martedì 30 dicembre 2014

Corriere 30.12.14
Berlino chiede riforme Ma la «ribellione ellenica» spinge Merkel in difesa
di Francesco Daveri


BERLINO Se la Grecia prenderà una strada diversa da quella delle riforme, tutto diventerà «difficile». Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha usato questo aggettivo per commentare quanto è accaduto ad Atene, diffondendo una dichiarazione scritta soppesata con grande cura nel palazzo di Wilhelmstrasse. Ma, al di là delle parole, molto nette, scelte per ribadire che non esistono alternative al piano di tagli della spesa pubblica voluto dal governo guidato da Antonis Samaras, è evidente come la preoccupazione della leadership tedesca sia molto profonda.
È affiancata, questa preoccupazione, anche da un senso di disappunto per la scelta del premier ellenico di giocare una partita rischiosa, conclusasi per adesso con una sconfitta: non è stato possibile eleggere il nuovo presidente e il voto di gennaio, se sarà vinto dalla sinistra di Syriza, potrebbe avere effetti devastanti per la stessa stabilità della zona euro.
La caduta di Samaras — che porta con sé molti interrogativi sul futuro del programma portato avanti ad Atene sotto la pressione della troika — si è materializzata infatti meno di due settimane dopo il voto parlamentare tedesco sulla proroga di due mesi del programma di aiuti europei. In quella occasione lo stesso Schäuble non aveva risparmiato, intervenendo al Bundestag, gli elogi per i «significativi progressi» compiuti in Grecia nell’attuazione delle riforme. Qualche giorno prima, incontrando a Berlino il vice premier e ministro degli Esteri Evangelos Venizelos, il «vecchio leone» cristiano-democratico aveva espresso valutazioni altrettanto positive e aveva assicurato il suo interlocutore che la Grecia avrebbe potuto «contare sulla solidarietà europea e tedesca». Senza dimenticare, però, la richiesta di «proseguire i necessari sforzi».
Nell’ottica tedesca questa fiducia deve naturalmente avere una contropartita. Quindi è più che mai inevitabile ricordare, come ha fatto ieri Schäuble, che le elezioni non mutano gli accordi e che qualsiasi nuovo governo dovrà rispettare gli impegni presi con l’Unione europea, la Bce, e il Fondo monetario internazionale. Reazioni analoghe sono giunte da altri esponenti dell’Unione Cdu-Csu. «Gli accordi non sono negoziabili», ha dichiarato l’europarlamentare cristiano-sociale Markus Ferber, mentre il capogruppo cristiano-democratico nel Ppe, Herbert Reul, ha sottolineato i grandi pericoli di una vittoria della sinistra contraria alle scelte di austerità.
Questi segnali di allarme sono comprensibili anche per un’altra ragione. Al di là dei pericoli di contagio nell’eurozona (che alcuni commentatori tedeschi ricordano, chiamando in causa l’Italia), il riacutizzarsi della «malattia greca» può avere effetti pericolosi sulla stessa compattezza della maggioranza che sostiene Angela Merkel e sui difficili equilibri che la donna più potente del mondo è riuscita ad assicurare fino ad ora.
Nella Csu sono in molti infatti a pensare che la cancelliera abbia trascurato l’opinione pubblica moderata, lasciando spazio ad altri soggetti politici, come per esempio il partito anti-euro Alternative für Deutschland. E una Grecia che si ribella alla politica merkeliana di aiuti in cambio delle riforme può alimentare questi malumori o fornire rumorosi argomenti di propaganda ai nemici della solidarietà.
 

il Fatto 30.12.14
Atene vota contro l’Europa
di Giampiero Gramaglia


FALLISCE IL TENTATIVO DEL PREMIER SAMARAS DI ELEGGERE IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ALLE URNE IL 25 GENNAIO CON LA SINISTRA RADICALE IN TESTA. L’UE SPERA NEL GOVERNO DI UNITÀ

La Grecia non riesce a eleggere il presidente della Repubblica e torna al voto. Il candidato del governo, l’ex commissario europeo Stavros Dimas, il tecnico scelto dal premier conservatore Antonis Samaras, non ha ottenuto i 180 voti necessari, fermandosi a 168 preferenze: i “presente” (equivalenti a “no”) sono stati 132. Hanno votato contro, oltre a Syriza anche i deputati neonazisti di Chrysi Avgi (Alba Dorata), come ha fatto polemicamente notare Samaras.
Il Parlamento greco è così sciolto automaticamente, come prevede la Costituzione: si voterà il 25 gennaio. Un voto che potrebbe avere un altro protagonista a sinistra, oltre al leader di Syriza Alexis Tsipras: l’ex premier socialista George Papandreou si presenterà con una nuova formazione chiamata Change, con l’obiettivo di formare un governo d’unità nazionale. Gli ultimi sondaggi danno Syriza al 27%, Nea Dimokratia di Samaras al 23, Alba Dorata al 6, i comunisti del Kke al 5,5.
La reazione di Bruxelles alla notizia è calma e riflessiva. I responsabili dell’Unione paiono già votati a evitare una deriva politica anti-Ue e, soprattutto, anti-rigore, con discorsi accattivanti. Il commissario agli Affari economici e monetari Pier-re Moscovici, francese, socialista dice che è essenziale un forte impegno per realizzare “il necessario processo di riforme favorevoli alla crescita”, così che la Grecia possa “nuovamente prosperare nell’Eurozona”. La cosa buona è che la paralisi politica sarà relativamente breve, di qui al voto il 25 gennaio. E, dopo, i leader greci saranno forti e freschi del sostegno popolare per fare le loro scelte. Indietro, ma in rimonta, nei sondaggi, il premier Samaras gioca la carta europea: enfatizza il peso delle elezioni e si dichiara convinto che “prevarranno le forze europeiste che sostengono i cambiamenti strutturali necessari”. In questo momento, Bruxelles vota per lui piuttosto che per il suo antagonista Tsipras; ma un appoggio dell’Ue smaccato potrebbe rivelarsi controproducente. La Germania non fa però calcoli tattici. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble esorta la Grecia a tenere la barra dritta sulla rotta delle riforme economiche, invitando qualsiasi nuovo governo a proseguire l’azione dell’Esecutivo Samaras: “Le riforme rigorose stanno portando frutti, e non c’è alternativa. Continueremo ad aiutare la Grecia ad aiutare se stessa sul percorso delle riforme. Ma se prendono un’altra strada, farlo sarà difficile. Qualunque nuovo governo dovrà rispettare le intese già sottoscritte”. Più bastone che carota, e non c’è da sorprendersi.
La voce non europea della troika, il Fondo monetario internazionale, evita proclami politici e fa solo constatazioni tecniche: i negoziati sul piano di aiuti alla Grecia riprenderanno dopo le elezioni e la successiva formazione del nuovo governo. Non c’è fretta, rileva il portavoce Gerry Rice, perché la Grecia non ha immediata necessità d’un intervento finanziario.
COME SPESSO ACCADE, i mercati finanziari sono più nervosi e reattivi: la borsa di Atene sprofonda, trascinandosi dietro Milano e Madrid. Per Bruxelles, la prospettiva peggiore è quella di una prolungata instabilità politica greca, possibile se il partito di Tsipras vincesse, ma non riuscisse a formare un governo. I prestiti garantiti dalla troika in cambio delle riforme sarebbero compromessi, senza una controparte con cui negoziare.
“Mi sento d’escludere totalmente un effetto contagio per l’Italia: sono due Paesi diversi”, diceva ieri Renzi dando corpo, negandolo, al fantasma che tiene in ansia l’Unione. All’epilogo di un’incolore presidenza di turno il premier vuol essere rassicurante: “Siamo preoccupati come tutti nella zona euro. Ma ho la buona abitudine di non mettere il naso negli affari altrui. Da capo del governo lavorerò con Samaras finché sarà premier, poi con lui o con altri”. Ma quando Renzi aggiunge “Il nostro modello è la Germania, sono convinto che noi potremo fare meglio della Germania” esagera e alimenta l’inquietudine: vatti a fidare dell’Italia che ha alcuni fondamentali economici peggiori di quelli greci e un premier che le spara grosse.

il Fatto 30.12.14
“L’austerity è fallita, Syriza è il riscatto”
di Roberta Zunini


VIHAS, CARDIOLOGO: “SIAMO OTTIMISTI E FELICI, BASTA CON I PIANI DI SALVATAGGIO LEGATI ALLE RESTRIZIONI”

Che la Grecia sarebbe tornata alle urne anticipatamente, per la terza volta nel giro di due anni, era scontato da quando il secondo partito, la sinistra radicale ma non troppo di Alexis Tsipras, aveva fatto sapere tre settimane fa che non avrebbe mai votato alcun candidato alla presidenza della Repubblica. Il premier conservatore Antonis Samaras ha dovuto annunciare che l'attuale presidente della Repubblica scioglierà le Camere e si dovranno tenere nuove elezioni parlamentari il 25 gennaio. Questa è molto probabilmente la volta buona per il partito di sinistra che ha già vinto le elezioni europee grazie alla sua posizione anti austerity e a favore di una Europa solidale anziché inflessibile sui parametri economici e sulla rinegoziazione del debito. Si è preso tre giorni di riflessione, più che di vacanza, a Roma, il dottor Yorgos Vihas. È un cardiologo quarantacinquenne greco che lavora nel settore pubblico di mattina, mentre ogni pomeriggio, escluso quello della domenica, lo passa nella clinica sociale da lui fondata nella periferia di Atene e dove oggi lavorano come volontari cento medici. “Sono tentato di accettare l'offerta di candidatura per il Senato fattami dai dirigenti di Syriza perché vorrei che finisse questo lustro di tragedie. Syriza è l'unica speranza che ci rimane dopo il fallimento della politica di austerity portata avanti dal governo Samaras sotto dettatura della troika”. Il dilemma in cui si dibatte questo medico di Atene non è facile da dirimere. Il dottore, che passa il suo tempo libero a prodigarsi per curare e fornire medicine ai tanti greci che non godono più dell'assistenza sanitaria pubblica perché hanno perso il lavoro (in Grecia le tasse per la sanità sono agganciate alla busta paga e quindi chi non lavora da un anno non ha più diritto a essere assistito dallo Stato, ndr), a telefonare ai direttori degli ospedali per convincerli a curare anche chi è disoccupato e a “depositare” presso i tribunali internazionali l'accusa di tentato omicidio contro lo Stato greco che omette di soccorrere i propri cittadini, sa bene che l'ostruzionismo sarà crudele.
“IO SONO un tecnico, non conosco i trucchi della politica, e neanche mi interessano, resta il fatto che le leggi dobbiamo farle ma se l'opposizione ci farà gli sgambetti, per chi, come me, non è abituato a evitarli, rischia di buttare via tempo. E per me stare seduto in Parlamento senza risolvere per mesi ciò che è necessario fare in tempi brevi - avendo in più nella mente le immagini di tutti quelli che vengono a cercare aiuto da noi e dobbiamo mandare indietro perché non abbiamo medici e ambulatori sufficienti - potrebbe essere troppo doloroso”. Tsipras sostiene che un futuro di riscossa è appena iniziato: “Siamo ottimisti e felici. Con la volontà del nostro popolo tra pochi giorni i piani di salvataggio legati all’austerità saranno una cosa del passato”. L'Europa e il Fondo
Monetario invece hanno paura ma ci sono economisti che sperano nell'elezione di Tsipras a premier. Uno di questi è Yanis Varoufakis: “Spero che Syriza vinca le elezioni così che Atene possa avere un governo che per la prima volta dica la verità al potere europeo. Solo chi è contrario alla democrazia pensa che le elezioni siano un disastro e una minaccia al progresso - continua l’economista - la Borsa di Atene è crollata perché i recenti miglioramenti erano basati su una bolla gonfiata con mezzi politici, una bolla che ora sta evaporando dato che sembra improbabile un ritorno dell’attuale governo”. Ad Atene è in corso una tormenta di vento gelido. Per le 300 mila famiglie alle quali è stata tagliata la luce elettrica perché non sono più in grado di pagare la bolletta, ci saranno notti buie e gelide almeno fino al 25 gennaio.

il Fatto 30.12.14
La Troika già al lavoro: “Attenti a chi scegliete...”
di Marco Palombi


LA COMMISSIONE UE: “PARTITI E ELETTORI DEVONO PREFERIRE RIFORME E UNIONE“. BERLINO: “NON CAMBIA NIENTE, CHIUNQUE VINCA”. IL FMI: “TRATTATIVE SOSPESE”

Matteo Renzi, che è un ottimista di natura, esclude “totalmente un effetto contagio tra l’Italia e la Grecia”. A Bruxelles, Francoforte e Washington, dove sono meno inclini a lasciar fare al caso, invece hanno già cominciato a preoccuparsi: gentili greci, la democrazia è sacra e l’avete pure inventata voi, però insomma attenti a dove mettete la croce sulla scheda. Insomma, nel segreto dell’urna la Troika ti vede, Tsipras no. È il partito di sinistra Syriza infatti - in testa ai sondaggi con circa il 28% dei voti, circa 4 punti sopra Nuova Democrazia del premier Antonis Samaras - la principale preoccupazione della trimurti che da 5 anni governa Atene. Nell’attesa, ieri la Borsa ha lasciato per strada il 3,91% e lo spread è risalito verso quota 900.
UN BREVE RIASSUNTO. Il primo prestito alla Grecia, che rischiava il default, risale al 2010: il programma di salvataggio - pudicamente definito di “aiuti” pur trattandosi tecnicamente di prestiti al tasso del 5% e più - va avanti ancora oggi e il trio Ue, Fmi e Bce - garanti dei creditori internazionali - chiede ancora tagli di spesa per il 2015 da 2,5 miliardi. Questi i lusinghieri risultati finora: il Pil dal 2007 si è ridotto di un quarto (in Italia il crollo è del 9%), la disoccupazione viaggia sopra il 26%, il debito pubblico è passato dal 112% del 2008 all’attuale 175% (e nonostante un buy-back da 30 miliardi nel 2012). Nonostante questo sui giornali italiani si è più volte letto di una Grecia uscita dal tunnel della crisi e tornata a crescere: questo perché le stime preliminari indicano che il 2014 chiuderà con un +0,6% (ritmo di crescita col quale, giusto per capirci, i greci ci metterebbero cinquant’anni a tornare al livello di ricchezza del 2007). Non bastassero i numeri, c’è anche il fatto che la linea d’indirizzo della Troika ha spinto la Grecia ad aumentare le tasse e tagliare la spesa pubblica in modo selvaggio e rapidissimo: la sanità ne ha ovviamente fatto le spese, ma anche scuola e università, pensioni e dipendenti statali hanno sofferto le forbici dei “tecnici”. La società greca non si è solo impoverita, ma è diventata anche più ingiusta.
La trimurti Fmi, Ue, Bce non si accontenta di questo e nemmeno delle massicce privatizzazioni di cui si sono giovate grandi multinazionali straniere, ma impone anche aperture alla concorrenza dei mercati, ivi compresi quello dei servizi ex pubblici: nell’ultimo “Memorandum” (la lista delle richieste), la Troika chiede pure che i greci cambino per legge il modo in cui definiscono il latte fresco. Quello attuale, pur piacendo ai greci, impedisce ai grandi gruppi come quelli tedeschi di vendere il loro latte agli ateniesi: quei testoni non lo comprano perché è diverso da quello a cui sono abituati.
Adesso il buon governo dei creditori pare venuto a noia ai greci, che nei sondaggi premiano i partiti anti-austerità a sinistra come a destra. Syriza, in particolare, guida la corsa e il suo programma - pur essendo moderatissimo - preoccupa assai la Troika e chi sulla Grecia continua a guadagnare: l’uscita immediata dal programma di “aiuti”, la denuncia del Fiscal Compact e una conferenza per vedere se si può tagliare il debito dei paesi in crisi. Roba largamente irrealizzabile, persino velleitaria, ma che ha causato virginali brividi di terrore nei pezzi grossi della City invitati alla presentazione londinese alcune settimane fa: “Peggio del comunismo”, commentò al Financial Times Joerg Sponer, analista di Capital Group (un grande fondo d’investimento). Ieri, quando Samaras ha ufficializzato che si voterà il 25 gennaio, il “terrore bolscevico” è tornato a turbare i sonni della comunità finanziaria che lucra sulla crisi greca e dei suoi inviati in loco, la Troika appunto.
PER LA COMMISSIONE Ue ha parlato il titolare dell’Economia, Pierre Moscovici, e non poteva essere più chiaro: “Un forte impegno a favore dell’Europa e un ampio appoggio di leader ed elettori greci a favore di un necessario processo di riforma a favore della crescita saranno essenziali perché la Grecia prosperi di nuovo nell’area dell’euro”. Per i distratti, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha spiegato che se i greci vogliono divertirsi con le elezioni facciano pure, ma la cosa sarà senza effetti: “Le elezioni in Grecia non cambiano gli impegni del prossimo esecutivo, che dovrà rispettare quanto pattuito dal governo uscente”. Il Fondo monetario ha fatto sapere che le trattative sui nuovi tagli di spesa - in stallo da mesi - riprenderanno col nuovo governo e la Bce ha fatto trapelare apposita velina: “Tocca all’elettorato greco scegliere”, ma la Banca centrale “attende che siano le autorità elleniche a pronunciarsi sull’attuazione degli impegni richiesti dalla Troika”. Traduzione: gentili greci, la libertà di voto è sacra, ma non confondetela con quella di scelta.

La Stampa 30.12.14
Ma il piano di Tsipras è un’utopia
di Stefano Lepri


Oggi i principali creditori della Grecia siamo noi, cittadini degli altri Paesi dell’area euro. Se un nuovo governo greco decidesse di non pagare, a soffrirne le conseguenze non sarebbero potenti banche o speculatori misteriosi, ma gli Stati.
E quindi i contribuenti italiani, francesi, spagnoli, tedeschi.
Questo è l’effetto del programma di soccorso europeo deciso nel maggio 2010. I creditori privati sono stati già tosati al 75% con un accordo concluso nel corso del 2012. Del debito odierno oltre i tre quarti sono in mano a istituzioni pubbliche europee o al Fondo monetario internazionale.
In un calcolo grossolano, la Grecia deve 600 euro a ciascun cittadino degli altri 17 Paesi dell’unione monetaria. Gran parte del debito risale alle spese di governi formati dagli stessi partiti travolti dalla mancata elezione del presidente ieri. Nel governo che più truccò i conti, quello in carica nel 2009, l’attuale premier Antonis Samaràs era ministro della Cultura.
Da una parte gli Stati europei tengono a non perdere i soldi prestati. Dall’altra, si può comprendere che ai greci sia venuta voglia di liberarsi dei politici che li hanno sottoposti a una austerità feroce per pagare il conto delle loro elargizioni precedenti. Se però prevalessero le illusioni, il contrasto potrebbe degenerare.
Per l’Italia oggi la fortuna è che il caso greco attuale appare speciale, diversamente dal 2011; le possibilità di contagio sono limitate. Due degli altri Paesi sottoposti a programma di aiuti della «troika», Irlanda e Portogallo, ne sono usciti e si finanziano da soli; Cipro è piccola.
Solo per la Grecia il debito appare tuttora insostenibile. Qui ha mancato l’Europa, incapace di indicare un percorso futuro diverso dal rigorismo del «devono pagare tutto». E’ vero che il fardello nasce da scelte compiute ad Atene. Tuttavia a suo tempo Bruxelles aveva chiuso gli occhi, compreso l’allora presidente dell’eurogruppo Jean-Claude Juncker.
Un accordo per allungare le scadenze del debito sarebbe stato possibile dopo le elezioni tedesche del settembre 2013; invece si è passati di rinvio in rinvio, lamenta ad Atene chi teme il probabile trionfo elettorale della coalizione di estrema sinistra Sýriza.
Ma forse è opportuno che le carte vengano messe in tavola subito. Se riuscirà a diventare primo ministro, il leader di Sýriza Alexis Tsipras si dovrà accorgere che il suo programma è irrealizzabile. E’ legittimo che la sinistra chieda di distribuire meglio i sacrifici, risparmiando i più deboli; è bugiardo sostenere che nessun sacrificio sia necessario.
Perfino se in un impeto generoso i concittadini dell’area euro accettassero di pagare più tasse per condonare l’intero debito greco, non potrebbe sostenersi a lungo un Paese che al momento della crisi consumava 110 e produceva 100. Cancellando da un giorno all’altro l’austerità, come Tsipras promette, i conti con l’estero tornerebbero in deficit nonostante i successi del turismo.
Nell’eventuale negoziato occorreranno garanzie stringenti che la Grecia non riprenda a scialacquare. Né si potrà creare l’attesa che tutti i debiti possano essere ridiscussi, come chiede Podemos, in testa ai sondaggi elettorali in Spagna dove si voterà tra 11 mesi: il debito spagnolo è sostenibile e insieme troppo grande per scaricarlo altrove.
Perché l’euro sia vitale, occorre che ogni Paese membro (Germania compresa) sia governato senza portare danno agli altri. L’attuale assetto dell’Europa non fornisce strumenti validi; infogna invece in sterili scambi di accuse tra capitali o tra politici nazionali e istituzioni comunitarie, gonfia le forze estremiste. Speriamo che l’occasione sia buona per rendersene conto.

La Stampa 30.12.14
Il politologo Malkoutzis: “Decisivi i prossimi sei mesi Non usciremo dall’euro, nessuno lo ha mai pensato”
“Ma adesso l’opposizione dimostri di sapere governare”
di M. Ott.


La Grecia non uscirà dall’Euro ma adesso Tsipras deve saper dimostrare di essere un vero leader. Questo il parere di Nikos Malkoutzis, fondatore di Macropolis, l’osservatorio politico più accreditato del Paese.
Che Grecia uscirà dalle urne il 25 gennaio?
Certamente con Syriza primo partito, ma questo non equivale a garanzia di stabilità.
Perché?
Perché Alexis Tsipras dovrà prima dimostrare di sapere formare un governo stabile e di poi essere capace di rinegoziare con la troika dei creditori internazionali. Senza contare che il suo governo avrà anche il compito di eleggere il nuovo presidente della Repubblica.
È vero che le prossime votazioni prevedono tre soglie più basse, rispettivamente 180, 159 e 120 deputati, ma non sapendo quanti seggi riuscirà a conquistare il 25 gennaio Syriza, anche loro potrebbero avere problemi a raggiungere il numero legale.
Che idea si è fatto di Alexis Tsipras?
È un giovane politico sicuramente dotato di grande fiuto e buona capacità di comunicazione. Con Syriza ha fatto un ottimo lavoro. Ha creato una forza politica capace di smarcarsi sia dal vecchio partito socialista Pasok, sia dall’area più oltranzista della sinistra greca. È il suo momento ma non bisogna dimenticare che non ha alcuna esperienza di governo e che guidare un partito è cosa diversa dal guidare un esecutivo.
Quali sono stati i principali errori del premier Samaras?
Il più grosso è stato quello di tornare sui mercati finanziari lo scorso giugno dopo la sconfitta alle elezioni europee. Si è trattato di un gesto prematuro, avrebbe dovuto aspettare i primi sei mesi del 2015, e da molti è stato visto come la volontà di cercare consenso a tutti i costi. E poi ha sbagliato a candidare Stavros Dimas alla presidenza. Dimas è un burocrate di altissimo livello, ben visto a Bruxelles. Un candidato inappuntabile ma troppo vicino per storia politica al partito conservatore Nea Demokratia. Era chiaro che sarebbe finita così.
La Grecia rimarrà nell’Eurozona?
Credo di sì. I primi sei mesi del 2015 saranno molto delicati ma ce la faremo. Lo stesso Tsipras ha sempre detto che non intende abbandonare la moneta unica. Nessuna formazione politica greca di peso ha mai nemmeno pensato di uscire dall’Eurozona. [M. ott.]

La Stampa 30.12.14
Ecco come Berlino e la Bce trattano già con Tsipras
Il tedesco Asmussen prepara da tempo uno scenario con la sinistra al governo
di Tonia Mastrobuoni


Lo 007 della partita greca, racconta un’autorevole fonte tedesca, è un brillante economista di 48 anni dal sorriso gentile, con un master alla Bocconi e una reputazione da straordinario mediatore. È stato membro del comitato esecutivo della Bce ma anche consigliere del governo tedesco e viceministro delle Finanze, è uomo di fiducia sia di Mario Draghi, sia di Angela Merkel e Wolfgang Schäuble. In queste settimane di attesa ansiosa dell’ennesima tappa del dramma greco, forse il solo uomo che poteva tentare la «mission impossible», una triangolazione dietro le quinte tra Berlino-Francoforte-Atene per preparare il dopo-elezioni elleniche. Così Jörg Asmussen sta già incontrando in segreto i vertici del partito che uscirà probabilmente vincitore dalle urne: Syriza. L’attuale sottosegretario al Lavoro tedesco è volato ad Atene nelle scorse settimane, ma ha anche incontrato gli uomini di Tsipras a Berlino per cominciare a prefigurare uno scenario post-elettorale che non precipiti nuovamente l’Europa nell’incubo del 2012, quando si rischiò la fine dell’euro.
La campagna elettorale
Il punto è che la campagna elettorale greca sarà dura: il Paese è allo stremo e Tsipras ha costruito il suo consenso sulla promessa di porre fine al giogo imposto dalla troika. Inoltre, chiede ufficialmente una conferenza internazionale su modello di quella dell’inizio degli Anni 50 che abbonò i debiti anzitutto alla Germania, distrutta dalla guerra. Contrariamente a quanto riportato da innumerevoli cronache, il suo partito non ha mai chiesto di uscire dall’euro, né ha intenzione di fare colpi di testa, nel caso di vittoria elettorale.
«Troveremo un’intesa»
Anche ieri il suo portavoce, Niko Pappas, ha dichiarato al telefono da Atene che nel caso di un governo Tsipras, la Grecia «non prenderà decisioni unilaterali» e si è detto «sicuro» che «con l’Europa troveremo un’intesa che terrà conto dell’interesse di ambo le parti». È certo anche, ha aggiunto, «che non ci saranno più tagli» ma anche «che faremo riforme serie nella pubblica amministrazione e per attirare investitori stranieri avvieremo una seria lotta all’evasione fiscale». Gli stessi impegni che gli uomini di Tsipras stanno ripetendo alle fonti Ue con cui stanno segretamente dialogando, da Asmussen a un membro dell’attuale comitato esecutivo della Bce. Anche se Schäuble ha ribadito ieri che per la Germania «ogni nuovo governo deve attenersi agli accordi presi da quelli precedenti». E il commissario europeo agli Affari economici Moscovici ha sottolineato che «un forte impegno» di Atene per l’Europa resta «essenziale».
Il salario minimo
Finora, tuttavia, il punto dolente dell’agenda di Tsipras, che vuole tra l’altro reintrodurre il salario minimo e avviare politiche per stimolare la domanda, è che le sue promesse potrebbero risultare troppo costose per un Paese che ha attraversato sei anni di pesante recessione. D’altra parte, il tasso di crescita attuale è ancora troppo debole rispetto al servizio sull’immensa montagna di debito che la Grecia deve onorare. Ma la richiesta di un secondo taglio del debito ellenico (dopo quello imposto negli anni scorsi ai privati), che stavolta sarebbe soprattutto a carico dei partner europei e delle istituzioni internazionali come il Fmi e la Bce, è stato sempre respinto. Tuttavia la partita vera si giocherà su questo dossier, da febbraio in poi.
«Draghi è la chiave»
È altrettanto evidente che a questo punto l’ipotesi di un «quantitative easing» della Bce diventa più difficile, già a gennaio. Per i greci significherebbe un assegno in bianco, dal punto di vista non solo tedesco. Una fonte greca vicina al dossier giura però che «Draghi è la chiave» della questione ellenica. Anche perché una fetta di debito greco è in pancia a Francoforte. E l’italiano è l’altro mediatore fuoriclasse ai tavoli europei.

La Stampa 30.12.14
Alexis, l’ex idolo delle piazze ora deve accontentare la borghesia
L’ingegnere 37enne ha ereditato ormai gli elettori del Pasok
di T. Mas.


Ascesa Alexis Tsipras, ingegnere di 37 anni, nel giro di pochi anni è riuscito a coagulare le forze della sinistra e a portare il suo movimento dal 5% al 30% di cui è accreditato oggi Le sue idee hanno fatto scuola anche in diversi Paesi della Ue

A trentasette anni, Alexis Tsipras affronta non la prima, ma certamente la più difficile campagna elettorale della sua «resistibile ascesa», come l’avrebbe definita Brecht.
Ex leader delle piazze, a capo di un partito che all’inizio della grande crisi, quando era al 5%, era riuscito a riunire in una sola sigla, Syriza, la litigiosa galassia della sinistra radicale, deve riuscire in una duplice impresa. Ha ereditato nei durissimi anni della troika e dell’austerità milioni di voti fuorusciti dal Pasok: non può deludere le promesse fatte, principalmente la fine dei sacrifici chiesti dai precedenti governi - anzitutto proprio dal Pasok - ai greci.
Un problema non da poco, per il capo di Syriza: lo zoccolo duro di statali, lavoratori dipendenti e pensionati, tradizionalmente legati al partito fondato da Andreas Papandreou, si è trasferito armi e bagagli nell’ex formazione di sinistra radicale. Il travaso è evidente nei numeri: il Pasok è crollato dal 43% del 2009 al 6-7% attuale, viceversa Syriza è schizzata dalle percentuali «one-digit» di cinque anni fa al 30% e oltre dei sondaggi di queste settimane. Un numero che non rispecchia solo la rabbia dei giovani e delle piazze: è un terzo dell’elettorato greco.
Quindi, per Tsipras, il primo dilemma è che non può tradire quell’elettorato, cui sono state tagliate le buste paga e cui sono stati imposti pesanti aumenti delle tasse, ma che vivevano anche da molti anni al di sopra delle proprie possibilità. I salari greci, all’inizio della crisi, erano ai livelli di quelli spagnoli. E il sistema sociale e previdenziale erano e continuano ad essere troppo generosi per un Paese con una ricchezza e tassi di crescita modestissimi.
Insistendo molto sulla promessa di massacrare gli evasori fiscali, altra mostruosa piaga della Grecia, Tsipras parla proprio a quei dipendenti pubblici e privati che hanno oggettivamente sopportato più sacrifici di altri. E i precedenti governi, sull’evasione, sono stati effettivamente carenti.
La seconda impresa, per l’ingegnere trentasettenne, è quella più ardua: chiedere alla Ue che si fidi di Atene, che tagli il debito - che in pochi in realtà si illudono di vedere restituito - e sostenga un piano di rilancio dell’economia che al momento sembra solo costoso e fumoso. Fatto, appunto, per accontentare un elettorato stremato, non per spingere il Paese su un sentiero di riforme strutturali convincenti. Senza un notevole sforzo in più, su questo versante, è anche complicato che la Ue possa accettare persino di sedersi al tavolo. Ma alle elezioni manca un mese. E altri momenti della lunga crisi europea ci hanno insegnato che può essere un tempo lunghissimo.[t. mas.]

La Stampa 30.12.14
Renzi: «Escludo l’effetto contagio»
di A. B.


Altro che contagio greco, il benchmark dell’Italia è la Germania. Alla conferenza stampa di fine anno Renzi esorcizza così la domanda di chi vede rischi da una nuova crisi finanziaria innescata dal nuovo stallo politico ad Atene. «Mi sento di escludere totalmente un effetto contagio Italia-Grecia». Il premier se ne guarda però dal dare giudizi sul grande favorito delle elezioni Alexei Tsipras e sulla sua richiesta di rinegoziare il debito: «Ho la buona abitudine di non mettere il naso negli affari degli altri Paesi: in bocca al lupo a tutti i candidati. Quando arriveremo a lavorare con nuovo governo discuteremo con loro». Poi consulta il cellulare e fa notare che il rendimento dei Btp è in discesa: «Si tratta di due Paesi completamente diversi, l’Italia ha una grande manifattura e condizioni economiche decisamente positive. Ha un grande problema di debito, di mancanza di riforme e di crescita. Stiamo lavorando su queste questioni, sono convinto che il nostro obiettivo, con tutto il rispetto per la Grecia, non sia la similitudine con loro ma con la Germania. Il nostro obiettivo è fare meglio della Germania».

Repubblica 30.12.14
“Basta sacrifici e meno debito” Tsipras fa sognare gli elettori con l’Ue trattativa durissima
di ettore Livini


ATENE «Oggi è una giornata storica. Il futuro è iniziato e grazie al voto dei greci presto manderemo in archivio la parola austerità». Cinque anni fa Alexis Tsipras militava in un partito che raccattava a stento il 4,9% dei consensi. Oggi la sinistra di Syriza è in testa a tutti i sondaggi con 3-6 punti di vantaggio su Nea Demokratia il centrodestra del premier Antonis Samaras. E il 40enne che vuole rivoltare l’Europa come un calzino ha lanciato ieri sera in un bagno di folla al teatro Keramikos il programma elettorale e le parole d’ordine che potrebbero cambiare davvero la storia della Grecia e del Vecchio continente.
«L’Europa deve mettersi in testa una cosa. Quello che conta in democrazia è il voto. E il futuro del mio paese lo decideranno i miei concittadini e non i falchi dell’euro », ha esordito. Compito dei greci è scegliere «tra nuovi tagli e la Troika o la speranza». Il 25 gennaio, visto da questa sala che trabocca di passione, è già diventato una sorta di catarsi. «Oggi è l’inizio della fine di chi ha portato la Grecia nel baratro — assicura l’enfant prodige della sinistra europea ai militanti del partito — . Il bello è che il premier e i politici che hanno causato la crisi si presentano come i salvatori della patria dandoci lezioni di europeismo. Ridicolo, visto che arrivano da chi (leggi Samaras, ndr .) è passato in una notte da paladino del fronte anti-Troika a miglior amico di Ue, Bce e Fmi». Applausi.
La strada, lo ammette anche Tsipras in camicia bianca quasi renziana, «non è facile». Prima c’è da vincere le elezioni («ribalteremo i pronostici, la gente non vuol buttare alle ortiche cinque anni di sacrifici», ha detto ieri il presidente del Consiglio). Poi, soprattutto, c’è da cercare alleati per formare un governo e raggiungere in tempi brevissimi — entro fine febbraio — un’intesa con la Troika per sbloccare nuovi aiuti ed evitare il default. «C’è una sola cosa non negoziabile — è il mantra del leader di Syriza — . Noi vogliamo uscire dal memorandum senza nuovi tagli lacrime e sangue». Washington, Bruxelles e Francoforte devono mettersi il cuore in pace. I due miliardi di austerity pretesi in cambio dell’ultima tranche da sette miliardi di prestito resteranno secondo i piani di Tsipras un sogno. Anzi: «Syriza implementerà da subito il programma di Salonicco ». Tradotto: un ritocco all’insù delle pensioni più basse e dello stipendio minimo, elettricità gratis alle famiglie meno abbienti e nuovi investimenti pubblici. In soldoni, una sconfessione degli accordi già presi con la Troika che per il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble «vanno rispettati ».
Il braccio di ferro si preannuncia durissimo. Anche perché Syriza chiederà alla Ue un taglio sostanzioso del debito greco, fumo negli occhi per i rigoristi del Nord. Tsipras però ha teso loro ieri anche qualche piccolo ramoscello d’ulivo: «Teniamo alla stabilità del sistema bancario in Grecia e in Europa — ha spiegato—. Non usciremo dall’euro, non prenderemo decisioni unilaterali sul debito e non toccheremo i risparmi dei privati». Lotta senza quartiere invece agli evasori. «E’ un assurdo che Samaras chieda il voto a un ceto medio che ha spinto nella povertà massacrandolo di tasse e di tagli agli stipendi mentre non ha torto un capello ai ricchi che non pagano le tasse».
Clima molto pre-elettorale. Aperitivo di una campagna che si preannuncia virulenta e polarizzata e dove «il concetto di Grexit, l’uscita di Atene dall’euro in caso di vittoria di Syriza, sarà utilizzato da Nea Demokratia come arma impropria di terrorismo mediatico».
Gli ambienti europei sono convinti che al momento di sedersi al tavolo delle trattative i toni saranno meno accesi. E che Tsipras, imbrigliato anche dalla necessità di trovare alleati per varare un governo, abbasserà dopo il 25 gennaio l’asticella delle sue pretese. Il leader carismatico della sinistra ellenica promette invece battaglia: «Il vento in Europa è cambiato. Podemos è in testa ai sondaggi in Spagna. Ho ricevuto messaggi di solidarietà da Italia, Francia, Bolivia e persino dalla Germania». E nessuno, è la sua speranza, avrà il cuore di buttare la Grecia fuori dall’euro. Il finale, nello stile dell’oratore, è pirotecnico. «Samaras e Venizelos saranno buttati fuori dalle stanze del potere — ha concluso Tsipras — . Ma li diffido dal far sparire documenti ed e-mail firmati in questi anni. Specie quelli con la Troika. Li vogliamo vedere tutti uno a uno». Ovazione. Dalla sala e dalle strade intorno al Keramikos, intasate di gente che non ha trovato posto nel teatro. La campagna elettorale è iniziata.

Repubblica 30.12.14
Il conto della crisi che pagheremo noi
Anche se Atene restasse nell’euro e onorasse i propri debiti la crisi finirà per allungare i tempi del salvataggio e farne lievitare i costi
di Andrea Bonanni


COME andrà a finire questo ennesimo brutto pasticcio greco non è chiaro. Ma tre cose sono certe. La prima è che la sopravvivenza dell’euro questa volta non è in discussione.
LA SECONDA è che la brusca impennata dei titoli di debito emessi da Atene rende fin da ora impossibile una rapida uscita della Grecia dal regime di assistenza europeo, che pure il governo di Samaras avrebbe voluto accelerare. La terza è che il conto di questa crisi sarà in parte pagato, in un modo o nell’altro, dai risparmiatori e dai contribuenti europei.
I risparmiatori ne hanno avuto un assaggio con la sbandata delle Borse di ieri. I contribuenti pagheranno il prezzo più salato se il Paese, in seguito alla vittoria di Tsipras, dovesse dichiarare default, visto che la quasi totalità del debito greco è detenuta dalla Banca centrale europea e dal fondo salva-Stati finanziato con i soldi dei bilanci pubblici. Ma, anche se Atene restasse nell’euro e onorasse i propri debiti, la crisi finirà inevitabilmente per allungare i tempi del salvataggio e farne lievitare i costi.
La genesi di questo pasticcio nasce da una serie di scommesse azzardate che i politici greci hanno fatto sulla testa del loro popolo e dell’Europa. Il primo ministro uscente, Samaras, è andato allo scontro politico convinto che il timore delle elezioni anticipate avrebbe compattato i ranghi del Parlamento e consentito l’elezione del presidente della Repubblica. Calcolo sbagliato. Ora punta sulla paura di una crisi che potrebbe allontanare la Grecia dall’euro e dall’Europa per convincere gli elettori a votarlo e recuperare lo svantaggio che i sondaggi gli attribuiscono rispetto al suo rivale Tsipras.
Tsipras, a sua volta, gioca la carta dell’ambiguità. Da una parte proclama a gran voce che una sua vittoria significherebbe la fine dell’austerità e delle riforme impopolari imposte alla Grecia in cambio del salvataggio europeo. Dall’altra assicura di voler restare nella moneta unica pur senza rispettarne i vincoli, perché è convinto che alla fine Bruxelles e le altre capitali accetteranno le sue condizioni pur di non veder trasformati in carta straccia i titoli di debito che hanno acquistato per salvare il Paese dalla bancarotta. Ma anche queste scommesse, come quelle di Samaras, potrebbero rivelarsi sbagliate.
L’Europa, per ora, sta a guardare. Rispetto all’inverno di tre anni fa, quando la crisi greca minacciò di travolgere l’euro, questa volta Bruxelles è convinta di aver messo in circolazione anticorpi sufficienti per evitare il contagio. L’Irlanda, il Portogallo, la Spagna, sono usciti o stanno uscendo dalla fase di assistenza con una strut- tura economica rinforzata e conti pubblici più solidi. L’Italia ha tagliato il deficit che con Berlusconi l’aveva portata sotto procedura di infrazione e sta varando almeno in parte le riforme che l’Europa attende da molti anni. L’Unione si è dotata di strumenti per far fronte ad una eventuale crisi dei debiti sovrani e la Bce si appresta addirittura ad acquistare titoli di Stato per cercare di rilanciare l’economia. Le banche private non sono più esposte verso il debito greco come lo erano nell’inverno 2011-2012.
Le dimensioni economiche della Grecia, poi, non sono tali da poter compromettere la stabilità europea. I trecento miliardi di debito pubblico di Atene corrispondono grosso modo all’entità del «piano Juncker» per rilanciare gli investimenti. Anche lo scenario più catastrofico, cioè l’uscita della Grecia dalla moneta unica e un nuovo default del suo debito, avrebbe conseguenze drammatiche per il Paese ma potrebbe essere assorbito dall’Europa in modo relativamente indolore, anche se costoso.
Forte di queste certezze Bruxelles, per il momento, non mostra cedimenti. Le riforme concordate con la troika, dice la Commissione, spalleggiata da Berlino, vanno fatte comunque. Per il bene della Grecia più che per quello dell’Europa. In questa durezza, naturalmente, c’è anche il desiderio di mettere pressione sull’opinione pubblica greca, di drammatizzare il confronto e di smontare sul nascere il bluff di Tsipras, la cui vittoria sarebbe vista comunque come una iattura.
Il vero pericolo di contagio che viene dalla crisi greca, infatti, questa volta non è economico ma politico. Il successo di Grillo in Italia, di “Podemos” in Spagna, l’ascesa della Lega di Salvini ancora in Italia e di Marine Le Pen in Francia sono stati visti come segnali preoccupanti di un crescente risentimento popolare verso le misure di rigore economico decise a Bruxelles. Ora però, alle elezioni greche di fine gennaio, per la prima volta un partito anti-europeo e anti-austrerità ha concrete possibilità di vincere nelle urne e di prendere il potere rimettendo in discussione il tacito patto di solidarietà che finora ha legato tutti i governi alla difesa della moneta comune. Questo sì che potrebbe essere un esempio contagioso.
Ma proprio in ragione del pericolo politico che arriva da Atene, è assai improbabile che i governi europei decidano di fare concessioni alla Grecia in caso di vittoria di Tsipras. La posta in gioco è molto più alta dei trecento miliardi di debito greco. Se il contagio politico di Atene si estendesse a Madrid o a Roma, infatti, i miliardi di debito pubblico la cui solvibilità verrebbe messa in dubbio si conterebbero a migliaia. Per questo la scommessa di Tsipras rischia di scontrarsi contro un muro. Per l’Europa, a conti fatti, sarebbe preferibile abbandonare la Grecia al proprio difficile destino fuori dall’euro piuttosto di legittimare con qualche concessione una rivolta politica contro il rigore che, se si estendesse, segnerebbe la fine della moneta unica.

Repubblica 30.12.14
E per salvare la moneta unica la Bce e Berlino sono pronti a rivedere il Trattato europeo
di Federico Fubini


IN PRIVATO Jean-Claude Juncker va dicendo che quella che lui presiede è la Commissione europea «dell’ultima chance». Al suo piano di investimenti il lussemburghese ha dato un orizzonte di tre anni, perché è convinto che questo sia lo spazio rimasto all’euro per dimostrare di poter resistere alla prossima recessione. Non pensa di avere molto tempo di più: neanche ora che i governi più influenti e la stessa Bce, con discrezione, si preparano a rimettere mano al Trattato europeo nel 2015 per raddrizzare l’edificio della moneta unica.
Gli interventi dovrebbero toccare alcune delle innovazioni che i governi europei lanciarono due anni fa per fermare l’implosione del sistema, a partire dall’unione bancaria. La vigilanza sulle banche fu affidata alla Bce, ma ora rischia di entrare in conflitto con le scelte dell’Eurotower sui tassi d’interesse o la liquidità da offrire agli istituti stessi. Di qui l’idea — presente anche a Berlino — di creare un’autorità europea indipendente votata a sorvegliare gli istituti di credito. Come sempre però, quando i governi riaprono il Trattato che li lega, è facile capire da dove partiranno. Meno chiaro è fino a dove si spingeranno poi nel conferire a Bruxelles nuovi poteri sui bilanci pubblici, sul mercato del lavoro, le liberalizzazioni, la modernizzazione delle burocrazie o i sistemi di welfare.
Il 2015 promette di essere decisivo per capire se l’area euro può rafforzarsi andando avanti e avere un futuro, ma l’anno inizia da un nuovo terremoto con epicentro ad Atene. Syriza si sta avvicinando al potere in Grecia grazie alla promessa di ripudiare buona parte del debito verso gli altri Paesi europei. Non sarà una passeggiata. Nel 2015 Atene deve rimborsare agli investitori privati titoli per 16 miliardi di euro: se voltasse le spalle all’Europa e i creditori le tagliasse- ro i rifornimenti, il prossimo governo greco non avrebbe altra scelta che tornare a stampare moneta propria per continuare ad esistere. Sarebbe un segnale per tutti, Italia inclusa, che l’euro non è per sempre e il solo sospetto che la porta d’uscita si è aperta può bastare a far salire i tassi d’interesse verso livelli pericolosi.
Per questo il calendario del prossimo mese ricorda il percorso in un campo minato. Fra nove giorni il consiglio direttivo della Bce si riunisce per discutere se e cosa decidere all’incontro seguente, fissato tre giorni prima delle elezioni greche del 25 gennaio. Le ipotesi sul tavolo sono note: fra i 24 banchieri centrali al vertice dell’Eurotower c’è un’ampia maggioranza per iniettare nuova liquidità nell’economia lanciando un piano di acquisti di titoli di Stato da almeno 500 miliardi di euro. Senza interventi di questa taglia — probabilmente da raddoppiare o triplicare nei prossimi anni — l’Europa non può emergere dalla deflazione che ora sta aumentando in modo insostenibile il peso dei debiti pubblici e privati in tutta l’area.
Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, è contrario: per lui mettere sul bilancio della Bce titoli di Stato di Roma, Madrid o Lisbona significa esporre la Germania a perdite se quei Paesi facessero default, perché la Bundesbank è azionista dell’Eurotower per circa il 30% del capitale. Di qui i dilemmi di Draghi e il percorso di guerra che gli si presenta nelle prossime quattro settimane. La pressione per varare gli interventi sui titoli di Stato prima delle elezioni greche è massima, perché l’euro ha bisogno di una nuova rete di sicurezza prima che da Atene arrivino nuove scosse. La banca centrale può sempre decidere di escludere la carta greca dagli acquisti, fino a quando il nuovo governo non deciderà se continuare o meno il programma di assistenza europea.
Anche così, per Draghi resta tutt’altro che facile mettere in minoranza la Bundesbank e obbligare la Germania — contro la sua volontà — a farsi carico tramite la Bce del rischio su centinaia di miliardi di debito italiano, portoghese o spagnolo. Ancora meno lo è mentre un governo del Sud Europa annuncia il suo rifiuto a ripagare i prestiti ricevuti.
Weidmann ha suggerito che può accettare un compromesso, anticipato su «Repubblica» il 4 dicembre: ciascuna banca centrale nazionale terrebbe su di sé tutto il rischio di insolvenza sui titoli del proprio Stato. Il rischio sui Btp del Tesoro di Roma comprati dalla Bce sarebbe concentrato tutto sulla Banca d’Italia, quello sui Bonos alla Banca di Spagna, e così via. Anche questa ipotesi però ha controindicazioni, perché può segnare un cambio profondo nella natura delle istituzioni europee. Oggi il 34% del debito italiano (circa 620 miliardi) è in mano a investitori esteri, ma questi ultimi finirebbero per vendere rapidamente alla Bce i loro titoli del Tesoro, la quale a sua volta li trasferirebbe alla sola Banca d’Italia. In poco tempo il rischio del debito italiano finirebbe concentrato tutto entro i confini del Paese, l’Italia sarebbe finanziariamente separata dal resto d’Europa più di 20 anni fa e l’unione monetaria somiglierebbe sempre di più a un gruppo di Paesi con cambi fissi, ma in attesa di andare ciascuno per la sua strada. Con o senza insolvenza pilotata sul debito, a carico unicamente dei risparmiatori e contribuenti nazionali. Non il modo migliore di iniziare l’anno che, finalmente, dovrebbe dare all’euro un futuro migliore.

Repubblica 30.12.14
La variabile Grecia rischia di frenare l’ottimismo di Palazzo Chigi
Il maledetto gennaio che bussa alla porta del premier
D’ora in poi i mercati sorveglieranno ogni mossa di Roma
Non convince la reticenza di Renzi sul futuro del Quirinale
di Stefano Folli


LA FRASE chiave nella conferenza stampa del presidente del Consiglio non riguarda il «ritmo della politica» nel 2015 o il tentativo di cambiare «l’umore degli italiani». E forse nemmeno la complessa spiegazione del motivo per cui la riforma del lavoro non si applica per ora ai dipendenti statali. La frase più significativa è quella in cui Renzi si dice convinto che «non ci sarà alcun contagio fra Grecia e Italia». È qui il vero scoglio di inizio 2015. E quello del premier è un auspicio, un modo per farsi coraggio: non può essere un’assoluta certezza.
I mercati per adesso sembrano condividere almeno in parte l’ottimismo di Palazzo Chigi. La corsa di Atene verso elezioni anticipate in cui il super-favorito è Tsipras, con il suo programma anti-austerità e anti-Merkel, non ha provocato lo sconquasso immediato che molti temevano. Tuttavia la Grecia introduce una variabile di cui Renzi e i suoi collaboratori avrebbero fatto volentieri a meno. D’ora in poi l’Italia sarà in prima linea rispetto ai mercati più di quanto non sia mai stata negli ultimi tre anni. E le prossime scadenze politiche, a cominciare dall’elezione del capo dello Stato, dovranno tener conto del nuovo scenario, visto che si comincerà a votare per il successore di Napolitano subito dopo il voto greco.
Naturalmente non si poteva chiedere troppo al tradizionale incontro di ieri con la stampa. È sempre l’occasione per un bilancio di fine anno e ogni volta la tentazione di esaltare ciò che il governo, qualsiasi governo, ha fatto diventa irresistibile per il premier di turno. Renzi non si è sottratto al rito, anche se non è riuscito a nascondere una punta di nervosismo: ad esempio quando l’inviata del «Wall Street Journal» gli ha domandato quali sono le riforme realmente già operative e quali effetti concreti hanno avuto sulla vita degli italiani.
È un po’ il quesito cruciale, rispetto al quale tuttavia oggi non c’è una risposta esauriente. Non stupisce che il presidente del Consiglio abbia preferito dilungarsi su altri aspetti, fino a paragonarsi al duro Al Pacino. Con una differenza: più che una maledetta domenica, c’è un maledetto gennaio alle porte. Un mese in apparenza drammatico, Grecia a parte, in cui l’incrocio politico-istituzionale resta quasi inestricabile, fra legge elettorale ed elezione del presidente della Repubblica. L’impressione è che le idee non siano ancora chiare per quanto riguarda il futuro capo dello Stato. Renzi ostenta ottimismo, anche in questo caso, e lascia capire di fare affidamento soprattutto su se stesso, sulla sua capacità di convincere, maneggiando con la solita abilità da prestigiatore le carte che sono sul tavolo.
Berlusconi resta, come è ovvio, un interlocutore da trattare con il massimo rispetto, aiutandolo a puntellare il suo potere dentro Forza Italia. Il messaggio è esplicito: in risposta ai Fitto e agli altri contestatori che lo vogliono rinchiudere nell’armadio dei ricordi, Berlusconi deve affidarsi a lui, a Renzi, l’unico in grado di tutelarlo e di garantirgli un residuo peso politico. Il sottinteso è che il nome del presidente della Repubblica non deve essere motivo di scontro; in altri termini che il partito berlusconiano, quello garantito dal vecchio leader, dovrà votare un candidato condiviso, ma in sostanza scelto da Renzi e accettato dai gruppi parlamentari del Pd.
Tutto chiaro sulla carta, un po’ meno nella realtà. Ecco perché non era del tutto convincente la tranquilla reticenza ostentata dal premier quando gli è stato domandato del Quirinale. Forse perché l’argomento è ostico, non essendoci ancora la soluzione del rebus. Ma c’è tempo, manca circa un mese. Sufficiente per stipulare accordi o per dichiararsi la guerra. Grecia e Italia: nessun contagio, si spera, ma certo una serie di passaggi paralleli che avrebbero attirato l’attenzione di Plutarco.

il Fatto 30.12.14
Renzi dà lezioni alla stampa. Solo per lui va tutto bene
Ottimistica conferenza di fine anno: “Il 2015 sarà l’anno del ritmo”
di Wanda Marra


“Vorrei dirvi che al di là dei toni considero il vostro servizio davvero importante, penso che il mondo del giornalismo non sia cosa diversa dalla classe dirigente di questo Paese”. Alla fine della conferenza stampa di fine anno, organizzata dall’Ordine dei giornalisti, Matteo Renzi diventa solenne. Per le due ore e passa precedenti ha ingaggiato un corpo a corpo con la stampa presente: attaccando, ridicolizzando, non rispondendo, scherzando. Argomentando e difendendo l’operato del suo governo, giocando tutte le palle, facili e difficili, che la platea gli fornisce. Abito scuro, cravatta rossa, combattivo e strafottente, sembra lo stesso premier che andò a chiedere la fiducia alle Camere, parlando con le mani in tasca, facendo un discorso sfilacciato che volutamente saltava i parlamentari, per arrivare direttamente nelle case degli italiani. Sottotesto: voi siete il Palazzo, io no. La stessa operazione di ieri, in diretta nazionale. Stavolta con i giornalisti. D’altra parte, la “sua” conferenza stampa di fine anno l’ha fatta la vigilia di Natale. Senza i giornalisti di carta stampata, che il 24 dicembre non lavorano.
Le domande sul Quirinale? “Sembra che siamo tutti affetti da arteriosclerosi”. Non sarà che gufo vuol dire che non si può non essere d’accordo con lui? “Gufo è chi parla male dell’Italia non del governo”. Renzi non risparmia la litania delle promesse realizzate. Ma neanche gli slogan. “Meglio arroganti che disertori”. E gli auspici, psicologici, di persuasioni di massa: “Voglio cambiare l’umore degli italiani”.
È un maestro nell’arte di raccontare e in quella di “condurre” i media. L’abilità nell’uso delle parole è uno dei punti di forza grazie ai quali è arrivato al potere e lo gestisce. E allora, ieri, eccolo dare lezioni di giornalismo. “Attenzione a superare le banalità, a raccontare con determinazione sogni, progetti e anche fallimenti”. Perché “i politici devono migliorare, non mi permetterò mai di dirlo dei giornalisti, ma penso sia l’obiettivo di ciascuno”. L’altra casta è servita. “Mi piace vedere House of Cards, ma anche Newsroom, mi piace da impazzire l’idea di una funzione sociale del giornalismo”. La serie tv racconta la storia di un anchorman, che passa dall’essere accomodante e zerbinesco e in quanto tale popolare, a lottare per un giornalismo di qualità. Non senza le contraddizioni inevitabili del caso. Evidentemente, mentre sbeffeggia i giornalisti presenti, accusandoli di giocare a Indovina chi? sul Colle e facendosi latore in diretta delle notizie dal mondo reale, quelle dalla nave, li paragona per opposizione. Amore romantico per il tempo che fu: “Il mondo è diverso rispetto a 15 anni fa. Io facevo lo strillone, apprezzo l’odore della rotativa, aspettavo il giornale di notte a Firenze”. Certo, non era solo una passione, ma pure un lavoro, visto che le società del padre (indagato per bancarotta fraudolenta) i giornali li distribuiva.
“QUANDO la modalità cambia bisogna adattarsi al mondo che cambia. Anche sul giornalismo”. Sarà per questo che “Matteo ” adora Twitter? Metodo-Renzi: “Vedo che ora Sky fa un soprapancia, anzi no, un sottopancia con scritto ‘Renzi, il mio è il governo che ha fatto meno leggi’. Ecco, chiederei magari di cambiarlo, perché ho spiegato che il governo fa meno leggi perché ce ne sono troppe”. Scherza, esibendo un’inesperienza che è difficile attribuirgli. La platea sorride. Sky il titolo lo cambia. E a proposito di nuovo giornalismo libero: da ora in poi Europa, liquidata la redazione, verrà fatta direttamente dall’ufficio stampa del Pd.
IL RENZI segretario Pd, presidente del Consiglio e nel suo immaginario di certo pure direttore di tutte le testate d’Italia, è attentissimo a non compromettere l’operazione Quirinale, che sa essere vitale come politico così consumato da essere riuscito a “scalare” il Pd (definizione sua) e poi il Paese in men che non si dica. Dunque, sul Colle si rifiuta di entrare nel “ping-pong” delle domande, dice il meno possibile. Assicurando che i voti per eleggere il successore di Napolitano ci sono: “Il presidente della Repubblica deve avere i requisiti previsti dalla Costituzione: ha funzioni tipicamente politiche con la ‘P’ maiuscola, anche se nel corso della storia ci sono stati vari presidenti di provenienza ‘tecnica’”. Il voto “non sarà un test politico, non è una fiducia sulla maggioranza”. Parla del traguardo/miraggio legge elettorale: “Immaginiamo di approvarla entro gennaio”. Il rischio 15 mila emendamenti? “Siamo grandi esperti di canguri”. E poi, mostra la scheda del sistema a cui si sta lavorando, che definisce “un Mattarellum con le preferenze”. Un omaggio a B. : “Qualcuno pensa che esista FI senza Berlusconi? Auguri”.
“La parola del 2015 sarà ritmo”, annuncia il premier. C’è da stare attenti alla dichiarazione di intenti finale: “Può accadere che si fallisca, non che non ci si provi. Io ci proverò fino all’ultimo giorno del mio impegno in politica, a costruire un Paese più degno di questo nome. Perché il nome dell’Italia è bellezza”.
IL CINEMA AL PACINO E IL FOOTBALL
”Mi sento come Al Pacino in Ogni maledetta domenica, il coach che ha il compito di dire ai suoi che ce la possono fare. E io sono convinto che l’Italia ce la può fare”, dice il premier. Il riferimento è al monologo dell’allenatore Tony d’Amato (Al Pacino) che nel film di Oliver Stone sprona la squadra: “Ora noi, o risorgiamo come squadra, o cederemo un centimetro alla volta, uno schema dopo l’altro, sino alla disfatta”.
LA FICTION THE NEWSROOM
”Apprezzo House of cards non come modello e allo stesso modo sono contento di vedere Newsroom: mi piace da impazzire l’idea della funzione sociale del giornalismo”, dice Renzi. La prima passione è nota. Sulla seconda il riferimento è alla serie di Aaron Sorkin (lo stesso di West Wing) girata all’interno di un canale tv di informazione e riprodotta con scarso successo di ascolti su RaiTre.
L’ORNITOLOGIA SOCIOLOGIA DEI GUFI
È uno sfogo: “Il gufo non è colui che parla male del governo. È assolutamente legittimo, talvolta capita anche a me, il gufo è colui che non crede che Italia abbia un futuro, il gufo non è quello che nega la realtà, ma quello che nega la possibilità all’Italia di farcela” (...) “i gufi sono gli stessi che prima delle Europee dicevano ‘Grillo ti sta davanti’, con i gufi ho un rapporto di amicizia ormai”.

La Stampa 30.12.14
Matteo e il governo parallelo
Il doppio binario delle nomine
I ministri esautorati, i fedelissimi nelle task force sui dossier cruciali
di Jacopo Iacoboni e Giuseppe Salvaggiulo


Nel grande risiko delle nomine Matteo Renzi si muove da sempre su un doppio binario. Da una parte sceglie e promuove uomini dotati di curriculum inattaccabili e la cui cifra è l’indipendenza; dall’altra colloca personaggi fidelizzati al massimo e legati a lui da rapporti tangibili in un livello intermedio che configura la struttura ramificata del suo potere profondo.
L’ultimo Consiglio dei ministri, alla vigilia di Natale, lo conferma: il governo ha nominato l’economista liberal Tito Boeri presidente dell’Inps e l’imprenditore Vincenzo Manes «consigliere al sociale». Il primo sul binario degli indipendenti di prestigio; il secondo, sconosciuto al grande pubblico, su quello dei fedelissimi negli snodi di potere. Manes, molisano, è un potente imprenditore nel settore metallurgico, ma si occupa anche di «innovazione sociale» con la sua Fondazione Dynamo. E è uno dei finanziatori palesi (62 mila euro), della fondazione renziana Open, che organizza la kermesse della Leopolda.
Il primo esame
Lo schema del doppio binario si era già testato nel primo giro di nomine nelle grandi aziende pubbliche poco dopo l’incarico di premier, o in pezzi dello staff di Palazzo Chigi. Da un lato le scelte spendibili nella logica del «cambiaverso»: donne, manager di profilo internazionale, professori, volti nuovi. E quindi profili come Carlotta de Franceschi consigliere economico; Patrizia Grieco e Paola Girdinio all’Enel; Emma Marcegaglia e Luigi Zingales all’Eni; Marta Dassù, Guido Alpa e Alessandro De Nicola a Finmeccanica; Francesco Caio e Antonio Campo Dall’Orto alle Poste. Dall’altro, lo schema portava nel cda dell’Enel l’avvocato pistoiese Alberto Bianchi, presidente della fondazione Open; a Finmeccanica un finanziatore storico della Leopolda, l’imprenditore senese nel settore biomedicale Fabrizio Landi; all’Eni Diva Moriani, imprenditrice aretina del rame nonché amministratrice proprio di Dynamo, la fondazione di Manes. Sempre all’Eni, nel collegio sindacale, è finito un altro amico di Renzi, Marco Seracini, che guidava NoiLink, altra fondazione importante nella galassia renziana. Mondi che ritornano. E cerchi che si chiudono.
Da Firenze a Roma
Nonostante si sia avvalso di alcune società di consulenza per cacciatori di teste, il premier ha già la sua rete e la utilizza ampiamente. Pedine cruciali come Filippo Bonaccorsi, appena chiamato a Palazzo Chigi per guidare la task force che dovrà gestire il delicatissimo piano del governo sulla scuola (oltre 21 mila istituti coinvolti, almeno un miliardo di euro in ballo). Bonaccorsi, avvocato romano, fratello della deputata Pd Lorenza - una dei quattro speaker dell’ultima Leopolda - ha guidato con perizia la privatizzazione dell’azienda di trasporto pubblico fiorentina, l’Ataf, quando Renzi era sindaco. Durante quella vertenza, vinta contro i sindacati, compare per la prima volta Maria Elena Boschi, che all’epoca aveva appena superato l’esame da avvocato.
Il ministro ha raccontato che diede un aiuto, a titolo gratuito, per risolvere le grane giuridiche. Renzi la nominò nel cda di Publiacqua, azienda mista (46 Comuni più Acea, Suez, Mps) che porta acqua nelle case di 1,3 milioni di toscani e vanta 160 milioni di fatturato e 660 milioni di investimenti. Incarico, questo, retribuito.
Non solo acqua
Nel cda di Publiacqua, Boschi sedeva con il presidente Erasmo D’Angelis, ex giornalista del manifesto, ambientalista ma oppositore del referendum sull’acqua del 2011. Anche D’Angelis è stato portato a Palazzo Chigi da Renzi, con il ruolo strategico di capo dell’unità di missione sul dissesto idrogeologico. Sostituendo quattro ministeri, D’Angelis ha impresso una svolta radicale, sbloccando in pochi mesi 1300 cantieri per 1,6 miliardi di euro e candidandosi a gestirne altri 9 nei prossimi anni, facendo bingo sui fondi europei.
Il modello D’Angelis viene ora ripetuto con Bonaccorsi sulla scuola: funzioni strategiche, piani di alto valore simbolico, grandi flussi di spesa pubblica accentrati a Palazzo Chigi e ministeri anche importanti esautorati: ambiente, istruzione, sviluppo economico, infrastrutture… Basta ascoltare gli sfoghi dei grand commis dei dicasteri, che non toccano più palla sui dossier principali (per non parlare dei ministri, talvolta nemmeno informati).
Grandi opere
Il modello, naturalmente, si applica anche al principale canale di spesa pubblica: il miliardario rubinetto delle grandi opere, affidato alle cure del Cipe guidato da Luca Lotti, un po’ l’Underwood del renzismo, il protagonista di House of Cards, la serie tv citata da Renzi anche ieri.
Dopo il via libera a diverse autostrade, negli ultimi giorni il Cipe ha dato parere favorevole agli stanziamenti della Cassa depositi: 300 milioni per la metro 4 di Milano, 180 per la linea 1 a Napoli, 307 per l’inclusione sociale in Calabria, una decina al Piemonte per le «opere compensative» del Tav.
Tra i principali dossier sulle infrastrutture sul tavolo del governo c’è il piano degli aeroporti. Al vertice di quello di Firenze, che ha appena ottenuto la salvifica fusione con Pisa, c’è (succeduto proprio a Manes) Marco Carrai che, con Bianchi, Boschi e Lotti, amministra la fondazione Open. Capisaldi di una sorta di governo parallelo quasi più influente di un consesso di ministri.

il Fatto 30.12.14
Va tutto bene Un anno dimenticabile
Pensavo fosse il premier, invece era un calesse
di Andrea Scanzi


Non era Crozza, anche se sembrava. Era quello vero, quello originale. Matteo Renzi in persona. La conferenza di fine anno è stata l’occasione giusta per esaltare la prossemica d’ordinanza: faccette caricaturali, sguardo all’insù tipo Verdone e risatine di chi si crede Lenny Bruce ma pare piuttosto un Panariello in diesis assai minore. Protetto da domande quasi sempre accomodanti (mancava solo “Preferisce pandoro o panettone? ”), Renzi ha dispensato una volta di più ottimismo, che come noto è il profumo della vita.
PER L’OCCASIONE aveva i capelli scompigliati, quasi a lasciare intendere che lui di notte non organizza cene eleganti ma si occupa di massimi sistemi e Norman Atlantic. L’effetto scenico è stato un po’ diverso, al punto che un satirico come Luca Bottura ha twittato: “Vorrei fare a Renzi la critica politica che lo infastidirà di più: ha un sacco di capelli bianchi nuovi e non li lava da qualche giorno”. L’apice politico è stato riassunto in una frase che ha saputo inebriare le masse: “La parola del 2015 sarà ritmo”. E tutti, subito, a chiedersi se ci attenda un anno di merengue, rumba o meneito: è da questi particolari che si giudica uno statista. Da questi e dalle supercazzole regalate come fossero grandine d’estate sulle vigne: “Dobbiamo cambiare il paradigma economico dell’Europa” (tapioca a destra), “Punire chi sbaglia” (prematurata a sinistra), “I prossimi 12 mesi saranno decisivi” (come fosse Antani) e il misericordioso “Se ce la facciamo ha vinto l’Italia, se non ce la facciamo ho perso io”. Frase, quest’ultima, che ha ispirato su Twitter la replica greve del comico Pinuccio: “Renzi: ‘Se non ce la facciamo ho perso io’. Ma ce la prendiamo in culo noi”. Particolarmente entusiasmante la fenomenologia sui gufi: “Non penso che l’Italia sia spacciata, come pensano gufi e non solo”. Renzi si è qui doviziosamente dilungato, con capacità analitica assai puntuta: “Non voglio lasciare l’Italia a chi parla male dell’Italia”. Renzi ha alfine risolto il più annoso dei quesiti: sì, ma chi sono esattamente i “gufi”? Marmorea la risposta: “Gufo è chi parla male dell’Italia, non del governo”. Amen.
QUA E LÀ, AVVINCENTI Sticazzi-Moments, per esempio quando Renzi ha fatto sapere che adora la serie tivù Newsrooom. Il Presidente del Consiglio, disgraziatamente, a un certo punto ha detto la verità: “Mi vanto di avere fatto meno leggi di tutti”. Gli è uscita come un rigurgito, come un riflusso esofageo mal trattenuto. Resosi conto dell’inciampo, Renzi ha prontamente stigmatizzato l’oltraggioso atteggiamento dei siti da lui compulsati ogni minuto, forse per rubacchiare idee o forse per vedere se il suo nome era diventato Trending Topic: avevano appena osato rilanciare che “Renzi si vanta di avere fatto poche leggi”, anche se lui ovviamente intendeva tutt’altro. Proprio come capitava quando c’era (e c’è) Silvio. Esortando la plebe ad avere fiducia nel futuro, come lui stesso ripeteva al predecessore Letta, Renzi ha parlato tanto per dire pochissimo. Quando – per disgrazia – arrivava una domanda appena insidiosa, lui sparacchiava la palla in tribuna. Fortunatamente le amate citazioni non sono mancate. Nei primi libri citava i Righeira, nei primi discorsi a Camera e Senato i Jalisse e Gigliola Cinquetti. Ieri, non potendo scomodare alcuni dei suoi capisaldi culturali – Jerry Calà, Minnie e Jimmy Il Fenomeno – ha riesumato “Indovina chi”. Roba forte, mai però come l’ardito riferimento filmico: “Mi sento come Al Pacino in Ogni maledetta domenica”. Una citazione appena consunta e scontata, ma retorica e banalità sono cifre che il renzismo applica pure al citazionismo. Accadde anche quando la nota statista Boschi scomodò Fanfani per citare una frase – “Le bugie non servono in politica” – così debole che sarebbe venuta in mente anche alla Picierno (forse). È stata comunque una conferenza stampa bellissima. Per certi versi ha ricordato “Pensavo fosse amore invece era un calesse”. Massimo Troisi, nel film, viene lasciato da Francesca Neri. Gli amici gli dicono che lei adesso sta con un uomo coraggioso e bellissimo, dunque non c’è speranza. Troisi non si arrende e scopre che il rivale è Marco Messeri, non proprio un adone, e di professione fa il giudice di sedia in gare tra barbieri: non esattamente un eroe. Quando però Troisi lo fa notare, tutti lo trattano come un invidioso. Come un rosicone, come un gufo. Ecco: ieri si è nuovamente vissuta questa sensazione di tragicomica sbornia collettiva. E purtroppo Troisi non c’era.

il Fatto 30.12.14
Matteo lo ammette: semestre italiano flop
Flessibilità sui conti? “Per il momento siamo riusciti a cambiare il vocabolario”
Gli investimenti fuori dal Patto? “Lo sapremo solo vivendo”
E la crescita? “Speriamo nella Commissione Ue”
di Marco Palombi


La verità è una bestia strana, capace di apparire quando uno meno se la aspetta e risultare tragicamente assente laddove dovrebbe essere di casa. Così è stato ieri durante la conferenza stampa di fine anno di Matteo Renzi. I giornalisti presenti pronunciavano con toni accorati domande sulla Tauromachia tra il giovine premier e i burocrati cattivi di Bruxelles dimenticando le promesse roboanti che inaugurarono il semestre di presidenza italiano del Consiglio europeo. Renzi, invece, se le ricorda bene e ieri ha ammesso che l’evento lanciato con fanfare che ancora non hanno smesso di suonare è stato in sostanza inutile, un flop.
COME FU presentato quel semestre al Parlamento europeo? Nel documento depositato - ché il premier nel suo discorso all’Aula s’era buttato sull’impressionismo spinto della “generazione Telemaco” - si sosteneva che “nei sei mesi che segnano l’inizio di questa nuova legislatura, l’Unione europea può gettare le basi per importanti progressi in numerosi settori: le principali sfide di oggi rimangono la ripresa dalla crisi economica e finanziaria, l’aumento dell’occupazione, il rafforzamento dei diritti fondamentali e il sostegno ai cittadini europei”. E ancora: l’Italia “stimolerà un dibattito strategico sull’attrazione di capitali privati e sulla necessità di concedere agli Stati membri una maggiore flessibilità nell’utilizzo del bilancio pubblico”.
E invece? Quali sono i risultati del semestre italiano che si è di fatto chiuso? “Per il momento abbiamo cambiato il vocabolario: la parola flessibilità sembrava una parolaccia e la parola crescita sembrava inconcepibile. Siamo stati una notte a discutere per inserirle in un documento”. Insomma, adesso nelle riunioni europee si può dire e persino scrivere la parola flessibilità, applicarla però no, sia chiaro. Lo dice sempre Renzi: “Scorporare gli investimenti dalle spese che concorrono al calcolo del deficit è la nostra battaglia storica, speriamo che la Commissione la faccia propria, il resto lo scopriremo solo vivendo”. Il premier si appella alla clemenza della corte di Bruxelles, che gli ha invece già chiarito che a marzo avrà qualcosa da dirgli sul rispetto dei parametri di bilancio, compreso quel 3% che Renzi ha definito più volte “anacronistico” senza aver mai il coraggio di metterlo davvero in discussione.
E la crescita? A quella ci pensa il piano Juncker sugli investimenti, che “è un primo passo ma non sufficiente”. In realtà, il piano del nuovo presidente della Commissione è un bluff che esiste solo per i media: doveva valere 300 miliardi in tre anni, che sono anche pochi divisi per 28 paesi, ma nella realtà si tratta di soli 21 miliardi di “garanzie” statali che dovrebbero magicamente innescarne 300 di investimenti privati (roba che neanche la moltiplicazione dei pani e dei pesci).
Il resto è la solita stanca mitopoiesi sul cambiamento di verso applicata alla Ue: “Chi vuol bene all’Europa sa che l’Europa oggi deve cambiare, chi dice che l’Europa va bene così com’è non sta facendo il bene né del proprio Paese né dell’Europa”. Di più: “L’Italia non può ripartire se non fa le riforme strutturali, ma da sole non bastano: c’è bisogno di un cambio di paradigma a livello europeo. Se non succede, non solo il partito degli euroscettici crescerà, ma si prenderà anche interi, importanti Paesi” (cioè Marine Le Pen potrebbe vincere le presidenziali in Francia).
IN ATTESA del miracolo - e recuperata la solita baldanza da conferenza stampa (nei vertici Ue i toni sono un po’ diversi) - il ritratto del 2014 fatto da Renzi ad uso dei telespettatori è di quelli a tinte rosa: “C’è senso di preoccupazione, stanchezza, sfiducia nel Paese, ma io sono sicuro ancor più di febbraio che non solo l’Italia ce la può fare ma che ce la farà senza ombra di dubbio”. Perché? Dio solo lo sa: “Nel 2014 è avvenuto un cambiamento che per me è una rivoluzione copernicana, per altri magari è molto meno: è cambiato il ritmo della politica”. E quindi? “Abbiamo rimesso in moto la macchina, ora bisogno farla correre”. Ci sarebbe quel problema del “paradigma europeo” da cambiare, qualunque cosa sia e in qualunque direzione intenda Renzi, ma tant’è. Questo è quello che un ottimista chiamerebbe il pensiero del presidente del Consiglio sulla situazione economica.

il Fatto 30.12.14
Statali
Ora Renzi fa il Brunetta: “Decido io, puniamo i fannullonIl premier tiene alto lo scontro con i sindacati: “La norma nel Ddl Madia”
di Salvatore Cannavò


Matteo Renzi prova a mettere un punto sul tema degli statali e del Jobs Act ma, inevitabilmente, apre un nuovo capitolo. Il premier, nella conferenza stampa di fine anno, ha anche rispolverato la vecchia bandiera di Renato Brunetta, i “fannulloni”, categoria suggestiva per giustificare interventi restrittivi sul pubblico impiego. Ieri Renzi ha rivendicato di aver tolto egli stesso, dal testo del Jobs Act, il divieto di estensione delle nuove norme ai dipendenti pubblici: “Sì, sono stato io a proporre di cancellare la norma dal decreto attuativo sul Jobs act”. Un’ammissione che è servita a stoppare le polemiche interne al governo e alla maggioranza dopo gli affondi ripetuti da parte di Pietro Ichino, il senatore di Scelta Civica che intende ottenere un’interpretazione estensiva del provvedimento. Renzi, invece, ha detto di no, almeno per ora, dimostrando di avere in mano la decisione finale: “Ho proposto di toglierlo perché non aveva senso inserirla in un provvedimento che parla di altro”, ha spiegato ricordando che il tema del rapporto tra lavoro privato e pubblico sarà affrontato dentro il disegno di legge sulla Pubblica amministrazione.
Chiarito il punto, però, Renzi ha ricordato che in tema di “fannulloni” intende punire “chi sbaglia”: “Servono le condizioni per mandare a casa chi non lavora bene, perché sceglie di non fare bene, i cosiddetti fannulloni”. Il punto sugli Statali, quindi, non è del tutto eliminato dalla discussione come conferma la precisazione di Palazzo Chigi: “Non è che Renzi ha fatto togliere la norma sugli statali ma l’esatto contrario, e cioé ha chiesto che si affrontasse il tema nel Madia e non nel Jobs act”. La mossa risponde alla logica di giocare tra le due ali del governo, la sinistra Pd e l’Ncd-Scelta Civica, manovrando tra le rispettive richieste mantenendo il boccino saldamente in mano.
PER QUESTO, in conferenza stampa, Renzi ha rilanciato l’ipotesi di introdurre il licenziamento “per scarso rendimento” nel pubblico impiego nonostante questa definizione sia stata eliminata dal decreto sui contratti a tutele crescenti. In realtà, come ricorda Michele Gentile, della Cgil Funzione pubblica, lo “scarso rendimento” nell’amministrazione pubblica esiste già ed è regolato proprio dal decreto Brunetta, inventore della categoria dei “fannulloni”. Renzi preferisce, però, tenere alta la tensione anche se la vicenda degli Statali potrebbe ampliare il fronte degli scontenti come dimostra la reazione della Cisl, unico sindacato finora a non aver scioperato ma che sul pubblico impiego non vuole intromissioni negative. Una reazione seguita con attenzione in Cgil anche il sindacato di Susanna Camusso sta pensando a come proseguire da sola la mobilitazione sul Jobs Act. Non sarà facile. La legge non è in vigore, almeno fino a quando non ci saranno i pareri delle Commissioni parlamentari. Non sono vincolanti ma qualcosa potranno ancora determinare, come dimostra l’insistenza di Damiano, che controlla quella della Camera, sui licenziamenti collettivi. Le ipotesi di lavoro al vaglio del sindacato di Corso Italia sono però diverse: dalla mobilitazione costante, ai contenziosi legali e, probabilmente, costituzionali. Il passaggio però più rilevante, perché modificherebbe un’attitudine sindacale seguita nel corso degli ultimi decenni, e la “via contrattuale”. In Cgil c’è l’idea che quello che è stato tolto dalla legge il sindacato possa andare a riprenderselo con la contrattazione, sia a livello nazionale che aziendale. “Ad esempio ripristinando tutele per i nuovi assunti” fanno sapere gli uffici di Corso Italia. Un ritorno alla situazione antecedente allo Statuto dei lavoratori del 1970 quando per ottenere dei vantaggi occorreva contrattare e stabilire rapporti di forza adeguati.
DIFFICILE nel contesto attuale ma la Cgil si sta predisponendo a questo scenario. Senza trascurare il terreno legale. Ricorso ai tribunali in caso di licenziamenti giudicati discriminatori, ipotesi di illegittimità costituzionale, ricorso alla Corte di giustizia europea senza escludere del tutto il terreno del referendum. Ieri Renzi, a domanda specifica, ha risposto “chi vivrà vedrà”. In Cgil non smaniano per questa soluzione, “in fondo si tratta di un argomento che riguarda il 40% della popolazione” dicono. Ma, come ultima istanza non va esclusa.

il Fatto 30.12.14
Altro che lavoro
Jobs Act, una generazione di giovani tradita da chi avrebbe dovuto difenderla
di Marco Politi


Il bilancio di fine anno è impietoso: tre milioni di precari permanenti si ritrovano truffati dal Jobs Act. Tre milioni di ventenni, trentenni (e ormai spesso anche quarantenni) non hanno ottenuto uno straccio di garanzia reale che il loro precariato permanente sia considerato una pagina chiusa. Perché il governo NON ha voltato pagina.
La realtà la conoscono tutti gli addetti ai lavori: il “contratto a tutele crescenti” ha un valore se si tratta di un contratto unico di impiego. Se invece continuano a esistere i contrattini co.co.co., co.co.pro., finte collaborazioni, finti associati in partecipazione, finte partite Iva, finti lavoratori a chiamata, se continua a esistere il triennio di contratti a tempo determinato, che lascia il dipendente completamente all’arbitrio delle aziende, il nuovo contratto propagandato dal premier sarà solo un “ulteriore contratto precario”. Lo dice Annamaria Furlan della Cisl, non Landini.
NEL FRATTEMPO si è scoperto (è uno studio della Uil) che per le aziende è vantaggioso assumere con gli incentivi statali del contratto a tutele crescenti e poi dopo un paio d’anni licenziare, intascando la differenza tra il risarcimento al lavoratore e i soldi incassati dallo Stato. Dopo le aziende possono ricominciare daccapo con i contrattini.
Sono passati dieci mesi per partorire questa porcheria, impedendo tra l’altro al Parlamento di esprimersi sulla normativa specifica. E in questo periodo di autoincensamento ossessivo Renzi non ha preso la decisione di cancellare i contratti di sfruttamento.
Il decisionista è fuggito di fronte all’unica decisione, che avrebbe dato una prospettiva vera a tre milioni di persone.
Siamo di fronte al tradimento di una generazione, anzi di più generazioni. La parte giovane dell’Italia, condannata allo sfruttamento più devastante perché non soltanto a pari lavoro (rispetto a un assunto a tempo indeterminato) non corrisponde pari compenso, ma l’instabilità strutturale impedisce qualsiasi progetto futuro.
Per un premier, che del lavoro conosce unicamente l’esperienza di padroncino nell’azienda di papà, è difficile comprendere la vita del Paese reale. Ma i cosiddetti “saggi” del suo staff gli spieghino che non ci sarà ripresa, non ci sarà consumo, non ci saranno mini-investimenti familiari, non verranno spesi nemmeno i mitici 80 euro, se tre milioni di giovani e non più giovani hanno l’acqua al collo del contratto a scadenza permanente. Lo sa il premier quante donne e quanti uomini lavorano ben oltre l’orario con i contratti fasulli? Lo sa quanti lavorano anche negli intervalli temporali, in cui non dovrebbero essere impiegati? Conosce la sorte di quei giovani che lavorano in uno studio di avvocati a zero compenso?
DIETRO questi tre milioni ce ne sono altri sei di genitori, nonni e parenti, che in vari modi sostengono i giovani precari, ed è quindi folle sperare che spendano per altri consumi invece di tenere i soldi da parte per gli imprevisti .
L’economia reale è questa, non le sceneggiate alla Leopolda travestita da garage. Perciò il tradimento di questa generazione è drammatico non solo per i giovani e le giovani lasciate allo sbando, ma incide in maniera pesantemente negativa anche sulle prospettive dell’Italia nel suo insieme.
In ogni caso il premier per documentarsi faccia un giretto da Eataly. Io sono convinto che Farinetti sia una persona in gamba, che conosce il suo mestiere. Sono convinto che gli bastano sei mesi per capire se un ragazzo ha voglia di lavorare e altri sei mesi per formarlo compiutamente.
Allora i conti sono presto fatti: chi lavora da un anno è stato assunto a tempo indeterminato? Oppure c’è un turnover artificiale di precari?
Si faccia un giro Matteo in questa e altre realtà e imparerà un sacco di cose. Ma non prenda più in giro i giovani italiani

Corriere 30.12.14
Renzi, la spinta per il 2015 E annuncia la stretta sui dipendenti pubblici
Il leader: troveremo lo strumento per licenziare i fannulloni Il Colle? Non è un test, non esistono 220 franchi tiratori
di Marco Galluzzo


ROMA L’Italia come una squadra di football malandata, ma che può farcela. Lui che si sente come quell’Al Pacino che nel film americano dice ai suoi giocatori di non mollare, di credere «in ogni singolo centimetro, perché o risorgiamo come collettivo o moriamo individualmente». Parole che Matteo Renzi ricorda per dire che si vede come un coach alla partita della vita, come «un motivatore di gruppo», dove il gruppo sono tutti gli italiani, che non possono permettersi di non giocare, perché «può accadere che si fallisca, ma non può accadere che non ci si provi».
Nella conferenza stampa di fine anno è ottimista, straripante come sempre, ma la metafora che sceglie ha tratti che non nascondono preoccupazione: l’Italia è un Paese al bivio, lui è convinto che ce la farà, ma è consapevole che non dipende solo da Palazzo Chigi. Occorre che ci credano un po’ tutti, compresi quei «gufi» di cui dà forse per la prima volta una definizione autentica: non coloro che parlano male del governo, ma «coloro che negano al Paese una possibilità» di risollevarsi.
Le parole sugli statali
Le declinazioni di questa sfida partono da un primo bilancio: nel 2014 «è avvenuto un cambiamento che per me è una rivoluzione copernicana, è cambiato il ritmo della politica» e «ritmo sarà la parola del prossimo anno», «l’urgenza» il messaggio che lui dovrà continuare a trasmettere: urgenza di riforme strutturali «senza le quali l’Italia non può ripartire», di cambiare «il paradigma economico» della Ue, di chiarire, sul Jobs act, che è stato lui a togliere la norma che escludeva l’estensione delle nuove norme al pubblico impiego. Sul tema, aggiunge, si farà chiarezza con il ddl Madia di riforma della Publica amministrazione, ma la svolta non può limitarsi al privato, anche «nel pubblico dobbiamo far passare la logica del chi sbaglia paga, chi non lavora, chi non timbra il cartellino, va licenziato, a fronte del 99% di impiegati onesti». E se la minoranza pd propone un referendum abrogativo delle norme sui licenziamenti collettivi poco male, «chi vivrà vedrà, prima ci sarà il referendum sulle riforme della Costituzione».
L’Italicum e il voto
A chi gli chiede della riforma elettorale Renzi ribadisce innanzitutto che la scadenza della legislatura resta quella naturale, «a me conviene sempre tentare di andare alle elezioni, ma all’Italia no, non conviene». Dunque va benissimo la clausola che chiede non solo Forza Italia (che per inciso «senza Berlusconi non esiste»): fare entrare in vigore le nuove norme in tema di elezioni solo dal 2016, «purché ci si arrivi dopo la stesura e l’approvazione del provvedimento e a me piace pensare che sia un Mattarellum con le preferenze e pochi simboli riconoscibili» aggiunge mostrando un modello di nuova scheda elettorale.
La partita per il Colle
Le domande sul Quirinale le giudica premature, dice che non crede ci saranno difficoltà ad eleggere un capo dello Stato, «non ci saranno 200 franchi tiratori», numero che metterebbe in crisi anche un candidato condiviso con FI. E a chi prevede una riforma delle pensioni, dopo la nomina di Tito Boeri a capo dell’Inps, offre un’altra rassicurazione: «Mi sento di escludere» ogni intervento nuovo, «leadership è mettersi accanto persone più brave di se stessi ma questo non vuol dire che chi viene a darci una mano fa il programma di governo».
La Grecia e l’India
Per Renzi si può escludere «un effetto contagio fra Italia e la Grecia, sono Paesi profondamente diversi». E se Atene va a elezioni antipate si può dire solo «in bocca al lupo ai candidati, ho la buona abitudine di non mettere il maso negli affari degli altri Paesi, quando arriveremo a lavorare con un nuovo governo discuteremo con loro». Una prudenza estesa al caso dei marò, dove vale l’obbligo di «mantenere il tono giusto, quello dei canali diplomatici e giudiziari» con l’India, definita un Paese «amico e alleato, che ha aperto un canale di confronto diretto con dichiarazioni ufficiali che abbiamo apprezzato». Conclusione di due ore e mezza di conferenza stampa all’insegna comunque dell’ottimismo: «A qualcuno appaio tarantolato, ad altri bulimico, ma io sono molto contento di come si stanno incastrando tutti i pezzi del puzzle delle riforme, se non ce la facciamo ho perso io, se ce la facciamo avrà vinto l’Italia».

Corriere 30.12.14
Se il premier si sente un po’ Al Pacino (e non Fonzie)
di Aldo Grasso


Aula dei gruppi parlamentari, conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio, spreco di boiserie, un «cavaliere» (il supporto che reca il nome del conferenziere) esageratamente grande come se i giornalisti (l’incontro è stato organizzato dal loro Ordine nazionale) non sapessero chi è Matteo Renzi.
Il premier inizia parlando della tragedia della Norman Atlantic e, come sempre, l’incipit condiziona l’andamento del discorso. Che è parso in tono minore, rispetto agli standard cui ci aveva abituato: niente slide, niente fuochi d’artificio, insomma un Renzi 1.0, da telefonino più che da smartphone 2.0.
Eppure il presidente del Consiglio ha voluto ribadire che la parola del 2015 è ritmo: «Dare il senso cambiamento e dell’urgenza». Di ritmo la conferenza ne ha avuto ben poco, nonostante non poche citazioni della conferenza abbiano riguardato l’immaginario americano (la grande cultura pop di Filippo Sensi ha dato un senso alla narrazione): da House of cards a The Newsroom («Io facevo lo strillone, apprezzavo l’odore della rotativa, aspettavo il giornale di notte a Firenze...» tanto per gratificare l’Ordine dei giornalisti); da Fonzie («L’Italia non si cambia con uno schiocco di dita come Fonzie») ad Al Pacino («Mi sento un po’ come Al Pacino in Ogni maledetta domenica , dove il coach dice ai suoi che ce la possono fare»).
«Ritmo ritmo, oh nonnettina nonnettina mia» cantava Alberto Sordi. Ed ecco l’inevitabile rimando ai giochi dell’infanzia, Indovina chi? : «C’è un giochino molto divertente Indovina chi? Era un gioco meraviglioso. Ha il cappello? Porta i baffi? Ha un naso pronunciato? Se volete giocare, fate bene. Nel frattempo posso affrontare dei temi che giudico più interessanti». Il riferimento era ovviamente alle prossime elezioni al Quirinale.
Renzi è sempre padrone della scena, non si fa mai intimorire dalle domande, ha la risposta pronta di chi è abituato a dialogare con le telecamere. Però il clima era più dimesso del solito. Imbarazzo per le difficoltà incontrate o voluta sobrietà perché si è accorto che la politica tutta è un proposito infranto?

Corriere 30.12.14
L’anno del ritmo promesso da Renzi
Agli annunci non corrispondono le cose fatte
di Pierluigi Battista


Ha ragione Matteo Renzi, la parola chiave della sua irruzione nella palude della politica italiana è: «ritmo». Il ritmo accelerato del 2014 e la velocità nel voler «cambiare verso». L’impennata delle percentuali elettorali del Pd sul 40 per cento e il crollo subitaneo della marcia grillina. Il voler mettere mano alle riforme istituzionali cronometrando i tempi. L’andatura incalzante delle riforme promesse. La rottura generazionale. Lo svuotamento spavaldo delle liturgie stanche che hanno reso la politica italiana prigioniera dei veti e degli eterni rinvii.
Questo è stato il ritmo del 2014 di Renzi. Che questo ritmo possa essere mantenuto anche nel 2015, è tutto da dimostrare. Anzi, le ultime esitazioni sul Jobs act e soprattutto il trattamento punitivo riservato nella legge di Stabilità al popolo delle partite Iva e al lavoro autonomo giovanile ci dicono che non sempre il ritmo delle cose fatte è stato all’altezza del ritmo delle cose annunciate.
Rimandare alla discussione parlamentare sulla riforma della pubblica amministrazione la controversia sull’applicabilità del Jobs act ai dipendenti statali è un rallentamento secco del ritmo vertiginoso impresso da Renzi. Anzi, come ha fatto notare il sottosegretario Zanetti in un’intervista al Corriere , affrettarsi come si sono premurati di fare i ministri Poletti e Madia a escludere i dipendenti pubblici dalla riforma del mercato del lavoro rischia di accreditare suo malgrado l’immagine di un Jobs act punitivo nei confronti dei lavoratori del privato, un arretramento dei diritti cui per fortuna il pubblico impiego riuscirebbe a sottrarsi, e non un’estensione dei diritti a chi attualmente ne è privo. Si deciderà (forse) a febbraio: ma non si tratta di due mesi persi, di un allentarsi del ritmo, di un principio di impaludamento che lo stesso Renzi sostiene di aver voluto evitare alla vigilia di Natale proprio sulla questione dei dipendenti pubblici?
«Cronoprogramma» è l’altra parola chiave che sin dall’inizio ha connotato l’esperienza del governo Renzi. È stata una scelta saggia, ha finalmente dato un senso di urgenza alle cose da fare, ha introdotto il principio sacrosanto che un governo deve essere valutato sulla forza di una svolta da realizzare nei primissimi mesi. A «ritmo» forsennato si sono annunciate la realizzazione in un lasso di tempo fulmineo («a febbraio», «a marzo», «ad aprile», eccetera) della riforma della giustizia, civile prima di tutto ma con anche notevoli incursioni in quella penale, della riforma del fisco, della riforma del mercato del lavoro, della riforma elettorale, della riforma del Senato, della riforma che avrebbe messo la parola fine alle Province, della riforma della scuola, della riforma del non profit. Di queste riforme è andata in porto (quasi: decreti attuativi e soluzione del problema «statali» permettendo) quella del mercato del lavoro. Il resto è «incardinato» nei lavori parlamentari, o votato in una delle due Camere, o inabissato in disegni di legge che ancora devono passare lo scoglio della verifica parlamentare.
Il «cronoprogramma» iniziale si è diluito nei tempi lenti dei «mille giorni». Mentre è ancora tutta da misurare l’efficacia dei provvedimenti spettacolarmente annunciati come la liberazione dello «sblocca Italia», e resta ancora controversa l’entità esatta dei debiti della pubblica amministrazione che Renzi, nella tambureggiante conferenza stampa di inizio marzo, aveva assicurato di saldare entro pochissimi mesi.
Il primo ad accorgersi del divario tra gli annunci e la realtà è stato del resto lo stesso presidente del Consiglio che però ha reiteratamente indicato (anche ieri) nei frenatori e nei «gufi» i portatori della cattiva novella: come se sottolineare la problematicità dei risultati sinora effettivamente ottenuti fosse una manifestazione di «disfattismo» con tinte addirittura di anti-italianità. Un errore.
Anche se si comprende bene lo sforzo meritorio del premier di infondere fiducia negli italiani perché (con o senza gli 80 euro) ricomincino a consumare e negli imprenditori, italiani e non, per rilanciare gli investimenti che permettano finalmente di ripartire con una crescita a «ritmo» sostenuto. La speranza è l’arma più forte di Renzi e sulla speranza di un nuovo inizio molti italiani hanno dato credito al presidente del Consiglio. Nell’anno che arriva, la verifica dei fatti.

Corriere 30.12.14
Economia e sfiducia I timori di Palazzo Chigi
I sondaggi sulle aspettative dei cittadine e i dati Ocse in arrivo
di Maria Teresa Meli


ROMA Ci sono frasi che sembrano di rito, sopratutto se a pronunciarle è un politico. Tanto più se il politico in questione è il presidente del Consiglio che tiene la conferenza stampa di fine anno. Ma non è detto che sia sempre così. Per esempio, quando Matteo Renzi, davanti ai giornalisti italiani e non, afferma che «gli italiani sono assuefatti alla sfiducia» e lo sottolinea con la gravità dello sguardo, non lo fa perché sta recitando una parte, ma perché ha ancora sotto gli occhi i sondaggi che Palazzo Chigi commissiona con regolarità a diversi istituti specializzati.
Sono rilevazioni che raccontano come nel nostro Paese non ci siano grandi aspettative circa il futuro prossimo venturo, che sottolineano che gli italiani non fanno grande affidamento nelle istituzioni e che la loro stima nei confronti dei partiti è prossima allo zero. Insomma sondaggi a dir poco scoraggianti persino per uno, come Matteo Renzi, che è abituato a non abbattersi e ad andare avanti «come un treno, sia quel che sia».
Quello della sfiducia degli italiani è un tema che assilla il presidente del Consiglio, il quale è convinto che questo problema abbia delle «ricadute economiche notevoli», perché non permette al Paese di risollevarsi. Ma ci sono degli altri segnali che impensieriscono l’inquilino di Palazzo Chigi in questi giorni. Provengono dal fronte dell’Ocse, dove fino a qualche tempo fa lavorava il ministro Pier Carlo Padoan: i dati economici non sarebbero confortanti per il futuro.
Dunque, il premier non si sta sottraendo al gioco del Quirinale, che gli propongono i giornalisti in conferenza stampa, solo per tattica. È vero. In questo momento il Colle più alto non è al primo posto nei suoi pensieri. Del resto, l’uomo è fatto così. «Quando il nodo verrà al pettine — continua a ripetere ad amici e collaboratori fidati — lo affronteremo e, come al solito, vedrete che riusciremo a risolvere pure questa questione. Non credete che io non sappia che ci sono manovre attorno alla successione a Giorgio Napolitano, che c’è chi vorrebbe prendersi la rivincita nei miei confronti e chi punta a condizionarmi attraverso il nuovo presidente della Repubblica. Ma affronteremo il tema a tempo debito e con il modo nuovo di sempre».
Adesso, e anche nei giorni a venire, è sul possibile rilancio dell’Italia che Renzi vuole concentrare ogni suo «sforzo». Ben consapevole che potrebbe anche «fallire». Ma la preoccupazione vera è l’eventuale fallimento del Paese: è quello che il presidente del Consiglio sta cercando con tutte le sue forze di evitare, pronto a «provarci fino all’ultimo». Il premier ritiene che alla fine ce la farà. O, meglio, ce la faranno. Lui e l’Italia. Perché il suo entusiasmo non lo abbandona mai. In conferenza stampa usa parole rassicuranti a questo riguardo ed esclude categoricamente che la crisi greca possa avere effetti nocivi sul nostro Paese.
Però, in cuor suo, sa benissimo che per riuscire ad attraversare questo periodo irto di difficoltà le «riforme bisogna farle davvero». Ma il Parlamento non si mostra troppo incline a lasciargli accelerare il passo. Un giorno è la polemica sul Jobs act e i suoi decreti delegati, un altro si apre il contenzioso sull’Italicum ultima versione, e via di questo passo. Si sta già profilando la polemica di febbraio. Quella sulla licenziabilità degli statali. Renzi non la esclude affatto. Per i «fannulloni», per esempio. E non solo per loro.
Gli sarà consentito andare avanti? «Senza riforme l’Italia è spacciata», continua a ripetere lui. Non è uno slogan per imporre la propria volontà, ma, secondo Renzi, è l’unico modo per «riuscire a procedere». D’altra parte, il premier non ha sempre detto che «se si fanno le riforme la legislatura va avanti»? Già, il tirare a campare di andreottiana memoria non sembra fare per lui.

Corriere 30.12.14
Gotor: costretti al sì ma la riforma del lavoro è tremontismo di ritorno
intervista di Daria Gorodisky


Roma «Matteo Renzi continua baldanzosamente a ripeterci “vi arrenderete alla realtà”, ma questo non avverrà: perché i nostri sono i convincimenti propri della cultura riformista italiana». Miguel Gotor, senatore bersaniano, ripete i no della minoranza Pd al Jobs act («è tremontismo di ritorno», «marginalizza il controllo di legalità») e legge elettorale («utile a pochi grandi nominatori»). «Ci eravamo impegnati sul modello flexicurity della Danimarca e invece ho l’impressione che, non avendo i soldi, stiamo veleggiando verso il Portogallo e la Grecia. Sollevare il tema dell’articolo 18 è stato pretestuoso e non produrrà più occupazione. Si concede agli imprenditori maggiore libertà di licenziare anche senza giusta causa provocando maggiore debolezza del lavoratore e, di conseguenza, progressivo abbassamento retributivo».
Il governo sostiene che questo è «il cambiamento».
«Però è un cambiamento regressivo: favorisce le imprese, ma a discapito dei lavoratori. Esiste un’asimmetria fra capitale e lavoro, che è evidente soprattutto nei periodi di crisi. E ora si assiste all’assunzione fuori tempo delle dottrine liberiste di stampo tremontiano: lavoratori più ricattabili e conseguente riduzione dei salari».
Non muoverà il mercato?
«Al contrario: il Jobs act aumenta la staticità, chi ha un lavoro tutelato dall’articolo 18 se lo terrà stretto, comportando così conseguenze antiproduttive. Inoltre, indurrà l’imprenditore a licenziare senza giusta causa i più giovani, perché meno tutelati, anche se più capaci. Tutto questo senza che il governo abbia mantenuto le promesse in materia di ammortizzatori sociali e di riduzione delle varie tipologie di contratti precari. Per non parlare della monetizzazione dei diritti».
Intende la possibilità dell’impresa di ignorare una sentenza del tribunale in materia di reintegro?
«Appunto, un’esclusione del controllo di legalità: un messaggio sbagliato per una forza riformista e di sinistra».
La disparità di tutele tra «giovani» e «vecchi» rischia di essere incostituzionale?
«È probabile: per la prima volta, dietro lo stesso bancone, avremo lavoratori con la medesima tipologia di contratto a tempo indeterminato, ma con tutele diverse in uscita, con una lesione del principio di uguaglianza».
Con una tale contrarietà su principi fondamentali, perché avete votato a favore?
«Il governo ha posto la fiducia al Senato, dove la maggioranza si basa su sette senatori soltanto e una crisi al buio non avrebbe fatto bene all’Italia che ha bisogno di stabilità. I sindacati faranno le loro battaglie, che condivido, in ragione della loro autonomia».
Anche sulla legge elettorale continua l’opposizione.
«Per noi va restituita ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentati. Con i capilista bloccati, invece, il 60% dei posti sarebbe assegnato da 3-4 “grandi nominatori”; e le preferenze spetterebbero soltanto a chi vince il premio di maggioranza. Con la riforma del Senato, che deve realizzarsi, non è immaginabile avere una sola Camera politica con una maggioranza di nominati: sarebbe eccesso di oligarchia, da evitare per ridurre la frattura fra cittadini e istituzioni».

Repubblica 30.12.14
L’esponente della sinistra Pd: “La partita resta aperta Anche l’estensione ai licenziamenti collettivi non va, è un chiaro eccesso di delega. Il premier non innova Le sue misure intonacano le pareti senza fare il tetto”
Cuperlo: “Il Jobs Act è iniquo la Consulta potrebbe fermarlo Nella Pa si entra per concorso non si taglia per risparmiare”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «La Consulta potrebbe intervenire sul Jobs Act, ci sono rischi di costituzionalità e l’estensione ai licenziamenti collettivi è un eccesso di delega da parte del governo». Gianni Cuperlo, leader della sinistra dem, lancia una nuova offensiva sulla riforma del lavoro. E ribatte al bilancio di fine anno di Renzi.
Cuperlo, il Jobs Act è ormai cosa fatta, poiché il Parlamento è chiamato ora solo a un parere non vincolante sulle deleghe. Battaglia persa per la sinistra dem?
«A me interessa se vincono o perdono i lavoratori. Potrei dire che ero stato facile profeta segnalando le scarse risorse sulle politiche attive o i rischi di costituzionalità per norme che creano nuove diseguaglianze anche dentro lo stesso luogo di lavoro. Fatico a scorgere in questo un traguardo di modernità. Ma la battaglia non è persa».
È bene che non ci siano gli statali nel Jobs Act? E’ il caso di fare un referendum come ha proposto Fassina?
«Nel pubblico si entra per concorso e non ci sono licenziamenti economici. Esiste un tema di uniformità per alcuni diritti. Quanto al referendum, se il governo non accoglie alcune correzioni potrebbe essere la Consulta a intervenire prima delle urne. Sono io che chiedo, a chi conviene?».
Hanno sbagliato i “trattativisti” del Pd?
«L’estensione ai licenziamenti collettivi è un eccesso di delega evidente e va corretto. Almeno su questo credo debba esserci un chiarimento e spero che chi mostra di stupirsi adesso trovi motivo per riflettere».
Per Renzi la parola del 2015 dev’essere “ritmo”. Lo criticate anche su questo?
«Lui ha intuito la voglia di rottura col passato e il bisogno di speranza. Questa è la sua forza, ma il ritmo di cui parla ha bisogno di un’orchestra. Serve coesione, bisogna che le persone si sentano coinvolte e questo non lo fai dividendo il Paese o denigrando chi la pensa in altro modo. Tra arroganza e diserzione scelgo una sinistra ambiziosa che per cambiare non chiede il permesso. Qui e in Europa. Lo dico così, il peccato di Renzi non è la troppa innovazione, ma l’opposto ».
Il premier poco innovativo?
«Ha seguito un sentiero già battuto, facendo due cose. Un sussidio al ceto medio-basso, e la cosa ha pagato nelle urne. E sgravi fiscali alle imprese. Non può bastare. Perché i nostri problemi si chiamano lavoro, diseguaglianze, investimenti e innovazione. Se non li affrontiamo è come intonacare le pareti senza il tetto».
Sulle riforme istituzionali. Ci sarà pace tra i dem?
«Io le riforme le voglio fare e in tempi rapidi, ma serve coraggio. I presidenti Zingaretti e Chiamparino hanno avanzato una proposta radicale. Secondo me va nella direzione giusta, e allora riformiamolo il Senato ma evitiamo un mezzo pasticcio come con le Province. Accorpiamo funzioni e riduciamo il numero delle Regioni. Facciamo presto, ma con una coerenza del sistema».
L’Italicum, la nuova legge elettorale, ha la strada in discesa o ci sono correzioni indispensabili secon- do lei?
«Quelle indicate da mesi: no a liste bloccate, equilibrio di genere, aggancio alla riforma costituzionale».
Meglio il confronto con i 5Stelle che con Fi?
«Sulle riforme confronto con tutti. Noi abbiamo rispettato l’accordo e lavorato per migliorare».
Ci saranno i numeri sul nuovo capo dello Stato o sono più probabili i sabotaggi da parte degli stessi democratici?
«Sabotare nel clima attuale sarebbe come svuotare la borraccia nel deserto. Serve una personalità colta, autonoma, che goda di prestigio. Credo si dovrebbe lavorare a una rosa e cercare la massima convergenza su una figura capace di tenere assieme il Paese».
Sarà d’accordo con Renzi su un presidente della Repubblica poco “tecnico” e molto politico?
«Ciampi è stato un presidente “politico” a tutti gli effetti. Chiunque varchi quella soglia lo diventa».
Ma condivide nella sostanza quanto il premier ha detto nella conferenza stampa di fine anno?
«Lui è abile. Però gli vorrei dire di lasciar perdere gufi e scomuniche. Lavora per unire il Paese attorno al nostro New Deal. Vuoi farlo? Allora devi includere, avere rispetto degli altri anche quando riempiono le piazze dei sindacati. Ma soprattutto non puoi fare la rivoluzione con la simpatia dell’Ancien régime Perché il ritmo conta, ma lo spartito conta di più».
Tuttavia voi della sinistra dem siete poco incisivi o addirittura sembrate frenatori?
«Nessun freno. ma serve una svolta dell’Europa e la Grecia dice quanto sia matura. Renzi su questo ha un sostegno totale. E poi investimenti pubblici, aiutare chi fa impresa nella legalità, coraggio sui diritti civili. Abbattere la nuova povertà con più donne al lavoro. Da questa crisi si esce con una scossa morale. Vuol dire lotta alle mafie per una politica pulita e riscoprire una missione sulla quale ricostruire tutto, economia, istituzioni, unione tra Nord e Sud, un patto per la democrazia. A farlo davvero, è una rivoluzione».

il Fatto 30.12.14
Giornali di partito addio, fondi solo per i grandi
di Salvatore Cannavò


C’erano una volta i giornali di partito. Solo pochi mesi fa in edicola si potevano comprare ancora l'Unità, Liberazione, Europa, la Padania, tutte testate che nel corso del 2014 hanno chiuso. L’ultimo in ordine di tempo, il quotidiano che fu della Margherita, è stato trasferito al partito renziano con una redazione che sarà basata essenzialmente sull’ufficio stampa del Pd. Il suo direttore, Stefano Menichini, nel salutare i lettori, si è detto rammaricato per non aver fatto tutto il possibile per evitare la crisi ma si è felicitato dell'esistenza in vita della testata. Primo caso di un giornale salvato senza i suoi redattori messi in cassa integrazione.
IL 1 DICEMBRE AVEVA CHIUSO la Padania, il quotidiano leghista non sembra aver beneficiato in nulla dell'ascesa mediatica di Matteo Salvini così come l'Unità, chiusa il 1 agosto nonostante il boom del segretario del partito di riferimento. Questa situazione misura direttamente la crisi della politica italiana: crisi politica, crisi dei partiti e, quindi, crisi dei giornali di riferimento. Non è un caso che i due leader principali, Matteo Renzi e Beppe Grillo, vivano di e sulla rete: uno con Twitter e l'altro con un blog supercliccato.
La crisi è però anche nella disponibilità finanziaria. Sono lontani i tempi in cui, nel 2006, l'allora “decreto Bersani” infilava nelle “disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale” un comma che stabiliva che “il requisito della rappresentanza parlamentare non è richiesto per giornali o organi di partiti o movimenti politici che alla data del 31 dicembre 2005 abbiano già maturato il diritto ai contributi”. Una sanatoria generalizzata d’altri tempi. Con l’avvio della crisi, nel 2008, scattano i tagli. Per dare un’idea della situazione basta confrontare i “contributi diretti alle imprese editoriali” nel 2012 e nel 2013, ultimi dati disponibili. Da oltre 62 milioni per 78 testate si è passati a 33 milioni per 54 giornali, di partito e non. Tra questi, a beneficiare dei contributi diretti, oltre a quelli citati ci sono giornali introvabili: la Discussione, giornale fondato da Alcide De Gasperi e oggi nelle mani di Giampiero Catone; il Secolo d’Italia, dal 2012 solo in edizione online e il cui direttore è, dallo scorso mese di giugno, Italo Bocchino già luogotenente di Gianfranco Fini. Tra i beneficiati ci sono anche Il Foglio, Left ma anche Avvenire i quotidiani sindacali Conquiste del Lavoro e Rassegna sindacale e, con 4 milioni di euro ricevuti, Radio Radicale, l’emittente pannelliana che rivendica il proprio ruolo di “servizio pubblico”, vero, ma che, oltre all’informazione, non si risparmia un’intensa attività di propaganda politica.
TUTTO QUESTO STA PER SPARIRE. Come denunciato lo scorso mese dal manifesto, il governo ha azzerato il fondo all’editoria con una norma che taglia anche retroattivamente fondi già stanziati nei bilanci delle imprese editoriali. Circa 80 testate rischiano di sparire. La beffa è che già il governo Letta e poi l’attuale, con il sottosegretario Luca Lotti, ha allestito un fondo “straordinario” per l’Editoria finanziato con 120 milioni di euro nel triennio 2014-2016. Soldi che servono alla “innovazione tecnologica”, al “sostegno all’occupazione” ma anche agli “ammortizzatori sociali”. Dei 45.918.394 euro disponibili per il 2014, però, 25 milioni sono stati già stanziati per finanziare i prepensionamenti delle aziende tramite il decreto legge 90 del giugno 2014 in cui è stata inserita una condizione pro-occupazione: “la contestuale assunzione di personale giornalistico nel rapporto minimo di un’assunzione a tempo indeterminato ogni tre prepensionamenti”. Una misura di salvaguardia che però non modifica la sostanza del provvedimento, centralizzare i fondi per l’editoria da destinare alle grandi imprese per progetti di ristrutturazione aziendale.

Corriere 30.12.14
Il direttore di Europa: il Pd ha ancora bisogno di noi
intervista di Alessandra Arachi


Menichini: a Matteo non interessano i giornali di partito, Bonifazi è stato lasciato solo
roma E dunque Stefano Menichini?
«Sono commosso».
Da cosa? Ha lasciato sconfortato «Europa», il giornale che dirigeva, perché non vedeva un futuro...
«Sono commosso dalla solidarietà che ho ricevuto tra messaggi privati e la Rete, dopo questo gesto. Il mio editoriale su Internet è stato talmente seguito che sembrava un post di Beppe Grillo».
Ma cosa è successo?
«Un paradosso. Noi come giornale, come giornalisti, non pensavamo che qualcosa ci fosse dovuto, il Pd non era tenuto a fare nulla, però...».
Però?
«A un certo punto dal Pd si sono presi l’impegno di rilanciare il giornale, ma non lo hanno rispettato».
Secondo lei perché?
«È venuto fuori che dentro al Pd hanno un problema di processo decisionale. Francesco Bonifazi, il tesoriere, è stato lasciato solo a prendere delle decisioni. Sarebbe stato più prudente che fossero prese collegialmente, il compito di un tesoriere è trovare i soldi non altro. E non mi riferisco soltanto ad Europa , parlo anche per l’Unità ».
Dunque secondo lei non prendono decisioni nel Pd?
«Diciamo che hanno un modo di lavorare un po’ caotico. Creano più problemi di quanti non ne risolvano».
In generale intende?
«In realtà parlo degli organi di partito. Immagino che a Matteo Renzi di avere giornali di partito non interessa più di tanto. Lui non considera essenziali giornali come Europa e l’Unità, non per come è abituato a comunicare lui. Però dovrebbe tenere conto che il corpo del Pd ha altre esigenze».
E adesso? Dopo le dimissioni da direttore di «Europa» Stefano Menichini che farà?
«Intanto chiariamo che tecnicamente non mi sono dimesso. Da domani Europa avrebbe chiuso i battenti e anche io sarei stato in cassa integrazione come gli altri colleghi. Io ho solo chiarito che non avrei voluto essere riassunto nel nuovo giornale che, sembra, debba riprendere soltanto tre giornalisti di Europa su quattordici. Non volevo essere uno di quei tre».
E dunque?
«Intanto seguo il destino di Europa , anche da esterno. Anzi, spero che da esterno e con quello che ho fatto le cose possano migliorare. Poi si vedrà».

il Fatto 30.12.14
Ordinovisti
Neri sotto l’albero Regalo per Renzi
di Pietrangelo Buttafuoco


È stato il regalo di Babbo Natale a Matteo Renzi questo revival delle “trame nere”. La scoperta del disegno eversivo, con tanto di riscrittura della Costituzione, come i maglioni lavorati ai ferri è stato momentaneamente infilato in un cassetto ma se non è il remake di Vogliamo i colonnelli, prossimo ad andare in onda, questa réentrée è dadaismo puro.
Manca purtroppo il grande Ugo Tognazzi in questo cinepanettone di fine anno ma ci si accontenta. C’è, infatti, in questa inchiesta, il Grande Vecchio. Non è un poeta come Licio Gelli, non è massone, ma è qualcosa di più. È Rutilio Sermonti, ultranovantenne, già seguace di Konrad Lorenz, allevatore di papere, maniaco di taccole di cui discettava ai tempi dei Campi Hobbit.
LA REALTÀ si mangia sempre la fantasia. Studioso di storia, co-autore con Pino Rauti della monumentale Storia del Fascismo, Rutilio sa tutto dei Nativi americani. Era capace di montare un teepe a Montesilvano in meno di cinque minuti, adesso – con gli anni – ci metterà più tempo, è ovvio, ma deve anche riscrivere la Carta sulla quale la soave Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme, ancora cincischia. E il tempo che ci vuole, ci vuole.
Fa saltare il Patto del Nazareno, Rutilio. Come frega lui Berlusconi, nessuno. Altro che Boschi, leggete l’art 72: “Poiché i privati non possono possedere reti televisive e la tivù può trasmettere programmi solo per qualche ora al giorno perché mantenere televisori accesi al di fuori di quegli orari costituisce reato contravvenzionale”.
Rutilio che regala ai torpori post-natalizi il brivido del fascismo appartiene a una famiglia proprio particolare: i Sermonti, il più famoso dei quali – tra i germani – è Vittorio, superbo dantista, mentre l’altro fratello – genetista, scienziato anti-darwinista tra i più seri – è Giuseppe. Visto nelle foto recenti, con la barba, Rutilio – dotato di una cultura madornale – ha un che del Gandalf tolkieniano e dovrebbe dunque essere lui, secondo i guardiani della sicurezza nazionale, il fomentatore ideologico della squadra eversiva individuata negli Abruzzi – il più squinternato dei quali, Stefano Manni, un ex carabiniere, con aria assorta si autopromuove in un video con il Mein Kampf in mano. Dovrebbe quindi essere una sorta di Vecchio della Montagna, Sermonti, e pare già di vederlo brandire un bastone come Geremia, il vecchio Capo del Gruppo Tnt mentre stana i suoi fedelissimi che dibattono su Fb in tema “di froci, Anticristo, trans e clandestini”.
Manni, il vero capo, vuole annusare l’odore di carne bruciata (preferibilmente immigrati), destinare le donne all’economia domestica, misconoscere i diritti politici e così, ancora prima di chiudere il cerchio, aggiungendo i fumetti di Alan Ford, alla vicenda grottesca dei golpisti pronti a destabilizzare lo Stato estrapolando miasmi di ubriachi, razziando fucili al mercato dei giostrai, viene in soccorso l’eterna vena dell’avanspettacolo in salsa tragica.
Tutta la paccottiglia dell’immaginario non può però bastare per fare l’esegesi di questa operazione – una medaglia al petto dell’operato di Angelino Alfano, ministro dell’Interno – perché quattro scemi presi al laccio non possono costituire un pericolo ma una distrazione di massa al self service del conformismo, sì. Basti vedere come hanno raccontato l’epopea i giornali. Non hanno, i montanari al seguito dell’ex carabiniere, la torva estetica dei generali col monocolo e siccome ogni trama ha il suo controcanto di tornaconto, tutto torna: oggi come ieri, torna la strategia della tensione.
È IL VINTAGE per eccellenza quello della “trama nera”. Si porta sempre, è un sempreverde e come nella canzone degli Amici del Vento (“Trama nera, trama nera, sol con te si fa carriera”), così oggi, con tutto questo fiorire di strategie, s’intravede col profilo di Babbo Natale il magnifico regalo al regimetto renziano.
La strategia della tensione coincide con la geometria del potere costituito. Tutto ciò che non è conforme, va smontato. Nel 1971 Giorgio Almirante, col Msi, ebbe un fragoroso successo elettorale. Dopo di che, la stagione delle stragi e delle trame nere. Svanì tra i processi, le retate e i misteri il sogno di svuotare il bagaglio elettorale della Dc. Ancora ieri i sondaggi davano in ascesa Matteo Salvini, leader di fatto della destra non conforme.
Fusse che fusse l’occasione buona per tirargli tra le gambe una papera sfuggita al controllo di Rutilio Sermonti?

La Stampa 30.12.14
D’Orsi sfata il mito di un Gramsci quasi liberale
di Massimiliano Panarari


Non da oggi, qui da noi, la storia delle dottrine politiche è anche un campo di battaglia che sconfina spesso nell’attualità. E, a volte, si colora pure di tinte gialle o noir. Ecco perché Antonio Gramsci, sul quale si appuntano inesauribili polemiche e querelle, e pure «misteri», sparizioni e «oggetti smarriti», val bene una nuova seria ricognizione che preferisce nettamente la storia documentaria a quella indiziaria (e nulla vuole spartire con una sorta di detective story).
Angelo d’Orsi, profondo conoscitore del pensiero del padre teorico del comunismo italiano, ha curato un’esaustiva Inchiesta su Gramsci (Accademia University Press, pp. 219, €18), raccogliendo i testi di 26 specialisti, per cercare di mettere alcuni punti fermi nel dibattito storiografico. Che è complesso – innanzitutto per la natura plurima e «problematica» dei testi gramsciani (articoli per la stampa, materiale carcerario e documenti di partito, per di più spesso non integralmente suoi) – ma da cui andrebbero rigorosamente espunti i «corpi estranei» del revisionismo e dell’opinionismo, responsabili della diffusione di una sequela di «leggende metropolitane» (tra le quali gli studiosi coinvolti indicano quella di un Gramsci sulfureo cattivo maestro, il sospetto intorno a un Piero Sraffa agente sotto copertura del Comintern, se non direttamente di Stalin, e la dicotomia tra un Gramsci buono e un Togliatti malvagio).
L’obiettivo del volume collettaneo – in cui tutto il corpus gramsciano è passato sotto la lente di ingrandimento (dalle interpretazioni postmoderniste alla larghissima ricezione internazionale, sino alla linguistica) – è anche quello di rigettare ai mittenti il tentativo, reputato inaccettabile, di un’ermeneutica liberale del marxista eterodosso Gramsci, che mirerebbe a svuotarne la carica irriducibilmente critica e alternativa. Come pure quello di sgombrare il campo dalla tesi del Quaderno o dei (due) Quaderni di «fuoriuscita dal comunismo» fatti sparire, anche se a Franco Lo Piparo, suo principale alfiere, pur nel dissenso fermo e totale, viene concesso l’onore intellettuale delle armi (e un intervento all’interno del libro).

La Stampa 30.12.14
L’attualità di Giuseppe Berto
Il contrario di uno scrittore italiano
A mezzo secolo dalla pubblicazione deIl male oscuro, la Bur ristampa le sue opere. Schivo e isolato, fu impietoso con se stesso e con gli altri
di Paolo Di Paolo


Non c’è niente che possa fare di lui uno scrittore alla moda. Non ammicca, non lusinga, raramente sorride. Parla di sé sempre sospeso fra orgoglio irritante, spavaldo e impudica autocommiserazione. Non appartiene a bande, «a clan di vario genere»; fa un vanto del proprio anticonformismo, di un carattere «scorbutico» e intransigente. Che c’entra, uno così, con l’Italia che si prepara al 2015? D’altra parte, Giuseppe Berto è uscito per tempo di scena, nell’autunno del livido 1978, dopo avere pubblicato un romanzo che porta nel titolo la sua ossessione: La gloria. Cercata per via letteraria come un riscatto: «Per farti vedere - lo dice rivolgendosi al padre - che avevi torto», per prendere fiato da un senso di colpa remoto e inarginabile. Quello che fa del suo romanzo più noto, Il male oscuro, uscito giusto mezzo secolo fa, una inquietante «Lettera al padre» di quattrocento pagine, da novello Franz Kafka seduto su un lettino d’analista. «Immagino la tua fierezza davanti alla lapide dei caduti col nome del primogenito scolpito nel marmo, vedi non è che proprio non lo volessi non mi è capitato ecco tutto» si rivolge ancora il figlio artista al severo padre carabiniere. «Ecco tutto»: sì, sembra una frase qualunque, ma l’intera opera di Berto sta proprio lì, dentro un disarmato, spudorato «ecco tutto».
A cent’anni dalla nascita - Berto era nato a Mogliano Veneto il 27 dicembre del 1914, anno «dei più disgraziati dell’intera storia umana» - tornano in libreria, per Bur Rizzoli, tutti i suoi libri, gli viene dedicato un francobollo e l’associazione che porta il suo nome affida l’archivio alla regione Veneto. Ma fare i conti con Berto significa accettare la sua letteratura ruvida, che non alleggerisce né edulcora, che non assolve, e prova a scrollarsi di dosso ogni retorica, come il soldato di Guerra in camicia nera vorrebbe scrollarsi di dosso i pidocchi.
Nello stesso anno dell’esordio di Calvino, il ’47, Berto pubblica Il cielo è rosso, titolo trovato da Longanesi, che lo lancia come scrittore della provincia italiana dallo sguardo americano, fra Hemingway e Steinbeck: d’altra parte lo aveva scritto in una prigione in Texas, arrestato dalle forze alleate in Africa, dove si era arruolato da giovane fascista. Qualcosa fa pensare anche a Faulkner, nella tragedia di un destino collettivo, in quella fuga - nel romanzo seguente, Le opere di Dio - di un’intera famiglia, che carica su un carro tutti i propri averi, comprese le galline e un maiale, per mettersi in salvo dalla guerra.
Ma quella «perduta gente» non ha meta, e le figure che Berto tratteggia con la sua prosa rapida e nervosa appartengono infine a un sovra-tempo senza calendari. Dove l’innocenza, però, si confonde sempre con la colpa: «Forse non siamo cattivi - disse la madre - Ma non siamo neanche buoni come si dovrebbe. Bisognerebbe capire di più, Rossa». Bisognerebbe capire di più: questo interessa a Berto, che si rompe la testa pur di comprendere. Comprendere come potesse esaltarlo, ad esempio, lo spettacolo dei proiettili che illuminavano il cielo a giorno, sul fronte africano. O come si possa, a vent’anni, sbagliare per entusiasmo, e poi finire per perdere tutto: «Non possiedo che questa divisa sporca e malandata, due camicie e un solo paio di mutande, colonizzate da un’incredibile quantità di pidocchi». Comprendere, ancora, come si diventa fabbricatori della propria stessa sofferenza, naufragando in un malessere che la mente comunica al corpo fino a invaderlo del tutto. Così, nel Male oscuro, cerca spietatamente di comprendersi, con una furia e una sincerità disperate, ottenendo un risultato che anticipa esperimenti simili di scrittori come Houellebecq o Knausgard (il recente La morte del padre) e non invecchia al confronto. Nella Gloria, il Giuda traditore e insieme complice di Gesù precorre quello dell’ultimo, bellissimo romanzo di Amos Oz (Giuda, Feltrinelli): «Non vi è un solo colpevole; non c’è nessuno che non sia un esecutore». Vale lo stesso per ogni storia d’amore, fra tenerezza e rabbia, come dimostra nel sorprendente e sensuale La cosa buffa, facendo innamorare e disamorare un alter ego ventenne di una ragazza.
È una martellante scrittura del risentimento, quella di Berto: poco italiana nella sua assenza di pose da commedia, nel suo rifiuto assoluto per ogni indulgenza e auto-indulgenza. Sgradevole perfino, nella sua tensione anti-estetica: il linguaggio può essere ancora un fatto morale prima che estetico? Berto se lo domanda di continuo, sfidando, prima che gli altri, se stesso. E resta solo. Come lo vede da lontano Montanelli: risucchiato per vivere dal mondo del cinema, Berto restava «il meno adatto - lui così scontroso e impacciato e candido - a muoversi con disinvoltura in quel mondo di dritti, di venditori di fumo, di assegni a vuoto, di cambiali in protesto e di promesse non mantenute. Quando lo vedevo in via Veneto o in Piazza del Popolo imbrancato con certi tipi, pensavo a Fitzgerald e mi si stringeva il cuore».

Repubblica 30.12.14
La democrazia è ancora il destino finale della storia. Ma il pericolo è la “vetocrazia” che affligge gli Usa. Il nuovo libro dello studioso
Il declino dell’America secondo Fukuyama
di Michael Ignatieff


FRANCIS Fukuyama diventò famoso all’improvviso nel 1989 con il saggio The End of History? ( poi elaborato in La fine della storia e l’ultimo uomo ), dove sosteneva che la storia così come la conoscevamo era finita con la vittoria del capitalismo liberaldemocratico sul comunismo. In realtà le sue tesi non erano così trionfalistiche come qualcuno oggi ricorda. Fukuyama si domandava, con nietzschana malinconia, se i cittadini del nuovo Occidente egemone avrebbero perso il loro scopo spirituale e morale ora che il conflitto a tutto campo con il comunismo si era concluso.
È vero che il capitalismo ha vinto nel 1989 (nessuna alternativa credibile è emersa dopo di allora), ma non è vero che ha portato la democrazia liberale. I sistemi di mercato si sono rivelati politicamente promiscui, pronti ad accoppiarsi senza scrupoli con sistemi politici di ogni sorta, dalle democrazie nordiche alle meritocrazie alla Singapore. Nella Cina di Xi Jinping e nella Russia di Vladimir Putin, la democrazia liberale occidentale ha trovato un concorrente che Fukuyama non aveva previsto: Stati che sono capitalisti in economia, autoritari in politica e nazionalisti nell’ideologia.
Fukuyama ha appena completato il secondo di due voluminosi tomi sulla storia dello sviluppo politico dagli albori della civiltà ai giorni nostri (il primo volume, The Origins of Political Order: From Prehuman Times to the French Revolution , è uscito nel 2011). Lungi dall’abiurare le posizioni precedenti, lo studioso nippoamericano sembra voler raddoppiare la sua scommessa sulla tesi originaria della democrazia come destino inevitabile della storia. Dopo aver ripercorso lo sviluppo politico delle società in ogni parte del globo (il secondo volume, Political Order and Political Decay: From the Industrial Revolution to the Globalization of Democracy , è lungo 672 pagine), Fukuyama giunge alla conclusione che sì, «il processo di sviluppo politico ha una direzione chiara». La democrazia è la destinazione finale della storia politica, dice, e «le prospettive per la democrazia a livello globale rimangono incoraggianti ». L’elemento nuovo della sua analisi, assente nel saggio del 1989, è il ritratto impietoso dello stato della democrazia americana. Una classe media in declino, una disuguaglianza di reddito che non fa che aumentare, interessi privati smisurati e lo stallo generato dalla contrapposizione politica hanno prodotto, secondo lo studioso nippoamericano, «una crisi di rappresentanza» che sta convincendo milioni di americani che i loro politici non li rappresentano più. È un giudizio diffuso, ma Fukuyama lo contestualizza efficacemente, riprendendo una lunga tradizione di pessimismo storico (familiare già agli stessi Padri Fondatori) sulle sorti delle repubbliche. Non sempre crescono e prosperano, come ammoniva Madison, possono anche sfaldarsi e imboccare la via del declino. Pur essendo ottimista sul futuro della democrazia, Fukuyama vuole che gli americani si sveglino e comprendano che anche la loro democrazia, come altre democrazie e repubbliche in passato, potrebbe colare a picco.
La separazione dei poteri disegnata dai Padri Fondatori può generare risultati positivi solo quando il grado di fiducia reciproca fra gli avversari politici è tale da consentire l’approvazione delle nomine, il sostegno reciproco dei provvedimenti di legge e la pratica dell’arte tanto sordida quanto indispensabile del compromesso politico. Quando lo spirito di fiducia viene meno, il risultato non è una democrazia, ma una vetocrazia, termine coniato proprio da Fukuyama. Troppi attori politici — tribunali, commissioni parlamentari, gruppi di interesse, commissioni indipendenti, autorità di regolamentazione — hanno acquisito il potere di opporre un veto ai provvedimenti; e pochi, troppo pochi, hanno il potere per fare le cose. Le conseguenze disastrose di questa paralisi sistemica sono diventate evidenti: una democrazia che non riesce a unire le forze per risanare il disavanzo, ricostruire le infrastrutture, coprire il crescente fabbisogno di spesa per gli anziani o ricostruire il sistema fiscale per renderlo più semplice, più progressivo e più equo.
La destra americana di oggi non ha nessuna soluzione per la paralisi: la sua strategia, consistente nell’«affamare la bestia», non tiene conto che una regolamentazione ben fatta è indispensabile per l’efficienza di qualsiasi economia capitalista. Il fronte progressista, sempre secondo Fukuyama, è altrettanto in difetto: ingolfare lo Stato americano di misure contraddittorie e prive di copertura serve solo a ridurre la fiducia dell’opinione pubblica nella capacità dello Stato di servire in modo equo ed efficiente gli interessi dei cittadini.
L’elemento che distingue l’analisi di Fukuyama dalle polemiche di destra e di sinistra è quando dice che questa crisi di efficacia del Governo è il prodotto di «troppo diritto e troppa “democrazia” rispetto alla capacità dello Stato americano». Negli Stati Uniti, spiega, esiste una tradizione, consolidatasi già prima della Rivoluzione, di adversarial legalism , una visione del sistema legale e legislativo che assegna l’ultima parola su questioni di interesse pubblico ai tribunali più che al Governo.
Quello che chiede Fukuyama è quello che dovrebbe chiedere la maggioranza degli americani: uno Stato efficiente, reattivo, competente. Fukuyama è risoluto nel suo ottimismo sulle possibilità di una riforma di questo tipo. «Io non penso che ci sia una “crisi di governabilità” nelle democrazie consolidate», scrive. Theodore Roosevelt combatté i grandi monopoli, Wilson attuò riforme progressiste, Franklin Delano Roosevelt creò il moderno Stato liberal: se loro ci sono riusciti, insiste Fukuyama, potranno riuscirci anche i leader futuri. Si lava però le mani riguardo agli ostacoli pratici, che sono enormi. In che modo un leader politico possa riuscire a mettere insieme una coalizione di interessi e di cittadini forte abbastanza da strappare il potere di veto a chi lo esercita non è affatto chiaro. Ma Fukuyama dimostra che chiunque sia determinato a riformare la democrazia americana farebbe bene a cominciare leggendosi il suo ultimo libro.
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L’AUTORE Francis Fukuyama è nato a Chicago nel 1952
IL LIBRO Il suo saggio più celebre è Fine della storia (1992)