domenica 4 gennaio 2015

La Stampa 4.1.14
“Io, partigiana insignita della medaglia al valore settant’anni dopo”
Domani l’ambasciatore inglese consegnerà 3 onorificenze a Rossana Banti, 90 anni, eroina della II Guerra Mondiale. «E che ho fatto? Eravamo ragazzi, pensavamo fosse giusto»
di Vittorio Sabadin

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il Fatto 4.1.15
In vista del Colle. Rino Formica
“Un Parlamento di impediti eleggerà un vigile urbano”
di Paola Zanca


Trent’anni di politica in prima linea, almeno quattro cambi al Quirinale visti da vicino. Eppure, al socialista Rino Formica, la fine dell’era di Giorgio Napolitano lascia decisamente “disorientato”. Perché la gravità della situazione è ampiamente sottovalutata, perché i partiti si sono ridotti ad appendici di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, perché alla fine sceglieremo al ribasso, magari “un vigile urbano di Roma”.
Formica, che succede?
Confesso: sono disorientato. Sembra un’elezione degli anni Sessanta o Settanta, quando tutto era normale e la scadenza istituzionale imponeva al Paese di risolvere un’incombenza de plano, senza alcuna difficoltà.
Invece come siamo messi?
Nessuno nota la straordinarietà della situazione politica del Paese, siamo di fronte a un momento di scelte profonde: o si marcia spediti verso l’unità politica dell’Unione Europea o si torna alla disgregazione in staterelli rissosi e ribelli, pieni di divisioni e difficoltà.
Servirebbe un capo dello Stato all’altezza.
C’è un deficit terribile nell’informazione. Nessuno si domanda: a che serve questo Presidente della Repubblica? Sembriamo quasi rassegnati all’idea che sarà un inutile fantoccio.
Eppure Napolitano ha ribadito anche nel discorso di fine anno la grande sfida che ha davanti l’Italia.
La sua è una disperazione fiduciosa, userei questo ossimoro. Ma io lo giudico eccessivamente ottimista nelle capacità di riscossa delle coscienze individuali. Mentre lui pronunciava quel discorso accorato, i due che dispongono del pacchetto di voti per l’elezione erano lì che trafficavano....
Ce l’ha con Renzi e Berlusconi.
Uno cerca un presidente della Repubblica che lo aiuti ad asfaltare, come dice lui, l’opposizione interna. L’altro si preoccupa della sua agibilità politica, ovvero della chiusura delle code giudiziarie e del salvataggio delle sue aziende. Mi spiega cosa c’entra tutto questo col Paese?
Nessuno sembra animato da alti principi.
E infatti l’intesa tra i due si troverà al livello più basso: finirà che chiederanno al primo cameriere di turno, magari a un vigile urbano di Roma...
Il Parlamento troverà il modo per dire la sua?
Macché. Tutto questo avverrà in un seggio fatto di mille persone che sono impedite: sia per l’incostituzionalità della loro elezione (la Consulta ha bocciato la legge elettorale che li ha portati in Parlamento, ndr) sia perché sono terrorizzati da nuove elezioni: sono tutti senza partito.
Non prendono la situazione abbastanza sul serio?
È la prima volta in cui siamo di fronte a un’elezione del Quirinale che non tiene conto del futuro del Paese. Ma la scelta del Presidente della Repubblica non è un atto di devozione alla Carta, non è una cerimonia di folclore.
Qui si gioca con le figurine: il tecnico, il cattolico, …
È impressionante questo ragionare da vecchi. Sembra di stare negli anni Sessanta... Ma ora, da garante dell’unità nazionale, il presidente dovrà accompagnare il Paese nel salto nel buio di cui dicevamo sopra: o verso gli Stati Uniti d’Europa o verso il ritorno agli staterelli. Lo ha detto anche Mario Draghi, dalla Bce: se non vi muovete politicamente, io non posso fare nulla.
C’è chi pensa allo stesso Draghi come uomo giusto per il Colle.
Non basta nemmeno lui. Servono forze politiche in grado di sostenerlo, se no ci ritroviamo un predicatore e basta.
Come va a finire?
Se in queste ultime ore non si apre un grande dibattito - e lo potete aprire solo sui giornali - finisce che l’elezione sarà l’occasione per lo spettacolo di mille vendette individuali. I partiti non ci sono più. Gli ultimi tre presidenti della Repubblica si sono illusi della capacità di autoriforma del sistema politico. Non hanno voluto cogliere l’avvertimento di Cossiga, che li aveva messi in guardia sulla fine della democrazia parlamentare. Si sono cullati nella grande illusione. E ci siamo ritrovati con Renzi e Berlusconi.

Repubblica 4.1.15
Napolitano ci ha salutati, ma chi andrà al Quirinale dopo di lui?
Le prerogative del Presidente non sono affatto limitate al cerimoniale, riguardano diritti sostanziali
Il Capo dello Stato tutela la Costituzione
di Eugenio Scalfari


I GIORNALISTI della carta stampata e delle televisioni continuano ad esaminare, interpretare e discutere del messaggio con il quale Giorgio Napolitano ha dato il suo addio alla carica che ricopre, agli italiani da lui rappresentati nella loro totalità e nella loro auspicabile responsabilità e alla classe politica che bene o male (più male che bene) li rappresenta.
Il totale degli ascolti registrati da tutte le televisioni a reti unificate per l’occasione è stata di tredici milioni, il settanta per cento di share , una cifra alla quale, se si aggiungono coloro che non l’hanno seguito in diretta televisiva e l’hanno però recuperato sui giornali o attraverso la rete Internet si arriva a quote del cento per cento degli italiani dai 14 anni in su.
Sabino Cassese nel suo fondo di venerdì sul Corriere della Sera ha fatto il conteggio delle parole più usate nel saluto del Presidente della Repubblica, notando che sono state: unità, fiducia, nazione, doveri, Europa, responsabilità, lavoro, Mezzogiorno, rispetto verso gli altri e verso le istituzioni, corruzione, riforme. Le più ricorrenti di questo lungo campionario sono state fiducia, doveri, nazione. Quella non usata è stata diritti, ma, stando all’opinione di Cassese, era implicito nel testo del messaggio. Personalmente non credo che sia questa l’interpretazione esatta. La parola diritti solleva inevitabilmente contrasti, sia per mantenere quelli esistenti che spesso sono stati insidiati e in alcuni casi addirittura aboliti, sia per ottenerne altri che il mutamento d’epoca pone come indispensabili: in ogni caso sono fattori di nuove lotte che avrebbero comunque indebolito la reciproca fiducia e quindi l’unità nazionale che Napolitano ritiene a questo punto indispensabile.
PERSONALMENTE ho deciso di scrivere un ritratto politico e morale di Giorgio Napolitano due o tre giorni prima delle sue dimissioni che — ormai è certo — avverranno il 14 gennaio ma penso fin d’ora che, unitamente a Carlo Azeglio Ciampi, sia stato il solo a difendere le prerogative presidenziali che fanno del Capo dello Stato una figura costituzionale diversa da tutti gli altri Capi di Stato europei. Questa figura Napolitano vuole mantenerla. Vale la pena di capirne il perché. *** In tutta Europa (salvo che in Russia e nei suoi dintorni che Europa non sono) il Capo dello Stato non ha alcuna funzione e quindi nessuno dei suoi rappresentati ne conosce o ne ricorda il nome. Le sue prerogative sono puramente cerimoniali, come accade d’altronde dove esiste la monarchia.
Il monarca, anzi, conta sempre meno del presidente d’una Repubblica. Così il re di Spagna, quello del Belgio, la regina di Gran Bretagna.
In Italia è diverso: le prerogative del Presidente non sono affatto limitate al cerimoniale; riguardano diritti sostanziali: a lui è riservato il diritto di grazia, la nomina dei senatori a vita, la nomina del presidente del Consiglio e su sua proposta dei membri del governo e dei sottosegretari, la firma dei decretilegge prima che siano presentati in Parlamento, l’inviolabilità per ogni eventuale reato che non sia stato colto in flagranza dalle forze della sicurezza pubblica. Infine spetta a lui lo scioglimento delle Camere o di una sola di esse quando prima della loro regolare scadenza si trovino in condizioni di non funzionare quale che ne sia la ragione.
La spiegazione di queste prerogative sostanziali non ha bisogno di alcun chiarimento, la nostra è infatti una Repubblica nella quale il Capo dello Stato tutela la Costituzione e coordina una leale discussione tra gli altri poteri costituzionali. Se alcuni di quei poteri vogliono rafforzare la loro autorità diminuendo i poteri di controllo che la contrastano, il Capo dello Stato ha la funzione di impedire questo mutamento e le sue prerogative sostanziali servono appunto a svolgere questo compito. Questo non significa affatto che vi sia o vi debba essere una dialettica polemica tra il potere esecutivo rappresentato dal presidente del Consiglio e quello del Capo dello Stato. Al contrario, ci deve essere e di fatto nel caso specifico c’è una collaborazione e una stima reciproca tra la presidenza del Consiglio e quella della Repubblica, la quale tuttavia può incorrere nel freno che il Capo dello Stato può e deve svolgere quando un potere tende a soverchiare l’altro.
Questa differenza tra la nostra idea di Presidente e quello che è avvenuto nel corso degli anni della Prima Repubblica è notevole. Il mutamento avvenne in concomitanza ed a causa del rapimento di Aldo Moro e della sua uccisione da parte delle Brigate Rosse. Siamo nel 1978 e si forma da allora un passaggio fondamentale di cui sono protagonisti personaggi come Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano che assumono al vertice dello Stato una funzione durata fino ad oggi, cioè più di trent’anni, completamente diversa da quella che c’era stata nei trent’anni dall’approvazione della Carta costituzionale fino, appunto, all’uccisione di Moro. Dal 1947 (firma della Costituzione) fino al 1978 il Capo dello Stato non aveva alcun potere e alcuna prerogativa se non di tipo cerimoniale. Naturalmente la lettera della Costituzione era più o meno simile a quella attuale ma esisteva la cosiddetta Costituzione materiale che era la prassi invalsa e che dava al Capo dello Stato poteri minimi rispetto a quelli che il partito di maggioranza e cioè la Dc con i suoi alleati imponeva. Questa è la differenza tra ieri e oggi: i primi trent’anni il Capo dello Stato non conta quasi nulla, come in tutta Europa, nei secondi trenta i quattro nomi che abbiamo indicato tornano alla letteralità della Costituzione e di quella si fanno scudo e rappresentanti.
In Europa le cose stanno molto diversamente. L’abbiamo già accennato e debbo dire che il potere esecutivo ed il suo principale rappresentante che siede a Palazzo Chigi vorrebbe un cambiamento dello stesso tipo di quello vigente in Spagna, Germania, Belgio, Gran Bretagna ed altri. Tutto questo sarà messo alla prova durante le prossime e imminenti elezioni del nuovo inquilino del Quirinale. *** Renzi non ha la maggioranza assoluta del plenum parlamentare che voterà il nuovo Capo dello Stato. Alcuni membri dei partiti che non appartengono alla maggioranza voteranno per il nome scelto da Renzi, ma molti altri che appartengono invece alla maggioranza o allo stesso Pd voteranno probabilmente contro quel nome. Renzi queste cose le sa bene e quindi ne terrà conto nella tattica per arrivare ad una strategia che è quella da lui preferita. Ci sono varie possibilità nelle modalità con cui si sceglie il futuro successore di Napolitano: alcuni puntano su tecnici di vario tipo e di varie discipline alle quali il presidente del Consiglio è disposto a lasciare piena padronanza di quelle materie riservando al potere esecutivo la politica. È difficile pensare che un nome si imponga fin dalle primissime votazioni. Probabilmente ci sarà un periodo di assaggio ma non credo che sia lunghissimo a meno che non vi siano cessioni inevitabili dall’una parte e dall’altra. La soluzione mediana riguarda il livello dei tecnici che deve essere e sarà, se questa fosse la soluzione, molto elevato, riconosciuto non solo in patria ma anche a livello europeo e internazionale.
Naturalmente i tecnici possono anche essere, e spesso lo sono, opportunisti nel senso che mettono la propria tecnica a disposizione di chi è più potente di loro e può dunque dare a quella loro capacità una sistemazione estremamente ambita. C’è poi un altro compromesso che è appunto quello di trovare tecnici non opportunisti. Non è facilissimo ma ce ne sono e su quelli bisognerebbe orientarsi. Poiché fare un elenco con alcuni nomi di opportunisti provocherebbe a chi lo fa una serie di sciagure giudiziarie del tipo querele per diffamazione o per calunnia bisogna seguir la via opposta: fare il nome dei più adatti e dei meno opportunisti. Ecco qualche nome in proposito: Pier Carlo Padoan, Renzo Piano, Riccardo Muti, Elena Cattaneo, Sabino Cassese, Gustavo Zagrebelsky, Umberto Eco.
Sono pochi e ce sono molti di più ma questi servono a dare un’indicazione di capacità e di livello che possa essere utile anche applicata a nomi equivalenti. Rappresentano varie branche della cultura, della scienza, della tecnica, dell’insegnamento, dello spettacolo e del diritto.
Più difficile è fornire il nome dei politici cioè di coloro che lasciano la tecnica a chi di dovere e si occupano del bene comune e della sua realizzazione. Questi nomi sono di molto minor numero perché la buona politica che si propone non già il potere per il potere, ma il potere per il bene comune, è assai limitata. Aristotele la mise in cima alle categorie dello spirito ma parlava in un’epoca che è molto diversa della nostra.
Comunque ecco qualche nome che possa servire a utilizzare le persone qui indicate o altre di analogo livello e importanza: Romano Prodi, Walter Veltroni, Luigi Zanda, Piero Fassino, Pier Luigi Bersani. Anche qui ce ne sono altri ma non molti, ho già detto che la merce buona in politica è molto più rara e le scelte di qualità sono terribilmente difficili.

Repubblica 4.1.15
Pippo Civati
“Al Quirinale un candidato di centrosinistra, o non lo voto”
di Tommaso Ciriaco


ROMA . «Se Renzi propone per il Quirinale un nome alto, super partes e capace di parlare a tutti, allora problemi con il Pd non ce ne sono. Se invece tenta operazioni transgeniche, beh... non so come va a finire». A poche settimane dall’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, Pippo Civati si prepara alla sfida. E fissa alcuni paletti: «Prodi o Rodotà li voto subito. Ma se mi propongono Gianni Letta, allora è un altro discorso ».
Le piace il profilo ipotizzato dal premier?
«Le parole che ha usato Renzi sono le mie, assolutamente. Poi, per carità, va benissimo fare gli identikit, ma finché non ci sarà un nome non capiremo nulla. A mio avviso serve un candidato di centrosinistra. Un profilo in cui il Pd possa riconoscersi, che vada bene a Sel e ai centristi più progressisti, che faccia riflettere i grillini. Se invece propongono Gianni Letta, allora è un altro conto...».
D’altra parte lei ultimamente ha votato contro tutto ciò che non le andava bene. Ed è possibile immaginare che non farebbe diversamente anche in questo caso.
«Appunto».
Nel 2013 imperversarono i 101 franchi tiratori. Se il candidato del 2015 fosse frutto del patto del Nazareno, si rischierebbe una defezione di altrettanto grave?
«Io mi aspetto che la scelta tenga conto prima di tutto del Pd. Renzi deve riflettere, visto che per un anno non ha fatto altro che dividere il Pd in nome del patto del Nazareno o dell’accordo con Alfano. Quanto ai franchi tiratori, ho letto che sono già nella lista di Lotti: ma che significa? Se candida Prodi o Rodotà, è ovvio che li voto. E poi...».
Dica.
«Bisognerebbe anche fare uno studio approfondito sul concetto di franchi tiratori. Chi dice apertamente che non vota un candidato, può essere considerato alla pari di quei 101? Non credo proprio. In ogni caso suggerisco a Renzi di fare un lasogna voro intenso per cercare i 101 tra i suoi ministri e sottosegretari. Qualcuno lo trova sicuro... ».
Il premier ha parlato anche di legge elettorale. E annuncia che i parlamentari gireranno i collegi strada per strada, comune per comune.
«Visto quanto sono ampi, devono cominciare a girarli adesso così entro il 2018 avranno finito... ».
L’Italicum proprio non le piace, vero?
«Lo ripeto: è un Porcellum con le ali. I i due terzi del Parlamento saranno nominati dai partiti. L’Italicum è più vicino al Porcellum che al Mattarellum».
Renzi sostiene invece che metterà fine a ogni inciucio.
«Lo sconfigge con l’omeopatia, visto che ha scelto le larghe intese fino al 2018...».
Secondo Palazzo Chigi si voterà allo scadere naturale della legislatura. Ci crede?
«È il suo schema da thriller. La suspence è sempre altissima, tutto può sempre precipitare. Si fissano molte scadenze, quando scadono se ne fissano di nuove. Risponda invece a qualche domanda. Ad esempio, vuole costruire un’alternativa alla destra o intende dare vita a un partito della nazione? E ancora, ritiene chi offre suggerimenti solo un fastidio, facendolo passare per pazzo furioso? Invece di una letterina di fine anno, dovrebbe sciogliere questi nodi».

La Stampa 4.1.15
Come colpire la mancanza di senso civico
di Gustavo Zagrebelsky

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La Stampa 4.1.15
Fisco, il giallo del decreto di Natale e della norma salva-Berlusconi
L’esclusione della punibilità “quando l’importo delle imposte sui redditi evase non è superiore al 3% del reddito imponibile dichiarato” lo renderebbe di nuovo incensurato

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il Fatto 4.1.15
Frode fiscale, così il colpo di spugna di Renzi salverà B.
Le cinque righe inserite a Natale da Palazzo Chigi non solo depenalizzano i reati tributari, ma “graziano” il cavaliere, interdetto dopo la condanna Mediaset
di Carlo Di Foggia


Niente grazia, non serve. Questione di tempi e dettagli. Mettiamoli in fila: elezioni per il Quirinale alle porte, un provvedimento approvato alla vigilia di Natale, un articolo infilato in extremis, cinque righe di testo, e il patto del Nazareno si sublima: la riabilitazione di Silvio Berlusconi. Tecnicismi a parte è questo il possibile risultato della norma infilata da Palazzo Chigi nel decreto di attuazione della delega fiscale approvato lo scorso 24 dicembre.
NEI GIORNI scorsi il Fatto ha raccontato l’incredibile genesi di una modifica che non figurava nel testo uscito dal ministero dell’Economia (che l’aveva bocciata) e che – all’ultimo giro di boa – è comparsa poco prima di entrare nel Consiglio dei Ministri: di fatto permetterà al fu Cavaliere di tornare in campo, libero, cancellando con un tratto di penna la condanna a 4 anni – e due di interdizione dai pubblici uffici – per frode fiscale nel processo per i diritti tv Mediaset. Quella che lo ha fatto decadere da Senatore per effetto della legge Severino. La norma è l’articolo 19-bis. Questo stabilisce chiaramente che non si viene più puniti se Iva o imposte sui redditi evase “non sono superiori al 3% rispettivamente dell’imposta sul valore aggiunto o dell’imponibile dichiarato”. In pratica non c’è nessun limite, ma solo una proporzione, sotto la quale il reato penale scompare: quella che in gergo tecnico si chiama “soglia parametrata” e che ha fatto infuriare l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco e - stando al quanto appurato dal Fatto – preoccupa anche i vertici dell’Agenzia delle Entrate, a partire dalla neo direttrice Raffaella Orlandi, allieva di Visco. L’intervento avrà effetto non solo per il futuro, ma anche per i processi in corso e quelli ormai conclusi per effetto del “favor rei”, per cui le disposizioni penali favorevoli valgono anche per il passato. Non solo, la norma è stata scritta in modo da sanare non solo i reati di infedeltà fiscale, come l’evasione, ma anche la Frode fiscale. Su un miliardo di reddito si può evadere o frodare il fisco fino a 30 milioni di euro.
E QUI ENTRA in gioco Berlusconi. L’altro contraente del patto del Nazareno (oltre Renzi, s’intende) è stato condannato per aver evaso il fisco, negli anni 2002 e 2003, per circa 7 milioni di euro, attraverso ammortamenti gonfiati dei diritti televisivi acquistati. È il residuo di una somma ben maggiore – i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro avevano calcolato in 368 milioni di dollari la cifra gonfiata ai fini dell’evasione fiscale – via via erosa dai tempi della prescrizione. Stando alla sentenza, nel 2002 l'importo evaso è di 4,9 milioni di euro su un reddito dichiarato di 397 milioni: l’1,2%. Sul 2003 si tratta invece di 2,4 su 312 milioni di euro: lo 0,7%. In entrambi gli anni la soglia del 3% non viene raggiunta. La percentuale è ancora più bassa se calcolata sul reddito vero (e non dichiarato), che per entrambi gli anni è superiore di qualche milione di euro. In questo modo il reato di frode non sussiste, e si paga solo la sanzione amministrativa. Cosa comporta? In gergo tecnico si chiama “incidente di esecuzione”: vista l’estinzione del reato, il condannato fa richiesta al tribunale, e il giudice fa decadere la sentenza di condanna. E con essa, in questo caso, non solo i servizi sociali - cui Berlusconi è stato assegnato - ma anche la pena accessoria, cioè l’interdizione (e quindi la decadenza da Senatore). È già successo ad altri condannati illustri, grazie proprio alle riforme berlusconiane (come quella sul falso in bilancio). Se così fosse, l’“agibilità politica ” per l’ex Cavaliere auspicata ieri da una fedelissima di Arcore come Stefania Prestigiacomo (Fi) come primo atto del prossimo inquilino del Colle sarebbe invece un dato già acquisito: “Serve un pacificatore”, ha spiegato. E invece è arrivata una manina in extremis. A poche settimane dall'inizio del round che porterà all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica, dopo le dimissioni di Giorgio Napolitano non è un dettaglio da poco. Tramontata definitivamente l'ipotesi di una convergenza con il M5S, i voti di Fi saranno decisivi per evitare una nuova empasse.
LA MANINA risolve molti problemi. Ed è orfana. Come confermato da più fonti, e ieri dal sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti (Sc), la norma è stata infatti inserita all’ultimo da Palazzo Chigi dopo che il Tesoro l’aveva bocciata. E anche nella forma peggiore. Per intenderci: quella cassata dal Mef prevedeva l’applicazione solo per l’evasione, non per la frode. La modifica è comunque passata al vaglio del dipartimento affari giuridici della Presidenza del Consiglio, guidato dalla renzianissima Antonella Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze. Secondo Visco la norma è un “enorme regalo ai grandi evasori”. A cui si aggiunge anche la triplicazione delle soglie di punibilità (da 50 a 150 mila euro) che - secondo il Sole 24 Ore - “farà saltare un processo su tre”. Zanetti ha auspicato una modifica (almeno per la frode). Tocca però a Matteo Renzi disporla.

il Fatto 4.1.15
Il magistrato: Il Colle non firmi
Violano la Carta: se sei ricco puoi evadere
di Bruno Tinti


Che si tratti di un regalo a B è fuor di dubbio. Perché, a certi livelli, l’ignoranza non è credibile. Si tratta del decreto attuativo della delega fiscale che arricchisce di una nuova soglia i reati fiscali: per commetterli bisogna che l’imposta evasa sia superiore al 3 % dell’imponibile o dell’IVA dovuta.
E che problema c’è, la legge penale tributaria già prevede soglie di punibilità al di sotto delle quali il reato non c’è. Soglia più, soglia meno... Invece il problema c’è, eccome. Perché le soglie sono differenti a seconda della gravità dei reati cui si riferiscono: la dichiarazione infedele ha una soglia di 50.000 euro, la frode fiscale di 30.000. Insomma, quanto più astute e pericolose sono le modalità con cui si evade, tanto più è giusto che l’evasore sia assoggettato a processo penale. Ma, nel progetto di Renzi&C, non si distingue tra i diversi reati: la nuova soglia li riguarda tutti, chi si limita a mentire e chi fa uso di fatture o altri documenti falsi.
E poi perché le soglie hanno uno scopo preciso, reso necessario dalla ferma determinazione degli italiani a frodare il Fisco: evitare di dover celebrare un numero sterminato di processi, anche per evasioni di modesta entità. Ma siccome tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, l’ammontare dell’evasione oltre la quale si è assoggettati a processo penale è uguale per tutti. Per questo le soglie esistenti sono oggettive, anche nel caso della soglia parametrata agli elementi attivi conseguiti nell’anno: i ricavi non sono reddito, debbono essere diminuiti dei costi. Vero, i costi possono variare da contribuente a contribuente, ma ad alti ricavi corrispondono in genere alti costi. E la percentuale della mancata indicazione di elementi attivi è uguale per tutti. Il sistema non è perfetto, ma non si è trovata soluzione migliore per evitare il processo penale a fattispecie di minima rilevanza.
MA LA NUOVA soglia è diversa: qui la percentuale è calcolata sul reddito. Più si è ricchi, più si può evadere senza correre il rischio del processo penale. Nel 2002 B ha evaso 4,9 milioni e, nel 2003, 2,4; ma, nel 2002, ha dichiarato un reddito imponibile di 397 milioni e, nel 2003, di 312. Per essere punito avrebbe dovuto evadere 11,9 milioni nel 2002 e 9,36, nel 2003. Un “poveretto”, che avesse evaso le stesse somme ma guadagnando “solo” 150 milioni nel 2002 e 200 nel 2003, sarebbe invece condannato e marcirebbe in prigione (si fa per dire). Invece B, in applicazione dell’art. 673 del codice di procedura, sarà solennemente riabilitato. L’irragionevolezza di considerare penalmente irrilevante l’evasione fiscale quanto più è ricco quello che la commette si commenta da sola. La stupidità di progettare una legge che dovrebbe essere bocciata in Commissione Affari Costituzionali, che non dovrebbe essere firmata dal Presidente della Repubblica e che, siccome queste due eventualità non si verificheranno certamente, la Corte Costituzionale scoperà via dall’ordinamento per flagrante violazione dell’art. 3 della Costituzione, è manifesta. L’arroganza di perseguitare i cittadini con una pressione fiscale micidiale e di processarne alcuni per evasioni che sono 10, 100, 1000 volte inferiori ad altre che si “perdonano” è intollerabile. Eppure questa gente sfrutta il potere che hanno conquistato per favorire amici e amici degli amici. Si chiama abuso d’ufficio; ma non se ne ricorda nessuno.

il Fatto 4.1.15
La tragedia
Vivere e morire sul Norman Atlantic
di Furio Colombo


L’impressione, benché sia quasi solo un augurio, è sempre la stessa: anno nuovo, vita nuova.
Quale vita? E, nel caso italiano, quale Paese? Sappiamo che cosa va e che cosa non va osservando il tragico evento del traghetto Atlantic. Ecco i fatti, che sappiamo, ma in parte, ma poco, con un ritardo che forse non è finito: un certo eroismo, molto bullismo, una parte ignota di eventi nel prima (come è cominciato?), mentre dura l’evento (perché l’emergenza continua?), nel dopo (chi ha salvato chi e quanti vivi, quanti morti, quanti dispersi, quanti imbarcati di propria iniziativa ci sono o c’erano?). Diremo che è un grave incidente che si sovrappone a un abituale disordine, grave per i danni che porta, anche quando, come il più delle volte, non c’è una emergenza? Situazione non bella ma aggravata da un dettaglio: notizie false.
Non è un denuncia, è una constatazione. Ci dice qualcosa del problema e ci aiuta a esprimere qualche desiderio per l’anno che viene. Cominciamo dalle notizie. Quelle che abbiamo ricevuto a poco a poco sul Norman Atlantic mentre l’evento era in corso hanno subìto, come si vede riguardando le sequenze sul telefono cellulare, tre distorsioni. Tutte le informazioni di base (quanti passeggeri, quanti italiani, quante persone messe in salvo, quanti bambini, quanti feriti, quante vittime) sono risultate sempre inesatte e senza fonte attendibile di riferimento. Il problema non era aggiornare, il problema era sapere, e non abbiamo quasi mai saputo ciò che accadeva. Poi è subentrata una euforica celebrazione, data anche come notizia dal presidente del Consiglio in persona, nel mezzo di un evento tragico dato per finito e invece in pieno svolgimento, con una attribuzione di merito (la stentorea lode al comandante restato doverosamente sulla nave) che si spiegava solo in relazione alla triste vicenda Schettino e che non aveva niente a che fare con la comunicazione di questo evento, apprezzabile perché doveroso. Seguiva altra euforica celebrazione di soccorsi, servita a coprire ritardi, errori, omissioni, narrati insieme agli episodi di rischio e di eroismo, sperando che questi ultimi cancellassero gli altri.
DUNQUE il Norman Atlantic (di cui, mentre scrivo, si ignora ancora il vero numero dei passeggeri e delle vittime) è diventato un buon modello della vita italiana: brave persone legate al proprio dovere o a un comportamento umano e civile, hanno dovuto mischiarsi con le orde del si salvi chi può (a meno che qualcuno non avesse qualcosa di peggio in mente) e a “irregolari” (non sappiamo quanti) stipati sulla nave. Ottimo pretesto comunque (barbari, estranei) per spiegare il disordine.
Notare che tutte le autorevoli affermazioni dedicate dal premier al tragico evento hanno costantemente schivato due temi essenziali: un traghetto così passa ogni giorno. Siamo sicuri che quell’incendio, grave e isolato, sia un fortuito incidente? E poi: il grave e pericoloso disordine che ha segnato tutte le sequenze e messo in pericolo anche i soccorritori, è stata un’inevitabile conseguenza dell’emergenza (che sarebbe stata molto più grave di quanto ci viene detto) oppure è ciò che accade fatalmente in Italia se c’è un disastro? A parte la magistratura, che dovrà accertare responsabilità, manca l’annuncio di un inchiesta di governo per riconoscere, con competenza e subito, dove e perché e a causa di chi, o di che cosa, un simile disordine e un simile pericolo hanno segnato un pubblico evento quotidiano.
Ma se il Norman Atlantic è una vicenda esemplare, e non esaltante, del comportamento e funzionamento della Repubblica in condizioni difficoltà, allora è un buon punto di partenza per dire che cosa ci manca per essere un po’ più fiduciosi nelle nostre istituzioni, di cui ci raccontano meraviglie, per poi abbandonarci in mare (la nave San Giorgio, orgoglio della marina italiana, è arrivata sul luogo trenta ore dopo l’allarme). Un inventario è facile e non lieto. Manca la fiducia. Hai fatto il tuo lavoro, il tuo dovere, hai pagato le tue tasse, rispetti leggi e regolamenti, compresi nuovi commi e nuove decisioni improvvisate. I cittadini restano soli.
La vera protesta, gridata in piazza o tenuta dentro come un incubo, non sono i mutamenti stravaganti e ingiusti con cui ti spostano continuamente il percorso. La vera protesta è contro lo Stato che non c’è, che se ne va, che sgombera. E quando torna, o tenta di ritornare, è un circo impazzito. I fatti sono sempre nascosti o imprecisi, imparziali o detti da qualcuno come uno sfogo e non sai mai se credergli o se si tratta di una vendetta contro l’abbandono. Qualcuno dirige. Ma passa il tempo a lodare se stesso. E ti fornisce subito un elenco di interventi, di iniziative, di idee che hanno cambiato la tua vita. Ma la tua vita non è cambiata. Se mai è peggiorata, come ti dicono cifre e statistiche e l’esperienza della giornata.
LA DESOLAZIONE è grande perché non riesci a vedere se e in che punto lo stato di confusione in cui ti hanno costretto a vivere coincida con i discorsi, i dibattiti e persino gli accesi scontri verbali che si svolgono intorno a te. Fuori dalla finzione televisiva o dalla notizia drammatica che dura un giorno, chi dovrebbero occuparsi di te ha altro da fare. Intanto la vita detta sociale, pubblica o politica, prosegue in disordine. Come ci insegna l’avventura, fra poco dimenticata, del Norman Atlantic, il disordine non ha né colpevoli né vittime, è un modo di vivere, una forma di aggregazione delle cose e persone in una certa fase di civiltà. Certo è l’Italia di oggi. Semmai qualche malintenzionato la usa come cortina fumogena per profitto, vantaggio o comportamento illecito. Tutto ciò riesce meglio che in un mondo di regole limpide e osservate. Ma se, esasperato, ti colleghi con i media, trovi solo celebrazione. In attesa di una breve e severa denuncia del prossimo Norman Atlantic, dei suoi errori, del suo terrore, dei suoi morti.

La Stampa 4.1.14
Accusa a Renzi: “Volo di Stato per le ferie”
Lui: “Ragioni di sicurezza”
Nessuno scandalo ma la scelta è stata inopportuna
di Cesare Martinetti

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Repubblica 4.1.15
Province, riforma-caos Mancano i soldi per servizi e lavoratori
Ancora incerto il destino dei 20mila dipendenti Allarme Upi: “Un ente su tre rischia il fallimento”
di Paolo Griseri


ROMA Il grande freddo arriverà a fine primavera. A dirlo sono i gufi o, al contrario, Cassandre incomprese? I funzionari dell’Upi, l’Unione delle Province italiane, riassumono la situazione con un dato: «Calcoliamo che a fine marzo il trenta per cento delle Province sarà impossibilitato a presentare il bilancio di previsione del 2015». Frase sibillina per chi non mastica di finanza pubblica. Ma la traduzione è drammatica: senza bilancio di previsione, le Province rischiano il dissesto e il commissariamento. Una su tre è sull’orlo del baratro.
Si dirà: ma non dovevano comunque scomparire? «In realtà dice Marco Zatini, sindacalista della Provincia di Firenze - quelli che rischiano davvero sono i dipendenti e i cittadini. I primi perché non sanno quale sarà il loro futuro, i secondi perché verranno tagliati i servizi». I dipendenti delle Province italiane sono 43 mila e di questi 18-20 mila verranno trasferiti ad altri enti perché, dice la riforma Delrio, sono oggi impegnati in funzioni che passeranno a Comuni e Regioni. «Sarà la più grande operazione di trasferimento nella storia della pubblica amministrazione italiana», dicono all’associazione delle Province. Un trasloco che rischia però di bloccarsi per mancanza di soldi. Perché la storia della riforma ha tre problemi da risolvere: il gran numero di dipendenti dichiarati non più utili nelle nuove amministrazioni provinciali, la distribuzione ad altri enti locali dei compiti un tempo attribuiti alle Province e i soldi che scarseggiano. Tre nodi intrecciati con conseguenze potenzialmente drammatiche.
A rendere esplosiva la situazione è stata la legge di stabilità che ha preteso dalle Province il versamento di un obolo di un miliardo alle casse dello Stato. Inizialmente c’era una logica. Le Province italiane hanno un bilancio complessivo di 8 miliardi di euro. Di questi, 2 sono destinati agli stipendi e 6 ai servizi al cittadino. Dimezzando i dipendenti grazie alla riforma Delrio, le Province avrebbero risparmiato un miliardo di euro e lo avrebbero potuto girare allo Stato mantenendo inalterata la spesa per i servizi al cittadino. La Legge di stabilità è arrivata a metà di questo processo e ha imposto una accelerazione: le Province devono pagare il miliardo già nel 2015 anche se le funzioni e il personale non saranno trasferite e peseranno dunque sui loro bilanci. Di conseguenza, le amministrazioni provinciali dovranno tagliare servizi ai cittadini per il valore complessivo di un miliardo. Chi non lo farà, rischia il dissesto.
In default sono già andate nei mesi scorsi due amministrazioni, una di una località ricca come Biella e una del povero Sud come Vibo Valentia. A Vibo il Presidente, Andrea Niglia, ha deciso di non pagare a dicembre stipendi e tredicesime: «Devo ringraziare per la loro comprensione tutti i 379 dipendenti del nostro ente provinciale. Ma siamo veramente in difficoltà. Abbiamo denaro sufficiente a scaldare le scuole solo per quaranta giorni. Così quest’anno niente tredicesime: Babbo Natale ci ha portato il carbone ».
L’alternativa sarebbe quella di trovare presto una sistemazione ai 20 mila dipendenti in sovrannumero, come si dice con un eufemismo. 6.000 potrebbero essere assunti nei centri per l’impiego, dove già lavorano oggi come dipendenti provinciali. Il loro nuovo datore di lavoro dovrebbe essere l’Agenzia nazionale per l’impiego che dovrebbe essere istituita dai decreti del Jobs act. Il condizionale è obbligatorio e vale anche per i 1.000 precari degli stessi centri. Rimarrebbero così 14.000 persone in esubero. Nelle settimane scorse si è tentato di far passare un norma sul prepensionamento di chi nel 2018 avrà raggiunto i 62-63 anni. Ma l’emendamento è saltato. Avrebbe consentito di mandare in pensione circa 4.000 dipendenti. Secondo il semplice gioco dell’anagrafe invece andranno in pensione entro il 2019 circa 2.000 persone. Ne rimarranno così 12 mila da sistemare in quattro anni. «Anche se venissero tutti collocati nelle amministrazioni regionali e comunali, rimarrebbe il problema delle funzioni non trasferite», fanno notare all’Upi. Il rischio è che i dipendenti in esubero delle Province sostituiscano i posti lasciati liberi dai pensionati di Regioni e Comuni ma non si portino dietro la loro funzione. Se un cantoniere finisce nella pianta organica della Regione, chi ripara la strada? Il secondo problema è l’enorme tappo sociale che si creerà nelle pubblica amministrazione. Quanti precari degli altri enti perderanno il lavoro per far posto ai dipendenti in esubero provenienti dalle Provincie?
Eppure senza un trasloco rapido, i bilanci delle Province faranno crack. Perché non potranno garantire gli stessi servizi dello scorso anno con un miliardo in meno da spendere. Lunedì scorso la Provincia di Terni ha diffuso uno scarno comunicato stampa: «Il servizio viabilità ha a disposizione soltanto 300 quintali di sale a fronte di una necessità di almeno due tonnellate e mezza». Pertanto, «in caso di nevicate o ghiacciate improvvise, le operazioni di emergenza potrebbero non essere garantite in tempi rapidi». Dal grande freddo si salvi chi può.

Repubblica 4.1.15
Il presidente dell’Unione delle Province Italiane
“Alla fine pagheranno i cittadini”
di P. G.


ROMA Alessandro Pastacci, presidente dell’Unione delle Province Italiane e della Provincia di Mantova, non usa giri di parole: «Le vere vittime di questa riforma saranno i cittadini».
Presidente, non è d’accordo con la riforma?
«La responsabilità non è della riforma in sé. Se si fossero accettati i tempi stabiliti dalla legge Delrio le cose si sarebbero potute aggiustare. La vera mazzata è stata la legge di stabilità che ha preteso dalle Provincie ben un miliardo di versamenti prima che avessimo la possibilità di risparmiarlo».
Avete fatto presente questa incongruenza al governo?
«Abbiamo subito spiegato che in quel modo non ce l’avremmo potuta fare. Ci hanno risposto che, secondo loro, invece è possibile».
Perché teme che questo braccio di ferro finisca per danneggiare i cittadini?
«Perché non è pensabile che noi nel 2015 riusciamo a pagare lo stesso personale del 2014 garantendo gli stessi servizi ai cittadini e spendendo un miliardo in meno sugli otto complessivi che spendono ogni anno le Provincie».
E dunque?
«E dunque è chiaro che quel miliardo verrà trovato riducendo le prestazioni ai cittadini».
Quali prestazioni?
«Quelle che la legge considera non essenziali per i nuovi enti provinciali ma che rischiano di esserlo invece per gli abitanti di questo Paese. Perché si possono anche garantire solo scuole e strade ma che fine faranno i servizi di trasporto per i disabili? E i musei e le biblioteche provinciali? Passeranno ad altri enti? E con quali denari verranno pagati? Questi sono gli interrogativi per i quali chiediamo che venga una risposta dal governo. Non lo facciamo per difendere un ente ma agiamo nell’interesse dei cittadini che oggi usufruiscono di quei servizi. Il rischio è che nel trasferimento delle funzioni da un ente all’altro finiscano semplicemente per essere cancellati ».
(p. g.)

il Fatto 4.1.15
Com’è triste la Svezia: ha scoperto la xenofobia
Attacchi alle moschee. L’imam: ”La società si sta rivoltando contro di noi”
di Carlo Antonio Biscotto


L’ondata di islamofobia che percorre l’Europa non ha risparmiato nemmeno la Svezia, la nazione delle porte aperte agli immigrati, delle politiche di accoglienza, della convivenza pacifica tra razze e culture. Il giorno di Natale, il Centro islamico Dawa di Eskilstuna è stato dato alle fiamme mentre all’interno si trovavano 70 persone in preghiera. Per fortuna non ci sono stati né morti né feriti. L’incendio al Centro islamico Dawa è stato il terzo degli ultimi dieci giorni contro le moschee svedesi. “Abbiamo lasciato il nostro Paese come profughi. Non cercavamo da mangiare né volevamo privilegi di sorta. Ci stava a cuore solo la sicurezza”, ha detto Abdirahman Farah Warsame, imam della moschea di Eskilstuna, originario della Somalia. “Purtroppo anche la sensazione di essere al sicuro qui in Svezia se n’è andata insieme alle fiamme. La società svedese si sta rivoltando contro di noi”.
LA MISCELA esplosiva costituita dalla guerra in Siria e dall’instabilità nel Corno d’Africa e nel Medio Oriente in generale, ha creato una ondata inarrestabile di migranti che cercano rifugio in Europa alimentando nel vecchio continente, irrazionali sentimenti di odio verso gli immigrati: odio che si dirige prevalentemente contro la comunità islamica di cui si teme il fanatismo religioso. In tutti i Paesi europei sono allo studio misure più severe in materia di controllo delle frontiere e la paura di una immigrazione incontrollata ha contribuito alle fortune dei partiti di estrema destra in Gran Bretagna, Danimarca, Francia e Ungheria. Le autorità tedesche hanno denunciato oltre 70 attentati contro le moschee tra il 2012 e il 2014 e la polizia britannica sottolinea l’incremento dei reati commessi contro cittadini musulmani, i cosiddetti “crimini da odio”.
Ordinaria amministrazione, verrebbe da dire. Ma in Svezia la xenofobia e l’islamofobia erano sentimenti relativamente sconosciuti fino a pochissimo tempo fa. Ancora oggi la larghissima maggioranza degli svedesi è favorevole alle politiche di accoglienza nei confronti degli immigrati e dei profughi che risalgono a scelte politiche fatte ormai 65 anni fa. Gli analisti ritengono che vi sia una motivazione precisa dietro la serie di intimidazioni agli islamici: una strana “coincidenza” fra le violenze e l’accordo fra i partiti svedesi per evitare elezioni anticipate e tenere a distanza il partito xenofobo dei Democratici Svedesi, che alle ultime elezioni aveva più che raddoppiato (da 20 a 49) i deputati al Riksdag. Venerdì scorso migliaia di svedesi si sono spontaneamente riuniti dinanzi al Palazzo reale di Stoccolma e in altre città del Paese in segno di solidarietà con la comunità musulmana, colpita il giorno prima dall’ennesimo attentato contro una moschea, questa volta un lancio di bottiglie molotov a Uppsala.
OGNI GIORNO i notiziari e i quotidiani danno notizia di sbarchi di clandestini sulle coste del Mediterraneo e la leggendaria tolleranza degli svedesi viene messa a dura prova. La Svezia, stando ai dati forniti dall’Istituto sulla Migrazione di Washington, è il terzo Paese europeo, dopo la Germania e la Francia, come numero di richiedenti asilo e il secondo, dopo Malta, se si tiene conto del numero degli abitanti. Nel 2013 la Svezia, che conta 9,5 milioni di abitanti, ha ricevuto 54mila richieste di asilo: nel 2014 la cifra è ancora approssimativa ma si calcola quasi il doppio: più di Regno Unito e Italia. Il conflitto siriano ha fatto esplodere il numero dei richiedenti asilo e, di conseguenza, ha gettato benzina sul fuoco contribuendo al clamoroso risultato elettorale dei Democratici svedesi, una formazione di estrema destra che con 20 seggi è entrata per la prima volta in Parlamento, nello scorso settembre.
La presenza dei Democratici svedesi in Parlamento ha aperto il dibattito su questioni considerate acquisite e non più negoziabili, quali l’assistenza sanitaria a tutti gli stranieri per ragioni umanitarie. Ora tutti i diritti degli immigrati vengono messi in discussione.
Il professor Adrian Groglopo, che insegna scienze sociali all’Università di Goteborg, studia da dieci anni il fenomeno della discriminazione nella società svedese ed è giunto alla conclusione che in Svezia esiste di fatto la segregazione e che il successo politico dei Democratici ha sdoganato il razzismo rendendolo socialmente accettabile.
“Sono tempi duri in Svezia. Oggi si sentono discorsi un tempo impensabili. Si fanno apertamente affermazioni razziste. È crollato ogni genere di tabù, come se ci fosse stato un silenzioso colpo di Stato”, conclude con amarezza.

Repubblica 4.1.15
Si farà il processo italiano contro l'Operazione Condor
Decine di migliaia di persone scomparse e uccise negli anni '70 in sette Paesi sudamericani contro il timore 'rosso': a febbraio nove imputati nel nostro Paese per la morte di 30 uomini e donne di origine italiana
di Daniele Mastrogiacomo

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Corriere 4.1.15
Bruxelles
Detenuto chiede e ottiene l’eutanasia Dopo di lui altri 15 lo seguono
Frank Van Den Bleeken, 52 anni e da 30 in galera: «In carcere soffro troppo». L’esecuzione domenica prossima, ma le famiglie delle vittime protestano
di Luigi Offeddu

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Corriere 4.1.15
Nella citta’ di Champlan, in Francia «Tombe esaurite» per la piccola rom
Il sindaco: viene prima chi paga tasse
Maria Francesca, 2 mesi, è morta la notte di Natale per la sindrome del lattante
Il primo cittadino nega sepoltura: «Pochi posti, precedenze chiare»
di Elisabetta Rosaspina

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Repubblica 4.1.15
Fuad Hussein
La minaccia dello Stato islamico
“Dieci anni fa ho profetizzato l’Is ma l’Occidente non mi ha creduto”
Era tutto calcolato i jihadisti stanno ottenendo quello che volevano
L’obiettivo è chiaro: trascinare gli Usa in guerra per indebolirli
di Antonello Guerrera


GLI attentati contro Usa e alleati, le primavere arabe, il reclutamento di giovani jihadisti su Internet, la nascita del califfato di Al-Baghdadi. Eventi recenti, per lo più inattesi, che hanno sconvolto il mondo. Ma che già dieci anni fa, nel 2005, un libro aveva profetizzato, azzeccandone addirittura tempi e date, in un’agghiacciante fiction a puntate che si chiude nel 2020: l’anno “della vittoria finale del califfato”.
Il saggio in questione, all’uscita bollato come “assurdo” da alcuni esperti, si intitola “Al Zarqawi – La seconda generazione di Al Qaeda”. Sinora è stato pubblicato solo in arabo e lo ha scritto Fuad Hussein: giornalista giordano di 58 anni, acuto esperto della galassia jihadista e soprattutto ex “coinquilino” in carcere di Abu Musab Al Zarqawi, l’ex leader di Al Qaeda in Iraq seppellito nel 2006 da 280 chili di bombe americane a Baquba. Riscorrere oggi le centinaia di pagine dell’opera di Hussein è stupefacente. Perché molti avvenimenti degli ultimi anni in Medio Oriente si incastrano, quasi perfettamente, nella “Agenda 2020” di Al Qaeda, e cioè un piano ventennale del gruppo terrorista per demolire i nemici e fondare il grande califfato. Una strategia ricostruita da Hussein con documenti e testimonianze dirette. «Era tutto calcolato, i jihadisti stanno ottenendo quello che volevano», conferma Hussein a Repubblica.
Hussein non è un terrorista, ma un giornalista molto critico con il regno giordano. Per i suoi ostici articoli in piena “rivolta del pane”, nel 1996 viene incarcerato per qualche settimana a Suwaqa, 85 chilometri a sud di Amman, bollente focolaio dell’estremismo islamico. Qui conosce, tra gli altri, il qaedista Al Zarqawi e il suo mentore spirituale, il salafita Abu Muhammad Al Maqdisi. «Mi dicevano di non parlare con quei due, non essendo un islamista», ricorda. E invece, l’impavido Hussein sfrutta l’occasione: si presenta al «calmo» Al Zarqawi come «un giornalista indipendente che vuole raccontare la sua storia», ne ottiene la fiducia davanti a una «calorosa tazza di tè» ed entra nelle segrete di Al Qaeda, allora guidata da Osama Bin Laden, attingendone tattiche e segreti. Tanto che Hussein riesce ad agganciare persino l’inafferrabile qaedista egiziano Saif Al Adel, tuttora ricercato dagli Usa dopo la strage dell’ambasciata americana di Nairobi nel 1998.
È proprio da queste soffiate che, nel 2005, nasce il libro-profezia di Hussein. Il piano 2020 di Al Qaeda, oggi incarnato dallo Stato Islamico (Is) e altri gruppi terroristi, si divide in sette fasi, sempre più vicine alla realtà. La prima è “il risveglio” e va dall’11 settembre alla caduta di Saddam, nel 2003. La guerra “globale” ha inizio e il messaggio degli jihadisti «comincia a essere ascoltato in tutto il mondo». Come oggi l’Is attraverso le sue orride decapitazioni in streaming, l’obiettivo è lo stesso: «Trascinare gli Usa in guerra, per indebolirli», afferma Hussein, riecheggiando l’ Ascesa e declino di Paul Kennedy. «E infatti i militari americani stanno già tornando in Iraq. Al Baghdadi applica il terrore mediatico già professato da Al Zarqawi. I jihadisti non perseguono più attacchi in grande stile, vogliono vincere ai punti».
Nella seconda fase dell’Agenda 2020, “Aprire gli occhi” (2004-2007), Al Qaeda da organizzazione si tramuta in movimento, cosa parzialmente avvenuta. «Al Qaeda oggi non ha più una struttura piramidale», spiega Hussein, «ma è diventata un’idea, cui si ispira ogni nuova generazione jihadista, e quindi lo Stato Islamico ». Ma in questa fase ci sono altri tre aspetti cruciali: «Il reclutamento di giovani», anche occidentali, «l’espansione della propaganda » grazie ai nuovi mezzi tecnologici, e «l’istituzione di un esercito, con l’Iraq snodo nevralgico delle operazioni». Tutte cose messe in pratica, anche dall’Is.
La terza fase, quella della “rivolta” (2007-2010), è la meno riuscita: si parla di attacchi in Turchia, Israele e Giordania che in gran parte falliscono. Ma è con la quarta fase, il “recupero”, che il libro combacia paurosamente con la realtà: dal 2010 al 2013 si parla esplicitamente di guerra agli «odiosi regimi arabi sostenuti dagli Usa» e della loro caduta, con conseguente indebolimento di Israele. In pratica, si preannunciano con sei anni di anticipo le “primavere arabe”, effettivamente esplose a inizio 2011. Eventi dalle variegate concause, ma che, tra le altre cose, hanno riattizzato la miccia jihadista in paesi come Libia e Siria. «La democrazia rimane un sogno», sottolinea Hussein, «le controrivoluzioni come in Egitto, dove i Fratelli Musulmani sono stati spazzati via, rappresentano purtroppo un’ulteriore vittoria dei jihadisti, perché molti arabi penseranno che i movimenti islamici non potranno mai arrivare al potere democraticamente». Intanto, lo Stato ebraico ha in effetti perso alleati, come la Turchia dopo l’incidente della “Freedom Flotilla” nel 2010.
Si arriva così alla quinta fase. Perché già dieci anni fa l’Agenda jihadista prevedeva, tra 2013 e 2016, «l’instaurazione di un grande califfato islamico». E, guarda caso, l’Is lo istituisce ufficialmente nel 2014, dopo aver occupato ampie fette di Siria e Iraq. La “sesta fase” (2017-18), invece, è quella della “guerra totale” tra “fedeli e infedeli”, come aveva previsto Bin Laden. Uno scontro di civiltà à laHuntington. Le cui avvisaglie, per Hussein, si possono rintracciare nei raid aerei contro lo Stato Islamico. «È uno scenario molto realistico», spiega, «a differenza della guerra in Iraq nel 2003 adesso ci sono molti più paesi a sostenere l’America».
La settima fase della “profezia” è anche l’ultima. Per i terroristi, come riporta Hussein, sancirà la “vittoria finale” del califfato, che avverrebbe nel 2020 «grazie al supporto di un miliardo e mezzo di fedeli musulmani». Una lettura troppo ottimistica, vista la respingente brutalità dell’Is. Ma per Hussein, «il Califfato di Al Baghdadi è oramai un’entità insormontabile e questo purtroppo anche per gli errori dell’Occidente. Che, tra la disastrosa gestione dell’Iraq post-Saddam, il supporto dei regimi arabi e l’ingigantimento mediatico di nemici come Al Zarqawi e l’Is, spinge molti musulmani nelle mani dei jihadisti. Ormai lo Stato Islamico è radicato nel territorio, ha una valanga di soldi e seguaci e, grazie al caos in Siria e Iraq, non farà altro che rafforzarsi. I raid aerei sono inutili. Per sconfiggere l’Is servono truppe di terra. Ma questo, paradossalmente, è proprio ciò che vogliono i jihadisti».

Repubblica 4.1.14
L’America contro le armi: “Stavolta batteremo le lobby”
“Referendum in ogni Stato per vincere la nostra battaglia”
La tragedia dei bimbi di Newtown non ha insegnato nulla al mio Paese
di Adam Gopnik


CHE I GENITORI dei bambini massacrati due anni fa a Sandy Hook, nei pressi di Newtown, nel Connecticut, da un ventenne con un fucile semi-automatico Bushmaster, stiano facendo causa contro il produttore di armi è una notizia confortante e al tempo stesso terribilmente sconfortante. La parte confortante è che quei genitori, pur colpiti da un dolore che noi meri testimoni possiamo a malapena immaginare, nonostante il fallimento del tentativo di reintrodurre il bando delle armi d’assalto per impedire la prossima strage, non si sono lasciati andare alla disperazione. Come Richard Martinez, il cui figlio è stato ucciso da un’arma che non sarebbe mai dovuta finire nelle mani di un pazzo, o di chiunque in realtà, questi genitori vogliono esprimere la loro rabbia e trasformarla in azione: fanno il nome dell’azienda che ha contribuito a uccidere i loro figli e chiedono al giudice di condannarla. La denuncia presentata merita di essere letta per intero, per quanto possa essere penoso, non solo per le incredibili sofferenze e crudeltà che descrive riguardo a quella terribile mattina, ma anche perché offre, con una logica stringente, un argomento indiscutibile: il produttore di armi è colpevole di aver venduto un’arma il cui unico scopo è quello di uccidere molte persone in pochissimo tempo. Nonostante l’Atf, l’Agenzia per alcolici, tabacco, armi da fuoco ed esplosivi del Dipartimento della Giustizia, avesse già dichiarato che tali armi «hanno una funzione nel crimine e nel combattimento, ma nessuno scopo sportivo», la Bushmaster le ha vendute lo stesso e proprio per il fatto che sono in grado di uccidere rapidamente molte persone. «Forze di opposizione, arrendetevi. Siete in minoranza e dovete cavarvela da sole», si legge nell’opuscolo pubblicitario.
La denuncia è sconfortante perché la lobby della morte per armi da fuoco ha propugnato con successo delle misure legislative che tutelano i fabbricanti di armi, caso quasi unico tra i produttori americani, dal poter essere ritenuti responsabili delle morti causate dai loro prodotti. Se una casa automobilistica fa una macchina estremamente pericolosa e ne pubblicizza la pericolosità, se ne dovrà assumere le conseguenze. La lobby delle armi ne è, o crede di essere, immune. Alcuni esperti hanno evidenziato i principi giuridici che potrebbero far trionfare la ragione, ma è difficile pensare che questo accada. (I giudici di destra tendono, attualmente, a essere più creativi di quelli liberali nel creare dei precedenti giuridici che nessuno avrebbe mai immaginato possibili.) In effetti, uno dei paradossi di tutta questa storia è che vige già da molto tempo un divieto sulle armi automatiche — mitragliatrici — la cui legittimità non è messa in discussione nemmeno dalla National Rifle Association o dai suoi alleati. Al massimo, tendono a fare uno sdegnato distinguo tra vere e proprie mitragliatrici e mere armi semi-automatiche, tra cui il Bushmaster. (Negli anni Venti, la disponibilità dei mitra Thompson dava ai gangster una netta superiorità in termini di potenza di fuo- co rispetto alla polizia.) Ma in tutta la discussione sulle armi legali e illegali, automatiche e semi-automatiche — come anche in quella sulle persone con turbe psichiche — si tralascia il punto centrale, che è molto semplice: dovrebbe essere molto, molto difficile, come lo è in ogni altro Paese civile, mettere le mani su un’arma il cui unico scopo è quello di uccidere la gente in fretta. La National Rifle Association e loro alleati lo rendono invece molto, troppo facile.
La politica sul controllo delle armi è sempre stata la stessa: la maggioranza degli americani è d’accordo sul fatto che ci dovrebbero essere limiti e controlli in materia di fabbricazione, vendita e possesso di armi destinate solo a uccisioni di massa, e soltanto una piccola minoranza ritiene, con una passione fanatica, che non ci dovrebbero essere né limiti, né controlli. In un processo noto a qualsiasi studente di sociologia, la maggior parte delle persone che sono a favore di una politica di buonsenso rispetto alle armi si preoccupa anche di molte altre cose, cose a cui pensa molto più spesso; quelli che vanno matti per le armi pensano ad esse continuamente, e votano su questo tema con fanatica assiduità.
Su alcuni temi su cui vorremmo che scelte sane e dettate dal buonsenso avessero la meglio sul fanatismo e l’irrazionalità, sembra che l’elaborazione mentale non sia ancora finita o addirittura del tutto cominciata. Nella vita pubblica, ci sono argomenti su cui esiste un’elaborazione mentale, ma c’è ancora da fare un’elaborazione morale. O, per dirla in altre parole, l’elaborazione intellettuale non è ancora completa anche se l’ispirazione prende il volo. Il tema dei matrimoni omosessuali non è che l’ultimo esempio a dimostrazione del fatto che, quando c’è un’elaborazione mentale, può iniziare l’opera morale e ne consegue un risultato giusto: si è dovuto analizzare a fondo ciò che cinquant’anni fa era impensabile, e poi si è fatto. All’altro estremo, è ovvio che la nostra analisi sul capitalismo e le sue disuguaglianze e sul come porvi nuovi rimedi è appena iniziata; il movimento Occupy è crollato per questo motivo. Lo stesso vale per il grave problema della violenza sessuale nelle Università: l’elaborazione mentale del mettere ordine tra l’ovvio diritto delle donne di non subire violenze sessuali e quello degli accusati di non subire accuse non dimostrate si è avviata solo adesso. Si sa che il lavoro intellettuale non è finito quando si rivolge agli alleati naturali — a persone che sono inclini a essere d’accordo con noi, ma sono preoccupate per le conseguenze trascurate della nostra posizione.
Ma sul problema del controllo delle armi, indipendentemente da quanto possiamo sembrare lontani da una soluzione sana, le discussioni pubbliche sono finite. Invece di rivolgersi solo agli alleati naturali, se ne aggiungono continuamente di nuovi, e tra questi gli elettori che hanno respinto il tentativo di eliminare i controlli e le remore sulla vendite delle armi alle ultime elezioni. Nessuna persona onesta o scrupolosa può più ignorare la prova che il controllo sulle armi è un controllo sulla violenza armata. È una prova che può essere respinta solo dalla rabbia, dall’isteria e dal non voler riconoscere la realtà, invocando il Secondo Emendamento non come se fosse un documento con una storia specifica e sorprendente, ma un dogma semi- teologico. Si è definitivamente dimostrato che la discussione è tra quelli che realmente vogliono ridurre il numero di massacri con armi da fuoco e quelli che preferiscono restare attaccati a dei simboli di potere letali. (Ci sono altri simboli dell’autonomia personale più sicuri per i bambini.) La maggioranza è lì e il lavoro mentale è stato fatto. Ciò significa che, anche se il lavoro morale — un lavoro di persuasione, di convinzione, e di chiara denuncia — deve proseguire, possiamo essere sicuri che andando avanti vincerà, in futuro. Nulla è più irresistibile di un’idea che è vera. Pezzo per pezzo, con nuove denunce e nuove leggi, saremo liberati da questa maledizione. Il tempo, la forza di carattere e la pazienza vinceranno. È la convinzione che i vittoriani chiamavano “progressismo”, e che è ancora presa poco sul serio. Ma il bello è che sembra sia vera. Ci sono molte questioni — la stragrande maggioranza — su cui abbiamo bisogno di un pubblico e continuo confronto. Su alcune, non lo facciamo. Il controllo delle armi ferma la violenza armata. Avere un’arma da fuoco non è un deterrente rispetto al crimine; lo rende solo più letale. Trasformare queste verità indiscutibili in una legislazione necessaria è il lavoro di persuasione, di denuncia e di legislazione da fare. Finito il lavoro mentale, il lavoro morale va avanti, spesso in una modesta invisibilità. Ogni giorno, accade qualcosa di buono a livello statale o locale che rende un po’ più difficile procurarsi le armi, e un po’ più sicure le famiglie. Che questo si realizzi un po’ più in fretta è una speranza razionale, e un augurio opportuno in queste feste.
(Copyright The New Yorker. Traduzione di Luis E. Moriones)

Morto a 70 anni il sociologo tedesco che ha spiegato le dinamiche della mondializzazione e le minacce che ne conseguono su scala planetaria
La religione uccide.
La Stampa 4.1.15
Il paradosso della religione globalizzata
di Ulrich Beck


Se vogliamo comprendere la religione nel mondo moderno dobbiamo capire il paradosso della globalizzazione della religione. La religione non è solo incidentalmente globale nella sua espansione, un sottoprodotto della globalizzazione di strutture più potenti come i mass media, il capitalismo e lo Stato moderno. Piuttosto la formazione e la diffusione globale della religione in generale, e delle religioni monoteiste in particolare, è una caratteristica essenziale che definisce quelle religioni fin dai loro inizi. In effetti, alcune religioni sono «attori globali» da più di duemila anni. Pertanto, al fine di comprendere il gioco del meta-potere che ridefinisce il potere nell’era globale, dobbiamo prendere in considerazione, oltre al capitale globale, ai movimenti della società civile, ai protagonisti statali e alle organizzazioni internazionali, il ruolo delle religioni come forze modernizzanti o anti-modernizzanti nella società mondiale post-secolare.
Per la religione un postulato è assoluto: la Fede - a suo confronto tutte le altre differenze sociali e contrapposizioni non sono importanti. Il Nuovo Testamento dice: «Tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio». Questa uguaglianza, questo annullamento dei confini che separano le persone, i gruppi, le società, le culture è il fondamento sociale delle religioni (cristiane). Un’ulteriore conseguenza, tuttavia, è questa: una nuova fondamentale distinzione gerarchica è stabilita nel mondo con lo stesso valore assoluto delle distinzioni politiche e sociali che sono state annullate: la distinzione tra credenti e non credenti. Ai non credenti (sempre secondo la logica di questa dualità) vengono negate l’uguaglianza e la dignità di esseri umani. Le religioni possono costruire ponti tra le persone dove esistono gerarchie e frontiere; allo stesso tempo aprire nuove voragini determinate dalla fede là dove prima non ve n’erano.
Fu Paolo, un ebreo ellenizzato che, più di ogni altra figura nel movimento nato attorno a Gesù, trasformò il cristianesimo da setta ebraica a forza religiosa globale con una visione universalistica. Fu lui ad abbattere i muri: «Non c’è né ebreo né greco, non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina». L’universalismo umanitario dei credenti si basa sulla identificazione con Dio - e su una demonizzazione degli avversari di Dio che, come erano soliti dire Paolo e Lutero, sono «servi di Satana». Questa ambivalenza tra tolleranza e violenza può essere suddivisa in tre elementi: le religioni del mondo A) rovesciano le gerarchie prestabilite e di conseguenza i confini tra nazioni e gruppi etnici; sono in grado di farlo, nella misura in cui B) creano un universalismo religioso di fronte a cui tutte le barriere nazionali e sociali diventano meno importanti; simultaneamente, si manifesta il pericolo che C) alle barriere etniche, nazionali e di classe si sostituiscano quelle tra i credenti nella vera fede da un lato e i credenti nella fede sbagliata e i non credenti dall’altra. Questo è il timore che si sta diffondendo: che il rovescio della medaglia del fallimento della secolarizzazione sia la minaccia di un nuovo secolo buio. La religione uccide.
Traduzione di Carla Reschia

La Stampa 4.1.15
Ulrich Beck, è il rischio quel che resta della modernità
di Massimiliano Panarari


Se la nostra è l’era della globalizzazione, con la scomparsa di Ulrich Beck se ne va uno dei suoi pensatori più lucidi e significativi. Il sociologo (nato nel 1944) è morto improvvisamente a Capodanno in seguito a un attacco di cuore, dopo avere contrassegnato con la sua riflessione acuta e le sue categorie originali (da «seconda modernità» a «società del rischio») lo sforzo di comprendere i processi dell’ultima ondata di mondializzazione e le dinamiche del nostro tempo.
Ed è stato proprio lui - professore a Monaco e alla London School of Economics, e militante della corrente riformista dei Verdi tedeschi - ad averci illustrato meglio di chiunque altro quanto la minaccia ambientale su scala globale abbia cambiato la nostra percezione del pianeta. Nell’epoca della dipartita della vetusta figura dell’intellettuale organico, Beck ha rappresentato un modello di studioso dalla rinnovata vocazione civile, espressa per vie molteplici: dalla collaborazione autorevole con Der Spiegel alla funzione di riferimento culturale (almeno all’inizio) del governo rosso-verde di Gerhard Schröder e Joschka Fischer, sino al contributo dato all’elaborazione della Terza via (anche in virtù della comunanza scientifica che lo legava ad Anthony Giddens, assieme al quale aveva codificato il concetto di modernizzazione riflessiva).
Il sociologo tedesco si era riproposto di indagare il mondo nuovo e pieno di inquietudini della Risikogesellschaft, la «società del rischio», esito peculiare della tarda modernità; espressione che ha dato il titolo alla sua opera più famosa, scritta poco dopo l’esplosione del reattore nucleare di Chernobyl, la tragedia ecologica assurta a emblema dei numerosi rischi (di natura anche sociale, politica, sanitaria, alimentare) a cui risulta esposta l’umanità contemporanea. Lo studioso fa di questa nozione la chiave interpretativa per avanzare una teoria generale delle società industriali avanzate, descrivendo le trasformazioni radicali che investono l’esistenza quotidiana di ciascuno nella pluralità dei ruoli che si trova a dover rivestire (cittadino, genitore, figlio e lavoratore, tra i tanti).
La società del rischio diventa così la categoria per dare significato a un Villaggio globale dove è andata perduta la nettezza dei confini tra natura e cultura ed è tramontata la funzione di orientamento della tradizione, mentre si moltiplicano i mutamenti climatici e i drammi ecologici (dal buco nell’ozono al global warming, sino al morbo della «mucca pazza»), manifestazioni di un’incontrollata attività del genere umano. Il rischio si configura quindi come l’orizzonte ineliminabile, disgregatore di sicurezza, dell’individuo nell’epoca della seconda modernità riflessiva, caratterizzata dall’incremento esponenziale dell’incertezza, dalla disintegrazione delle identità e appartenenze della sua prima fase (come la nazione o la classe) e dall’imporsi, da un lato, dell’antipolitica e, dall’altro, della subpolitica dei poteri tecnici e specialistici (finanza, medicina, giustizia) sempre più egemonici.
Nell’ultimo periodo, l’analisi di Beck si era fatta via via maggiormente critica nei confronti della globalizzazione di segno neoliberista, caricandosi di preoccupazione per l’aumento delle disuguaglianze sociali e per una precarietà che da lavorativa si è convertita in esistenziale. Ma non aveva mai finito per indulgere al catastrofismo, continuando a sperare nelle potenzialità positive della tarda modernità e nelle loro facoltà di liberare energie verso stili e tempi di vita più soddisfacenti e libertari, fino al coronamento dell’obiettivo massimo di una «modernità responsabile», fondata su una democrazia al tempo stesso ecologica e tecnologica.
Pur detestando l’industrialismo e il fordismo (per i quali non provava alcuna nostalgia) e non lesinando critiche all’eredità dei Lumi, Beck si è scagliato in maniera durissima contro il postmodernismo, collocandosi, sulla scia di Habermas, nel solco di un pensiero che continua a professare il suo atto di fiducia nei confronti del Progetto moderno, di cui si devono superare le contraddizioni mediante la radicalizzazione e il rilancio del messaggio di emancipazione. Il progresso, in buona sostanza, va guarito dai suoi mali (attraverso un rinnovato cosmopolitismo europeista e un’inedita forma di «illuminismo ecologico»), e non rigettato. E Beck si è rivelato capace come pochi di cogliere l’ambivalenza costitutiva di questa nostra età globale (come nel caso della caoticità degli affetti derivante dalla crisi del paradigma della famiglia tradizionale). Tra i suoi tanti libri: Il normale caos dell’amore (1996), Modernizzazione riflessiva (con A. Giddens e S. Lash; 1999), Che cos’è la globalizzazione (1999), La società del rischio (2000), I rischi della libertà (2000), Lo sguardo cosmopolita (2005), Europa tedesca (2013).

Repubblica 4.1.15
Ci mancherà il suo contributo alla nostra coscienza
di Zygmunt Bauman


ULRICH Beck, scomparso il 1° gennaio scorso all’età di 70 anni, è stato uno dei maggiori sociologi del nostro tempo. E certamente la sua statura era destinata a crescere ancora, come l’inarrestabile impatto della sua influenza intellettuale. Una figura unica per la sua straordinaria profondità, l’acuta capacità percettiva, l’eccezionale sensibilità ai mutamenti sociali e culturali, l’ineguagliabile originalità del suo pensiero. Per gli studiosi del suo campo è stato una fonte di ispirazione e un fervido richiamo all’azione. Ma il suo impatto intellettuale ha trasceso i limiti del suo ambito professionale. La voce di Ulrich Beck – le sue diagnosi, valutazioni, previsioni e avvertimenti, sono stati ampiamente ascoltati, con viva attenzione.
Assai più che uno studioso ligio ai doveri ristretti di un’attività accademica, per vocazione Beck era la personificazione dell’intellettuale pubblico, in ragione del ruolo e delle posizioni che ha assunto: un modello cui gli studiosi di scienze sociali aspirano ardentemente, anche se a pochi è dato raggiungerlo con tanto vigore, efficacia e dedizione.
È difficile, forse impossibile, immaginare la temperie, il tenore dell’attuale dibattito politico, l’ampiezza e la profondità della nostra consapevolezza collettiva senza i molteplici e vari contributi di Ulrich Beck, la sua insaziabile curiosità nell’esplorare i meandri della vita moderna, la sua capacità di individuare prontamente e mettere a fuoco le sue realtà con osservazioni precise e pregnanti, e la sua predisposizione a quella che gli antichi chiamavano “parresia”: a rendere conto dei risultati delle sue ricerche senza cercare giustificazioni né scendere a compromessi, con libertà, fierezza e candore, attenendosi alla coscienza, giudice supremo dei comportamenti umani e guida sicura nella ricerca di verità dello studioso.
Questa morte prematura ci lascia tutti più poveri. Traduzione di Elisabetta Horvat

La Stampa 4.1.15
La «tomba» di Osiride scoperta a Luxor da un’équipe italo-spagnola


Un nuovo complesso architettonico dell’antico Egitto è stato scoperto a Sheikh Abd el-Gourna (Luxor), all’interno della tomba inedita Kampp 327, da una missione archeologica italo-spagnola co-diretta dalla toscana Irene Morfini e dalla canaria Maria Milagros lvarez Sosa. L’estrema importanza di questa tomba consiste nella sua architettura, che rappresenta un modello della mitica tomba di Osiride, il dio degli inferi, di cui la replica più nota è stato finora considerato l’Osireion di Abido. Dopo una sala trasversale sostenuta da cinque colonne, una scalinata scavata nella roccia conduce a un complesso dedicato alla divinità. Una statua di Osiride si trova all’interno di una cappella con un soffitto a volta nel bel mezzo di una struttura complessa. Davanti 
alla statua si trova una scala con un pozzo tagliato, che scende per circa 9 metri, portando a una camera e a un secondo pozzo di circa 6 metri 
di profondità, che termina nella parte più profonda del monumento. 
La statua di Osiride è circondata da un corridoio, destinato a isolare e proteggere la parte più importante del complesso.

Repubblica 4.1.15
L’olio dimezzato nel Paese che dimentica
Il raccolto del 2014 è stato come, nel secolo XIX in Irlanda, la peste della patata. Eppure nei negozi non manca. E se ci fosse di mezzo la Cina?
di Guido Ceronetti


Un giorno, una quarantina d’anni fa, d’estate, nello spazio di una grande azienda che produce in generosa quantità olio extravergine d’olivo regionale tipico italiano, in buona parte destinato all’esportazione, trovai che tutti i bidoni che l’occupavano, scaricati là da uno o due giorni, erano certificati come extravergine di provenienza d’Andalusia. disposti a pagarlo qualunque prezzo, i clienti di ristoranti di New York o di San Francisco, o dell’allora Nomenklatura di Mosca, gli appassionati del vero olio italiano, andalusi compresi, avrebbero gustato Olio garantito italiano miscelato, se va bene, dai chimici della Ditta, al cinquanta per cento. Nelle famiglie della stessa regione ti offrivano l’olio incontestabile di loro produzione come gioielli della corona. Non fu mai sovrabbondante l’olio d’oliva italiano. Quando finiva la scorta bisognava aspettare la nuova annata. Quasi mezza Italia, la settentrionale, non ne produce che in Liguria — un resto, perché oscenamente cementificata — e in qualche fazzoletto ad ulivi lo suscita miracolosa la riviera, specie la orientale, del Garda, una benedizione per le diete più leggere. In Liguria l’olivo più invidiabile è il taggiasco. Quanti ettari saranno? Ma gli ettolitri in commercio li trovi ovunque: tutto di taggiasco!
In queste annate di sciagura, l’olio extravergine italiano, già flagellato dal taglio degli uliveti e reso dubbio dalle miscelature crescenti, ha subìto il castigo da arca noachide dei diluvi alluvionali. Il raccolto del 2014 è stato come, nel secolo XIX, in Irlanda, la peste delle patate. Una perdita straziante, eppure... L’olio con cui si condisce di più la pasta il coltivatore privato, è esposto con tutte le garanzie di legge, senza una goccia persa, nelle scansie dei supermercati. Vuoi vedere che, non bastando più l’imbastardimento andaluso (e da un pezzo, ormai) l’extravergine dopo aver divorato l’olio del Maghreb, è arrivato a sgattigliare, sempre più italianato, l’imperturbabile, sempre pronta a fornire di tutto, Cina?
L’Italia anela a far zampillare petrolio (olio di pietra, la parola significa) mentre la sua gloria millenaria, più tenace di un muraglione d’acquedotto romano, l’Ulivo, grazie alla finissima sensibilità ecologica dei suoi petrolchimici governi, difende alla disperata i suoi spazi da cui è sparito il sole, su cui macabre nubi cariche pendono come drappi funebri mesi interi, stagioni intere, annate intere! E c’è ancora qualche regale metaforista che definisce “paese del sole” questa insozzata penisola? Ripizzicare il sole verso l’Appennino non sarebbe tanto facile; ripulire ambiente, tamponare il disastro ambientale, impegnarci il servizio civile volontario, soccorrere l’ulivo, sarebbe invece più che possibile se si avesse una percezione vera di quel che sia un insieme di priorità, etiche e materiali, non dilazionabili.
Alla fine del secolo scorso, un grande pensatore contemporaneo, il greco Cornelius Castoriadis scriveva questa semplice, lucida verità: “la questione dell’ambiente implica, evidentemente, la totalità della vita sociale. Dire che bisogna salvare l’ambiente è dire che bisogna cambiare radicalmente il modo di vivere della società tutta quanta, e rinuncia a questa sfrenata corsa ai consumi. E questo non è niente di meno che porre l’autentica Questione politica: l’insieme di problemi politici, psicologici, antropologici, filosofici che investono, in tutta la loro profondità, l’umanità contemporanea”.
Questi sono gli appelli da fare ai giovani, invece di insaccarli nel nulla arcinichilista della società tecnologica in vista di una economia senza l’uomo, contraria al genio della vita.
Esisteva in Toscana, non ricordo dove, fino a pochi anni fa, un ulivo piantato, si diceva, al tempo dell’imperatore Tiberio. Una notte, alcuni imbecilli vennero, lo segarono, lo bruciarono. Gli Dei della terra raccolsero e non dimenticarono il sangue dell’ulivo di Tiberio.

Repubblica 4.1.15
Andre Geim Mister Grafene
Fisico bestiale
È il Nobel che ha scoperto (“rovistando per caso nella spazzatura”) questo rivoluzionario materiale
L’abbiamo incontrato e la scoperta l’abbiamo fatta noi parlando di tutto tranne che di scienza
“L’umanità non è intelligente e non sopravviverà così com’è”
di Enrico Franceschini


MANCHESTER LE PARETI D’INGRESSO sono ricoperte da una di quelle lunghissime equazioni che si vedono talvolta sulle lavagne degli scienziati: numeri, lettere di vari alfabeti, parentesi tonde, quadre, graffe, radici quadrate. L’equazione è suddivisa in “forze”, “materia” e “Higgs”, immagino un riferimento al celebre bosone, sebbene non abbia la minima idea di cosa davvero sia. Entrare nella facoltà di Fisica della Manchester University, una delle migliori del mondo, dove hanno insegnato Alan Turing, decifratore del Codice Enigma, e l’astrofisico Brian Cox, metterebbe soggezione a chiunque. Se poi a entrare è uno che in fisica, al liceo, non ha mai capito nulla, la situazione assume toni tragicomici. Diventa un’impresa chiaramente disperata quando, salito al secondo piano del venerabile istituto, varcato il corridoio intitolato “gruppo della materia condensata”, bussato alla porta del professor Andre Geim, il malcapitato visitatore lo saluta in russo, sperando di guadagnare così benemerenze, visto che fino ai trentadue anni d’età il futuro premio Nobel e “padre” del grafene ha vissuto in quella che allora era chiamata Unione Sovietica, beccandosi invece una gelida, spazientita risposta: «Mi dica dunque lei in che lingua vogliamo condurre l’intervista, inglese, russo o italiano?». Fortunatamente, quello del Nobel venuto dal freddo non è gelo: è humour, un umorismo russo-ebraico-tedesco-inglese, frutto delle diverse radici ed esperienze di una vita straordinaria. Non sempre riconosciute come spiritosaggini, le sue battute gli hanno procurato qualche incomprensione, all’inizio della carriera accademica: ma stavolta lo scienziato prepara un cappuccino, ne offre uno al suo interlocutore (declino – ancora troppa soggezione) e si scioglie in un amabile sorriso. Paragonato a Newton (lo scopritore della gravità) e a Einstein (l’inventore della relatività), a cinquantasei anni Andre Geim ha tali e tanti estimatori che si predice di Nobel farà in tempo a vincerne un altro, per una seconda scoperta. La prima sarebbe sufficiente a garantirgli una fama imperitura: i suoi studi sul grafene, miracoloso materiale che ha lo spessore di un atomo ma la resistenza di un diamante e la flessibilità della plastica, promettono di rivoluzionare il mondo come l’acciaio e appunto la plastica hanno fatto in precedenza. L’ eureka moment, il momento della scoperta, come ha ricordato lui stesso tante volte, venne quasi per caso, tirando fuori dal cestino della spazzatura i rimasugli di un esperimento che credeva finito male. Ma prima sono venuti tanti anni di studi e ricerche, che Geim continua a fare, insieme alla moglie, fisico pure lei, con l’ufficio di fianco al suo.
Gli racconto di essere arrivato a Mosca come corrispondente di Repubblica, nel 1990, proprio quando lui stava lasciandola come emigrante. «Tutti i gusti son gusti», commenta, di nuovo un po’ acido, tra un sorso di cappuccino e l’altro. Ma lui perché se ne andò? Ricordo che se c’era una cosa che funzionava, in Urss, era la comunità scientifica, in particolare la fisica, il ramo legato alle conquiste spaziali e all’industria militare. Geim, per di più, viveva e lavorava in una delle “cittadelle della scienza”, luoghi riservati ai migliori studiosi, con più agi che nel resto del paese. «Se avessi saputo che cosa mi aspettava in Occidente, me ne sarei andato ancora prima», risponde. «Non mi riferisco a denaro o comfort personali, ma alla mia produttività come scienziato, che diventò di colpo molto più alta. È vero, la scienza aveva un posto di rilievo in Urss. Ma c’è sempre stato un problema di efficienza. Il programma spaziale costava agli Stati Uniti, all’epoca della guerra fredda, l’un per cento del Pil. All’Urss costava il cinquanta per cento. E nei primi anni Ottanta, quando ho cominciato il mio lavoro di fisico, a Mosca era già iniziato il declino che ha portato un decennio dopo al crollo dell’Unione Sovietica, quindi le cose funzionavano ancora peggio, anche per noi scienziati. Io volevo fare ricerca. Per la ricerca servivano fondi ed efficienza di costi. Il posto per farla, mi resi conto, non era la Russia».
Gli domando come fu l’impatto con l’Inghilterra. «Facile e difficile al tempo stesso. Facile per le succitate ragioni: tutto funzionava bene e i fondi alla ricerca erano generosi. Difficile per problemi linguistici, il mio inglese era povero, e anche per qualche incomprensione culturale. Ricordo una cerimonia di benvenuto in cui lo speaker si disse felice di avere finalmente un russo in questa facoltà. Un russo, gli chiesi io, e chi è? Ma è lei, mi risposero ridendo. Solo che io non mi sono mai sentito russo. In Russia ero schedato fin dal passaporto come “tedesco”, un tedesco del Volga, come ci chiamava Stalin, una delle tante minoranze discriminate dell’Urss. E inoltre un ebreo, per parte di nonna materna. Sono cresciuto con due insulti nelle orecchie: nazista e giudeo, non male come accoppiata. Potevo sentirmi sovietico, ma l’Unione Sovietica ben presto non ci fu più. E allora cos’ero?». Un europeo? «Sì, ma è un’identità culturale, non nazionale. Gli Stati Uniti d’America sono cementati da una lingua comune, l’inglese. L’Europa purtroppo no, e ci vorranno generazioni prima che diventi davvero unita ». Non resisto a chiedergli il suo giudizio su Gorbaciov: ha fatto bene o male al proprio paese? «So che ha molti ammiratori all’estero, ma cercate di capire perché ne ha pochi in patria. È stato un pasticcione. Ha creduto di poter fare la democrazia rapidamente e poi di ottenere una specie di Piano Marshall dall’Occidente per fare anche il capitalismo. Doveva fare il contrario, invece, come la Cina, prima l’economia di mercato, poi la transizione alla democrazia, e oggi la Russia sarebbe più democratica di com’è. Ora c’è Putin, che non piace all’Occidente, ma piace al novanta per cento dei russi. Chiedetevi il perché anche di questo. E lasciate passare cinquant’anni. Poi vedrete che la Russia sarà più civile e democratica. Il guaio dell’Occidente è che pensa di poter imporre il proprio modello, costruito nell’arco di secoli, a qualsiasi paese in pochi mesi o anni. E passi imporlo alla Russia: vorrebbe imporlo anche all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria. Una follia».
Gli dico che parla come Kissinger: forse dovrebbe scrivere anche di affari internazionali, non solo di fisica. Ma era la fisica l’oggetto del nostro appuntamento. Allora, pensa davvero che il grafene cambierà il mondo? Sospira. È una domanda stupida, lo sento, ma dovevo farla, è quel che l’uomo della strada (specie a cui appartengo) vorrebbe sapere. «Il grafene ha stabilito un nuovo paradigma». Cioè? «Ha aperto un portone, una strada. Oggi si lavora su molti materiali che possiamo chiamare fratelli e sorelle del grafene, materiali di cui fino a poco tempo fa, fino al 2007, nemmeno conoscevamo l’esistenza. In sette anni sono stati fatti passi da gigante. Allora c’erano cento aziende che facevano ricerche sul grafene, ora ve ne sono tante migliaia. Ha sicuramente il potenziale di cambiare il mondo come lo ha cambiato la plastica». Stephen Hawking, l’astrofisico che ha scoperto il Big Bang e i buchi neri, predice che vedremo fantastiche scoperte nei prossimi dieci anni. «Non sono un fan di Stephen Hawking. Lui ormai fa l’indovino e dice cose senza pezze d’appoggio. Io dico semplicemente questo: se lei prende una matita e tira una riga su un foglio, poi la ingrandisce un’infinità di volte con un microscopio, vedrà tracce di grafene. L’uomo ha avuto sotto il naso per cinquecento o mille anni questa scoperta che ora può cambiare il mondo, ma non se n’era mai accorto. Siamo circondati di potenziali scoperte simili. Dobbiamo solo imparare a vederle». A proposito di cambiamenti, lei si sente cambiato dal Nobel? Geim prepara un altro cappuccino. Riflette. «No e sì. Sono la stessa persona di prima, uno scienziato, non mi sento più arrogante. Ma grazie al Nobel ho conosciuto tanta gente famosa, ricca e potente e ho così potuto scoprire che non sono persone molto intelligenti. Ecco questo forse avrei preferito non scoprirlo. La razza umana non è fatta di creature molto intelligenti. Io amo gli individui, ma non ho un gran rispetto della razza umana nel suo complesso».
Visto che non siamo animali tanto intelligenti e che abbiamo di fronte ogni tipo di problemi, il cambiamento climatico, il deficit di risorse energetiche, le guerre, le malattie, l’estremismo, lei pensa che sopravvivremo? «No». Altro sorso di cappuccino. Oddio, ma è una notizia spaventosa. «Non sopravvivremo nella nostra forma attuale», riprende. «Ci evolveremo in un’altra forma». Sospiro di sollievo (mio). «Ci stiamo già evolvendo. La nuova forma si chiama “società globale”. È una creatura infinitamente più complessa del vecchio Homo Sapiens. Gli esseri umani sono contenuti al suo interno come minuscoli atomi, come le molecole che compongono una materia. Grosso modo l’Homo Sapiens è durato cinquantamila anni. Vedremo cosa diventerà questa nuova creatura, la società globale, tra altri cinquantamila anni. Non lo vedremo io e lei, ma i figli dei figli dei nostri figli». Anche il professor Geim ha una figlia, quattordicenne. Che consigli dà alla sua bambina? E ai bambini, ai ragazzi, ai giovani di oggi? «Un consiglio banalissimo. Per avere successo, bisogna lavorare duramente, molto duramente. Mia figlia va a una scuola privata qui a Manchester ed è una delle prime della classe. Qui si calcola tutto in percentuali, per cui lei sa di essere nel cinque per cento al top della scuola come risultati accademici. Ma per avere successo non basta, bisogna essere nei piani alti di quell’uno per cento al top». Mi vengono in mente le tiger mom che costringono i figli a un’infanzia infelice di solo studio, ma il premio Nobel mi tranquillizza: «Mia figlia è una ragazzina normale, ha hobby, fa sport, gioca con le amiche. L’abbiamo portata con noi fin sul monte Etna e sullo Stromboli, l’estate scorsa, e si è divertita moltissimo. Avete vulcani e montagne meravigliose, in Italia ». A questo punto siamo diventati amici: il premio Nobel insiste di nuovo per offrirmi un cappuccino, scherza sulla burocrazia italiana e confessa che l’Amarone è il suo vino preferito. Mi sento come se avessi superato l’esame (di fisica). Sarei quasi tentato di chiedergli di spiegarmi, prima di andarmene, cosa diavolo è esattamente il bosone di Higgs.

Repubblica 4.1,15
Combattenti. Margarethe von Trotta
di Elena Stancanelli


Figlia di un pittore, nata a Berlino, ha vissuto in Francia e a lungo anche in Italia. Ha iniziato come attrice ma presto è diventata una regista dura e coraggiosa.
“Ingmar Bergman mi disse che voleva smettere di girare, ma vedendo il mio Anni di piombo aveva ritrovato la spinta per continuare”.
Conserva ancora un legame forte con il nostro paese, anche se i suoi ultimi lavori hanno avuto maggior fortuna altrove: “La forza economica della Germania non suscita simpatia, ma forse non sono i tedeschi a essere meno incisivi in campo culturale: sono gli altri che hanno meno voglia di ascoltarci”

FIRENZE MARGARETHE VON TROTTA HA UN LEGAME forte col nostro paese, parla italiano molto bene, ha vissuto qui a lungo. «Ero a Roma anche il giorno della caduta del Muro, tanto per dire». È una donna bella e minuta. L’ho incontrata a Firenze, al Festival internazionale di cinema delle donne. In quell’occasione si è visto il suo ultimo film, Hannah Arendt, quasi inedito in Italia. «Una strana scelta della distribuzione», mi spiega. «È uscito soltanto per un giorno, il Giorno della memoria, l’anno scorso. Meglio così», ride, «ci hanno creduto così poco che per fortuna neanche l’hanno doppiato... almeno quello!». Ha ragione, sarebbe stata una barbarie. Barbara Sukowa, che interpreta la filosofa con superba intelligenza, parla in un americano molto sporcato dal tedesco. Così come la cerchia degli intellettuali suoi amici passa dall’una all’altra lingua, a seconda dell’intensità della conversazione. Hannah Arendt ha avuto successo ovunque, dal Festival di Toronto, dove è stato presentato, a tutti i paesi in cui è stato distribuito. Tranne che da noi, appunto.
Figlia di un pittore, Alfred Roloff, la von Trotta è nata a Berlino durante la guerra, settantadue anni fa, e dopo aver studiato arte, germanistica e lingue romanze, si è trasferita a Parigi negli anni Sessanta. Ha iniziato a lavorare nel cinema come attrice, per Fassbinder e per Volker Schlöndorff, che poi sposerà. E insieme al quale dirigerà il suo primo film, Il caso Katharina Blum, tratto da un romanzo di Heinrich Böll. Nel 1981, quando esce Anni di piombo — il suo film che racconta la storia delle due sorelle, Christiane e Gudrun Ensslin, la terrorista morta nel 1977 nel carcere di Stammheim insieme agli altri componenti della banda Baader-Meinhof — diventa una regista di culto. «Ero in giuria a un festival », racconta. «Il presidente era Ingmar Bergman. Lui mi aveva voluto, insieme a Jeanne Moreau e Suso Cecchi d’Amico. Mi prese da parte e mi disse che qualche tempo prima aveva pensato di lasciare il cinema. Era stanco, demotivato, non gli piaceva più niente. Poi aveva visto Anni di piombo . Non solo lo aveva amato moltissimo, ma gli aveva dato il coraggio di continuare, l’entusiasmo per riprendere a lavorare. Quasi non ci credevo, lo ascoltavo e pensavo lo dicesse per lusingarmi. Considero Bergman il mio maestro, da sempre, immenso, inarrivabile. Due anni più tardi, gli chiesero per il festival di Göteborg quali fossero i suoi dieci film preferiti. Tra Fellini e Kurosawa mise, di nuovo, Anni di piombo ». Protagonista del film era Barbara Sukowa (scopro che si pronuncia Sùkowa) e non si può parlare del cinema della von Trotta senza parlare di questa attrice, che è parte di lei. «Abbiamo appena finito di girare il nostro settimo film insieme. Del resto anche Bergman lavorava sempre con gli stessi attori, Fellini aveva Mastroianni. Sono degli alter ego, delle proiezioni. Eppure tra me e Barbara non è stato facile all’inizio. In Anni di piombo lei si comportava in modo scostante. Era violenta, rabbiosa. Soltanto dopo ho capito che faceva così per via del suo personaggio. Era diventata una specie di terrorista, era diventata Gudrun Ensslin. Infatti quando abbiamo girato Rosa L. si è trasformata nella Luxemburg. Barbara Sukowa è una delle attrice più intelligenti che conosca. Non avrei potuto fare Hannah Arendt con nessun’altra. Quando si prepara, legge tutto quello che ho letto io, e anche di più. In Rosa L. c’è un discorso contro la guerra, che io avevo trovato negli scritti politici della Luxemburg e l’avevo messo nella sceneggiatura. Barbara è venuta e mi ha detto: “Ne ho trovato un altro, secondo me è più bello”. Ed era vero, così abbiamo usato quello che aveva trovato lei. Quando hanno proiettato il film in Israele, durante questo discorso sulla pace la gente in sala ha iniziato ad applaudire. È stato incredibile: parole scritte contro la Prima guerra mondiale sembrava parlassero della loro situazione, di questi anni». E infatti la Sukowa per quell’interpretazione ha vinto la Palma d’oro a Cannes nell’86.
Sono gli anni in cui la von Trotta vive nel nostro paese, anni di grandi accadimenti storici che non possono non influenzare la sua opera. Nel 1988 esce un film fascinoso girato a Pavia, Paura e amore. Scritto con Dacia Maraini, interpretato da Fanny Ardant, Greta Scacchi e Valeria Golino, tre cechoviane, malinconiche sorelle. «Lo aveva prodotto Angelo Rizzoli il quale era reduce dalle sue faccende giudiziarie. È stato il primo film che ha prodotto quando è uscito dal carcere. Mi chiesi perché in quella situazione volesse fare un film con una tedesca. Forse per tenersi un po’ in disparte, laterale rispetto alla realtà italiana. Non a caso il suo secondo film l’avrebbe poi fatto con Michalkov. Adesso penso che Rizzoli, in quegli anni, avesse paura dell’Italia, degli italiani. Avremmo dovuto fare un altro film insieme, ma lui ha avuto di nuovo problemi con la giustizia. Era il 1992, e l’Italia era sotto assedio. Dopo gli attentati in cui morirono Falcone e Borsellino, io e il mio compagno di allora (il produttore Felice Laudadio) ci chiedemmo cosa fare, come esprimere la nostra rabbia. Eravamo cineasti, e dunque avremmo fatto un film. Facemmo Il lungo silenzio , lavorando tutti gratis. Il film non è mai uscito. Era la storia di un magistrato ucciso dalla mafia e facemmo un’anteprima a Palermo. In un cinema, il Lux, che era già stato bruciato due volte dai mafiosi. Tra il pubblico c’era la vedova del giudice Terranova che mi aveva dato il suo testamento, perché lo usassi nel film. E la moglie di Bonsignore, un funzionario della Regione anche lui ucciso dalla mafia. Lei si è alzata in piedi e ha detto “mio marito non era giudice, era solo un impiegato normale ma è stato assassinato anche lui”. Poi si è guardata intorno e ha aggiunto “e tutti voi sapete chi l’ha ammazzato”. La gente si è spaventata, così i gestori, i distributori. E il film è sparito. Il lungo silenzio è stato il mio ultimo progetto italiano. Sono tornata in Germania, e ho fatto un film sul Muro: La promessa. L’ho scritto insieme a Felice Laudadio e al mio amico Peter Schneider». Anche la mattina in cui cadde il Muro, Margarethe von Trotta era in Italia, a Roma nella sua casa di via del Pellegrino. «Qualche settimana prima avevo parlato con la mia cara amica Christa Wolf, la scrittrice scomparsa alcuni anni fa. Ci vedevamo ogni tanto, e parlavamo del nostro paese, del futuro, delle nostre speranze. Cinquant’anni, mi disse lei, non ci vorranno meno di cinquant’anni prima che il Muro possa essere abbattuto. Quella notte tra l’8 e il 9 novembre del 1989, mi addormentai ignara di tutto. La mattina comprai il giornale e quasi svenni. Poi sono scoppiata piangere». Si commuove ancora mentre racconta, le trema la voce. «Singhiozzavo, e la gente mi guardava, chiedevano se avessi bisogno di aiuto, forse pensavano che avessi delle terribili pene d’amore». Le chiedo del suo ultimo film, appena finito di montare, protagonista sempre Barbara Sukowa. È una biografia? «No, per un po’ basta con donne che hanno fatto la storia. Stavolta parlo di me, della mia famiglia. Si intitolerà Ich bin der Welt abhanden gekommen ( Sono ormai perduto al mondo ), come un famoso lieder di Mahler. Musicalmente fratello dell’adagetto della quinta Sinfonia, quello usato da Visconti in Morte a Venezia ». Ancora un riferimento, l’ennesimo, all’Italia. Non le sembra che, in corrispondenza dell’esplosione economica, la Germania abbia perso un po’ della sua potenza culturale? Come se lo spiega? «Mi sa che esser forti economicamente non susciti gran simpatia. Ma forse non siamo noi a essere meno incisivi, sono gli altri ad aver meno voglia di ascoltarci».

Il Sole Domenica 4.1.15
Filosofia politica
Bobbio e Marx
di Sebastiano Maffettone


Per Norberto Bobbio, Karl Marx era un grande classico, nel senso che appartiene al passato ma serve anche oggi a pensare. Ma non era nel Pantheon degli autori prediletti della modernità con Hobbes, Locke, Rousseau, Kant e Hegel. La ragione di questa solo apparente contraddizione sta nel fatto che Bobbio considerava assai importante parte dell'analisi di Marx, a cominciare dall'interpretazione materialistica della storia, ma non era per nulla convinto dall'afflato "religioso" del Marx rivoluzionario. Bene hanno fatto così Cesare Pianciola e Franco Sbarberi a rendere diffusa la consapevolezza di questo atteggiamento bobbiano, pubblicando e commentando gli inediti di Bobbio su Marx.
Il volume che li raccoglie, intitolato con sobrietà che Bobbio avrebbe apprezzato Scritti su Marx, pubblica manoscritti e appunti bobbiani – che vanno dall'inizio degli anni 1940 alla fine del secolo scorso – conservati presso il Centro Studi Pietro Gobetti di Torino e riordinati con acribia filologica. Il volume è diviso in cinque aree tematiche e storiche: marxismo teorico in Italia, Manoscritti e giovane Marx, Studi sulla dialettica, Marxismo e Stato, Marxismo e scienze sociali (cui si aggiungono le lettere a Macchioro e Sylos Labini). Nella prima parte, emerge una lettura critica della recezione italiana di Marx, con la proposta di Labriola, la sostanziale bocciatura – diversamente motivata – di Croce e Gentile, la ripresa dellavolpiana del tema. A questa si aggiunge la discussione sempre viva che Bobbio ebbe con il marxismo di Gramsci e con la sua teoria dell'egemonia, con Mondolfo, e con il liberal-socialismo. Si può solo aggiungere, da questo punto di vista, che gli autori del marxismo italiano non sono, neppure da noi, letti e studiati abbastanza nonostante il loro livello teorico per nulla trascurabile. Le parti del volume su dialettica e ruolo dello stato in Marx, confermano quel quadro di luci e ombre che, come si diceva, caratterizza la lettura tutta di Marx da parte di Bobbio.
La rilevanza del momento economico è un elemento essenziale della lezione di Marx così come invece la carenza di quello istituzionale la rende meno utile. La discussione sui Manoscritti del 1844 getta luce anche sul complesso rapporto tra Bobbio e il 1968 (non gli piaceva troppo pur amandone lo spirito libertario e la voglia di cambiamento). Nel complesso si può solo dire che, al di là delle disparità di tono e livello che necessariamente caratterizzano un volume di scritti inediti come questo, la tesi centrale di Bobbio su Marx – sarebbe a dire un classico ma da prendere con le molle – è nella sostanza condivisibile.
Se andiamo a consultare le opere di Marx ci accorgiamo poi che Marx scrisse tantissimo sul capitalismo e assai poco sul comunismo, e che in sostanza la pars destruens e l'analisi critica del capitale sono quello che conta nella sua opera, mentre la pars cosntruens e il rimedio (il comunismo) lasciano il tempo che trovano. Buona ragione quest'ultima per studiare Marx, ripetendo con lui stesso e con Bobbio: «io non sono marxista!».

Norberto Bobbio, Scritti su Marx: Dialettica, stato, società civile testi inediti a cura e con una introduzione di Cesare Pianciola e Franco Sbarberi, Donzelli,
Roma, pagg. 128, € 19,50

Il Sole Domenica 4.1.15
Teoria della curiosità generale
«Cercate di meravigliarvi» è la ricetta che Einstein ripeteva alle ammiratrici
A cent'anni dalla relatività generale, l'eredità (anche morale) del grande fisico
di Carlo Rovelli


«Non ho speciali talenti. Sono soltanto appassionatamente curioso». Così descriveva se stesso Albert Einstein nel 1952, pochi anni prima di morire. Di lui, entrato nel mito, girano moltissime citazioni, per lo più false, usate a proposito e sproposito per sostenere le idee più strampalate. La pubblicazione della prima tranche delle sue opere complete è buona occasione per ricordare qualcuno dei suoi pensieri genuini, che ci mostrano l'intelligenza, ma sopratutto la profondità del grandissimo scienziato, e ci aiutano a comprendere le ragione per cui ha tanto affascinato il mondo. Il punto di partenza di Albert Einstein, senza dubbio, è stato un rifiuto istintivo e assoluto dell'autorità. Ben prima di scrivere i suoi grandi lavori, ancora ragazzo, nel 1900, scrive con la spavalderia degli adolescenti: «Il rispetto dell'autorità non pensa ed è il più grande nemico della verità». La sottile ironia di essere arrivato, anni dopo, a rappresentare lui stesso l'autorità nella scienza non gli sfugge: nel 1930, divenuto famoso, scrive: «Per punirmi per il mio disprezzo per l'autorità il destino ha fatto un'autorità di me stesso». Ma dell'adorazione del pubblico Einstein diffida. Nel 1922 scrive all'amico Zangger: «Adorato oggi, attaccato o perfino crocifisso domani, questo è il fato di coloro dei quali – Dio sa perché – si impossessa l'annoiato pubblico».
La gioia Einstein la trova nello studio e nei risultati concreti. Traspare nei momenti del successo, come quella di un bambino che è riuscito a fare bene qualcosa. Nel 1919, la spedizione inglese guidata da Eddington fotografa un'eclisse totale e trova la prima spettacolare conferma delle predizioni della relatività generale. Einstein manda una cartolina alla mamma: «Cara mamma! Oggi una notizia gioiosa: Lorentz mi ha telegrafato per dirmi che la spedizione inglese ha veramente provato la deflessione della luce vicino al sole!». Ma la soddisfazione più intensa non è nel successo, è nella strada: in una calda lettera al figlio, che andava a lezione di pianoforte, Einstein offre il miglior consiglio possibile a un giovane che studia: «Cerca sopratutto di suonare quello che piace a te, anche se l'insegnante ti dice di fare altro. È così che si impara meglio: quando stai facendo qualcosa con un tale piacere che non ti accorgi che il tempo vola». È il 1915, l'anno in cui arriva a trovare le equazioni della relatività generale.. Non che Einstein non facesse anche lui fatica a imparare. A una bambina che gli scrive lamentandosi della difficoltà con i numeri, risponde: «Non ti angosciare per le difficoltà che hai con la matematica. Quelle che ho io sono ancora più grandi». E ancora a una bambina, che gli chiede se gli scienziati pregano, risponde con disarmante candore: «Gli scienziati pensano che tutte le cose che succedono, comprese le faccende umane, siano regolate dalle leggi della natura. Quindi uno scienziato non può essere incline a pensare che il corso degli eventi possa essere influenzato dalla preghiera». Un'altra ragazzina gli scrive una prima lettera senza dire che è una ragazza e poi una seconda lettera scusandosi di esserlo, e dicendogli che essere femmina le pesa, avrebbe voluto fare la scienziata, ma come ragazza è difficile. La risposta di Einstein (siamo nel 1946, di donne nella fisica ce ne sono ancora davvero poche) è senza esitazione: «Che importanza ha per me che tu sia una ragazza? La cosa più importante è che non deve avere alcuna importanza per te. Non c'è alcuna ragione perché tu te ne preoccupi». Nello stesso anno, nell'America di ben prima delle lotte per i diritti civili degli anni Sessanta, quando ancora in tanta parte del paese i neri non potevano sedere negli autobus dei bianchi, Einstein, parlando alla Lincoln University non ha dubbi in proposto: «Esiste una separazione in America fra la gente di colore e i bianchi. Questa separazione non è una malattia della gente di colore. È una malattia della gente bianca». Se vi sembra un pensiero scontato, ripetetelo cambiando «America» con «Italia», «di colore» con «immigrati», e «bianchi» con «italiani». Ancora più limpido è il suo rifiuto dell'idea di fedeltà a una patria, a una religione, a un gruppo: «Sono per eredità un ebreo, per cittadinanza uno svizzero, ma per natura un essere umano, soltanto un essere umano, senza speciale attaccamento ad alcuno stato, nazione, o entità qualunque». Splendido. Siamo nel 1918. L'Europa ha appena finito il suo primo conflitto sozzamente generale in nome delle patrie, e già si appresta al secondo, un paio di decenni dopo.
Molti anni dopo, nel 1950, in tarda età, questo suo genuino sentire è diventato più posato, più vasto, più profondo: «Un essere umano è parte del tutto, che noi chiamiamo Universo, parte limitata nello spazio e nel tempo. Egli ha esperienza di se stesso, dei propri pensieri, dei propri sentimenti, come di qualcosa di separato dal resto – una specie di illusione ottica della sua coscienza. Questa illusione è come una prigione per noi, ci restringe ai nostri desideri personali e ad avere attaccamento solo per le poche persone più vicine a noi. Il nostro compito deve essere liberarci di questa illusione allargando il raggio della nostra compassione fino ad abbracciare tutte le creature e tutta la natura nella sua bellezza. Nessuno riesce a fare questo interamente, ma lo sforzo per farlo è già di per sé parte della liberazione e della fondazione della propria sicurezza interiore». Questo è il punto dove era arrivato alla fine della sua vita l'uomo che era «solo appassionatamente curioso». L'anno prima di morire, nel 1955, chiude il cerchio dei suoi pensieri ritornando alla forza prima che lo ha portato attraverso la vita: «La cosa importante è non fermarsi mai di porre domande. La curiosità ha in sé la propria ragione di esistere. Non si può che non essere travolti dalla meraviglia contemplando i misteri del tempo, della vita, della meravigliosa struttura della realtà. È sufficiente se uno cerca semplicemente di comprendere un poco di questo mistero ogni giorno. Non perdete mai la curiosità. Non smettete mai di meravigliarvi».

Il Sole Domenica 4.1.15
Tutto Albert nella rete
di Jürgen Renn e Roberto Lalli


«Sono curioso di sapere cosa durerà più a lungo, se la guerra o la nostra procedura di divorzio. ... Delle due, la nostra faccenda privata rimane ancora di gran lunga la più piacevole». Scritte alla prima moglie, Milena Maric´, nell'aprile del 1918, queste parole mostrano l'ironia con cui Albert Einstein cercava di far fronte ai momenti difficili della sua vita. Certo Einstein è ricordato soprattutto per le sue teorie, ma come uomo pubblico prese posizioni forti anche rispetto ad avvenimenti che segnarono il Novecento: dalla precoce opposizione al nazionalismo allo sforzo di creare un movimento internazionale per limitare la corsa al nucleare nel secondo dopoguerra. La sua ricca corrispondenza è la preziosa testimonianza del viaggio intellettuale di un uomo diviso tra la passione per la fisica e le profonde preoccupazioni per un mondo turbolento. La serie Collected Papers of Albert Einstein, della Princeton University Press, raccoglie buona parte di questa corrispondenza personale e tutti i suoi scritti scientifici. Si tratta di uno dei più ambiziosi progetti editoriali negli studi di storia della scienza, che consisterà di trenta volumi con oltre 14mila documenti. I primi 13 volumi della serie sono da pochi giorni online con un'edizione digitale tecnologicamente molto accurata: i primi 44 anni della vita e dell'opera di Einstein sono disponibili a tutti. La decisione di rendere liberamente accessibile un lavoro scientifico ed editoriale durato oltre trent'anni è una conquista per il movimento culturale che promuove il libero accesso alla conoscenza scientifica, un movimento che vede nella «dichiarazione di Berlino all'accesso aperto alla letteratura scientifica» del 2003 uno dei suoi momenti fondanti. Grazie alla lungimiranza e intraprendenza degli editori dei Collected Papers, dei gestori dell'archivio di Einstein presso l'Hebrew University a Gerusalemme, dei direttori della casa editrice, si è reso un servizio importante alla cultura scientifica e storica internazionale e alla conoscenza dello scienziato più rappresentativo di tutta un'epoca.
Jürgen Renn è direttore del "Max Planck Institute per la Storia della scienza" di Berlino (Max Planck Institute for the History of Science)
Roberto Lalli è ricercatore (Research Scholar) presso la stessa istituzione
Edizione online degli scritti di Einstein, http://einsteinpapers.press.princeton.edu

Il Sole Domenica 4.1.15
Domenico Comparetti
La disgrazia edipica
di Armando Torno


L'oracolo predisse che Edipo avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre: per tale motivo fu abbandonato alla nascita (e poi salvato e adottato da Polibo, re di Corinto). Quel complesso che porta il suo nome, individuato da Freud nel 1910, è l'insieme degli affetti che il bambino prova verso i genitori. Domenico Comparetti (1835-1927), celebre per l'opera Virgilio nel Medioevo (reperibile soltanto in antiquariato), professore di letteratura greca a Pisa tra il 1859 e il 1872, tenne un corso sulla leggendaria figura: ora tali pagine rivedono la luce con il titolo Edipo e la mitologia comparata.
Questo studioso, straordinario conoscitore di lingue, analizzò sino alle possibili etimologie sanscrite il mito e si chiese se il fatale appuntamento con la Sfinge (in Egitto rappresentata con il corpo maschile e la testa leonina) fosse credibile, se Edipo rispose all'enigma che essa gli pose, se la stessa idea di Sfinge preesistesse o no al mito, se l'episodio del loro incontro è da considerarsi aggiunto o ne sostituì un altro. Codesto mostro, che per i Greci nacque da un'unione tra Echidna e suo figlio Ortro, divorava i passanti presso Tebe se i malcapitati non riuscivano a risolvere l'enigma che poneva. Comparetti ricorda che nell'Odissea – nell'XI libro si trovano riassunte in pochi versi le disgraziate avventure di Edipo – non si fa parola della creatura mostruosa; allo stesso modo sottolinea come l'autorevole Esiodo, che li cita entrambi, nella Teogonia offra un catalogo di esseri dalle caratteristiche lontane dall'ordine naturale, dei quali è detto anche chi li vinse, «ma della Sfinge ciò si tace».
Edipo, etimologicamente «dai piedi gonfi», divenne immortale dopo le citazioni di Omero e con le tragedie di Sofocle e Euripide; Comparetti, riferendosi al libro di Michel Bréal, Le Mythe de Oedipe, pubblicato a Parigi nel 1863, ricorda che può essere collegato ai miti solari. Ma è un semplice dettaglio. Le sue conclusioni sul significato di Edipo sono utili al mondo odierno più che ai filologi: «Una fatale combinazione può, indipendentemente dalla volontà, spingere a commettere delitti gravissimi. Può un uomo, senza volerlo e senza saperlo, essere delittuoso, e andare quindi soggetto a tutte le conseguenze del delitto» (pag. 46). Di più. Per lo studioso il racconto esprime il concetto con un caso di ordine puramente umano, al quale la divinità non ha parte, se non come tutrice delle leggi morali. E afferma: «Male morale e danno, male che si fa e male che si soffre, si identificano per il greco e, identificati, si esprimono con un'unica parola: Ate, disgrazia». Inseparabile compagna dell'umanità, spiega meglio di altri termini gli effetti delle nostre azioni, delle quali non sappiamo prevedere le conseguenze più o meno remote. Già, la dea Ate: Omero nell'Iliade (XIX, 91-94) la descrive: non tocca la terra e cammina leggera sui mortali e sugli dei inducendoli in errore. Fa loro commettere il peccato di hybris, ovvero tracotanza generata dall'assenza di misura.

Domenico Comparetti, Edipo e la mitologia comparata, Edizioni Pizeta, San Donato Milanese, pagg. 82, € 10,00

Il Sole Domenica 4.1.15
Scoto Eriugena
Giovanni, poeta del vino
L'intellettuale irlandese scrisse versi d'occasione su argomenti alti come la Resurrezione, ma trattò anche di amenità quotidiane come l'importanza delle libagioni
di Maria Bettetini


«Qui giace Incmaro, ladro terribilmente avaro: / questo solo fece di nobile, il fatto che morì». Lo sberleffo di un giullare di corte? Uno stornello studentesco? No, un epitaffio anticipatorio di un grande pensatore del IX secolo, scritto contro l'arcivescovo di Reims ancora allegramente in vita (per questo "anticipatorio"). La ragione del contendere è un argomento che tuttora danna filosofi e teologi e tuttora divide i credenti, il tema della predestinazione e del libero arbitrio. Giovanni l'Irlandese, quindi Scoto o Eriugena, scrisse diversi componimenti poetici, alcuni in latino, altri in greco. Quasi tutti di occasione, trattano di argomenti ardui, come la discesa agli Inferi di Cristo, o la sua resurrezione, ma anche di amenità quotidiane, dal l'importanza del vino in ordine alla socializzazione alle ruggini personali, per esempio quella contro Incmaro. La traduzione e la cura di Filippo Colnago, autore anche di un volume sul tema, permette un accesso facilitato a testi comunque complessi, sia per gli intrecci argomentativi che per l'alternanza di espressioni latine e vocaboli greci. Un unicum nella letteratura, come decisamente particolare è l'autore, che grazie a queste poesie sembra più vicino all'umanità, meno perso tra le altezze delle quattro nature, o dei testi dionisiani. Giovanni è un monaco nato in Irlanda, allora denominata Scotia maior per differenza con la Scotia minor, l'attuale Scozia. Sappiamo molto poco della sua vita, collocata indicativamente tra l'810 e l'877. Sappiamo che si definì l'Eriugena, nato (dal greco gen) in Irlanda (Eriu), ma non sappiamo dove acquisì lo stupefacente bagaglio di erudizione e di conoscenza del latino e del greco: forse in una scuola monastica irlandese, forse solo in terra francese, dove comunque giunse poco prima dell'850. Andò dapprima a Laon, cittadina in Piccardia, che radunava già numerosi studiosi irlandesi. Qui proseguì la sua formazione, per poi essere chiamato a corte e subito coinvolto nella disputa sulla predestinazione proprio da colui che sbeffeggerà nel distico citato prima, Incmaro.
Il dissapore successivo è dovuto alla presa di distanza di Incmaro rispetto alla tesi di Giovanni, che riteneva fonte dell'errore eretico solo l'ignoranza delle artes, in particolare della dialettica, e la poca o nulla conoscenza della lingua greca. Uno schiaffo ai chierici, forse più attenti alla politica che intenti allo studio. Non si deve però pensare che Giovanni rappresenti una luce isolata in un contesto di abbrutimento. Da qualche decennio, infatti, gli interventi di Carlo Magno prima e poi di suo figlio Ludovico il Pio avevano garantito una vivace ripresa degli studi, con particolare attenzione alle arti liberali. Già la cultura tardo antica, con Agostino, Boezio, Cassiodoro, Marziano Capella (con le Nozze di Filologia e Mercurio, di grande fortuna medievale), aveva definito le artes gradini verso la sapienza, anche la sapienza teologica, ove non fosse direttamente infusa da Dio, come di solito non era. Per i carolingi si trattò dunque di riconnettere tra loro cammini noti, attraverso l'istituzione di scuole (monastiche e cattedrali, dove potevano accedere anche laici) e la schola per eccellenza, quella palatina. L'aspetto interessante di questa era poi il fatto di essere una scuola sì di corte, ma non "di palazzo", perché la corte carolingia non si tratteneva a lungo nella stessa città. Quali che fossero i motivi politici di tale vagabondare, e ce ne furono tanti, dal punto di vista culturale non si può che prendere atto delle origini lontane dei programmi di scambio e incontro come il nostro Erasmus. Carlo Magno raccolse intorno a sé i migliori tra ispanici, franchi, germanici, italiani. Suo nipote Carlo il Calvo, decisamente più colto del nonno geniale ma analfabeta, proseguì nel reclutamento. Fu proprio il re che affidò a Giovanni l'Irlandese la traduzione delle opere dello pseudo-Dionigi Areopagita, con un'apertura mentale tutta da invidiare rispetto ai particolarismi attuali. Il re era infatti insoddisfatto della traduzione dell'abate Ilduino, come risulta anche da uno dei carmi. Dallo studio dell'opera dionisiana, ancora oggi anonima ma datata con abbastanza sicurezza nel V secolo, Giovanni Eriugena trae una lettura cristiana, poetica e grandiosa allo stesso tempo, del neoplatonismo. Da lì, e da altre letture dei Padri della Chiesa orientale, la struttura eriugeniana della natura, quadruplice nel suo creare ed essere creata, ferma nella sua razionalità e dunque nella capacità di essere compresa dalla ragione. Da poco è uscita per la Fondazione Lorenzo Valla la traduzione del terzo libro delle Nature dell'universo, dedicato al manifestarsi di Dio nella creazione dal nulla, dove il creato è tutto "teofania". Ma torniamo alle poesie. Certo non scorrono come i versi della Commedia, spesso l'afflato dedicatorio ne oscura la perizia metrica. Sono comunque carmi scritti tra l'865 e l'870, quando si poteva ancora raccogliere l'eredità tardoantica e, paradossalmente, chi la raccoglieva erano proprio stati periferici rispetto alla centralità di Roma. Come si diceva, alcune poesie introducono lavori di Eriugena, molte invece trattano temi filosofici e teologici: spesso scritte in occasione di speciali festività, sempre dedicate al re Carlo il Calvo, festeggiato anche in occasione della vittoria contro il fratellastro Ludovico il Germanico. Organizzate in base ai manoscritti che le tramandano e non in base al contenuto, di venticinque si è certi della paternità, mentre per altre sedici ci si attesta sulla forte probabilità.
Con il re è lodata anche la regina Ermentrude, come nel carme 4, rimangono poi alcune composizioni di carattere personale, in cui non si cela il focoso carattere dell'irlandese Giovanni: Incmaro, come sappiamo, non gli era simpatico, ma nemmeno nascondeva la profonda avversione per religioni diverse dalla propria, e addirittura per un maestro arrogante. Solo lodi invece per Bacco, purtroppo così difficile da reperire in Irlanda.

Giovanni Eriugena, Carmi, a cura di Filippo Colnago, prefazione di Giulio d'Onofrio, Jaca Book, Milano, pagg. 210, € 28,00
Giovanni Eriugena, Sulle nature dell'universo, vol. III, a cura di Peter Dronke, traduzione di Michela Pereira, Fondazione Lorenzo Valla - Mondadori, Milano, pagg. LI + 421, € 30,00
Inoltre:
Filippo Colnago, Poesia e teologia in Giovanni Scoto Eriugena, Herder Editrice e Libreria, Roma, pagg. 397,
€ 48,00

Il Sole Domenica 4.1.15
Gli occhi di Neanderthal
Incontro con Svante Pääbo
La ricerca sul Dna antico ha fatto passi da gigante grazie al ricercatore svedese che qui racconta le sua storia
di Guido Barbujani


Nel titolo italiano di questo libro va persa un'importante ambiguità di quello inglese. Neanderthal man è, ovviamente, l'uomo di Neanderthal, la forma umana che ha occupato l'Europa per 300mila anni, prima di estinguersi un 30mila anni fa, all'arrivo dall'Africa dei nostri antenati. Ma Neanderthal man significa anche l'uomo del Neanderthal, cioè l'autore di questo libro: Svante Pääbo, lo scienziato svedese che di Neanderthal (con o senza l'acca, va bene lo stesso; e Pääbo si pronuncia Peebo) ci ha rivelato, per dirla con Paolo Conte, molto, molto più di quanto apparisse. Fin dal titolo, quindi, questo libro ci conduce su un doppio sentiero: racconta sia come siamo arrivati a scoprire tante cose su un'umanità tanto diversa da noi e tanto vicina a noi, sia la vicenda, umana e professionale, della persona che più ha contribuito, negli ultimi vent'anni, a farcelo scoprire.
Si comincia, secondo la migliore tradizione thriller, con una telefonata nel cuore della notte, e ci vorrà mezzo libro per comprenderne l'importanza. Nel frattempo, Pääbo non è indulgente col lettore, e fin dalla prima pagina lo obbliga a destreggiarsi coi termini tecnici. In controtendenza con quanto si tenta di fare da noi, qui si mette subito in chiaro che per capire concetti complessi bisogna fare uno sforzo. La scienza produce osservazioni, ma per legarle insieme occorre un ragionamento. Se non abbiamo idea delle potenzialità e dei limiti delle tecniche sperimentali, non potremo poi valutare criticamente la bontà del ragionamento che ne deriva e delle conclusioni che andiamo a trarre.
Il libro ricompensa chi accetti questo impegnativo contratto con molte soddisfazioni intellettuali. Man mano che il cerchio si stringe intorno al DNA dei Neanderthal, la cui lettura ci obbliga a riformulare domande fondamentali sulla nostra vicenda evolutiva, seguiamo le vicende di Pääbo dalla passione infantile per le mummie egiziane agli inizi dello studio del DNA antico, fino al vero punto di svolta, la creazione del l'Istituto Max-Planck di Antropologia Evolutiva a Lipsia: un magnifico edificio a cinque piani, connessi da una rampa a spirale come quella del Guggenheim di New York. Lì oggi convivono paleontologi, genetisti, psicologi, primatologi e linguisti, tutti insieme in un posto che ridefinisce gli orizzonti dell'antropologia. Impressionante, per chi vi entra,il disordine creativo che vi regna. Appena meno stupefacente la parete da arrampicate che raggiunge il quinto piano e che (siamo pur sempre in Germania) è a disposizione di personale dell'istituto e visitatori secondo orari definiti in un apposito cartello. Certo, le biografie sono un genere letterario rischioso (e ancor più le autobiografie, e ancor più le cosiddette success stories), perché concentrano le luci dei riflettori su un solo protagonista, mettendo nell'ombra il fatto che la scienza è soprattutto una grande impresa collettiva. Ma su questo (e altro) vale la pena di sentire direttamente la voce dell'autore.
Per quanto mi riguarda, ho sempre desiderato chiedergli che faccia hanno fatto i responsabili finanziari dell'impresa, quando gli ha detto che voleva la parete. «Ah, è stato facile. Secondo la legge, l'uno per cento dei costi dell'edificio deve essere speso per oggetti d'arte. Ho solo dovuto convincerli che una parete da arrampicata fosse un'opera d'arte, il che in effetti è vero, è un'opera d'arte con cui si interagisce. È stato più difficile farci mettere la sauna…»
Sorprendente nel libro la sostanziale assenza di conflitti (appena uno all'inizio, e con un ex nazista), in una storia in cui vengono tirati in ballo interessi scientifici enormi. È andata davvero così? «Penso, – risponde Pääbo – di non aver mai permesso che i conflitti giocassero un ruolo importante nella mia vita. Molti nascono da incomprensioni, e facendo finta che sia così per tutti si riducono comunque le tensioni. E poi mia moglie Linda sostiene che sono così narcisista che riesco a ignorare gli altri, anche quando mi insultano».
Nessuno insulta Pääbo in questo libro, ma pochi sembrano insegnargli qualcosa. Si ha la sensazione di un cammino lineare, dalle curiosità infantili alle grandi scoperte della maturità, in cui molti gli sono stati utili, nessuno indispensabile. «Non è proprio così. Ho un padre scientifico, Allan Wilson, che ha lavorato su molti aspetti delle origini e della storia umana su cui io (e molti altri) ancora lavoriamo. Detto questo, però è vero che lo studio del DNA antico è qualcosa che ho cominciato per conto mio, da studente, in Svezia, e solo dopo ho saputo che anche Allan Wilson ci stava lavorando.
Un altro che mi ha molto influenzato è stato il mio supervisore in Svezia, Per Pettersson, che mi ha insegnato a controllare i risultati di ogni collaboratore ogni settimana, e a non lasciare nessun progetto in sospeso». Dunque, trenta anni fa uno studente intraprendente come Pääbo poteva lanciarsi, senza fondi, in una ricerca che sarebbe poi approdata sulle maggiori riviste scientifiche mondiali; oggi questo sembra francamente impossibile… «Non so se le cose siano davvero così diverse. Che uno studente arrivi a pubblicare sulle migliori riviste è raro oggi, ma lo era anche allora. Spesso le opportunità per grandi passi avanti emergono quando compaiono nuove tecnologie: la clonazione del DNA, le nuove tecniche di sequenziamento massiccio». Qui Pääbo si riferisce alle macchine che leggono il DNA. Nel 2003 la prima lettura del genoma umano, i sei miliardi di nucleotidi del DNA che in ogni cellula contengono le istruzioni per lo sviluppo e il funzionamento del nostro corpo, ha richiesto il lavoro di 2800 scienziati per 13 anni; oggi bastano pochi giorni e ci pensano tecnici che devono solo premere i pulsanti giusti. Sapremmo ben poco di Neanderthal (e di noi stessi, e di tante malattie) senza questi prodigiosi passi avanti tecnologici. Ma i progressi tecnologici producono risultati se dietro ci sono delle teste pensanti. Cosa si pensa di fare, adesso? Pääbo spera di arrivare a studiare una forma umana ancora più antica di Neanderthal, Homo heidelbergensis, che con ogni probabilità è l'antenato comune da cui noi e i Neanderthal discendiamo. «Spero anche che noi, e magari altri, riusciremo in qualche modo a risalire dalle nostre differenze genetiche all'aspetto fisico dei Neanderthaliani e denisovani». Già: nessun occhio o pelle Neanderthaliani sono arrivati fino a noi, ma sappiamo che erano, rispettivamente, azzurro e chiara, perché l'abbiamo letto nel loro DNA. Allo stesso modo, Pääbo e i suoi hanno identificato, nella grotta di Denisova, in Siberia, una nuova forma umana, geneticamente distinta sia da noi che dai Neanderthal. Dei denisovani ci rimangono solo della falangetta di un dito mignolo e due denti; come fossero fatti non lo sa nessuno: per ora, perché nel loro DNA stanno nascosti i dati che potranno dirci come erano i loro occhi e i loro capelli, la loro pelle e il loro gruppo sanguigno. È una storia ancora da scrivere, ma anche questa comincia, per chi vuole stare a sentirla, nelle pagine dell'Uomo di Neanderthal.

Svante Pääbo, L'uomo di Neanderthal, Einaudi, Torino, pagg. 304, € 32,00

Il Sole Domenica 4.1.15
Olivetti, «pescatore di uomini»
di Giorgio Dell'Arti


Pescatore «Feci conoscenza con Adriano Olivetti, dagli occhi sognanti e dalla volontà di ferro, che pensava come un matematico e sentiva come un mistico. Anche lui era pescatore di uomini» (Altiero Spinelli).
Bibbia Olivetti, che trascorreva serate a consultare l'I Ching e nei momenti di dubbio apriva la Bibbia a caso e prendeva ispirazione dai versetti.
Ladro La volta che scoprì un dipendente a falsificare i conti. Fece condurre discretamente un'inchiesta sulla sua vita. Vedendo che aveva una situazione familiare intricata, lo convocò e gli comunicò l'aumento dello stipendio della quota che aveva rubato.
Firma Olivetti s'era fatto da solo l'analisi grafologica della propria firma. Testimonia Ugo Galassi: «Vi scorgeva qualche segno di debolezza, interpretava quello svolazzo che dalla "v" avvolge il cognome come un elemento volontaristico, uno slancio rivolto verso il futuro. In definitiva, si riteneva persona portata all'immaginazione, all'arte, che guarda avanti».
Biblioteca Prima azione di Geno Pampaloni assunto da Olivetti come direttore della biblioteca di fabbrica: togliere le griglie che proteggono gli scaffali pieni di libri. Subito spariscono alcuni testi. Olivetti se ne rallegra: «Allora vuol dire che li leggono».
Malizia Adriano Olivetti non sopportava i sottintesi maliziosi, gli ammiccamenti al sesso, la volgarità dei doppi sensi.
Giornata La giornata tipo di Adriano Olivetti negli anni 50. Sveglia alle 8.30, veloce colazione. Poi in fabbrica, portato dall'autista Luigi Perotti che gli ha già consegnato il pacco di giornali da sfogliare. Li legge in ufficio e consegna pagine sottolineate alla segretaria perché le distribuisca ai vari collaboratori. Alle 13.30 torna a casa per il pranzo. Segue breve riposo e consultazione della rivista e le proposte per le Edizioni di Comunità. Ritorno in fabbrica alle 15.30. Verso la fine della giornata, quando gli uffici sono vuoti, i colloqui con urbanisti e architetti.
Fine del lavoro alle 20/20.30.
Fini «Può l'industria darsi dei fini? Si trovano questi fini semplicemente nell'indice dei profitti? O non vi è al di là
del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?». (Olivetti il 23 aprile 1955 all'inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli).
Extra Olivetti, che a Carlo Corbisiero, assunto nella biblioteca del quartiere Ina, riconobbe una voce extra nello stipendio come indennità sociale perché riconosciuto innocente dopo aver scontato diciotto anni di carcere. Stipendio Nel 1957 un lavoratore Olivetti guadagnava 60mila lire al mese. Media del settore metallurgico: 40mila (anche in Fiat si guadagnava meno). Aggiungendo i benefit dell'assistenza e dei servizi sociali, la qualità di vita di un operaio Olivetti risultava dell'80% superiore a quella di operai e impiegati di altre industrie comparabili.

Fatti tratti da: Valerio Occhetto, Adriano Olivetti. La biografia, Edizioni di Comunità, Roma, pagg. 314, € 16,50

Il Sole Domenica 4.1.15
Parigi
Maya, splendori e rivelazioni
di Antonio Aimi


«La mattina ci dirigemmo verso le rovine di Labna attraverso un sentiero che passava per alcune colline: era il più pittoresco che avessimo mai trovato nel paese. Dopo un miglio e mezzo arrivammo a una spianata di rovine, che suscitarono in noi sentimenti di ammirazione e stupore. Dal nostro arrivo nello Yucatán non avevamo mai trovato una cosa che ci commovesse così tanto e che suscitasse in noi sentimenti di sofferenza e di piacere.
Di sofferenza per non aver scoperto quelle rovine prima che una sentenza di distruzione irrevocabile fosse caduta su di esse. Di profondo piacere perché, prima che catastrofe si compisse fino in fondo, ci era permesso di vedere delle rovine, che, pur in decadenza, mostravano ancora con orgoglio le tracce di un popolo misterioso. Se un viaggiatore del Vecchio Mondo avesse visitato questa città, quando era ancora perfetta, il suo racconto sarebbe sembrato più fantasioso di tutte le storie orientali». Così in Incidents of Travel in Yucatán John Lloyd Stephens cominciò a scolpire nel nostro immaginario il topos dei Maya. I disegni del suo compagno di viaggio, Frederick Catherwood, belli ed efficaci quanto la sua prosa, fecero il resto, colmando il nostro bisogno di essere sedotti da "atrii muscosi" e "fori cadenti". E quanto più, qui da noi gli "atrii muscosi" e i "fori cadenti", restaurati e studiati, sono diventati parte del nostro quotidiano, tanto più il nostro immaginario irrimediabilmente romantico li ha sostituiti con le immagini delle città maya sepolte dalla giungla, altrettanto lontane nel tempo dai resti del mondo classico, ma tanto più lontane nello spazio e tanto più cariche di "misteri" intriganti. Dalle esplorazioni di Stephens e Catherwood sono passati quasi due secoli, alcune delle città allora descritte con tanta efficacia sono oggi meta del turismo di massa, ma il fascino dei Maya e il bisogno di capire gli enigmi di quel "popolo misterioso" sono rimasti inalterati. A questo bisogno cercano di rispondere le mostre che ormai con una certa regolarità si organizzano sulla loro cultura. L'ultima: «Mayas. Révélation d'un temps sin fin», è quella che si inaugura il 7 ottobre al MQB (Musée du Quai Branly) di Parigi: oltre 400 reperti, provenienti da quasi tutti i musei del Messico, offrono una panoramica completa di quasi tutte le tipologie del l'arte maya.
Si va dagli elementi architettonici che decoravano i centri cerimoniali delle città alle minute figurine provenienti, in genere, dall'isola di Jaina, che sembrano aprire uno squarcio sul quotidiano, dalle lastre e dalle architravi dei templi decorate con elegantissimi glifi, ai vasi dipinti che rivelano una sorprendente varietà di stili, dalle sculture in pietra e stucco (straordinaria la celeberrima testa virile proveniente dal Palazzo di Palenque) agli "eccentrici" in selce, dai paraphernalia del gioco della palla agli ornamenti (collane, orecchini, eccetera), alle piccole figurine in oro, metallo del quale i Maya non erano molto ricchi e che, durante la Conquista, concesse loro due decenni di respiro, quando la maggioranza dei conquistadores passò in Perù, che da questo punto di vista era molto più promettente.
Coerentemente con le linee guida della museografia messicana, dato che la mostra è stata prodotta dall'Inah (Instituto Nacional de Antropología e Historia) l'iniziativa del MQB vuole coprire tutti gli aspetti della cultura maya. Parte dall'ambiente e passa poi a presentare le attività del quotidiano, la piramide sociale, l'organizzazione delle città e dei centri cerimoniali, le conoscenze delle élites (la scrittura, i sistemi calendariali, eccetera), il gioco della palla e gli altri riti che garantivano l'equilibrio del cosmo.
Per ovvie ragioni l'esposizione non presenta i reperti delle comunità maya di oggi, come avviene, ad esempio, al MNA (Museo Nacional de Antropología) di Città del Messico, ma con forza il catalogo sottolinea che i Maya non sono scomparsi e ancor oggi presentano frammenti della cultura del passato, che sopravvivono nelle campagne, ma scompaiono rapidamente nei processi di inurbamento.
In una mostra così ricca e articolata è difficile individuare la sezione o l'area tematica più importante. Non c'è dubbio, tuttavia, che il cuore dell'esposizione del MQB è costituito da un tema trasversale presente un po' ovunque. Si tratta del sistema politico della monarchia divinizzata, una forma di gestione del potere che attraverso grandiose opere architettoniche decorate con lunghe iscrizioni faceva risalire le origini dei lignaggi reali al tempo aurorale della creazione. Nell'ambito della Mesoamerica (la regione in cui si sviluppò la cultura maya) si trattava di una rivoluzione culturale radicale, che, con un utilizzo della scrittura che non aveva precedenti, esaltava la figura personale del sovrano e si contrapponeva nettamente ai sistemi politici tradizionali, nei quali il re era solo un primus inter pares.
Per questa ragione lungo il filo rosso che unisce le diverse sezioni della mostra emergono sia le immagini che mostrano i re divinizzati nello splendore dei paraphernalia indossati nei rituali, sia, e soprattutto, i testi che raccontano le loro imprese e le collocano precisamente nel tempo (in una sorta di documentazione ex post) collegandole alle imprese degli eroi culturali e delle stesse divinità. In questo contesto, ovviamente, la scrittura non era affatto uno strumento neutro. Anzi, si potrebbe dire, parafrasando McLuhan, che il mezzo era contaminato dal messaggio. Si creò così una contrapposizione che vedeva, da una parte, nelle città maya del Periodo Classico, un sistema politico che enfatizzava la scrittura, la figura del sovrano e il lignaggio reale e, dall'altra, nel resto della Mesoamerica, dei sistemi politici che diffidavano della scrittura ed esaltavano una sovranità impersonale, a volte gestita collegialmente, in cui il re era, in teoria, un umile portavoce degli dei.
Si potrebbe dire, quindi, che lo splendore della cultura maya del Periodo Classico non fu altro che una sorta di manifesto di propaganda teso a legittimare il sistema politico.
Ma chi ha detto che la propaganda produce sempre pessima arte ?

«Mayas. Révélation d'un temps sin fin», Parigi, Musée du Quai Branly fino all'8 febbraio

Il Sole Domenica 4.1.15
Dopo la rivoluzione
Conseguenze del comunismo
Pittori o pescatori: secondo Marx si può far ciò che si vuole nel comunismo reale
Ma se fosse vero? Un racconto surreale
di Ermanno Cavazzoni


Nel ventesimo secolo appena trascorso ha circolato molto la parola comunismo, e diverse società l'hanno adottata per indicare che quello era il loro punto d'arrivo; intanto però durante il ventesimo secolo queste società dichiaravano che al momento erano in una fase di transizione, ossia stavano incamminandosi verso il comunismo, ma il comunismo completo e perfetto era ancora di là da venire, perché non si poteva realizzarlo in un colpo solo; la gente non era preparata, dicevano, c'erano vecchie abitudini che resistevano. E si sono presi provvedimenti contro quelli che resistevano; per la verità quasi sempre un po' esagerati.
Come fosse questo comunismo una volta realizzato, e che cosa ci si facesse, non è mai stato chiaro a nessuno.
Era più chiaro ad esempio il paradiso: prima di tutto ci si andava da morti, la vita in terra era una specie di prova, che metteva un po' in apprensione, come succede durante gli esami, ma poi se uno si applicava, se non andava al bar a perdere tempo, se non stava in ozio a gironzolare eccetera, anche l'esame diventava un periodo intenso, con una meta. E poi il paradiso bene o male si sa com'è: si sta in estasi, circa come quando si ascolta un bel pezzo di musica, magari avendo bevuto un bicchierino di elisir o di vodka, che allora l'estasi è piena e la musica la si gode con più intensità; se uno vuole un'intensità maggiore può bere due bicchierini, e di due in due è come salire di cielo in cielo, fino alla vicinanza con lo Spirito Santo; è un paragone per dare l'idea, solo che se uno giunge allo Spirito Santo grazie all'elisir o alla vodka, il giorno dopo sta male, non avessi bevuto! dice; mentre in Paradiso uno sta bene anche il giorno dopo, non vomita, non ha acidità di stomaco né male di testa, la musica gli sembra sempre bellissima, e così per tutta l'eternità; uno stato alcolico che non ha mai fine e che non danneggia il fegato. Anche il comunismo dovrebbe essere una specie di paradiso; non è però necessario essere morti, ci si va da vivi, o comunque ci andranno le generazioni future quando il comunismo sarà realizzato.
Bene, ma in concreto cosa farà la gente nel comunismo? Carlo Marx, fondamentale teorico del comunismo futuro, è stato molto chiaro in materia; nei Manoscritti economico-filosofici dice quanto segue: che nel comunismo chi vorrà pescare andrà a pescare, chi vorrà dipingere andrà in campagna a dipingere. Punto. Non dice altro. Quindi se ne deduce che metà della popolazione, nel comunismo realizzato, sarà di pescatori, l'altra metà di pittori. Io ho sempre fatto fatica a digerire il comunismo perché non ho passione per la pesca né attitudine alla pittura; quindi starei lì passivo, sarei d'intralcio alle canne da pesca e rovinerei il paesaggio ai pittori. Anche quando avevo vent'anni ed ero più propenso alle idee comuniste, o comunque più interessato, questa faccenda del pescare e dipingere non l'ho mai ben compresa, e credo che molti fossero nelle mie condizioni; un po' come la ricerca del Sacro Graal: quello che interessava ed esaltava era la ricerca, perché poi del Sacro Graal uno non avrebbe saputo che farsene, essendo solo un catino, che si può comprare anche al supermercato.
Ma vediamo di discutere un po' del comunismo; supponiamo si fosse realizzato in Italia. Su 50 milioni di abitanti, 25 milioni di pescatori! Io credo che Marx intenda prevalentemente la pesca all'amo, non certo la tonnara, la pesca a strascico, la pesca oceanica, se no l'avrebbe specificato. Se supponiamo che tra un pescatore e l'altro ci siano circa due metri per non intralciare le lenze, gli italiani formerebbero una fila di 50 mila chilometri, che è leggermente superiore alla circonferenza terrestre (42 mila chilometri), quindi si deve pensare che su tutte le rive dei mari e dei fiumi durante il comunismo ci sarebbe un pescatore ogni due metri; se per la pesca usano i vermi, si deve pensare che i pesci pescati siano lasciati marcire perché si formino i vermi da pesca, quindi diciamo che nel comunismo ci sarebbe un certo fetore inevitabile, altri pesci servirebbero per l'alimentazione; ma in poco tempo i pesci si estinguerebbero, o si farebbero furbi, non abboccherebbero più, dunque 25 milioni seduti su uno sgabellino, in riva all'acqua, che passano il tempo così.
Gli altri 25 milioni dipingerebbero, una parte paesaggi naif, l'altra parte, che non sa dipingere, pitture moderne di tipo più o meno informale. Se ognuno fa un quadro al giorno, in un anno si sarebbero prodotti 9 miliardi e cento milioni di quadri, in dieci anni di comunismo 91 miliardi di quadri. Si può ipotizzare un baratto tra pescatori e pittori, un quadro per un pesce, il che creerebbe un aumento nella produzione di quadri per avere più pesci, producendo una svalutazione del quadro, ovvero un rincaro del pesce; è probabile che i quadri sarebbero usati per arrostire il pesce, trasformando i pittori di fatto in raccoglitori di legni, tela, carta e altra roba infiammabile. Una dieta così povera creerebbe malattie, scorbuto, pellagra, ipertiroidismo, metà della popolazione sarebbe malata, con maledizioni alla pittura e alla pesca, essendo non prevista in regime comunista l'agricoltura o l'allevamento zootecnico, a quanto dice Marx, e a quanto conferma Engels. Marx per la verità dice: chi vuol dipingere dipingerà, chi vuol pescare… , sottintendendo quindi ci sia una parte della popolazione che non vuole far niente, com'è il mio caso, che nel comunismo mi annoierei, e se dovessi scegliere sceglierei il paradiso, che lì almeno c'è molta vodka artigianale, che non fa male. L'errore dell'Unione Sovietica è stato di confondere il comunismo col paradiso, infatti non si pescava né si dipingeva, non si ha notizia che Lenin pescasse, Lenin non ha mai pescato in vita sua, né da solo né assieme a Stalin o al politbùro, né si ha notizia che andasse in campagna a dipingere, neppure la domenica pomeriggio. Si ha invece notizia di un largo uso di vodka. Che cosa significa? che pensavano di essere in paradiso? Se lo pensavano erano in errore, prima di tutto perché erano vivi (anche se a questo si è tentato di rimediare); in secondo luogo perché era vodka in genere pessima, tanto che poi tutti stavano male, dunque non si trattava di paradiso né di comunismo; e in effetti si trattava di socialismo, che è una fase intermedia, di preparazione, perciò di conoscenza con la canna da pesca, di conoscenza con l'amo, con l'esca, coi vermi, che sono fondamentali; e maneggio del pennello, delle tempere; nel socialismo, stando a Marx ed Engels, si dovrebbero preparare i colori, l'olio di lino, per chi intenda poi nel comunismo dipingere a olio. Invece a quanto si sa, si mandava la gente al nord ad estrarre carbone, nelle miniere ad estrarre minerali, come l'uranio, che non mi risulta sia usato in pittura e neppure durante la pesca. Un'altra osservazione che si può fare è la seguente: nelle zone desertiche, ad esempio in tutta l'enorme estensione sahariana, ci saranno solo pittori, realizzando così il comunismo solo a metà; a meno che i pescatori si addensino tutti attorno ai pochi corsi d'acqua, condizione che come si sa dà luogo poi a gomitate, spinte, diverbi, insulti, il raro pesce pescato tirato in faccia, un groviglio di canne e di lenze, ami che cavano un occhio, che prendono un labbro, un naso, un comunismo che durerebbe una giornata; e anche i pittori nelle zone desertiche cosa dipingerebbero? dune! oppure scivolerebbero verso la pittura informale, spremendo il tubetto sulla tela, facendo sgorbi, anche se queste forme di pittura sono considerate anticomuniste.
Chi produce gli ami, il filo di nailon, le tempere, i pennelli nel comunismo? Marx su questo punto tace, Engels salta l'argomento e passa a quello dopo. Lenin accenna al fatto che produrre pennelli, peli per i pennelli, filo da pesca, galleggianti, mosche finte eccetera è un fatto rieducativo, compito cioè di chi non crede al comunismo, o ha dubbi o comportamenti non comunisti, chi insomma non ha disposizione alla pesca o alla pittura, ed esercita ad esempio la prostituzione, lo spionaggio, il frazionismo… Però viene da chiedere: se non ci fossero gli anticomunisti da rieducare, come sarebbe possibile l'esercizio del comunismo nelle due sue varianti? Chissà. Voglio leggere le Opere Complete di Palmiro Togliatti, se per caso c'è la soluzione.

Il Sole Domenica 4.1.15
L'ultima di Fukuyama
di Pietrangelo Buttafuoco


Ci prova sempre Francis. Fukuyama, dunque, la butta ormai sulla teoria del definitivo destino della storia. «Dopo di me, il diluvio», in un certo senso. O, nella variante di Nick Carter, il celeberrimo motto: «L'ultimo chiuda la porta!». È tutta una foga, quella dello storico nippo-americano, a mettere il punto sull'ultima pagina a disposizione dell'Umanità. Ed è una fissazione, la sua. Il compimento di tutto – secondo lui – doveva aver giusta epica con la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell'Urss. Giusto a smentirlo, s'è dovuta diseppellire la scimitarra del Vegliardo della Montagna. Un nuovo più impegnativo conflitto, nientemeno che un'altra Crociata nell'epoca del post-moderno ateo e materialista, s'è svegliato ma se – come canta Battiato – «il giorno della Fine non ti servirà l'inglese», chissà cosa si potrà fare del compimento del capitalismo. L'uscita del nuovo libro di Fukuyama (Storia dello sviluppo politico dagli albori della civiltà ai giorni nostri) zappa sempre nella stessa vigna, quella di un pregiudizio secondo cui l'appuntamento ultimo del bipede eretto è la democrazia. Qualcosa come lo scatto ultimo dell'homo sapiens quando – forte del pollice prensile – dismette il comunismo tribale del cro-magnon. A questo punto urge il soccorso di Bachelard e della sua fenomenologia dello spazio vissuto. L'unico volume geometrico a disposizione della politica è un ventre dalle sicurezze intime e fantastiche all'interno del quale, come Giona, nessuno riesce a misurare l'illusione razionale di un approdo. Ed è sempre la pancia di una balena quel volume, o di un Leviatano. Difficilmente un cetaceo o un mostro ateo o un materialista. E neppure parlante la lingua inglese.

Il Sole Domenica 4.1.15
Viaggio in Norvegia
Moderna caccia alle streghe
di Lara Ricci


Una fioca lampadina illumina la tetra storia di Karen Edisdatter, una donna Sami processata il 13 maggio 1620 a Omgang, poco a est di Capo Nord. Era accusata di stregoneria e di aver invocato la malattia e la morte di diverse persone. Confessò «che un giorno, portando al pascolo gli armenti, provò una grande stanchezza; che il diavolo venne da lei sotto le spoglie di un uomo massiccio e senza testa; che le chiese se fosse sveglia e lei rispose: "non sono sveglia né addormentata"; che le promise successo in ogni sua impresa se lei avesse accettato le sue chiavi; che lei preferì un bel nastro alle chiavi; che dopo tutto ciò si sentì confusa, lui la tormentava se si rifiutava di fare qualcosa di cattivo e le tirava gli arti così tanto da farle uscire il sangue dal naso e dalla bocca; che il diavolo era sempre al suo fianco tranne quando il prete era nei paraggi; che mentre proferì "possa prenderti il diavolo" questo le era accanto; che lei provocò la morte di Abraham Nilsen, Henrich di Gamvik e di due altre persone; fece un incantesimo a Henrich perché lui rifiutò di prestarle una pentola». Karen fu condannata a morte e bruciata sul rogo.
I lumi sono 91 lungo un corridoio buio, sospeso a una leggera struttura di legno piantata su una scogliera immersa nella neve e nella notte artica. Ciascuna fa luce sul resoconto di un processo ad altrettante donne (tranne 14 che erano uomini) bruciate vive durante la ferocissima caccia alle streghe che infiammò la contea di Finnmark dal 1600 al 1692. Le vittime furono soprattutto norvegesi, un quinto erano membri dell'ultimo popolo indigeno d'Europa, i Sami. Custodi di una cultura mirabilmente adattata alla vita nelle gelide terre boreali, subirono tremende persecuzioni quando si decise di cristianizzarli e, di pari passo, di sfruttare le ricchezze naturali dell'estremo Nord, secondo un copione ben sperimentato. L'ultimo a essere ucciso fu proprio uno di loro, centenario, accusato di aver usato un tamburo rituale e di aver praticato la stregoneria. Confessò di averlo costruito, di saperlo suonare, di conoscere il significato dei simboli che vi erano dipinti. Negò di avere abiurato dio e la cristianità. Ammise che se ne serviva per predire le fortune dei viaggiatori e per aiutare chi era nei guai. Fu ammazzato con un'ascia mentre era in attesa di giudizio, alle porte del XVIII secolo.
Monumento più unico che raro, destinato com'è a commemorare crimini accaduti quasi 400 anni fa che si preferisce dimenticare, lo Steilneset Memorial è stato progettato dall'architetto svizzero Peter Zumtohor e aperto nel 2011. Poco più in là, una sedia di metallo brucia nella fiamma perpetua di The Damned, The Possessed and The Beloved, ultima grande installazione dell'artista franco statunitense Louise Bourgeois. Siamo a Vardø, un'isola sperduta nel mare di Barents, nell'estremo Nord Est norvegese, a oriente anche di Istanbul e San Pietroburgo. Fu teatro di numerosissimi roghi ed è una delle ultime tappe dei traghetti-cargo Hurtigruten che dal 1893 portano merci, cittadini e visitatori stranieri su e giù per la frammentata costa del paese scandinavo. Rari i turisti che si avventurano fin qui, specialmente d'inverno. I più si arrestano due fermate prima, a Capo Nord.
Ancora un paio di soste e si arriva al capolinea: Kirkenes, ultimo e freddissimo avamposto della Norvegia nel mare di Barents, al confine con la Russia e l'infernale città di Nikel, che prende il nome dal metallo che vi viene estratto. Qui iniziava la cortina di ferro che arrivava fino al Mar Nero e dal suo porto, nella tarda estate di cinque anni fa, è partito il primo cargo battente bandiera non russa che ha attraversato il leggendario passaggio a Nord-Est, liquefatto dal riscaldamento climatico. Costeggiando il Nord della Russia, il tragitto tra l'Europa e la Cina è del 30-40% più corto rispetto al Canale di Suez, dura una decina di giorni (si veda http://lararicci.blog.ilsole24ore.com).
Sprofondato com'è all'interno di un lunghissimo fiordo, lo scalo marittimo è spesso ghiacciato e la città molto più fredda di altre località costiere. Così ogni inverno sorge lo Snowhotel, un albergo fatto interamente di neve dove i turisti possono provare il brivido di passare una notte in un sacco a pelo distesi su un letto di ghiaccio, in una camera di ghiaccio, dopo un drink in un bar di ghiaccio (e una lauta cena nel caldo ristorante a fianco). Molti gli indiani o gli arabi che arrivano direttamente qui in aereo per farsi fotografare nei gelidi giacigli e poi spesso scappare nei bei bungalow affittati dall'hotel a chi non se la sente più di provare fino in fondo questa esperienza estrema (che, tuttavia, così estrema non è, se si seguono bene le istruzioni – spogliarsi di tutto tranne una maglia e una calzamaglia, essere ben asciutti, eccetera – e se si tiene duro i primi venti minuti, quando il corpo deve ancora scaldare il sacco a pelo).
Le attrazioni locali comprendono anche le veloci corse in slitte trainate dai cani, con un po' di fortuna sotto i bagliori indiavolati dell'aurora boreale (ma in alcune zone c'è un po' di inquinamento luminoso). Chi vuole può anche provare il brivido – è il caso di ripeterlo perché è molto facile ribaltarsi e ruzzolare nella neve – di condurne una. Divertente poi chiacchierare con gli appassionati del confine, che qui abbondano e che sanno snocciolare una serie di fatti sorprendenti su quello che era uno dei confini più chiusi al mondo, essendo l'unica frontiera diretta tra un paese Nato e l'Urss a parte quella armena-turca. Solo qui, ad esempio, passando la dogana si deve spostare l'orologio di ben tre ore. Ma quel che più resta impresso di questa cittadina nata attorno a una miniera di ferro è ancora una volta la sua terribile storia. Durante la seconda guerra mondiale stazionarono varie decine di migliaia di soldati nazisti, un contingente enorme: era la base per l'offensiva Volpe argentata della Wehrmacht contro Murmansk, città portuale sovietica libera dai ghiacci che riforniva gli alleati con il nickel estratto nell'omonima città a 60 chilometri a Est di Kirkenes. Gli abitanti furono colpiti da 328 raid di aerei sovietici. Ogni notte in cui si vedevano le stelle bombardavano, anche tre volte a notte: il tempo di tornare a Murmansk a far benzina, raccontano i locali. Poi, prima del loro ritiro, i tedeschi fecero saltare tutto quel che restava in piedi. La popolazione rimasta, circa 3mila persone, sopravvisse all'inverno successivo rifugiandosi nelle gallerie delle miniere o nelle fondamenta delle case distrutte. E quando, a guerra finita, arrivarono i soldati norvegesi rasarono a zero le donne che si diceva avessero avuto rapporti con i tedeschi e le stuprarono con stalattiti di ghiaccio. Caccia alla streghe dei tempi moderni.

Corriere 4.1.14
Vent’anni di solitudine
di Michele Ainis


Rovesciare lo sguardo sul passato è come sporgersi da un pozzo: ti fa venire le vertigini. E t’impaurisce, perché il passato è un fondo d’acque limacciose. Sarà per questo che guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno la vita stia per cominciare. È un errore: il futuro dipende dal passato. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. E vale per l’Italia, da tempo immersa in una stagione di «eccezionalità costituzionale». L’ha definita così Napolitano, auspicando il restauro della norma, della regola. Quale normalità? E dov’è stata, fin qui, l’eccezione?
A girarsi indietro sui vent’anni della seconda Repubblica, due fenomeni si stagliano sopra tutti gli altri: la verticalizzazione del potere; la sua concentrazione personale. Entrano in crisi gli organismi collegiali, dal Parlamento che la Costituzione situa a fulcro del sistema, ma che ormai appare come una folla d’anime perdute; ai Consigli regionali, le cui imprese allietano la cronaca giudiziaria, non più quella politica. Lo stesso Consiglio dei ministri — che ai tempi della prima Repubblica costituiva il crocevia nel quale s’intessevano gli accordi fra i partiti di governo — viene offuscato e sormontato dal faccione del leader, del Gran Capo di turno.
Perché è questo il nuovo verbo, tanto da praticare un lifting sulle parole stesse della Carta. Così, il presidente del Consiglio si trasforma in Premier, confondendo Tevere e Tamigi. I presidenti regionali sono altrettanti Governatori, come s’usa negli Usa. Il capo dello Stato diventa un monarca («re Giorgio»), manco fossimo a Madrid. Vent’anni di solitudine, direbbe García Márquez. E la solitudine al potere. Ma nel frattempo questi poteri solitari s’intralciano, si sfidano, tendono sgambetti. Anzi: tutta l’avventura della seconda Repubblica può leggersi come un duello, fra le istituzioni, se non fra le persone. E i maggiori duellanti hanno casa rispettivamente a Palazzo Chigi e al Quirinale.
Chi ha vinto? Napolitano, nella penultima stagione. Quando i partiti gli chiesero a mani giunte di rieleggerlo, in nome dello stato d’eccezione. O quando lui fu levatrice e nume tutelare dei governi, surrogando il Parlamento. Ma ha vinto Renzi, nell’ultima stagione. Ossia un presidente del Consiglio superpopolare, mentre cadeva di 27 punti la popolarità del Colle (Demos 2014), mentre il suo inquilino lasciava il campo pur restandogli 5 anni di mandato. Sarà forse questa, la normalità costituzionale che ci attende. E dopotutto è questa — ahimé — la norma cui tende il progetto di riforma. Molte truppe, un solo generale.

Corriere 4.1.14
L’affare delle navi dei migranti
di Fiorenza Sarzanini


Vecchi cargo lasciati alla deriva verso l’Italia: costano 200 mila dollari, fruttano 2 milioni
di Fiorenza Sarzanini La nuova rotta per i migranti è partita l’estate scorsa, quando l’Egitto ha rafforzato i controlli sulla frontiera orientale: i profughi puntano all’Italia partendo dalla Turchia. È cominciata un’immediata trattativa tra Roma, Ankara e anche la Grecia per bloccare i trafficanti di uomini, che utilizzano vecchi cargo da rottamare comprati a 200 mila dollari in cui i migranti sono stipati a centinaia nella stiva e poi lasciati alla deriva. Il guadagno è di 10 volte: 2 milioni di dollari.

ROMA C’è un doppio canale di trattativa aperto dall’Italia per fermare i mercantili carichi di migranti che arrivano dalla Turchia.
Uno si rivolge direttamente alle autorità di Ankara e ha già avuto un primo contatto «tecnico» a Roma nei giorni scorsi per trovare una linea comune in modo da fronteggiare partenze e arrivi.
L’altro mira alla Grecia e alla necessità che vengano pattugliate in maniera più efficace quelle coste, ma anche che i natanti schierati nel mar Ionio rispondano agli Sos lanciati dagli scafisti per costringere i mezzi di soccorso ad andare a prendere gli stranieri quando sono in balia delle onde.
L’allarme a settembre
Già alla fine dell’estate scorsa la Capitaneria di Porto e il Servizio Immigrazione del ministero dell’Interno avevano segnalato — attraverso gli ufficiali di collegamento — l’apertura della nuova rotta e la necessità di trovare una linea comune, senza però ricevere alcuna risposta dagli altri organismi internazionali.
Con l’intensificarsi delle partenze, la strategia diplomatica ha invece trovato adesso un alleato inaspettato nel commissario Europeo Dimitris Avramopoulos. E forse non è un caso, visto che si tratta dell’ex ministro della Difesa greco che ben conosce evidentemente quella realtà e sa perfettamente quali rischi può comportare una sottovalutazione del problema.
Il «no» egiziano
Il pericolo più evidente è quello della sicurezza. Proprio come avviene da anni in Libia, anche in Turchia il numero delle persone fatte salire sui mercantili è molto più elevato della reale portata dell’imbarcazione e questo espone i mezzi al pericolo di naufragio. Ogni volta sono centinaia gli uomini, le donne e i bambini stipati in ogni angolo della nave, chiusi nella stiva, che viaggiano di notte e vengono poi lasciati alla deriva senza cibo né acqua.
Si tratta di una «rotta» relativamente nuova, diventata quella più battuta da quando l’Egitto — fino a qualche mese fa meta privilegiata dei siriani — ha deciso di incrementare i propri controlli sulla frontiera est rendendo molto più difficile a chi fugge dalle zone di guerra riuscire a varcare il confine. Il flusso dei profughi si è dunque spostato verso nord, arrivando in Turchia dove ci sono due «piste» da battere. Quella marittima che porta in Italia e quella terrestre verso la Germania, Paese che poi è risultato essere la meta privilegiata dei siriani, ma anche di chi proviene da Afghanistan e Bangladesh.
Il doppio canale
Proprio su questo, sul pericolo di un’invasione di richiedenti asilo che può riguardare numerosi Stati membri, batte il ministro dell’Interno Angelino Alfano per cercare di ottenere collaborazione prima che sia troppo tardi e si ripropongano le stesse difficoltà già incontrate — e tuttora non risolte — per il flusso che arriva dal nordafrica e passa per i porti della Libia.
E infatti, nel comunicato diramato ieri dopo le centinaia di arrivi registrati negli ultimi giorni, parla di «strategie comuni ben definite» con le autorità di Ankara. A loro è già stato chiesto «un intervento per fermare le partenze dalle coste e per intensificare i controlli sulle “navi carretta” che non sono a norma e quindi andrebbero bloccate a prescindere dalla presenza o meno dei migranti».
Ma il titolare del Viminale evidenzia anche l’opportunità di «potenziare la collaborazione con le autorità greche per far sì che le navi vengano intercettate prima che arrivino a largo delle nostre coste, com’è invece accaduto sinora». Riferimento esplicito all’operazione «Poseidone», da tempo avviata dall’agenzia della Unione Europea Frontex, simile nello spiegamento di uomini e mezzi e negli obiettivi a quello che avviene di fronte alle coste siciliane con «Triton». Di fronte alla Grecia sono schierati i natanti messi a disposizione dagli Stati membri che devono pattugliare il mare e, in caso di pericolo, attivare la procedura per il recupero delle persone che si trovano a bordo di imbarcazioni in difficoltà. Questo però nella maggior parte dei casi non avviene e, anzi, le autorità non rispondono agli Sos lasciando che le navi entrino nelle acque italiane.
I mezzi rottamati
Quando parla del «blocco» delle navi, Alfano si riferisce invece al «mercato nero» che in Turchia sta diventando sempre più fiorente. Sono due i porti da cui salpano i mezzi, entrambi in Turchia: Mersin e Didim. Le organizzazioni criminali utilizzano i mercantili che gli armatori mandano lì a rottamare per abbassare i costi, visto che negli Stati europei ci sono norme molto rigorose sulla distruzione e prezzi elevatissimi. Gli scafisti li comprano spendendo circa 200 mila dollari: tenendo conto che ogni «passeggero» paga 5 mila dollari (naturalmente anche gli euro sono ben accetti) per essere imbarcato, ogni viaggio frutta ai suoi organizzatori un guadagno di almeno due milioni di dollari. Il primo risale al 29 settembre: Turchia-Italia, 364 persone a bordo del mercantile «Storm». Dopo ce ne sono stati altri tredici. Stessa rotta, stessa tecnica utilizzata dagli scafisti.
Oltre 10 mila arrivi
La nave viene portata in mezzo al mare carica di disperati, per la maggior parte siriani in fuga dalla guerra. Quando è abbastanza al largo il timone viene bloccato, si innesta il pilota automatico per una navigazione a circa 10 nodi, si lancia l’Sos e poi si va via con un’imbarcazione di appoggio più veloce. I profughi vengono abbandonati al proprio destino, in realtà chi ha organizzato la traversata sa che in poche ore arriveranno i soccorritori italiani disponibili a prenderli e portarli in salvo sulle nostre coste.
In tre mesi sono circa 10 mila gli stranieri approdati in questo modo. Molti altri ne arriveranno e per questo è indispensabile cercare di fermare in fretta i flussi in modo da evitare un’emergenza che potrebbe assumere dimensioni enormi.

Corriere 4.1.14
Israele congela le tasse destinate alla Palestina
di Francesco Battistini


Ritorsione per la decisione di Abu Mazen di aderire alla Corte penale internazionale
DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME Incalzato dall’estrema destra, che l’aspetta alle elezioni di marzo. Attaccato dalla stampa, che l’accusa di non avere previsto la mossa palestinese di chiedere un processo internazionale per crimini di guerra. Stressato dal suo ministro degli Esteri, Lieberman, che gli rimprovera di non saper mai «dare una risposta adeguata» ad Abu Mazen. Alla fine, il premier Bibi Netanyahu ha preso la più scontata delle decisioni: bloccare il trasferimento a Ramallah delle tasse che ogni mese, in base alla pace di Oslo del ’93, sono raccolte fra gli arabi israeliani. Niente rata di dicembre: i 100 milioni d’euro salderanno quanto i palestinesi devono a Israele per la bolletta elettrica e per le cure negli ospedali. «È una prima reazione», fanno sapere da Gerusalemme: Bibi ha in agenda il Consiglio dei ministri, oggi, e potrebbe varare altre misure.
Il «non ti pago» non è una novità, ma quanto basta a mettere in difficoltà l’Autorità palestinese. Che già fatica a pagare gl’impiegati in Cisgiordania; già è alle prese coi 30 mila nuovi dipendenti di Hamas a Gaza, senza stipendio da otto mesi; già rischia di vedersi tagliare l’assegno annuale da 400 milioni degli Usa, irritati per la scelta di Abu Mazen di chiedere all’Onu un riconoscimento unilaterale dello Stato. «Congelare le tasse è un atto di pirateria e l’ennesimo crimine di guerra — protesta il negoziatore Saeb Erekat —, gli israeliani non sono un Paese donatore: quelle tasse sono soldi nostri». I prossimi mesi serviranno a saggiare l’ira israeliana: Abu Mazen sa che l’aver preso la strada dell’Aja rischia di rivelarsi un errore, perché ora Netanyahu minaccia azioni legali. Per «dimostrare al mondo che l’alleato dell’Anp è un gruppo di terroristi». Per ottenere che quelli di Hamas siano equiparati all’Isis: vanno processati anche loro, dato «l’uso che fanno di razzi sui cittadini israeliani e di scudi umani fra la popolazione di Gaza». Bisogna fare i conti anche con Washington: a Obama, la scorciatoia diplomatica palestinese non è piaciuta. Anche perché lo scorso marzo aveva presentato un suo piano su Gerusalemme ad Abu Mazen e a Erekat, rivela l’ex ministra israeliana Tzipi Livni, e «se Netanyahu non aveva detto né sì, né no», i palestinesi avevano fatto finta di non sentire. Pensavano già all’Onu. Si giocavano il destino all’ultima tassa.

Corriere 4.1.14
Così l’«eroica» Kobane è diventata la tomba delle milizie del Califfo
Raid dal cielo e peshmerga: molti i caduti europei
di Guido Olimpio


Le case distrutte a Kobane sono le tombe dell’Isis. Dozzine di mujaheddin sono stati uccisi nel tentativo di conquistare la cittadina curda tra Siria e Turchia. I sogni di gloria del Califfo, abile politico ma, in questo caso, pessimo stratega, si sono infranti su due grandi ostacoli: la resistenza dei difensori e i raid aerei alleati.
Quando in estate il movimento jihadista ha sferrato la sua offensiva era convinto di una vittoria lampo, realizzata con alta mobilità e potenza di fuoco. In pochi giorni i militanti curdi dell’Ypg erano stati costretti a ripiegare a ridosso della frontiera. La caduta di Kobane era data per imminente. Da tutti. Turchi, americani, osservatori. Poi, inattesa, la svolta.
La presenza delle telecamere e dei giornalisti che documentavano in tempo reale l’agonia di Kobane ha dato la sveglia. E il Pentagono, che inizialmente aveva liquidato la battaglia come un episodio insignificante, ha cambiato idea. Così ha mobilitato la coalizione che ha iniziato a martellare le posizioni dell’Isis. A oggi gli Usa e gli alleati hanno condotto 190 raid a protezione della città. Una quota importante delle 1.617 incursioni tra Siria e Iraq.
L’aiuto dal cielo ha dato una copertura formidabile alla tenacia dei guerriglieri curdi dell’Ypg, spalleggiati da un piccolo nucleo di insorti siriani e da un centinaio di peshmerga arrivati dal Kurdistan iracheno. Senza voler togliere onore e meriti ai difensori, è evidente che l’intervento di droni e caccia ha salvato Kobane.
Per prenderla, gli islamisti le hanno provate tutte. Prima hanno impiegato armi pesanti — compresi i tank — poi per ridurre l’esposizione ai jet, hanno ridotto le unità. Hanno scavato tunnel per sorprendere gli avversari. Quindi si sono affidati alle azioni suicide. Giganteschi camion blindati, con a bordo kamikaze e tonnellate di esplosivo, hanno tentato di sfondare le linee. I veicoli bomba hanno aperto brecce, ma non hanno travolto il bastione.
In alcuni momenti i curdi sono sembrati capitolare, ma poi è sempre arrivata la cavalleria, intesa come l’aviazione che ha inferto colpi di maglio terrificanti, favorita anche da informazioni passate dai peshmerga attraverso una sorta di sala operazioni remota. Per dare l’idea delle operazioni citiamo il comunicato alleato del 2 gennaio: «Attaccate una grossa unità e una posizione da combattimento, distrutti 4 edifici Isis, 10 posizioni da combattimento e un tank».
Giorno dopo giorno, raffiche di mitragliatrice tirate da postazioni ben mimetizzate e le bombe al laser sganciate su quella strada o su un incrocio hanno aperto vuoti nelle file islamiste. Il Califfo ha mobilitato reparti scelti composti da «ceceni», termine usato spesso per indicare i militanti più preparati. Insieme a loro molti combattenti locali e i volontari stranieri. Tanti i «martiri», documentati dagli annunci sul web con foto di cadaveri avvolti nel sudario o sotto le macerie. Sauditi, francesi, britannici inghiottiti dalla «fornace».
C’è chi ipotizza — esagerando — che la storia di Kobane sia stata una trappola studiata a tavolino dal comando centrale: alzando la posta ha costretto Al Baghdadi a inviare altre forze e a esporle ai raid. Per il Califfo mollare la presa sarebbe una sconfitta. In realtà sono stati gli eventi a modellare lo scenario.
Lo Stato islamico ha registrato successi in Iraq ma qui ha pagato pegno e non è mai sembrato considerare lo scontro come un episodio secondario. Voleva e vuole sbarazzarsi di questa spina nel fianco.
Morale. Kobane ha tenuto, anche se l’Isis è rimasto una minaccia, contrastata da 10-12 incursioni aeree al giorno. Difficile dire cosa rimarrà in piedi di un luogo che fino a pochi mesi fa era solo un punto geografico.
Guido Olimpio

Corriere La Lettura 4.1.15
Il 2015 è l’anno della luce. Lo ha decretato l’Onu
Luce
Solo il buio la definisce davvero: senza contrasto non può esistere
di Arthur Duff


Sembra paradossale, immerso come sono nella luce del sole e ipnotizzato dalla luce bianca dello schermo del computer, la semplicità con cui riesco a visualizzare il buio. Non è per nulla un buio intimidatorio o carico di significati simbolici. È più un’immagine di buio da definire, contenuto compresso, traballante, appannato. Da qui, inizio a riflettere su come la luce possa abitare questa immagine mentale e come possa ottenere una definizione. Ha bisogno di un confine, una soglia, un oggetto. La luce cerca una forma su cui riflettere o dalla quale essere assorbita. In questo caso, è interamente luce potenziale e intrinseca, limitata dai confini fisiologici del mio cervello; la mia immaginazione. Più di cinquant’anni fa l’artista tedesco Otto Piene, scomparso nel 2014, scriveva: «È strano che l’oscurità abbia una parte così preponderante nella sfera dell’arte contemporanea, specialmente se consideriamo che l’uomo trascorre la più importante parte della sua vita, quella in cui è sveglio, alla luce». ( L’Oscurità e la Luce , n. 2 «Azimuth», 1960).
Piene, in quel momento, era immerso in un dialogo fra una nuova relazione con l’oggetto e il processo che porta alla sua creazione, in contrasto con convenzioni datate sulla concezione della pittura, della scultura e soprattutto dello spazio dell’arte. Per lui il buio era il vecchio, da «perforare con la luce, rendere trasparente per togliere il terrore da esso». Usava il buio come mezzo per far apparire più luminosa la luce; il nero del buio era l’espressione dell’invisibile, degli eventi tragici e della perdita di direzione.
Ammetto che come artista sono onestamente invidioso dell’ottimismo visionario di Otto Piene all’inizio degli anni Sessanta, dove la luce poteva prendere uno slancio metaforico limpido e romantico. Luce/buio, direzione/spaesamento, visibile/invisibile, eccetera. Credo che la perdita del visibile non sia necessariamente una perdita di significato. Il buio è sia un punto di partenza che un punto di arrivo. Sempre presente, ci avvolge e ci contiene. Il mio cervello non vedrà mai la luce (lo spero almeno), la percepirà solo indirettamente; come elaborazione d’informazioni, il momento di percezione è causato da un fotone, che innescherà una serie di processi, il mio sistema visivo li convertirà ed elaborerà in attività cerebrale, da comprendere ed elaborare ancora. La soglia tra l’oggetto fisico «esterno» e la sua percezione «interna» diventa una questione critica, da scoprire su vari livelli e in vari momenti. Si manifesta nel mio lavoro nella relazione tra la fonte di proiezione (uso una tecnologia di proiezione laser che emette un fascio luminoso scaturito da un solo punto) e gli spazi ampi che occupa la luce proiettata, oppure nella relazione tra la natura fisica in cui si manifesta il fenomeno luminoso e lo spazio cognitivo in cui viene elaborato.
Il mio lavoro tende a operare sulla dinamica del quadro di riferimento, più che su una cosa in sé. Mi permette di lavorare su un rapporto di scala infinitamente vario e diventa quasi irrilevante su quale livello io scelga di intervenire: in fondo, l’ambito della nostra esistenza, su una scala galattica (per non dire universale), è tremendamente esiguo. È la luce come materia a ovviare a un problema di scala. Viaggia all’infinito e non ha tempo. Un materiale perfetto per fare scultura.
Come esseri umani si potrebbe dire che ci siamo evoluti per conservarne l’impressione, per ricordarne l’immagine. Quindi è la scelta dello spazio sul quale intervenire, come produttori di cose e di immagini, che rimane per noi il vero campo di azione dell’arte. Uno spazio, infatti, non rimane mai determinabile come esterno all’apparato percettivo: il buio, nel mio caso, non lo permette. Una fascia luminosa precisa, proiettata in assenza di luce su un oggetto, crea un contrasto che amplifica il nero percepito che circonda la presenza luminosa. Il buio diventa quindi più presente. E il nero più nero.
Il nero inizia dunque ad assumere delle caratteristiche di cosa , esattamente come può iniziare a essere definito come spazio reale . Reale perché inizia a descrivere uno spazio fisico esterno che coabita lo spazio cognitivo. E questo non avviene attraverso un processo illusorio: parliamo comunque di momenti in cui il buio e la luce si manifestano in termini concreti. Sebbene la luce possa essere descritta come un’onda, infatti, ha anche le proprietà tipiche di una particella.
Considero il mio lavoro più inerente al buio che alla luce e uso la luce con l’intento di avere un effetto sul buio dal quale è circondata: anche su quel buio intrinseco, interno, fisiologico, lontano. È uno spazio, questo, dove si transita tra il fenomenico e il concreto, l’illusorio e il reale, tra la parte e il tutto. Qui cerco quel buio fluido, in costante conversione tra nero esterno e nero percepito. L’uso della luce permette di accrescere il nero del buio e ne aumenta la presenza, facendolo diventare quasi corpo. Di questa sostanza voglio scoprire le scansioni interne, tentando di non inciampare in un misticismo retorico e facendo di tutto per limitarmi alla superficie, lavorando per creare uno spazio della scultura dove, all’emergere solido della luce, la totalità del buio prenda forma.

Corriere La Lettura 4.1.15
Aver stabilito la sua velocità ha mutato l’idea di misura
Onda e corpuscolo: una natura duale termometro delle stelle
di Massimo Inguscio


Per la scienza la luce è conoscenza: viviamo in un mondo di luce, «vediamo» ciò che ci circonda e grazie alla luce proveniente da galassie lontane conosciamo l’universo. La stessa «comprensione» della natura della luce è andata di pari passo con lo sviluppo della scienza. Cominciamo con la sua velocità: intuita come finita da Galileo nei Discorsi del 1638, misurata con tecniche sempre più raffinate nel corso dei secoli, è la massima possibile secondo la relatività ristretta di Einstein, tra l’altro un limite invalicabile alla velocità di trasmissione dell’informazione. Quasi quarant’anni fa la determinazione «esatta» della velocità della luce ha reso obsoleto il metro come «campione indipendente» di lunghezza riportandolo alla misura del tempo, circa tre miliardesimi di secondo, impiegato dalla luce per percorrerlo.
La velocità finita ci ha permesso di misurare la distanza Terra-Luna con precisione quasi millimetrica e ci fa «vedere» in ritardo costituenti lontani nell’universo. Questo permette una sorta di viaggio a ritroso nel tempo che ci aiuta a comprendere se i nostri atomi e molecole sono esattamente gli stessi da miliardi di anni.
Ma cosa è la luce? Newton la descriveva fatta di corpuscoli di colori diversi, ma ci sono fenomeni come i colori cangianti delle bolle di sapone che si spiegano solo con una teoria ondulatoria. Si tratta di oscillazioni di campi elettrici e magnetici che si ottengono a partire dalle equazioni di Maxwell, elegantissime come tutte quelle che descrivono le leggi fondamentali della Fisica.
Onda o corpuscolo?
Si usa sentir parlare di dualismo, in effetti si tratta di due aspetti diversi che si manifestano a seconda dei fenomeni che si osservano: la realtà fisica è quella che ci risulta dagli esperimenti. La soluzione è nel fotone, il «pacchetto d’onda» introdotto con lo sviluppo della meccanica quantistica. Un fascio di luce più o meno intenso è costituito da tante o poche «ondine» elettromagnetiche oscillanti (i vostri occhi ne stanno intercettando milioni di miliardi ogni secondo) e il colore dipende da quanto rapide sono appunto le oscillazioni. In un fotone «blu» la frequenza è più alta che in un fotone «rosso», un po’ come succede per un suono acuto rispetto a uno basso.
Attenzione però, la luce si propaga anche nel vuoto e attraversando spazi siderali la luce è uno speciale termometro per le stelle: il «bianco» è dato da una distribuzione continua che dipende solo dalla temperatura. È la stessa legge universale ricavata da misure precise in laboratorio la cui interpretazione portò Planck a formulare la teoria dei quanti. La luce è visibile ai nostri occhi se le oscillazioni elettromagnetiche avvengono con una frequenza un po’ meno di un milione di miliardi al secondo, ma abbiamo sviluppato rivelatori per onde «invisibili» come quella «fossile» che oscilla un milione di volte più lentamente e investendoci da ogni parte dell’universo ci parla di un residuo, a più di 270 gradi sotto zero, risalente al mondo poco dopo il Big Bang.
Dall’universo all’infinitamente piccolo… La luce ci ha insegnato come sono fatti gli atomi portando alla scoperta di teorie sempre più raffinate, a partire dalla meccanica quantistica. La necessità di spiegare come certa emissione di luce da semplici atomi di idrogeno fosse composta da due «colori» vicinissimi portò Dirac a combinare relatività e meccanica quantistica e a prevedere l’esistenza dell’antimateria. Oggi siamo in grado di vedere i fotoni emessi dagli atomi uno a uno e di usarli come messaggeri di informazione quantistica a prova di hacker. Il conteggio dei fotoni permette di misurare molto precisamente l’intensità luminosa dei led con i quali possiamo sintetizzare nuova luce bianca con un’efficienza energetica decine di volte maggiore della lampadina a incandescenza: una rivoluzione tecnologica a servizio dell’umanità — un quarto del consumo mondiale di elettricità va in illuminazione — premiata con il Nobel per la Fisica 2014.
Alla curiosità di capire come la luce interagisce con gli atomi è legata la scoperta del laser, l’invenzione un po’ a sorpresa che più di ogni altra ha creato innovazione tecnologica nel secolo scorso. Il laser è una forma di luce purissima, con una frequenza e un colore perfettamente definiti. Oggi la possibilità di contare il milione di miliardi di volte che la luce gialla di un fascio laser oscilla in un secondo consente di utilizzare gli atomi per realizzare orologi di una precisione mai raggiunta, orologi che su tutta l’età dell’universo sbaglierebbero di un solo secondo.
Qui la luce è protagonista assoluta: controlla il moto degli atomi fin quasi a fermarli, li intrappola, li interroga. Questi orologi, fatti con atomi e luce, sono molto sensibili alla gravità che imbriglia lo scorrere del tempo, come previsto dalla relatività, questa volta quella generale, di Einstein: un orologio in montagna va «avanti» rispetto a uno in pianura.
È sempre la luce, infrarossa questa volta, che viaggia in fibra ottica dall’Istituto nazionale di ricerca metrologica di Torino al Frejus per confrontare due orologi ottici: la sfida è quella di misurare col «tempo» le impercettibili variazioni di gravità dovute alle deformazioni e ai movimenti della crosta terrestre. Di più, una rete di luce ultraprecisa in fibra viene ora tessuta tra gli orologi atomici degli istituti di metrologia europei. Sarà un osservatorio sensibilissimo, esteso nello spazio e con precisione tale nella misura del tempo che potrebbe aiutarci persino a svelare l’enigma della materia oscura, riservandoci chissà quali sorprese.

Corriere La Lettura 4.1.15
Teologia
Dalla Genesi alla tradizione francescanaÈ la prima creatura anzi s’identifica con Dio al pari dell’amore
di Piero Stefani


San Francesco compose il Cantico di frate Sole quando aveva gli occhi cauterizzati e fasciati. Fu dunque nel buio più impenetrabile che il santo pronunciò le parole volte a lodare il Signore per il Sole, l’astro grazie al quale Egli ci illumina. Francesco lo loda per quanto benefica altri. Basterebbe ciò a indicare l’altezza di un’anima. Il Cantico si riferisce a fonti di luci visibili, senza fare alcun cenno a realtà invisibili. In un tempo in cui la corrente ereticale dei catari scorgeva nella materia il sigillo del demiurgo cattivo, Francesco celebra la bontà del Dio invisibile partendo dal mondo materiale.
Nel Cantico la spiritualità della luce è tutta legata al mondo osservato con gli occhi. In quel testo le realtà materiali non sono colte come il primo gradino di una scala che ci porta alla sfera dei beni spirituali. La lode celebra piuttosto la volontà dell’Altissimo di preoccuparsi delle sue creature. Il Sole è simbolo del Signore perché è attraverso di esso che Dio si prende cura di noi: «Et allumini noi per lui». Gesù l’aveva detto nel «Discorso della montagna»: il Padre fa sorgere il suo Sole sui cattivi e sui buoni ( Matteo 5,45). La luce solare illumina e riscalda tutti senza eccezione.
Nelle sue prime righe il libro della Genesi parla di tenebre estese sull’abisso. L’oscurità è però sconfitta dalla prima parola uscita dalla bocca di Dio. Essa ci è tuttora familiare nella sua formulazione latina: «Fiat lux» ( Genesi 1, 3). La parola invisibile crea la luce. La precedenza della parola ci comunica che la luce è creatura di Dio. Nessun linguaggio verbale umano riesce a trasmettere appieno quest’ idea. La musica, forse, è in grado di fare un po’ di più: l’accordo in maggiore che squarcia il «preludio del caos» nella Creazione di Franz Joseph Haydn è luminoso. Tuttavia neppure da quel suono sorge la luce.
Si tratta di pura luce, priva di fonti luminose. Il Sole, la Luna e le stelle, definite semplicemente lumi ( me’orot ), saranno create solo il quarto giorno ( Genesi 1, 14-19): la luce, da primaria, diviene secondaria. Tra i biblisti, nell’epoca della secolarizzazione, si amava dire che il Sole, da divinità (si pensi all’Egitto), è stato trasformato in lampada. Non si tratta soltanto di desacralizzare. Il Sole è presentato come creatura di Dio perché dona luce e calore agli altri. Al quarto giorno siamo così arrivati al punto in cui il Cantico di Francesco inizia: «Et allumini noi per lui».
«Yehi ’or», «fiat lux»; era inevitabile che questa luce primordiale che precede ogni sorgente luminosa suscitasse tra gli ebrei e i cristiani una serie quasi infinita di speculazioni mistiche. Ritenere la luce la prima fra le creature comporta che tutte le altre dipendano da essa. Nella prima metà del XIII secolo il francescano Roberto Grossatesta non si limitò alla lode scritta dal fondatore del suo ordine. Per il filosofo inglese la luce è la forma prima di ogni materia creata. La speculazione metafisica, quando affronta il tema della luce, fa risuonare in lui anche corde poetiche: «La prima parola del Signore creò la natura della luce e disperse le tenebre, e dissolse la tristezza e rese immediatamente ogni specie lieta e gioiosa. La luce è bella di per sé». Per Grossatesta la luce causa nelle creature un senso di felicità.
Si può fare un passo ulteriore. Nella «civiltà del commento» la domanda del perché Dio abbia iniziato la sua opera creativa con la luce trova una risposta: «Perciò Dio, che è luce, giustamente ha cominciato l’opera dei sei giorni dalla luce stessa, di cui tanto grande è la dignità» (Grossatesta). Dalla creatura si passa così al Creatore. Dio è luce incorporea. Il termine, associato più di ogni altro al vedere, viene ora riconsegnato al mondo invisibile. Ci si inabissa addirittura, con Dante Alighieri, oltre al «ciel ch’è pura luce /luce intellettual piena d’amore» ( Paradiso XXX, 39-40). Si giunge infatti nel seno stesso di Dio uno e trino.
Nella prima lettera di Giovanni si legge che «Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna» (1,5). Questa pura luce senza contrasti attesta la radicale diversità divina rispetto alle realtà create, nell’ambito delle quali la luce deve risplendere sempre tra le tenebre ( Giovanni 1,5). Quando nel Credo si parla del Figlio lo si definisce «Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero». La luce, come l’amore, per sua intima natura, si espande. Ciò vale anche all’interno della vita di Dio. Un inno vespertino della liturgia cattolica esclama: «O lux, beata Trinitas et principalis Unitas» — O luce, Trinità beata e Originaria Unità. Se alla parola lux sostituissimo il termine amore, il significato non muterebbe. La prima lettera di Giovanni afferma non solo che Dio è luce, ma che Egli è anche amore ( 1 Gv 4,8).
La luce non la si vede, essa fa vedere. È soprattutto per il suo essere rivolta verso l’altro da sé che la luce, nella vita spirituale, è associata all’amore. Ciò vale anche per il Sole che il Padre fa sorgere sui cattivi e sui buoni. È pressoché certo che oggi quella radiosa materialità voluta dal Signore sia spiritualmente più eloquente delle speculazioni dirette all’inaccessibile vita intradivina. Il Sole non sa che ci sta illuminando, tuttavia chi lo guarda con gli occhi spirituali di frate Francesco loda Dio per il suo illuminarci attraverso l’astro che dell’Altissimo «porta significatione».