venerdì 2 gennaio 2015

Corriere 2.1.15
Quella chiesa speciale a rischio di «fusione»

Fusione per incorporazione. Implementazione del piano di ristrutturazione. Vendita degli asset in perdita. Echi da Wall Street? No, sono i discorsi che da mesi tengono banco nei corridoi dell’arcidiocesi di New York, alle prese con difficoltà economiche, una ridotta affluenza nelle chiese e un calo del numero dei sacerdoti che ha imposto un drastico riassetto. Prima, due anni fa, la chiusura di numerose parrocchie di Brooklyn. Poi, mesi fa, l’annuncio che altre 31 chiese, molte a Manhattan, verranno smantellate a partire da agosto: parrocchie soppresse e incorporate in quelle più vicine, cercando di ridurre al minimo il disagio dei fedeli. Che, però, non l’hanno presa bene.
Subissato dalle petizioni dei parrocchiani che gli chiedono di ripensarci, il cardinale Timothy Dolan, il capo della diocesi, anziché aprire un dialogo ha ingaggiato il Reid Group, società di consulenza specializzata che lavora con organizzazioni filantropiche o religiose, incaricata di gestire la delicata fase di transizione anche insegnando ai parroci come convincere i fedeli, vincendo la loro resistenza al cambiamento.
Solo che a resistere a volte sono proprio i parroci, e con buone ragioni. Una delle storie più commoventi ce l’ho vicino casa. La chiesa di Sant’Elisabetta degli Ungheresi, sulla 83esima strada, guarda al trasloco forzato della prossima estate come a uno tsunami capace di distruggere una comunità molto particolare. Dal 1980, infatti, questa chiesa, fondata un secolo fa dai cattolici slovacchi, raccoglie i fedeli affetti da sordità. Cinquecento non udenti della città si riuniscono qui ogni domenica per le funzioni religiose di monsignor McCahill, l’unico sacerdote della diocesi in grado di dire messa e fare un sermone col linguaggio dei segni. Molti di loro, poi, restano per ore o tornano in altri giorni della settimana, quando la parrocchia si trasforma in centro sociale per i sordi. Tutto questo rischia di svanire nella nuova sede, la chiesa di Santa Monica sulla 79esima strada, nella quale confluiranno altre due parrocchie soppresse.
Qualcuno spera addirittura in un aiuto di papa Francesco, che predica la povertà della Chiesa e che dovrebbe essere a New York a settembre, subito dopo il Meeting delle famiglie di Filadelfia. Anche perché, aiutata da molti ricchi benefattori, la parrocchia di Sant’Elisabetta non è affatto in bancarotta. Ma i fedeli sono pochi, la chiesa è grande e il suolo, nel bel mezzo dell’East Side, fa gola a molti immobiliaristi.

Repubblica 2.1.15
Il presidente vuole salvare la diarchia
di Stefano Folli


È ABBASTANZA inusuale che il presidente della Repubblica delinei una sorta di profilo del suo successore, come ha fatto Giorgio Napolitano la sera di San Silvestro rivolgendosi per l’ultima volta agli italiani. Tuttavia l’intero secondo mandato che ora si conclude è vissuto nel segno dell’eccezionalità.
Napolitano ha voluto raccomandare al Parlamento di cercare una convergenza ampia e rapida
FUORI del comune fu la stessa rielezione, la prima dell’avvento della Repubblica.
Non era prevedibile e Napolitano, accettando nel 2013 di restare al Quirinale nonostante l’età e la fatica, aveva offerto una via d’uscita a un sistema politico paralizzato, incapace persino di mettersi d’accordo sul nome del nuovo capo dello Stato. Non è un dettaglio da poco, anzi è decisivo: perché da allora quel sistema non ha fatto visibili progressi, semmai ha accentuato le sue lacune, la sua frammentazione. Di nuovo c’è il dinamismo del premier Matteo Renzi, non a caso una figura inedita a cui il presidente dimissionario ha dedicato parole di elogio e di incoraggiamento. E si capisce: Renzi ha legato in parte le sue fortune all’inizio del rinnovamento istituzionale, dalla riforma del Senato alla legge elettorale.
Ma sono solo i primi passi, oltretutto piuttosto controversi, e l’Italia resta lontana da un riassetto istituzionale compiuto. Non abbiamo un “premierato” all’inglese né un “cancellierato” alla tedesca. Stiamo navigando in quella direzione, ma l’approdo è ancora avvolto nella nebbia. Ecco perché non stupisce che Napolitano abbia accennato al suo successore, indirizzando a lui una porzione non irrilevante del discorso. Non è un atto di arroganza, bensì la logica conseguenza della situazione eccezionale in cui è maturato il secondo mandato, meno di due anni fa, e in cui si aprirà fra poche settimane la seduta del Parlamento per eleggere l’uomo o la donna a cui si chiede di garantire per sette anni la Costituzione e la bilancia dei poteri dello Stato.
Se la riforma complessiva delle istituzioni fosse stata approvata anni fa, oggi probabilmente avremmo a Palazzo Chigi un primo ministro sul modello tedesco. Ma non è così e chissà quanto tempo dovrà passare ancora. In Germania il capo dello Stato può essere una figura anodina e meramente rappresentativa perché il baricentro delle istituzioni è costruito intorno al cancelliere. Da noi è diverso. Per cui il punto di equilibrio rappresentato da un presidente autorevole e autonomo dal gioco politico è irrinunciabile. Questo almeno ha inteso dire Napolitano nel messaggio di commiato. Ha voluto raccomandare al Parlamento di cercare con insistenza una convergenza ampia e di farlo con ragionevole rapidità perché la coesione nazionale è il bene più prezioso, ma anche il più suscettibile di essere eroso nei momenti di crisi.
Quindi si chiede a un sistema politico non diverso da quello che nel 2013 ha fallito di emendarsi e di trovare in se stesso l’energia morale per scegliere bene. Il nuovo capo dello Stato, viene ricordato da più parti, deve essere una figura di forte sensibilità politica e istituzionale: l’esperienza e la conoscenza della macchina dello Stato in certi frangenti sono irrinunciabili, non meno della padronanza della storia costituzionale. Questo è il primo requisito che Napolitano ha suggerito fra le righe e sembra che il premier sia del tutto d’accordo. Quel che conta, il nuovo presidente dovrà mostrarsi capace di garantire al Quirinale la stessa funzione equilibratrice svolta per anni, pur fra polemiche inevitabili, da Napolitano e da Ciampi prima di lui. Ben sapendo che il capo dello Stato deve muoversi in uno scenario che non è solo domestico, bensì europeo e internazionale.
Ovvio che il Parlamento è libero e sovrano nelle sue opzioni. Ma è rischioso toccare il delicato equilibrio che la Costituzione scritta e quella di fatto hanno creato nel corso dei decenni. Proprio gli ultimi mesi di Napolitano e il rapporto costruttivo che si è creato con Renzi dimostrano come sia essenziale nell’Italia di oggi non incrinare la diarchia Quirinale-Palazzo Chigi.

Ma Renzi è di destra o di sinistra?
Il Sole 24 Ore 2.1.15
Sinistra destra a terzo stato
Le due parti in commedia del governo Renzi e il partito che non c’è
di Luca Ricolfi


con questo articolo Luca Ricolfi inizia la sua collaborazione  come editorialista con il nostro giornale

Ma Renzi è di destra o di sinistra? O meglio: le politiche messe in campo dal governo Renzi sono di destra o di sinistra?
La domanda se la fanno in molti, chi con preoccupazione, chi con curiosità. Capisco la preoccupazione del mondo sindacale, che vede in Renzi il picconatore delle sacrosante conquiste del movimento operaio. E capisco pure la curiosità di chi, come il mondo del lavoro autonomo, ha sempre guardato con sospetto ai governi di sinistra, ben poco sensibili alle esigenze delle imprese, degli artigiani, dei commercianti, dei liberi professionisti. E tuttavia ad entrambi vorrei dire: non temete, Renzi è sia di destra sia di sinistra. Se guardiamo con distacco a quel che ha fatto in 10 mesi di governo è difficile, davvero difficile, stabilire se è stato più attento alle esigenze del lavoro dipendente o a quelle del lavoro indipendente. Nei primi mesi, il pendolo è oscillato decisamente a favore del mondo sindacale, al di là delle frecciate polemiche verso la Cgil: gli 80 euro in busta paga non sono certo stati un gesto pro-imprese, che si aspettavano semmai un abbattimento dell’Irap. Negli ultimi mesi, invece, il pendolo ha invertito il suo verso: il depotenziamento dell’articolo 18, l’alleggerimento dell’Irap, la decontribuzione delle assunzioni a tempo indeterminato sono tutti gesti che guardano più al lavoro autonomo che a quello dipendente.
Visto da questa angolatura, il consenso che Renzi riesce a convogliare verso di sé e verso il Pd non deve stupirci. Certo, ad esso contribuisce anche l’autolesionismo degli avversari: Forza Italia fa di tutto per autoaffondarsi, e il Movimento Cinque Stelle non fa nulla per diventare una cosa seria. E tuttavia la vera forza del governo Renzi sta nella sua capacità di fare sia cose tradizionalmente considerate di sinistra, sia cose tradizionalmente considerate di destra. In un certo senso l’esatto contrario del governo Prodi del 2006-2008, che con la sua (modesta) riduzione del cuneo fiscale, suddivisa fra lavoratori e imprese, finì per fare qualcosa che non appariva né di destra né di sinistra.
Se le cose stanno così, diventa abbastanza naturale prevedere che, nei prossimi anni, Renzi non avrà avversari. La sua politica economica, infatti, pare capace di realizzare due miracoli: recuperare, grazie al bonus, molti elettori delusi del centro sinistra, e attirare, grazie alla riduzione del costo del lavoro, molti elettori che un tempo si riconoscevano nel centro destra.
E tuttavia … Tuttavia c’è un piccolo problema. La società italiana è sempre meno una società divisa in due, con una metà che guarda a sinistra e l’altra metà che guarda a destra. Questa semplificazione poteva reggere, forse, quindici o venti anni fa, nel cuore degli anni ’90 del secolo scorso. Allora a fronteggiarsi, anche politicamente, c’erano effettivamente due società. Da una parte la prima società, ovvero il mondo dei garantiti, fatto di dipendenti pubblici e occupati a tempo indeterminato delle imprese maggiori, protetti dall'articolo 18 ma anche dalle dimensioni aziendali (secondo il principio “too big to fail”). Dall’altra la seconda società, ovvero il mondo del rischio, fatto di piccole imprese, lavoratori autonomi, operai e impiegati, tutti esposti alle turbolenze del mercato e sostanzialmente privi di reti di protezione.
Gli uni, i garantiti, guardavano prevalentemente a sinistra, gli altri, gli esposti al rischio, guardavano prevalentemente a destra.
Oggi non è più così. Non perché non ci siano più una società delle garanzie e una società del rischio, ma perché oggi c’è anche una terza società. Una società che c’era già prima, ma che negli anni della crisi è cresciuta di dimensioni, fino a diventare di ampiezza comparabile alle altre due. Questa terza società è la società degli esclusi, o outsider, nel senso letterale di “coloro che stanno fuori”. Una sorta di Terzo Stato in versione moderna. Essa è formata innanzitutto di donne e di giovani, ma più in generale è costituita da quanti aspirano a un lavoro regolare (non importa se a tempo determinato o indeterminato), e invece si trovano in una di queste tre condizioni: occupato in nero, disoccupato, inattivo ma disponibile al lavoro. Si tratta di ben 10 milioni di persone, più o meno quanti sono i membri della società delle garanzie così come i membri della società del rischio.
Ora, il dato interessante è che, ad oggi, questo segmento della società italiana è sostanzialmente privo di rappresentanza. E lo è per una ragione economica, prima ancora che politica. L’interesse degli esclusi è diametralmente opposto a quello dei garantiti, ed è in parte diverso da quello della società del rischio. La priorità degli esclusi è, per definizione, quella di essere inclusi. Il problema è che tale inclusione richiede scelte economiche molto diverse da quelle che hanno permesso a Renzi di dialogare felicemente con la prima e la seconda società. Includere, infatti, significherebbe puntare tutte le carte sulla creazione di posti di lavoro aggiuntivi (a noi ne mancano circa 6 milioni, se come riferimento assumiamo la media Ocse). Precisamente il contrario di quanto, nel comprensibile desiderio di attirare voti, il governo Renzi ha fatto finora e intende fare nei prossimi anni, almeno a giudicare dalle tabelle della Legge di stabilità, che per il 2018 prevedono ancora quasi 3 milioni di disoccupati.
Per capire perché gli interessi del Terzo Stato non siano in cima alle preoccupazioni di questo governo, basta riflettere sulle due decisioni cruciali di allocazione delle risorse effettuate nel corso del 2014, ossia gli 80 euro in busta paga e la decontribuzione per i neo-assunti. I 10 miliardi in busta paga sono, per loro natura, una misura a favore di chi un lavoro già ce l’ha, mentre un loro impiego per investimenti pubblici, o per abbattere l’Irap, avrebbero potuto dare una mano a chi un lavoro non ce l’ha. Quanto ai 5 miliardi di decontribuzione per i neo-assunti, possono apparire un provvedimento per generare nuova occupazione, ma lo saranno solo in misura minima perché, in assenza di vincoli di addizionalità (aumento del numero di occupati rispetto all’anno prima), finiranno per essere usati soprattutto per sostituire chi va in pensione o si dimette per maternità, senza creazione di posti di lavoro aggiuntivi. Un punto, quest'ultimo, su cui le preoccupazioni di Susanna Camusso appaiono tutt’altro che ingiustificate.
Ecco perché, a mio parere, il futuro del Pd e del governo Renzi è meno scontato di quel che può apparire a prima vista. Finché la terza società, la società degli esclusi, resterà sostanzialmente priva di rappresentanza, Renzi e il Pd potranno dormire sonni tranquilli, perché la loro capacità di recitare due parti in commedia, quella della sinistra e quella della destra, permetterà loro di rappresentare sia la prima sia, entro certi limiti, la seconda società. Se tuttavia la situazione cambiasse, e un partito, vecchio o nuovo, provasse a intercettare umori e interessi della terza società, il gioco del Pd si farebbe meno facile. Perché, allora, la domanda non sarebbe più se quel che fa Renzi è di sinistra o di destra, ma diventerebbe improvvisamente un’altra: può esistere una sinistra che lascia ad altri il compito di difendere gli esclusi?

Corriere 2.1.15
Rappresentanza, sindacati e imprese alla conta dell’Inps


C’è un tema che resta sottotraccia in tutto il dibattito sul lavoro. È quello della rappresentanza. Eppure è anche su questo che governo e sindacati giocheranno un’importante partita nel 2015. La novità principale è questa: i primi di gennaio Confindustria con Cgil, Cisl e Uil firmeranno una convenzione con l’Inps che permetterà finalmente di «contare» in modo insindacabile e verificabile gli iscritti alle varie sigle all’interno delle imprese. Insieme con il numero degli eletti nelle compagini sindacali. La mancanza di questo passaggio tecnico — insieme con contrasti e tensioni all’interno dei sindacati, impegnati in congressi e cambi al vertice — ha impedito finora l’applicazione dell’accordo del 10 gennaio 2014 sulla rappresentanza.
Ce la faranno le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori a dare gambe per camminare a questa storica e sofferta intesa? Presto per dirlo. Una volta firmata la convenzione, le aziende dovranno compilare dei moduli ad hoc sul sito dell’Inps. Poi i dati saranno elaborati e passati al Cnel. Le regole sulla rappresentanza sono importanti in quanto influiscono sugli esiti della contrattazione. E contratti rilevanti come quelli dei chimici, dei meccanici e degli alimentari scadono a fine 2015: un banco di prova di tutto rispetto. Se invece sindacati e associazioni delle imprese non riuscissero e rendere operativa l’intesa del gennaio 2014, lo scenario cambierebbe in modo netto. Il governo non fa mistero di essere pronto a scendere in campo. Con una legge ad hoc. Se la legge semplicemente recepisse l’intesa delle parti sociali sarebbe un conto. Se invece se ne andassero a modificare i contenuti lo scenario cambierebbe del tutto. Non va dimenticato, infatti, che l’articolo 39 della Costituzione nei commi in cui prevede la registrazione dei sindacati imposta per legge ai fini dell’acquisizione di personalità giuridica e della stipula di contratti efficaci per tutti gli appartenenti alle categorie non è mai stato attuato proprio perché le parti sociali hanno preferito mantenersi autonome e indipendenti. In Confindustria molti sono ancora convinti valga la pena di portare a termine il faticoso percorso che porta a una autoregolamentazione da parte delle parti sociali dei meccanismi della rappresentanza. Ma se anche questa volta, seppure a un passo dal traguardo, si creasse qualche intoppo allora lo scenario potrebbe cambiare. Aprendo un varco — e in qualche modo giustificando — l’intervento del governo.


Il Sole 2.1.15
Niente proroga per gli inquilini a rischio sfratto
Salta anche l’integrazione al 70% per il salario perso in seguito alla stipula di contratti di solidarietà


MILANO Resta fuori dal decreto milleproroghe (n. 192/2014), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre, il blocco degli sfratti per fine locazione, un aiuto riservato agli inquilini che si ritrovano con il contratto di affitto scaduto e in possesso di alcuni requisiti (nuclei bisognosi, con sulle spalle anziani, portatori di handicap, malati terminali e un reddito annuo lordo che non superi i 27mila euro).
Dal ministero delle Infrastrutture spiegano che il rinvio non è stato inserito nel milleproroghe visto che nel decreto casa sono stati incrementi i fondi per affitti e morosità incolpevole. I due fondi prevedono uno stanziamento complessivo di 446 milioni di euro: 200 milioni per gli affitti e 226 per la morosità incolpevole. A questi si aggiunge uno stanziamento di 400 milioni per la ristrutturazione degli alloggi nelle case popolari, che completa il quadro che il Governo ha messo a punto per risolvere il problema dell’emergenza abitativa.
Il blocco degli sfratti è stato prorogato già per 30 volte: «Il Governo ha rotto la rituale liturgia», ha infatti commentato con soddisfazione il presidente di Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani, aggiungendo che c’è stata «più di una proroga all’anno dall’infausta legge dell’equo canone, che non risolse alcun problema ma nel contempo ne creò tanti». Mentre Confedilizia confida che «il governo, contro ogni suggestione, tenga ferma la decisione», il Sunia (sindacato di inquilini e assegnatari) promette battaglia: «Chiederemo ai prefetti di non concedere forza pubblica per questo tipo di sfratti e ci impegneremo affinché in sede di legge di conversione del decreto venga inserita la proroga». Secondo il Sunia sarebbero circa 30mila le famiglie - concentrate soprattutto a Roma, Napoli, Milano e Torino - che rischiano di essere sfrattate nei prossimi giorni.
Un’altra misura che non ha trovato spazio nel milleproroghe è quella riguardante l’integrazione del 70% della retribuzione persa a causa della riduzione di orario lavorativo dovuto ai contratti di solidarietà: per legge tale integrazione, dovuta alla cassa integrazione guadagni straordinaria, è pari al 60% ma fino al 31 dicembre 2014 si poteva contare su un 10% aggiuntivo, che non è però stato prorogato. Il risultato è che dal 1° gennaio i contratti di solidarietà di tipo A assistiti da Cigs non saranno più integrati al 70% ma solo al 60.
Fino al 2013 i lavoratori in solidarietà avevano potuto contare su un aiuto pari all’80% della retribuzione persa, grazie a una maxi integrazione del 20 per cento. Dal 1° gennaio 2014 (per un anno) questa ulteriore integrazione era scesa al 10%, come previsto dalla legge di stabilità n. 147/2013. Nella Finanziaria del 2015 (legge n. 190/2014) non è stato introdotto alcun allungamento, per cui l’ultima spiaggia era rappresentata dal decreto milleproroghe, su cui però non è sbarcata alcuna proroga per l’aiuto destinato ai lavoratori in solidarietà.

Repubblica 2.1.15
Dal patto De Gasperi-Togliatti fino al “metodo Ciampi” ecco i sistemi e le trappole per eleggere il capo dello Stato
I “no” del primo presidente De Nicola per avere garanzie e le lunghe maratone in aula durante la Prima Repubblica
di Sebastiano Messina


PER la tredicesima volta, davanti alle urne di vimini foderate di raso verde dalle quali uscirà il nome del prossimo inquilino del Quirinale, il Palazzo scopre che non c’è un metodo, non c’è una tecnica, non c’è proprio nessun sistema che garantisca l’elezione a colpo sicuro del capo dello Stato. E oggi l’imbarazzante ricordo dell’aprile 2013 — quel falò politico di 72 ore che bruciò i nomi di Franco Marini, di Stefano Rodotà e di Romano Prodi, prima che i leader di partito andassero in processione da Napolitano per supplicarlo di accettare il secondo mandato — spinge chi sarà chiamato a fare la prima mossa a guardarsi indietro, per capire come si fa un presidente. Perché solo la storia può insegnare qualcosa: forse non i segreti per conquistare il Colle, ma di sicuro gli errori da non commettere per evitare una rovinosa sconfitta.
All’alba della Repubblica — siamo alla fine di giugno del 1946 — la partita si svolge tra le quattro mura di una stanza, quella in cui una sera si riuniscono De Gasperi, Togliatti e Nenni per scegliere il “capo provvisorio dello Stato” dopo la fine della monarchia. Una partita a tavolino, dunque, nella quale il leader democristiano entra portando in tasca il nome di Vittorio Emanuele Orlando (il presidente del Consiglio della Grande Guerra) e ne esce con quello di Enrico De Nicola. Eppure, trovata l’intesa, l’impresa più difficile risulta quella di convincere il grande giurista napoletano a dire di sì: quando gli offrono — a 69 anni — la poltrona più importante della neonata Repubblica, lui ha già rinunciato quattro volte ad essere presidente del Consiglio. Al prefetto di Napoli, incaricato da De Gasperi di sondarne la disponibilità, De Nicola risponde con un cortesissimo «No, grazie». Neanche Giovanni Leone, suo allievo prediletto, riesce a parlargli: «Veniva al telefono — racconterà poi — e credendo di ingannarmi camuffava la voce nella cornetta: mi dispiace, l’onorevole non c’è». Sul Giornale d’Italia il giornalista Manlio Lupinacci gli rivolge un appello pubblico: “Onorevole De Nicola, decida di decidere se accetta di accettare”». Solo quando Giuseppe Saragat, presidente dell’Assemblea costituente, gli telefona per assicurargli che c’è quasi l’unanimità sul suo nome, De Nicola finalmente accetta. E raccoglie l’80 per cento dei voti.
Neanche due anni dopo, nonostante la storica vittoria alle politiche del 18 aprile 1948, De Gasperi riesce a imporre il suo candidato, il repubblicano Carlo Sforza. Nella notte del 10 maggio, dopo due disastrose votazioni, deve ripiegare sul liberale Luigi Einaudi. E tocca al suo collaboratore più fidato, Giulio Andreotti, bussare alle sei e un quarto alla porta dell’ignaro senatore piemontese per chiedergli di lasciare le sue tre cariche — ministro del Bilancio, vicepresidente del Consiglio e governatore della Banca d’Italia — per la presidenza della Repubblica. «Ma De Gasperi — obietta lui, sinceramente preoccupato — lo sa che io porto il bastone? Come farei a passare in rassegna i reparti militari?». E Andreotti, serafico: «Non si preoccupi, mica deve andare a cavallo: al giorno d’oggi ci sono le automobili».
Con l’elezione di Giovanni Gronchi si sperimenta, e proprio in casa democristiana, la congiura anti-partito. Il segretario del partito, Amintore Fanfani, vorrebbe eleggere Cesare Merzagora, ma un fronte largo si mobilita sottotraccia per Gronchi, il democristiano che piace a sinistra. E mentre il futuro presidente porta a spasso per Roma il monarchico Covelli, per convincerlo a rastrellare i voti della destra, Guido Gonella tiene i contatti con Togliatti e Andreotti va a casa di Pertini. Ci va a piedi, per non essere seguito, e il deputato socialista scende ad accoglierlo in vestaglia. «Trovammo l’atrio affollato di gente, come se ci aspettassero — racconterà poi — e invece aspettavano la Madonna Pellegrina che allora girava di palaz- zo in palazzo».
Anche un candidato ufficiale può mettere in campo le contromisure per neutralizzare chi lavora contro di lui. Per far eleggere il quarto presidente, Antonio Segni, che nelle prime votazioni non riesce a raccogliere i voti dei dissidenti democristiani, si mobilita quella che verrà battezzata «la Brigata Sassari», guidata da Piccoli, Sarti e Cossiga. Sono loro che si occupano di recuperare a uno a uno i voti in libera uscita: nel Transatlantico, col telefono o al ristorante. Decisivo è però il no di Leone a Togliatti. E’ il pomeriggio del 6 maggio 1962. A Segni sono mancati solo quattro voti, all’ottavo scrutinio, per essere eletto, e in aula è scoppiato un tumulto per l’apparizione di schede prevotate. Mentre l’aula è in subbuglio, il segretario del Pci va da Leone, presidente della Camera, e gli chiede di rinviare la seduta al giorno dopo. Se lo farà, avrà i voti della sinistra per diventare presidente al posto di Segni. «Vi ringrazio, ma così userei i miei poteri per un interesse personale: non posso», risponde Leone, che indice per la sera stessa la nuova votazione. Segni supera il quorum per 15 voti: la Brigata Sassari ha conquistato il Colle.
Due anni dopo, quando le dimissioni di Segni riaprono i giochi per il Quirinale, il presidente del Consiglio Aldo Moro fa tesoro degli errori di De Gasperi ed evita di schierare dal primo minuto il suo candidato, il socialdemocratico Giuseppe Saragat. «Se noi lo candidassimo subito, i gruppi democristiani si ribellerebbero e uscirebbe eletto Fanfani » spiega a Nenni. Dunque lo stesso Moro dà il via libera alla candidatura di Leone, che i franchi tiratori si incaricano di bloccare. Poi, dopo il quindicesimo scrutinio a vuoto, fa approvare ai grandi elettori del partito un oscuro documento in cui si auspica un candidato che raccolga «le più larghe adesioni della parte democratica del Parlamento ». Molti votano senza cogliere quella sfumatura. Solo un deputato quarantenne di Novara, Oscar Luigi Scalfaro, coglie il vero significato di quella frase: «Ho capito tutto, questa sera siamo stati chiamati a votare per Saragat!». E al ventunesimo scrutinio, dopo un testa a testa con Nenni, Saragat diventa il quinto presidente.
Entrare in gioco nel secondo tempo, quando il primo nome è stato bruciato nel voto segreto: questa è la mossa che si rivelata la più efficace, in 69 anni di votazioni presidenziali. Funziona anche con Leone, lo sconfitto del 1964 che sette anni dopo ottiene la rivincita al termine della più lunga serie di votazioni della storia del Quirinale: al ventitreesimo scrutinio. Il candidato ufficiale della Dc, Fanfani, esce di scena al settimo giorno, battuto dai franchi tiratori, e da allora i democristiani non partecipano più alle votazioni. Il 23 dicembre a piazza del Gesù l’intesa arriva sul nome di Leone. Dovrà battere Nenni, che abita nel suo stesso condominio, in via Cristoforo Colombo. Il giorno della votazione decisiva il portiere mette la guida rossa nell’atrio. «Non so chi sarà eletto — annuncia agli altri inquilini — ma so che stasera torna a casa un presidente».
Quando però il partito di maggioranza relativa non ha la forza per imporre il suo candidato né al primo né al secondo tempo, la sua prima tentazione è quella di bloccare anche gli altri aspiranti. Così, nel luglio rovente del 1978 — Moro è stato ucciso il 9 maggio, Leone è stato costretto a dimettersi il 15 giugno — le correnti democristiane cercano di neutralizzare il candidato più insidioso: il socialista Sandro Pertini, sostenuto dai comunisti e dai laici, subìto. Non potete chiederci, dicono, di votare un candidato scelto dagli altri. La contromossa di Pertini è geniale: convoca i cronisti e annuncia il suo ritiro dalla corsa. Poi aggiunge: «Volete una rivelazione? Dieci giorni fa io sono andato da Zaccagnini e gli ho detto: il candidato devi essere tu». La mina è disinnescata, il candidato socialista non è più uno schiaffo alla Dc. Così, 48 ore dopo l’ex partigiano viene eletto presidente con 832 voti, un record tutt’ora imbattuto.
Sette anni dopo, però, la Dc non si fa cogliere impreparata. Ha imparato la lezione, e Ciriaco De Mita realizza un capolavoro tattico riuscendo a far eleggere al primo scrutinio — per la prima volta dal 1946 — Francesco Cossiga. Il segretario Dc tesse con largo anticipo, in gran segreto, una tela che gli permette di raccogliere un consenso trasversale così ampio che Cossiga — ex uomo di punta della “Brigata Sassari” — stavolta può andarsene in Portogallo ostentando il suo distacco. Ma il giorno del voto decisivo va a trovare l’amico segretario alle sei e mezzo del mattino nella sua casa vicino alle Fosse Ardeatine, lo invita a fare due passi nella strada deserta e gli regala una Bibbia rilegata con la sua dedica. «Non lasciatemi solo» mormora, abbracciandolo.
Eppure la pazienza e l’abilità non bastano, davanti a una poltrona per due. E nella primavera del 1992, quando Andreotti e Forlani puntano entrambi verso il Colle, i grandi elettori li puniscono nel voto segreto. Solo il tritolo della strage di Capaci, che scuote il Palazzo come un terremoto, costringe i partiti a trovare subito un’intesa su un outsider, Oscar Luigi Scalfaro, che alla prima votazione aveva avuto solo sei voti. All’ultimo momento però Achille Occhetto va dal candidato per dirgli che c’è ancora ostacolo: «Tra i nostri c’è chi teme che la tua identità di cattolico fervente possa entrare in conflitto con la necessaria connotazione laica dello Stato» lo avverte. «Di’ ai tuoi — gli risponde Scalfaro — che io sono serenamente degasperiano: la Chiesa è la Chiesa, lo Stato è lo Stato». Poche ore dopo — la sera del 25 maggio — il quinto (e ultimo) presidente democristiano viene eletto con 672 voti su 1002.
Nell’ultimo anno del secondo millennio, l’elezione del successore di Scalfaro è così sorprendente, per la rapidità dell’elezione e per l’ampiezza della maggioranza — che da allora si parla di “metodo Ciampi”. Stavolta il ruolo del grande tessitore tocca a Walter Veltroni, che riesce a trovare l’intesa con l’opposizione berlusconiana sul nome del ministro dell’Economia che ha portato l’Italia nell’euro. L’accordo resta segreto fino all’ultimo, anche se una settimana prima delle votazioni Gianfranco Fini fa una scommessa con i giornalisti e scrive il nome del futuro presidente su un foglio che, sigillato in una busta, viene affidato al cameriere di un bar. Dopo l’elezione, torna con i cronisti, riapre la busta davanti a loro e mostra il biglietto: «Ciampi».
L’impresa non riuscirà più a nessuno. Nel 2006 la candidatura di Massimo D’Alema trova una sponda perfino nel «Foglio» di Giuliano Ferrara, ma Fini, Casini e Rutelli si mettono di traverso e all’ultimo momento spunta il nome dell’ottantunenne Giorgio Napolitano. Sarà il primo ex comunista a diventare capo dello Stato. E sarà anche il primo presidente a essere rieletto, dopo il ritorno sulla scena degli eterni protagonisti delle campagne per il Quirinale: i franchi tiratori. Ma quella è un’altra storia, che va raccontata dall’inizio.

Repubblica 2.1.15
Le sfide della cooperazione
La bufera giudiziaria Mafia Capitale che ha coinvolto alcune coop ha messo in luce i problemi strutturali della mutualità
di Nadia Urbinati


LA BUFERA giudiziaria Mafia Capitale che ha coinvolto alcune cooperative mette in luce i problemi strutturali della cooperazione rubricabili sotto due grandi capitoli: la debolezza della politica e l’opacità della sussidiarietà. Sul primo fronte, valgono le parole del presidente di Coop Italia, Marco Pedroni, al Congresso nazionale della Lega delle Cooperative: «nessuna giustificazione può avere l’ignoranza» e la cooperazione che deve fare di più «per arrivare anche prima dei magistrati». La politica della trasparenza è figlia dei principi sui quali si regge la cooperazione: la mutualità e l’associazionismo solidale. Sul secondo fronte, la questione si fa più seria perché la crescita della cooperazione è avvenuta in concomitanza con la politica della sussidiarietà, entrata a far parte della Costituzione con il Titolo V. Delineando il programma futuro al Congresso della Lega, Mauro Lusetti ha messo tra i settori in espansione «la sussidiarietà rispetto a uno Stato non più in grado di mantenere l’universalità dei servizi». La cooperazione a sfondo sociale vive di finanziamento pubblico, è in crescita e si è dimostrata permeabile all’infiltrazione mafiosa e alla corruzione.
L’intreccio tra lecito e illecito sta insieme a quello tra disagio e profitto. È qui che “arrivare prima dei magistrati” fa la differenza: il che significa verificare la “sincerità” delle cooperative, vigilare sulle gare di appalto, monitorare le spese a partire dalla verifica delle condizioni di vita di coloro che dovrebbero beneficiare dei servizi. La prova dell’efficienza va cercata laddove sta il bisogno, nell’oggetto finale del servizio. Qui sta il test di coerenza con i principi della cooperazione; qui va cercata la prova della distanza tra servizio offerto e criteri ispi- ratori. Il degrado è allora un segno di subalternità a metodi di gestione che configurano illeciti e comportamenti contrari ai principi della cooperazione. Quali sono questi principi?
Non è esercizio ozioso andare alle origini di questo movimento europeo, al 1795, quando in Hull, contea inglese dello Yorkshire, la gente del villaggio fondò una società cooperativa per acquistare pane a prezzi non proibitivi liberando i consumatori dalle “pratiche fraudolente di produttori e distributori di farina”. L’esperimento ebbe tanto successo che i proprietari di mulini si rivolsero al giudice della contea per far chiudere la cooperativa. Il giudice si schierò con la cooperazione che si era dimostrata capace di generare armonia sociale. Con lo statuto dei “prodi pionieri” di Rochdale del 1844, un altro fattore emerse: la struttura decisionale democratica fondata sulla partecipazione non delegata e la conta di voti uguali con regola di maggioranza. L’Alleanza cooperativa inter- nazionale ha confermato nel 1966 questi principi con altri tre: il controllo democratico, l’interesse limitato sul capitale, il ristorno. Questi sono ancora oggi i valori cardine della cooperazione, statuiti nella legge quadro del 2003.
Si tende ad associare l’ideologia cooperativa con quella socialista, eppure la sua origine è liberale. Furono i riformatori liberali ottocenteschi a comprenderne l’importanza nella ricerca di soluzioni alternative al socialismo statalista e al capitalismo individualista. La cooperazione non è nata come ripudio del regime di mercato né della proprietà privata. Ha accettato i principi liberali della divisione del lavoro e della libera iniziativa e ha coniugato i concetti di solidarietà, democraticità e mutualismo solidaristico con i più classici fini commerciali. Per questo è stata considerata come un’alternativa al sistema capitalistico. Il mutualismo cooperativo fu una risorsa etica importante, che aiutò la democratizzazione della società favorendo la pratica dell’aiuto volontario. Nelle società gerarchiche il mutualismo è stato un’arma di difesa di chi non aveva nulla. Ha giocato un ruolo cruciale nelle economie europee dei due dopoguerra del XX secolo e ha ispirato i nostri costituenti che nell’Art. 45 vollero «riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata». Respingendo la logica della carità, la cooperazione si è proposta come partnership: associazione volontaria di persone che mettono in comune le loro capacità per un fine utile agli associati. La con-divisione della responsabilità ha voluto significare una concezione del lavoro produttivo come opera, non come merce; un pratica di mutua-dipendenza tra lavoratori invece che una condizione di asimmetrica dipendenza di proletari da un capo. J. S. Mill era convinto che la cooperazione potesse realizzare «le migliori aspirazioni dello spirito democratico».
È lecito chiedersi se abbia senso andare ai valori di un secolo e mezzo fa. Se si tiene conto delle vicende romane, la domanda non è retorica. Ma che i principi cooperativi siano antichi non vuol dire che siano desueti. È possibile che nella cooperazione di oggi i valori che l’hanno distinta all’origine si siano offuscati. Ma se i cooperatori continuano a organizzarsi secondo i criteri tradizionali non si capisce perché si debba pensare che siano valori anacronistici. Sono semmai non sufficientemente attrezzati a resistere alle nuove sfide del capitalismo finanziario e a una pratica della sussidiarietà che deve, questa sì, essere ripensata. Del resto, a quali altri principi la cooperazione può affidarsi se non a quelli che la qualificano da quando è nata, la democraticità e il perseguimento di uno scopo mutualistico?

Corriere 2.1.15
Capodanno: 83,5% dei vigili assenti per malattia, scontro con il Comune
Il comandante Clemente ha parlato di «una diserzione numerica assolutamente ingiustificata»
Assenti anche gli autisti Atac sul metrò A: su 24 ne erano presenti 7. «Nessun alibi» tuona l’assessore ai Trasporti Guido Improta
di Manuela Pelati

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La Stampa 2.1.15
Prende a martellate la figlia di 3 anni


“Me lo dicevano le voci”

«Le voci mi hanno imposto di farlo, così l’avrei liberata dal suo male». Nessuno aveva mai sospettato che Marchel K, 36 anni, avesse delle turbe psichiche. Non c’erano mai stati sintomi, anche se la moglie, interrogata dagli investigatori, ha raccontato che negli ultimi giorni il marito sembrava sofferente e taciturno. Titolari insieme di una ditta di pulizie e in Italia da svariati anni, la coppia ha una figlia di 3 anni. La figlia che Marchel, nella notte di Capodanno, ha colpito con una martellata alla testa senza un apparente motivo.
Era stato lo stesso Marchel ad avvertire la moglie che la notte di Capodanno sarebbero arrivati degli amici a casa per il Veglione. Ma alle 23 nessuno si era ancora presentato alla porta. Così la donna aveva preso la figlioletta di 3 anni e l’aveva portato a letto. Pochi minuti dopo, nella stanza, è entrato Marchel armato di martello e senza dire nulla ha colpito la piccola alla testa. La moglie è riuscito a prendere la bambina e fuggire dai vicini, da dove poi ha chiamato i carabinieri.
I militari di Vimercati, quando sono arrivati nella casa, hanno trovato il 36enne ancora nella camera da letto della bambina. Aveva ancora il martello in mano. Lo hanno subito arrestato, e lui non ha opposto resistenza. Ha giustificato il suo gesto solo in quel modo: delle voci nella testa gli avrebbero imposto di aggredire la piccola.
La bambina è ora ricoverata in prognosi riservata all’ospedale di Bergamo. Non è in pericolo di vita, sebbene dovrà essere sottoposta a un intervento chirurgico per ridurre l’ematoma cerebrale provocato dalla martellata del padre. Nella stessa giornata è purtroppo arrivata la notizia del bambino di 9 anni del Veronese colpito l’antivigilia di Natale a martellate dal padre poi suicida.
«Le voci mi hanno imposto di farlo, così l’avrei liberata dal suo male». Nessuno aveva mai sospettato che Marchel K, 36 anni, avesse delle turbe psichiche. Non c’erano mai stati sintomi, anche se la moglie, interrogata dagli investigatori, ha raccontato che negli ultimi giorni il marito sembrava sofferente e taciturno. Titolari insieme di una ditta di pulizie e in Italia da svariati anni, la coppia ha una figlia di 3 anni. La figlia che Marchel, nella notte di Capodanno, ha colpito con una martellata alla testa senza un apparente motivo.
Era stato lo stesso Marchel ad avvertire la moglie che la notte di Capodanno sarebbero arrivati degli amici a casa per il Veglione. Ma alle 23 nessuno si era ancora presentato alla porta. Così la donna aveva preso la figlioletta di 3 anni e l’aveva portato a letto. Pochi minuti dopo, nella stanza, è entrato Marchel armato di martello e senza dire nulla ha colpito la piccola alla testa. La moglie è riuscito a prendere la bambina e fuggire dai vicini, da dove poi ha chiamato i carabinieri.
I militari di Vimercati, quando sono arrivati nella casa, hanno trovato il 36enne ancora nella camera da letto della bambina. Aveva ancora il martello in mano. Lo hanno subito arrestato, e lui non ha opposto resistenza. Ha giustificato il suo gesto solo in quel modo: delle voci nella testa gli avrebbero imposto di aggredire la piccola.
La bambina è ora ricoverata in prognosi riservata all’ospedale di Bergamo. Non è in pericolo di vita, sebbene dovrà essere sottoposta a un intervento chirurgico per ridurre l’ematoma cerebrale provocato dalla martellata del padre. Nella stessa giornata è purtroppo arrivata la notizia del bambino di 9 anni del Veronese colpito l’antivigilia di Natale a martellate dal padre poi suicida.

Corriere 2.1.15
Francia
Legione d’onore a Piketty, ma l’economista la rifiuta
Schiaffo per Hollande. L’autore de «Il capitale nel XXI secolo»
in polemica: «Il governo si occupi piuttosto di rilanciare la crescita in Francia e in Europa»
di Elisabetta Rosaspina

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Corriere 2.1.15
Palestina alla Corte internazionale, l’ira di Israele
di F. Bat.


Ora lo Stato ebraico potrebbe essere chiamato a rispondere di crimini di guerra
DAL NOSTRO INVIATO GAZA Internazionalizzare. Alla fine Abu Mazen s’è convinto. E la parola d’ordine 2015, ora, la ripete in tutte le sedi: «Gl’israeliani attaccano noi e la nostra terra — diceva ieri ai suoi fedelissimi — presso chi dobbiamo andare a protestare? Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ci ha sbattuto la porta... Dove possiamo andare?». Bisogna internazionalizzare il conflitto israelo-palestinese, «perché sono vent’anni che ci abbiamo provato in ogni modo e senza risultati».
La mossa è arrivata a Capodanno. Venti firme, sotto le venti convenzioni internazionali che danno accesso al Tribunale dell’Aja. Una spallata, spesso minacciata e mai data: come osservatore dell’Assemblea delle Nazioni Unite, status acquisito nel 2012, ora Abu Mazen potrà chiedere che la Corte penale internazionale processi Israele per crimini di guerra.
Il leader di Ramallah ha siglato anche lo Statuto di Roma, che concede ai firmatari questa prerogativa ed è difficile che vi rinunci: dopo anni di denunce mediatiche, l’Anp vuole chiedere un pronunciamento della giustizia sovranazionale su questioni come il proliferare delle colonie illegali o i morti delle ultime guerre di Gaza, a partire dall’operazione Bordo Protettivo del 2014. Magari, anche sull’occupazione dei Territori dopo il 1967.
La scelta non è sorprendente e il momento non è casuale. Arriva dopo che negli ultimi mesi un governo (la Svezia) e diversi Parlamenti (Gran Bretagna, Francia, Irlanda) hanno detto sì a un riconoscimento pieno dello Stato palestinese. E arriva subito dopo che il Consiglio di sicurezza (su pressione degli Usa) ha bloccato la mozione giordana che imponeva il ritiro dai Territori a partire dal 2017: su Abu Mazen sono piombate molte critiche, per una mossa diplomatica che ai più era parsa suicida e incomprensibile. Con questo colpo di coda, l’ottantenne presidente dell’Anp riprende un po’ di scena, incassa il plauso dei rivali-alleati di Hamas e porta scompiglio in Israele, a due mesi e mezzo dal voto.
Il ministro israeliano Naftali Bennett ricorda che all’Aja pendono anche le denunce contro Hamas e l’uso di scudi umani, ma l’irritazione c’è: «Ci aspettiamo che la Corte respinga l’ipocrita richiesta palestinese — è la replica di Bibi Netanyahu —. L’Anp non è uno Stato, ma l’alleata dei terroristi di Hamas. Difenderemo i nostri soldati come difendiamo noi stessi».
Per Bibi, quello di Abu Mazen potrebbe anche essere un assist. Forse non aspettava altro, per portare la campagna elettorale sul tema che preferisce: la difesa d’Israele.

La Stampa 2.1.15
Onu-Israele le ragioni della rottura
Perché il Palazzo di Vetro è diventato un avversario?


di Paolo Mastrolilli


Il 29 novembre del 1947 l’Onu adottò la risoluzione 181, nota come la «Partition Resolution», che viene considerata la base della proclamazione dell’indipendenza di Israele nel maggio dell’anno successivo. Ora, fallito il tentativo di far approvare dal Consiglio di Sicurezza il riconoscimento dello Stato palestinese entro il 2017, Abu Mazen ha firmato l’adesione a 22 Statuti e Trattati Onu, incluso quello di Roma sulla Corte Penale Internazionale. Obiettivo: usare la Cpi per accusare Israele di aver commesso crimini di guerra, e tutte le altre strutture del Palazzo di Vetro per metterlo in un angolo. In 67 anni, dunque, l’Organizzazione è passata dal ruolo di levatrice dello Stato ebraico a quello di avvelenatrice. È così vero che i neocon volevano chiuderla sostituirla con l’Alleanza delle Democrazie.
La prima spiegazione di questa evoluzione sta nei numeri. È sempre difficile etichettare un Paese in base alla sua religione, ma è un fatto che la Organisation of Islamic Cooperation ha 57 membri, di cui 56 fanno parte delle Nazioni Unite. Quasi un terzo dell’intera membership, che finisce per riflettersi sulle posizioni contro lo Stato ebraico prese soprattutto dall’Assemblea Generale. Ciò dimostra anche quanto fosse velleitaria l’idea dei neocon, che chiudendo il Palazzo di Vetro avrebbero tolto uno pulpito agli avversari di Israele, ma non avrebbero risolto il problema di fondo del suo accerchiamento. In Consiglio di Sicurezza invece il veto Usa resta l’argine principale, ma in alcuni casi, come è accaduto martedì scorso, Washington è in grado di ottenere dagli alleati abbastanza astensioni per poter evitare l’imbarazzo di usarlo. 
I critici accusano Israele di essere stata la ragione della propria caduta di popolarità, a causa delle violenze commesse. Netanyahu risponde che «se c’è qualcuno che deve temere per i crimini di guerra commessi, è l’Autorità palestinese, perché ha un governo di unità nazionale con Hamas, organizzazione terroristica simile allo Stato Islamico, responsabile dell’omicidio di centinaia di civili». Si capisce così perché lo stesso inviato dell’Onu per il Medio Oriente, Robert Serry, avesse detto prima ancora del voto sulla risoluzione che l’azione del Palazzo di Vetro non potrà mai sostituire i negoziati fra le parti nella ricerca di una soluzione condivisa.

Corriere 2.1.15
Con lo champagne nascosto al Capodanno triste di Gaza
Hamas vieta alcol e feste. Ma il vero dramma è la ricostruzione
di Francesco Battistini


DAL NOSTRO INVIATO GAZA «Se vieni, me la porti una bottiglia di champagne? Io l’ho bevuto tanti anni fa al Cairo, però mia moglie mai...». Amico, ma dove lo nascondo lo champagne? «A Gaza entra tutto, basta volerlo». A mezzanotte va la ronda del piacere e sulla terrazza del Roots Hotel s’aggirano due vigilantes armati. I guardiani del veglione. Sono compresi nei 40 euro di prezzo, li pagano gl’invitati: devono controllare che non arrivino i controllori di Hamas, almeno qui, e non rovinino la festa di chi ancora può.
Un piacere casto. Il salone l’hanno addobbato di rosso, un cantante sul palco, i tavoli infiocchettati, i palloncini d’oro del 2015, perfino l’albero di Natale. La regola però è che ballino solo gli uomini, «Happy» e canzoni egiziane: velate o minigonnate, le donne stanno a guardare. Sulla terrazza, la musica si sente appena. Solo una bambina ha il diritto di giocare alla cubista su una tovaglia, gli altri in coda al buffet dell’hummus o a preparare il brindisi con le lattine di Coca-Cola. C’è la Gaza che non si vede mai: la famiglia che fa soldi con le bombole del gas, quelli che affittano i terreni all’Onu, i ricconi dei tunnel e del mercato nero, le ragazzine buon partito che si truccano in bagno e sognano prima o poi di scappare da questa prigione… «Tre, due, uno: buon anno!».
Vietato l’alcol, vietati i baci sotto il vischio. Niente botti, ma di quelli non si sente la mancanza. Anche gli abbracci sono divisi per genere. È il più dannato dei sansilvestri, però va bene così, pur di seppellire il 2014 dei duemilacento morti e dei centomila sfollati, le migliaia di case polverizzate, i venticinquemila a dormire nelle scuole e gli altri a sopravvivere come topi, i trentamila posti di lavoro bruciati. Bordo Protettivo, l’hanno chiamata gl’israeliani: la terza guerra in trentasei mesi ha trascinato Gaza sull’orlo del baratro. «Peggio di così è impossibile — insiste l’amico —. Portami lo champagne, l’ho visto in un film: le bollicine sono il modo migliore per morire ubriachi».
L’anno che verrà non porta Hamas e almeno questo è un buon inizio. I barbuti non si vedono né a mezzanotte né dopo. Non ce n’era bisogno: lo sanno tutti che dal 2007 è proibito far festa nella Striscia. «Non bisogna imitare queste usanze occidentali», locali e intrattenimenti devono chiudere alle 22 del 31 dicembre, i ritrovi sono permessi solo la sera del primo gennaio, quando il mondo s’è già ripreso dalla sbornia… C’è divieto e divieto, naturalmente. E c’è una popolarità di Hamas al minimo, dopo l’ennesimo disastro politico e militare, dopo le centinaia di razzi lanciati sulle città israeliane: meglio non irritare troppo la piazza e chi proprio vuole il cincin, lo faccia in casa e con le tapparelle abbassate («passate da noi, abbiamo vodka e frutta secca, suonate dopo le dieci all’appartamento 701» è il tamtam sul telefonino d’un ex fedelissimo d’Arafat), i danarosi del Roots festeggino tra loro senza troppa pubblicità, e gli altri s’arrangino… A Khuza’a, che nei capodanni felici era il villaggio delle gazawi più belle, s’arrangiano vagando come spettri sulla strada buia, fra mozziconi di minareti e cupole di moschee schiantate al suolo. Non è rimasta in piedi una casa e si veglia da quattro mesi. Presepi morenti: solo i teli di plastica per la pioggia e i falò a riscaldare, i bambini senza scarpe a dormire su materassi di sassi. Non sanno nemmeno che è Capodanno, figurarsi del divieto di Hamas. «Un intero popolo aspetta che qualcuno faccia qualcosa – denuncia don Mario Da Silva, viceparroco di Gaza – ma quest’inverno sta portando solo freddo. Si vende il ferro delle macerie per mangiare qualcosa. Nessun lavoro di ricostruzione». Come si può costruire una pace, si chiede il prete, se non si ricostruiscono prima le case?
Qualche mese fa, ultima speranza dei disperati, i barconi da Alessandria salpavano per l’Italia. Poi sono morti a decine e l’Egitto ha deciso di sigillare anche i tunnel della fuga. Adesso, non resta che scappare dalla grande prigione per finire in un carcere israeliano: nell’ultimo anno, dice il governo Netanyahu, in 170 hanno provato a superare il confine con un coltello in tasca. Non per uccidere: solo per farsi arrestare. «Il trucco è finire dentro — spiegano i militari dell’Idf — e far avere alla famiglia il sussidio che l’Autorità palestinese concede a chi è nelle mani degl’israeliani. Più è lunga la pena, più soldi ricevi».
Il 30 dicembre sono comparsi nella Striscia otto ministri dell’Autorità palestinese: per poco, la gente non li picchiava. Abu Mazen non s’è mai fatto vedere, in una terra di cui è il teorico presidente. Rami Hamdallah, premier d’un governo che sarebbe d’unità palestinese, rinvia sempre la sua visita. E anche i padroni di Hamas devono girare scortati perché il cemento non passa, la disoccupazione è all’80 per cento, i soldi dei donatori internazionali c’è da chiedersi se arriveranno mai.
Non ci hanno mai dato nemmeno quelli delle altre ricostruzioni – dice Muhammad Abu Raya, 38 anni, un medico laureato in Pakistan che sotto le bombe del 2014 ha perso tutto –. Qualcuno sa dire che fine hanno fatto i sei miliardi che la pomposa conferenza di Sharm el Sheikh ci promise cinque anni fa? Io ho una bambina di nove anni che ha già visto tre guerre. Che cosa posso prometterle per il 2015?». Lo champagne, fra i lustrini del Roots, alla fine l’abbiamo stappato. Ma di nascosto e non per paura di Hamas.

Repubblica 2.1.15
Tacchi, musica e poche speranze la festa amara della gente di Gaza
La guerra è finita quattro mesi fa ma non è ancora iniziata la ricostruzione dei 18mila edifici danneggiati
di Alberto Stabile


GAZA MA cos’è questo strombazzare di macchine in cerca di parcheggio sul lungomare dei grandi alberghi? Cos’è questa frenetica passerella di fanciulle arrampicate su altissimi tacchi, i capelli freschi di parrucchiere, le mise costose e griffate, soltanto un po’ più castigate di quanto la moda europea consentirebbe? «È il Capodanno bellezza!», vale a dire un momento di abbandono, di liberazione, di oblio che qui, nell’austera, infelice Gaza, si prende la sua momentanea rivincita sui dolori della guerra, come sul moralismo formalmente intransigente ma sotto sotto disposto a chiudere un occhio dei governanti di Hamas.
Va bene, non ci sono stati i fuochi d’artificio allo scoccare della mezzanotte, che sarebbero parsi un’infelice parodia delle drammatiche esplosioni che hanno sconvolto la Striscia a luglio e agosto. Baci, abbracci ed effusioni augurali sono rimasti confinati nell’ambito delle famiglie. Nei bicchieri non brillavano le perle dello champagne, ma più innocue bollicine di Pepsi. E ad abbozzare qualche passo di danza, alla fine, è stato soltanto un gruppo di uomini. Ma tutto il resto, nel grande albergo inaugurato qualche mese prima della guerra, era stato meticolosamente preparato per una notte speciale, di gusto decisamente occidentale.
Per tutto il pomeriggio s’erano rincorse le voci che Hamas avrebbe proibito il veglione. A un certo punto, ripeteva il tamtam, sarebbero arrivata le squadre per la Protezione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, a spegnere gli altoparlanti e mandare tutti a nanna alle 10 di sera. La visita, sì, c’è stata, verso le 9, i tre uomini in giubbotto grigio e barba fluente hanno parlottato coi proprietari. Per un’oretta la musica s’è fermata. Poi la festa è ripresa con più slancio.
Ma chi sono i partecipanti che hanno prenotato i 250 posti a tavola, per 200 shekel, circa 50 euro a persona? Notabili, proprietari terrieri in affari con gli enti umanitari, quel che resta del ceto imprenditoriale dopo le distruzioni a tappeto della zona industriale di Shujaiyeh, maghi dell’importexport attraverso i tunnel di Rafah. L’altra Gaza, insomma, quella che non ha visto le proprie case distrutte (18mila gli edifici danneggiati, 100mila i senza tetto causati dai raid dell’aviazione israeliana), o i propri affari polverizzati (85% dei quasi due milioni di abitanti della Striscia si ritrovano a vivere sotto la soglia di povertà, 48% i disoccupati). «Vedi quello?», mi dice un amico, indicandomi un distinto signore in abito scuro che riceve più di un ossequioso omaggio dai nuovi arrivati. «Quello è il distributore della bombole di gas per uso domestico. Una vera potenza di questi tempi, dopo che la centrale elettrica costruita con i soldi degli americani è stata distrutta e tutta la Striscia è costretta a sopravvivere con solo sei ore di energia al giorno».
Il cenone, a buffet, viene servito in terrazza da una squadra di camerieri che indossano cappelli di paillettes, gilet dorati e papillon in tono. Sotto di noi è la spiaggia che le bombe non hanno risparmiato. Sull’orizzonte scuro incrociano, minacciose, le navi della marina israeliana. Ma nessuno ci fa caso. La politica sembra bandita. Eppure Gaza è l’emblema della spaccatura che da quasi 10 anni lacera il popolo palestinese. Hamas non sembra in grado di governare la ricostruzione per la quale non ci vorranno meno di 8 miliardi di dollari. Ma il governo “di consenso”, una sottospecie dell’unità nazionale, voluto dal presidente Abu Mazen dopo l’apparente riconciliazione con gli islamisti non è meno impotente. Risultato: nessuno sa più chi governa la Striscia, se gli uomini di Ramallah o quelli del Movimento islamico. La scoppola subita dall’Autorità Palestinese al Consiglio di Sicurezza, dove la bocciatura della risoluzione per la fine dell’occupazione israeliana entro il 2017 era stata facilmente prevista, aggraverà la spaccatura. A Gaza, quella vecchia volpe di Ismail Hanyeh, l’ex capo del governo di fatto di Hamas, aveva da tempo avvertito l’odiato Abu Mazen della disfatta impellente. E adesso che il presidente dell’Anp ha lanciato il piano B per entrare a far parte del Tribunale Internazionale dell’Aja nella speranza di trascinare Israele sul banco degli accusati, qui nella Striscia nessuno si fa molte illusioni che le cose cambieranno.
Non certo la ristretta minoranza dei privilegiati che stasera celebra il Capodanno con tutti, o quasi, i crismi di una festa occidentale, né, a maggior ragione, la folla dei rifugiati e dei senza tetto che, dal confine Nord con Israele a quello Sud con l’Egitto, accendono bracieri di legna per riscaldarsi accanto alle macerie delle loro case dove passeranno la notte.
Se gli aerei israeliani hanno risparmiato il centro di Gaza, salvo qualche obbiettivo scelto di proposito, in periferia, a Shujiayeh, o nelle cittadine di Beit Ahun e Beit Layha, come nel borgo agricolo di Qusaa, i proprietari appendono sulle rovine cartelli con nome cognome e numeri di telefono nel caso qualcuno venisse a offrire aiuto per la ricostruzione mentre loro sono assenti. Ma a sentire il popolo che abita tra le macerie, nessuno finora si è fatto vivo. Abed al Khalo, 80 anni, è tornato a vivere, se così si può dire, nella veranda di quella che era un tempo la sua casa assieme alla moglie Aya di 76. Rawda Habib, vedova di Jaber, un miliziano ucciso nella guerra del 2009-2010, e i suoi sei figli sono tornati ad abitare nelle macerie del loro appartamento dominato da un grande poster dell’ucciso, due teli di plastica al posto del muro esterno crollato. Poco lontano, Bassam al Wadyeh sta cercando di riparare coi suoi mezzi il laboratorio dove produceva succhi di frutta e zucchero filato. «La guerra è finita quattro mesi fa, ma nessuno è venuto a chiederci di cosa abbiamo bisogno ».

La Stampa 2.1.15
Kabul 13 anni dopo
La guerra asimmetrica che nessuno ha vinto
Chiusa la missione Nato, ma i taleban non sono stati sconfitti
di Mimmo Càndito

 
Le guerre, quando finiscono, c’è chi le vince e c’è chi le perde. A sentire il generale americano John Campbell che l’altro ieri finiva la guerra dell’Afghanistan, lui, noi, l’America, e comunque la Nato, questa guerra l’abbiamo vinta, perchè abbiamo «riscattato il popolo afghano dal buio della disperazione, restituendogli la fiducia del futuro». Stretto nella sua divisa mimetica liscia di stireria, il berretto a 4 stelle ben calcato sulla testa, gli occhi doverosamente d’acciaio, il generale che con orgoglio consegnava alla Storia «la più lunga guerra combattuta dall’America», parlava da dentro il grande piazzale dove, a Kabul, un forte blindato e vigilato che neanche il più munito rifugio di Spectre custodisce dal 2002 il comando delle operazioni dell’Isaf.
Il messaggio degli insorti
Ma Campbell aveva nemmeno finito di arrotolare davanti ai fotografi la bandiera del vecchio comando che già, da qualche misterioso rifugio delle montagne afghane, arrivava per Internet uno sprezzante messaggio dei taleban che irrideva Kabul, il forte blindato, il generale orgoglioso, e noi e la Nato: «Guardateli. Stanno scappando, già che non sono riusciti a sconfiggerci. La loro guerra è stata un fallimento, e lo dimostra anche la cerimonia di oggi». (I taleban intendevano segnalare che la cerimonia di Campbell era stata tenuta segreta fino all’ultimo minuto, proprio per timore d’un attacco talebano). Un vincitore che deve parlare ben protetto da mura corazzate, e che non può nemmeno far sapere l’ora e il posto dove comunque proclamerà alla Storia la sua (presunta) vittoria, proprio un trionfo non pare averlo ottenuto. E un nemico sconfitto, ch’è costretto a parlare, sì, da qualche oscura caverna ma si fa pubblicamente beffe del (presunto) vincitore, e lo accusa di scappare da vigliacco perchè abbandona il campo di battaglia, tanto sconfitto non deve poi esserlo nemmeno lui. Sono le due facce d’una guerra dove una cinquantina di Paesi hanno tentato di battere con i loro 140 mila soldati le bande barbute dei «guerrieri della montagna», e però non ci sono riusciti. I polemologi le chiamano guerre asimmetriche, e sono poi la gran parte dei conflitti del tempo d’oggi, che su un fronte hanno un esercito regolare e, sull’altro, un’armata di gente che ha obiettivi e metodi d’ingaggio incoerenti con qualsiasi trattato di dottrine militari tradizionali e, anche, si muove come il pesce nell’acqua (Mao c’entra comunque). 
I precedenti
I polemologi delle accademie militari sembrano illudersi che questa sia una barbara invenzione dei tempi moderni, ma in Afghanistan s’erano già combattute ben tre guerre con queste stesse tattiche e le stesse diversità, a partire dal 1841 e fino alla fine del 1919: sono state le tre guerre anglo-afghane, dove la «diversità» stava comunque che i reali fanti di Sua Maestà britannica che dall’India del Raj avevano invaso l’Afghanistan combattevano con i fucili ben oleati e le uniformi eleganti del 44th Regiment of Foot mentre i guerrieri barbuti di Yaqub Khan, anche scalzi e vestiti di camicioni laceri e turbanti, li attaccavano a schioppettate e a gran fendenti d’arma bianca. 
Ora, quest’ultima guerra asimmetrica, questa afghana di Campbell e di tutti noi, è cominciata, in realtà, ben prima del 2001 e dell’attacco alle Twin Towers di New York, fu nel Natale del ‘79, quando l’Armata Rossa invase l’Afghanistan, ufficialmente per rispondere alla richiesta d’aiuto di un Paese vicino, il regime neocomunista di Kabul, ma, più prosaicamente per dar concretezza al vecchio sogno zarista dell’avvicinamento ai «mari caldi» e alle fonti del petrolio (era il Grande Gioco dove finisce il Kim di Kipling dopo aver abbandonato il vecchio cannone Zam-Zammah). L’America rispose finanziando i mujahiddyin e Osam bin Laden, e da quel freddo inverno di quasi 40 anni fa i pianori verdi e le montagne blu dell’Indo Kush si sono fatti fino a oggi terreno d’uno scontro combattuto per un nuovo ordine internazionale.
Tutte le contraddizioni
Campbell che vince ma non troppo, e i taleban che perdono ma non troppo, segnano la storia di un Paese dove le profonde contraddizioni rendono comunque credibili l’una versione dei fatti e anche l’altra. Quando il generale Usa esalta «un popolo sottratto al buio della disperazione» racconta la realtà di ampie fratture aperte nel corpo d’una società tradizionale, e valga per tutti lo straordinario incremento del numero di donne che frequentano le scuole: erano appena 5.000 nel 2001, quando la guerra di Bush piomba sulla vita quotidiana di un Afghanistan dominato rigidamente dai vecchi codici culturali delle madrasse e dei villaggi perduti nel passato, e oggi sono quasi 3 milioni, con una moltiplicazione di 600 volte, non tutte perfette e non tutte realizzate (il 40% delle scuole non ha aule né attrezzature) ma comunque indicative d’una modernizzazione reale, autentica. E quando i taleban dicono che Campbell, e tutti noi, scappiamo, sconfitti, dicono una qualche verità, perché la guerra della Nato non è riuscita a batterli, e il nuovo governo di Ashraf Ghani con loro dovrà fare comunque i conti. Ma è un governo che ha rappresentatività e legittimazione, pur nelle sue contraddizioni, ed esprime linee politiche volte a recuperare un processo di integrazione. Non gli sarà facile, i taleban sono un pesce che nuota facile dentro i mille villaggi delle montagne blu, già pronto a muoversi sulle orme dei soldati che Campbell ha rimandato a casa. Per questo, una guerra finita non finisce, e chi vince e chi la perde è una partita ancora da farsi.

Corriere 2.1.15
Cuba nel 1962, Ucraina oggi Un confronto possibile
risponde Sergio Romano


Può chiarirci se, a suo parere, esistano analogie tra la crisi dei missili a Cuba e presenze militari occidentali in Ucraina, dove la crisi è manifesta, o altri Paesi confinanti con la Russia? Non per il contesto internazionale, totalmente diverso, bensì ragionando in
ordine a soluzioni e conseguenze.
Mario Carzana

Caro Carzana,
Ho già accennato a questa analogia in altre circostanze. Nel 1962 gli americani scoprirono che l’Urss stava costruendo rampe missilistiche in territorio cubano e reagirono con un blocco navale nel mezzo dell’Atlantico per impedire alle navi sovietiche di raggiungere l’isola. Il blocco è una misura estrema che precede generalmente l’inizio di un conflitto. Se le navi sovietiche avessero invocato la libertà dei mari e cercato di raggiungere Cuba, vi sarebbe stata una guerra. È possibile confrontare il tentativo d’installare missili sovietici a Cuba con il colpo di Stato che costrinse alla fuga il presidente ucraino Viktor Janukovic?
Per molti aspetti sì. Al vertice della Nato, a Bucarest nel 2008, il presidente Bush ha proposto l’ingresso dell’Ucraina e della Georgia nella Nato. Più recentemente gli Stati Uniti hanno stanziato 5 miliardi di dollari per finanziare progetti destinati a consolidare il processo democratico ucraino. Durante le dimostrazioni di Kiev, mentre la folla chiedeva le dimissioni di Janukovic, l’assistente Segretario di Stato per l’Europa Victoria Nuland è apparsa su piazza Maidan per distribuire pane e rincuorare i manifestanti.
Nel caso della crisi ucraina non vi è apparentemente un problema di missili, come in quello della crisi cubana nel 1962. Ma gli Stati Uniti hanno già denunciato da più di un decennio il trattato stipulato con l’Urss nel 1979 sulla limitazione dei missili anti-missili che ciascuno dei due Paesi avrebbe avuto il diritto d’installare. I missili, in questo caso, sono gli intercettatori che gli americani intendono collocare in Polonia e in altri Paesi dell’Europa centro-orientale. È davvero sorprendente che la Russia abbia cercato di evitare l’accerchiamento facendo leva sulle popolazioni russe della Crimea e del Donbass.
Ancora una osservazione, caro Carzana. Il 23 dicembre il Parlamento di Kiev ha deciso di abolire la legge con cui, nel 2010, dopo il Vertice di Bucarest del 2008, aveva ribadito la neutralità militare del Paese. È un altro passo verso la Nato, una iniziativa inevitabilmente destinata a peggiorare i rapporti delle democrazie occidentali con la Russia.

Corriere 2.1.15
Piketty rifiuta la Legion d’Onore «Il governo pensi all’economia»
di Elisabetta Rosaspina


PARIGI Nessuno adesso vorrebbe essere nei panni di Geneviève Fioraso, sottosegretario all’Istruzione superiore del governo di Parigi, che ha proposto il nome dell’economista e scrittore Thomas Piketty per la croce della Legion d’Onore, il riconoscimento più importante conferito ogni anno in Francia a quanti abbiano dato lustro alla nazione, per meriti militari o civili. Meglio sarebbe stato sondare prima la disponibilità del candidato a ricevere l’onorificenza, perché il presidente della Repubblica, François Hollande, non ha proprio preso sportivamente il pubblico smacco di quel fiero «je refuse», opposto da uno dei più quotati economisti del momento: «Non sta al governo decidere chi sia da onorare. Si preoccupi piuttosto di rilanciare la crescita della Francia e dell’Europa», è stato lo sbrigativo messaggio di Piketty, recapitato al presidente attraverso le agenzie nel giro di qualche ora.
La prima arrabbiatura di Hollande nel 2015 arriva, e forse non era imprevedibile, dall’anticonformista autore del saggio Il Capitale nel XXI secolo , best seller da un milione e mezzo di copie (in Italia pubblicato da Bompiani). Un trionfo in 32 lingue che ha fatto di Piketty «l’economista rockstar» (per usare un’espressione coniata dal pur diffidente «Financial Times»).
Consultato dai più stretti collaboratori di Barack Obama, acclamato dalle folle, applau-dito a New York da una folta schiera di premi Nobel per l’Economia (a cominciare da Paul Krugman), Piketty, 43 anni, aveva ricevuto un’accoglienza più tiepida dalle alte sfere francesi, con le sue teorie contrarie alla politica di austerity e il suo allarme sull’irresistibile aumento delle diseguaglianze nella nostra epoca.
Nel 2012 Piketty era fra i sostenitori della candidatura di Hollande alla carica di capo dello Stato; ma, una volta presidente, il leader socialista aveva tradito le aspettative dell’economista, fervente propugnatore di una riforma fiscale in favore dei redditi più bassi, infine accantonata dal governo. L’idillio era finito.
Da allora Piketty non ha risparmiato critiche e frecciate alla politica di Hollande, il quale forse sperava di recuperare la sua benevolenza con la lusinga di un cavalierato. Istituita nel 1802 da Napoleone Bonaparte, la Legion d’Onore, fin dal nome, evoca la sua natura di corporazione, simile a quella degli ordini cavallereschi cancellati all’epoca dalla Rivoluzione francese. Si divide in cinque classi: da cavaliere fino a gran maestro (il titolo più alto, che spetta in esclusiva al presidente della Repubblica in carica). E annovera in tutti i suoi gradi 92 mila membri.
Ieri mattina, come a ogni inizio d’anno, la gazzetta ufficiale francese ha pubblicato l’elenco di 691 personaggi destinati a ricevere la decorazione per i meriti acquisiti nel 2014, con il titolo di cavaliere, ufficiale o commendatore. Fra loro: il neo premio Nobel per la Letteratura, Patrick Modiano, il suo collega che ha vinto per l’Economia, Jean Tirole, l’ex ministro della Cultura e attuale presidente dell’Istituto del Mondo Arabo, Jack Lang. O imprenditori come Pierre Bergé, compagno di vita di Yves Saint Laurent e cofondatore della casa di moda. O eroi quotidiani, come Lucie Pérardel, l’infermiera di Médecins sans Frontières, contagiata da Ebola in Liberia e guarita poi in Francia.
Con la sua risposta, Piketty entra a far parte di una élite più ristretta, ma certamente non meno qualificata, accanto ai fisici Pierre e Marie Curie, agli scrittori Guy de Maupassant, Albert Camus, Jacques Prévert, George Sand, al filosofo Jean-Paul Sartre, o a celebrità come Brigitte Bardot. Quelli che hanno detto «no» alla Legion d’Onore. Wikipedia non ha perso tempo: il nome dell’economista è già iscritto nell’apposita categoria.

Corriere 2.1.15
Lewis, Sartre e gli altri: il premio? No, grazie
Precedenti clamorosi per il Pulitzer, il Nobel e la medaglia Fields
di Antonio Carioti


«Tutti i premi, come tutti i titoli, sono pericolosi». La frase dello scrittore americano Sinclair Lewis è tratta dalla lettera con cui nel 1926 motivò il rifiuto del Pulitzer. Chi mira a vincere un premio, proseguiva Lewis, non cerca tanto l’eccellenza, quanto di compiacere i pregiudizi della giuria. E questo gli appariva un meccanismo perverso, anche perché riteneva che gli stessi termini per l’attribuzione del Pulitzer fossero assai discutibili.
Bisogna aggiungere che Lewis, assai critico verso i valori dominanti nella società americana, era rimasto scottato in precedenza, quando il Pulitzer non gli era stato assegnato, nel 1921 e nel 1923, a causa di pesanti interventi dall’alto sulla giuria. E che comunque il romanziere non ebbe problemi in seguito ad accettare il premio Nobel: fu il primo scrittore degli Stati Uniti a vederselo assegnare nel 1930. Il suo caso assomiglia un po’ a quello recente dell’autore spagnolo Javier Marías, già insignito di molti riconoscimenti all’estero, che nel 2012 ha rifiutato il premio nazionale di narrativa in polemica con il governo di Madrid.
Più intransigente il filosofo francese Jean-Paul Sartre, che nel 1964 declinò il Nobel per la letteratura, suscitando un gran clamore, dopo averlo già fatto con la Legion d’Onore (come Piketty) nel 1945: «Lo scrittore deve rifiutare di lasciarsi trasformare in istituzione», spiegò in una lettera all’Accademia svedese, pur riconoscendo che in questo caso ciò sarebbe avvenuto in maniera onorevole. Quello di Sartre fu un rifiuto spontaneo, ben diverso dal caso dello scrittore russo Boris Pasternak, che nel 1958 era stato costretto a tirarsi indietro dalle pressioni del governo sovietico, così come avevano fatto negli anni Trenta tre scienziati tedeschi — Gerhard Domagk, Richard Kuhn e Adolf Butenandt — per via del veto posto da Hitler per ragioni politiche. Solo dopo la guerra e la sconfitta del nazismo i tre ritirarono il Nobel.
Uno scienziato che invece non volle mai avere nulla a che fare con i riconoscimenti ufficiali è il matematico Alexander Grothendieck, recentemente scomparso in Francia. Nel 1966 rifiutò la medaglia Fields, l’equivalente del Nobel per la matematica, perché non intendeva andare a ritirarla a Mosca. E poi nel 1988, quando aveva ormai rotto con il mondo accademico, fece lo stesso con il premio svedese Crafoord, motivando la sua scelta in una polemica lettera su «Le Monde». In fatto di matematica va poi ricordato l’eccentrico russo Grigorij Perel’man, noto per essere venuto a capo nel 2002 della congettura di Poincaré, irrisolta da quasi un secolo, ma anche per aver rifiutato il conseguente premio Clay e la me- daglia Fields. Più o meno come Grothendieck, Perel’man si è isolato da ogni forma di ufficialità.

La Stampa 2.1.15
Bertolt Brecht, poesie per ribaltare il mondo
In un secolo lacerato dalla crisi e dai conflitti, lo scrittore tedesco torna in un’antologia con la forza e l’attualità dei suoi versi politici
di Luigi Forte


Pubblicare, come fa Einaudi in questo inizio del 2015, una scelta di Poesie politiche di Bertolt Brecht (curata da Enrico Ganni con una bella prefazione di Alberto Asor Rosa, pp. 303, Є 12) può sembrare oggigiorno piuttosto azzardato. E non certo perché lo scrittore bavarese, come sostenne lo svizzero Max Frisch, è diventato un classico fino a perdere la sua efficacia. Ma perché lo zelo e il rigore pedagogico che nel dopoguerra gli attirarono i rimproveri di Adorno, per non aver salvaguardato l’autonomia dell’arte inquinandola con la politica, possono aver reso obsoleti molti di questi testi. Anche se in realtà Brecht sa sempre sottrarsi all’angustia ideologica o al dogmatismo con una piroetta irriverente o una buona dose di ironia.
Del resto basta sfogliare quest’antologia per convincersi che la lezione morale, lo slancio polemico, la coscienza politica di uno scrittore che ha combattuto con fermezza l’arroganza e la violenza del potere possono aiutarci a riflettere sia sulle incongruenze del presente sia sul passato come prefigurazione delle nostre insolute contraddizioni. Sembra un paradosso, se si pensa alla distanza abissale tra l’epoca di Brecht e la nostra. La sua vita fu un’odissea fra i disastri del Novecento: due guerre mondiali, il nazismo, l’esilio, la divisione della Germania e il suo ritorno a Berlino Est, nel cosiddetto socialismo reale che egli guardò sempre con sospetto, dopo un soggiorno americano non certo esaltante da cui aveva tratto la convinzione che democrazia e capitalismo erano difficilmente conciliabili. 
Potenziale rivoluzionario
Nei tardi Anni Venti i suoi testi teatrali furoreggiavano in Germania, accompagnati dalle musiche di Kurt Weill, e la sua poesia tradiva la voce ribelle e anarchica del figlio della borghesia che rifiutava la propria classe consapevole che il mondo doveva essere ribaltato. «Se chi è in basso non pensa / alla bassezza», scriveva nelle Poesie di Svendborg del 1936, «mai / potrà venire in alto». Il bardo si era inventato un personaggio cinico, disincantato, un outsider corazzato contro ogni vacuo ottimismo e pronto a sublimare la precarietà con l’atteggiamento un po’ altezzoso del saggio che dispensa insegnamenti a futura memoria. Ma l’icona stilizzata del giovane scrittore nella lirica Del povero B.B., che con il sigaro in bocca acceso fino alla fine dei tempi osserva una modernità agonizzante, diventa ben presto l’immagine del potenziale rivoluzionario, il tribuno che nell’isolamento dell’esilio lancia appelli vibranti per smascherare le menzogne dell’imbianchino Hitler, com’egli lo chiama. Nei tempi bui in cui «discorrere d’alberi è quasi un delitto, / perché su troppe stragi comporta silenzio», come si legge nella notissima poesia Ai posteri, il suo talento poetico si converte in pedagogia politica e la parola si solleva in uno spazio in cui sono coinvolte musica e gestualità, in ritmi irregolari e sincopati. 
Contro tutti i prepotenti
La scelta proposta da quest’antologia che in cinque sezioni diverse accorpa testi su destini proletari, lotta di classe, capitalismo, guerra e nazismo, con una breve galleria di ritratti di amici e colleghi, sembra suggerire l’idea che la forza e l’attualità di Brecht, ancora oggi, si nutra di ciò che Adorno gli rimproverava: l’aver sacrificato l’autonomia dell’arte. Non per metterla banalmente al servizio della politica, ma perché inscindibile dalle vicende umane, dalle grandi catastrofi del Novecento. Non sempre il poeta ha potuto evitare nelle sue invettive dall’esilio toni piattamente didascalici, così come negli anni del socialismo l’enfasi e l’apologia superano talvolta il livello di guardia. 
Ma il punto di vista di fondo di cui parla Asor Rosa nella prefazione, ricordando la marcata presenza di Brecht nella cultura italiana, resta inalterato. Ed è ciò che ancora oggi può offrire stimoli a un lettore alle prese con una profonda crisi economica e morale in un mondo lacerato da miseria, guerre e terrorismo. Brecht parla infatti di solidarietà tra diseredati, di lotta contro le disuguaglianze, di disoccupazione, di prepotenza dei potenti e dei politici. «Quelli che portano all’abisso la nazione /», si legge nel Breviario tedesco, «affermano che governare è troppo difficile / per l’uomo qualsiasi». Si lancia contro gli opportunisti pronti a ignorare ogni infamia pur di trarre vantaggi, contro illusioni e fallaci consolazioni nella poesia Contro la seduzione. Coglie le frodi e gli inganni della grande finanza, mette al bando lo sfruttamento, ma soprattutto esorta a trasformare il mondo con l’ottimismo della volontà.
«Chi è vivo non dica: mai!»
«Elogio della dialettica» è il suo grande slogan poetico. «Chi è ancora vivo, non dica: mai!». E l’arte dell’impazienza diventa il suo credo di fronte a ogni ideologia. Incalza anche il socialismo con il pessimismo della ragione di chi sa che il potere azzera spesso ogni istanza di giustizia. Quest’antologia è un livre de chevet per chi sogna una vera democrazia, è un sillabario dell’emancipazione e del riscatto. Ci insegna a credere, come ha fatto Brecht per tutta la vita, alla mutabilità delle cose, anche se la realtà, di questi tempi, ci racconta una storia diversa.

Repubblica 2.1.15
Torna Brecht per dare voce agli sconfitti
Esce la raccolta delle poesie politiche composte dal grande autore tedesco del Novecento
Conoscere i suoi testi negli anni ’50-’60 era come inghiottire un’intera biblioteca
Sta dalla parte degli affamati, si sforza di dire quello che loro non possono
di Alberto Asor Rosa


HO SENTITO parlare per la prima volta di Bertolt Brecht in un giorno (indeterminato) dell’anno 1952 o 1953. «Bret?», avevo sussurrato, voglioso di saperne di più, al compagno di studi che, nel corso di un’animata conversazione, in un angolo di uno dei lunghi corridoi della Facoltà di Lettere dell’Università di Roma, lo aveva improvvisamente chiamato in causa: a sostegno della tesi, – che peraltro io ero disponibilissimo a condividere, – che con la letteratura e la poesia si poteva fare politica, a patto che questo non accadesse con i mezzi rozzi e provinciali, piccolo-borghesi e spesso ostentatamente o mielatamente pedagogici, della letteratura italiana di quegli anni.
«Bertolt Brecht», aveva sillabato, a conforto della mia ignoranza, il compagno di studi, il quale rispondeva al nome di Paolo Chiarini, appena un poco più anziano di me ma enormemente più colto e informato. La difficoltà rappresentata per me dalla misconoscenza della lingua (solo in parte superata quando, qualche anno più tardi, avrei osato scrivere un libro su Thomas Mann), fu rapidamente compensata dal diluvio di traduzioni e di interventi critici, che la figura e l’opera di Brecht conobbero in Italia in quegli anni. La pubblicazione, ad esempio, appena un anno o due dopo, della voce Brecht
nell’ Enciclopedia dello spettacolo , ad opera dell’enfant prodige Chiarini. E, subito dopo, la scelta di poesie Io, Bertolt Brecht, canzoni, ballate, poesie , un libro per più versi pioneristico, il quale ebbe un vasto successo, e che io lessi da subito con entusiasmo.
C’era in quella scelta una poesia, forse, a me pareva, un po’ diversa dalle altre, meno gridata, più sommessa, più personale, più intima, – Del povero B. B.( 1921), – che a me piaceva enormemente, perché mi faceva pensare che dietro l’agitatore e il rivoluzionario ci fosse tutta la sostanza umana di cui io, ventenne, pensavo che ci fosse bisogno per cambiare le cose del mondo, tenendo la ragione (non osavo pensare: il sentimento) a portata di mano, anche nel diluvio allora incombente: «Nei terremoti futuri io spero / che non si spenga il mio virginia per l’amarezza, / io, Bertolt Brecht, sbattuto nelle città d’asfalto / dai neri boschi, nel grembo di mia madre, in tenera età…».
Queste brevi note solo per dire, dal mio limitato angolo visuale di allora, – e forse di ora, – che in quegli anni, fra la metà dei Cinquanta e lungo tutto il corso dei Sessanta, la conoscenza di Brecht rappresentò per noi – e per la intellettualità italiana di orientamento progressista, – uno degli eventi culturali più rilevanti dell’intero periodo. Culturali? Con questa approssimativa specificazione si può cominciare a prendere migliore nozione di quel violento impatto che la lettura e la conoscenza dell’opera di Brecht rappresentarono per le generazioni venti-quarantenni di quella fase storica. Culturali, dunque, certo: ma anche politici; e anche esistenziali, se per esistenziali s’intende un rapporto con il mondo in cui ci si cambia, – ci si cambia profondamente, – allo scopo fondamentalmente di poterlo cambiare.
Basti pensare all’enorme successo, – o, per meglio dire, alla travolgente esperienza, – che produsse la messa in scena, per le cure, egregie oltre ogni limite, del Piccolo Teatro di Milano e di Giorgio Strehler, di due testi come L’opera da tre soldi ( 1956), con uno spettacolare Tino Carraro, e Vita di Galileo ( 1963), dove un efficacissimo Tino Buazzelli teneva testa a distanza a un attore del calibro (anche dal punto di vista fisico) di Charles Laughton, interprete della prima rappresentazione americana del testo.
Mi rendo conto di non essere in grado di trasmettere ai lettori di oggi l’intensità e la profondità dell’esperienza che la visione di questi testi, – manifesti in movimento di un diverso modo d’intendere e rappresentare i rapporti sociali di forza e le tensioni umane individuali e collettive, – ebbe a procurare ai fortunati spettatori di quelle messe in scena. Era come se, nello spazio di due-tre ore, uno avesse ingoiato e digerito un’intera biblioteca e… ma no, di più, di più: era come se la dimostrazione artistica, cui avevamo assistito, ci avesse finalmente aperto gli occhi su di un universo in lotta perenne con se stesso, e, nella lotta, in una trasformazione perenne, sempre in atto, di se stessi e degli altri. [...] La mia tesi è che anche le poesie di Brecht, in particolar modo quelle politiche, possono definirsi teatrali. Ossia: esse presuppongono, – sempre, – l’esistenza di un pubblico. Non è quel che capita a ogni poeta e a ogni poesia? Sì, ma molto, molto più, secondo me, indirettamente. Certo, anche Leopardi, anche Montale, spiegano le loro vele allo scopo che, alla fine, siano da qualcuno avvistate. Ma quando, e come, questo si verificherà, non dipende da loro, e, a dire la verità, neanche molto gliene importa. In Brecht, no, in Brecht, nell’invenzione del testo e nella sua stesura, un interlocutore, individuo o massa che sia, è sempre presente. [...] La “posizione” di Brecht è la stessa del suo interlocutore proletario, diverge alle fondamenta da quella del proprio nemico, capitalista o ruffiano che sia. Qui è evidente, anche se non sempre strettamente essenziale, l’influenza che su di lui esercita il transito dall’avanguardismo ribelle degli anni Venti alla lettura dei testi marxiani e all’adozione della prospettiva comunista degli anni Trenta (e oltre). Nella fase cui io più direttamente riferisco la mia ricostruzione storica della fruizione di Brecht in Italia – e cioè dalla metà degli anni Cinquanta all’inizio dei Settanta – non solo in alcune frange estremistiche ma in larghi settori della cultura progressista italiana avveniva frequentemente di sentir parlare di “punto di vista”. Cos’è il “punto di vista”? Il “punto di vista” è l’estrinsecazione intellettuale e/o politica della “posizione”. Non è necessario essere operai o proletari per assumere un “punto di vista” operaio o proletario. La dottrina, – ossia la teoria economico-sociale rivoluzionaria, – e il movimento organizzato, che muove e cambia le cose del mondo, – ossia il partito portatore degli interessi dei lavoratori, – sollecitano e interpretano quel “punto di vista”, ma non possono pretendere di governarne esclusivamente la condotta e le lotte. La dinamica delle forze, intellettuali e politiche, le voci in gioco, vanno al di là di questo orizzonte, anche quando ne tengono conto, – e Brecht, certo, ne ha tenuto conto (in taluni casi, qualcuno sarebbe tentato di dire, anche troppo). Ma al di là di questo tenerne conto, Brecht ha espresso la sua “posizione”, ha ritrovato ed espresso da sé la forza trascinante di quel rapporto. Rispetto ai suoi poveri eroi, – operai, proletari, déracinés, affamati, donne sfruttate e vilipese, – Brecht sta dalla loro parte: non fa loro la lezione; si sforza, se mai, di dire ciò che loro vorrebbero dire, se solo potessero.

IL LIBRO Poesie politiche di Bertolt Brecht (Einaudi, a cura di Enrico Ganni) da cui anticipiamo parte dell’introduzione di Asor Rosa

Corriere 2.1.15
Fa litigare la favola del cane che rende Hitler un po’ umano
Jonathan Crown narra il nazismo attraverso la vicenda di un fox terrier
Germania divisa: Banalizza il male, no, vale Chaplin
di Ranieri Polese


Concluso il 2014, l’anno dei tre anniversari (cent’anni dallo scoppio della Prima guerra mondiale; 75 anni dall’invasione della Polonia e quindi dall’inizio della Seconda guerra mondiale; infine, 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino) i tedeschi si preparano ai due anniversari del 2015. Che sono: 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e 25 anni dalla Riunificazione delle due Germanie. Naturale quindi che gli editori abbiano provveduto a pubblicare molti volumi di storia. Con oggetto, sempre, la Germania nella sua parabola dall’Impero prussiano a Weimar, da Hitler alla guerra fredda fino alla caduta del Muro di Berlino. Importanti opere dense di documenti, studi dei maggiori storici (si conclude con il terzo capitolo Dalla guerra fredda alla caduta del Muro il lavoro monumentale di Friedrich August Winkler) e nuove chiavi di lettura.
Andata e ritorno
Ma in tanto fervore scientifico, ecco un romanzo particolare, che racconta gli anni più bui della storia tedesca, 1938-1945: è Sirius di Jonathan Crown, uscito quest’estate da Kiepenheuer & Witsch, venduto già in Inghilterra, Francia, Olanda, Spagna e in Italia (da Mondadori a primavera). Un romanzo particolare, perché il protagonista degli anni dalla Notte dei cristalli alla morte di Hitler nel bunker è un cane. Un fox terrier, nato a Berlino nel 1938 e accolto da una ricca famiglia ebrea, i Liliencron; ha una vita avventurosa e prenderà molti nomi. Levi, all’inizio, poi, quando i nazisti spadroneggiano per le strade di Berlino, si chiamerà Sirius. Quando arriva in California con la famiglia che è riuscita a fuggire dalla Germania (è lui l’unico sopravvissuto della covata sterminata dalla Gestapo), si chiamerà Hercules; per arrivare, infine, al nomignolo di Hansi.
Questa, in sintesi, la storia narrata. Subito dopo i pogrom del novembre 1938, i Liliencron si rifugiano in America, a Los Angeles. Dove quel cane intelligente e simpatico diventa una star del cinema ed è invitato ai party dei divi, a tu per tu con Billy Wilder e Marlene Dietrich, John Wayne, Cary Grant e Frank Sinatra. Protagonista di un western col nome Hercules, è una celebrità che garantisce il successo al box office. Poi è assoldato come attrazione dal Circo Barnum e si deve sottoporre agli esperimenti dell’illusionista Manzini. Ma, per un drammatico scambio, Sirius-Hercules si ritroverà su una nave che lo riporta in Europa. E finisce addirittura a Berlino: qui lo trova un ufficiale delle SS, che poi lo regalerà a Hitler. Di buoni sentimenti antinazisti, Hansi — è il suo nuovo nome — partecipa alle riunioni dei congiurati che preparano l’attentato a Hitler. Ha imparato a scrivere e quindi passa i segreti alla resistenza. Ma l’attentato del 20 luglio 1944 fallisce. Hansi torna a Berlino. Quando ormai i russi stanno arrivando, lo troviamo nel bunker della Cancelleria, con Hitler ed Eva Braun. E il dittatore, che vede avvicinarsi la catastrofe, trova conforto solo in compagnia del fox terrier. Hansi farà da testimone alle nozze con Eva Braun. Assisterà alla fine del Führer e della moglie.
Anni bestiali
Subito dopo l’uscita in Germania, il libro ha suscitato non poco clamore. Critici e recensori si sono divisi in due schieramenti contrapposti: quelli che hanno trovato eccellente l’idea del cane che racconta gli anni bui della Germania, e quelli che l’hanno duramente contestata. Fra i primi (giornali e radio, soprattutto), c’è chi ha elogiato lo stile «alla Lubitsch» del romanzo, e chi ha paragonato la scrittura di Jonathan Crown a quella, anni Trenta, di Erich Kästner ( Emilio e i detective ) o di Erich Maria Remarque. Sul fronte opposto, invece, non si ammette che un capitolo di storia così tragico possa diventare il raccontino di un cane simpatico e spiritoso. Sul blog Kulturgeschwätz (Chiacchierando di cultura), Katharina Hermann scrive: «Passi l’idea di avvicinarsi a questo periodo storico con una certa leggerezza, ma se si arriva a mostrare Hitler come un poveruomo pieno di acciacchi e degno di compassione, allora non ci sto. E nonostante tutto l’amore che ho per i cani, questa è spazzatura!». Un altro blog (Buchmonster), un’altra critica: «Goebbels che interviene personalmente per salvare un figlio di Liliencron mi è parsa una trovata strampalata. Ci sono, è vero, elementi di critica, ma sono troppo deboli. Insomma, questo libro mi ha fatto arrabbiare».
Federica Manzon, editor della narrativa straniera Mondadori (è lei che ha acquistato Sirius ), invece non trova niente di sconveniente nella scelta di una chiave leggera per affrontare anni ed eventi terribili. « Vogliamo vivere di Lubitsch, Il grande dittatore di Chaplin ne sono un esempio; e da noi c’è stato il Benigni di La vita è bella . Adottare il punto di vista del cane, poi, dà al libro un effetto di straniamento molto riuscito: introduce un distacco, fa fare un passo di lato e permette di tornare a raccontare con rinnovata efficacia un periodo così tragico». Hitler stanco e malandato, quasi da far compassione: ma è giusto dare questa immagine del dittatore? «Inevitabilmente ci si espone a un rischio. Ha rischiato Oliver Hirschbiegel quando ha girato La caduta , con Bruno Ganz nella parte di Hitler. Ha rischiato Timur Vermes con Lui è tornato , che immagina un Hitler redivivo nell’era dei talk-show. In questo romanzo, a mio avviso, Jonathan Crown non vuole indurre a pietismi o compassione, ma semplicemente suscitare delle domande sostanziali, chiedersi che cosa rimane di umano anche in una figura così disumana».
Il caso Jonathan Crown
Sirius è uscito con la firma di Jonathan Crown, uno pseudonimo dietro cui si nasconde, dice l’editore, «un celebre giornalista tedesco». La cui identità è stata svelata circa un mese fa. Si chiama Christian Kämmerling, negli anni 90 fu tra gli ideatori del magazine della «Süddeutsche Zeitung». Che ha codiretto fino al 2000, quando si dimise dopo la scoperta che uno dei collaboratori di punta del giornale, lo svizzero Tom Kummer che pubblicava «interviste esclusive» a Mike Tyson, Brad Pitt e Sharon Stone, era un falsario che inventava incontri mai avvenuti. A 61 anni, dopo un periodo in America, è tornato in Germania e ora confessa di essere l’autore del libro al centro di accese discussioni. Perché l’uso dello pseudonimo? «Non sono più Christian Kämmerling, risponde, ora mi sento Jonathan Crown». All’intervistatore che gli chiede se è lecito descrivere Hitler come un essere umano, replica ricordando la risposta di Marcel Reich-Ranicki: «Ma cosa potrebbe essere stato, un elefante?».
Certo, Hitler che mentre ordinava lo sterminio degli ebrei s’innamorava di un fox terrier, può scioccare: «È questa banalità che lo rende ancora più mostruoso. Spesso la distanza fra l’orrore e la mediocrità è molto breve». Su Hitler, dice Kämmerling, circolano ancora tante false leggende, che lui nel libro si è divertito a smontare: per esempio che il suo cane prediletto era un pastore tedesco, Blondi («non è vero, quel cane serviva un po’ come simbolo della razza tedesca, ma il suo preferito era proprio un fox terrier, Foxi, che appare in una foto dell’agosto 1942 seduto accanto al Führer che ascolta il ministro degli Esteri Ribbentrop»). E ancora: Hitler era vegetariano («in realtà era ghiotto di Weisswürste e di paté di cacciagione, ma decise di rinunciarvi per evitare crisi di flatulenza, che comunque dipendevano dall’enorme quantità di verdura cruda che consumava»). Del resto, aggiunge Kämmerling, è difficile resistere a un fox terrier e alla sua «sorridente malinconia»: anche lui, fino a pochi mesi fa, aveva un fox terrier, che purtroppo è morto. Adesso ha preso una bassottina di cinque mesi.

Repubblica 2.1.15
Addio a Laura Lilli, giornalista dalla parte delle donne
La scrittrice è morta a Roma a 77 anni
Dopo l’impegno nelle riviste femministe fu a “Repubblica” sin dal primo numero
di Paolo Mauri


QUALCHE mese fa Laura Lilli, scomparsa il 31 dicembre, ha concluso il convegno dedicato al marito Ugo Baduel rievocando i tempi in cui si erano conosciuti e messi insieme. Era il 1967, Ugo lavorava all’ Unità, dava parte dello stipendio, che era modesto, al partito mentre Laura faceva qualche servizio per la Rai che la pagava con un anno di ritardo. Morale: erano senza una lira e spesso Ugo la notte si giocava a dadi con Gastone Novelli quel poco che gli restava in tasca. Ma Laura ha rievocato quei tempi con un bel sorriso sulle labbra perché quella era la vita che avevano scelto. Essere comunisti come impegno morale prima ancora che politico. Essere compagni magari più di altri proprio perché borghesi di nascita. Laura, nata a Roma nel ‘37, era figlia di un grande giornalista del Corriere della Sera , Virgilio Lilli, Ugo veniva da una famiglia cattolica benestante. Laura aveva studiato al liceo Tasso e poi a Londra e in America. Nel 1963 comincia a scrivere sul Mondo di Mario Pannunzio e scrive articoli sugli Stati Uniti. «Non mi pagavano naturalmente », ricordava sempre, ma serviva per la carriera. Accanto all’impegno politico nel Pci comincia in quegli anni la militanza femminista, le riviste come Quarto mondo o Compagne, la collaborazione con La Stampa di Torino che aveva aperto una pagina alle donne. Un ghetto? Forse, ma anche un primo passo per diffondere certe tematiche. Dopo aver scritto, sempre in modo un po’ precario, per vari giornali, Laura era stata assunta da un quotidiano economico, Il Globo , diretto da Ghirelli, che aveva la redazione in piazza Indipendenza a Roma, esattamente negli stessi locali in cui sarebbe stata ospitata Repubblica. Proprio a Repubblica Laura entrò fin dai numeri zero nell’ultimo scorcio del 1975 (il giornale sarebbe uscito il 14 gennaio del ‘76). La redazione Cultura era allora diretta da Enzo Golino e lì Laura fu subito inserita e lì la trovai quando pochi mesi dopo arrivai anch’io in quelle stanze.
Laura, se così posso dire, era già una veterana, una giornalista con un curriculum professionale ragguardevole e sempre di più si sarebbe affermata sia con inchieste di natura politico-sociale sia con numerose incursioni in campo letterario. C’è un bel libretto del ‘95 pubblicato da minimum fax che si intitola Voci dell’alfabeto dove aveva raccolto le interviste a Sciascia, Moravia e Eco. Ma era con scrittrici del calibro di Nadine Gordimer o Doris Lessing che i temi letterari e quelli femministi si incrociavano perfettamente. Laura era portata alla riflessione profonda, probabilmente anche grazie ai suoi studi filosofici: riconosceva la complessità dei temi affrontati e lo si vede, per esempio, in un libro scritto con Chiara Valentini e intitolato Care compagne ( 1979) dove l’argomento trattato era il femminismo nel Pci e nelle organizzazioni di massa. Oggi, io credo, Laura avrebbe piacere d’essere ricordata soprattutto per le sue fatiche poetiche. Scriveva in italiano ma anche volentieri in inglese: Dolce per le formiche è un titolo, ma diversi altri se ne potrebbero citare raccontando della sua leggerezza e della sua arguzia, del suo modo di sorridere al mondo. Frequentando i letterati aveva anche scritto un romanzo di genere sperimentale Zeta o le zie che uscì prima (siamo nel 1980) per le edizioni delle donne e poi per Bompiani.
Come saggista la Lilli partecipò anche alla Storia della stampa italiana diretta da Castronovo e Tranfaglia con interventi sulla stampa femminile e sulla stampa italiana nell’età della tv. Mi sarebbe difficile chiudere questo ritratto di Laura Lilli senza ricordare la sua lunga passione per Capri dove per molti anni ebbe una casa e dove collaborò con l’editrice La Conchiglia che organizzava incontri ad alto livello nel solco di una lunga tradizione. Ma a Capri Laura e Ugo Baduel ebbero anche un gommone e con quello si divertirono come ragazzi. Tornando al discorso in memoria di Ugo citato all’inizio, è proprio questo dato a venir fuori: affrontare la vita come ragazzi che ne colgono i lati dolci anche in mezzo a mille difficoltà. Ora mi piace pensarla così, come una ragazza che non ha paura del domani.
I funerali di Laura Lilli si terranno domani a Roma alle 1-1, nella chiesa di San Saba all’Aventino

mercoledì 31 dicembre 2014

«Come una specie di terapia di gruppo...», dice uno dei sopravvissuti provando a strappargli un sorriso. Il comandante annuisce.
Corriere 31.12.14
La tragedia della Norman
Il comandante: «Io in terapia con i naufraghi»
Giacomazzi sulla San Giorgio è rimasto accanto ai suoi passeggeri
di Fabrizio Caccia

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Il Fatto 31.12.14
Italia, Grecia e Albania

L’armatore scatena una battaglia navale
La contesa tra i rimorchiatori e le manovre dei proprietari
“C’è un mezzo mandato da loro per recuperare il relitto
di Antonio Massari


Quattro navi albanesi, cinque italiane, due greche. Tutte intorno al relitto della Norman Atlantic in una minuscola battaglia navale nel porto di Valona. L’epilogo non poteva essere più atroce e grottesco, con due gruppi di rimorchiatori a contendersi questo cimitero galleggiante che custodisce, oltre i cadaveri dei dispersi, le risposte al quesito più importante: di chi sia la responsabilità della tragedia. La Procura di Bari ha sequestrato la Norman: nessuno deve poter inquinare le prove. E così la stampa albanese nel tardo pomeriggio titola: “Lotta per il traghetto della tragedia, vincono gli italiani. La nave a Brindisi”. Ma sarebbe un errore interpretare la “lotta” come una questione tra Stati. E a rivelarlo è il ministro della difesa albanese, Mimi Kodheli, che nel rimorchio della Norman s'è intromesso un rimorchiatore che “non ha alcun legame ufficiale con la flotta albanese”. Si riferisce all'Iliria che, spiega la tv albanese Top Channel, è “stata contattata dai proprietari del traghetto per recuperare il mezzo abbandonato”. Una mossa poco gradita dalla procura che ha ufficialmente affidato ai rimorchiatori della compagnia Barretta il compito di custodire e trainare il traghetto nel porto di Brindisi. L'incipit di questa battaglia, come rivelato ieri dal Fatto, avviene poche ore dopo il termine delle operazioni di salvataggio quando, quasi per scherzo, i tre rimorchiatori italiani vengono avvicinati dall'omologo albanese, l'Adriatik, che li stuzzica via radio dicendo: “Provo a rimorchiarlo io”. Pensando a una semplice provocazione, i marinai italiani rispondono di provarci pure, non immaginando che l'Adriatik l'avrebbe davvero agganciato per portarlo nel porto di Valona.
INIZIA il surreale inseguimento in mare, che si chiude tragicamente nella mattinata di ieri, quando un secondo rimorchiatore, l'Iliria, che inizia, a sua volta, a rimorchiare il primo, in una sorta di fila indiana. La cima però si spezza uccidendo due marinai albanesi. La Norman resta però agganciata all'Adriatik, che non ha alcuna intenzione di mollare la “preda”, finché personale militare della nave San Giorgio non sale a bordo del traghetto per affidare il rimorchio alla compagnia italiana. Il governo albanese è d'accordo, la procura l'ha convinto a desistere, ma poi tiene a precisare che con l'Iliria non ha nulla a che spartire, è intervenuto dopo essere stato contattato dai proprietari. Nel frattempo, in questa guerra navale, s'aggiunge un ulteriore protagonista: il mega rimorchiatore genovese Varrazze, giunto da Malta, al quale la San Giorgio – con a bordo circa 214 persone - intima di allontanarsi di almeno un miglio dalla Norman. In realtà, non è possibile stabilire con certezza da chi, l'Iliria, sia stato contattato: la Visemar da giorni afferma di aver affidato alla società olandese Smit Salvage, sin dal momento dell'incidente, “le operazioni di salvataggio”. Ieri ha precisato di non avere “altro interesse che l'accertamento della verità”, che “si atterrà a ogni indicazione dell'autorità giudiziaria, anche in merito al porto di destino della nave, richiedendo alla società Smit Salvage di attenersi a tali indicazioni”.
C'È UN ULTERIORE dettaglio, però, che il Fatto è in grado di rivelare, e riguarda proprio il rapporto tra la Smit Savage e la compagnia dei rimorchiatori Barretta. A raccontarlo è proprio Giuseppe Barretta: “Confermo che la Smit ha avuto un ruolo operativo sin dal 28 e infatti, qui in ufficio, abbiamo una sfilza di fax con cui ci chiede propone di lavorare in sub appalto per loro”. Ma i Barretta non accettano: “Non abbiamo bisogno dei loro soldi, gli abbiamo risposto, perché siamo andati lì per salvare delle vite e svolgere il nostro lavoro con professionalità e in autonomia, come sempre”. A questo punto, secondo Barretta, la Smit alza il tiro: “Annunciano che, se non accettiamo, saranno costretti a inviare un loro rimorchiatore”. Senza alcuna allusione, ma soltanto rimettendo in fila i fatti, c'è da rilevare una coincidenza: le fonti albanesi riferiscono che il rimorchiatore Ilia giunge, dopo l'Adriatik, in seguito a un generico “contatto” con la proprietà della nave. Nel frattempo, però, è intervenuta la procura di Bari a mettere un punto definitivo: il traghetto è ufficialmente affidato ai rimorchiatori italiani, che nel tardo pomeriggio lo agganciano, e possono finalmente rimorchiarlo verso Brindisi. “Vincono gli italiani”, titolano i tg albanesi. Ora il punto chiave è capire davvero con chi – e soprattutto perché – s'è lottato: se con gli armatori, con la Smit, con gli assicuratori, o con i rimorchiatori albanesi. E la Procura di Bari intende capirlo al più presto.

Repubblica 31.12.14
Il Paese senza regole e le vite di serie B
di Gad Lerner


DISINFORMAZIONE in tempo irreale. La velocità dei tweet istituzionali ha scandito la tragedia della Norman Atlantic.
SEMPRE in contrasto gli uni con gli altri, che provenissero dalla Marina Militare o dalla Guardia Costiera, se non addirittura da Palazzo Chigi, lungi dal ragguagliare i cittadini i tweet hanno finito solo per minare la credibilità delle fonti ufficiali, cioè dello Stato italiano. Notizie sbagliate, cifre non verificate, l’improvvida rassicurazione «niente morti italiani» smentita purtroppo il giorno dopo, la doppia lista passeggeri...
Così l’immagine di efficienza e coordinamento che si voleva trasmettere con quei messaggi telegrafici in tempo reale, si è tradotta nel suo contrario: ovvero la riconferma del luogo comune di un Paese sregolato e raffazzonato anche quando si tratterebbe di rispettare normative di sicurezza e applicare procedure d’emergenza. Per non parlare del conflitto con le autorità greche e albanesi, fonte di ulteriore confusione che speriamo non abbia rallentato le operazioni di soccorso.
Il traghetto in arrivo a Ancona con incerto numero di passeggeri registrati, le cer- tificazioni antincendio non conformi, la dubbia regolarità del carico nella stiva, e infine la presenza di emigranti irregolari nascosti sotto i camion, inevitabilmente ha riportato in auge la parola “clandestino”. Una parola che avevamo adoperato con maggior cautela da quando papa Francesco ci aveva ricordato, a Lampedusa, che i clandestini, ben prima che minacce, sono persone come noi. Fermarli equivale a voler svuotare il mare con un cucchiaino, e poi, in fondo, anche a bordo dell’ultimo traghetto in fiamme i passeggeri fantasma figurano come un dettaglio trascurabile.
Semmai, al termine di un anno 2014 che ha visto migliaia di uomini, donne e bambini affogare tra le sponde del nostro piccolo bacino Mediterraneo, la stessa nozione marittima di clandestinità va estesa ben oltre il destino dei fuggiaschi.
Clandestina, o per lo meno torbida, ci appare l’intera gestione dei traffici fra le sponde del mar Mediterraneo. In buona misura sottratta alla supervisione delle autorità preposte. Regolata severamente in teoria, ma quasi sempre piratesca nella libertà solo formalmente negata a chi spadroneggia sul Mediterraneo e vi si arricchisce impunito.
Nella stessa striscia di mare in cui è scoppiato l’incendio della Norman Atlantic, ieri è stata segnalata una nave ostaggio di scafisti armati con centinaia di profughi siriani a bordo. Misteri marinai che si sommano l’uno all’altro, non solo fra la Grecia e l’Italia ma lungo tutte le migliaia di chilometri di coste che nei secoli hanno fatto la fortuna della nostra penisola. Misteri infittiti dalle burrasche non solo atmosferiche e dalla nebbia che ha provocato anche la collisione e la morte di sei marinai al largo di Marina di Ravenna. Per non parlare del traffico d’armi per cui è stato appena arrestato in Montenegro un ex parlamentare italiano (quanto è piccolo l’Adriatico, all’occorrenza!).
Se denunciamo la confusione e l’informazione distorta registratasi nel caso della Norman Atlantic, non è solo perché gli italiani la percepiscono come ennesima metafora della disinvoltura con cui le pubbliche autorità trattano questioni di eccezionale gravità. Il mare che oggi ci si presenta oscuro e minaccioso, ma nel quale l’Italia ha da sempre investito la sua vocazione mediterranea all’arricchimento culturale e commerciale, sembra divenuto ricettacolo equivoco, nascondiglio di segreti indicibili.
Mi riferisco alla sorda controversia che a quanto pare contrappone la nostra Marina Militare, protagonista di costose ma sacrosante, nobili operazioni di salvataggio dei profughi nel canale di Sicilia, senza badare ai chilometri di distanza dalle nostre acque territoriali, al Viminale che pretenderebbe di interromperle. Frontex contro Mare Nostrum? Ne sappiamo poco o nulla. Forse è la miopia dell’Unione europea, o forse è la carenza di fondi, o forse ancora è il meschino calcolo elettoralistico di una politica assoggettata ai Salvini di turno. Fatto sta che come abbiamo saputo poco e male della Norman Atlantic, così sappiamo poco e male delle scelte operate dal nostro governo in materia di monitoraggio e soccorso dei profughi. È la stessa opacità. Se preferite, clandestinità. Addobbata di tweet e di malainformazione suggestiva. False rassicurazioni che si traducono in spruzzi d’ignoto, e così, alimentano le nostre paure di naufragare: un’intera penisola alla deriva.
il Fatto 31.12.14
Uno spettro si aggira per l’Europa, ma è Syriza
Il programma politico di Tsipras prevede la rinegoziazione del debito pubblicoAvviati già i contatti con la Germania e la City che temono l’effetto-contagio
di Salvatore Cannavò


La sfida di Syriza, la coalizione di sinistra greca data in testa nei sondaggi in vista del voto politico del 25 gennaio, si può riassumere in tre problemi: il debito, gli armatori navali e le cliniche sociali. Sembra un gioco di società ma la complessità della situazione – la Grecia ha il rapporto debito/Pil al 177%, la disoccupazione sfiora il 30% e la spesa pubblica è scesa del 25% in pochi anni – produce anche questi intrecci.
ALEXIS TSIPRAS è il leader di un partito finito sotto i riflettori. La sua proposta di rinegoziare il debito con i creditori internazionali – sull’esempio di quanto fatto con la Germania nel 1952 – diventerà, in caso di vittoria alle elezioni, un dossier delicato sul tavolo della Bce e della Troika che oggi controlla il paese. Il debito ammonta infatti a circa 330 miliardi e più del 70% è nelle mani della Ue (60%) e del Fmi (12%). Come concedere una rinegoziazione senza veder replicare la richiesta da parte di altri governi? Di questo, gli emissari di Syriza hanno discusso con l’alta finanza londinese ma anche con il governo tedesco. Ma il punto non potrà essere aggirato: è al primo punto del programma politico di Syriza ed è stato ribadito più volte dal suo leader nei vari viaggi in Europa.
Il programma che “si aggira per l’Europa” come lo spettro marxiano prevede poi una dura lotta fiscale con l’innalzamento delle aliquote per i redditi più alti, la gratuità delle prestazioni sociali – circa 3 milioni di greci non hanno più accesso alla sanità – il ripristino del salario minimo. Da questo punto di vista, per usare un altro paradosso, il problema principale sarà con gli “armatori navali”, la potente espressione del capitalismo ellenico. La marina mercantile greca è la quinta al mondo, gli armatori sono detentori di enormi privilegi fiscali che Tsipras ha già detto di voler abolire. Esemplificano con chiarezza il livello di scontro politico che un eventuale governo della sinistra dovrà saper gestire.
Eppure, nonostante queste premesse, Syriza si sta preparando a rassicurare i suoi interlocutori. Se al suo interno esiste una “corrente di sinistra” (35% all’ultimo congresso) che propugna soluzioni molto radicali, rappresentata da Panagiotis Lafazanis, uno dei due portavoce parlamentari, il volto europeo è invece rappresentato dal vicepresidente del Parlamento europeo, Dimitris Papadimoulis realista e pragmatico che lavora per riformare i trattati Ue, rivedere il funzionamento della Bce in particolare nel finanziamento degli investimenti statali nell’economia. Alexis Tsipras dovrà gestire queste due tensioni: la pressione dell’establishment europeo e la domanda di cambiamento e di “sollievo” sociale che proviene dal profondo della Grecia. Una domanda a cui Syriza ha risposto finora rispolverando,
come alla fine dell’800, soluzioni di “mutuo soccorso”. Come le cliniche di volontariato sociale o le mense autogestite in grado di dare un primo supporto a tutti quelli scacciati dall’assistenza sociale e sanitaria.
QUESTO LATO dell’attività politica aiuta a spiegare il successo di una formazione che con il suo balzo elettorale è riuscita a svuotare il partito storico del socialismo greco, il Pasok, che in quattro anni è passato dal 43% al 6% – e incorporandone, qua e là, anche alcuni esponenti – attirando su di sé enormi aspettative che dovranno però fare i conti con il risultato elettorale. Con il 28% dei sondaggi Syriza non avrà la maggioranza parlamentare e quindi dovrà pensare a una alleanza. Difficile possa avvenire con i comunisti del Kke (5% circa) che hanno un atteggiamento ultra settario. Più probabile un allargamento alla Sinistra democratica, piccola formazione collocata tra Syriza e il Pasok. Quello che però Tsipras dovrà assolutamente evitare è di rappresentare una “parentesi di sinistra” momentanea. In caso di suo fallimento, la Grecia cadrebbe in mani ignote e, visto il suo passato, molto più preoccupanti.

il Fatto 31.12.14
L’intervista Curzio Maltese, eurodeputato
“Alexis fa paura solo perché la Ue è debole”
di Sandra Amurri


La Grecia va alle urne. La crescita esponenziale di Alexis Tsipras leader di Syriza, partito che solo quattro anni si attestava al 4,9 per cento e oggi viene dato come favorito con quasi il 6 per cento di distacco sul partito di centrodestra Nea Demokratia di Antonis Samaras fa tremare l'Europa.
Curzio Maltese, europarlamentare eletto nella lista L'Altra Europa con Tsipras, da cosa nasce un tale timore?
Dalla debolezza dell'Europa e non dalla forza di un Paese come la Grecia il cui impatto non è certamente colossale. Il timore è che se vince Tsipras e alla Grecia non verrà concessa la rinegoziazione del debito, come lui chiederà, la sola soluzione sarà l'uscita dall'euro e questo creerebbe un precedente pericoloso per altri Paesi, fra cui l'Italia, strozzati dal debito pubblico. Si dimostrerebbe che per l'euro c'è una porta di entrata, ma anche una d'uscita. Il suo programma è socialista simile a quello della sinistra pre-Renzi sulle posizioni di Fassina e Cuperlo, per intenderci. Certo, molto distanti da un partito come il Pd attuale che rende possibili i licenziamenti di massa, cosa fino a ieri impensabile. Il debito pubblico greco è cresciuto nonostante le politiche di austerità imposte dall'Europa e questo suona da evidente monito per tutti gli altri Paesi e soprattutto per quelli in serie difficoltà seppure non siano paragonabili alla Grecia in quanto l'Europa non è stata in grado di proporre politiche alternative. La sola strategia un po’ piu intelligente seppure limitata, è quella di Draghi che spinge affinché l'Europa ripensi il debito pubblico, intervenga nell'acquisto dei titoli di Stato ma ha difficoltà anche lui a farla passare.
Quali le soluzioni prospettate da Syriza?
La situazione in Grecia è spaventosa. La mortalità infantile è aumentata, non accadeva da 60 anni. Le pensioni oscillano dai 200 ai 300 euro al mese. Moltissime persone dormono sotto i ponti. Syriza offre le colazioni ai bambini come succedeva negli Anni 50 e allestisce i mercatini calmierati. Ho conosciuto più approfonditamente Tsipras. È un ingegnere, ha una formazione scientifica, è un uomo pragmatico non è un ideologo. E non è indisponibile a mediazioni per raggiungere l'obbiettivo. È ovvio che tra le rivendicazioni vi siano l'innalzamento delle pensioni e il garantire i servizi primari di sussistenza.
Senza toccare, ha assicurato, i risparmi dei privati. Sarà possibile?
A parte che molti soldi sono già usciti dalla Grecia, il suo programma ha come punto forte la lotta all'evasione fiscale. La Grecia con l'Italia registra il piu alto tasso di evasione e finora i governi che si sono succeduti hanno fatto grandi annunci senza nulla di concreto, in compenso hanno varato condoni e optato per scelte che hanno incoraggiato l'evasione. Tsipras se verrà eletto incontrerà da subito i premier dell'aerea Mediterranea da Hollande a Renzi passando per la Spagna dove cresce il consenso intorno a Podemos con l'intento di trovare soluzioni comuni. In fondo anche la Grecia partecipò nel secondo dopo guerra a far sì che sulla Germania sconfitta non pesassero i debiti di guerra per evitare gli errori dopo il primo conflitto mondiale. Voglio dire che la Grecia, culla della civiltà, meriterebbe altrettanta sensibilità. Nessun leader europeo 20 anni fa pensava che la moneta unica potesse essere il solo collante. Lo hanno scritto anche il Financial Times e il Sole 24 Ore. Occorre costruire una Europa solidale anche per evitare che prendano il sopravvento movimenti, questi sì pericolosi per la tenuta democratica, come Alba Dorata in Grecia, Le Pen in Francia e la nostra Lega, solo per citarne alcuni.

Corriere 31.12.14
La Grecia può fare male all’Europa
Rischi sottovalutati del voto in Grecia
Se il governo che uscirà dalle elezioni metterà in atto le misure annunciate, compresa la ristrutturazione del debito, potrebbero andare in crisi le reti di salvataggio europee, ma i mercati finanziari sembrano non allarmarsi
di Lorenzo Bini Smaghi

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Repubblica 31.12.14Piketty: “Tsipras non è il male meglio di populisti e xenofobi. Il vero pericolo per l’Europa è l’ipocrisia di Juncker e Merkel”
L’economista francese: “Con un governo di sinistra dalla Grecia può partire una rivoluzione democratica: aiuterà a rivedere l’austerity che soffoca l’Unione con meno risorse per pagare i debiti pubblici e più sviluppo”
intervista di Eugenio Occorsio


Juncker fa il duro ma il Lussemburgo ha depredato l’Ue Anche la Germania si è ricostruita grazie a un condono
Perché l’Italia deve spendere il 6% del Pil in interessi e solo l’1% nella scuola? Serve una regia unica sulle politiche di crescita

ROMA «Non capisco perché le cosiddette cancellerie europee siano così terrorizzate dalla probabile vittoria di Syriza in Grecia. O meglio, lo capisco, però è ora di smontare le loro ipocrisie. Thomas Piketty, docente all’Ecole d’économie parigina, “l’economista più autorevole del 2014” come lo ha definito il Financial Times, è sceso in campo con tutta la sua grinta con un editoriale pubblicato ieri da Liberation . «Serve in Europa una rivoluzione democratica», ha scritto e ce lo ripete chiaro e forte al telefono dall’aeroporto di Parigi mentre sta per imbarcarsi per New York, la città che ha lanciato il suo “Capitale nel XXI secolo” come libro dell’anno grazie all’endorsement del premio Nobel Paul Krugman.
Professore, però Tsipras si è fatto strada sventolando la bandiera dell’uscita dall’euro… «Sì, ma ora ha molto ammorbidito le sue posizioni. Si è rivelato, all’opposto, un leader fortemente europeista, una posizione che si assesterà ulteriormente se com’è probabile dovrà formare un governo di coalizione, visto che secondo i sondaggi non avrà più del 28% e quindi 138 seggi, 12 in meno della maggioranza. I più probabili alleati come sapete sono il neocostituito partito di centrosinistra Potami e l’altra forza di sinistra democratica Dimar, che gli garantirebbero un altro 8-10%. Certo, Syriza farà valere le sue posizioni in Europa, ma non sarà un male, anzi».
Qualcosa accadrà, insomma.
Ma è sicuro che non sarà qualcosa di dirompente?
«Senta, guardiamo la situazione con realismo. La tensione in Europa è arrivata a un punto tale che in un modo o nell’altro scoppierà, entro il 2015. E tre sono le alternative: una nuova crisi finanziaria sconvolgente, l’affermazione delle forze di destra che realizzano la coalizione di cui stanno mettendo le basi incentrata sul Fronte Nazionale in Francia e comprendente la vostra Lega e forse i 5 Stelle, oppure uno choc politico proveniente da sinistra: Syriza, gli spagnoli di Podemos, il Partito democratico italiano, quel che resta dei socialisti francesi. Finalmente alleati e operativi. Lei quale soluzione sceglie? Io la terza».
La famosa “rivoluzione democratica”, insomma. Quali dovrebbero essere i primi atti?
«Due punti. Primo, la revisione totale dell’attuale politica basata sull’austerity che sta soffocando qualsiasi possibilità di recupero in Europa, a partire dal Sud dell’eurozona. E questa revisione deve per primissima cosa prevedere una rinegoziazione dei debiti pubblici, un allungamento delle scadenze, eventualmente dei condoni veri e propri di alcune parti. È possibile, glielo assicuro. Vi siete chiesti perché l’America marcia alla grande, così come l’Europa fuori dall’euro come la Gran Bretagna? Ma perché l’Italia deve destinare il 6% del proprio Pil al pagamento degli interessi e solo l’1% al miglioramento delle sue scuole e università? Una politica incentrata solamente sulla riduzione del debito è distruttiva per l’eurozona. Secondo punto: un accentramento presso le istituzioni europee di politiche di base per lo sviluppo comune a partire da quella fiscale, e magari riorientare quest’ultima tassando di più le maggiori rendite personali e industriali. Su queste materie fondamentali si deve votare a maggioranza e non più all’unanimità, e poi vigilare perché tutti si adeguino. Più centralità serve anche su altri fronti a somiglianza di quanto si sta cominciando a fare per le banche. Solo così si potrà omogeneizzare l’economia e sbloccare la frammentazione di 18 politiche monetarie con 18 tassi d’interesse, 19 da inizio gennaio con la Lituania, esposta al flagello della speculazione. Non rendersene conto è miope e, quel che è peggio, profondamente ipocrita».
Le “ipocrisie europee” di cui parlava all’inizio: a cosa si riferisce più precisamente?
«Andiamo con ordine. Il più ipocrita è Jean-Claude Juncker, l’uomo al quale incoscientemente si è data in mano la commissione europea dopo che per vent’anni ha condotto il Lussemburgo a una sistematica depredazione dei profitti industriali del resto d’Europa. Ora pretende di fare il duro e di prendere un giro tutti con un piano da 300 miliardi che però è finanziato solo per 21, e all’interno di questi 21 la maggior parte sono fondi europei già in via di erogazione. Parla di “effetto leva” senza neanche rendersi conto di cosa sta parlando. Al secondo posto c’è la Germania, che fa finta di aver dimenticato il maxi-condono dopo la seconda guerra mondiale dei suoi debiti, scesi di colpo dal 200 al 30% del Pil, che le ha permesso di finanziare la ricostruzione e la prepotente crescita degli anni successivi. Dove sarebbe andata se fosse stata obbligata a ridurre faticosamente il debito a colpi dell’uno o due per cento all’anno come sta costringendo a fare il sud Europa? La terza piazza nell’imbarazzante classifica delle ipocrisie spetta alla Francia, che ora si ribella alla rigidità tedesca ma è stata in prima fila nell’affiancare la Germania quando è stata impostata la politica dell’austerity, e altrettanto decisa sembrava quando con il Fiscal Compact del 2012 si sono condannate le economie più deboli a ripagare i debiti fino all’ultimo euro malgrado la devastante crisi del 2010-2011. Ecco, se saranno smascherate e isolate queste ipocrisie si potrà ripartire per lo sviluppo europeo nell’anno che sta per iniziare. E Syriza farà meno paura».

La Stampa 31.12.14
L’eccessivo ottimismo del premier Renzi
di Marcello Sorgi


Attesa come l’evento politico istituzionale di fine anno, luogo d’eccellenza per bilanci, consuntivi e programmi per il futuro, la conferenza stampa di lunedì del presidente del Consiglio è trascorsa come se nulla fosse, e soprattutto come se su nessuno dei problemi aperti in prospettiva per il Paese il premier, insolitamente a disagio per le domande dei giornalisti, avesse una risposta chiara o un’opinione da dare.
Si dirà che in presenza del naufragio della Norman Atlantic, con le immagini di sofferenza che da giorni entrano nelle nostre case, i media hanno prudentemente limitato le dosi di politica da somministrare a lettori ed ascoltatori. I danni e le vittime sono stati limitati, grazie all’impegno e all’abnegazione delle tante persone impegnate nei soccorsi, ma è rimasta la sensazione di qualcosa che colpevolmente si ripete, e invece poteva essere evitato.
C’è però un’altra ragione per cui, dopo trecento giorni di governo che - è innegabile - hanno prodotto risultati, le parole del premier sono state accolte con freddezza, se non proprio con l’indifferenza e la sfiducia nella politica, nei partiti e nelle istituzioni, che i sondaggi ormai attribuiscono alla stragrande maggioranza dei cittadini. La ragione è che Renzi, per quanto lo faccia con più accortezza, moderando l’entusiasmo dei primi tempi e limitando anche l’uso del suo tipico apparato di scenografie, slides, filmati (ma non il fac-simile della nuova scheda elettorale, a cui non ha saputo rinunciare), continua a dipingere la situazione italiana più rosea, o meno grigia, di quel che è. E se qualcuno prova a dirglielo, non lo sopporta, e subito reagisce con la metafora dei «gufi» e dei «rosiconi».
Può darsi che anche nei momenti tragici serva un po’ di ottimismo. Anzi è sicuro. Ma il problema è che non c’è più alcun bisogno di indorare la pillola e dipingere l’orizzonte più sereno di quanto non sia. Tanto - sono ancora i dati dei sondaggi a dirlo - la gente ha perfettamente chiaro che il 2015 sarà come o peggio del 2014, e la possibilità che il 2016 segni la sospirata inversione di tendenza, dipenderà da noi, ma non solo da noi.
Saremo ancora, come e più di quanto siamo stati nell’ultimo decennio, dipendenti da un’Unione europea e da un sistema monetario che ci penalizza, ma ci consente anche di non precipitare. Combatteremo, con più o meno risultati, ma sempre con le migliori intenzioni, contro una corruzione dilagante, che negli ultimi tempi ha superato qualsiasi limite sopportabile, e troverà l’anno venturo, nell’apertura dell’Expo, una vetrina del meglio, speriamo, ma auguriamoci non del peggio, di quel che l’Italia può rappresentare nel mondo. Le riforme annunciate ed attese (una al mese, ricordiamoci la promessa) avanzeranno tra molte resistenze, forse dovranno scontare altre battute d’arresto, prima di raggiungere, o no, o non tutte, il traguardo.
Parola più, parola meno, questo è ciò che ci si aspettava che Renzi dicesse. Se lo avesse fatto, a nessuno sarebbe sembrato un discorso rinunciatario, ma realistico e legato purtroppo alla verità dei fatti. Sulla base di questo il premier avrebbe potuto cercare le risposte ad altre domande che tutti si stanno facendo in questi giorni. Chi sarà il successore di Napolitano? Se è così difficile trovarne uno all’altezza, perché non dire a che punto è la trattativa? Prevarranno i giochi e le vendette interne dei partiti, come sembra, o alla fine sarà il senso di responsabilità ad averla vinta? Allo stesso modo sarebbe stato più semplice ammettere che l’implementazione della riforma del lavoro - che introduce, non va dimenticato, un più ampio diritto di licenziamento - sta rivelandosi più complicata del previsto. Continuare a dire che tutto sarà a posto dai primi di gennaio è sbagliato, forse sarebbe meglio dichiarare che ci vorrà più tempo.
Dopo dieci mesi al governo, in altre parole, Renzi dovrebbe aver capito che la stagione dell’uomo solo al comando è finita. Sarebbe ragionevole riconoscerlo: in fondo, anche questo i sondaggi lo dicono chiaramente, il premier piace ancora alla gente perché è giovane, perché si è preso in carico un Paese che è arduo, se non impossibile, governare, e perché riconosce in lui un politico consumato, cioè uno che sa capire quando è meglio per tutti scendere a patti e siglare un compromesso.

il Fatto 31.12.14
Renzi, governo sordo al Parlamento non risponde mai
Interrogazioni cadute nel nulla, mozioni e risoluzioni chiuse nei cassetti dei ministeri
Degli atti di indirizzo discussi alle Camere vede la luce solo il 4,5 per cento
di Paola Zanca


Anchilosato da tre ore abbondanti passate sui banchi del governo nell’aula di palazzo Madama, Matteo Renzi aveva pensato bene di alzarsi proprio nel momento in cui i senatori di maggioranza e opposizione aspettavano una risposta alle loro osservazioni. Lui - caso raro nell’intera storia repubblicana - decideva di non replicare. Di più, si alzava e se ne andava, costringendo la presidente di turno, Linda Lanzillotta, a difenderlo dal coro di sdegno: “Forse aveva bisogno di muoversi”.
Era il 22 di ottobre e quel giorno il suo governo compiva otto mesi giusti giusti. Li festeggiò così: celebrando plasticamente il suo totale disinteresse per quei 630, arrivati lì prima di lui e ora chiamati a rincorrere gli umori del suo governo. Eppure, che il rapporto tra i poteri dello Stato si sia interrotto, non lo dicono solo i 30 voti di fiducia in 10 mesi. Il ministro Maria Elena Boschi ha da poco pubblicato una tabella riepilogativa degli atti di indirizzo della legislatura: secondo il Dipartimento per i Rapporti con il Parlamento sono stati conclusi il 53 per cento delle mozioni e risoluzioni presentate alla Camera e il 58 per cento di quelle depositate in Senato. Per “conclusi”, specifica la tabella, si intendono tutti gli atti “discussi, trasformati o ritirati”. Che poi il governo li tenga in considerazione, è tutto da vedere. È il “Servizio per il controllo parlamentare” di Montecitorio a fornire cifre che fotografano il totale disinteresse del governo verso le indicazioni dei parlamentari. Le illustrano in una interrogazione (vedremo se destinata anch’essa a rimanere senza risposta) alcuni deputati M5S, prima firmataria Giulia Di Vita.
COMINCIAMO dall’inizio. Il “Servizio per il controllo parlamentare” ha, tra gli altri, il compito di verificare e controllare “il seguito delle deliberazioni e delle iniziative parlamentari non legislative”. A questo scopo, segnala ai ministeri competenti tutti quegli atti che sono stati approvati in Assemblea o in commissione e che sono stati accolti dal governo anche solo come “raccomandazione”. Sarà poi cura del ministero informare il “servizio per il controllo parlamentare” che fine hanno fatto quegli atti che gli erano stati segnalati. Dunque, le cose sono due: o i ministeri si scordano sistematicamente di comunicare il loro lavoro, oppure quegli atti finiscono in un cassetto che nessuno apre più. Ecco i numeri: su 2.450 ordini del giorno segnalati, ne sono stati attuati 92. Su 115 risoluzioni, hanno avuto un seguito soltanto 15. E delle 186 mozioni sottoposte ai ministeri, solo 18 sono state messe in campo. Le somme sono presto fatte: su un totale di 2751 atti di indirizzo, il governo ne ha attuati 125. Tradotto: il 4,5 per cento. Scrivono i deputati M5S: “Questo malfunzionamento contribuisce seriamente a depauperare e frustrare il lavoro di parlamentari che tentano di far emergere specifiche problematiche di rilievo nazionale attraverso appositi quesiti che però, purtroppo non di rado, restano inevasi, con conseguente alto senso di frustrazione e inutilità”.
Nella classifica (elaborata dall’associazione Openpolis) la Presidenza del Consiglio è quella che meno risponde alle interrogazioni, seguita dal ministero della Giustizia e da quello dell’Economia. I governi precedenti non avevano brillato in capacità di ascolto delle prerogative parlamentari: Berlusconi aveva risposto al 39 per cento delle interrogazioni, Monti al 29. Ma quest’ultima legislatura (per metà di Enrico Letta e per l’altra di Matteo Renzi) non arriva nemmeno al 15.
Ogni mercoledì alla Camera si svolge il question time. A quello del 3 dicembre si è presentato Renzi in persona. In un’ora ha risposto a dieci interrogazioni. Quando è toccato al M5S Daniele Pesco, il premier si è rivolto alla Boldrini: “Signora Presidente, lei perdonerà la mia scarsa abitudine alle domande e alla presenza parlamentare perché in questo momento, ad esempio, non ho capito qual è la domanda”.

il Fatto 31.12.14
Libera evasione: il Fisco sempre più ostacolato
Con il decreto varatoi la vigilia di Natale rischierà il carcere solo chi evade oltre 150mila euro contro i 50mila attuali
Le fatture false saranno reato solo se superiori a mille euro
Il Sole 24 Ore: “Senza modifiche salterà un processo su tre”
di Carlo Di Foggia


La vigilia di Natale è stata generosa con gli evasori: il regalo è arrivato direttamente dal governo. Man mano che la bozza del decreto legislativo sui reati tributari viene analizzata, infatti, si capiscono meglio anche gli effetti dell’allentamento deciso dall’esecutivo di Matteo Renzi con il testo licenziato lo scorso 24 dicembre: migliaia di processi e fascicoli cancellati, con l’abuso del diritto che di fatto esce dall’ambito penale grazie alle soglie di punibilità triplicate. Andiamo con ordine. Il segnale d’allarme l’ha lanciato il Sole 24 Ore: con queste norme, “salterà un processo su tre”. Stando al testo - inviato alle commissioni parlamentari - la soglia sotto il quale non scatta il reato di omesso versamento di Iva e trattenute passa da 50 mila a 150 mila euro. Resta solo la sanzione amministrativa, con la fedina penale che resta pulita. Stando al quotidiano di Confindustria, l’effetto sarà quello di condannare all’estinzione oltre un terzo dei processi.
UN NUMERO sottostimato visto che si riferisce ai procedimenti in corso per effetto del “favor rei”, per cui le disposizioni penali più favorevoli valgono anche per il passato. A questi vanno aggiunte le “notizie di reato” arrivate alle Procure (peraltro solo le 38 prese in esame). Tradotto in numeri: 8500 fascicoli su poco più di 25 mila, verranno archiviati. Per dare l’idea, solo in Umbria rischiano lo stop 400 processi. Le norme valgono anche per i versamenti degli acconti Iva effettuati nei giorni scorsi.
A far discutere è anche la decisione annunciata mesi fa – e confermata nel testo – di fissare un tetto di 1.000 euro al di sotto del quale emettere fatture false non è reato. Come dire che quello che oggi è un illecito penale punito con la reclusione da 18 mesi a 6 anni diventa un semplice illecito amministrativo. E il colpevole se la cava con una multa. Lo stesso vale anche per chi si serve di quelle fatture o di altri “documenti per operazioni inesistenti” per truccare la dichiarazione dei redditi con l’obiettivo di evadere le imposte sui redditi o l’Iva. Le soglie salgono anche per chi sfugge del tutto al Fisco: l’imposta evasa dovrà essere superiore a 50 mila euro. In pratica una via di mezzo tra i 30 mila fissati nel 2011 da governo Berlusconi nel novembre 2011 e i 77 mila precedenti. Il tetto resta invece a 30 mila euro per la dichiarazione fraudolenta attraverso “altri artifici”, cioè documenti falsi o altri “giochetti” con l’obiettivo di “ostacolare l’accertamento” e “indurre in errore il fisco”. Ma anche qui interviene l’allentamento: a rischiare il carcere sarà solo chi riesce a sottrarre al fisco più di 1,5 milioni di euro. Oggi ne basta uno per rischiare la galera. Ufficialmente l’allargamento delle maglie è motivato con la crisi economica. Iva e trattenute, ad esempio, sono tra le imposte più evase dalle piccole e medie imprese in crisi di liquidità, la cosiddetta “evasione di necessità”. Si tratta pur sempre di persone che hanno dichiarato i redditi al fisco, senza però versare l’imposta, e le soglie erano già salite grazie a una sentenza della Consulta dell’8 aprile.
ALCUNE NORME, però, diluiscono ancora di più la possibilità di perseguire chi evade Iva e imposte: si verrà puniti, per dire, solo se le somme evase “sono superiori al 3 per cento del totale o dell’imponibile”. Anche sui tempi, il fisco è depotenziato: grazie a una norma dell’ex ministro Vincenzo Visco, finora in caso di reati l’Erario poteva contare su un raddoppio dei termini di decadenza. Il decreto, invece, stabilisce che questo scatti solo se è stata presentata denuncia in Procura. E chi paga il debito col fisco, potrà dimezzare o estinguere il reato. “Abbiamo fatto un decreto sull’abuso del diritto e nessuno ne parla”, ha spiegato il premier durante la conferenza di fine anno. Di sicuro lo avranno fatto gli evasori.

il Fatto 31.12.14
Mandanti politici
Il “penale” è morto L’hanno ucciso pezzo dopo pezzo
di Bruno Tinti


Ne Il Ciclone, il protagonista Levante, professione commercialista, diceva alla sua ex fidanzata Carlina, erborista che faceva "nero" a go go, che doveva smetterla perché “c'è il penale Carlina, come te lo devo dire, c'è il penale”. Il film era del 1996 e oggi Pieraccioni quella battuta non avrebbe potuto dirla. Perché “il penale” per i reati tributari non c'è più, è morto assassinato.
Le prime coltellate gliele hanno date 15 anni fa, con gli arresti domiciliari garantiti fino a 3 anni (pena mai data al 99,9 % degli evasori) e con la prescrizione berlusconiana, 7 anni e mezzo per un reato che, statisticamente, si scopre a distanza minima di 3/4 anni da quando è commesso; si capisce che indagini, Tribunale, Appello e Cassazione richiedono un po' più di 3 anni e mezzo per arrivare alla fine. Però qualche pm che arrestava e intercettava c'era: niente condanna definitiva ma un paio di mesi di galera, se eri sfortunato, ti toccavano. E poi chissà cosa altro scopriva. Perché il “nero” serve per fare la corruzione, lo sanno anche i sassi. Così l'assassino (gli assassini, i nostri politici complici degli evasori che portano voti) sono passati al vilipendio di cadavere: moderni maramaldi hanno “ucciso un uomo morto” (Francesco Ferrucci a Maramaldo, appunto) ; o perlomeno si apprestano a farlo.
LE SOGLIE di punibilità sono triplicate, sotto i 150.000 euro di imposta evasa (300.000 di nero) non c'è il penale: Carlina può dormire tranquilla. Ora: Il gettito fiscale proveniente dalle persone fisiche è di circa 150 miliardi di euro all'anno. Circa 140 miliardi li pagano lavoratori dipendenti e pensionati ( sono circa 38.000.000) che, come è noto, vorrebbero evadere ma non possono. I restanti 10 miliardi li paga il popolo dell'Iva (9.000.000 circa), che vive di “nero”. Siccome professionisti, artigiani, commercianti, imprenditori che possono fare più di 300.000 euro di “nero” ogni anno ce ne sono pochini, è ovvio che Renzi& C hanno di fatto abolito i reati fiscali.
Siccome, poi, c'è l'art. 2 del codice penale, secondo cui nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce più reato, la maggior parte dei processi pendenti si chiuderà con un'assoluzione, proprio come è capitato a B per il falso in bilancio. Insomma un mega condono. Ma cosa gli dice la testa a questa gente?

il Fatto 31.12.14
Raffaele Cantone
“Posso occuparmi solo di appalti”
colloquio di Gianni Barbacetto


Su Ercole Incalza, il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione non ha poteri. “No, non è un mio problema”, spiega Raffaele Cantone al Fatto quotidiano. Incalza è il capo struttura per le grandi opere del ministero delle Infrastrutture. Ieri un’intervista all’imprenditore della “cricca” Diego Anemone riproponeva su queste pagine la questione della casa da 1,14 milioni di euro comprata dal genero di Incalza a Roma, pagando soltanto 390 mila euro. Il Fatto si chiedeva: possiamo dimenticare questo scandalo? E (sotto il titolo: “Cantone: Incalza è il tuo problema”) chiedeva al presidente dell’Anticorruzione: può quel dirigente restare al suo posto? “Io non solo non ho elementi specifici su questa vicenda, risponde Cantone, “ma non ho alcuna competenza in materia. Noi dell’Autorità ci occupiamo di atti, di appalti, di contratti. Non possiamo occuparci di nomine . Tanto meno della permanenza in servizio di un dirigente arrivato al ministero nel febbraio 2013, avendo noi iniziato a lavorare il 24 giugno 2014”. A meno che... “A meno che non arrivi una condanna almeno in primo grado. Allora potremmo pensare di affrontare il problema”.
CANTONE NON VUOLE commentare le scelte giornalistiche che lo hanno indicato come “Uomo dell’anno”, anche se ammette di essere soddisfatto del lavoro svolto in questi sei mesi e dell’impegno che lui e i suoi collaboratori ci hanno messo. Il lavoro non è mancato, tra Expo, Mose e Mafia Capitale. “L’impegno forse maggiore è stato quello per Expo”, racconta, “è stato un lavoro continuo perché abbiamo controllato tutti gli appalti. Ma ce ne sono stati anche altri, molto impegnativi anche se meno visibili. Abbiamo avviato i controlli sulla trasparenza, sull’anticorruzione... Davvero tanto materiale, in questo periodo”. Con il gennaio 2015 sarà a pieno regime l’integrazione tra la Avcp (l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici) e l’Anac (l’Autorità nazionale anticorruzione). “Sì, le due strutture lavorano già insieme dal mio arrivo, ma a gennaio sarà operativo il piano di riordino, che prevede una razionalizzazione e una riduzione di spesa, sotto un’unica Autorità anticorruzione che fa anche vigilanza sui contratti pubblici, in un’attività integrata”. Una task force di 320 persone che avrà il suo bel da fare, anche nel 2015. Ha a disposizione strumenti adeguati, anche legislativi? “Sì. Abbiamo le forze per realizzare i controlli e anche la possibilità di comminare sanzioni amministrative. Possiamo ordinare il commissariamento degli appalti, strumento che stiamo utilizzando e abbiamo utilizzato sia per Expo, sia per il Mose, sia in riferimento alle indagini su Roma. E pure per un appalto che ha fatto meno notizia, ma non è meno importante: quello su Sogin, che si occupa dello smaltimento dei rifiuti radioattivi delle centrali nucleari italiane in via di smantellamento”. È la nuova possibilità, molto rapida ed efficace, di commissariare non un’intera azienda, ma il singolo appalto ritenuto truccato. “Poi abbiamo attuato molti commissariamenti in relazione alle interdittive antimafia”: con l’esclusione dai lavori (anche di Expo) di aziende ritenute inquinate dai gruppi criminali. Una di queste, la Ausengineering, è stata di fatto riammessa ai lavori dal Tar, il Tribunale amministrativo della Lombardia. “È fisiologico”, risponde Cantone, “che qualche provvedimento possa essere messo in discussione dai giudici”. E Incalza? “No, non è tra le nostre competenze”, sorride Cantone.

La Stampa 31.12.14
Opportunità e rischi per l’anno che arriva
di Luca Ricolfi


Che cosa ci riserverà il 2015?
La risposta più seria, temo, è che nessuno può saperlo. Quest’anno più che mai. Il 2014, infatti, si chiude con un cocktail inedito di opportunità e di rischi. Grandi opportunità, ma anche grandi rischi. E quando gli uni e gli altri sono entrambi grandi, il futuro diventa più incerto che mai.
Le opportunità sono almeno quattro: la ripresa dell’economia americana (con conseguente effetto-volano sul resto del mondo); l’indebolimento dell’euro, che rende più competitivi i nostri prodotti; la diminuzione del prezzo del petrolio, che abbassa i costi di produzione (e neutralizza l’unico vero inconveniente dell’euro debole); e infine, se davvero Draghi lo metterà in atto, il cosiddetto quantitative easing della Banca Centrale Europea, che dovrebbe dare un po’ di ossigeno all’economia. Se questi, e solo questi, fossero i dati di fondo di cui tenere conto non potremmo far altro che prevedere un 2015 a tinte rosa, con ripresa dell’economia e una prima, sia pur timida, inversione di tendenza del tasso di disoccupazione.
Ma sfortunatamente gli elementi di cui tenere conto non sono solo questi. A fronte delle quattro opportunità appena richiamate, non si possono ignorare i rischi che corre l’Italia, in parte per cause esterne, in parte per responsabilità tutte sue. Fra i rischi esterni, il più importante è la crisi greca, che già alla fine di gennaio, quando si celebreranno le elezioni, minaccia di far riprecipitare l’Europa nell’incubo finanziario del 2011-2012.
Ma quelli che più dovrebbero preoccuparci sono i rischi di origine interna, se non altro perché sono gli unici per i quali non possiamo dare la colpa ad altri. Fra questi ne vorrei segnalare almeno tre.
Primo rischio (subito). Il Jobs Act, e in particolare le norme sulla decontribuzione dei neo-assunti nel 2015, tardano ancora ad essere messe «nero su bianco», ovvero tradotte in leggi, regolamenti attuativi, circolari interpretative nonché tutto quanto occorre perché chi vuole assumere sappia esattamente a che cosa va incontro. La conseguenza di questo ritardo non potrà che essere una paralisi, probabilmente già in atto, delle nuove assunzioni, perché chiunque intenda reclutare nuovo personale giustamente cercherà di farlo con il contratto più conveniente. Detto altrimenti: più Renzi riesce a convincere gli imprenditori che il contratto a tutele crescenti è vantaggioso, più li induce a ritardare le assunzioni, il che potrebbe comportare un ulteriore calo di occupazione, particolarmente grave in una situazione in cui la percentuale di famiglie che «non riescono ad arrivare alla fine del mese» (circa il 30%) è vicina al suo massimo storico, toccato dopo un anno di governo Monti.
Secondo rischio (fra qualche mese). Se si ripresentasse una situazione di turbolenza sui mercati finanziari, l’Italia sarebbe particolarmente esposta alla speculazione. Può sembrare strano, visto il buon andamento dello spread con la Germania negli ultimi mesi, ma troppo spesso si dimentica che il nostro spread, pur migliorando rispetto alla Germania, è peggiorato nei confronti di Irlanda, Spagna e Portogallo, ossia di tutti gli altri Pigs eccetto la Grecia. E’ per questo che, in passato, ho definito un azzardo la politica del governo, che ha aumentato il deficit pubblico prima di aver messo in atto le riforme che contano (mercato del lavoro e spending review).
Terzo rischio (fra un anno). C’è poi un rischio più nascosto, ma che gli osservatori più attenti hanno già segnalato: una nuova recessione nel 2016-2017, provocata da una raffica di aumenti delle tasse, a partire dall’Iva e dalle accise. Questo rischio è scritto ben chiaro nella Legge di stabilità, là dove si avverte che se i conti non tornassero, si provvederà con mostruosi aumenti di tasse nel 2016 e nel 2017. Il guaio è che i conti potrebbero effettivamente non tornare: in barba ai 20 miliardi di spending review annunciati, la spesa pubblica effettivamente tagliata è poca cosa, ed è ulteriormente diminuita nell’ultimo passaggio parlamentare della Legge di stabilità.
Dobbiamo essere pessimisti?
No, non dobbiamo. Possiamo anche fare gli ottimisti, e sperare che le cose si mettano per il verso giusto. Del resto, la fortuna premia gli audaci. E tuttavia, per sperare che le cose si mettano davvero per il verso giusto, di fortuna ne occorrerà parecchia: dollaro debole, petrolio a basso prezzo, ripresa americana, aiutino di Draghi, rientro della crisi greca, conti pubblici sotto controllo nonostante le molte falle e «criticità» segnalate dai tecnici.
C’è una cosa, però, che anche nello scenario migliore non dipenderà dagli altri, ma solo da noi: far sì che la ripresa, se e quando ci sarà, generi nuova occupazione, dando una speranza ai giovani e alle donne. Su questo, purtroppo, sono pessimista, molto pessimista. E la ragione per cui lo sono è precisamente la disciplina del contratto a tutele crescenti. Per quel che se ne sa fin qui, il contratto a tutele crescenti prevede fondi modestissimi per alleggerire i contributi sociali (circa il 4% di ciò che le imprese spendono per i contributi a carico del datore di lavoro), li riserva esclusivamente agli assunti nel 2015, ed elimina altri tipi di agevolazioni che, invece, erano permanenti e riguardavano alcune centinaia di migliaia di assunzioni ogni anno.
Naturalmente c’è una logica, in tutto ciò. Per creare nuovi posti di lavoro, ossia per occuparsi davvero degli esclusi, c’erano solo due strade realistiche. La prima era di investire ingenti risorse sulla decontribuzione (diciamo 10-12 miliardi), la seconda era di investire meno risorse (diciamo 4-5 miliardi), ma concentrandole solo sulle imprese che creano nuovi posti di lavoro, che sono meno di 1 su 10. Entrambe le strade, però, avevano una grave controindicazione politica: la scarsa capacità di aumentare i consensi al governo. Per percorrere la prima strada (decontribuzione massiccia), si sarebbe dovuto rinunciare a erogare il bonus da 80 euro, che ha permesso al Pd di vincere le Europee. Per percorrere la seconda (decontribuzione selettiva), si sarebbe stati costretti a tagliare fuori la maggior parte delle imprese, anche in questo caso con ricadute negative sul consenso. Comunque, nessuno scandalo e nessuno stupore: come (parafrasando Clinton), dice il premio Nobel Joseph Stiglitz: «It’s the politics, stupid».

il Fatto 31.12.14
A cosa serve un giornale
di Antonio Padellaro


Quando, per esempio, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, alla vigilia di un altro anno difficile per gli italiani, dice: “La parola del 2015 sarà ritmo”, scrivere che così ridicolizza se stesso e il governo che presiede non è un’ingiuria o un complotto dei soliti gufi. Un giornale serve a questo, anche se l’egopremier gradisce solo soffietti e battimani. A quelli che ci dicono: “Altro che critica quella del Fatto contro Renzi, è stato un bombardamento incessante, pregiudiziale, irriguardoso fin dal suo ingresso a Palazzo Chigi”, diremo che sarà certamente vero se si tiene conto della delusione provata nell’inevitabile confronto tra il primo e il secondo Matteo. Nell’aver visto, cioè, un giovane uomo all’apparenza simpatico, brillante, pieno di energia positiva e animato dalla volontà di rottamare i vecchi e soffocanti poteri, trasformarsi in un baleno nel solito leader arrogante, ambiguo, pieno di sé, parolaio a livelli insopportabili e che cammina a braccetto con quel vecchiume che avrebbe dovuto spazzare via (parliamo di Berlusconi, ma anche dei tanti cacicchi pd che ha accolto sul suo carro pur di annettersi il partito).
Però abbiamo anche saputo dirlo “bravo Renzi”: non troppe volte, ma sempre volentieri. Abbiamo apprezzato il senso delle nuove norme anticorruzione, al punto di chiedere di vederle presto attuate per decreto, e non con un disegno di legge che, come tante riforme all’italiana, finirebbe dimenticato nel cassetto. Abbiamo riconosciuto il coraggio di nominare al vertice del carrozzone Inps un economista autorevole e non renziano come Tito Boeri. Abbiamo detto bene quando Renzi ha concordato con il M5S l’elezione di un giudice costituzionale e di un membro del Csm, superando così l’impasse parlamentare. E abbiamo riconosciuto la sua buona fede quando, dopo i nostri articoli, il premier ha rinunciato a un privilegio pensionistico. Abbiamo denunciato il sapore elettorale degli 80 euro convinti, a ragione, che non avrebbero giovato alla ripresa dei consumi. Ma quei soldi hanno comunque aiutato milioni di famiglie e ne abbiamo dato atto. L’amputazione dell’articolo 18 ci è parsa un’inutile e violenta ingiustizia, ma se per incanto le imprese tornassero ad assumere in misura consistente, saremmo pronti a riconoscere di aver sbagliato.
Infine, il Quirinale. Di fronte alla scelta di un nome prestigioso che si ponesse come effettivo garante della Costituzione, condiviso non solo da B. (e qui già siamo alla contraddizione in termini) come potremmo non essere d’accordo? Un giornale serve a questo, a spiegare, a distinguere, a scegliere. In piena trasparenza e onestà. Qualche volta sbagliando e in altri casi con la presunzione di avere visto giusto prima degli altri. Come nel caso dell’immobilismo politico imposto ai Cinque Stelle da Grillo&Casaleggio che senza una pronta sterzata rischia di assicurare all’unica opposizione credibile un grande avvenire dietro le spalle. Ricordate? Mentre le ovazioni si sprecavano, subito denunciammo in solitudine il pasticcio della rielezione di Giorgio Napolitano. Che, infatti, un anno e mezzo dopo si appresta a scendere dal Colle lasciando un quadro politico ancora più frammentato e ingovernabile. Ma un giornale può servire anche da allarme sociale. È accaduto nei giorni scorsi quando scrivemmo delle migliaia di esseri umani, a Roma, senza un riparo, abbandonati al gelo. Il Comune qualcosa fece, ma non abbastanza per salvare Gregorio, un polacco di quarant’anni che ieri non si è risvegliato. Non abbiamo gridato abbastanza. Nell’anno che viene lo faremo ancora di più. Un sereno 2015 a tutti.

La Stampa 31.12.14
Campania, primarie-caos
Sale la carta Migliore
di Jacopo Iacoboni


Un Vietnam che è sul punto di esplodere, questa è la fotografia del Pd in Campania, alla vigilia della corsa per le elezioni regionali di maggio.
Ieri lo specchio di questo Vietnam è stata la direzione regionale del partito, che ha votato a maggioranza il secondo rinvio delle primarie, indette per il 14 dicembre, poi slittate all’11 gennaio, e ieri al primo febbraio. Il problema ovviamente non è tecnico, è un partito squassato in correnti e sottocorrenti (racconta un dirigente che «per una corrente si arrivano a contare fino a sei sottocorrenti»). In questo quadro Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, è pronto a correre, peraltro con la mannaia di una sentenza in arrivo (guarda caso, attesa il 22 gennaio: col paradosso di un Pd garantista che spera nei giudici per toglierselo di torno), sfidando Andrea Cozzolino, europarlamentare, gran signore delle tessere. Una corsa a dir poco ancien regime, che non entusiasma molti. Cozzolino va dicendo che «se ci sono ragioni tecnico organizzative un rinvio è accettabile, ma altre ipotesi mi sembrerebbero delle forzature al processo democratico». Il problema è che è evidente a tutti che non si tratta di «ragioni tecnico organizzative».
Il dilemma è strategico, prima che locale-campano: può il Pd di Renzi - l’homo novus che ha scalato il partito proprio grazie alle primarie - sancire che, «se non ci sono le condizioni», le primarie non si fanno? Chi decide le condizioni? A Napoli c’era stata un’esperienza stile-Leopolda, la Fonderia: ma la sua candidata possibile, Pina Picierno, è stata subito stoppata dai veti incrociati. E a Roma riprende quota la carta meno compromessa: Gennaro Migliore. A Francesco Nicodemo, il napoletano più vicino a Renzi, non dispiacerebbe: Migliore è estraneo a vent’anni di beghe campane, sostanzialmente è un esterno al Pd, quindi (forse) non avrebbe grossi veti addosso. Raccontano che, secondo l’Underwood renziano, Luca Lotti, su Migliore potrebbe esserci il via libera di Renzi. Anche perché, volente o nolente, sfumato Cantone, nomi salvifici non se ne vedono, e con questi chiari di luna Caldoro rischia persino di rivincere.

Corriere 31.12.14
Se la Capitale vuole far cassa (perfino) sui sampietrini
di Pier Luigi Battista


I romani che maledicono i sampietrini, chi sulle due ruote si spezza la schiena per i sobbalzi, le buche, i dislivelli, chi non può credere che sulle larghe vie di scorrimento, dove passano possenti autobus, e non le bighe dell’antica Roma, a ogni passaggio si scuotono i palazzi e questo sia passivamente accettato dall’autorità cittadina come omaggio a chissà quale tradizione, tutti questi romani dunque dovrebbero fare un monumento al neoassessore ai Lavori pubblici Maurizio Pucci che ha annunciato in un’intervista alla cronaca romana del «Corriere della Sera» di voler smantellare quelle pietre assassine e restaurare un più ragionevole asfalto. I suddetti romani, tuttavia, non possono perdonare il neoassessore per aver dato l’immagine di una città che mendica qualche spicciolo per tentare di arginare un debito immenso. Infatti Pucci, in quell’intervista, ha detto che esisterebbe un fiorente mercato di sampietrini (o un «cambio merce», come si è affrettato a precisare: «Noi non vogliamo soldi, vogliamo opere, opere che noi scegliamo») che potrebbe rimpinguare di qualche centesimo le avvilite casse romane. Perché no, dal punto di vista teorico. Se c’è qualche forsennato che si vuole comprare un pacco di sampietrini, sia pure il benvenuto. E i romani, grati per la liberazione da quei quadratini assassini sulle strade precariamente percorse, potrebbero pure partecipare a una colletta per dare una mano a chi sta affogando nel tragico sbilancio capitolino. Ma ecco, la Città eterna dovrebbe mantenere, per dire, una certa dignità, anche nella disgrazia. Festeggi la liberazione dal micidiale sampietrino, finalmente confinato dove deve stare nelle viuzze strette e nelle piazze chiuse, e senza che il sindaco Marino riesca a rifilarlo, come da sventurato annuncio, alle sfortunate periferie già gravate da mille problemi. Asfalto liscio, finalmente. E i sampietrini, nei magazzini dei musei. Gratis.

Repubblica 31.12.14
“Sampietrini in vendita” l’ultima battaglia che divide Roma
Bufera sulla proposta di sostituirli con l’asfalto a Piazza Venezia e usarli per fare cassa e pagare la manutenzione stradale. “È un’offesa alla città”
di Paolo Boccacci


ROMA Prima ha sparato alto. «Venderemo i sampietrini di piazza Venezia per fare cassa» ha dichiarato il nuovo assessore ai Lavori Pubblici della giunta Marino, Maurizio Pucci «c’è un grande mercato nazionale e internazionale, e così ci rifaremo per le spese del nuovo asfalto fonoassorbente che stenderemo dal Vittoriano al Corso». Poi ha corretto il tiro, ma di poco: «Non si tratta di vendere i sampietrini, si tratta di fare uno scambio con il rifacimento delle strade. Che verrà ripagato in parte con i sampietrini, e in parte con ulteriori interventi fuori dalle Mura Aureliane. Noi non vogliamo soldi, noi vogliamo opere, opere che noi scegliamo. Faremo una specie di gara d’appalto a rialzo». E quanto si può ricavare da un sampietrino? E Pucci: «Un metro quadrato con la posa in opera costa oltre 200 euro, fare un metro quadrato di strada con l’asfalto fonoassorbente viene meno della metà».
Ma intanto la rituale “guerra del sampietrino” è già scoppiata. A dare fuoco alle polveri è subito Sgarbi, che tuona: «È una follia, un’offesa alla città. I sampietrini rappresentano la pavimentazione caratteristica di Roma. Inoltre non mi pare che siano pietre preziose e che quindi consentano di fare profitti o di venderle. Temo che l’assessore abbia avuto un colpo di sole in pieno inverno, speriamo che Marino ne metta un altro».
Lapidario l’archistar Massimiliano Fuksas: «Mi sento male solo all’idea che i sampietrini spariscano, che vengano venduti. Ho convissuto con loro per una vita. Non so da dove venga il dottor Pucci, ma la sua idea provoca un malessere spaventoso. E Gasparri su Twitter arriva all’aggressione fisica: «Non amo i sampietrini, ma l’idea di venderli è così deficiente che meriteresti che te li tirassero in fronte», dice al sindaco di Roma.
Ribatte Ignazio Marino: «Ma noi li toglieremo in parte dal Centro per metterli nelle aree pedonali in periferia». Però non calma gli animi. E il capogruppo di “Noi con Salvini” nel primo municipio, minaccia: «Sono pronto a sdraiarmi in strada per impedire la rimozione. La impedirò fisicamente».
Parla anche Nicodemo Linguido, il titolare della Cava Basalto Laghetto, l’ultima a fornire sampietrini. «Tutte le cave di basalto hanno chiuso, ormai li importiamo dal Vietnam e dalla Cina in caso di ordinazioni. Ci sono i “cubetti”, 12 centimetri per 12 e i tradizionali “spilloni” alti anche 18 centimetri. L’importante è come si mettono sulle strade».
Contro Pucci l’associazione del selciaroli romani. «Invece di rimuovere i sampietrini» afferma Ilaria Giacobbi, nipote di uno degli storici esponenti della categoria «bisognerebbe valorizzare il lavoro del posatore, che è un nostro patrimonio».
Ma c’è anche chi si rivolge in procura. Come il consigliere regionale Sartori, che paragona i sampietrini ai «monoliti di Stonehenge e minaccia un esposto: «Dove sono finiti quelli di piazza Vittorio?». Chissà. Intanto i privati si cominciano a muovere: una catena di librerie li vende, numerati, a 40 l’euro l’uno. Come ricordi di Roma.

Repubblica 31.12.14
Colosseo, via libera degli esperti alla ricostruzione dell’arena
L’Anfiteatro Flavio recupererà lo spazio dove si tenevano i giochi gladiatori
Via dei Fori imperiali sarà resa accessibile solo a mezzi pubblici e pedoni
di Francesco Erbani


ROMA . Torna l’arena dentro il Colosseo e via dei Fori imperiali non andrà smantellata, ma resa accessibile solo ai mezzi pubblici e ai pedoni. Sono i punti salienti della relazione che chiude i lavori della commissione incaricata dal ministero dei Beni culturali e dal Comune di Roma di studiare il nuovo assetto dell’area archeologica centrale della capitale. Che, spiega il presidente della commissione Giuliano Volpe: «Non sarà un parco archeologico inteso in senso tradizionale e dunque chiuso, recintato, che esclude, ma uno spazio vitale aperto ai cittadini e ai visitatori».
L’Anfiteatro Flavio dunque recupera tutto lo spazio centrale, quello dove un tempo si svolgevano i giochi gladiatori. Spazio che servirà ad ampliare la superficie visitabile (questione non secondaria per un monumento frequentato da ventimila persone ogni giorno). E che potrebbe essere usato per «iniziative culturali compatibili con la corretta conservazione del monumento, si legge nella relaziosensi. Ma quali iniziative? La commissione non lo dice. Ma su questo è categorico Adriano La Regina, ex soprintendente di Roma e membro della commissione: «Se il Colosseo dovesse finire co- me il Circo Massimo mi sembrerebbe una soluzione assai sciatta. L’ipotesi della copertura era stata avanzata da Daniele Manacorda, professore a Roma Tre. E aveva ricevuto consensi e disne. La Regina, non contrario in linea di principio, sottolinea però le difficoltà: occorrerà misurare le condizioni climatiche della zona sotto l’arena, per evitare umidità e muffe che danneggerebbero quelle strutture una volta coperte.
Sempre per il Colosseo la commissione propone un accorpamento di tutti i servizi e di un museo dei Fori in uno spazio annesso alla stazione della Metro C e dunque sotterraneo. Sull’assetto complessivo dell’area archeologica, che si vuole unitaria, comprendente dunque i Fori imperiali e il Foro romano, il Colle Oppio, il Palatino, il Circo Massimo e il Colosseo, la commissione conserva una posizione prudente. O deludente, secondo i sostenitori del Progetto Fori, avanzato alla fine degli anni Settanta e consistente nello smantellamento della via dei Fori imperiali. La via dei Fori imperiali, costruita durante il fascismo, resterà, dice la commissione, anche se adibita solo ai mezzi pubblici, preferibilmente autobus elettrici, e ai pedoni. In dissenso Adriano La Regina, che fu uno dei patrocinatori del Progetto Fori. Un’ipotesi molto simile a quest’ultimo è stata avanzata anche dall’assessore comunale alla Trasformazione urbana di Roma, Giovanni Caudo. La commissione prende in considerazione invece l’idea di un ponte pedonale e carrabile, ma temporaneo, dal Foro di Cesare al largo Corrado Ricci.

Corriere 31.12.14
Predatori dell’arte
Dieci anni buttati per una legge che non c’è
di Gian Antonio Stella


I ladri della pala del Guercino rubata a Modena dovrebbero brindare stasera, per sfregio, al nostro Parlamento: se fossero beccati, se la caverebbero con una denuncia. Dieci anni non sono bastati infatti per mettere una toppa alla sciagurata voragine aperta dal codice dei Beni culturali del 2004: niente manette, ai predatori dell’arte.
Sono tanti, dieci anni. In quel 2004 in cui fu approvata la legge voluta da Giuliano Urbani un ignoto Mark Zuckerberg inventava Facebook, Umberto Bossi era colpito da un ictus, Marco Pantani moriva in modo strano in un residence, il Festival di Sanremo era vinto da Marco Masini e a Madrid trionfava Zapatero.
È passato un sacco di tempo, da allora. E a Palazzo Chigi abbiamo visto transitare Berlusconi e poi Prodi e di nuovo Berlusconi e poi ancora Monti e Letta e Renzi…
Eppure quella oscena «svista», chiamiamola così, di prevedere pene così ridicole (massimo tre anni, fosse pure per il furto della Primavera di Botticelli) da escludere le manette e il carcere per i tombaroli che saccheggiano i siti archeologici, i ladri che svaligiano i musei, i delinquenti che animano il traffico mondiale di opere d’arte (il quarto business planetario dopo i traffici di armi, di droga e di prodotti finanziari), non è mai stata cancellata.
Bastavano due righe: «Le pene per i reati previsti dagli articoli… vengono raddoppiate». Due righe. E il nostro Paese, il più colpito dai razziatori («Italia, saccheggio del paradiso dell’arte», titolò El Mundo ) avrebbe potuto almeno mostrare d’aver capito l’urgenza di porre fine a quella sconsiderata indulgenza sfociata in una vera e propria complicità.
Ricordate lo strepitoso monumento funerario dei Gladiatori scoperto nel 2007 a Lucus Feroniae, ridotto in dodici pezzi e sotterrato per poter essere «smaltito» un tronco alla volta all’estero? Arresti impossibili, per la difficoltà di dimostrare che erano stati i tombaroli stessi a danneggiare quel tesoro.
E lo struggente «Sarcofago delle Muse» scoperto nel 2008 a Ostia Antica? Il tombarolo era in possesso di un crick da carrozziere perché voleva separare una statuina dall’altra per venderle più facilmente: niente manette. E il trono di Caligola? Sorpresero i «predatori dell’arte perduta», per citare un libro di Fabio Isman, mentre trasferivano verso nord quella metà inferiore della statua trovata nella villa dell’imperatore a Nemi: solo una denuncia. In attesa, chissà quando, del processo. E via così, di furto in furto. Spiega il dossier «Ecomafia 2014» di Legambiente che nel 2013 sono stati accertati 872 furti di opere, più di 2 ogni giorno, 1.435 le persone denunciate, 41 arresti e 184 sequestri.
A guidare la classifica è il Lazio, seguito dalla Campania, dalla Lombardia e dalla Toscana. Solo in Sicilia, «la criminalità organizzata movimenterebbe in questo settore, secondo le stime dei carabinieri, un volume d’affari di oltre 157 milioni di euro».
Dicono i militari del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, i quali sul web catalogano man mano migliaia di pezzi rubati, che nel 2014 (i dati definitivi sono destinati a crescere) sono stati registrati almeno 600 furti per un totale superiore ai 10 mila pezzi, tra i quali, appunto, quella grande pala d’altare del Guercino, alta tre metri, portata via dalla Chiesa modenese di San Vincenzo. Massimo Rossi, che guida il Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico della Finanza, conferma che anche secondo i loro dati, nonostante tutti gli sforzi (più 27% di beni archeologici recuperati), la situazione resta pesante.
Eppure da anni ogni appello, ogni denuncia, ogni sfogo d’indignazione contro tanta tolleranza verso i ladri non riesce a scuotere il Palazzo.
Ci ha provato da ministro dei Beni culturali Giancarlo Galan, con un decreto abortito con la caduta di Berlusconi. Poi il successore Lorenzo Ornaghi, che fu convinto da qualche anima bella a lasciar fare al Parlamento. E poi ancora Felice Casson, che verso la fine della scorsa legislatura riuscì a portare il progetto di legge in commissione Giustizia.
Era così sensata, quella scelta d’una maggiore durezza, che passò all’unanimità. Tutti d’accordo. Destra e sinistra. Pareva fatta, pareva. Macché: non è mai arrivata in Aula. E si è persa via via in qualche cassetto, da dove nessuno pare volerla tirar fuori…

il Fatto 31.12.14
Traffico di organi, caccia ai bambini
Bangladesh, 15 vittime solo nel 2014
Nessuna indagine è mai stata portata a compimento
di Roberta Zunini


Se non ci fossero le fotografie, verrebbe voglia di non crederci. Tanto è orribile e sconvolgente. Dopo cinque giorni dal suo rapimento, il corpicino senza vita di Harun-ur-Rashid, un bimbo di 6 anni del Bangladesh, è stato ritrovato in una discarica nella zona di Sirajganj, a nord della capitale, Dhaka, senza reni. Si tratta del quindicesimo bambino del villaggio di Tebaria vittima del mercato nero di organi, un’attività fiorente nel Paese, uno dei più poveri dell'Asia.
Dopo che Harun era scomparso, il padre aveva contattato le autorità che nel giro di qualche ora hanno arrestato un uomo. Questo ha detto alla polizia che Harun era stato drogato prima di essere portato sotto un ponte dove tre uomini arrivati da Dhaka lo avevano immediatamente operato e quindi soppresso come un animale in fase terminale. Peccato che Harun stava benissimo, nonostante i suoi genitori siano poveri. Ed è proprio per questo che è stato ucciso. I cosiddetti “intermediari” vanno a caccia di bambini sani nei villaggi più poveri, perché sanno che i genitori non sono in grado di pagare un avvocato che porti avanti il caso in tribunale.
ALTRI 14 BAMBINI sono stati uccisi durante l'anno e anche per questi casi non ci sono accusati. La corruzione delle forze dell'ordine e la totale mancanza di indipendenza della magistratura ne sono le cause principali. “È una situazione molto pericolosa perché i rapitori sanno che non verranno puniti: basta corrompere poliziotti, giudici e sindacati” sottolinea Kulshed Alom, membro di un istituto di ricerca sugli abusi alimentati dalla corruzione, il norvegese U4 anticorruzione. “ L'impunità ha permesso al mercato nero di organi umani di svilupparsi velocemente qui – dice Monir Uzzaman, un professore di antropologia presso la Michigan State University, che ha trascorso gli ultimi 12 anni a fare ricerche sullo sfruttamento dei poveri del Bangladesh -. Se ci fosse una sincera preoccupazione da parte del governo vedremmo qualche azione, ma non abbiamo visto niente. La legge non viene applicata”. Nell'agosto 2011 le rivelazioni circa un racket illegale di espianti e vendita di organi nel distretto Joypurhat, vicino al confine indiano, hanno costretto la polizia a indagare e la procura ha aperto le indagini ma i mediatori arrestati sono stati subito rilasciati in libertà vigilata e sono tornati nelle loro aree a fare quello che già facevano.
Per quanto riguarda la vendita volontaria di organi, punibile per legge, la cosa sconcertante è che le operazioni, che in genere vengono effettuate in India, sono organizzate dai sindacati.

Repubblica 31.12.14
L’agente che ispirò il famoso film: “Colleghi sempre pronti a sparare. E se sei nero è peggio”
La rabbia di Serpico “Polizia violenta così l’America perde la sua anima”


FRANK Serpico, il più famoso simbolo mondiale della lotta alla corruzione nelle forze di polizia, oggi è un vecchietto magro con degli occhiali da sole sportivi e se ne sta seduto in un diner di fronte fiume Hudson, nel nord dello stato di New York.
Fra gli anni ‘60 e i ‘70 Serpico era l’unico poliziotto a denunciare la corruzione sistematica della dipartimento di polizia di New York, e per tutta risposta veniva spostato di quartiere in quartiere: quando uno spacciatore gli sparò al volto in un casermone di Williamsburg, Brooklyn, i colleghi non chiamarono i soccorsi. Non pronunciarono il codice di uomo a terra, quello che invece è risuonato nelle radio della polizia lo scorso 19 dicembre quando Ishmael Brinsley ha fatto fuoco, sempre a Brooklyn, su due poliziotti per vendicare i recenti omicidi di afroamericani da parte delle forze dell’ordine. La solidarietà di corpo, quella che i poliziotti di New York hanno espresso più volte voltando le spalle al sindaco di Bill De Blasio, colpevole di aver criticato la decisione del Grand jury di non incriminare il poliziotto che ha strangolato Eric Garner, per Serpico non ha mai funzionato.
Nemmeno dopo lo scoppio dello scandalo Serpico ha mai ricevuto un’onorificenza. La gloria, Frank l’ha avuta soprattutto grazie al film di Sidney Lumet sulla storia, dove è interpretato da Al Pacino, ma in cambio ha da quarant’anni un frammento di pallottola nel cranio.
«Vedi quanto è bella la natura qui?» dice indicando gli aceri «puoi stare con la mente tranquilla, lucida, che è l’unico modo per riconoscere le menzogne». Questi luoghi Serpico li ha scoperti perché i suoi colleghi poliziotti investivano qui, in proprietà immobiliari, i soldi della corruzione. «Come facevano a riciclare? chiedo «Quale riciclare, compravano e basta, erano poliziotti, nessuno controllava».
Serpico è ancora sulla scena pubblica soprattutto come punto di riferimento nella lotta alla corruzione e alle brutalità della polizia: a intervalli regolari scrive articoli, rilascia lunghe interviste ai giornalisti e s’impegna anche in prima persona nei casi legali, come consulente. Negli anni ‘90 ad esempio ha aiutato Joe Tromboli, un poliziotto degli affari interni del suo vecchio dipartimento a mettere in moto la commissione Mullen. «Per lui ho anche scritto una lettera a Clinton, ‘ o pezz e novanta , ma mi ha risposto che non poteva farci niente. Non ho rispetto per questa gente, o pesce puzz ra capa .
Sul presente della polizia americana Frank ha pochi dubbi: è ancora corrotta, seppur non più in modo sistematico. In compenso è aumentato, e parecchio, il livello di brutalità «Sono violenti e impreparati. Sparano per un nonnulla, tanto sanno che saranno sempre assolti. Io ho informazioni di prima mano sulla polizia americana ma chiunque può vesua dere le decine di video su Internet. Il sistema peggiora e peggiora.
Racconta di Michael Bell, un ragazzo ventunenne del Wisconsin, biondo, occhi azzurri, ucciso durante un controllo di polizia con un colpo in testa mentre era ammanettato, di fronte alla madre. Il giorno dopo doveva testimoniare su un incidente che coinvolgeva il poliziotto che gli ha sparato. Dopo aver provato a contattare il governatore, il procuratore di stato, tutti i maggiori media nazionali e pure Oprah Winfrey, il padre del ragazzo ha chiesto aiuto a Serpico. Grazie ai suoi consigli e sei anni di battaglie è riuscito ad ottenere un risarcimento di 1,75 milioni di dollari. «Anche perché il ragazzo era bianco» annota Frank, poi aggiunge «Il padre, veterano, è sopravvissuto a tre guerre, il figlio non è sopravvissuto all’America. Bell ha usato quei soldi per promuovere una legge che prescrivesse indagini esterne per i casi di cittadini morti durante la custodia delle forze di polizia. «Altrimenti si assolvono da soli. Come sei? Non colpevole. Avanti un altro. Come sei? Non colpevole». Dopo lunghi anni di battaglie la sua proposta è diventata da poco legge di Stato. «È un grande risultato, anche perché ha ottenuto l’appoggio di molti sindacati di polizia. Una cosa incredibile».
Un altro episodio di brutalità che sta molto a cuore a Frank è quello di Eric Garner, l’afroamericano strangolato a morte in agosto, in pieno giorno, da un poliziotto, nonostante avesse provato a dire per ben tre volte che non riusciva a respirare. Il video, eloquente più di mille parole, è finito in mondovisione grazie a YouTube. «Se sei nero è sempre peggio in America. Prendi il film con la mia storia, il rapinatore che inseguo prima di finire in un conflitto a fuoco con dei colleghi è nero, nella realtà era bianco. Come la polizia anche Hollywood è razzista».
Il problema per Serpico è che gli Stati Uniti sono un Paese consacrato alla violenza. «La più grande industria è quella della guerra qui. Siamo un popolo spiritualmente in bancarotta». Aveva votato per Obama, ma ne è rimasto a dir poco deluso «Per non parlare — aggiunge — della lotta a coloro che rivelano informazioni riservate. Per aver raccontato la verità sono dovuti andare a nascondersi dalla democrazia. Bella democrazia. Snowden, Manning, Assange, sono degli eroi».
Sul futuro dell’umanità Serpico non è ottimista. «Al giorno d’oggi le persone credono di essere intelligenti se hanno una laurea o fanno soldi, ma la vera saggezza è quella del contadino. La vita è semplice. Non può esserci piacere se non c’è anche sofferenza ma le persone oggi non lo capiscono: la speranza è diventata una cosa personale. Ognuno di noi deve cercare la propria via per l’onestà» conclude, poi saluta e si dirige a suonare il suo flauto giapponese in riva all’Hudson, che, quassù, è ancora cristallino. L’autore, che usa lo pseudonimo di Quit, è giornalista, blogger e scrittore. Nel 2-013 ha vinto il Mia award per il miglior articolo del web. Il suo sito è www.quitthedoner.com

Repubblica 31.12.14
Il miraggio della libertà ma per Cuba resta lunga la strada della democrazia
di Mario Vargas Llosa


Un regime comunista che rinuncia al comunismo rappresenterebbe un caso unico nella storia
La caduta dell’Urss fu il risultato del fallimento dello statalismo e del collettivismo
Il castrismo ha perso completamente la forza ideologica che aveva all’inizio. Ora tutto questo si è trasformato in mera retorica, una propaganda in cui probabilmente non credono nemmeno i dirigenti della rivoluzione

Lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa. Nel 2010 è stato insignito del Nobel per la letteratura. È naturalizzato spagnolo

LA RIPRESA delle relazioni diplomatiche tra Cuba e gli Stati Uniti dopo più di mezzo secolo, e la possibilità di una rimozione dell’embargo sono stati accolti con favore in Europa e negli Usa. E proprio negli Usa i sondaggi indicano che la maggioranza della popolazione approva questi sviluppi, nonostante l’opposizione dei Repubblicani. Gli espatriati cubani sono divisi: mentre tra le vecchie generazioni prevale la contrarietà, i più giovani vedono in questa misura una pacificazione da cui potrebbe derivare una maggiore apertura del regime, forse perfino una democratizzazione. In ogni caso, tutti concordano, come ha detto il presidente Obama, che «l’embargo è stato un fallimento».
La lettura ottimista di questo accordo presuppone la rimozione dell’embargo, ipotesi ancora incerta perché una decisione del genere è legata all’approvazione del Congresso, controllato dai repubblicani. Ma se le autorità statunitensi togliessero l’embargo, sostiene la tesi, l’aumento dell’interscambio turistico e commerciale, l’investimento di capitali statunitensi sull’isola e lo sviluppo economico che ne conseguirebbe renderebbero sempre più flessibile il regime castrista, spingendolo a fare concessioni maggiori nel campo della libertà economica, e questo, presto o tardi, produrrebbe un’apertura politica e la democrazia. Un indizio di un promettente futuro sarebbe la liberazione di 53 prigionieri politici cubani avvenuta in concomitanza con l’annuncio della buona novella da parte di Raúl Castro.
Avendo assistito negli ultimi decenni a fenomeni sociali e politici di ogni genere e di enorme portata, nulla sembra più impossibile e tutto quello che abbiamo descritto sopra potrebbe accadere. Sarebbe un caso unico nella storia di un regime comunista che rinuncia al comunismo e sceglie la democrazia grazie allo sviluppo economico e al miglioramento del livello di vita dei suoi cittadini prodotto dall’applicazione di politiche di mercato. La spettacolare crescita economica della Cina non ha portato con sé la deliquescenza del totalitarismo politico: al contrario, come hanno appena sperimentato sulla loro pelle gli studenti di Hong Kong, lo ha rafforzato. Lo stesso si potrebbe dire del Vietnam, dove l’adozione di questo anomalo modello – il capitalismo comunista – oltre a stimolare una prosperità indiscutibile non ha intaccato la durezza del regime a partito unico e la persecuzione di qualsiasi forma di dissidenza. La caduta dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti centroeuropei non fu merito del progresso economico: fu il fallimento dello statalismo e del collettivismo che condusse quelle società alla rovina e al caos. Cuba rappresenterà l’eccezione alla regola, come spera la maggioranza dei cubani, e fra loro molti critici e oppositori del regime castrista? C’è da augurarselo, senza dubbio, ma non è il caso di credere ingenuamente che un esito del genere sia scritto nel destino e sarà inevitabile e automatico.
Le dittature non cadono mai per effetto dell’abbondanza economica, ma per la loro incapacità di soddisfare le necessità più elementari della popolazione, e perché quest’ultima, a un certo punto, si mobilita contro l’asfissia politica e la povertà, smette di credere nelle istituzioni e perde le illusioni su cui si reggeva il regime. Il mezzo secolo e spiccioli di dittatura che affligge Cuba ha visto oppositori eroici nella loro disponibilità ad affrontare il carcere, la tortura o la morte, ma la verità – o perché l’efficacia della repressione lo impediva o perché le riforme introdotte dalla rivoluzione nel campo dell’istruzione, della medicina e del lavoro avevano portato miglioramenti reali nelle condizioni di vita dei più poveri e assopito il loro desiderio di libertà – è che il regime castrista in questo mezzo secolo non ha dovuto fronteggiare un’opposizione di massa, ma solo una flessione moderata del consenso quasi generalizzato su cui pote- va contare inizialmente, e questo con l’impoverimento progressivo e la chiusura politica si è trasformato in rassegnazione e nel sogno di una fuga verso le coste della Florida. Non c'è da stupirsi se per quelli che avevano perduto la speranza, l’apertura di relazioni diplomatiche e commerciali con gli Stati Uniti con la prospettiva di milioni di turisti pronti a spendere i loro dollari sull’isola, con imprenditori e commercianti decisi a investire e creare occupazione, sia stata esaltante, l’illusione di una nuova alba.
Raúl Castro, più pragmatico di suo fratello, sembra aver capito che Cuba non può continuare a vivere delle elargizioni petrolifere del Venezuela, seriamente a rischio ora che il prezzo del greggio è colato a picco e il governo di Maduro è in preda al caos. E ha capito che l’unica possibilità di sopravvivenza del suo regime nel lungo periodo è raggiungere una certa distensione e un accordo con gli Stati Uniti. Questa distensione è stata avviata. Il proposito del Governo cubano è senza dubbio – seguendo il modello cinese o vietnamita – di aprire l’economia (o quanto meno una parte) al mercato e all’impresa privata, per consentire un innalzamento del tenore di vita, la creazione di posti di lavoro, lo sviluppo del turismo: il tutto conservando il monolitismo politico e il pugno duro verso coloro che alimentano le aspirazioni democratiche. Può funzionare? Nel breve termine sì, senza alcun dubbio, a patto che l’embargo venga tolto davvero.
Sul medio e lungo termine tutto questo non è così scontato. L’apertura economica e gli interscambi crescenti contamineranno l’isola con l’informazione e i modelli culturali e istituzionali delle società aperte, che contrastano in modo eclatante con quelli che il comunismo impone all’isola, e questo, prima o poi, incoraggerà l’opposizione interna. E a differenza della Cina o del Vietnam, che sono molto lontani, Cuba si trova nel cuore dell’Occidente e circondata da Paesi che – chi più chi meno – condividono la cultura della libertà. È inevitabile che la libertà finisca per infiltrarsi, soprattutto negli strati più illuminati della società. Cuba riuscirà a resistere a questa pressione democratica e libertaria come riescono a resistere la Cina e il Vietnam?
Io spero di no, spero che il castrismo abbia perduto completamente la forza ideologica che ha avuto al principio e che in tutti questi anni si è trasformata in mera retorica, una propaganda in cui probabilmente non credono nemmeno i dirigenti della rivoluzione. La scomparsa dei fratelli Castro e dei veterani della rivoluzione, che gestiscono ancora il potere nel Paese, e l’ascesa ai posti di comando delle nuove generazioni, meno ideologiche e più pragmatiche, potrebbe facilitare quella transizione pacifica che prefigurano coloro che celebrano con entusiasmo la fine dell’embargo.
Ci sono motivi per condividere questo entusiasmo? Sul lungo termine forse sì, ma sul breve termine no. Infatti, nell’immediato chi trae più profitto dal nuovo stato di cose è il governo cubano: gli Stati Uniti riconoscono d’aver sbagliato cercando di piegare Cuba attraverso una quarantena economica ( el bloqueo criminal ), e ora contribuiranno con i loro turisti, i loro dollari e le loro imprese a risollevare l’economia dell’isola, ridurre la povertà, creare posti di lavoro: in altre parole, aiuteranno a puntellare il regime castrista. Se Obama visiterà Cuba, sarà ricevuto con tutti gli onori, sia dagli oppositori che dal governo.
Niente di buono per la democrazia e la libertà. Ma la verità è che democrazia e libertà non erano un’opzione realistica in questo momento della storia cubana. La scelta era tra lasciare che Cuba continuasse a impoverirsi e che i cubani rimanessero immersi nell’oscurantismo, nell’isolamento informativo e nell’incertezza; oppure, grazie a questo accordo con gli Stati Uniti e sempre a patto che l’embargo venga effettivamente tolto, alleggerire il futuro immediato della popolazione, consentire ai cubani di godere di migliori opportunità economiche, aprire loro vie di comunicazione più ampie con il resto del mondo; e se si comportano bene e non si abbandonano, per esempio, agli eccessi degli studenti di Hong Kong, potranno godere perfino di una certa apertura politica. Pur se, a malincuore, sceglierei anch’io questa seconda opzione.
Epoca confusa è la nostra, in cui avvengono cose che ci fanno rimpiangere quegli anni tesi della Guerra fredda dove almeno era molto facile scegliere, perché si trattava di decidere «fra la libertà e la paura» (per citare il libro di Germán Arciniegas). Ora la scelta è molto più azzardata, perché bisogna decidere tra il meno cattivo e il meno buono, e i confini non sono affatto chiari, ma elusivi e volubili. Riassumendo: mi rallegra il fatto che l’accordo tra Obama e Raúl Castro possa rendere la vita dei cubani più respirabile e regalare loro maggiori speranze, ma mi rattrista pensare che questo potrebbe allontanare di un buon numero di anni il ritorno della libertà nell’isola.
(Ediciones EL PAÍS, SL, 2-014 © Mario Vargas Llosa, 2014 La Repubblica traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 31.12.14
L’abisso della disuguaglianza
di Mariana Mazzuccato


LA CRISI finanziaria globale che è cominciata nel 2008 e i cui strascichi si fanno ancora sentire pesantemente, è stata provocata da due fattori. Il primo è l’aumento della disuguaglianza, specialmente negli Usa, che ha costretto le persone a indebitarsi fortemente.
IL secondo fattore è stata la presenza di un settore finanziario deregolamentato, che negli ultimi decenni è cresciuto a ritmi ben maggiori della produzione industriale perché la finanza, per speculare, prestava a se stessa invece che all’industria. Le politiche per il dopo-crisi dovrebbero quindi puntare prioritariamente a ridurre la disuguaglianza e indurre la finanza a coltivare e prestare soldi all’economia reale. Eppure oggi stiamo fallendo miserevolmente su entrambi i fronti.
La disuguaglianza è in aumento. E se le cifre scoraggianti relative agli Stati Uniti sono ben note, l’Italia, per molti aspetti, sta andando peggio del resto dell’Ocse su questo versante. I dati Eurostat mostrano che il 10 per cento più ricco della popolazione italiana guadagna tre volte di più del restante 90 per cento, e mentre nel resto dei Paesi dell’Ocse il reddito dell’1 per cento più povero in percentuale del totale è cresciuto (dall’1,8 al 2,6 per cento), in Italia continua a regredire. Inoltre, anche se fa comodo fingere che tutte le imprese se la passino male, la realtà è che la quota dei profitti sul totale del reddito a livello mondiale è a livelli record; e l’Italia da questo punto di vista è ai primi posti in Europa, con il 45 per cento rispetto a una media Ue del 40. E come dimostra Mario Pianta nel suo libro Nove su Dieci, tutto questo mentre i salari medi per lavoratore italiano sono diminuiti di oltre lo 0,1% in media l’anno per due decenni.
Ma per ridurre la disuguaglianza non basta considerare solo l’efficacia della tassazione redistributiva o elargizioni come il bonus degli 80 euro. È essenziale affrontare anche i problemi più intrinseci di governance aziendale che hanno consentito ai profitti di salire a livelli record, distanziando i salari. È proprio questo punto che ci porta al secondo problema. L’idea che la finanza grande e cattiva debba in qualche modo essere addomesticata per poter far pendere nuovamente la bilancia dal lato della buona vecchia industria non tiene conto di quanto sia diventata malata l’economia reale. L’industria stessa si è finanziarizzata, concentrandosi esageratamente sull’accumulo di liquidità (a livelli record) e/o spendendo per misure, come gli stock buy back, che rafforzano sul breve termine il titolo azionario (e di conseguenza le stock option e le retribuzioni dei top manager), invece di puntare su quelle tipologie di spesa che garantiscono una crescita nel lungo periodo, come gli investimenti in ricerca e sviluppo e in formazione del capitale umano.
È urgente quindi che la politica industriale, che finalmente sta tornando in voga, non si limiti a sostenere certi settori, come l’informatica o le bioscienze, ma chieda alle aziende che operano in questi e in altri settori di partecipare alla riforma necessaria. Invece stiamo assistendo all’esatto contrario: governi che si fanno in quattro per accondiscendere senza fiatare alle richieste delle grandi imprese “per favorire la crescita” e un attacco generalizzato contro i diritti dei lavoratori. Un esempio di quest’ultima tendenza è il modo in cui il governo italiano continua a sostenere che l’impedimento alla crescita in Italia risiede nel livello delle retribuzioni dei lavoratori e che la soluzione stia quindi nel fare di tutto per ridurre il costo del lavoro (la recente riforma Renzi). La realtà è che l’aumento del costo unitario del lavoro è il risultato di un calo della produttività dovuto alla diminuzione degli investimenti privati (e pubblici) in tutte le aree suscettibili di incrementare il capitale umano e l’innovazione.
Un esempio della prima tendenza (il governo ostaggio delle richieste delle imprese) è l’introduzione (purtroppo meno dibattuta) della patent box in Italia per opera del governo Renzi (nel 2013 era stata introdotta nel Regno Unito dal cancelliere dello Scacchiere Osborne). Questa politica, che riduce enormemente la tassazione sul reddito derivante da brevetti, ottiene il risultato di accrescere ancora di più i profitti delle imprese, ma fa poco o nulla per incrementare gli investimenti in innovazione del settore privato (lo scopo dichiarato della misura). I brevetti sono già dei monopoli: i governi non devono intervenire sul reddito che generano (protetto per vent’anni!) ma sulla ricerca che a quei brevetti conduce, specialmente in un Paese come l’Italia, che è fra quelli in cui le imprese spendono meno per ricerca e sviluppo. Invece questa misura ottiene come unico effetto di ridurre gli introiti dello Stato, costringendolo a tagliare su altri fronti per rimanere in linea con gli obbiettivi (dannosi) sul deficit.
Un altro esempio è quell’altra parte della riforma del lavoro di Renzi che riduce le tasse per fondi di private equity, crowdfinancing e fondi di venture capital, come se fossero questi i segreti per finanziare l’innovazione. La verità è che quello che serve alle piccole imprese innovative e in forte crescita sono finanziamenti pazienti, a lungo termine, non il modello sempre più speculativo del venture capital, che punta solo sulla “uscita” (in 3 anni) dall’investimento attraverso un buyout o Opa. Inoltre, la visione errata dei fattori che trainano la crescita ha spinto a portare la durata necessaria per ottenere riduzioni delle aliquote sulle plusvalenze per gli investimenti di private equity da dieci a due anni, incoraggiando molti di questi fondi a focalizzarsi sui rendimenti a breve termine. Cosa bisognerebbe fare nel 2015? La riforma del settore finanziario, mirata a ricongiungere finanza ed economia reale, dovrà innanzitutto studiare in modo critico i fatti concreti dell’economia reale, e non i miti. I periodi più lunghi di crescita stabile nella maggior parte delle economie si hanno quando le aziende medie e grandi investono i loro profitti nella ricerca di nuovi prodotti e nuovi modi di produrre. Quello di cui c’è bisogno oggi è una finanza impegnata nel lungo termine che aiuti questo processo, sotto forma di banche pubbliche (come la KfW in Germania) o agenzie pubbliche strategiche (come Darpa in Usa o Sitra in Finlandia), e una politica fiscale che favorisca l’approccio a lungo termine, invece di continui tagli delle tasse a beneficio degli speculatori. Solo in questo modo il settore privato troverà il coraggio ed il supporto per investire in innovazione.
Assieme ad una politica fiscale progressiva e non regressiva, è fondamentale anche costruire istituzioni in grado di continuare a negoziare condizioni migliori per i lavoratori, in un periodo in cui i profitti continuano a crescere in rapporto ai salari. I sindacati non sono il problema, sono la risposta: e ovviamente devono diventare il soggetto che più si batte per una crescita trainata dall’innovazione e investimenti invece che per il mantenimento dello status quo.
Finché non metteremo insieme politiche per l’innovazione, riforma del settore finanziario e rafforzamento delle istituzioni in grado di lottare per conto dei lavoratori (la quota del salario del reddito complessivo), continueremo a essere ossessionati dalla necessità di “correggere il settore finanziario”, lasciando l’economia reale malata come prima: più disuguaglianza, tante imprese piccole e deboli e una manciata di imprese grandi e finanziarizzate, che chiedono sempre di più e danno sempre di meno. La ricetta perfetta per il prossimo casinò finanziario e il prossimo crac.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere 31.12.14
Colloquio con Carlo Rovelli
Lo scienziato a caccia della Verità «Si cerca attraverso l’ignoranza»
Ho passato la vita a studiare la gravità quantistica temendo che non sarebbe mai servita a nulla
Poi arriva questo film, Interstellar, dove la gravità quantistica salva il mondo. Fantastico
di Paolo Giordano


All’università, il poderoso volume di Carlo Rovelli sulla «gravità quantistica» circolava surrettiziamente fra gli studenti di fisica teorica, quasi si trattasse di un testo eversivo. Non vi era alcun corso, neppure fra quelli specialistici, che affrontasse la fisica moderna dalla sua prospettiva, perciò il nome di Rovelli suonava alle nostre orecchie come quello di un eremita, isolato chissà dove fra le sue idee troppo audaci.
In realtà, non era così lontano: si trovava appena al di là dell’arco alpino, a Marsiglia (dove lavorava già presso il Centre de Physique Théorique), e si sarebbe presto fatto conoscere fuori dalla cerchia ristretta della fisica teorica, grazie agli articoli sui quotidiani e a saggi come La realtà non è come ci appare (Raffaello Cortina) o Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi). Per il suo dono, assai raro, di attraversare indenne la selva oscura della complessità e di uscirne con un racconto semplice, adatto ai più, Rovelli è destinato ad aggiungersi ai pochi punti di riferimento italiani nella comunicazione scientifica. Quando, a luglio, gli consegnai il premio Merck Serono — premio che illumina talenti nel corridoio stretto fra scienza e lettere — ebbi l’impressione che avesse chiara la sua missione in questo senso, che ci fosse, nascosta in lui, una ferita aperta fra la fisica più estrema e il sapere inteso come corpo unico, una ferita che con quel premio, simbolicamente, si rimarginava.
C’è in tutto ciò che scrivi, mi pare, questa ambizione sottostante a voler ricomporre la frammentazione del sapere. Torni spesso a Lucrezio, e ai greci, che potevano ancora permettersi una visione unitaria della conoscenza. Scegli Anassimandro come modello di scienziato. Abbiamo perso qualcosa di importante?
«Abbiamo trovato, più che perso. Abbiamo aggiunto informazioni sulla natura, la musica di Schubert, i pensieri di Kant e Wittgenstein, una letteratura splendida. Non abbiamo perso l’unità del sapere, perché non c’è contraddizione fra le tante facce della cultura contemporanea».
Eppure, il nostro sistema universitario costringe a compiere una scelta drastica fra scienza e cultura umanistica a diciannove anni quando, forse, non si è ancora davvero coscienti delle proprie inclinazioni. Ricordi com’eri all’epoca di quella biforcazione e che cosa ti spinse infine verso la fisica?
«Lo ricordo bene. Un misto di domande sgangherate e confuse, come si hanno a quell’età. Le stesse domande che hanno guidato i miei pensieri nel resto della vita. Credo che si dovrebbe scegliere un mestiere, non quale cultura apprendere. La cultura è una, sfaccettata, inesauribile: è l’insieme degli strumenti che l’umanità ha elaborato per pensare e comprendere il mondo».
Sceglieresti gli stessi studi oggi, o credi che si siano aperti nuovi fronti più eccitanti, come quello delle neuroscienze?
«Leggo tutto ciò che posso sulle neuroscienze, sulle discipline che studiano la coscienza. Stiamo capendo cose nuove e importanti. Ma la bellezza della fisica resta per me ineguagliata. Forse proprio perché ci costringe a smettere di pensare a noi stessi, ci costringe a uscire dalla nostra melma, aprire la finestra, guardare fuori e contemplare la bellezza rarefatta del mondo».
Mi torna alla mente un libro di Saint-Exupéry, «Terra degli uomini», del quale ho scritto pochi giorni fa su queste stesse pagine. Parla di traversate aeree, ma soprattutto di quanto importante sia la «gravità» degli affetti, delle relazioni, ciò che ci dona peso come esseri umani e ci tiene incollati al suolo. Come fisico teorico sentivo spesso venire meno questa forma di gravità, mi sembrava di fluttuare per troppe ore al giorno in uno spazio interstellare, disabitato, e ne avevo paura.
«Io penso che la gravità degli affetti, di ciò che ci rende umani, non venga da un altrove rispetto alla Natura. La Natura è complessa, iridescente, bellissima: costruisce archi di galassie, esplosioni di buchi neri, onde di probabilità, il cielo stellato, il profumo delle viole, i sorrisi della mia ragazza. La fisica non mi fa sentire estraneo al mondo, mi fa sentire profondamente parte del mondo. È come l’alta montagna: uno spazio nudo, spopolato, essenziale. Ma dove ci si sente più a casa nel mondo che lassù?
A proposito di vagare fra gli astri, hai visto Interstellar?
«Ho passato la vita a studiare la gravità quantistica, temendo che non sarebbe mai servita a niente. Poi arriva questo film dove la gravità quantistica salva il mondo. Fantastico. Tra una baggianata e l’altra, il film riesce perfino a spiegare correttamente la differenza di velocità a cui può scorrere il tempo».
La gravità quantistica mi è sempre apparsa come una sorta di «controcultura» della fisica teorica. Il mainstream sono le stringhe, mentre tu hai scelto e difeso un’altra strada per tutta la vita.
«Ogni cultura nasce come controcultura: dal cristianesimo a Mazzini, dagli impressionisti alla gravità quantistica. Le stringhe erano dominanti anni fa, oggi meno. Soprattutto, dopo la mancata scoperta delle particelle supersimmetriche al Cern (la cui esistenza è fondamentale per la coerenza della teoria delle stringhe, ndr ), sono rimasti in pochi a essere sicuri quanto lo erano prima».
La gravità quantistica in una riga?
«Lo spazio vuoto è fatto di granelli indivisibili».
Nel mondo, e anche in Italia, c’è una fame non saziata di conoscenze scientifiche da parte del grande pubblico. Ma i modi di raccontare la scienza sono più o meno sempre gli stessi, non sembrano evolversi alla velocità di altre forme di narrazione.
«A me sembra che siano i romanzi moderni a essere ripetitivi (forse è per questo che, come ultimo romanzo letto e amato, mi cita il Genji Monogatari , datato 1021, ndr ). La divulgazione è invece cambiata moltissimo: il teatro che parla di scienza, i romanzi scientifici, le sperimentazioni su YouTube e sui blog, le iniziative per i bambini. E poi restano i grandi libri di idee, quelli di Hawking, Penrose, Smolin».
E la televisione?
«Ci sarebbe anche la televisione, se la smettesse di fare programmi profondamente antieducativi, come Voyager e simili. In altri Paesi — Inghilterra, Germania, Stati Uniti — ci sono splendide trasmissioni televisive sulla scienza. Piacerebbero anche in Italia».
Al termine di «Sette brevi lezioni» parli di «diffidenza per la scienza di una parte della cultura contemporanea». In Italia è più accentuata che altrove?
«È certamente più accentuata che altrove, sia rispetto ai Paesi ricchi sia rispetto ai Paesi emergenti. Per molti motivi: i residui crociani nella nostra scuola, l’impazzare di Heidegger nei dipartimenti di filosofia, ma soprattutto lo strapotere della Chiesa. Come dice il Vangelo di Matteo, nessuno può servire a due padroni: o la Verità è rivelata, oppure la cerchiamo attraverso la nostra ignoranza, con la limitatezza della nostra ragione».
Lo sai che agli scienziati, ai fisici in particolare, non viene mai risparmiata una domanda sull’esistenza di Dio...
«Sono convintamente ateo. Serenamente ateo».
Lavori fuori dall’Italia da più di vent’anni: Yale, Pittsburgh, Marsiglia. Lasciare il Paese oppure restare è diventato un leit-motiv un po’ irritante, e il modo in cui le generazioni più vecchie guardano alle più giovani e alla loro necessità di andare all’estero sembra solo l’ennesimo atto di commiserazione. Com’è stata la tua vita di nomade?
«Andare in giro per il mondo è bello. Peccato, però, che dall’Italia escano le menti più preziose. Ma arrivano in barca dei giovani dall’Africa: fra loro ce ne sono di sicuro di brillanti, per rimpiazzarle».
Tu che dichiari che «il tempo non esiste», come te la cavi con i passaggi di anno?
«Li vivo come tutti, sentendo il tempo che scivola fra le dita, amando per questo la vita ancora di più: proprio perché breve, è così preziosa».
E nella notte del passaggio?
«Sarò in una casuccia isolata, nel mezzo della natura, insieme alla persona che amo».

Corriere 31.12.14
Satana, strumento dell’ Onnipotente per misurare la virtù di Giobbe
Nel racconto biblico demone e divinità «alleati» per saggiare la fedeltà dell’uomo
di Pietro Citati


Giobbe è, probabilmente, il testo più difficile e arduo dell’Antico Testamento. «Spiegare Giobbe — diceva san Gerolamo — è come cercare di tenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena: più forte la si prende, più velocemente sfugge di mano». Non è un caso che il testo sia così arduo: l’esperienza di Giobbe non è astratta o teologica, ma profondamente e drammaticamente religiosa; è un conoscere Dio momento per momento, via via che si esprime e si contraddice, si muove, scivola via tra le mani, e mentre noi stessi ci muoviamo e ci contraddiciamo nei suoi confronti.
Come il Faust di Goethe, il Libro di Giobbe si svolge in due luoghi: il cielo e la terra. Nel cielo Dio è doppio o quasi doppio: vi è il vero Dio, che dice sono colui che sono, e i figli di Dio: una coorte di angeli, tra i quali l’«avversario», il «satana», che non è affatto il nemico di Dio, come il diavolo cristiano, ma colui che ha la funzione di difendere i diritti divini, osservando e spiando la condotta dei fedeli.
Il «satana» ha appena compiuto un giro di ispezione sulla terra, perché Dio non possiede l’assoluta conoscenza visiva di ciò che vi accade: egli è l’occhio, l’esperienza del Signore. Dio gli dice che un uomo, Giobbe, è «una persona perfetta e retta, fedele a Dio e nemico del male». Il «satana» non mette né potrebbe mai mettere in dubbio la parola del Signore: ma aggiunge che Giobbe è buono perché Egli lo protegge, con una moltitudine di benefici. Non c’è nessuna prova — l’«avversario» aggiunge — che Giobbe ami Dio con un amore puro, assoluto, che non dipende dalla protezione. Allora il «satana» vuole «indurre in tentazione» Giobbe, come dice il Padre nostro . Il Signore acconsente.
Le prove si susseguono: le greggi, i guardiani, e i figli vengono massacrati, e i beni distrutti. Giobbe dà segno di un estremo dolore, e dice: «nudo dal grembo di mia madre sono uscito, nudo adesso ritorno. Dio ha dato, Dio ha strappato. Benedetto sia il nome di Dio». Dunque, non pronuncia una sola parola contro il Signore. Poi il «satana» prova Giobbe più tremendamente: nelle ossa e nella carne, con un’infezione maligna che lo avvolge dalla pianta dei piedi fino al cranio. A causa della malattia, egli viene escluso dalla vita religiosa di Israele, esposto ai rischi del deserto e dell’immondo. Ma Giobbe tace: secondo l’ Antico Testamento , l’uomo deve chiudersi nel silenzio, di fronte al dolore mandato da Dio: davanti a tutti i dolori, poiché tutti i dolori sono mandati da Dio.
All’improvviso, Giobbe urla, protesta, viola il silenzio che si era imposto. Maledice il giorno della propria nascita: quello del suo concepimento; ciò che è un modo implicito e indiretto di maledire Dio, che è in primo luogo Signore della creazione. Vuole diventare tenebra, morte: vuole essere avvolto dalla caligine, atterrito da una eclissi di sole. Maledice la fecondità e la vita, e di nuovo parla contro Dio, perché il Signore è colui che protegge la fecondità del mondo. Mentre condanna l’esistenza, egli accoglie ed esalta la morte, e Dio diventa il padre di un universo in cui tutte le differenze vengono cancellate nell’unità della morte. Come è lontana la Genesi , dove ogni cosa vibra di vita, di animazione e di colori.
Con un ultimo balzo mentale, Giobbe maledice la propria angoscia: la quale è provocata da Dio. «Le frecce del Signore si infiggono nel mio corpo». Come ogni uomo egli viene sottoposto a un servizio pesante: la sua vita sono mesi vuoti, notti di dolore, i suoi giorni scorrono veloci come spole, e fra poco egli scenderà negli inferi, per non risalire mai più alla luce. La sua morte è definitiva: non vi è alcuna speranza, per lui, come per gli ebrei del suo tempo, di rimettere foglie e fiori come alberi e piante. Rinascere e risorgere sono parole vuote. Tutta la natura risorge e rinasce tranne lui, Giobbe.
La cosa più spaventosa è che Dio lo considera troppo, sia pure per perseguitarlo: lo scruta con attenzione, lo ispeziona fin dal mattino, lo esamina ogni istante. L’uomo è una cosa piccolissima: e Dio lo vede come una cosa enorme, degna di essere spiata e perseguitata: mentre dovrebbe trascurarlo e dimenticarlo, come un’ombra senza vita né peso.
L’accusa di Giobbe si fa estrema: Dio diventa il carceriere e il torturatore incessante dell’uomo, circondato da un corteo di altri, minori ma non meno spaventosi torturatori. La preghiera di Giobbe è rancorosa e furibonda: «quando la finirai di spiarmi, e mi lascerai inghiottire la saliva». Via via, egli dice cose sempre più terribili contro il Signore: Dio è onnipotente e invisibile: «Egli mi incrocia per via eppure non lo vedo, sparisce e non me ne accorgo»; ma proprio perché è onnipotente, non è giusto: anzi è sommamente ingiusto. Giobbe immagina di essere chiuso in un’aula di tribunale, dove egli è l’accusato, e il Signore è insieme l’accusatore e il giudice. «Lì, anche se avessi ragione, non riceverei risposta: supponiamo pure che io lo invochi e che egli mi replichi, non credo che badi alla mia voce». Alla richiesta di giustizia, Dio risponde soltanto con la forza della sua onnipotenza. «Quand’anche fossi innocente, la sua bocca mi condannerebbe, quand’anche fossi giusto, egli mi dichiarerebbe colpevole». Il Signore sghignazza — questa è la parola precisa — sulla tragedia degli innocenti, e abbandona la terra in mano agli scellerati, suoi complici. È perfettamente inutile che l’uomo si affanni, faccia opere buone, sia virtuoso, retto e giusto, come raccomandava l’ebraismo del tempo: Dio condanna l’uomo a priori, perché è necessariamente colpevole.
Giobbe invoca una condizione impossibile: un vero giudizio, un vero giudice, che possa applicare quella cosa sconosciuta che è la giustizia. Se esistesse questo giudizio, egli parlerebbe senza timore: ma non esiste, ed egli non parla e si chiude nel silenzio assoluto dei muti e dei morti — la sola cosa che possiamo opporre all’onnipotenza di Dio. La speranza di Giobbe è quella di un mediatore tra Dio e l’uomo: un mediatore che, pur essendo prossimo all’uomo, possa parlare con Dio e persuaderlo. Solo la cristologia dei Vangeli raccoglierà la sfida di Giobbe, facendo balenare nell’uomo una possibilità di un mediatore perfetto, superiore all’uomo e identico a Dio.
Intanto Giobbe continua il suo processo contro il Signore onnipotente ed ingiusto. Lo accusa: sicuro che, nel lungo processo, Dio sarà dichiarato innocente, mentre è colpevole di ogni colpa. Giobbe gli chiede di non spaventarlo col terrore: ma Dio è sopratutto terrore. Il Signore si comporta come un nemico: lo accusa di delitti e di peccati, che Giobbe non ha mai commesso: redige verdetti assurdi e spietati, imputa a Giobbe le sue innocenti debolezze giovanili. Sopratutto spia tutti i passi di Giobbe, esamina tutte le sue impronte; e niente è più terribile di quest’occhio che, sia pure attraverso lo sguardo del «satana», non abbandona per un istante l’uomo, consegnandolo alla colpa inesistente. Ma le parole di Giobbe sono fuori luogo: Dio non può smettere di spiare; poiché Egli non può rinunciare al tratto più evidente della propria onnipotenza.
Nel Libro di Giobbe , si agita un bisogno e un desiderio di completezza: perché vuole raccogliere tutte le accuse che, in tutti i tempi e in tutte le religioni, l’uomo abbia mai rivolto a Dio. Preda di una specie di ossessione enciclopedica, Giobbe accusa senza perdonare mai, accusa ed accusa, come del resto fa il Signore nei suoi confronti. Le parti sono continuamente rovesciate. Giobbe esaspera le proprie parole: Dio è il capo di una banda di criminali, e nell’orribile mondo divino, il malvagio viene strappato alla catastrofe, e giunge a diventare un modello di vita per i contemporanei e per i posteri. «Gli saranno lievi le zolle della valle». «Gli empi spostano i confini, fanno pascolare greggi razziate, rapinano l’asino degli orfani, pignorano il bue della vedova». Dio resta sordo a tutte le infamie compiute dai suoi complici, e viene protetto da queste infamie.
Mentre Giobbe accusa Dio di ogni crimine, afferma di essere giusto. «Sono perfetto e retto, nemico del male», come aveva raccontato l’inizio del testo: giusto anche in questo momento, quando è immerso in dolori che i suoi nemici proclamano meritati. «Non conosco — dice — nemmeno l’ombra del male: le mie sventure sono assolutamente immeritate», peccati compiuti da quell’immenso colpevole che è il Signore. «Non c’è violenza nelle mie mani, la mia preghiera è sincera, non pronuncio menzogne», così egli ripete, cercando di giustificarsi senza fine davanti a sé stesso, agli amici e al Signore, e svelando tratti di cattiva coscienza. Come un principe reggente, avanza il documento della sua denuncia contro Dio: su di esso ha apposto la sua firma, e resta in attesa che Dio replichi. Giobbe è sicuro: solo violando le regole del processo, il Signore potrà risultarne innocente. Ma Dio violerà ogni regola, come è sua abitudine.
Alla fine la parola di Giobbe si spegne. «Oh, datemi qualcuno che mi ascolti! Il Signore mi risponda». Dio prende la parola; e come sua abitudine esalta sé stesso. Si esalta come autore dell’immensa e meravigliosa creazione di cui Egli è sommamente fiero. Non c’è nessun evento che Egli ignori ripercorrendo la Genesi e i Salmi , versetto dopo versetto. Ricorda il giorno in cui le stelle Lo acclamarono e gridarono la loro gioia: quando Egli domò il mare, spezzando il suo slancio e imponendogli confini, spranghe e battenti, dicendogli: «Fin qui tu verrai e non oltre»: quando fece sorgere l’aurora, distribuì la luce e la tenebra, controllò i serbatoi della neve e della grandine, diresse pioggia, rugiada e ghiacci: accese le Pleiadi, Orione, lo Zodiaco, l’Orsa: foggiò la sapienza dell’ibis, la perspicacia del gallo, la leonessa cacciatrice, il cervo, l’asino selvaggio, lo struzzo; e infine i grandi, meravigliosi mostri che esprimono insieme l’immaginazione e il furore della natura e di Dio, Behemoth e il Leviatano.
Dio non si cura affatto di spiegare le origini e la ragione del dolore, come Giobbe gli aveva domandato. Il Signore esalta la propria onnipotenza che Giobbe conosceva benissimo, come tutti gli ebrei del suo tempo. Non è una risposta né per noi né per Dio né per Giobbe. Eppure è una risposta. Proprio perché il Signore è onnipotente, il dolore non può venire spiegato. Cercare di spiegare la complessità di Dio è il primo degli errori dell’uomo. Rinunciare a capire il dolore, significa vedere Dio, comprendere Dio, amare Dio, sebbene sembri impossibile.
Nelle ultime parole del Libro avviene qualcosa che ci pare impossibile. Giobbe ci era sembrato così intelligente, così sottile, così capace di cancellare il sofisma del Signore: la sua teologia dell’onnipotenza. Eppure cede: «Riconosco che tutto puoi, e che nessun progetto per te è irrealizzabile. Chi è mai colui che, senza intelligenza, può oscurare i tuoi piani? Ho affrontato da insensato misteri che superano la mia comprensione... Io ti conoscevo solo per sentito dire: ora i miei occhi ti hanno veduto. Per questo io ritratto e mi pento sopra la polvere e la cenere». Giobbe impallidisce: si spegne; rinuncia a accusare Dio della sua colpa misteriosa: il dolore dell’uomo e dell’universo.
Giobbe ha ritrattato. Tutte le proteste e le accuse che egli ha rivolto contro Dio vengono cancellate come se non avesse mai parlato — mentre ha detto cose inconfutabili, che nessuna anima religiosa, né ebraica né greca né cristiana può dimenticare. Il testo-anguilla, il testo-murena, ha abolito sé stesso ed è rinata la mirabile ed assurda semplicità dell’inizio: Giobbe virtuoso e benedetto da Dio. «Il Signore cambiò la sua sorte: anzi il Signore raddoppiò tutti i beni di Giobbe. Benedisse la nuova vita più dell’antica: ebbe quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asini, ebbe sette figli maschi e tre femmine... Visse centoquaranta anni e vide figli e nipoti per quattro generazioni e morì vecchio e sazio di giorni».
Curiosa conclusione. Tanta virtù e felicità e ricchezza, tante pecore, buoi e cammelli e figli e figlie e nipoti e anni e anni, e generazioni dopo generazioni non ci dicono assolutamente nulla. Giobbe resta, per noi, colui che ha sofferto, ed è giunto a Dio attraverso la sofferenza. Così riconosce lo stesso Dio, che afferma due volte che egli ha parlato di lui «con fondamento», fondamento del male e del dolore.

Corriere 31.12.14
In lotta contro i «medici» dei lager
I cristiani che resistettero a Hitler
di Stefano Jesurum


A lsazia, lembo di Francia martoriata dall’occupazione, 1940 e anni seguenti. Stimato scienziato, virologo, cattedratico di chiara fama con alle spalle uno stage triennale all’Istituto Rockefeller di New York. La sconfitta delle infezioni — psittacosi e tifo — la sua grande missione. Dedizione pressoché assoluta alla scienza e al bene della Germania. Convinto nazionalsocialista. Padre dell’adorato Tom, figliolo per metà tedesco e per metà svedese da parte di madre pensando al quale, con immensa tenerezza, Herr Doktor si rallegra: «Ariano puro poiché gli svedesi, nella gerarchia delle razze sono tra i più vicini ai popoli germanici». Il quadro è chiaro.
Un gruppo di adolescenti rinchiusi in un campo di concentramento perché ribelli, imbrattavano i muri delle strade con scritte contro gli invasori e portavano a termine atti di sabotaggio. Poco più che bambini, di fronte ai quali il guardiano del lager si ferma chiedendo se conoscano quel ragazzo dal viso tumefatto. Tra gli internati costretti a osservare, in piedi davanti alla baracca numero 8, c’è Jean-Jacques Bastian: «Ciò che mi colpì in modo particolare fu che la vittima, nonostante fosse insanguinato dalla testa ai piedi, continuasse a gridare: “Viva la Francia!”, e il suo volto fosse illuminato da un grande sorriso».
Lui, il virologo nazista, è Eugen Haagen; loro i ragazzini dell’organizzazione Mano nera e successivamente i nuovi compagni del Fronte della Gioventù alsaziana. L’incontro tra l’uno e gli altri è storia che si svolge in buona parte nei campi di concentramento Schirmeck e Natzweiler. Racconti paralleli ricostruiti con la precisione documentaria che gli è propria da Frediano Sessi in Mano nera. Esperimenti medici e resistenza nei lager nazisti (Marsilio, pp. 256, € 17). Se i «protagonisti» del libro sono Haagen e, tra i molti, Marcel Weinum (fondatore della Mano nera), Charles, Aimé, André, Martin, Albert, Jean-Jacques, Ceslav... — in massima parte cristiani devoti —, i tragici «comprimari» sono per lo più prigionieri classificati dal potere come sottouomini: polacchi, zingari, più un centinaio di internati del lager di Auschwitz scelti come cavie umane dalle SS.
La storia mette ciascuno davanti alle proprie responsabilità. «Tra tutti i medici nazisti della Reichsuniversität di Strasburgo, Haagen fu quello che usò per i suoi esperimenti il numero maggiore di cavie umane. Assisteva beffardo e indifferente ai prelievi epatici, assai dolorosi». Alla fine della guerra fu arrestato, incarcerato a Norimberga, processato e, il 14 maggio 1954, dopo un’ora sola di camera di consiglio, condannato a 20 anni di lavori forzati; non fece ricorso e presto la pena fu ridotta a 10 anni; liberato nel settembre 1955; continuò a lavorare; morì settantaquattrenne nel suo letto, a Berlino, il 3 agosto 1972.
A Schirmech la Mano nera organizzò un attentato contro Haagen, non per ucciderlo — troppo credenti per togliere la vita — ma per renderlo inabile alla «ricerca», magari accecandolo. Fallirono. Parecchi, dopo lunghi periodi di durissima «rieducazione», furono costretti ad arruolarsi e a combattere — centinaia i racconti di questi soldati, i «Malgré-Nous». Altri conobbero il carcere. Altri riuscirono a raggiungere la Resistenza. Nell’aprile 1942 la stampa nazista diede notizia della decapitazione di Marcel Weinum, comandante dell’organizzazione «criminale» Mano nera.
Queste storie parallele confrontano due modelli di moralità. Quello del professor Haagen, di cui abbiamo conosciuto la delittuosità. E l’altro, di un gruppo di francesi per lo più in calzoni corti che decide di lottare a costo della vita per restituire la libertà alla propria terra e non perdere umanità e dignità. Quegli imberbi sono stati uno dei primissimi casi — se non storicamente il primo — di resistenza, «un modello che resta ancora un sogno in attesa di essere realizzato nonostante abbia militanti pronti a ogni sacrificio per convincere gli altri a perseguirlo». Continua Frediano Sessi: «Il mio libro vuole sollecitare i lettori a trasformarsi in promotori di quel sogno, per dare un futuro migliore non solo ai nostri figli e nipoti ma all’intera umanità».

Corriere 31.12.14
Come inquinavano i Greci e i Romani

Leggere d’un fiato l’ultimo libro dello storico svizzero Lukas Thommen, L’ambiente nel mondo antico (Il Mulino, pp. 192, e 15), può indurre legittime ma superficiali analogie con i nostri affanni ecologici. Esplorando l’ambito greco-romano tra i secoli IX a.C. e V d.C., Thommen restituisce infatti sequenze familiari, dalla crisi dell’Atene classica (con la denuncia di Platone contro i disboscamenti) alla Roma inquinata e rumorosa del console-speculatore Marco Licinio Crasso, coi suoi «casermoni» sovraffollati. In realtà, a colpire è soprattutto l’ambiguo rapporto uomo/natura tra soggezione e emancipazione: tra una visione mitica che riconduce al trascendente sia il bucolico che il terrifico (fonti e prati, terremoti e eruzioni) e un’intraprendenza tecnica (coltivazioni, irrigazioni, centri urbani) vissuta a lungo come una violazione all’ordine prestabilito, da farsi perdonare con riti e sacrifici. Decisivo, per lo scioglimento del conflitto tra spinte adattative e paure arcaiche, è lo sguardo introdotto dai filosofi ionici e dalla medicina ippocratica e culminato nel coro dell’ Antigone sull’orgoglio antropocentrico dell’uomo, nel difficile equilibrio tra libertà e responsabilità.

Repubblica 31.12.14
Fuochi
Quelle luci sull’anno che verrà nei botti rivive un rito antico
Dai primi falò alla notte di San Silvestro c’è un unico filo conduttore: il desiderio di scacciare la paura della fine e voltare pagina
di Marino Niola


QUANDO l’anno gira l’angolo, gli uomini giocano col fuoco. Per scacciare la paura della fine e fare luce sul nuovo inizio. Non a caso il Capodanno è il più antico dei rituali umani. Dai falò comunitari dei nostri lontani progenitori ai botti di San Silvestro si snoda un lungo filo che attraversa i millenni.
Ancor prima dell’invenzione della polvere da sparo e dell’arte pirotecnica si usava festeggiare i passaggi tra una stagione e l’altra facendo fuoco e rumore, con tutti i mezzi disponibili. Tamburi, sonagli, pentole, coperchi, martelli tutto ciò che era buono per produrre un frastuono assordante. Che aveva la funzione di spaventare e allontanare le forze del male, oggi diremmo le energie negative. Mentre i roghi purificatori servivano a bruciare i residui dell’anno vecchio, ma anche a illuminare il cammino di quello nuovo. Anche per questo la notte di fine anno tradizionalmente ci si liberava delle robe usate, per alleggerirsi del peso del passato e chiudere il conto con il tempo. Una sorta di bilancio consuntivo prima di voltare pagina. Anno nuovo, vita nuova.
Sono gesti scaramantici e propiziatori che continuiamo a ripetere anche oggi quando accendiamo una girandola, facciamo brillare un bengala, tiriamo un petardo, esplodiamo una castagnola. O incolliamo agli auguri un emoticon pirotecnico che lancia stelline fosforescenti. Per esprimere il calore e il colore degli affetti. Un modo per far divampare la festa, insomma. In fondo quella del fuoco è una passione elementare, un basic instinct che ci portiamo dietro da quando Prometeo rubò la prima scintilla agli dèi e la donò ai mortali, facendone il simbolo stesso dell’umanità e della civiltà. Ecco perché dalla fiamma delle Vestali alle fiaccolate per la pace il passo è meno lungo di quel che sembra. Con la modernità il potere propiziatorio della luce e del chiasso viene ereditato dai giochi pirotecnici. Che mettono insieme fuoco e rumore in una miscela esplosiva che trasforma il rituale scaccia guai in una forma d’arte. Una poetica notturna che dà al cielo il colore dei nostri desideri e la forma delle nostre speranze.
I primi a sparare botti sono stati i Cinesi che già nell’anno mille, al tempo della dinastia Sung, cominciano a festeggiare le svolte del calendario e i compleanni degli imperatori con lo sfolgorio della polvere nera.
Ma la nuova arte si trasferisce ben presto nella vecchia Europa dove nascono delle vere e proprie scuole di fuochisti. Come quelle gloriose dell’Italia rinascimentale. Grande tecnica artigianale e altrettanto grande teoria. Anche in versione scoppiettante, infatti, il made in Italy è sempre lui. Il senese Vannoccio Biringuccio, autentico genio della metallurgia e maestro di balistica, capo dell’artiglieria apostolica e artefice del mastodontico cannone Liofante, una proboscide di piombo che gitta palle a distanze fino ad allora impensabili, è passato alla storia per avere scritto nel 1540 il trattato “Della Pirotecnia ovvero arte del fuoco”, dove codifica l’abbiccì dell’esplosione gioiosa. E proprio “macchine di gioia” vengono chiamate nei secoli successivi le architetture effimere che servono da supporto ai fuochi d’artificio. Talmente amate da popolo e potenti che a progettarle sono chiamati architetti come Michelangelo Buonarroti, Pietro da Cortona e Gian Lorenzo Bernini. Ideatore della famosa Girandola, che trasforma Castel Sant’Angelo in una sorta di vulcano balenante e fiammeggiante. Altrettanto spettacolari sono i Vesuvi che Luigi Vanvitelli, l’architetto della settecentesca reggia di Caserta, fa eruttare con tanto di lapilli e nubi ardenti durante le sontuose feste di Carlo III di Borbone. In fondo un’eruzione è un artificio della natura. Ma il più grande inno all’arte pirotecnica lo mette sullo spartito Georg Friedrich Händel, il fiammeggiante musicista barocco che, nel 1749, viene incaricato da re Giorgio II d’Inghilterra di scrivere le musiche per celebrare la pace di Aquisgrana. Nasce così la stupefacente suite per i “Reali fuochi d’artificio”, un autentico capolavoro della storia della musica. Che è stato eseguito solennemente anche il primo giugno 2002 per festeggiare i cinquant’anni di regno della regina Elisabetta. Nozze d’oro con sound and light show .
Bruciare il tempo per guadagnare altro tempo. È questo, in sostanza, il senso millenario del nostro capodanno. Perché fuoco e rumore, luce e suono sono i più antichi simboli anti-spread. Ieri come oggi, infatti, servono a far quadrare i conti ed eliminare il debito che la società ha accumulato con se stessa e con gli altri. Insomma è un modo per manifestare la volontà di andare avanti e di superare le crisi. E del resto la parola crisi (dal greco krino) significa proprio differenziare. Svoltare. Dare un taglio al passato. Per andare sparati verso il futuro. Col botto.

Repubblica 31.12.14
Patrick Modiano
Le confessioni di un Nobel “Ho bisogno della lentezza per questo scrivo a mano”
L’autore francese si racconta. La sua infanzia. Le prime prove. L’ottimismo sul futuro della letteratura
intervista di Claire Devarrieux


NELLO studio di Patrick Modiano, che vive accanto ai Giardini del Lussemburgo in un vecchio appartamento dai soffitti molto alti, le pareti sono ricoperte di libri che arrivano giù fino al tappeto rosso. Ci dice che recentemente ha dovuto sbarazzarsi di tremila opere. Ha conservato, dai tempi della sua adolescenza, qualche libro in edizione tascabile (all’epoca erano i primi), di cui ama riscoprire i passaggi che sottolineava.
Si ricorda delle copertine coloratissime, pacchiane e un po’ aggressive dei classici, Stendhal, Balzac. Può ancora descrivere quella dell’edizione francese dell’ Amante di Lady Chatterley. A quell’epoca era in Inghilterra, dove il romanzo di Lawrence era proibito. Ha conservato qualche libro anche della sua infanzia. A otto anni amava Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson attraverso la Svezia . Si è ricordato di Selma Lagerlöf e di altri autori svedesi, come Hjalmar Söderberg, quando è andato a Stoccolma a ritirare il premio Nobel per la letteratura.
Qual è stato il momento più difficile a Stoccolma? Il discorso?
«Quando sei sopra un palco sei solo, non è così difficile. Quando devi fare un discorso sei obbligato, ti devi buttare, è come quando salti giù con un paracadute, non bisogna esitare. Non c’è stato un momento difficile, in realtà».
A tavola con il re, seduto accanto alla sorella, non pensava ai ringraziamenti che doveva fare alla fine del pasto?
«No, in realtà non ci ho pensato molto. È ovvio che ci sono dei momenti in cui un po’ di fifa può venire. Ma no. Una volta che si sta lì… È curioso, non è la mia natura, io sono piuttosto timido».
Nel suo discorso lei si è mostrato ottimista sul futuro della letteratura, come se avesse sempre una grande fiducia nella gioventù.
«Sì, io appartengo a una generazione un po’ intermedia. La nostra infanzia non era così diversa da quella della generazione degli anni ‘30. Quando avevo 8 anni non c’era la televisione, c’era una trasmissione radio per i bambini il giovedì: era ancora un’infanzia come quelle di prima della guerra. Tutto quello che ci affascinava, le cabine telefoniche, l’odore dei garage, l’odore delle macchine dentro i garage, quelle cose che mi colpivano… a volte mi vie- ne da pensare che adesso, per i bambini, gli oggetti siano meno magnetici, meno propizi alle fantasticherie. I bambini o i giovanissimi hanno l’abitudine di fare zapping. Ma di sicuro alcuni saranno affascinati, si fisseranno su oggetti di adesso. Anche da un punto di vista romanzesco, forse internet provocherà un mondo particolare. L’attività letteraria, fino ad oggi, era piuttosto solitaria, c’era bisogno di un’attenzione costante. Il fatto che questa attenzione ora sia più difficile può apparire pericoloso. Ma contemporaneamente si produrranno anche altri fenomeni. È per questo che sono ottimista».
Nel discorso di Stoccolma lei ha affrontato le difficoltà della scrittura. Perché in particolare le prime pagine?
«La cosa più facile per me, più gradevole, è una sorta di fantasticheria iniziale. Quando c’è da concretizzare, il problema è sempre lo stesso: c’è un momento in cui bisogna saltare ed è un po’ sgradevole. Dopo, non si è sicuri di aver preso la strada giusta. Per almeno un mese si continua a scrivere, c’è un momento di scoraggiamento: ma poi ci si rende conto che basta una piccola modifica, una cancellatura, e si riparte.
Fra un libro e l’altro rimane a lungo senza scrivere oppure ogni mattina si siede alla scri- vania?
«Fra un libro e l’altro mi prendo una pausa. Bisogna aspettare un po’ perché risorga qualcosa che hai già scritto nei libri precedenti ma hai dimenticato, e che riprendi cercando di svilupparla.
Che ne fa dei suoi manoscritti?
«Li accumulo dentro delle valige. Ora sembra strano. Perfino le persone della mia età per lo più scrivono al computer. Ma io preferisco che le correzioni siano visibili, così ci si rende conto meglio di certi tic. È un’attività che è già un po’ astratta. Ho sempre provato il bisogno, con un piccolo côté manuale, di fare dei ritocchi. E visto che è una procedura piuttosto lenta, il rischio è quello di scoraggiarsi: hai un’idea, ti ci vogliono parecchi giorni per scriverla e così perdi lo slancio. Quando è un po’ materiale è più facile. Capisco che su uno schermo sia più chiaro, ma io ho bisogno di questa lentezza. Se è troppo rapido, non c’è più materialità».
Un pedigree ( 2005), il suo solo testo esplicitamente autobiografico, è pieno di date. A che età ha avuto il suo primo diario?
«Non avevo un diario, ho cercato di ricostruire. Avendo avuto un’infanzia un po’ enigmatica mi sono concentrato sulle date, era il solo modo. È più facile se pensi agli anni di scuola, la quinta elementare, la prima media, la seconda media, così hai dei punti di riferimento. A partire dai diciotto- vent’anni hai delle agende dove annoti gli appuntamenti. Mi regalarono un diario quando avevo vent’anni. Ci annotavo delle cose che mi erano successe e mi avevano colpito. Per esempio mio padre mi aveva portato al commissariato di polizia e io ave- vo annotato la data. Non lo facevo perché pensavo che mi sarebbe potuto servire più tardi. In quell’episodio del commissariato, quello che mi succedeva mi sembrava così strano, ero come sdoppiato. A un certo momento, il commissario mi fece un’osservazione e minacciò di arrestarmi se facevo ancora l’imbecille, una piccola minaccia. Al limite avrei quasi desiderato che succedesse, la cosa mi interessava: era come essere spettatori di se stessi. Forse è questo l’inizio della scrittura: trovarsi in situazioni che ti riguardano concretamente e al tempo stesso non esserci affatto; avere paure e contemporaneamente essere interessato. Avevo questa impressione da bambino, quando andavo in giro: provavo paura ma al tempo stesso ero curioso di vedere cosa sarebbe successo.
Da giovane era come i narratori dei suoi romanzi, che non sono né alcolizzati né drogati?
«Ho la testimonianza di alcune persone che mi hanno incrociato quando avevo vent’anni, ed erano più grandi di me e non mi conoscevano. Dicevano, quando le ho rincontrate più tardi, che all’epoca pensavano che fossi drogato, che avevo un comportamento bizzarro, come di qualcuno che prende sostanze stupefacenti. Ero uno di quelli che vengono accusati di essere alcolizzati o drogati anche se in realtà sono sobri. Non avevo bisogno di ricorrere a quelle sostanze, ero già in stato secondo. Quando avevo cinque anni fui investito da una camionetta uscendo da scuola; non era niente di grave, ma mi addormentarono, all’epoca si applicava una maschera imbevuta di etere. In seguito ho sempre cercato di ritrovare quell’odore. C’erano questi flaconi blu scuro, che in seguito ho scoperto che erano fabbricati dall’editore di Genet, Marc Barbezat. Non sono diventato dipendente dall’etere, ma mi è rimasta a lungo questa attrazione. Aveva l’aria volatile, era piuttosto pesante. Riesco a capire l’alcolismo di tanti scrittori. Ma quando sei ubriaco fradicio, devi essere sicuro di avere qualcuno che ti riporterà a casa. I grandi scrittori alcolizzati, non arrivo a dire che abbiano avuto un’infanzia felice, ma sono sicuri di avere qualcuno che li riporterà a casa».
Lei ha fama di essere stato un amante degli scherzi.
«Non è così. Quando sei bambino o adolescente, se non ti senti troppo a tuo agio con un adulto, se non ti prendi, ti viene voglia di fargli uno scherzo. Io ne facevo pochi. A volte vendevo dei libri a dei negozi di antiquariato e scrivevo delle false dediche. Non era una burla, era quasi un trucco da falsario, una forma di truffa [una scena del genere viene descritta ne I viali di circonvallazione (1972), ndr ]. Ho ritrovato da un libraio qui vicino – e non ho osato dirglielo – delle false dediche che avevo fatto io. È diventata una burla perché spesso, nella biblioteca di certe persone, avevo preso l’abitudine di scrivere delle dediche assurde, per esempio di Simone de Beauvoir a Luis Mariano. I rari scherzi che ho fatto li ho fatti per il gusto delle mescolanze insolite, per far incontrare mondi estranei, personaggi eterocliti, per riuscire a incastrare gli opposti».
Dopo il Nobel ha visto risorgere persone del passato, come sperava in Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier (2014)?
«Qualche persona che avevo perso di vista sì, è spuntata fuori. In effetti è sempre lo stesso problema, che forse è legato alla mia età. Le persone che avrebbero potuto darmi dei ragguagli su cose che mi sono sempre sembrate enigmatiche ora sento che non è più possibile incontrarle: sono sicuramente scomparse, avevano quindici o vent’anni più di me. Ogni volta spero che ci sarà qualcosa, qualcuno che mi darà dei dettagli, ma la faccenda si restringe. Ci si accorge che siamo invecchiati perché è passato tantissimo tempo. In circostanze del genere, l’attenzione è attirata su di te, ma le persone che ti hanno conosciuto da giovane, con quegli spazi di tempo enormi, di quaranta o cinquant’anni, non fanno il rapporto. Ci sono state delle occasioni nella mia vita in cui avevo preso il nome di mia madre (mio padre non voleva più che portassi il suo). È stato verso i 19 anni, e persone che allora mi hanno conosciuto sotto un altro nome ora non possono identificarmi. Quando ero più giovane, nei miei libri, inviavo dei segnali morse per indurre le persone da cui vivevo da bambino, degli amici a cui i miei genitori mi affidavano, a manifestarsi. Facendo delle ricerche su internet ho percepito che perfino tecnologie così perfezionate come questa incontrano una resistenza, un blocco. Almeno è quello che immaginavo: sentivo che non sarei riuscito ad arrivare a quello che mi sarebbe piaciuto sapere. Eppure, se trovi una scappatoia, se riesci a mettere insieme due nomi, sono sicuro che esiste un mezzo per sapere. Forse è questo che l’aspetto romanzesco di internet».
© Libération. Traduzione di Fabio Galimberti