratto a tutele crescenti su base annua riguarderà circa un milione di lavoratori, ciò significa che occorreranno 15 anni» per avere un mercato del lavoro unico, con gli stessi diritti (pochi) per tutti. Grillo sul blog lo definisce un contratto a «fregature crescenti». «Tra qualche giorno iniziano i saldi e il governo quest’anno propone la svendita del diritto al lavoro », scrive Laura Castelli, deputata M5S, in un post. «Sei stato licenziato senza giusta causa? Non ti preoccupare, ti verrà dato un piccolo indennizzo, e così potremo fare finta di nulla. Un ricatto morale che fa leva sulla fragilità di chi oggi non si può permettere di perdere il lavoro, di chi è costretto ad adeguarsi al detto ‘pochi, maledetti e subito’».
«Si potevano raccogliere le firme di centinaia di parlamentari per evitare che il Jobs act contenesse le norme sui licenziamenti facili e sul demansionamento prima di arrivare alla discussione alle Camere», scrive Pippo Civati, deputato pd, sul suo blog. «E invece si è preferito trattare, poi mediare, poi posizionarsi, poi condividere con preoccupazione, poi preoccuparsi per la condivisione ». Civati non risparmia una stoccata alla «cosiddetta» minoranza pd: «Alterna giudizi che cambiano di ora in ora sul Jobs act. Chi ha votato a favore parla di ‘lesione costituzionale’. Chi ha prodotto la mediazione parla di ‘eccesso di delega’. Pare che sia nata una nuova corrente, quella dei trattativisti». Sul fronte sindacale la Cgil, con Michele Gentile, responsabile Settori pubblici, ricorda che «nella Pubblica amministrazione si può già licenziare per motivi disciplinari e, come dimostra il caso delle Province, per motivi economici o organizzativi si può entrare in mobilità ». Mentre Benedetto Attili, segretario generale della Uil Pa, ribatte a Sacconi che «i dipendenti pubblici hanno da anni contratti e retribuzioni bloccati, il trattamento pensionistico delle donne diverso dal privato». E che «se vogliamo l’equiparazione, rendiamola a 360 gradi».

Corriere 29.12.14
Il sottosegretario Zanetti e la polemica con i ministri: non hanno affrontato le osservazioni di Ichino


ROMA «Mi fa piacere che il presidente del Consiglio non escluda affatto l’applicazione delle nuove norme al settore pubblico. Peccato solo che butti la palla in calcio d’angolo, dicendo che spetta al Parlamento decidere. In ogni caso è un segnale importante». Enrico Zanetti è sottosegretario all’Economia per Scelta civica, il partito che ha sollevato il caso di questi giorni, l’applicabilità del Jobs act agli statali.
Palla in calcio d’angolo, dice Zanetti. Cosa intende, che il governo vorrebbe ma tra un po’ si vota per il Quirinale e allora meglio evitare scelte divisive? «Mi sembra un’analisi pertinente — risponde — e il momento io lo capisco pure. Anche se spesso abbiamo subito il decisionismo del governo, al quale ci siamo sempre adeguati, e ci piacerebbe che in questo caso ci fosse lo stesso atteggiamento». Ma per i ministri Poletti e Madia non se ne parla proprio. «Ed è questo il problema — riprende Zanetti — perché una cosa è dire aspettiamo un attimo, un’altra dire di no, punto. Tanto più che sul piano tecnico nessuno ha contestato le osservazioni del nostro Ichino». Resta il nodo centrale, però: perché queste norme andrebbero estese al pubblico? «Non è solo il derby pubblico-privato, vecchio e un po’ patetico perché i lavoratori vanno trattati allo stesso modo. Il punto è che chi vuole lasciare fuori il settore pubblico è un falso amico degli statali: proprio la loro inamovibilità è tra le cause di un settore bloccato da sette anni, con i precari che non entrano e i salari congelati. E poi così regaliamo un alibi a chi critica il Jobs act». Quale alibi lo spiega lui stesso: «Se diciamo che una parte dei lavoratori va “protetta” da questa riforma vuol dire davvero che queste norme sono pericolose, che comprimono i diritti. E allora ha ragione chi le contrasta. Politicamente non mi sembra una strategia lungimirante, e in più fa crescere le divisioni all’interno del governo».
Quanto a divisioni interne, però, Scelta civica non scherza mica. Zanetti si è candidato alla segreteria ma un pezzo del partito dice che non ci sono le condizioni per il congresso. Come finirà quest’altra puntata della telenovela? «Il congresso si farà, il percorso è stato deciso a maggioranza dall’assemblea del partito. Dire no è legittimo ma è una posizione minoritaria».

La Stampa 29.12.14
Licenziamenti economici e rebus Rai
I nodi che mettono in crisi il governo
di Francesca Schianchi


Ad aprire all’eventualità ci ha pensato il premier Matteo Renzi in persona. Rinviando ogni decisione a febbraio in Parlamento, alla discussione della riforma della Pubblica amministrazione. Lì dove gli emendamenti già sono stati depositati e ce ne sono alcuni che prevedono possibilità di licenziamento degli statali. Un’ipotesi che non è contemplata dal Jobs act (la norma si applica solo ai privati, hanno spiegato i ministri Madia e Poletti), ma su cui c’è una riflessione nel governo.
Che Renzi non sia contrario per principio, lo dimostra la sua intervista «aperturista» di ieri al QN. Ma anche il ministro competente, la responsabile della Pa Marianna Madia, non è mai stata pregiudizialmente contraria a intervenire con nuove regole nel settore: quando era ancora solo una giovane deputata del Pd, presentò come prima firmataria una proposta di «contratto unico di inserimento formativo», Cuif, una sorta di contratto a tutele crescenti espressamente rivolto anche ai lavoratori pubblici.
Anche perché, ragionano al governo, essendo tanti i precari della Pa, introdurre un contratto più flessibile potrebbe essere un modo per offrire loro qualche tutela in più. Il punto su cui però si stanno interrogando è come si potrebbero applicare le stesse regole del Jobs act, data la specificità del rapporto di lavoro pubblico. Nel caso di un ministero o di un comune, per esempio, quando scattano le ragioni «economico-organizzative»? Considerato, tra l’altro, che l’art. 33 del Testo unico per il pubblico impiego prevede già la possibilità della «messa in disponibilità» di un dipendente laddove ci sia bisogno di diminuire il personale, all’80% di stipendio per due anni, in attesa di una ricollocazione altrove o, alla peggio, dell’uscita dall’amministrazione. Ipotesi che però, spiega il senatore Ichino, non si verifica mai.
La domanda che si stanno facendo al ministero è insomma quale sia il perimetro, nel settore pubblico, entro cui si possano eventualmente applicare nuove regole. Un perimetro così difficile da delimitare che ancora ci si interroga se la Rai o altre aziende partecipate saranno già regolate dal Jobs act.
E proprio considerare l’efficacia delle nuove norme nel privato sarà utile per valutare se estenderle al pubblico. Come prevede Renzi, sul tema «non mancherà il dibattito»: solo nel Pd, mentre la giovane deputata lettiana Anna Ascani non esita a proporre il nuovo contratto anche per i pubblici, Cesare Damiano si dice contrario «a estendere norme che liberalizzino un’eccessiva possibilità di licenziamento». E Fassina attacca Renzi: «Squallido teatrino di Palazzo su pelle lavoratori pubblici. Grave che premier si lavi le mani».

La Stampa 29.12.14
Quirinale, le insidie dell’ampia maggioranza
di Federico Geremicca


La conferenza stampa di fine anno fissata per stamane dal presidente Renzi cade - e non c’entra l’ironia della sorte - in un momento segnato da sentimenti che sono stati una delle cifre dell’azione di questo governo: ridda di interpretazioni intorno all’attività legislativa e clima di contrapposizione quasi a prescindere.
La polemica intorno alla estendibilità ai lavoratori pubblici delle norme contenute nel Jobs Act, insomma, ricorda troppo da vicino quelle sull’effettiva abolizione delle Province o sulla costruenda riforma della giustizia, per essere considerata episodica o casuale.
Tra leggi approvate davvero, deleghe ancora da scrivere, riforme passate a metà e incertezza di interpretazione, l’arrembante azione dell’esecutivo a volte è sembrata sostituire al noto ottimismo della volontà l’inedita confusione dell’ottimismo: ma la sferzata è arrivata, una certa insopportabile inerzia è stata rimossa e i cittadini-elettori hanno apprezzato il pirotecnico attivismo del giovane premier, a giudicare dall’esito di diverse tornate elettorali. E’ immaginabile che anche la conferenza stampa di stamane possa portare questo segno, pur se al bilancio ottimista che Renzi presenterà manca il «pezzo pregiato», il passaggio dal cui esito - soprattutto - dipenderà il giudizio, il voto da assegnargli: l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
E’ un esame che riguarda Renzi più come segretario del Pd che capo del governo, naturalmente: ma alla stessa maniera l’ex sindaco di Firenze semina ottimismo e si dice certo di una scelta responsabile, rapida e a consenso ampio. E’ giusto affrontare un appuntamento così delicato con serenità e ottimismo; è inevitabile, però, sottolineare come le condizioni di partenza non siano incoraggianti, essendo - per tanti versi - addirittura peggiori di quelle che portarono il Parlamento alla Caporetto del marzo 2013.
Elenchiamole, alcune di queste condizioni. I leader dei partiti maggiori (Pd, M5S e Forza Italia) hanno serissimi problemi interni e controllano i gruppi parlamentari assai meno di quanto già poco fossero controllabili due anni fa; Camera e Senato sono attraversati da «cambi di casacca» e tensioni che li rendono più difficilmente governabili di quanto oviamente fosse nei primi giorni di insediamento; correnti e leader bruscamente emarginati da Renzi lo attendono ora al varco per pareggiare finalmente i conti; e la situazione di tensione tra democratici, grillini e berlusconiani non lascia presagire nulla di buono.
E’ per questo - ma non solo per questo - che la professione di ottimismo di Renzi sembra, al momento, un’escamotage di maniera: e non ci sarebbe da meravigliarsi se l’obiettivo di un Presidente «eletto con maggioranza ampia» dovesse rapidamente cedere il passo ad una scelta più ristretta, di parte. A bocce ferme, infatti - cioè ad oggi - appare arduo immaginare i parlamentari di Grillo e Berlusconi infilare nell’urna una scheda per votare lo stesso Presidente.
Tutto è sempre possibile, naturalmente, ma è facile immaginare, se la «maggioranza ampia» dovesse liquefarsi fin da prima della prima votazione, che lo scenario più probabile (più politicamente logico, verrebe da dire) finirebbe per essere quello che vede eletto il nuovo Capo dello Stato dai voti di Pd-Ncd-Forza Italia e chi intendesse aggiungersi. Per Matteo Renzi - alla luce del Patto del Nazareno e delle riforme avviate con Berlusconi - una scelta diversa sarebbe difficilmente comprensibile, e porterebbe con sé conseguenze impossibili da valutare: a maggior ragione se l’alternativa dovesse essere cercare una intesa con Grillo, sulla cui affidabilità Renzi (e non solo lui) nutre dubbi insuperabili.
E’ dunque assai probabile che il nuovo Capo dello Stato possa esser eletto con i voti di solo due delle tre maggiori forze presenti in Parlamento. Non c’è nulla di antidemocratico, in questo: e soprattutto nulla di inedito. Napolitano - reinvocato a gran voce nel marzo 2013 - fu eletto la prima volta con appena 543 voti, quasi un minimo storico. Scalfaro ne ottenne (alla sedicesima votazione) 672: e due giorni prima la mafia aveva fatto saltare in aria Giovanni Falcone... E Giovanni Leone, per andare più indietro nel tempo - 1971 - ne ebbe la miseria di 518 (al ventitreesimo scrutinio...).
Solo Ciampi, Cossiga e Pertini (oltre a Napolitano due anni fa) hanno superato la soglia dei 700 voti, su mille e passa grandi elettori: come a dire che la «maggioranza ampia» è certamente auspicabile, ma non facile da raggiungere, né storicamente né politicamente. E dunque nessuna sorpresa se in questa o quella stanza si stesse già ragionando sulla quarta votazione: e cioè sul nome del Presidente veramente possibile. Garante e imparziale, certo: ma come è spesso accaduto, inevitabilmente di parte...

Repbblica 29.12.14
Perché Prodi congela (per ora) la voglia di veto di Matteo e Silvio
Il Professore è uno dei candidati più autorevoli per lui soffiano venti distanti dal premier
di Stefano Folli


Va evitata la guerra civile all’interno del centrosinistra in Parlamento L’ex Cavaliere tiene un profilo basso e osa soltanto dire un flebile no

SECONDO il premier Renzi, è grave che qualcuno voglia «gettare il nome di Prodi nel tritacarne dei retroscena » giornalistici. Ma la storia non è proprio in questi termini. Romano Prodi è uno dei più autorevoli candidati alla presidenza della Repubblica ed è normale che si parli di lui. Soprattutto quando attorno all’ex presidente del Consiglio si sta giocando una partita politica complessa e dall’esito ancora imprevedibile.
Certo, manca un mese all’inizio delle votazioni nell’aula di Montecitorio. Di qui ad allora vivremo di mezze notizie, indiscrezioni e supposizioni, molte delle quali infondate o incomplete. Eppure dove c’è molto fumo spesso c’è anche un po’ d’arrosto. In ogni caso è poco plausibile che nessuno stia tessendo in queste settimane i fili di una strategia, che non si stia creando una griglia per evitare il Vietnam parlamentare di fine gennaio. In fondo le voci su Prodi sono nate quando il premier lo ha ricevuto a Palazzo Chigi, un paio di settimane fa. E si sono rafforzate quando Berlusconi, l’avversario di sempre, ha lasciato intendere di non avere più alcuna pregiudiziale contro il suo antico nemico (l’uomo che lo ha battuto due volte nelle urne). Così ha preso forma l’ipotesi di Prodi al Quirinale con i voti, nientemeno, del «patto del Nazareno», cioè lo schema politico più indigesto per lui.
Ma come stanno in realtà le cose? Non come sembrano. Al momento l’unico gruppo ad avere avanzato in modo pressoché ufficiale la candidatura prodiana è il Sel per bocca di Vendola. Con l’idea di mettere in difficoltà Renzi, non certo di favorire la convergenza fra lui e Forza Italia. Sono emerse poi altre voci. Bersani, memore dei 101 franchi tiratori del 2013, ha detto più volte, a nome di una frazione ragguardevole del Pd, che «occorre ricominciare da Prodi», ossia che un accordo all’interno del partito non può ignorare la ferita di allora (garbata allusione al fatto che gli amici di Renzi sono fra i maggiori indiziati della fronda). A seguire si sono dichiarati a favore di Prodi alcuni intransigenti di Forza Italia, ad esempio Minzolini e la Santanché. Anche qui non si è trattato di togliere le castagne dal fuoco a Renzi, ma al contrario di buttargli fra le gambe il nome più scomodo e meno malleabile.
Come si spiega allora che una candidatura avanzata da personaggi e ambienti non certo amici del presidente del Consiglio si trasformi in un punto di convergenza fra lui e Berlusconi? Per capirlo occorre guardare la vicenda da un’altra angolatura. Il problema di Renzi è che egli non può mettere veti ad alcun candidato vero o presunto che nasca dentro i confini del Pd, tanto meno al fondatore dell’Ulivo. La sua speranza di impedire la guerra civile all’interno dei gruppi parlamentari del centrosinistra passa proprio di qui: dalla capacità di non tagliare la strada a nessuno, ma di far scaturire l’accordo vincente al momento opportuno intorno al nome più condiviso.
Tuttavia, non basta dire che Renzi non può mettere veti: la questione è che non può nemmeno subirli. Se il premier accettasse, per ipotesi, una bocciatura secca e definitiva di Berlusconi su Prodi, tutta l’architettura del «patto » salterebbe e l’intera strategia per la successione di Napolitano rischierebbe di essere vanificata. Quindi Berlusconi, da bravo partner, ha tenuto un profilo molto basso e ha evitato di porre qualsiasi veto. Finché ieri ha affidato a un collaboratore il compito di dire un mezzo «no», ma abbastanza flebile da non essere troppo compromettente.
Non sarebbe la prima volta che per l’eterogenesi dei fini, un passo dopo l’altro, ci si ritrova ad eleggere la figura meno gradita, in questo caso Prodi. Ma è più probabile un altro sbocco. Se Renzi e Berlusconi non vogliono Prodi al Quirinale, e se hanno giocato fino qui una mano tattica di una partita ancora molto lunga, arriverà il giorno in cui qualcuno dovrà pur scoprire le carte. Quel giorno potrebbe entrare in crisi il «patto» oppure il Pd. In entrambi i casi, il premier avrebbe di che preoccuparsi.

Corriere 29.12.14
Le amnesie e le illusioni di fine anno
di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi


L’economia italiana continua ad arretrare. Non solo il Prodotto interno lordo scende da 13 trimestri (durante i quali abbiamo perso 600 mila posti di lavoro), ma è ormai dalla metà degli anni Novanta che cresciamo meno della già bassa media europea. Quasi un punto all’anno di minor crescita rispetto ai Paesi dell’euro. In un ventennio abbiamo perso rispetto alla Germania 14 punti di Pil. Oggi il rischio maggiore è assuefarci alla recessione. Parliamoci chiaro. Non esistono scorciatoie né ricette magiche per ricominciare a crescere. Vi sono delle politiche (nostre ed europee) che ci possono aiutare a uscire dalla crisi, ma senza un più profondo rinnovamento dell’economia i nostri figli saranno più poveri di noi.
Cominciamo dal primo punto: porre fine alla recessione. La riforma del mercato del lavoro servirà a convincere le imprese ad assumere giovani con contratti a tempo indeterminato. Ma non basta. Ci vuole anche più domanda che va spostata dal settore pubblico a quello privato. Meno tasse, più consumi e investimenti privati, meno spesa pubblica. Soprattutto meno tasse sul lavoro che riducano i costi delle imprese. Dei circa 30 miliardi di maggiori tasse sul lavoro che gravano sulle imprese italiane rispetto a quelle tedesche, la legge di Stabilità ne taglia 5 il prossimo
anno e promette di tagliarne altri 20 nei due successivi. Il segno è giusto (ed è la prima volta), ma la misura e i tempi non sono adeguati a un’economia che ha urgente bisogno di riprendersi.
I tagli alla spesa pubblica assommano a circa 8 miliardi. Ma di questi solo 200 milioni recano «un nome e un cognome»: il resto sono riduzioni lineari a ministeri e tagli dei trasferimenti a Regioni, Province e Comuni che saranno molto probabilmente compensati da maggiori imposte locali. I sussidi alle imprese vengono ridotti di 87 milioni, su un totale di alcuni miliardi. Un granello di sabbia nel deserto.
C’è chi si illude (e purtroppo sono in tanti) che la crescita verrà grazie agli investimenti pubblici promessi dall’Europa con il piano Juncker, un progetto aleatorio e dalla tempistica incerta.
Alcuni investimenti, come portare collegamenti Internet veloci a tutti i cittadini, certamente aiutano: al Nord una famiglia su tre non ha ancora accesso a Internet, una su due al Centro-Sud. E la velocità media di navigazione è di 5 megabit per secondo in Italia contro gli 8 in Germania e i 12 in Olanda. Ma la maggior parte degli investimenti pubblici ha benefici dubbi. Per esempio: davvero, dopo quanto accaduto con il Mose di Venezia, pensiamo che ci convenga contribuire con 2 miliardi di denaro pubblico alla nuova autostrada Orte-Mestre, come prevede il decreto sblocca Italia? Sarebbe una gravissima illusione pensare che imprese faraoniche come l’Olimpiade o l’Expo possano imprimere la svolta necessaria alla nostra economia.
Con investimenti come questi si continuano a premiare quegli imprenditori che vivono non di idee e di innovazione, ma di contatti con i ministeri e di partecipazione alla corruzione. Non a caso sono questi imprenditori a invocare più opere pubbliche.
Ed è proprio qui il nesso con la crescita nel lungo periodo, al di là dell’attuale recessione. Un Paese avanzato come il nostro cresce grazie all’innovazione, alle idee, alla ricerca, all’introduzione di nuovi prodotti, che non significano solo alta tecnologia ma si possono sposare con tratti tipicamente italiani, dal turismo al design all’agricoltura di nicchia, per fare alcuni esempi.
Una delle maggiori delusioni dei primi mesi del governo Renzi è la decisione di rimandare al prossimo anno la legge sulla concorrenza, una legge che dovrebbe essere varata ogni anno (e che per la verità nessun governo ha mai varato. «Entro sessanta giorni dalla data di trasmissione della relazione annuale dell’Antitrust, il governo presenta alle Camere il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza», art. 47 della Legge 23 luglio 2009, n. 99). Affinché nuove idee si trasformino in nuove imprese è necessario ribaltare l’assetto normativo. È impossibile scrivere leggi e regolamenti per imprese e prodotti che ancora non esistono ma vorrebbero nascere. Se le si sottopongono a regole costruite per settori che già esistono si rischia di farle abortire prima che si concretizzino.
In California, la «culla dell’innovazione», esiste il «diritto a innovare»: un’impresa può sviluppare un nuovo prodotto e mentre lo sviluppa le autorità disegnano con l’impresa regole adatte a quel nuovo prodotto, nell’interesse della concorrenza e dei consumatori. Questo dovrebbe essere il primo articolo della nuova Legge sulla concorrenza.
Abbiamo bisogno di imprese che, anche se nate piccole, poi crescano senza essere legate da norme disegnate per proteggere le aziende che già dominano il mercato e frequentano i corridoi dei ministeri per farsi aiutare appunto a sconfiggere gli innovatori.
Il nanismo delle nostre imprese è un altro problema serio. I ragazzi di Apple hanno cominciato in un garage, ma non ci sono certo rimasti, altro che «piccolo è bello»! Sono le grandi imprese private, produttive, innovative, rivolte al mercato globale, che non vivono di contatti con la politica, quelle che fanno crescere i Paesi avanzati. Noi ne abbiamo troppo poche. Abbiamo invece troppe imprese familiari, disposte a rimanere relativamente piccole pur di restare in famiglia. Il governo deve agevolare i processi di crescita in nome dell’apertura e di una parola colpevolmente dimenticata: liberalizzazioni.
Solo aprendosi alla concorrenza, accettando la sfida dei mercati mondiali si cresce. Vale per le aziende come per il Paese.

Repubblica 29.12.14
Ciò che l’Europa non può fare per noi
di Alessandro De Nicola


“CE lo chiede l’Europa” è una delle frasi più stantie ed insensate della “narrativa” politica italiana, soprattutto perché il risanamento finanziario e le riforme vanno portate a termine essenzialmente per noi, per condurre l’Italia fuori dalle secche del declino economico in cui si dibatte da oltre 20 anni e non essere puniti dai mercati (che non sono la Spectre ma gli investitori, nostrani e stranieri, cui il Belpaese chiede soldi in prestito o in conto capitale).
Da quando si è insediato il governo Renzi, però, il registro è un po’ cambiato ed è l’Italia che ha cominciato a “chiedere all’Europa”.
Prendiamo il famoso piano Juncker che dovrebbe rilanciare l’occupazione e la crescita nel Vecchio Continente e che il nostro premier “pretendeva” in cambio di un bilancio pubblico in ordine. Il piano prevede 315 miliardi di investimenti in Europa, ma sarebbe sbagliato pensare ad una dote di tale entità messa sul piatto dall’Unione europea. In realtà Bruxelles intende investire “solo” 21 miliardi attraverso la Banca europea degli investimenti. Non si tratta però di denaro “fresco”, ma in gran parte di un dirottamento di fondi già stanziati per altri programmi (8 miliardi) o nelle disponibilità della Bei (5 miliardi) che verranno indirizzati a favore del Fondo strategico europeo per gli investimenti (Efsi). Questi 21 miliardi dovrebbero generarne 63 grazie ai finanziamenti dalla Bei e arrivare a 315 attraendo investimenti sia privati che degli stati membri; il tutto dovrebbe accadere in 3 anni, sebbene la Commissione prometta che i progetti saranno vagliati in modo molto severo.
Peraltro, se prendiamo il programma più consistente dell’Unione europea, Horizon 2020, nato per favorire le partnership pubblico-privato sulle tecnologie, la Commissione dichiara che in «sette anni, il contributo europeo di 8 miliardi mobiliterà 10 miliardi dal settore privato e 4 miliardi dagli Stati Membri». Capito? Sette anni per far sì che il settore privato contribuisca meno della metà di quanto faranno la Ue e i governi. Lontani anni luce da quanto si stima per l’Efsi.
Inoltre, è vero che gli investimenti pubblici, come ha ribadito anche recentemente il Fondo monetario internazionale, possono avere effetti positivi sulla crescita del Pil ed incoraggiare quelli privati e la produttività generale (è facilmente intuibile che un’autostrada che unisce un’area industriale ad un porto, aumenta la produttività e magari stimola l’iniziativa privata per costruire stazioni di servizio… salvo che non finisca come la BreBeMi).
Tuttavia, non si deve dimenticare che l’investimento pubblico deve essere giudicato secondo un metro di costoopportunità: i soldi che vengono spesi per un aeroporto pubblico sono sottratti all’investimento o al consumo privato. Quanto deve essere redditizio l’investimento? Non c’è accordo tra gli economisti: ad esempio il Nobel Arrow parla di una forchetta tra l’1 e il 7% l’anno. Burgess e Zerbie pongono l’asticella più in alto, al 6-8% l’anno. Né c’è unanimità di consensi relativamente al rapporto tra investimenti pubblici e crescita economica e, per quanto riguarda l’Italia, domina un po’ di scetticismo.
Su alcuni punti si è sviluppata una certa concordia tuttavia. Il primo è che gli investimenti in infrastrutture sono più redditizi nei Paesi in via di sviluppo che in quelli avanzati (e, nonostante tutto, l’Italia ancora appartiene al secondo gruppo). Il secondo è che finanziare gli investimenti a debito è più efficiente che attraverso nuove tasse, salvo — avverte il Fondo monetario internazionale — in caso di situazioni di mercato avverse che possono verificarsi in Paesi «con un rapporto debito pubblico-Pil già alto o dove i profitti sugli investimenti in infrastrutture siano incerti» al punto che potrebbero alzare il costo del finanziamento e aumentare ulteriormente il debito pubblico (vale a dire la situazione dell’Italia, che quindi difficilmente potrà contribuire più di tanto ai progetti europei che la riguardano, a meno che non tagli la spesa pubblica). Il terzo è che gli investimenti senza una preventiva analisi costi-benefici, attuati malamente e per fini politici possono essere anche peggio della spesa corrente. Orbene, benché l’obbligatorietà della valutazione economica costi-benefici dei progetti di investimento da parte delle amministrazioni centrali sia stato tradotta normativamente nel decreto legislativo 228/2011, e nel Dpcm (3 agosto 2012), essa non è stata ancora attuata e anche i progetti presentati dall’Italia per partecipare all’assegnazione dei fondi del piano Juncker risultano privi di tale analisi. D’altronde, con una spesa in infrastrutture non troppo dissimile da Francia e Germania, l’Italia è al 53mo posto del Global competitvness index per qualità delle stesse.
Riassumiamo: ciò che abbiamo reclamato a gran voce dall’Europa è un piano dai risultati benefici sull’economia incerti, in cui ci sono solo 21 miliardi sicuri e, rappresentando l’Italia 1/8 del Pil Ue sarà fortunata ad averne assegnati 2,5 (ma da dove vengono i soldi europei? Dagli Stati Membri! Quindi una partita di giro o quasi). Il piano si basa su una previsione di co-finanziamento di privati e governi nazionali abbastanza fantasioso cui comunque l’Italia, visto il peso del debito pubblico, non potrà contribuire più di tanto, sempre ammesso che i suoi progetti, non preventivamente valutati, vengano accettati e poi realizzati (solo quest’anno rischiamo di perdere 14 miliardi di fondi comunitari).
Fotografia un po’ pessimista? Può darsi. Ma non siamo di fronte a quel #cambiareverso che ci era stato promesso. Nemmeno con l’Europa. Twitter @ aledenicola

il  Fatto 29.12.14
Il testimone di Revelli: “guai” ai vincitori
di Furio Colombo


Molte volte, quando ero deputato eletto a Torino di un partito che allora si chiamava Pds, mi chiedevano di andare a parlare in una sede di quartiere del vecchio Pci vicino alla Dora. A quei tempi trovavi la sala gremita, molta gente in piedi. E in prima fila, con quella sua aria di dignità innata, Nuto Revelli. Era una sorpresa e una sorta di recupero, significava che quel trovarsi ancora insieme in una vecchia maniera (la sezione di partito) che io non avevo mai conosciuto, aveva ancora senso per lui.
Revelli non era di quelli che alla fine della serata fanno domande, né che accetta di “dire due parole, in conclusione”: ma abbiamo cominciato a parlare in un angolo. Lui era limpido e intenso, con le frasi brevi, con osservazioni precise, e una differenza molto forte fra prima e dopo averlo ascoltato. E notavi subito (forse di più verso di me, che in quel mondo arrivavo da fuori, e raccontavo altre cose) una estrema attenzione a non sovrapporre o imporre punti di vista o conclusioni, nonostante la sua evidente autorevolezza.
Era stato gettato dalla guerra in un mondo lontano e sconosciuto che lo aveva costretto a sapere il dolore degli altri, per quanto estranei, sconosciuti, apparentemente nemici. E ci era tornato da solo, nelle periferie, nelle sue campagne piemontesi, nei gruppi di cultura povera, dovunque si poteva dare voce a chi non l’aveva, per vedere, sapere, ricordare. E raccontare a nome di chi non poteva farlo.
Quando Nuto Revelli ha chiesto alla sezione dove ci incontravamo di organizzare una sera in cui avremmo parlato l’uno accanto all’altro a quella piccola folla con i giacconi addosso, nella stanza troppo piccola e troppo fredda, mi è sembrato un regalo. È stata infatti una lunga conversazione in cui io ho raccontato un po’ dell’America di Berkeley e di Selma a cui avevo partecipato, e ho ascoltato molto di ciò che ritrovo ne Il Testimone, questo ultimo libro di Nuto Revelli composto di 34 frammenti o interviste a cura di Mario Cordero, edito da Einaudi, ovvero un documento emozionante della vita italiana in luoghi dove si suppone che non passi la Storia, ma dove c’era, e ha reso la sua deposizione, il Testimone.
In un passaggio fra i più belli del libro antologico, alla fine di una conversazione con Maurizio Chierici, all’autore dell’ormai celebre Mondo dei vintiè stato chiesto: “Chi sono i vincitori? ”. Ecco la risposta, forse la conclusione di un lavoro che conta molto nella cultura italiana: “Sono malinconici, arricchiti, furbi. Partecipano a questi dibattiti solo con le parole. A loro interessano le parole. Non scriverò mai un libro su di loro”.

La Stampa 29.12.14
Gemelli contesi, pronta una nuova offensiva legale
Un anno dopo l’errore al Pertini i genitori biologici non si arrendono
di Maria Corbi


Uno scherzo del destino, un errore umano, una grande gioia e un grande dolore. Speranze tradite ed esaudite. Ci sono pezzi di vita, sentimenti, emozioni, responsabilità in questa storia che ha come protagonisti un bambino e una bambina cresciuti nell’utero sbagliato, contesi tra due coppie di genitori. Quelli naturali e quello biologici. Un errore nell’impianto degli embrioni il 6 dicembre 2013, rivelato da La Stampa, e il destino di sei persone non è stato più lo stesso. La madre che ha partorito e suo marito, la donna e l’uomo a cui appartenevano gli embrioni, i due gemelli nati in mezzo a questo gran pasticcio. Venuti al mondo alle 8,58 di domenica 3 agosto, all’ospedale San Salvatore dell’Aquila due chili e quattro lui, un chilo e nove lei. Due nomi esotici, frutto della passione per l’oriente di mamma e papà. Subito registrati allo stato civile dell’Aquila con il cognome del marito della donna che ha partorito.
«Non so come sia potuto accadere», disse la biologa responsabile dell’impianto. Ma è accaduto e da quel momento, da quando le due coppie sono state informate dello scambio, è iniziata una contesa che ha portato fino in Europa dove il ricorso della madre e del padre biologici non è stato giudicato ammissibile visto che l’iter nelle sedi giudiziarie italiane non è stato completato. Nella fattispecie i giudici di Strasburgo affermano che i ricorrenti non hanno iniziato alcun procedimento civile o penale per far accertare le responsabilità dell’ospedale e del personale medico per quanto è accaduto e ottenere un riconoscimento del danno subito. Iter che hanno deciso di percorrere fino in fondo questi due genitori traditi da chi li doveva aiutare. «No comment» dice l’avvocato Paoletti. Ma fonti vicine alla coppia assicurano una nuova ondata di denunce in sede civile e penale.
Il primo pronunciamento della legge italiana è del giudice monocratico Silvia Albano: i gemelli devono crescere con la madre biologica e con il marito e non con i genitori genetici. Perché, nonostante un vuoto legislativo, «la letteratura scientifica è unanime nell’indicare come sia proprio nell’utero che si crea il legame simbiotico tra il nascituro e la madre. D’altro canto, è solo la madre uterina che può provvedere all’allattamento al seno del bambino. Non può, pertanto, non ritenersi sussistente un interesse dei minori al mantenimento di tale legame, soprattutto alla luce del fatto che i bambini sono già nati e nei loro primi giorni di vita deve ritenersi abbiano già instaurato un significativo rapporto affettivo con entrambi i genitori e sono già inseriti in una famiglia».
Oggi i due piccoli hanno 4 mesi e mezzo e crescono ignari nella casa di chi li ha portati in grembo e messi al mondo. Hanno trovato i regali sotto l’albero, sorridono ai volti di mamma e papà, alle coccole dei parenti, riconoscono il loro odore. Crescono in una certezza di affetti a cui dovrebbero avere diritto tutti i bambini del mondo. In un’altra casa il Natale è molto diverso per chi sente di aver subito uno scippo, quei due embrioni, oggi bellissimi bambini, che hanno i loro codici genetici. Il desiderio di avere degli eredi tradito da un errore. O forse no solo dal destino. Perché non è detto, spiegano gli esperti, che quei due embrioni nell’utero della madre biologica sarebbero cresciuti. Tanti «se» che oggi non hanno molto valore.
«Gli diremo tutto quando avranno l’età per capire», hanno assicurato mamma e papà. Mentre gli altri genitori preparano la battaglia legale. Non vogliono arrendersi. E questo si era già capito quando chiesero di mettere i neonati in una casa famiglia in attesa dell’ultima parola della legge sull’affidamento dei piccoli. «Io e mia moglie rimanemmo sbalorditi alla notizia», commentò il papà «legale». «Comprendiamo la sofferenza di quella coppia, ma sinceramente il bene dei gemelli viene prima di tutto. E il loro bene non consiste certo nell’essere trasferiti in una struttura socio-sanitaria».
«Siamo stati tacciati di essere stati giuridicamente aggressivi», si lamentò Nicolò Paoletti, avvocato della coppia biologica che a quei piccoli non vuole rinunciare. Un botta e risposta via media che ha alimentato ansie e tensioni. «E infatti adesso ci teniamo a non apparire», spiega Paoletti. «Quello che faremo non dovrà finire sui giornali». Sul caso intervenne anche la ministra della Salute Beatrice Lorenzin: «Se fosse capitato a me e fossi stata la mamma che aveva in grembo questi gemellini, li avrei sentiti come miei a prescindere». Una storia umana, una palestra di dibattito per giuristi. Chi si richiamava alla legge per cui è madre chi partorisce. Chi invece sostiene che i due bambini non sono figli della madre gestante visto che «manca il presupposto del consenso all’impianto di embrioni non propri». In mezzo due bambini che a un certo punto dovranno fare i conti con la loro nascita.

Corriere 29.12.14
«Europa» in crisi, il direttore lascia: il Pd ci ha delusi
di Alessandra Arachi


Stefano Menichini, direttore di Europa, non ha esitato: ieri ha lasciato la guida del quotidiano del Pd. «Non potevo fare altrimenti», dice, la voce provata. E poi spiega: «La Fondazione Eyu ha rilevato la testata ma non ha trovato finanziatori. Il giornale quindi verrà fatto per lo più da colleghi in forza all’ufficio stampa del Nazareno (già pagati dal partito) e da pochissimi di noi, forse tre su 14. Non era quello che ci aspettavamo, nell’anno del Pd di Renzi. Io poi non potevo essere uno dei tre che rimaneva in sella della vecchia Europa, non sarebbe stato etico». La storia di Europa è anomala: il 16 novembre il Pd, attraverso la sua fondazione Eyu, decide di acquistare la testata del quotidiano che fu della Margherita per 200 mila euro. «E noi eravamo ben contenti, convinti che tutta la redazione sarebbe potuta traghettare con la nuova proprietà», dicono i membri del comitato di redazione. E aggiungono: «La cosa assurda è che Europa è l’unico quotidiano italiano che chiuderà in pareggio i suoi bilanci. Non ci aspettavamo una simile gestione dal Pd». Non è stato certo così per l’altro quotidiano che fa capo ai dem, l’Unità. Con 30 milioni di debiti, il quotidiano che fu di Antonio Gramsci ha chiuso le sue pubblicazioni in agosto ed aspetta, a ore, la decisione del Tribunale per essere rilevata dalla Veneziani editore e tornare in edicola. Anche qui si pone il problema della sorte dei 60 giornalisti della testata. «Per noi tutti e 60 devono fare parte dell’Unità che riaprirà i battenti», sostengono i membri del Cdr . E spiegano: «Chi prende la testata deve prendere anche i giornalisti che sono parte integrante della testata, come ha stabilito una sentenza della Corte di cassazione».

Repubblica 29.12.14
Europa, si dimette Menichini
I giornalisti: “Impegni dem traditi”


ROMA Il quotidiano Europa, oggi solo online, «cambia pelle» e il direttore Stefano Menichini lascia la direzione. L’annuncio arriva dal Cdr che spiega come il giornale «sarà redatto da una larga maggioranza di giornalisti di Youdem rispetto a quelli di Europa». Cosi, secondo l’organismo sindacale, il Pd, «tradisce gli impegni presi».
Menichini scrive che «la scelta del direttore per questa nuova fase spetterà alla proprietà» e «non sarebbe né utile né giusto né possibile che io fossi della partita«. Ma sottolinea: «Penso che soprattutto nell'arco del 2014 («l'anno del Pd di Renzi») si sarebbe potuto fare di più e meglio». Dal Pd arriva la solidarietà dai parlamentari Ernesto Carbone e Piero Martino. E il senatore Andrea Marcucci twitta: «Serve una soluzione diversa».

Repubblica 29.12.14
Pd, a Roma stretta sugli iscritti fantasma
Dalle verifiche avviate dopo lo scandalo degli appalti al sistema-Buzzi emergono anche tesserati “a loro insaputa”
Per la bonifica un sistema di registrazione delle adesioni in tempo reale. Il commissario Orfini: “Circoli da chiudere”
di Gabriele Isman


ROMA Un nuovo sistema informatico per registrare in tempo reale le nuove adesioni al partito, presto i sub-commissariamenti di specifiche zone della città (si partirà da Ostia), verifiche telefoniche a tappeto su tutti gli 8 mila iscritti. È iniziato da un mese il commissariamento del Pd romano affidato a Matteo Orfini dopo gli arresti dell’inchiesta Mafia Capitale. Dalle prime verifiche telefoniche — circa duecento — sono emersi casi di iscritti fantasma: cittadini inconsapevoli di risultare aderenti al Pd romano, dove da 27 mila tesserati del 2009 si è arrivati agli 8 mila attuali. «Il commissariamento sarà un lavoro lungo. La mappatura di Barca finirà a maggio: noi andremo oltre. C’è molto da scavare, ma non tutto è da buttare. C’è voglia di ripartire» dice Orfini. La federazione romana del Pd sarà la prima in Italia a essere dotata di un sistema informatico dove i segretari di circolo — con adeguate password e pagine web riservate — dovranno segnalare ogni mese le nuove iscrizioni e i rinnovi. Un modo per controllare e verificare anche eventuali picchi di adesioni magari in prossimità di primarie o congressi. «Il tesseramento quest’anno è in calo perché non ci sono congressi in vista, e dunque i signori delle tessere sono meno interessati all’investimento. I capibastone vanno stroncati: per farlo non basta bonificare il malcostume che c’è stato fino a oggi. Occorre recuperare il rapporto con le persone e con i territori: spesso abbiamo lasciato che i capicorrente fossero gli unici a mantenere una relazione con i cittadini» dice Tobia Zevi, membro dell’assemblea nazionale del Pd e candidato renziano alla segreteria romana alle ultime primarie cittadine.
Ma l’operazione pulizia non si limiterà alla tracciabilità online delle iscrizioni. Il Pd Roma ha problemi economici — oltre un milione di euro di debiti a livello di federazione senza contare le passività dei singoli circoli — ma anche i commissariamenti non sono finiti. Si potrebbe partire da Ostia, molto citata nelle carte di Mafia Capitale, e da altre periferie problematiche: Orfini sta pensando di affidare il Pd di quel municipio a un parlamentare non romano, a garanzia del massimo di indipendenza. «Alcuni circoli saranno essere chiusi o accorpati » aggiunge Orfini.
Canta vittoria Roberto Morassut, ora deputato e in passato assessore con Veltroni: «Da quattro anni parlo di iscrizioni fantasma, ho scritto due libri per raccontare la decadenza del partito a Roma e ora la verità esce confermata. Al congresso dissi che la base associativa del Pd in quasi tutta Italia era molto compromessa, che i dati manifestavano profonde anomalie. Nel caso di Roma, serve una fase costituente per il Pd». Morassut lancia una proposta: «Il tesseramento 2015 deve avere basi diverse, regolando la quota tessera sulla base del reddito come sempre avvenuto nei partiti democratici e nei sindacati: le adesioni devono essere libere e individuali. I fatti che emergono stanno dimostrando che il tesseramento è stato in mano a capo tribù».

Repubblica 29.12.14
Gli italiani e lo Stato
Partiti, istituzioni, Europa la fiducia va a picco cittadini sempre più soli
il Papa unica speranza
Dall’indagine Demos 2014 emerge una nazione spaesata sfiancata da crisi, fisco e corruzione
Il quadro già negativo del 2013 peggiora ancora. Anche la magistratura in calo
di Ilvo Diamanti


UN PAESEs paesato. Senza riferimenti. Frustrato dai problemi economici, dall’inefficienza e dalla corruzione politica. Affaticato. E senza troppe illusioni nel futuro. È l’Italia disegnata dalla XVII indagine su “Gli Italiani e lo Stato”, condotta da Demos (per Repubblica). Pare una replica del Rapporto 2013. Se possibile: peggiorata. Tuttavia, c’è una novità: il senso di solitudine. Perché oggi, molto più che nel passato, anche recente, i cittadini si sentono “soli”. Di fronte allo Stato, alle istituzioni, alla politica. Ma anche nel lavoro. E nella stessa comunità.
1. Soli di fronte allo Stato. Valutato con fiducia dal 15% dei cittadini. Metà, rispetto al 2010, 4 punti meno di un anno fa.
Un livello basso, ma non molto diverso, ormai, rispetto agli altri governi territoriali. Perché meno del 20% dei cittadini si fida delle Regioni e meno del 30% dei Comuni. Insomma siamo un Paese senza Stato, secondo le tradizioni. Ma abbiamo perduto anche il territorio. Mentre l’Europa appare sempre più lontana, visto che poco più di un italiano su quattro crede nella UE.
2. D’altra parte, gli italiani si sentono sempre più lontani dalla politica. E, in primo luogo, dai partiti. Ormai non li stima davvero nessuno. Per la precisione, il 3%. Cioè, una quota pari al margine d’errore statistico. Poco meno del Parlamento, comunque (7%). Una conferma del clima di sfiducia che mette apertamente in discussione la “democrazia rappresentativa”. Interpretata, in primo luogo, proprio dai partiti, insieme al Parlamento.
3. Al di là dell’ampiezza, colpisce la “velocità” con cui sta crescendo la sfiducia verso i soggetti politici e le istituzioni di rappresentanza democratica. Rispetto al 2010, infatti, la credibilità dello Stato, dei partiti e del Parlamento è dimezzata. Mentre la fiducia nei Comuni e nelle Regioni è calata di oltre 10 punti percentuali. La perdita di riferimenti territoriali ha investito anche l’Unione Europea. Vista con favore dal 27% degli italiani: 22 punti meno del 2010. E 5 punti meno dell’an- no scorso.
4. La stessa figura del Presidente della Repubblica appare coinvolta da questo clima di spaesamento. Giorgio Napolitano, “costretto” a subentrare a se stesso, per non creare pericolosi vuoti di potere, ha pagato le tensioni politiche e istituzionali. Anche per questo la fiducia nel Presidente, è scesa dal 71 al 44%, dal 2010 ad oggi. E di 5 punti rispetto all’anno scorso. D’altronde, tutti i livelli e i soggetti di “governo” hanno perduto consenso in misura significativa rispetto allo scorso anno: partiti, Parlamento, Comuni, Regioni. Lo Stato.
5. E ciò suggerisce, come si è già detto, che sia in discussione la credibilità stessa della democrazia rappresentativa. Sfidata apertamente da alcuni soggetti politici, come il M5s, che le oppongono la democrazia “diretta”. Solo il 46% degli italiani ritiene, peraltro, che “senza partiti non ci possa essere democrazia”. Mentre il 50% pensa il contrario (nel 2010 era il 42%). Certo, i due terzi dei cittadini credono che la democrazia sia ancora la peggior forma di governo, ad esclusione di tutte le altre (come sosteneva Churchill). Ma la scommessa democratica, nel 2008, era sostenuta da una quota di cittadini molto più ampia: il 72%.
6. Insomma, fra gli italiani si è diffusa una certa “stanchezza democratica”. Anche perché la nostra democrazia, il nostro Stato, si dimostrano sempre più inefficienti. Non per caso, è cresciuta l’insoddisfazione verso i servizi pubblici. E l’insofferenza verso il sistema fiscale appare, ormai, senza limiti. Come il ri-sentimento verso la corruzione politica. Vizi nazionali, di “lunga durata”, che circa 7 italiani su 10 considerano ulteriormente in crescita. 7. Tuttavia, la sfiducia nel governo centrale e locale, la degenerazione della politica e dell’azione dei partiti, manifestata dagli scandali per corruzione non hanno rafforzato la credibilità della Magistratura. Che, fra i cittadini, ha subìto un pesante calo di fiducia. Dal 50%, nel 2010, al 33% oggi. Quasi 17 punti in meno, in quattro anni. E 7 nell’ultimo.
8. Così si spiega lo sguardo scettico verso l’immediato futuro. Per la maggioranza (relativa: 40%) degli italiani, infatti, l’anno che verrà non sarà né migliore né peggiore dell’anno appena finito. Semplicemente: uguale. Cioè, senza istituzioni, senza governo. Senza sicurezza, visto che perfino la fiducia nelle Forze dell’ordine – apprezzate, comunque, da due italiani su tre - è scesa di 7 punti, rispetto al 2010, 3 dei quali perduti nell’ultimo anno.
D’altronde, anche gli indici di partecipazione politica e sociale sono in declino. Mentre la fiducia nelle organizzazioni di rappresentanza degli imprenditori e, ancor più, dei sindacati, è calata sensibilmente. E quasi 6 persone su 10 diffidano degli “altri”, in generale.
9. In pochi anni, dunque, abbiamo perduto i principali riferimenti della vita pubblica e sociale. E abbiamo impoverito quel capitale di partecipazione e di fiducia necessario alla società, alle istituzioni e alla stessa economia per funzionare, non solo per svilupparsi. Anzi, se proprio vogliamo essere precisi, c’è una sola figura che oggi disponga di grande credito. Papa Francesco. Lo apprezzano 9 italiani su 10. Quasi tutti, insomma. Tuttavia, il Papa è un’autorità “religiosa”, a capo di un “altro” Stato. La sua grandissima popolarità (che, peraltro, è “personalizzata” e non si estende alla Chiesa) potrebbe suggerire che, ormai, non c’è speranza. E non ci resta che affidarci alla provvidenza divina… 10. Al di là delle battute, l’indagine di Demos sottolinea un rischio concreto. L’assuefazione alla sfiducia. Nelle istituzioni, negli altri, nel futuro. E, anzitutto, in noi stessi. Spinti, per inerzia, a “dare per scontato” che le cose non possano cambiare. Senza interventi “dall’alto”. Così, “l’incertezza” rischia di apparire una condanna. Mentre è il “segno” del nostro tempo. “Incerto”, ma non “segnato”, pre-destinato. L’incertezza: significa che nulla è (ancora) scritto. Che l’anno che verrà non è ancora (av)venuto. Dipende anche da noi “segnarne” il percorso.

Repubblica 29.12.14
Ottimisti merce rara appena uno su tre vede più rosa il 2015
Per quasi 7 italiani su 10 la ripresa non arriverà prima di due anni
E il 62% boccia la politica
di Luigi Ceccarini


LA FINE dell’anno è tempo di bilanci. Ma è anche il momento per sondare le aspettative nel nuovo anno. Al di là della narrazione dei governanti sulle cose fatte e l’ostentazione di ottimismo verso il tempo che verrà, il quadro dipinto dall’osservatorio Demos su gli italiani e lo Stato (www. demos. it) non è lusinghiero. Le opinioni rilevate sono in linea con quanto emergeva nelle scorse edizioni. Segno di un trend di più lungo periodo e quindi di un ciclo difficile da portare a termine. Così, sette-otto italiani su dieci se guardano all’ultimo anno ritengono la situazione peggiorata in economia (74%), per la corruzione politica (71%) e la pressione fiscale (79%). Ovviamente la politica non brilla. Il 62% la ritiene peggiore dell’anno precedente. Il 28% uguale: ma il giudizio era già piuttosto negativo. È un po’ quello che avviene in riferimento alla lotta all’evasione fiscale, che più di otto italiani su dieci la considerano peggiorata o rimasta uguale al passato: quindi inefficace. Oltre all’economia anche il reddito degli italiani continua ad essere un problema. Solo il 4% degli intervistati ritiene migliorata la situazione in questi ambiti. È un dato coerente con la previsione della fine della crisi, che viene spostata sempre più avanti nel tempo. Quasi sette su dieci (68%) collocano la ripresa non prima del 2017. A vedere la conclusione della crisi oltre i due anni era il 59% nel 2013 e il 55% nel 2012. Dunque, si osserva una perdita di speranza anche su questo fronte. Sul piano internazionale la credibilità dell’Italia aveva registrato un balzo in avanti a fine 2012. Ma il cosiddetto “effetto Monti” si è dissipato negli ultimi due anni. Infatti, quanti ritengono migliorato il prestigio globale dell’Italia sono scesi dal 40% nel 2012 al 17% nel 2013, al 15% attuale.
Quando si chiede agli intervistati di guardare in prospettiva a tutti questi importanti snodi del rapporto tra gli italiani e lo Stato si coglie disincanto e preoccupazione. Gli ottimisti, coloro che ritengono che le cose miglioreranno nel 2015, sono sempre una minoranza. Variano da un minimo del 22% per il problema della corruzione politica ad un massimo del 37% per la lotta all’evasione fiscale. Rispetto allo scorso anno la fiducia nel futuro è diminuita di qualche punto percentuale per tutte le otto questioni considerate nell’indagine. Del resto quanti pensano che il 2015 sarà migliore del 2014 sono il 35% degli italiani: 6 punti meno dell’anno scorso, quando era il 41% a guardare con fiducia al 2014. Ma nel frattempo parte degli italiani sembra aver cambiato opinione.

La Stampa 29.12.14
Team di esperti e lavoro forzato: così l’Isis ruba i tesori della Storia
Scavi selvaggi tra Siria e Iraq per finanziare la guerra del Califfo. Il bottino archeologico ai collezionisti di Londra e Hong Kong
di Fabio Sindici


A Kerkemish, pochi metri dal confine con la Siria, gli archeologi scavano con il rombo degli aerei da guerra nelle orecchie. È ancora Turchia; ma dall’altra parte della frontiera sventola la bandiera nera dell’Isis che controlla questa parte del territorio siriano. E che del traffico clandestino di antichità ha fatto una delle maggiori fonti di finanziamento. La zona degli scavi è protetta da un reparto di 500 soldati turchi, dotati di carri armati e postazioni di artiglieria. «Si sentivano le esplosioni delle bombe; ora la linea del fuoco si è spostata ad Est. Ma anche quando la zona dei combattimenti era vicina non ci siamo mai sentiti in pericolo», racconta Nicolò Marchetti, professore di archeologia dell’università di Bologna, che dirige la missione. Nel corso degli scavi sono venuti alla luce reperti splendidi: statue romane, lastroni di pietra scolpiti di epoca ittita, un pavimento a mosaico dal palazzo del re assiro Sargon II.
Il saccheggio in Siria
Un terzo dell’area archeologica è oltre il confine, intorno a Jarabulus, città siriana tenuta dai miliziani dello Stato islamico. «Per ora non siamo a conoscenza di scavi illegali considerevoli da quella parte», dice Marchetti. «Vicino Jarabulus si trovano reperti che hanno poco valore sul mercato collezionistico internazionale. O grandi steli assire difficili da trasportare. Il saccheggio avviene in altri siti importanti del territorio del Califfato, nella città greca di Apamea, che le foto dei satelliti mostrano crivellata di buchi. A Mari, uno dei centri più ricchi della civiltà mesopotamica, dove sono stati scavati solo i livelli meno antichi».
Verso Occidente ed Emirati
Secondo Marchetti, l’Isis ha a disposizione team di tecnici e manovalanza competente. Persone che sanno dove scavare. In grado di fare una prima valutazione del bottino archeologico. E network di riferimento per far uscire statue di divinità, fregi e corredi preziosi dalla zona di guerra. Verso i ricchi mercati dell’Occidente, degli Emirati del Golfo, dell’Estremo Oriente. Una filiera complessa e ramificata, piste che si intrecciano con quelle della millenaria Via della Seta per svanire in collezioni private e nei conti di banche off-shore. «La stima annuale di 2 miliardi e 200 mila dollari dell’Unesco sui proventi del traffico illecito di beni culturali nel mondo va rivista verso l’alto dopo il sacco dell’Iraq e l’ascesa del Califfato», ragiona Francesco Bandarin, fino a poco tempo fa vicedirettore dell’Unesco e ora consulente esterno dell’Organizzazione Onu per la cultura. «Credo che siamo intorno ai sei-sette miliardi di dollari l’anno, come riportano alcuni centri studi americani. Ma si tratta solo di ipotesi. La quasi totalità delle transazioni resta sommersa». L’Antiquities Coalition, un’associazione di archeologi e studiosi di storia antica, valuta dai 3 ai 5 milioni di dollari il traffico dal solo Egitto negli ultimi tre anni.
Operai all’ombra dei mitra
Di certo, si sono spostate le rotte. I principali fornitori di tesori archeologici illegali non sono più l’Italia e la Grecia, il Sud-Est asiatico, o lo stesso Egitto. Il grande sacco avviene nel Medio Oriente e nell’Asia centrale. In Iraq, le aree soggette agli scavi selvaggi nei dieci anni passati superano di gran lunga le esplorazioni archeologiche ufficiali dell’ultimo secolo e mezzo. Gli operai locali spesso lavorano all’ombra dei mitra di ronde paramilitari. Si parla di lavoro forzato della minoranza Yazida nell’area archeologica di Ninive, una delle capitali dell’impero assiro, occupata dalle milizie del Califfo al Baghdadi.
La tassa sui reperti
A Kalhu il palazzo reale è stato passato al setaccio: i reperti più pregiati venduti direttamente a collezionisti, il resto disperso sul mercato nero del piccolo contrabbando. La regola generale nello stato islamico resta però quella dell’al-Khums, la tassa di un quinto sul valore degli oggetti scavati. Il che fa presupporre una supervisione minuziosa ed efficiente sugli scavi, una valutazione economica sui ritrovamenti, o un primo mercato all’interno del territorio.
Le tappe della filiera
Ma quali sono le tappe successive della filiera? Una parte passerebbe attraverso il poroso confine turco. «L’unico sequestro a cui ho assistito a Kerkemish riguarda tre busti provenienti da Palmira, che è controllata dai governativi», dice Marchetti. Secondo un altro archeologo, Amr al Azm, della Syrian Heritage Task Force, il grande flusso transiterebbe tra Tel Abiab e Urfa. Ancora più trafficata la frontiera con il Libano: files di computer sequestrati all’Isis indicano antichità per 36 milioni di dollari passate per la cittadina di Al Nabk. Un’altra direttrice attraversa le vecchie vie dell’incenso per arrivare agli Stati del Golfo, dove si aggiungono ai tesori archeologici provenienti dall’Afghanistan via Karachi. Altri mercati di smistamento si trovano nell’Est europeo, in Bulgaria e in Romania, dove venivano gestiti dai servizi segreti, a cui si sono sostituite mafie locali. I reperti più preziosi vengono «lavati», dotati di nuove identità ed acquistati da mercanti e collezionisti di Londra, Hong Kong, New York.
Il resto del bottino sul Web
Il bottino meno pregiato viene venduto su siti temporanei nella cosiddetta «deep Internet», non rintracciabili tramite motori di ricerca. Così il passato remoto del globo, insieme a un’enorme quantità di denaro sporco, rischia di rimanere oscuro per lungo tempo.

Corriere 29.12.14
Milioni di piccoli apolidi, generazione senza futuro
di Francesco Battistini


Piccoli apolidi. Sono i più visibili degli invisibili. Sotto gli occhi di tutti, anche se per legge non sono mai nati. Li trovi a rovistare la spazzatura nelle periferie di Sidone, a vivere come gatti nei sobborghi di Amman. A chiedere la carità nel quartiere beirutino di Ashrafia o a far da preda di qualche adulto zozzo.
L’Organizzazione delle nazioni unite li stima per difetto: trentamila soltanto in Libano. Di sicuro ce ne sono altre migliaia sparpagliati fra tutta la Giordania, la Turchia, l’Egitto, l’Iraq, perfino in Europa.
Bimbi fantasma. Figli di genitori che sono scappati dalla Siria. Nomi e date di nascita mai registrati all’anagrafe: «Talvolta, i documenti sono rimasti sotto le macerie della guerra — spiegano all’Unicef —. Ma il problema per i più è che sono nati in qualche modo, venuti al mondo con ostetriche improvvisate, da genitori che hanno la priorità di sopravvivere e non hanno certo i soldi per una pratica, perché il certifi- cato costa… Abbiamo anche 3.500 piccoli senza famiglia e senza identità. Hanno attraversato il confine da soli, girano abbandonati. In qualche caso, lo choc ha fatto loro dimenticare tutto».
I profughi apolidi nel mondo sono dieci milioni, ma il dramma siriano è il più acuto: il sans papier sotto gli 11 anni non ha accesso nemmeno ai servizi di base. Nessuno che metta per iscritto come si chiami, né quando sia nato, né dove, né da chi. Per lui, non c’è alcuna possibilità di andare a scuola. Un giorno, gli sarà quasi impossibile lavorare, sposarsi, avere un’esistenza normale, mentre ora è altissima la probabilità d’essere adottato in nero, reclutato, sfruttato, fatto prostituire.
«Molti sono abbandonati al loro destino — riconosce Anmar al Hamoud, portavoce del governo giordano —, ma non siamo noi a poterci pensare: l’emergenza è già oltre il tollerabile…». «È in gioco un’intera generazione d’innocenti», denuncia l’Unicef: «Chi scappa, si lascia una storia alle spalle. Chi nasce apolide, non ha nemmeno quella». Domani, qualcuno di questi bambini tornerà in Siria. È probabile. Ma nessuno saprà dirgli chi è.

La Stampa 29.12.14
Cuba, l’intesa con gli Usa porta Internet a tutti
Oggi solo il 5% dei cittadini è connesso. Il regime annuncia la svolta
di Paolo Manzo


Il 2015 per Cuba sarà l’anno di Internet con il «potenziamento dei centri Web esistenti» - che oggi sono già 154 -, l’allargamento sino ad almeno 5 volte della «banda», «la creazione di decine di nuovi locali connessi» affinché possano navigare «un maggior numero di nostri concittadini» e la nascita di piazze, vie ed altre aree pubbliche dotate di wi-fi. A dichiararlo sono alcuni funzionari di Etecsa, l’azienda statale delle tlc cubane, a «Juventud Rebelde», uno dei due quotidiani ufficiali della revolución assieme a «Granma» che, qualche mese fa, aveva scritto in un editoriale che «l’apertura a Internet era prioritaria per il 2015» ma era resa difficile «dall’embargo statunitense».
L’intesa con Washington
Dal 17 dicembre questa giustificazione non regge più - certo l’embargo non è stato eliminato dal Congresso, ma è solo questione di tempo - e, anzi, tra le questioni accordate dall’Avana e da Washington ci sarebbe anche il miglioramento delle comunicazioni Internet per i cubani. Resta da vedere come e quando, perché il problema per connettere Cuba al Web è soprattutto di tipo tecnologico e ci vorranno centinaia di milioni se non miliardi di euro di investimenti (lo dimostra la Cina che, pur non essendo una democrazia, ha Internet praticamente ovunque nelle più importanti città del Paese).
Solo un cavo in fibra ottica
Uno dei principali motivi dell’arretratezza di Cuba dove, secondo le statistiche, il 95% della popolazione non ha Internet a casa, è che a oggi esiste solo un cavo in fibra ottica che la collega al Venezuela, per di più vecchiotto e con una capacità limitata. Inoltre la maggior parte del 5% degli internauti cubani fa affidamento su connessioni dial up, con modem che si appoggiano ancora su normali linee telefoniche. «Sono fermi agli Anni 90», ha detto mesi fa Eric Schmidt, il capo di Google al ritorno da una visita ufficiale per promuovere Internet all’Avana dove ha incontrato anche funzionari del governo.
Deficit e scappatoie
I giovani cubani sono i più ansiosi per le promesse fatte a «Juventud Rebelde» da Etecsa, anche se hanno trovato da tempo il modo di aggirare il deficit tecnologico. Se infatti per loro è impossibile pagare i 5 dollari l’ora - l’equivalente di una settimana di stipendio - delle connessioni rapide degli hotel internazionali, da tempo molti di loro usano l’Internet «offline». Di che si tratta? Di un sistema semi legale dove i giovani scaricano da una connessione rapida terabyte di film, commedie, giornali, software, applicazioni, anti-virus per poi rivenderli a costi minimi agli altri. Lo chiamano Paquete Semanal ed è il «data sharing» che oggi permette ai cubani di scaricare su tablet, telefonini e pc con una differita di poche ore o giorni le informazioni del resto del mondo.

Corriere 29.12.14
Il veleno dei repubblicani per la risalita di Obama negli indici di gradimento: è solo un colpo di fortuna
di Giuseppe Sarcina

Perse le elezioni per il rinnovo del Congresso il 5 novembre scorso, Barack Obama sì è come liberato.
I suoi poteri sono dimezzati. Ma il presidente ha reagito, ritrovando lo spirito del candidato dirompente che era nel 2008. Negli ultimi due mesi ha varato una massiccia regolarizzazione degli immigrati. Ha portato la Cina a firmare un accordo fondamentale sui cambiamenti climatici. Infine ha clamorosamente aperto a Cuba.
   L’opinione pubblica sembra aver colto il cambiamento. Un sondaggio realizzato da Gallup il 19 dicembre, mostra che il gradimento per il presidente è salito dal 40% di inizio novembre al 45%. Meglio di George W. Bush: 37% alla fine del sesto anno di mandato. Obama, però, resta ancora staccato da Bill Clinton, 67%, il riferimento moderno dei democratici. Un’altra rilevazione, condotta dalla Cnn con la Orc, accredita un gradimento più alto a Obama: 48%. I repubblicani e alcuni analisti indipendenti sminuiscono il risultato. Cuba, gli immigrati e la Cina non c’entrano nulla. Obama è solo fortunato, perché i cittadini americani sono più bendisposti verso la Casa Bianca da quando la benzina costa due dollari al gallone (3,7 litri): la metà rispetto al 2008. Il presidente non ha alcun merito, perché non controlla il mercato petrolifero.
Il fiele degli avversari politici nasconde il timore concreto che il finale della Casa Bianca possa essere così travolgente da segnare la prossima campagna elettorale.    C’è chi indica nell’economia il passaggio decisivo. L’ultimo trimestre si è chiuso con lo squillante più 5% di crescita e solo nel mese di novembre si sono aggiunti oltre 300 mila posti di lavoro. Se il trend resterà questo, Obama potrebbe raggiungere il picco toccato da Clinton. Ma il presidente deve affrontare tante altre difficili prove, dalla questione razziale al terrorismo islamico. Occasioni per confermare la leadership o per precipitare di nuovo nei consensi.

Corriere 29.12.14
«Togliete tutte le mine dai ponti»
Guerra fredda finita anche in Svizzera
A 25 anni dalla caduta del Muro, smantellate le linee di difesa contro l’invasore sovietico
di Alessandra Muglia


Quello che oggi le agenzie turistiche promuovono come il ponte dell’amicizia tra Svizzera e Germania è stato per decenni una vera e propria linea del fronte per Berna. Bad Säckingen, monumento nazionale svizzero risalente al Medioevo, unisce due lembi del Reno: a ovest l’omonima cittadina tedesca, a est la località elvetica di Stein.
Lungo oltre 200 metri — è il ponte coperto più lungo d’Europa — durante la Guerra fredda è stato riempito di esplosivo da far detonare in caso di attacco sovietico, per fermare i tank nemici, nella convinzione che l’invasione sarebbe partita dalla Germania dell’Est. Bad Säckingen, come altri ponti, tunnel e gallerie di confine, faceva parte dell’«arsenale» con cui l’esercito svizzero garantiva la «neutralità armata» della Confederazione, riuscita a rimanere al di fuori degli ultimi conflitti, persino dalla Seconda guerra mondiale, quando tutta l’Europa era in fiamme.
Soltanto ora, a venticinque anni dalla caduta del Muro e dalla fine del comunismo nell’Europa dell’Est, l’ultimo pezzo di questo «arsenale» viene smantellato. L’operazione dovrebbe essere conclusa in questi giorni: per uno strano destino proprio mentre le relazioni tra Est e Ovest sono al punto più critico dal 1989, per via del conflitto in Ucraina.
Anche se l’esistenza delle strutture minate era nota, la notizia che così tante di esse siano rimaste «armate» fino a poco tempo fa è stata accolta con stupore da molta gente, soprattutto sulla riva tedesca del Reno. Persino Michael Rohrer, responsabile del settore edilizio della cittadina di Bad Säckingen, ha dichiarato che era all’oscuro del potenziale esplosivo del passaggio.
La decisione di smontare le cosiddette opere minate è stata presa alla fine della Guerra fredda, una volta venuta meno la minaccia sovietica. Molte strutture sono state soppresse fin dal 1991, non soltanto perché era venuta meno la minaccia comunista ma anche — spiega l’esercito svizzero, sul suo sito web — per ridurre i costi di manutenzione, visto che oggi è possibile ottenere un effetto analogo con mezzi mobili che possono essere dispiegati rapidamente di volta in volta.
Ma il processo di sminamento è andato avanti a rilento. Berna è intervenuta sui ponti di confine per lo più negli ultimi anni, in alcuni passaggi sul Reno soltanto a ottobre.
Il motivo per cui si è impiegato così tanto tempo a completarlo, spiega al Financial Times Christoph Brunner, un portavoce dell’esercito, è la complessità e la mole del materiale da rimuovere: «È un’operazione delicata e complicata, riguarda diverse centinaia di oggetti, ma sarà terminata entro la fine dell’anno» assicura il militare. Quando anche il ponte di Bad Säckingen sarà «ripulito».
Con la fine del 2014 dovrebbe dunque chiudersi, finalmente, anche in Svizzera, la Guerra fredda.

Corriere 29.12.14
Ultimo round per il presidente della Grecia
di Maria Serena Natale


Terzo e ultimo round. Nelle prossime ore si saprà se l’appello del premier Antonis Samaras e le trattative dietro le quinte avranno sbloccato l’impasse al Parlamento
di Atene, ostaggio di veti incrociati e divisioni che fino a ieri sembravano insormontabili. Ai deputati resta un’unica occasione per eleggere il successore del presidente Karolos Papoulias. Intorno a questa carica di prestigio si consuma il dramma politico che rischia di precipitare in una nuova crisi il Paese appena uscito da sei anni di recessione e salvataggi internazionali. Il nome indicato dal governo di centro-destra è quello di Stavros Dimas, 73 anni, ex commissario Ue per l’Ambiente, protagonista degli equilibri della Terza Repubblica incentrati sull’alternanza tra il conservatorismo liberale
di Nuova Democrazia e il socialismo di Pasok. Nelle votazioni del 17 e 23 dicembre occorrevano 200 consensi su 300, oggi ne basterebbero 180.
Nel discorso da resa dei conti rivolto sabato ai deputati, il premier ha ricordato «il sudore e il sangue» versati dalla popolazione stremata
dal più grave tracollo economico della recente storia greca e ora scoraggiata dal prolungamento, fino a febbraio, del piano di riforme e prestiti concordato con la Troika (Ue, Bce, Fmi). Lo spettro che stende la sua ombra fino a Bruxelles è Syriza, la coalizione della sinistra radicale guidata da Alexis Tsipras ( foto sopra ) che ha promesso di concentrarsi sulla «crisi umanitaria»
e dichiarato guerra all’austerità, risollevando timori di un’uscita dall’euro. In caso di stallo sulla presidenza, la Costituzione prevede
lo scioglimento del Parlamento ed elezioni anticipate. Gli ultimi sondaggi danno Syriza in crescente vantaggio su Nuova Democrazia, ma Samaras davanti a Tsipras in termini di fiducia personale. Urge rassicurare politica e mercati. Così, a Berlino il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble spiega che «nuove elezioni non cambierebbero nulla per il debito greco» (al 175% del Pil). E ad Atene Tsipras accusa Samaras di intimidazione ma ammorbidisce i toni forse sognando un futuro da premier pragmatico.

Corriere 29.12.14
Israele, cade il tabù: esercito di professionisti?
Un documento interno della Difesa svela il piano di riforma: «Adeguiamoci agli standard occidentali»
Allo studio l’addio alla leva e alle «forze armate del popolo» nate per la protezione di pionieri e kibbutz
di Francesco Battistini


GERUSALEMME Si sono trovati tre mesi fa in un grattacielo di Tel Aviv, vicino al ministero della Difesa. Il pomeriggio d’un settembre nero: le ferite di Gaza, le accuse di crimini di guerra, i giornali che in quei giorni rilanciavano l’inaudita obiezione di coscienza d’un gruppo d’intelligence militare, l’Unità 8200… Il tema della riunione era già un piano di battaglia: «Il passaggio dal servizio militare obbligatorio all’esercito di professionisti su base volontaria». Il dibattito, fuoco incrociato fra generali, sociologi, psicologi. Con un colpo secco sparato a Tsahal, alla retorica dell’armata di popolo e del kibbutz in trincea, al cuore stesso dello Stato d’Israele: «La mia conclusione — ha detto a un certo punto Yuval Benziman, studioso dei comportamenti sociali, presentando una ricerca commissionata dagli stati maggiori — è che bisogna pianificare uno scenario simile a quello di altri eserciti occidentali. Anche se nel nostro caso i cambiamenti saranno diversi, è difficile che si possano evitare le soluzioni adottate nella maggioranza dei Paesi occidentali…». Quali soluzioni? «Ci sono segnali — è intervenuto il colonnello Roni Tamir, mentre la platea rumoreggiava — che indicano la possibilità d’un reale cambiamento del modello di difesa israeliano. E noi ci dobbiamo preparare».
Levate la leva. Diceva Ariel Sharon che non ci sono più i soldati d’una volta e forse è anche per questo che, per la prima volta, i soldati ci stanno pensando: meno siamo, meglio stiamo. Basta con la naja obbligatoria per tutti, avanti coi militari di mestiere. Il rapporto Benziman non è classificato, ma qualcuno l’ha fatto arrivare al quotidiano Haaretz e ora la discussione diventa pubblica: non c’è fretta perché «la tendenza di cancellare il servizio obbligatorio in molti Paesi ha richiesto decenni», ma bisogna riflettere sul fatto che ormai «solo sei Stati europei lo prevedono» e che «per lo più riguarda nazioni dell’Asia o dell’Africa». Cade un tabù. Tsahal oggi può contare su quasi 200 mila effettivi. Ma in ognuna delle quindici grandi guerre che ha combattuto nei suoi 66 anni di vita, ha dimostrato di poterne mobilitare tre volte tanti. A parte i palestinesi, qualche cristiano e quasi tutti gli ebrei ultraortodossi, ai tre anni di servizio obbligatorio per gli uomini e ai due anni per le donne non si scampa: beduini, drusi, etiopi, russi, vegani, omosessuali, transgender… Novanta euro al mese di paga, si resta nella riserva fino a 51 anni. Costruendoci carriere politiche o imboscandosi da refusniks all’estero, comunque sapendo che l’Id (identity) d’ogni israeliano passa per l’Idf (Israel Defense Forces): la più grande azienda del Paese che da sola vale 7 punti di Pil. «Mi chiedono spesso quanto ti cambi la vita essere una soldatessa per sempre — risponde Shani Boianjiu, giovane soldatessa che ha messo in un romanzo i suoi check-point fra nonnismo e sesso facile, commilitoni suicidi e droga —. Io non lo so. Vengo dal confine col Libano, al liceo m’interrogavano sui missili Abm e i lanciarazzi Rpg, ho sempre vissuto come se fossi un militare. Mi sento così da quando sono nata».
Cercate la pace ma siate pronti a difendervi, raccomandava Ben Gurion. La società israeliana però sta cambiando pelle, osserva il rapporto Benziman: chiede più welfare e più istruzione, snobba il ruolo sociale dell’Idf, sente poco lo spirito di servizio, tollera meno che la naja ritardi gli studi o la carriera. Senza contare che le nuove campagne, come s’è dimostrato in Libano o a Gaza, richiedono gente più preparata all’uso d’armi sofisticate, che sappia il daffare quando c’è di mezzo la popolazione civile, esperta anche nel peacekeeping o ad affrontare il terrorismo globale. «Prima d’arrivare a un esercito di professionisti — dice cauto il rapporto — si possono trovare anche altre soluzioni, dalla leva più breve a reclutamenti più selettivi…».
Ma inutile girarci intorno: la guerra è una cosa troppo seria, per non lasciarla fare ai militari.

Repubblica 29.12.14
La tentazione di Israele “Basta leva obbligatoria soldati professionisti per il nostro esercito”
Uno studio commissionato dalle Forze armate ipotizza la trasformazione di quello che è sempre stato il crogiolo dell’integrazione delle varie correnti migratorie
Una vera rivoluzione
di Alberto Stabile


GERUSALEMME Per ora è un’ipotesi di studio, ma di quelle che, se dovesse realizzarsi, potrebbe cambiare per sempre il volto, l’anima e la stessa “fabbrica sociale” su cui si basa Israele. Parliamo della possibilità presa in esame da una ricerca commissionata dalle stesse Idf (Israel Defense Forces) di dover un giorno trasformare la leva obbligatoria in servizio volontario e quello che è stato per decenni l’“esercito di popolo”, crogiolo dell’integrazione delle varie correnti migratorie approdate in Israele, in un’armata professionale.
Non esiste forse un Paese al mondo dove sia più evidente l’identificazione tra la società civile e il suo esercito. In un certo senso l’esercito israeliano, la necessità di disporre di una forza di difesa in un ambiente politicamente ostile, è nato prima dello Stato d’Israele, già con le cellule clandestine stabilite dai pionieri del sionismo. E sulla base degli stessi valori che vigono ancora oggi. L’esercito è il luogo della fusione delle varie culture di provenienza, della condivisione delle esperienze e della partecipazione al progetto comune.
Obbligatorio per definizione, lungo tre anni per i maschi e due per le femmine, il servizio di leva entra prestissimo nella vita dei giovani israeliani. Dai banchi del liceo, quando gli ufficiali addetti alla selezione incontrano gli studenti per scoprirne gli interessi e le qualità personali che possono risultare adeguati ai compiti più delicati, alle start-up che arricchiscono la nuova economia israeliana sulla base di conoscenze acquisite durante la leva. La quale rappresenta un pegno pesantissimo, non di rado doloroso, per le famiglie israeliane, ma sottrarvisi non è contemplato.
Non esiste la crisi delle vocazioni, specie nelle unità combattenti. Ma la società israeliana va cambiando e lo studio condotto da Yuval Benziman, un ricercatore specializzato nell’analisi dei rapporti tra le forze armate e la società, per conto del Direttorato del personale dell’Idf, sottolinea che negli ultimi anni il dibattito pubblico si è sempre più concentrato su alcuni difetti della leva obbligatoria.
Fa discutere, ad esempio, la differenza di trattamento tra arabi ed ebrei israeliani, i primi essendo esentati dal servizio se non richiedono espressamente di arruolarsi, il che succede soltanto per qualche centinaio di arabi-cristiani. Oppure tra israeliani laici e ultra-ortodossi, i quali possono godere di un rinvio del servizio praticamente all’infinito.
Così come c’è chi critica l’impiego di ingenti risorse da parte dell’esercito basato sulla leva, destinate a compiti che hanno poco e niente da vedere con i suoi doveri istituzionali, mentre sempre più duro da digerire è diventato il servizio di riserva, un vero pilastro dell’apparato militare, in base al quale la maggior parte degli israeliani sono tenuti a tornare alle unità di appartenenza anche dopo la fine della leva, seppur per limitati periodi di tempi, ma fin sulla soglia dei 50 anni. Un obbligo che si scontra sempre più spesso con le esigenze del mercato del lavoro.
Insomma, se nessuno si sogna di mettere in dubbio l’importanza del servizio militare come fondamento dell’etica nazionale, è tuttavia cambiata la percezione di certe sue funzioni in un’epoca meno solidale. Da qui la necessità di prepararsi ad uno scenario che, sottolinea il rapporto, non è diverso da quello che ha caratterizzato quasi tutti i Paesi europei ed occidentali.
Certo l’introduzione del servizio militare volontario equivarrebbe in Israele ad un cambiamento epocale non privo di incognite. Se nella maggior parte dei Paesi europei questa trasformazione è avvenuta dopo la caduta del Muro di Berlino, vale a dire quando è venuta meno quella che veniva percepita dagli Stati Maggiori occidentali come la minaccia principale, nel caso d’Israele soltanto il raggiungimento della pace con i Paesi arabi e con i palestinesi potrebbe consentire di affrontare i rischio di un cambiamento così radicale.
Ma l’obbiettivo della ricerca non è quello di misurarsi con ipotesi improbabili che mai come in questi giorni stridono con la realtà e che l’opinione pubblica non condividerebbe. L’esercito israeliano cerca di raggiungere una maggiore efficienza attraverso una razionalizzazione dei suoi compiti e dei suoi obbiettivi, restando in piena sintonia con la società. Come è successo finora.

La Stampa 29.12.14
Churchill affascinato dall’Islam: “Vorrei essere un pascià”
Da giovane combattè in Oriente e ne restò folgorato
di Alessandra Rizzo


Tutti ricordano Winston Churchill nell’iconografia classica: sigaro in bocca, cravattino al collo, lo sguardo fiero di chi ha difeso l’impero britannico e sconfitto il nazismo. Ma, prima di diventare Primo Ministro, Churchill aveva sviluppato una grande passione per il mondo musulmano, tanto da suscitare il dubbio che volesse convertirsi all’Islam.
Il valore degli Ottomani
È quanto rivela una lettera scovata da uno studioso di Cambridge e pubblicata dal «Sunday Telegraph». «Ti prego, non ti convertire all’Islam. Ho notato in te una disposizione a rimanere affascinato dall’Oriente», scriveva nell’agosto 1907 Lady Gwendoline Bertie, la futura cognata di Churchill, rilevando in lui «tendenze da pascià».
Allora Churchill ha 32 anni, ha combattuto in Sudan e sulla frontiera indiana. È amico dell’arabista Wilfrid S. Blunt, e nel corso dei loro incontri talvolta Churchill abbandona il cravattino per indossare abiti arabi. Apprezza il valore militare dell’Impero Ottomano. In una lettera quello stesso anno scrive: «Penserai che sia un pascià. Magari lo fossi». Chi gli è vicino comincia a insospettirsi. Lady Bertie nella sua missiva lo implora di «combattere» la possibilità di una conversione. Ma non c’era motivo di preoccuparsi. Uomo di grandi appetiti, Churchill è stato molte cose nella sua vita: oltre che statista, pittore, storico, scrittore prolifico e vincitore di un Nobel. Ma non si convertì mai all’Islam.
Una moschea per Londra
E, secondo lo studioso che ha scovato la lettera, non ci ha mai seriamente pensato. La sua fascinazione, ha spiegato Warren Dockter al «Telegraph», era figlia dell’epoca vittoriana, «di una visione romantica dello stile di vita nomade e della cultura delle tribù beduine». La lettera è comunque sorprendente. Durante la Seconda Guerra Mondiale Churchill approvò la costruzione, stanziando 100mila sterline, della moschea di Regent’s Park, sperando di guadagnare l’appoggio di Paesi musulmani nel conflitto. Nel dicembre del 1941, disse: «Molti dei nostri amici nei Paesi musulmani in tutto l’Oriente hanno già espresso grande apprezzamento per questo regalo».
Ma più spesso si ricordano sue parole durissime sull’Islam. «L’influenza della religione paralizza lo sviluppo sociale di chi la segue», scrisse. E, in un passaggio ancora oggi citato dai conservatori britannici: «Non esiste forza retrograda più potente in tutto il mondo».

Repubblica 29.12.14
Nella Russia dei demoni e del krokodil
Parla Marina Achmedova, che racconta in un libro la tragedia di una generazione uccisa da una nuova droga
di Raffaella De Santis


“Sono stata censurata e mi paragonano ad Anna Politkovskaja: ma non è giusto” “È una sostanza che lascia sulla pelle squamature come quelle di un coccodrillo”

I PROTAGONISTI di Krokodil sono tutti morti. Uccisi da una droga sintetica che non lascia scampo. Quando Marina Achmedova li ha incontrati per la prima volta, due anni fa, erano tossici da pochi mesi ma già ridotti molto male, con il corpo pieno di piaghe e le ossa marce. Si aggiravano nella periferia della città siberiana di Ekaterinburg in cerca di una dose.
Achmedova aveva trentacinque anni ed era lì per realizzare un reportage da pubblicare sulla rivista Russky Reporter. Era il 2012 e il krokodil era ancora una leggenda dai contorni confusi. Dopo anni passati nel Caucaso tra i guerriglieri ceceni, Marina decide allora di andare e vedere con i suoi occhi. Vive insieme ai tossici, li accompagna in farmacia, assiste alla preparazione della droga, li guarda bucarsi, azzuffarsi tra loro.
Pubblica il suo reportage e dopo poco arriva la censura. Lei non si arrende e decide di scriverci un romanzo (in Italia lo ha pubblicato Meridiano Zero, pagg. 286, euro 16). Capelli sciolti sulle spalle, unghie laccate di rosso, vestito di velluto a fiorellini, Achmedova ha un’aria sorridente e impassibile, femminile e determinata.
Che cos’è il krokodil?
«È una delle droghe più pericolose in circolazione. Si ottiene mescolando codeina (una sostanza contenuta anche nelle pastiglie per il raffreddore), tintura di iodio, benzene, fosforo rosso e collirio, ingredienti perlopiù acquistabili in farmacia. Basta avere un fornello da cucina e si prepara artigianalmente. Si muore dopo circa un anno e mezzo dalla prima iniezione. Nessuno è mai riuscito a disintossicarsi. In termini medici si chiama desomorfina, ma è detta krokodil perché lascia sulla pelle cicatrici purulente e squamature simili a quelle del coccodrillo».
In Russia sta uccidendo migliaia di giovani, ora sta arrivando in Europa. È una droga delle classi più povere o anche del ceto medio?
«È diffusa tra gli strati più poveri della popolazione. Prima c’era l’alcol, oggi le droghe sintetiche prodotte in modo artigianale e dunque poco costose. Mosca è piena di spacciatori fuori dalle scuole o dalle metropolitane ma non esistono statistiche ufficiali».
I tossici del suo romanzo sono “bambini della perestrojka”, nati negli anni Ottanta e cresciuti in epoca post-comunista: cosa non ha funzionato?
«Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica si è aperto un periodo molto difficile: deficit economico, povertà diffusa. I negozi erano vuoti, bisognava comprare il pane con i tagliandi. Dominava una sensazione di perdizione. I più anziani cominciarono allora a rimpiangere l’Urss, a provare nostalgia dei vecchi ideali. Avevano creduto al cliché del “futuro radioso” e si ritrovavano col vuoto».
La droga non è il solo problema della Russia di oggi. Lei ha scritto romanzi e reportage sul Caucaso e sull’Ucraina.
«Anche i conflitti nel Caucaso possono essere letti come reazione al vuoto creatosi dopo la fine dell’Urss. Non giustifico il terrorismo, ma il radicalismo e l’islamismo hanno fornito nuove certezze. Sono salita sui camion dei soldati, sono andata all’obitorio a riconoscere i cadaveri, ho parlato con le famiglie delle vittime. Un giorno ho visto una scena tremenda : per stanare un ragazzo asserragliato in una casa le forze speciali di polizia hanno portato lì la madre di modo che pregasse il figlio di uscire. Il figlio è comparso alla finestra e le ha detto: “Mamma non offenderti ma non esco”. I poliziotti hanno sparato uccidendolo. L’ultimo anno della mia vita l’ho vissuto in Ucraina, raccogliendo le storie della gente, cercando di mostrare la sofferenza che c’è su entrambi i fronti».
La paragonano ad Anna Politkovskaja, ha paura per la sua vita?
«Non posso essere paragonata a lei, non è giusto. Sono andata in Cecenia e nel Dagestan in un momento in cui i rischi erano minori, non c’era una guerra. Non voglio morire, sto molto attenta a non espormi a pericoli eccessivi».
I suoi romanzi partono da inchieste giornalistiche. Perché scegliere di trasformare un articolo in un racconto?
«La letteratura costruisce ponti, aiuta a comprendere aspetti della realtà a volte sgradevoli, avvicinandoli ai lettori. Dopo aver letto Krokodil non credo che nessuno pensi più ai tossicodipendenti come reietti ma come esseri umani».
Perché il reportage è stato censurato?
«È stato detto che facevo propaganda alla droga, che fornivo indicazioni per fare in casa il krokodil ma la ricetta si può trovare anche via internet. C’è stato un processo, l’ho perso. Nello stesso anno però ho vinto il premio Iskra ( la scintilla) per il miglior reportage dell’anno su carta stampata. Alla premiazione erano presenti anche i funzionari dell’ufficio di censura. Poi ho deciso di scrivere il romanzo. C’è stato un altro richiamo della censura, questa volta per il linguaggio usato, troppo scurrile. Il libro in Russia è vietato ai minori di 18 anni e viene venduto incartato nel cellophane».
Il prossimo progetto sarà ancora a contenuto sociale?
«Sto lavorando a un libro intitolato I demoni, la storia di una vecchia strega che viene allontanata dagli abitanti del suo villaggio. Voglio raccontare l’Ucraina attraverso le antiche credenze popolari».
Come mai lo stesso titolo di Dostoevskij?
«Non è un riferimento preciso. Piuttosto ho guardato a Gogol. Sono nata nella notte tra il 10 e l’11 febbraio, la notte nella quale Gogol ha bruciato tutti i suoi manoscritti. Mi piace pensare di avere un legame con lui».
Da giornalista si sente libera nella Russia di Putin?
«Abbiamo giornali governativi e giornali liberali, in cui è possibile criticare il potere. Non potrei mai lavorare in televisione perché è controllata dal governo. È la tv ad aver costruito il personaggio Putin. Per i russi Putin è l’uomo che risolve le situazioni, quello che nei vecchi condomini sovietici era il capo cortile, l’uomo che non tradiva e non si può tradire, quello di cui ci si fida. Anche gli insorti del Donbass hanno agito con la convinzione che Putin sarebbe venuto in loro soccorso».
È vero che ha sognato Putin come un’oca gigante in frack che volava in cielo?
«È un personaggio molto popolare, è normale che appaia in sogno a una donna (ride, ndr ). Il sogno è avvenuto tempo fa. Dopo alcuni anni è successo davvero. C‘è un video nel quale si vede Putin volare col deltaplano facendo l’addestratore di piccoli aironi».

IL LIBRO Krokodil di Marina Achmedova ( Meridiano Zero, pagg. 286, euro 16)

La Stampa 29.12.14
Per sempre qualcun altro. Le mille vite di Pessoa
Esce la biografia dello scrittore portoghese firmata dal poeta spagnolo Ángel Crespo
Il libro contraddice la vulgata che lo vuole solitario e isolato nel suo Paese
Un’ esistenza “plurale” tra esoterismo e personalità scisse
di Andrea Colombo


«Prima sorprende. Poi si manda giù». Lo slogan pubblicitario, coniato da Fernando Pessoa per la Coca Cola nel 1925, non ebbe molta fortuna. Preoccupati del fatto che la bevanda potesse avere effetti «stupefacenti» i burocrati del ministero della Sanità portoghese la misero al bando. Per colpa dell’infelice battuta del poeta portoghese la bibita gassata sarà introdotta nel Paese solo negli Anni Settanta del secolo scorso. Lo slogan sfortunato è solamente una delle tante disavventure (commerciali, politiche, letterarie) che segnarono la sua vita, puntualmente riportati nella monumentale biografia scritta dal poeta spagnolo Ángel Crespo nel 1988 e appena ripubblica da Bietti (La vita plurale di Fernando Pessoa, con molte note che aggiornano il testo a cura di Brunello N. De Cusatis, pp 600, € 26).
Tra i vari aneddoti e vicende che hanno contraddistinto la vita di Pessoa emerge un ritratto di un personaggio lontano da quello che la vulgata in Italia ha voluto far credere: il poeta non era un emarginato, con tendenze omosessuali, costretto a lavorare in oscuri uffici commerciali, un frustrato dalla personalità scissa che nascondeva i suoi scritti in un baule. Al contrario, Pessoa era ben inserito nei circoli culturali di Lisbona e agiva da protagonista nelle polemiche letterarie e politiche del suo tempo. Inoltre era fidanzato con Ofélia de Queiroz, diresse riviste, pubblicò innumerevoli articoli, poesie, saggi, sia con il suo nome, sia con i celebri eteronomi, il vertiginoso gioco letterario di costruzione di personaggi di fantasia che davano voce ai tanti aspetti di questa complessa e contraddittoria personalità. Certo fu un animo inquieto, divorato dall’alcolismo (morì infatti di cirrosi epatica nel 1935 a 47 anni): ma il suo spirito curioso lo portò ad occuparsi dei più svariati argomenti: dall’esoterismo all’economia, dalla politica alla pubblicità appunto.
Fernando Pessoa nasce a Lisbona nel 1888 ma ben presto si trasferisce in Sud Africa dove, con la madre, trascorre gran parte della gioventù e dell’adolescenza. Cresce quindi nella colonia britannica. Rimarrà sempre legato alla cultura anglosassone. Grazie alle sue conoscenze linguistiche e internazionali intraprende la carriera commerciale: non fu certo un semplice impiegato bensì un imprenditore dalle alterne fortune.
Dopo il Sud Africa
Tornato in Portogallo il giovane Pessoa si getta subito nella mischia dei salotti letterari scossi dall’eco delle avanguardie europee (futurismo in testa) che negli Anni Dieci del ’900 infiammano l’Europa. Crespo lo descrive come un cordiale, seppure eccentrico, giovane scrittore, assiduo frequentatore dei bar del centro di Lisbona. Nel 1912 con una serie di articoli apparsi sulla rivista A Águia abbraccia il saudosismo (da saudade, lo stato d’animo nostalgico tipico dei portoghesi), corrente poetica a cavallo tra tardo romanticismo e simbolismo.
Il secondo Camões
Pessoa sognava un «rinascimento straordinario, un risorgimento stupefacente» che avrebbe rinnovato il Portogallo, in concomitanza con la «prossima apparizione di un supra-Camões». Luis Vaz de Camões era il poeta che, nel XVI secolo, cantò le gesta eroiche di Vasco da Gama: una sua «seconda venuta» aveva per Pessoa il sapore messianico delle grandi opere alchemiche trasfigurate a livello letterario-politico. Il 1915 è l’anno in cui vede la luce la sua rivista, Orpheu. Scrive inoltre una Teoria della repubblica aristocratica: rigetta la democrazia basata su maggioranze «necessariamente ignoranti e incolte» e sposa l’idea tecnocratica dell’«accesso al potere degli uomini più competenti a esercitarlo». E’ «l’oligarchia dei migliori». Nello stesso periodo però scrive: «Non ho principi. Oggi difendo una cosa e domani un’altra. Giocare con le idee e con i sentimenti mi è sempre parso il destino più bello». Così si definisce «creatore di anarchie. L’intelligenza disintegra e l’analisi intristisce». Non a caso le sue idee politiche mutano in continuazione: negli anni Venti difende la dittatura militare con un pamphlet (che poi rinnegherà), poco dopo si schiera contro il regime fascista nascente di Salazar. Tutti i suoi scritti suscitano un’enorme eco, sulla stampa e nei palazzi del potere, e non solo in Portogallo. Pessoa si diverte infatti a provocare reazioni, e così in varie testate pubblica ora articoli in cui ridicolizza i monarchici, ora interventi in cui se la prende con i tassisti. Sarebbe vano trovare una linea comune nei suoi scritti.
L’occultismo
Persino la sua passione per l’occultismo è attraversata da dubbi e ripensamenti. Oppure, come nella frammentazione della personalità dei suoi eteronimi, anche i misteri del sovrannaturale rientrano nel gioco della sua «vita plurale». Forse deve alla sua lontana origine ebraica l’interesse per la Cabala e l’esoterismo. E così tutte le sue riflessioni su un ipotetico (e molto immaginario) rinascimento portoghese sono intrecciate con elementi alchemici, magici, religiosi, messianici: il risultato è un bizzarro nazionalismo mistico. Il suo esoterismo si sviluppa al di fuori delle conventicole teosofiche o massoniche. Anche in questo Pessoa si mantiene fedele al suo multiforme individualismo: strutturalmente incapace quindi di prendere parte a un’organizzazione, sia pure eterodossa e iniziatica. Pure nel suo incontro con Aleister Crowley, nume del satanismo moderno, avvenuto nel settembre del 1930, mantiene il suo britannico distacco. Accolse il gran maestro della Golden Dawn, in fuga dai creditori, tra lo spaventato e il divertito.
Pessoa d’altronde include nel suo mondo molteplici credenze: si definisce, di volta in volta, neo pagano, cristiano gnostico, ebreo errante alla perenne ricerca di una verità che non riesce ad afferrare, tanto che fa dire a uno dei suoi eteronimi, l’ingegnere navale Álvaro de Campos: «Non mi si parli di morale! Portatemi via di qui la metafisica! Se avete la verità, tenetevela!». Mentre al filosofo razionalista e classicista António Mora, un’altra creatura prediletta della sua natura «moltiplicata», fa scrivere: «Gli dèi non sono morti: quel che è morto è la visione che abbiamo di loro. Non se ne sono andati: abbiamo smessi di vederli».
Con i grandi
Pessoa muore cieco il 30 novembre 1935. I suoi resti verranno traslati 50 anni dopo nel Cemitério dos Prazeres al Mosteiro dos Jerònimos, la cui chiesa ospita le tombe di Vasco de Gama e del vate Camões. Scrive Crespo: «I resti di Fernando furono deposti in un tumulo, in cui figurano, accanto al suo, i nomi degli eteronimi Caeiro, Reis e Campos, a testimonianza della magica pluralità della sua vita».

Corriere 29.12.14
Lungo i confini della sensibilità, la bellezza incontra le tecnologie
di Gillo Dorfles


Quando nel 1952 mi fu possibile pubblicare il mio primo libro di estetica Discorso tecnico delle arti (editore Nistri Lischi), appoggiato e presentato da Francesco Flora, il grande letterato tra i primi discepoli di Benedetto Croce, rimasi sorpreso dell’interesse per il mio lavoro da parte dell’ambiente filosofico, ma anche sorpreso dalle accuse di aver voluto accostare tecnica ed estetica, di solito completamente in contrasto con la dottrina, allora imperante di Croce. E infatti, mentre «Don Benedetto» mi scriveva una gentile letterina per complimentarsi per il mio lavoro, egli stesso ebbe a lamentarsi con Flora per aver scritto la prefazione a un testo del tutto in contrasto con il suo pensiero.
Ho creduto opportuno di riferirmi a questo — del resto involontario — episodio autobiografico come preambolo all’attuale pubblicazione di un interessante e vivace saggio di Pietro Montani Tecnologie della sensibilità (Raffaello Cortina), nel quale appaiono diversi elementi non lontani dalla prima impostazione del mio pensiero estetologico. L’autore infatti parte soprattutto da un’analisi della sensibilità umana sottoposta com’è a una serie di tecnologie, vuoi scientifiche, filosofiche o epistemologiche, ma che comunque attestano della indispensabile coesistenza di una estetica in parte unita alla tecnica, ma comunque sottoposta all’interazione con l’immaginazione dell’uomo.
L’autore riconduce soprattutto a due fattori essenziali la situazione comunicativa attuale e precisamente a quelle che definisce una augmented reality («realtà aumentata», in sigla Ar) e una wearable technology («tecnologia indossabile», Wt). Questi due parametri costituiscono la base di quel processo immaginativo che non può non rientrare nel campo dell’estetica; mentre tutto ciò che ha a che fare con la tecnica viene a essere sottoposto a un elemento di personale sensibilità e finisce perciò ad allentare il processo tecnico, facendo sì che quello tecnologico possa alle volte avere il sopravvento.
L’autore afferma: «Ho scritto che la sensibilità umana è interfacciata con l’immaginazione; e che quest’ultima è correlata in modo peculiare con il linguaggio». Ecco, dunque come l’interferire e l’interagire della sensibilità con la tecnologia e l’uso costante del linguaggio sono in certo senso i responsabili delle nostre capacità interlocutorie. Venendo poi ai due parametri dianzi accennati è facile rendersi conto che «la Ar è potenzialmente in grado di trasformare in modo sostanziale la così detta realtà virtuale». Mentre la Wt è in certo senso traducibile in quella che definirei la indossabilità imaginifica. A questo punto non possiamo tralasciare di tener conto della aumentata capacità introspettiva, legata com’è, non solo all’avvento dei mezzi elettronici e della loro infinita utilizzazione, ma anche al fatto che la nostra esistenza, nelle diverse branche della conoscenza e della coscienza, sia sostenuta in maniera essenziale dai nuovi ritrovati tecnologici e dalle inedite possibilità rappresentative oltre che immaginative rispetto al passato. Anche il fenomeno che ho tradotto come indossabilità è qualcosa di assolutamente legato ai nuovi mezzi elettronici. E non c’è dubbio che questo fondamentale evento sia alla base della nuova forma di immaginazione e interdipendenza.
Non è tuttavia sufficiente basarsi sui vecchi parametri tecnologici o estetici: l’interrelazione tra fattori provenienti dall’ambiente tecnologico e quelli da una situazione attuale più sottoposta alla immaginazione, concorrono nella compiuta interdipendenza dei diversi fattori della nostra mentalità. Per quanto riguarda inoltre la Wt è stato reso possibile quello che la nuda creatività dell’uomo non avrebbe potuto mai assolvere. Mentre i mezzi tecnologici e soprattutto elettronici permettono all’individuo di portare con sé quegli ordigni che gli permettono di essere costantemente aperto alle nuove informazioni tecniche oltre che estetiche.
Naturalmente l’utilizzazione dei mezzi tecnologici — Wt e Ar —, sia quelli provenienti dal passato sia quelli di nuova acquisizione, non sarà mai sufficiente a determinare la presenza di una realtà estetica, per la quale sarà sempre necessario l’interagire della propria sensibilità con la carica imaginifica, per poter valutare a pieno e naturalmente costruire ex novo un elemento che possa essere considerato come interattivo tra estetica e tecnologia.

Il libro : Pietro Montani, «Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva», Raffaello Cortina Editore, pagine 104, € 12,50

Repubblica 29.12.14
La pillola del sapere
Inghiottire la conoscenza come un farmaco. Solo fantascienza? Forse no
Tra corsi digitali regolati da algoritmi, lezioni senza professori e test in “outsourcing” l’istruzione è già al centro di una nuova rivoluzione
di Riccardo Staglianò


LA campanella di “Roboprof” suona per noi. Se le classi del futuro saranno sempre più online non ci saranno problemi di capienza. Ognuno, da casa sua, potrà affollare le aule virtuali dei docenti migliori. Ma a quel punto, per correggere i 160 mila compiti di chi ha seguito via web le sue lezioni di informatica, il pur leggendario Sebastian Thrun non poteva bastare. Così, per i test a risposta multipla, sono scesi in campo i suoi assistenti algoritmici. Per quelli a risposta aperta la correzione è stata invece datain outsourcingad altri studenti convinti che, complice Wikipedia, la media di tanti occhi amatoriali equivalgano a quelli di un singolo esperto. Questo mix di automazione e intelligenza collettiva è la novità essenziale dei mooc, i “massive open online courses” che da un paio di anni vengono annunciati come il democratico e radioso avvenire dell’apprendimento. Sino a quando lo stesso Thrun, fondatore di Udacity nonché ideatore delle auto senza pilota di Google, ci ha ripensato: «Mi sono reso conto che non istruivamo le persone come avrei voluto. E fornivamo un prodotto scadente» ha dichiarato in un’intervista-abiura a Fast Company. Tuttavia un recente studio di ricercatori del Mit, Harvard e della cinese Tsinghua University assicura che i risultati di chi ha seguito un corso online o tradizionale sono sostanzialmente identici. Ha dunque senso includere, tra i buoni propositi per il nuovo anno, l’iscrizione a uno delle migliaia di corsi gratuiti che pullulano in rete?
Alla domanda su come apprenderemo tra dieci anni il tecnologo Nicholas Negroponte ha risposto a Repubblicacon una delle suggestive iperboli che l’hanno reso famoso: «Magari con una pillola che rilascerà la conoscenza». Quello che il fondatore del Media Lab intendeva dire è che bisogna essere laici rispetto al supporto attraverso il quale il sapere sarà trasmesso. E che ciò che ci sembra nuovo oggi, domani potrà sembrarci vecchissimo. Incluso il dibattito sui mooc. «Così come l’università di Bologna esisteva 800 anni fa — dice Kevin Carey della New America Foundation — sono fiducioso che esisterà anche nei prossimi 800. Ciononostante gli atenei non hanno più il monopolio del sapere e i migliori saranno quelli che si avvantaggeranno delle tecnologie più sofisticate, comprese realtà virtuale e intelligenza artificiale, per connettere studenti ad altri studenti in comunità di apprendimento online». Nel suo imminente libro The End of College, Carey racconta di due corsi che ha seguito via web: introduzione alla filosofia (sulla piattaforma Coursera) e introduzione alla biologia (su edX). Il primo era un’infarinatura che richiedeva un paio di ore di studio alla settimana, il secondo un massacro da almeno 15 ore per 15 settimane («la cosa più difficile mai studiata dai tempi della mia tesi di dottorato »). Entrambi mooc, ma diversissimi. E quando Carey è andato a seguire dal vivo la medesima lezione di biologia ha rimpianto il “tasto pausa” con cui fermare i video e ripeterli sino a quando il concetto non fosse chiaro, il programmino con cui “creare” le proteine e una sedia comoda e un computer dove prendere appunti.
Certo, gli sarebbe piaciuto parlare con il professor Eric Lander dopo la lezione, ma è un privilegio che il Mit riserva solo a una decina dei cento studenti che pagano 5000 dollari per questo accesso extra. Per il resto la versione elettronica ha funzionato bene e lui, che non faceva biologia dal liceo, ha passato l’esame con 87 su 100.
Se c’è una a non esserne sorpresa è Daphne Koller. Due anni fa ha lasciato l’insegnamento a Stanford per fondare Coursera con il collega Andrew Ng. Dieci milioni di iscritti dopo (a uno degli 834 corsi tenuti da 114 università) stenta a comprendere i termini della discussione. «Da subito il timore è stato che minacciassimo o volessimo rimpiazzare l’università tradizionale », ci dice via email da Moun- tain View. «Ma ciò non è avvenuto per un motivo semplice: solo il 15 per cento dei nostri studenti rientrano nell’età del college. Per il resto sono adulti che vogliono migliorare la loro carriera o ampliare i propri orizzonti ». Cita uno studio recente della Duke University per cui il 73 per cento delle aziende interpellate «giudica favorevolmente », ai fini di un’assunzione, il completamento di un corso mooc. «Di certo una laurea di quattro anni non basta più per una carriera lunga una vita» e i corsi on demand e a distanza sembrano la soluzione più realistica per gente che cerca di non essere disarcionata da quel rodeo feroce che è diventato il ciclo produttivo.
Vengono in mente i corsi di aggiornamento professionale, anche sul web, introdotti di recente in Italia. Tra le varie differenze, però, c’è il fatto che Coursera interrompe le video-lezioni ogni pochi minuti per assicurarsi che davanti allo schermo ci sia un essere umano che segua e capisca. Se non rispondi bene il filmato non riparte. Niente a che vedere con l’umiliante sagra dei test nostrani, spesso copiati da colleghi zelanti. Sulla necessità di un’istruzione permanente (solo il 5,7 per cento degli italiani partecipa a corsi di formazione contro il quasi 9 europeo) concorda lo psicologo Howard Gardner, celebre per aver demolito la validità scientifica del quoziente intellettivo. «Un biologo che non si aggiorna per tre mesi di fila oggi fatica a recuperare», risponde da Harvard dove è tra i direttori di Project Zero, un centro di ricerca sull’apprendimento: «La quantità di nuove informazioni cresce a un ritmo tale per cui molta della nostra istruzione dovrà essere auto-istruzione».
Se questo è il problema, non è detto che i moocsiano la soluzione. Intanto perché solo uno su dieci arriva in fondo ai corsi. La mancanza della retta, come sa chiunque abbia frequentato una palestra, affossa ogni determinazione. E poi non mancano neppure gli studi, come uno del 2013 su corsi online della San Jose State University, che testimoniano disastri. In uno, solo un quarto degli studenti passava l’esame finale, in un altro metà (entrambi risultati molto più bassi delle medie di chi studia nel campus). È proprio questo fiasco ad aver suggerito il mea culpa di Thrun: «Un mooc può essere una gran cosa per il 5 per cento superiore del corpo studentesco, ma non altrettanto per il restante 95». Servono motivazione e disciplina straordinarie per stare concentrati su una lezione solitaria quando milioni di alternative più divertenti sono a un clic di distanza. Ma torniamo da Gardner: «L’istruzione cambia molto lentamente. Non sarà disgregata nello stesso modo che è accaduto all’industria editoriale o musicale. Più apprendimento passerà attraverso canali digitali come i mooc, ma non sostituiranno le interazioni informali faccia a faccia».
È la paura che tutti vogliono esorcizzare. Compreso Andrew Ng, quando ero andato a trovarlo nella sede di Coursera, non lontana da Facebook: «Per quale motivo ricorda i suoi docenti? Certo non per come correggevano i compiti, ma per l’interazione, i consigli, le chiacchiere. Liberandoli dalla correzione avranno più tempo per quello». Però di quanti insegnanti si potrà fare a meno se lui da solo, con l’aiuto degli algoritmi, può servire 100 mila studenti? L’università di Roboprof potrebbe diventare un deserto con poche star e un esercito di software cultori della materia.

Repubblica 29.12.14
Lo psicologo
Ma il pensiero critico non si impara online
di Paolo Legrenzi

QUANDO un esperto riconosce un profumo, può non ricordarsi se lo ha già sentito, se è un misto di altri profumi che conosce già, oppure se ne ha letto una descrizione accurata. Per molte informazioni non è importante come ci arrivano, quale canale sensoriale attraversano. Sappiamo spesso di aver già sentito una storia: l’avevamo letta, avevamo visto un film, o ci era stata semplicemente raccontata? Esiste insomma un livello di elaborazione che prescinde dalle fonti sensoriali. Una volta memorizzato il senso dell’informazione, possiamo dimenticare come ci è arrivata. Potremmo dunque immaginare, con Negroponte, una pillola che, una volta ingoiata, rilascia conoscenza. Non è chiaro il processo con cui questo potrebbe avvenire, ma è certo che bisogna essere laici rispetto ai supporti. Basti pensare alle informazioni che si mescolano con il nostro cervello partendo da uno smartphone collegato alla rete. Un ragazzo non sa, alla fine, che cosa ha innescato cosa: è un sistema integrato e collettivo, dallo smartphone al suo sistema mente/cervello, dalla rete agli amici, e viceversa.
Forse una stimolazione elettronica di zone cerebrali specifiche, un elettroschock intelligente e benigno, volto a rilasciare conoscenze, è un’idea meno fantascientifica di una pillola, una sorta di drogadelsapere.In Arancia Meccanica, ilfilm-archetipodiStanley Kubrick, si immagina una serie di stimoli che modificano il cervello. Non necessariamente lo arricchiscono, c’è anche il “lavaggio del cervello”.
Poi c’è il confronto tra le varie forme di apprendimento. Per esempio, quando impariamo delle nozioni in classe e quando le impariamo tramite un corso online. Da un punto di vista cognitivo non c’è grande differenza. E tuttavia è molto più facile assimilare conoscenze in classe, seguendo un professore, che non da soli di fronte a un computer. Non è solo questione di forza di volontà. Imparare insieme è altra cosa, come quando si fa un viaggio in compagnia. Non facevamo forse i compiti a casa con gli amici? Quando si è studenti, le chiacchiere fuori dalla classe e le discussioni, magari accese, sono il mezzo più sicuro per imparare ad argomentare. Le informazioni oggi le troviamo su Google.
C’è un livello di elaborazione che prescinde dai contenuti, ed è questo livello che va controllato se vogliamo saggiare le potenzialità di uno studente. Negli anni ‘90 la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa m’incaricò di valutare le prove di selezione. Usai esercizi basati su prove di ragionamento. Capii che la soluzione di questi rompi-capo logici è correlata alla capacità di far bene nelle prove tradizionali. Ma si trattava di studenti eccezionali, già capaci di esercitare un pensiero logico-critico. Che poi è la precondizione per poterci aggiornare, incamerare nuove conoscenze, non semplici informazioni. Si potrebbero introdurre, fin dalla scuola dell’obbligo, degli esercizi facili, basati sugli esperimenti condotti dagli psicologi del pensiero, per insegnare forme elementari di argomentazione logica e critica.

Repubblica 29.12.14
La vita di Freud, l’inconscio in cerca di una biografia
Il saggio dello piscoanalista Adam Phillips uscito per la Yale University Press mette sul lettino le parole del maestro
di Massimo Ammaniti


LEGGENDO il titolo del libro Becoming Freud (Diventando Freud ; Yale University Press) del famoso psicoanalista inglese Adam Phillips ci si potrebbe aspettare una nuova biografia di Freud, sul suo periodo giovanile quando giunse a scoprire il mondo dell’inconscio. Ma questa aspettativa viene deliberatamente violata da Phillips che alla ricostruzione biografica preferisce un linguaggio suggestivo e ricco di immagini sul pensiero freudiano che sfida le nostre convinzioni, riproponendo in un altro contesto le violazioni dell’inconscio per le regole della ragione. Anche Freud, è Phillips a sostenerlo, era piuttosto dubbioso sul valore delle biografie e la sua stessa “Autobiografia” più che ripercorrere il suo cammino personale e professionale è un’“autoesposizione” come indicherebbe il titolo in tedesco del suo scritto.
Phillips va oltre, le biografie sono impossibili, come sarebbe impossibile la vita umana e il suo racconto nel mondo moderno. E la stessa psicoanalisi dovrebbe liberarci dalla sofferenza della biografia estirpando il nostro bisogno di ricorrere ad essa, infatti «l’inconscio non ha biografia». È un libro per certi versi irritante, ma anche accattivante perché che ci aiuta a rivalutare il profondo scetticismo di Freud al di là della sua costruzione teorica codificata, a volte addirittura dogmatica. È quello che fa dire a Freud che la sessualità non può essere normalizzata, perché è «una macchia debole…. nello sviluppo culturale». Le storie che ognuno si fa della propria vita sono state messe in discussione da Freud che ha mostrato come «siano ineluttabilmente determinate, ma anche totalmente indeterminate, sospinte da ripetizioni imprevedibili».
Più che una biografia di Freud Phillips vuol mettere in luce come la psicoanalisi sia stata un’invenzione di un uomo profondamente ambivalente, che voleva raggiungere la rispettabilità nella Vienna asburgica ma che allo stesso tempo rimaneva un outsider. Ed era questo che lo aveva spinto a scoprire e ad esplorare l’inconscio, che rappresentava il dramma centrale della sua vita personale e professionale. Questa attenzione per l’inconscio l’ha portato a fare le sue scoperte più importanti, fra cui la divisione del mondo psichico che può intervenire boicottando le decisioni e le intenzioni coscienti: si vuol crescere e allo stesso tempo non crescere, si desidera il piacere sessuale ma se ne ha paura. Raggiungere un sé unitario è un’illusione ed è questo che ostacola la stessa cura psicoanalitica, perché il paziente richiede un aiuto per essere curato, che poi si scontra col desiderio inconscio di non essere curato.

Repubblica 29.12.14
Beni culturali
Appello degli storici a Franceschini “Non penalizzate archivi e biblioteche”

Caro signor ministro, siamo preoccupati per lo stato d’abbandono di archivi e biblioteche. È il senso di una lettera-appello inviata a Dario Franceschini dai presidenti delle principali società di storici, la Sismed, la Sisem, la Sissco e la Sis. La lettera fa riferimento alla riforma del Mibact. Ma i problemi sono di lungo periodo: tagli di risorse, carenza di personale, orari ridotti, sezioni chiuse, spazi ridotti (caso esemplare l’Archivio centrale dello Stato a Roma), oneri dovuti all’affitto delle sedi. Gli storici chiedono, inoltre, che la riforma, concepita anche affinché i musei attirino risorse, «non penalizzi, direttamente o indirettamente, archivi e biblioteche che per loro natura non sono in grado di offrire ritorni economici dei servizi da loro offerti».