lunedì 5 gennaio 2015

La Stampa 5.1.15
Via la norma “salva Berlusconi”
Mistero fitto su chi l’abbia scritta
Casero dell’Ncd nega: accusa lunare
È stata inserita in Consiglio dei ministri e il sottosegretario Zanetti rilancia: non si può fare politica con il sospetto
di Ame. Lam.


Una norma del decreto legislativo in materia fiscale, approvato dal Consiglio dei ministri il 24 dicembre, ha scatenato un putiferio. Sotto accusa l’articolo 19 bis che prevede l’esclusione della punibilità «quando l’importo delle imposte sui redditi evaso non è superiore al 3% del reddito imponibile dichiarato». Secondo alcuni giuristi e politici consentirebbe la cancellazione della condanna di Berlusconi a quattro anni per frode fiscale. In sostanza il Cavaliere potrebbe chiedere l’annullamento degli effetti della legge Severino, cioè l’incandidabilità per sei anni, con il risultato di ottenere la piena agibilità politica.
Renzi blocca il decreto
Di fronte ai sospetti e alle polemiche, il premier ha deciso che il provvedimento tornerà al Consiglio dei ministri per essere rivisto. «Di tutto abbiamo bisogno - dicono a Palazzo Chigi - tranne che dell’ennesimo dibattito sul futuro di un cittadino, specie in un momento come questo dove qualcuno teorizza strampalate ipotesi di scambi politici-giudiziari, anche alla luce del delicato momento istituzionale che il Paese si appresta a vivere». Il riferimento è all’elezione del nuovo Capo dello Stato. I 5 Stelle attaccano a testa bassa, parlano di «regalo di Natale» a Berlusconi. Grillo accusa Renzi di proteggere l’evasione fiscale: «Renzi nega, ma la verità è plateale». Attacca anche il leader Salvini. «Il decreto inciucio sul fisco è l’ennesima “renzata”. Un giorno promette una cosa e poi il giorno dopo la smonta e poi ricomincia daccapo. Ha fatto così sull’Irap, tasse, Europa». Non meno tenera la minoranza Pd che con D’Attorre chiede a Renzi di svelare chi a Palazzo Chigi abbia inserito la norma visto che non è uscita dal ministero dell’Economia. Il premier reagisce e prova a neutralizzare il sospetto: «Se qualcuno immagina che in questo provvedimento ci sia non si sa quale scambio, non c’è problema: ci fermiamo. La norma la rimanderemo in Parlamento soltanto dopo l’elezione del Quirinale. Dopo che Berlusconi avrà completato il suo periodo a Cesano Boscone».
Il Quirinale e Bassanini
Il sospetto riguarda sempre il reale contenuto del patto del Nazareno. Cosa ottiene Berlusconi in cambio dell’accettazione di un candidato proposto da Renzi? Dentro Fi gira il nome di Franco Bassanini, presidente della Cassa Depositi e Prestiti. Un nome gradito a Renzi perché non gli farebbe troppa ombra, dicono fonti Fi, e sul quale il Cavaliere potrebbe essere tentato di dire sì. Ma questa partita, spiegano gli azzurri, non ha nulla a che fare con la norma bloccata da Palazzo Chigi.
Zanetti e Casero
Indice puntato contro il sottosegretario all’Economia Casero, esponente di Ncd, considerato ancora in ottimi rapporti con Berlusconi. E’ sua la manina che ha inserito l’articolo 19 bis? «Un’accusa lunare: io ho il mandato di seguire il provvedimento in Parlamento. Cosa sia successo a Palazzo Chigi e al Consiglio dei ministri non lo so. Mi sembra una tempesta in un bicchiere d’acqua», dice Casero. A sollevare pubblicamente il problema è stato l’altro sottosegretario all’Economia Zanetti di Scelta civica. Ma non perché ci ha visto una norma salva Berlusconi: non avrebbe inserito la franchigia del 3% per il reato di frode fiscale. «Questo - dice Zanetti - non vuol dire che l’articolo 19 bis, che fino al 23 dicembre non c’era nel testo che ho letto, è stato inserito per Berlusconi. È stata una scelta legittima del Consiglio dei ministri e non me ne frega niente se avvantaggia anche Berlusconi. Non è possibile fare politica sempre sotto la spada di Damocle del sospetto».

Corriere 5.1.15
Il mistero della manina e Renzi che dice: sono stato io
di Antonella Baccaro e Marco Galluzzo


Alla fine di una giornata di rimpalli, telefonate, richieste di spiegazioni, a prendersi la responsabilità di tutto è stato Renzi. A chi lo chiamava, il premier ha spiegato che quella norma l’ha voluta lui, è stata condivisa con Padoan e discussa con gli altri ministri.

ROMA La tesi della «manina», del fantasma di Palazzo Chigi, del giallo del rimpallo di responsabilità fra ministero dell’Economia e staff del premier, si rincorre per tutto il giorno. Ma alla fine è lo stesso Renzi a metterla a tacere. A chi lo chiama, a chi chiede spiegazioni, nel pomeriggio, il capo del governo dice che non c’è alcun mistero, che la norma incriminata l’ha voluta lui, è stata condivisa con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, discussa con gli altri ministri, che fa parte dello spirito del provvedimento.
Nel governo, più o meno nelle stesse ore, c’è chi dice che si è trattato di «una leggerezza spaziale». C’è chi aggiunge, con una punta di imbarazzo, anche a Palazzo Chigi, che semplicemente, la norma, «ci è sfuggita». Ovviamente nessun ci fa una grande figura: un Consiglio dei ministri composto da politici e tecnici ha discusso di una norma su un reato delicato, sensibile, controverso, su cui il Cavaliere ha ricevuto una condanna appena nel 2013 e nessuno si è accorto di nulla. Nessuno ha avuto nulla da obiettare. Una versione per certi tratti verosimile, visto che in quella stessa riunione fu dedicato molto più tempo al Jobs act. Ma resta «la leggerezza», tanto macroscopica da infuocare il clima politico, e alla fine l’ammissione della stessa.
Questione chiusa? Mica tanto. La tensione provocata dalle polemiche sorte intorno alla norma che, secondo alcune interpretazioni, regalerebbe a Berlusconi l’agognato rientro a pieno titolo nella gara elettorale, ha alimentato per tutto il giorno veleni e sospetti che emergono, qua e là, nelle versioni alcune concordanti, altre meno, sulla genesi della norma e sul suo obiettivo. Basta riavvolgere il nastro. La prima scena si svolge al ministero dell’Economia, dove il lavoro preparatorio sul decreto si è concluso il giorno prima del Consiglio dei ministri della vigilia di Natale. Sui giornali c’erano già state polemiche su alcune bozze circolate del decreto fiscale, ma avevano riguardato l’innalzamento della soglia di punibilità della dichiarazione infedele da 50 mila a 150 mila euro. Della famigerata soglia del 3%, quella al di sotto del quale si guadagnerebbe l’impunità, nessuno aveva mai sentito parlare.
«Fino al 23 dicembre mattina quella norma non c’era — conferma il sottosegretario Enrico Zanetti —. Il 24 io non c’ero, il 25 e 26 mi sono dedicato alla famiglia, ma poi il giorno dopo sono andato a leggermi il testo del decreto direttamente sul sito web del governo». E lì si è accorto della novità, sollevando l problema. Il viceministro Luigi Casero concorda: «Neanche io ho sentito mai parlare di una soglia del 3% prima di vedere il testo uscito dal Consiglio dei ministri, quando ormai ero tornato a Milano. Del resto non è stata l’unica novità: ce ne sono almeno 3 o 4 rispetto alla versione che avevamo licenziato».
Padoan ieri non ha parlato, né il suo portavoce ha fornito spiegazioni sulla dinamica della vicenda. Alla domanda se il ministro difenda o meno la norma incriminata, si è limitato a rispondere che «non c’è una posizione nel merito della norma ma una disponibilità a valutare gli effetti della sua applicazione». Cioè? «Il principio discusso in Consiglio dei ministri va salvato: è opinione diffusa che così come sono oggi le norme consentono a quelli “bravi a evadere” di sfuggire, mentre vengono colpiti comportamenti di rilevanza minore». Proprio di questo si sarebbe parlato in un Consiglio dei ministri che i presenti, a dire il vero, ricordano più per l’animata discussione sul Jobs act. Un ministro, che in Consiglio c’era, rammenta che Padoan presentò il testo del decreto ma che Renzi aprì una discussione su alcuni punti per aumentare, in alcuni casi, e diminuire, in altri, le sanzioni. Si parlò delle ricadute della norma del 3% su Berlusconi? Il ministro giura di no.
Alla fine il testo rimaneggiato ottenne l’approvazione «salvo intese» per consentire agli uffici di verificare le compatibilità normative della nuova versione. Cosa che si sarebbe fatta al termine del Consiglio, finito alle 15.45, nel pomeriggio del 24, a Palazzo Chigi, dove l’ufficio legislativo guidato da Antonella Manzione stese la versione definitiva insieme a esponenti del ministero della Giustizia e dell’Economia e non si sa se c’era anche qualcuno del gabinetto di Renzi.
Il testo del decreto appare sul sito del governo già il 24 sera. L’attenzione si sposta dunque sul gabinetto che ha steso il testo finale: qualcuno dei tecnici era più consapevole degli altri delle possibili ricadute della norma? Sul punto resta il mistero. Certo, il rimpallo delle prime ore viene in qualche modo depotenziato dall’assunzione di responsabilità del premier. Il testo del Mef è stato cambiato, Palazzo Chigi vi ha apportato almeno quattro o cinque modifiche, «ma Padoan le ha condivise tutte», e poi «è del tutto normale che in sede di approvazione un testo venga in qualche modo modificato per essere migliorato».
Se ai suoi uffici dice di respingere qualsiasi insinuazione «strampalata» di scambi con l’ex premier, se in tv va a spiegare che il provvedimento sarà fermato, rivisto e inviato alle Camere solo dopo l’elezione del capo dello Stato, per fugare ogni dubbio di «inciucio», a chi gli parla nella giornata, in sostanza il capo del governo ammette che è stato fatto un errore, che ci si trova di fronte a una svista, per quanto macroscopica. Basterà a fugare tutte le ombre?

il Fatto 5.1.15
La norma salva B. Renzi in retromarcia
Lui ci ha provato: “Il salva-B. l’ho fatto io, ma ora lo blocco”
“Ho fatto tutto io. Ora stop”, confessa Renzi al Fatto
Ma i suoi accusano il viceministro del Tesoro, che potrebbe immolarsi
Il regalo a Berlusconi scaricato su Casero
“Frode fiscale, non è inciucio”. FI ci resta male
di Carlo Di Foggia


Si cambia verso: “Ci fermiamo”. Matteo Renzi torna sui suoi passi e blocca l’incredibile norma che avrebbe riabilitato Silvio Berlusconi. Un cavillo infilato nel decreto di Natale (e bocciato dal Tesoro), rivelato dal Fatto: quello che cancella i reati di evasione e frode fiscale se le tasse sottratte al fisco sono inferiori al 3 per cento del reddito dichiarato. Come primo effetto l’ex Cavaliere avrebbe potuto chiedere la revoca della sentenza di condanna per frode fiscale nel processo Mediaset, quella che lo ha fatto decadere da senatore per la legge Severino, cancellando così anche la pena accessoria e l’interdizione che gli avrebbe impedito la ricandidatura fino al 2018.
ANDIAMO con ordine. Dopo una mattinata di polemiche feroci, il premier decide di non trasmettere alle Camere il testo (attuativo della delega fiscale) approvato il 24 dicembre scorso, e modificato all’ultimo da Palazzo Chigi. “Se è così (se salva Berlusconi, ndr) ci fermiamo. Non facciamo norme ad personam”, spiega al Tg5: “Non c’è inciucio. Ne riparleremo dopo l’elezione del Quirinale, quando Berlusconi avrà completato i servi sociali”. Tutto per fugare i dubbi sulla curiosa tempistica (a poche settimane dal voto su Colle e Italicum) di una norma che non compariva nel testo elaborato dal Tesoro, e rimasto tale fino all’ultimo giro di boa, quello che precede il Consiglio dei ministri. Le polemiche sono scattate subito. “Mi tirano sempre in mezzo”, confessa Berlusconi ai suoi. Il Movimento 5 Stelle, però, ci va giù duro: “È il regalo di Natale a Berlusconi, una delle cambiali del Nazareno”, spiega il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, membro del direttorio M5S. “Il decreto si è scritto da solo”, ironizza Pippo Civati, voce della minoranza dem, che si fa sentire anche con Stefano Fassina: “Dica chi ha voluto la norma”.
ED ECCO il punto. Di chi è la manina che l’ha infilata? Per tutta la giornata le veline di Palazzo Chigi fanno filtrare un nome: Luigi Casero, viceministro al Tesoro in quota Ncd. “Uno che Renzi ascolta come pochi altri e che spesso fa anche partecipare al Cdm”, fanno sapere ambienti della Presidenza. Uno che, di fatto, permette di scaricare la colpa sul ministero. Lui, Casero, non commenta – è in vacanza dal 19 dicembre (prima dell’approvazione del testo) – ma al momento opportuno si immolerà per evitare imbarazzi. Ma c’è un però: la confessione dello stesso premier. “La norma l’ho fatta inserire io, ma avevo ricevuto rassicurazioni tecniche da avvocati e magistrati”, confida Renzi al Fatto. Tra i consulenti interpellati, però, c’è chi dice di non averla vista. Non sono i soli. Dal Tesoro filtra il nervosismo per un pasticcio combinato all’insaputa degli uomini del ministro Pier Carlo Padoan. Roberto Garofoli, lettiano capo di gabinetto del ministero, per dire, è furibondo. Preoccupazione anche ai vertici dell’Agenzia delle Entrate. Sbalordito è invece il presidente emerito della Consulta Franco Gallo, a capo della commissione del Tesoro che ha elaborato il testo, quello senza modifica.
A colpire, però, è soprattutto la tempistica. La norma del 3%, infatti, non è spuntata nel pre-consiglio, la riunione che di norma prepara e vaglia i testi che passano al Consiglio dei ministri, e a cui avrebbero partecipato – come da prassi – anche uomini del Tesoro. La modifica è stata invece inserita nel lasso di tempo che ha preceduto il cdm, con l’avallo del dipartimento affari giuridici della Presidenza, guidato dalla renziana Antonella Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze. Il vertice legislativo di Palazzo Chigi risponde solo a due persone: il premier e il suo uomo ombra, il sottosegretario Luca Lotti. In conferenza stampa, poi, il siparietto: il premier chiede di distribuire il testo ai giornalisti ma gli dicono che non c’è. “Ma la so a memoria, abbiamo letto gli articoli uno per uno”, assicura.
TEMPISTICA si diceva. Ecco il secondo punto. Il 7 gennaio l’Italicum arriverà in aula al Senato. Non è un mistero che Renzi prema per un’approvazione prima del round sul Colle, che inizierà a fine del mese. Ma la campana di vetro che protegge il passo di marcia delle riforme, il patto del Nazareno, scricchiola. Berlusconi è in affanno, la fronda interna di Raffaele Fitto vuole far saltare tutto: La norma, così, risolve diversi problemi. E’ il segnale promesso nei giorni scorsi da Denis Verdini - il garante per Arcore del pattoi - all’ex Cavaliere: la tanto evocata “agibilità politica”. Messaggio ricevuto. Se va male, pazienza. Così è stato. “Ogni alibi è buono per attaccare il patto”, ha tuonato ieri la berlusconiana Daniela Santanché.

Repubblica 5.1.15
Caccia alla manina che ha scritto il testo
di Liana Milella

ROMA Palazzo Chigi contro il Tesoro. Tesoro contro palazzo Chigi. Renzi accusa via XX settembre. E viceversa. Si mormorano i nomi dei possibili “colpevoli”, il sottosegretario Casero, il sottosegretario Lotti, la Manzione. Tutti negano. Il giallo s’infittisce. Il solo fatto certo è che la norma salva Silvio, che avrebbe cancellato il processo Mediaset e restituito Berlusconi alla piena vita politica, è tuttora lì, inesorabilmente scritta, di “padre” ignoto, ormai destinata a sparire, lasciandosi dietro uno strascico di sospetti. Renzi è deciso a sgombrare il campo da una mina che giura di non aver piazzato. È pronto ad accusare il ministero di Padoan: «Sono stati loro, quell’articolo lo hanno scritto loro, io non c’entro. Il principio è giusto e sacrosanto, tuttora lo sottoscrivo, ma mi sono battuto perché fosse più rigido. Il Tesoro si è opposto. Orlando pure». E adesso che la macchia di una legge ad personam si allarga sul governo? Adesso Renzi non ha dubbi: «Io congelo tutto. Non posso accettare che nelle trattative per eleggere il nuovo presidente della Repubblica ci sia di mezzo un argomento simile». Sì, ma le cinque righe incriminate che fine faranno? Qui il premier fa mostra di buona fede: «Durante il consiglio dei ministri, quando ne abbiamo discusso, nessuno ha fatto il nome di Berlusconi. Neppure Orlando, che pure è della sinistra del mio partito. Anche in questo momento continuo a pensare che Berlusconi non potrebbe avere nessun beneficio, ma se invece il rischio c’è, io sono pronto a cambiare il decreto, abbasso la percentuale di non punibilità e la piazzo al di sotto di quella che lo avvantaggerebbe». Fine dei giochi? Il pasticcio resta. I sospetti pure. Un patto del Nazareno che si allarga fino a cancellare una sentenza come quella del capo dell’opposizione. Non solo. Una norma, per come la raccontano i magistrati, quelli di Milano in particolare, da giorni in allarme, che avrebbe effetti devastanti sui processi in corso per reati gravi come la frode fiscale, le false fatture, le dichiarazioni infedeli. Si gioca qui la caccia al colpevole tra Mef e palazzo Chigi. Mettiamo in fila i fatti. A partire dallo sgomento di Franco Gallo, l’ex presidente della Consulta e presidente della commissione che, al Tesoro, ha scritto il testo. La sua sorpresa è grande quando scopre dal sito di palazzo Chigi che il decreto approvato non è affatto quello che lui ha mandato due mesi fa al ministro Carlo Padoan. Per certo la norma incriminata non c’era. A chi lo ha sentito in questi giorni Gallo ha detto: «La mia è una commissione di gente per bene. Io, in quel testo, non mi riconosco». Tant’è che ha deciso di riunire oggi il suo gruppo e di esprimere apertamente il suo dissenso. È la stessa preoccupazione che si materializza a Milano dove, a palazzo di giustizia, i protagonisti dei processi fiscali e tributari si interrogano allarmati sulle possibili conseguenze che già immaginano catastrofiche.
Facciamo un passo avanti. Da Gallo al Tesoro. Quando il suo decreto arriva, con il via libera di magistrati famosi nella lotta ai reati fiscali come il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, l’Agenzia delle entrate con il di- rettore Rossella Orlandi fa delle osservazioni. Altrettanto fa la Guardia di finanza. A quel punto il testo è pronto. La salva Silvio non c’è. Viene spedito per mail agli altri ministeri. Tra questi anche alla Giustizia, dove i tecnici del Guardasigilli Andrea Orlando annotano le possibili anomalie. Siamo a circa venti giorni fa. Nel decreto legislativo che arriva in via Arenula non c’è traccia della salva Silvio. Ovviamente ne è rimasta traccia nei pc dell’ufficio legislativo. Giustizia annota le possibili anomalie. Tra queste soprattutto la soglia troppo bassa che rischia di bloccare le confische sotto i 150mila euro. Quello di cui Orlando si lamenterà a palazzo Chigi.
Prima del 24 dicembre, il giorno del consiglio dei ministri, il testo non viene esaminato in un pre-consiglio. Dal Tesoro, ancora ieri, arrivano affermazioni perentorie: «Il nostro testo era quello originario. La norma che potenzialmente può aiutare Berlusconi non c’era. Non siamo stati noi. L’hanno messa a palazzo Chigi. Chi? È fin troppo facile immaginarlo...». Il pettegolezzo circola. Antonella Manzione, il capo dell’ufficio legislativo. Luca Lotti, il sottosegretario. Negano entrambi. Di rimando, da palazzo Chigi, spunta un nome dell’Economia, quello del sottosegretario Luigi Casero, oggi Ncd, ma descritto tuttora come un fedelissimo di Berlusconi.
Ultimo atto, il consiglio dei ministri. Dove il testo è stato discusso. Dove il titolare dell’Economia Padoan non ha sollevato eccezioni. Dove neppure il suo staff tecnico ha rilevato anomalie. Dove Renzi ha insistito che, tra l’alternativa se mettere un tetto oppure fissare una percentuale, era meglio la seconda strada perché nei grandi gruppi industriali è possibile un errore di bilancio, una svista, fatta non per frodare il fisco. Renzi e Orlando hanno discusso. Orlando per le sue confische. Renzi per mettere pene più alte. Quindi la norma salva Silvio non è passata inosservata, se n’è parlato. Ma, a sentire i presenti, nessuno ha pronunciato il nome di Berlusconi, o è serpeggiato il dubbio di poterlo avvantaggiare. Resta l’allarme di Gallo, dei magistrati, della stessa Orlandi, quando il testo è diventato pubblico. Siamo a oggi, alla ricerca del “colpevole”.

Repubblica 5.1.15
Il trucchetto del tre per cento
di Gianluigi Pellegrino

IL RIPENSAMENTO ha senz’altro il sapore giusto dell’atto dovuto. Il riconoscimento di un errore inaccettabile che il governo stava compiendo. E che si deve stare in guardia non si ripresenti nei prossimi passaggi del provvedimento in Consiglio dei ministri. Ciò detto, non pochi interrogativi restano appesi, e aspettano risposte ugualmente doverose.
LA NORMA inserita nel decreto fiscale era infatti, prima ancora di ogni finalità sospetta, del tutto indifendibile nel merito. Un autentico sgorbio grave quanto odioso.
Stabiliva espressamente che un ricco che froda al fisco milioni di euro se ne esce con una semplice sanzione amministrativa, solo per la sua alta dichiarazione dei redditi. Mentre per uguale o minore evasione un cittadino comune deve essere punito severamente con la galera.
Una norma che non c’entrava nulla con i meritori contenuti del decreto delegato e che contraddiceva gli obiettivi indicati più volte da Renzi: punire i grandi evasori senza per questo mostrare ai cittadini un fisco nemico, arrabbiato e aguzzino. Qui invece si faceva l’esatto contrario.
E allora la domanda è come sia potuto avvenire. Come abbia potuto lo stesso governo approvare quel testo. Nessuno si era accorto delle conseguenze? O qualcuno sperava che il provvedimento sarebbe passato inosservato? Non si sa quale sia l’ipotesi peggiore.
E nel mistero della manina autrice del codicillo non può sorprendere che si sottolinei come quella normetta traduceva alla lettera il ritornello berlusconiano: come fate a condannare per frode fiscale me, che pago milioni di tasse?
Che è un po’ come pretendere di giustificare l’omicidio di un medico se per il resto ha curato molti malati. O la pedofilia di un prete o di un insegnante se per il resto hanno educato tanti bambini.
In realtà il furto del ricco dovrebbe al più essere un’aggravante. Eppure esattamente quel principio declamato dal Cavaliere risultava tradotto in legge, perché si rendeva non più punibile la orchestrata frode milionaria, in ragione della complessiva dichiarazione di redditi del colpevole. Utilizzando il giochetto del 3 per cento che cadeva a pennello per cancellare con un colpo di spugna le frodi del leader di Forza Italia, aprendo la voragine di un salvacondotto per tutti i grandi evasori.
Ora, dopo il clamore suscitato, il governo fa giustamente macchina indietro. Ma delle due l’una. O era una norma approvata consapevolmente e doveva allora dichiararsene la suo esplicita finalità all’interno di una più o meno malintesa pacificazione con Berlusconi. Oppure, se è stata inserita da altri è grave che il premier l’abbia firmata. Adesso non può certo covare in seno a Palazzo Chigi serpi che giocano proprie indicibili partite. E nemmeno può accettare che chi doveva non lo abbia avvertito né messo in campana. Altrimenti è lui, il premier, a non dirci tutto.
Passa a ben vedere da qui, alla vigilia di una fase decisiva, una prova non secondaria per la credibilità della complessiva azione del governo, anche al di là di un codicillo abusivo quanto grossolano. Anche per fugare il terribile dubbio che fosse vile moneta di scambio per il voto sul Quirinale.

Corriere 5.1.15
Dietro le quinte
La contrarietà dell’Agenzia delle Entrate sullo «sconto»
di Corinna De Cesare

MILANO Quello che non si vuole rischiare in alcun modo è uno scontro diretto con Palazzo Chigi. Ed è per questo che dall’Agenzia delle Entrate il direttore Rossella Orlandi ha alzato nelle ultime ore un muro molto alto e spesso. Nessun commento. Ma l’articolo 19 bis inserito nella delega fiscale cambia, e di molto, anche il lavoro dei funzionari del fisco che ogni giorno in fase di accertamento, fanno segnalazioni in procura per reati finanziari. E non solo: diversi contenuti del decreto, approvato poi nel Consiglio dei ministri del 24 dicembre, erano attesi dall’Agenzia: abuso di diritto, revisione del sistema sanzionatorio, adempimento collaborativo. Quello che a quanto pare non era atteso era la depenalizzazione del reato di frode fiscale. Una norma spuntata in extremis, come ha spiegato il sottosegretario all’Economia Zanetti. E come confermano alcune fonti secondo cui nei documenti arrivati sulle scrivanie dei tecnici dell’Agenzia, l’articolo 19 bis con quel tetto del 3% che aiuterebbe Silvio Berlusconi nella sua riabilitazione politica, proprio non c’era. Su tutte le riforme fiscali c’è infatti una stretta collaborazione con l’amministrazione finanziaria e spesso sono gli stessi tecnici dell’Agenzia a intervenire direttamente sui testi che poi sono destinati ad arrivare in Consiglio dei ministri. È avvenuto anche questa volta perché è sistematico che l’ufficio legislativo del ministero dell’Economia o di Palazzo Chigi, come in tutti i processi di riforma di una certa importanza, chiami alla collaborazione diverse personalità dell’amministrazione finanziaria.
In quest’ultimo caso è stato creato un vero e proprio gruppo di lavoro informale insediatosi al ministero dell’Economia e in cui sono stati coinvolti, oltre ai funzionari del Mef, anche rappresentanti di categorie interessate ed esperti come i tecnici dell’amministrazione finanziaria. E sarebbe stata una sorpresa, all’ultimo momento, vedere quella norma che va nella direzione opposta rispetto a quella dell’Agenzia, da sempre contraria a sconti per chi evade le tasse in maniera fraudolenta. Perché seppur sul tema della depenalizzazione la Orlandi aveva più volte espresso una certa apertura, è sulla frode fiscale che è sempre stata netta. «Non so come sarà il testo finale dei decreti — aveva dichiarato al Messaggero agli inizi di dicembre — sono una donna pragmatica: troppo penale vuol dire nessun penale. Il legislatore probabilmente sta valutando un’elevazione delle soglie, perché quelle previste nel 2011 sono talmente basse che di fatto ci rientrano quasi tutte le violazioni». Con il rischio di ingolfamento della macchina della giustizia. Ma, aveva anche specificato Orlandi «sicuramente sarà rafforzato il contrasto alle frodi: la differenza la fa l’esistenza di un dolo, di un’associazione a delinquere, con un danno di centinaia di milioni e la sottrazione di appalti e lavoro agli onesti». Proprio come i casi che rientrano nella norma contestata e che favorisce, secondo l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco, «i grandi evasori» in un sistema proporzionale secondo cui più è alto il reddito dell’azienda e più si può evadere. Il direttore dell’Agenzia delle Entrate, con un’esperienza nell’amministrazione finanziaria che risale all’82, ha criticato in passato la demagogia fiscale in nome delle «manette agli evasori»: «Ho passato anni della mia vita nei corridoi dei tribunali — ha spiegato —. Tutto era penale: l’omissione di una ritenuta, il ritardo su un termine. Risultato: abbiamo intasato tribunali e procure e non abbiamo concluso quasi niente». Ma con un distinguo: le frodi.

La Stampa 5.1.15
“Soglia al 3% senza senso Ma tutta la legge va ritirata”
Il tributarista Giovannini: certezza del diritto a rischio
di Paolo Baroni

«Per come è formulata la norma vale senz’altro il principio del “favor rei” e quindi le norme del codice di procedura penale sulla retroattività delle misura più favorevole», spiega Alessandro Giovannini, ordinario di diritto tributario a Siena e presidente dell’Associazione italiana professori di diritto tributario. Quindi Berlusconi potrebbe certamente avvantaggiarsene e vedersi annullare la condanna penale per frode fiscale, con tutto quello che ne consegue. «Il problema – aggiunge però Giovannini – è che non si capisce perché sia stata inserita questa nuova soglia del 3% perché nella vecchia legge le soglie già c’erano». 
I difensori di Berlusconi però sembrano divisi: uno sostiene che lo sconto si può applicare anche al l’ex Cavaliere ed un altro no. Lei cosa ne pensa?
«La nuova norma si inserisce in una legge già esistente che riguarda tutti i tipi di reati in materia tributaria, sia quelli di fatto minori come la dichiarazione infedele, sia quelli di maggiore antigiuridicità, come la frode. E non specificando consente una applicazione all’intero complesso dei reati».
Per correggere il pasticcio dunque basta specificare che la soglia del 3% non riguarda la frode, come pare sia intenzionato a fare Renzi?
«Personalmente credo che questa legge vada ritirata e rimeditata complessivamente».
Solo per questo «incidente» o anche per altre ragioni?
«I punti critici sono tanti. Ad esempio la norma sull’abuso del diritto finisce per creare un meccanismo ancora più macchinoso di quello attuale visto che rimette completamente tutto in mano alla giurisprudenza. In pratica lo slogan con cui è stata presentata la legge, ovvero la “certezza del diritto”, risulta vanificato dalla legge stessa».
Eppure l’intenzione era questa: semplificare, dare certezze alle imprese, alleggerire i tribunali…
«Peccato che il prodotto finale sia un altro. Ma poi ci sono altri aspetti che non funzionano, come la norma sul patteggiamento che di fatto viene impedito, visto che chi patteggia va incontro alla confisca dei beni, mentre se si va al dibattimento e si sana la posizione debitoria con il Fisco la confisca non c’è più. In questo modo nessuno seguirà più questa strada creando un effetto a valanga negativo sul processo penale, ingolfando ulteriormente la macchina giudiziaria».
Torniamo alla questione del 3%. A parte il «regalo» a Berlusconi, questa norma risponde a pieno alla filosofia delle delega che puntava a semplificare e ad alleggerire il carico giudiziario nell’interesse generale non di uno solo.
«Il problema non è tanto il fatto del 3, del 2 o dell’1%: il problema è che in questo modo si è aggiunta una soglia ad un sistema che già prevedeva delle soglie all’interno dei singoli reati sotto le quali non scattava la sanzione penale. Per cui mi chiedo: perché è stata aggiunta?».

Corriere 5.1.15
«All’Economia hanno comunque sbagliato»
L’ex ministro Visco: norma senza senso e non è l’unica, il decreto depenalizza di tutto
intervista di A. Bac.

Professor Visco, da ex ministro del Tesoro, che idea si è fatto del decreto «incriminato»?
«S i tratta di un provvedimento attuativo di una legge delega che ha l’obiettivo, tra l’altro, di riordinare il penale tributario secondo una logica di attenuazione. Ma di certo l’aspettativa generale non era quella di arrivare a depenalizzare i reati tributari. Non credo che la gente pensi che chi commette tali reati contribuisca all’affollamento delle carceri... ».
Quindi non c’è solo una norma considerata favorevole a Berlusconi. Secondo lei il nuovo decreto introduce una generale depenalizzazione dei reati tributari?
«Sì, una depenalizzazione di tutto, cominciando dall’elusione, in contrasto logico col fatto che in sede Ocse e G20 ci battiamo contro le multinazionali che operano in questo modo».
Ci faccia un altro esempio.
«Chi fa fatture false per mille euro non è punibile. Ma se una fattura è falsa è falsa, non c’è da mettere limiti. Uno può fare una cartiera che produce fatture false per cento, mille contribuenti e non viene punito? È inquietante».
C’è altro?
«Sì, tutte le frodi colpite negli ultimi anni nelle quali sono stati usati strumenti derivati dalle banche d’affari vengono depenalizzate».
Poi c’è la soglia di punibilità che passa da 50 mila a 150 mila euro.
«Esatto, questo vuol dire che l’evasore fino a 3-400 mila euro di materia imponibile non è punibile penalmente: forse è troppo. E poi non è più reato l’imputazione di costi non inerenti all’attività d’impresa, cioè ad esempio quando si portano in deduzione costi di consumi che sono del contribuente o dei suoi familiari. Non è più reato neanche l’omessa dichiarazione del sostituto d’impresa, questa deve essere stata una dimenticanza, ma ci sono altre norme che possono comportare una perdita di gettito importante».
Quali?
«Ad esempio quella che elimina una norma, che avevo introdotto io, che raddoppiava i termini ordinari di accertamento nel caso in cui, durante l’attività di verifica, gli uffici avessero riscontrato la rilevanza penale di determinati comportamenti. Con la modifica gli anni da otto passano a quattro. Impossibile agire».
Sì, ma sul comma che esclude la punibilità se l’importo delle imposte sui redditi evase non è superiore al 3% dell’imponibile che pensa?
«Che è in contrasto con l’intero impianto della riforma che si basa sulle soglie: non ha senso».
Sta dicendo che si tratta di un errore o il corpo normativo che emerge dalle varie modifiche ha una sua «ratio»?
«È un corpo normativo senza senso: mi auguro che ci sia la possibilità di correggerlo perché la credibilità di un Paese non si basa solo sulla rigidità della normativa del lavoro ma anche su come combattiamo la mafia, la corruzione, l’evasione fiscale, il falso in bilancio. Tutto questo pesa molto sull’opinione pubblica».
Resta confusione circa la paternità di queste norme.
«È singolare che non si sappia bene come sono nate. Mi spiace che la responsabilità è del ministro del Tesoro che ha portato in Consiglio dei ministri un certo testo e poi ne è arrivato un altro. O non si è accorto che il suo testo è stato manipolato, e questo è più grave, o lo ha accettato come è uscito».
A che scopo?
«In questo Paese l’idea che non pagare le tasse sia un reato non viene digerita. Vogliamo assecondare questo andazzo? Le sanzioni amministrative ci sono ma non quelle penali. Non è per essere forcaioli, ma si tratta di una scelta strategica per il nostro Paese. Applaudiamo quando negli Usa si arresta per evasione, e poi? Si può essere meno drastici ma qualcosa bisogna pur fare».

Corriere 5.1.15
Furbizia o solo ignoranza?
Tutte quelle norme sparite o senza un padre
Il problema della trasparenza
di Luigi Ferrarella

Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide».
Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere.
È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo.
Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva.
Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm.
Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo — un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi — pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno.
Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti.
Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio).
Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno.

Corriere 5.1.15
Inciucio
Dal bisbigliare delle comari nei vicoli agli accordi sottobanco di palazzo. Nel dialetto partenopeo, da cui ha origine, la parola «inciucio» indica infatti il chiacchiericcio, pettegolo e a bassa voce, di cui richiama il suono per onomatopea. In politica il termine arriva negli anni Novanta, quando il linguaggio si fa meno ricercato e complesso per accogliere usi più popolari. In particolare rimanda alle polemiche intorno al «patto della crostata», siglato nel 1997 da Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi: l’accusa allora era che, oltre alle riforme costituzionali, l’intesa riguardasse anche regole sulle frequenze televisive e sul conflitto di interessi. Il termine è stato tirato fuori, negli anni, per accusare di collusione col nemico. A volte anche solo per l’avviarsi di un dialogo: si urlò all’inciucio quando, senza una maggioranza chiara dopo le Politiche del 2013, Pd e Pdl cominciarono a pensare alle larghe intese. Oppure per denunciare presunte clausole nascoste di un’intesa. Così dal patto della crostata si arriva a quello del Nazareno: perfino nei partiti di Renzi e Berlusconi, i leader che lo hanno sottoscritto, c’è chi ha più volte chiesto chiarimenti sui contenuti dell’accordo.

Repubblica 5.1.15
Stefano Fassina
“Matteo troppo disinvolto e Padoan ha sbagliato”
intervista di T. Ci.

ROMA «Quella norma è agghiacciante ». Più chiaro di così, Stefano Fassina non può essere. Lui che a via XX settembre ha trascorso quasi un anno da viceministro, stavolta non ha dubbi: «Sono colpito e preoccupato. Per il deficit di autonomia e la marginalità che il ministero dell’Economia ha dimostrato in questo passaggio, visto che si trattava di un tema di stretta competenza del ministro. E per la disinvoltura di Renzi».
Perché dice che il premier è stato disinvolto?
«Perché prima ha forzato la mano sull’Economia, introducendo una norma che il ministro non condivideva. E poi, di fronte alla reazione della stampa e dell’opinione pubblica, ha fatto una retromarcia imbarazzante. Su un tema, fra l’altro, molto delicato come la depenalizzazione della frode fiscale».
Con una norma che potrebbe favorire anche Berlusconi.
«L’attenzione mediatica adesso si è concentrata sul leader di Forza Italia, ma non è quello l’unico elemento preoccupante della norma. Se si depenalizza la frode fiscale in un Paese che ha il record mondiale di eversione, non va bene. Il governo dovrebbe rimuovere le condizioni che determinano l’evasione di sopravvivenza, colpendo allo stesso tempo i grandi evasori. Qui invece si fa l’opposto».
Lei pensa che c’entri il patto del Nazareno?
«Non voglio credere che sia un elemento del patto del Nazareno, anche perché è evidente che un intervento di questo tipo non sarebbe passato inosservato. Credo invece che sia stato un errore grave».
Può accadere che una sanatoria del genere entri nel decreto senza che il ministero dell’Economia comprenda gli effetti?
«Non esiste che il ministro e il ministero si facciano infilare una norma del genere durante il consiglio dei Ministri. Non è un dettaglio, quindi ci sono due possibilità: il ministro era d’accordo, oppure non se n’è accorto. E non so se questa seconda ipotesi sia migliore. L’unico modo per cui si può inserire una norma del genere senza che se ne accorga il ministro è che il Dipartimento degli affari giuridici di Palazzo Chigi lo inserisca nel testo a consiglio dei ministri concluso».
Tutto accade a pochi giorni dalla sfida per il Colle. Questo incidente può pesare?
«La disinvoltura con cui il premier ha portato avanti questa vicenda non crea il clima migliore in vista dell’elezione per il Quirinale. Credo che il nuovo Presidente vada scelto con la più ampia convergenza possibile, Forza Italia compresa. Dopodiché questa situazione complica il quadro».

Repubblica 5.1.15
Rodolfo Maria Sabelli, Presidente dell’Anm
“Una legge ingiusta che rende più difficile la lotta alla corruzione”
“Siamo in presenza di una depenalizzazione dei reati fiscali”
intervista di L. Mi.

ROMA «Una legge «ingiusta», una «depenalizzazione dei reati fiscali ». Compresi quelli dei vecchi processi, Berlusconi compreso. È netto il giudizio del presidente dell'Anm Rodolfo Maria Sabelli.
Una causa di non punibilità per reati gravi come la frode fiscale, se ne sentiva il bisogno?
«A mio parere, assolutamente no. I problemi sono diversi, non solo il fatto che una norma simile sarebbe applicabile anche alle frodi, ma in più non è prevista una soglia massima di valore assoluto in euro, ma solo una soglia percentuale. E la non punibilità non è neanche condizionata al pagamento delle imposte evase e delle relative sanzioni».
È compatibile con la lotta alla corruzione?
«Ho seri dubbi, in quanto col ricorso alle fatture inesistenti si possono costituire fondi neri da destinare al pagamento delle tangenti. Quindi fra corruzione e alcuni reati fiscali esistono molti collegamenti ».
Che conseguenze comporta sui processi in corso?
«Secondo un principio cardine del sistema penale, quando una legge successiva stabilisce che un fatto non costituisce più reato, si applica anche ai fatti già commessi e anche a quelli per i quali ci sia già stata una sentenza definitiva di condanna».
In quest'ultimo caso che succede? Il processo si riapre? La pena resta?
«Se vi è stata sentenza irrevocabile si apre il cosiddetto incidente di esecuzione, nel quale i giudici valutano se si deve o no revocare la sentenza di condanna”.
Si applica anche a Berlusconi...
«Se, nel suo caso, non è stata raggiunta la soglia del 3%, ritengo che la legge lo riguarderebbe. Ma sia chiaro che, da giurista e al di là del singolo caso politico, ritengo che questa non sarebbe affatto una legge giusta».
Perché?
«Soprattutto perché si configura di fatto come una parziale depenalizzazione di reati gravi, specialmente quelli di frode».
Che fine fa la condanna a 4 anni di Berlusconi e l'interdizione?
«Tutte le condanne, compresa la sua, potrebbero essere revocate. Di conseguenza cesserebbero gli effetti penali, interdizione compresa ».
E la non candidabilità alle cariche politiche per 6 anni dovuta alla Severino?
«Sarebbe ragionevole immaginare che, una volta venuta meno la condanna, cada di conseguenza anche l'incandidabilità». ( l. mi.)

Repubblica 5.1.15
Il Nazareno tra il condono e l’Italicum
Con la legge elettorale parte la sfida destinata a influenzare gli equilibri di potere nei prossimi dieci anni
di Stefano Folli

CERTI episodi valgono più per il loro significato simbolico che per la sostanza della questione sollevata. È il caso della cosiddetta norma salva-Berlusconi nel decreto delegato sul fisco, segnalata da un ottimo lavoro giornalistico. Se doveva essere la prova che nel patto del Nazareno esiste un lato oscuro, non ha retto alla luce del giorno: e non poteva essere altrimenti.
L’operazione era maldestra, tanto maldestra da rendere verosimile che né Renzi né Berlusconi fossero i diretti responsabili del pasticcio. Talleyrand avrebbe rispolverato la sua celebre frase: «è peggio di un crimine, è un errore». Come dire che i due contraenti del patto avrebbero scelto meglio l’argomento e le modalità, se avessero voluto mettere a segno un colpo di tale rilievo qual è la riabilitazione pubblica del leader di Forza Italia. Perché di questo si tratta e il presidente del Consiglio si muove su un terreno scivoloso quando dichiara con sicurezza che la nuova normativa fiscale, subito ritirata, non si sarebbe applicata a un condannato in via definitiva. Viceversa Berlusconi ne avrebbe tratto immediato vantaggio, come sempre quando il codice cambia a favore del reo.
Tuttavia è anche vero che nessuno dei due, né il premier né il suo semi-alleato del Nazareno, hanno il minimo interesse oggi a riaccendere i riflettori su una stagione passata. Le norme «ad personam» in soccorso a Berlusconi rammentano tempi di nevrotica conflittualità che in definitiva non hanno portato fortuna né all’interessato né al Pd: hanno solo contribuito ad aprire la strada al movimento di Grillo. Tutta la strategia di Renzi, come pure dell’ultimo Berlusconi, sembra volta a non ripetere i passi falsi della fase precedente. Quindi è possibile che la norma, che pure era stata infilata nel decreto, sia passata per l’eccesso di zelo di qualcuno, ma senza un coinvolgimento politico ad alto livello.
Tutto risolto, allora? Non proprio. La vicenda, o meglio la buccia di banana, segnala che non tutto è fluido nell’intesa di legislatura fra il Pd renziano e il partito berlusconiano. In altri termini, non è questo il modo migliore di cominciare il 2015, giusto alla vigilia della discussione al Senato sulla riforma elettorale e a poche settimane dall’elezione del presidente della Repubblica. In fondo sono questi i due passaggi chiave in cui si riassume il senso e la ragion d’essere del patto del Nazareno. Due appuntamenti che devono essere affrontati con sufficiente coesione — e ancora non sappiamo se sarà così — , senza incidenti di percorso che offrono munizioni alle armi degli avversari.
Fra due giorni prenderà il via con la legge elettorale la sfida politica destinata a influenzare gli equilibri di potere nei prossimi dieci anni. Sulla carta, come è stato notato più volte, Renzi e Berlusconi hanno i numeri per far passare l’Italicum e subito dopo eleggere un presidente della Repubblica gradito. Ma per evitare colpi di scena il premier ha bisogno di dimostrare al suo interlocutore che il Pd è nella sostanza unito (salvo le frange irriducibili); al tempo stesso Berlusconi deve offrire lo stesso pegno a Palazzo Chigi, garantendo che Forza Italia non è in via di dissoluzione.
Ne deriva che il voto sulla riforma elettorale, se arriverà in tempo prima che il Parlamento si blocchi per l’elezione del successore di Napolitano, ha proprio questo significato strategico: rendere noto che il patto del Nazareno si fonda su due formazioni rispettose dei rispettivi leader e non su agglomerati parlamentari tentati dall’anarchia. Al riguardo, né Renzi né Berlusconi possono dormire tranquilli. Sulla legge elettorale c’è una zona grigia che riguarda aspetti tecnici di primo piano, dalle preferenze al numero dei «nominati» attraverso i capilista bloccati. Niente che non si possa risolvere con un compromesso, come il premier garantisce ai suoi, ma solo se esiste una volontà politica di fondo. Una volontà che deve comprendere anche il nodo del Quirinale.

La Stampa 5.1.15
Alla Camera si litiga anche per il segretario generale
E l’Italicum: che sbarca in aula al Senato
di Carlo Bertini

Appuntamento mercoledì prossimo alle 15 in Ufficio di Presidenza per la nomina più importante della Camera, rinviata più volte, quella del segretario generale che deve succedere ad Ugo Zampetti, andato in pensione dal primo gennaio.
Una nomina che spetta alla presidente indicare ma che i partiti seguono con la massima attenzione e che per questo è oggetto di polemiche politiche.
Tanto che anche stavolta la mancanza di un accordo tra i gruppi parlamentari potrebbe sconsigliare di procedere con le votazioni. Sui due candidati attualmente favoriti, Giacomo Lasorella e Fabrizio Castaldi, i partiti sono divisi: pure il Pd, che conta 8 membri su 20 dell’ufficio di presidenza, è spaccato, quindi stallo totale e possibile nuovo rinvio.
Prova del nove
Appuntamento sempre mercoledì prossimo, dalle 16 alle 20 orario continuato, per la nuova legge elettorale, l’Italicum: che sbarca in aula al Senato e che costituirà una sorta di prova nove del Patto del Nazareno prima della partita cruciale sul Quirinale. Il premier riunirà la mattina i gruppi parlamentari Pd per serrare le fila, l’obiettivo è farla approvare entro fine gennaio.
Per mandarla alla Camera per il timbro definitivo appena sarà eletto il nuovo presidente della Repubblica, già all’inizio di febbraio. Renzi, i capigruppo Pd e il ministro Boschi dovranno sudare per scavalcare ostacoli, trappole e sabbie mobili disseminate sul percorso della legge che crea maggiori sospetti tra peones e graduati di tutti i partiti. Nel timore che, una volta approvata, la nuova formula di voto possa essere usata per urne anticipate che nessuno vuole.
Dunque il braccio di ferro sulla clausola di salvaguardia per congelarla fino a tutto il 2016 terrà banco da subito. Opposizioni sul piede di guerra anche sulla riforma costituzionale che abolisce il Senato, in aula da giovedì prossimo alla Camera in prima lettura, con tempi contingentati per superare l’ostruzionismo di grillini e non solo: spettacolo assicurato dunque per almeno tre settimane...

La Stampa 5.1.15
La minoranza Pd pronta alla battaglia sull’Italicum
Mercoledì al Senato la legge elettorale: scontro sui capilista bloccati
di Francesca Schianchi

Prima della pausa natalizia, il testo della legge elettorale era stato sommerso da 17mila emendamenti. Decaduti quando si è deciso di portare direttamente in Aula il provvedimento, incardinato nel cuore della notte rinviando però discussione e voti a gennaio. Più precisamente, a dopodomani, mercoledì 7, quando, alle 16 in Senato, l’Italicum riprenderà il proprio cammino. Quanto accidentato si vedrà: anche se le premesse della vigilia fanno temere inciampi e scivoloni.
Minoranza Pd all’attacco
«Chiuderemo già dalle prossime settimane la legge elettorale. Tra di noi eravamo divisi tra chi voleva i collegi e chi le preferenze. Avremo gli uni e gli altri», sintetizza ottimisticamente il premier il dibattito dentro al Pd sul tema. In realtà, né i sostenitori dei collegi né quelli delle preferenze appaiono soddisfatti. E intendono farsi sentire: in Commissione la minoranza Pd aveva presentato 7-8 emendamenti, che in Aula saranno riproposti. Anche se non dovessero essere graditi al governo: «Se darà parere contrario, i senatori liberi e forti voteranno e deciderà il Parlamento», sospira il bersaniano Miguel Gotor, «da mesi diciamo che andremo avanti», predica.
Il nodo delle preferenze
In particolare, è sui capilista bloccati che si concentrano le critiche della minoranza dem, decisa a ripresentare un emendamento che prima di Natale aveva raccolto 36 firme, per far sì che solo il 25% dei seggi sia bloccato, e il resto da giocarsi con le preferenze (nell’Italicum 2.0 sono liste corte in cui il primo nome è bloccato e gli altri a preferenze). E poi, c’è la questione della «clausola di salvaguardia»: la minoranza Pd insiste per legare l’entrata in vigore della legge elettorale alla riforma del Senato. Ma il governo, disponibile a fissare una data, su quest’ipotesi invece ha detto no. Mercoledì comunque Renzi incontrerà i gruppi del suo partito, per discutere e cercare di cominciare senza incidenti questo intenso 2015.
Attenzione a Forza Italia
Anche perché, oltre che nel suo campo, dovrà fare attenzione a quel che succede in Forza Italia, pure lei percorsa da tensioni, con un’ala critica che fa capo a Raffaele Fitto non facilmente controllabile da Berlusconi, e da dove continua ad arrivare la richiesta di procedere prima all’elezione del capo dello Stato e poi alle riforme. Tentando di invertire il cronoprogramma del premier. Perché stavolta, inevitabilmente, la partita delle riforme si interseca con quella per il Colle.

Repubblica 5.1.15
Renzi, sul Colle patto con i fedelissimi
Il premier stila una lista di 250 parlamentari che non lo tradiranno nell’elezione del Capo dello Stato
Tensione con la sinistra interna sull’Italicum. Gotor: la storia dei collegi è un bluff
di Goffredo De Marchis

ROMA Stamattina Matteo Renzi mette mano alla lista per il Quirinale. Non ci saranno i nomi dei possibili presidenti della Repubblica, ma quelli dei parlamentari del Pd che a Palazzo Chigi chiamano «lo zoccolo duro», usando un’espressione che apparteneva al vecchio Pci. Ovvero i fedelissimi che di fronte alla scelta del premier si riveleranno sicuramente estranei a qualsiasi scherzo nel segreto dell’urna. Non quindi l’elenco dei franchi tiratori, ma di coloro che con una certezza vicina al 99 per cento non lo diventeranno mai. A prescindere dal candidato.
Una lista del genere presuppone, per esclusione, numeri e nomi di probabili parlamentari “infedeli”. Ma Renzi e il sottosegretario Luca Lotti, incaricato di tenere il pallottoliere da qui al momento in cui il nuovo capo dello Stato presterà giuramento, non sembrano preoccupati. «Il primo elenco lo facciamo senza l’indicazione dei papabili — spiega Renzi ai suoi collaboratori —. È veramente una cornice molto parziale perché quando individueremo la personalità giusta, autonoma e autorevole, quel catalogo andrà aggiornato e si allargherà moltissimo». Sui 450 grandi elettori del Pd il premier può partire da una base di 200-250 nomi sicuri. Tra renziani della prima e della seconda ora. Poi ci sono i “vicini”, gli incerti (a seconda del candidato), i casi singoli e gli irriducibili che secondo Palazzo Chigi sono pronti a dire di no a tutte le soluzioni. Tra questi Renzi mette Pippo Civati e il suo gruppo di parlamentari. La lista, per il momento, rimarrà in un file segreto dei computer di Renzi e Lotti. In questa prima fase sarà usato solo per uno scambio di informazioni con i potenziali alleati della maggioranza in grado di eleggere il successore di Napolitano. A cominciare dagli ambasciatori di Forza Italia, Verdini in testa, e dell’Ncd.
Il conteggio, e gli aggiornamenti, sono affidati a Lotti e ai capigruppo Roberto Speranza e Luigi Zanda. Non è escluso che Renzi organizzi una riunione con i tre prima dell’assemblea dei parlamentari di mercoledì in cui all’ordine del giorno ci sono Italicum e riforma costituzionale. Improvvisamente, la calma piatta che regnava fino a ieri ha rivelato alcune increspature. L’occasione è stata la norma Salva-Silvio che ha scatenato la polemica tra minoranza e maggioranza del partito. E sulla legge elettorale i bersaniani hanno cominciato a puntare il dito contro il governo dopo la lettera di Renzi agli iscritti dove si garantiva di poter tenere insieme vincitori di collegi e preferenze. «Ma quale collegio - ha risposto Miguel Gotor -. Quello che Renzi non dice è se gli eletti saranno molti di più dei nominati».
Il 7 gennaio dunque è una data importante perché va oltre la discussione sui provvedimenti in aula. Si respirerà il clima che regna nel Pd mentre si avvicina il 29, primo giorno di votazioni per il Colle. Francesco Boccia, oppositore del premier, chiede al partito di non nascondersi. «Matteo Renzi riunisce i parlamentari. Consiglio a tutti i miei colleghi deputati di lasciare fuori dalla porta orologio e ipocrisia», scrive su Twitter il presidente della commissione Bilancio di Montecitorio. Il tempo di un confronto non mancherà. La riunione è convocata non in notturna stavolta ma alle 16. Sull’ipocrisia nessuno può mettere la mano sul fuoco. «Non se si arriverà a uno scontro, ma sarà a viso aperto. Stavolta non credo che la posizione espressa pubblicamente sarà diversa da quella nell’urna», garantisce il vicesegretario Lorenzo Guerini. Scotta ancora troppo la vicenda dei 101 e lo strascico dell’elezione di un anno e mezzo fa. Ugo Sposetti però consiglia cautela: «Le liste non bastano. Conta di più la psicologia. Lotti e gli altri dovranno parlare con i 450 elettori del Pd uno per uno».

Corriere 5.1.15
Da Netanyahu alla famiglia Blair. I limiti (e le polemiche) sui voli blu
Le accuse per il viaggio di Renzi. Così le regole in Italia e all’estero
di Dino Martirano

ROMA «Inderogabili esigenze in connessione con l’esercizio di funzioni istituzionali» e «indisponibilità di mezzi alternativi e di voli di linea». Sono queste, oltre alle ovvie esigenze legate alla sicurezza, le regole standard stabilite dai governi di mezzo mondo per l’utilizzo dei «voli di Stato» da parte delle massime autorità dei rispettivi Paesi. L’Italia non fa eccezione. Anche da noi — ben prima che scoppiasse la polemica sulla vacanza a Courmayeur del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, volato con la famiglia da Roma ad Aosta, via Firenze, a bordo di un Falcon 900 dell’Aeronautica militare — il fascino per il «volo blu» ha messo nei guai esponenti di centrodestra e di centrosinistra. In caso di denuncia, le inchieste penali e contabili vengono generalmente archiviate (come, di recente, nel caso del ministro Pinotti denunciata dal M5S) ma l’impatto sull’opinione pubblica rimane.
In Gran Bretagna, dove la Royal Air Force possiede una flotta Vip modesta al servizio della Regina e del governo, non esiste alcun obbligo di servirsi del «volo di Stato» per motivi di sicurezza. Così nel ‘98 scoppiò un caso perché il premier laburista Tony Blair si era servito della Raf tra Londra e Bologna, portando con sé la famiglia. Blair, incalzato dai conservatori, si difese asserendo che avrebbe saldato il conto del biglietto per moglie e figli ma soprattutto aggiunse che, oltre alla villeggiatura a Villa Strozzi di San Gimignano, lui aveva in programma un pranzo con il collega Romano Prodi.
E anche la prima presidenza di Barack Obama (anche lui, come i suoi predecessori, «costretto» dai servizi di sicurezza a volare sull’«Air Force One») si apriva con una polemica, obbligando la Casa Bianca a rassicurare i contribuenti in occasione di un viaggio in Francia: «La famiglia del presidente raggiungerà Parigi con un jet del governo per evidenti motivi di sicurezza ma verranno rimborsate le spese del volo secondo quelle che sono le tariffe commerciali della tratta». Negli Usa, poi, al vicepresidente Joe Biden è stato interdetto l’uso del treno che lo riportava a casa nel Delaware perché la scorta non era in grado di difendere i convogli Amtrak.
In Germania, la cancelliera Angela Merkel è libera di usare collegamenti di linea, se vuole. A Berlino, le regole ferree sull’utilizzo dei velivoli della Luftwaffe (il cui stormo Vip è più asciutto di quello italiano) hanno costretto alle dimissioni l’ex ministro della Difesa Rudolf Scharping perché nel 2002 si fece aviotrasportare dai Balcani a Palma di Maiorca dove lo attendeva la sua futura moglie.
Ora Palazzo Chigi, dopo la trasferta di Renzi ad Aosta, non si discosta dalla versione fornita al M5S che ha sollevato il caso: «Rispettati i protocolli in linea con quanto avviene per i capi dei Stato e di governo di tutto il mondo». Il premier ha poi aggiunto: «Quando non sarò più presidente del Consiglio tornerò beato e sorridente alla mia bicicletta. Nel frattempo, rispettando le regole, torniamo alle cose serie...».
Motivi di sicurezza, dunque, hanno convinto il premier ad utilizzare un «volo di Stato» per andare a Courmayeur. Un po’ la stessa motivazione che però non è servita neanche al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (che in fatto di «obblighi di sicurezza» ha pochi rivali al mondo) quando scoppiò uno scandalo perché si scoprì che, in occasione dei funerali di Margaret Thatcher, il volo di Stato Tel Aviv-Londra costò al contribuente 100 mila euro (compreso il lettone montato sul velivolo). E si aggrappò alla sicurezza il ministro della Difesa Ignazio La Russa pizzicato su un «volo di Stato» che utilizzò per poter assistere a una partita dell’Inter.
Nel 2007, il vicepremier Francesco Rutelli e il Guardasigilli Clemente Mastella si fecero trasportare da un Airbus a 48 posti, con moglie il primo e figlio il secondo, da Napoli a Milano per assistere al Gran Premio. L’allora premier Prodi salvò Rutelli (doveva premiare il vincitore del GP) e varò un regolamento draconiano sui «voli blu» (introducendo, tra l’altro, il biglietto per i giornalisti). Nel 2009 parte di quelle regole furono ammorbidite da Berlusconi che non lesinava passaggi sulla rotta Roma-Olbia.
L’ex ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa (governo Prodi) andava ai vertici di Bruxelles con Easyjet, così come il premier inglese David Cameron usava voli low cost per una vacanza ad Ibiza con la moglie. La cancelliera Merkel, come ricorda Beppe Grillo (#Renzivolasereno»), «per le vacanze di Pasqua a Ischia del 2012 arrivò a Napoli con un volo separato da quello del marito...». Ma a guardar bene negli archivi, ci sono altre immagini di presidenti della Repubblica e del Consiglio che vanno in vacanza con mezzi propri: Romano Prodi con la sua non fiammante vettura che arranca sul passo Campolongo, nel 2006; Giorgio Napolitano a Stromboli, in compagnia della moglie Clio, che scende dal «postale» Napoli-Eolie con una borsa a tracolla e la paglietta stretta tra le dita, nel 2010; Enrico Letta che sbarca all’aeroporto di Trieste dal volo Alitalia AZ1365 con moglie e tre figli per andare in vacanza in Slovenia con un'auto presa a noleggio, il 30 dicembre del 2013. Un anno fa.

Corriere 5.1.15
I dipendenti tra premi e aumenti
In un giorno 393 assunzioni
Quel rapporto del Tesoro su Roma
Dal 2000 al 2012, quasi 95 mila aumenti. Solo tra il 2008 e il 2012 sono stati impegnati per il salario accessorio dei dipendenti comunali 340 milioni di euro
di Sergio Rizzo
qui

Corriere 5.1.14
Mai così tanti profughi dal dopoguerra
In Italia un aumento del 400 per cento
I dati choc del 2014 nel rapporto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni
di Francesco Battistini

GERUSALEMME Che fine ha fatto Tamir Abu Daher? Nella marea dei 16 milioni 700 mila migranti che si sono mossi nel 2014, lui è una gocciolina sciolta nel Mediterraneo o forse nascosta in un centro d’«inaccoglienza» o chissà dove. Di sicuro non ce l’ha (mai o ancora) fatta. Nato profugo e calciatore a Gaza, una volta aveva giocato nella nazionale della Palestina. A settembre, dopo la guerra, aveva detto basta: tre figli da crescere, niente da guadagnare. Gli ultimi 2.500 dollari per un posto barcone, se n’era andato solo. Giù per i tunnel, su fino ad Alessandria d’Egitto. Finalmente salpato. E subito affondato. Dove diavolo è finito, Tamir? «Io so che non è morto — fingeva di crederci il fratello Abdel, quando siamo andati a trovarlo nel campo di Al Maghazi e la famiglia ci accoglieva come fossimo lì per le condoglianze —. Un mio amico dice d’averlo visto su un tg greco. Magari si fa passare per siriano. Forse è arrivato in Svezia. Sai che tanti si rifanno vivi anche dopo anni?... Un giorno lo troverò a fare quel che sognava: l’allenatore in Italia».
Mare mostro. Per saperlo non c’è bisogno dell’organizzazione intergovernativa che s’occupa dei migranti (l’Oim), ma ora è nero su bianco nel suo rapporto: negli ultimi 70 anni, non ci sono mai stati al mondo tanti Tamir come nel 2014. Quasi 17 milioni che si sono spostati verso un altro Paese, 33 milioni 300 mila sfollati dentro i confini, un milione 67.500 d’iracheni, afghani, eritrei che hanno chiesto asilo in Germania, Francia, Svezia... Le bombe, Ebola, la povertà, i disastri naturali. «Numeri senza precedenti — dice il portavoce Leonard Doyle —. Era dalla Seconda guerra mondiale che non si vedeva una cosa simile. Ma allora si scappava dall’Europa: ora è il contrario». Oggi non c’è nemmeno il passaporto Nansen, quel lasciapassare che la Società delle Nazioni escogitò per aiutare chi fuggiva da Stalin o da Hitler: navi fantasma, stive di clandestini, ora ci si volta dall’altra parte e non si pensa ad altre misure.
«La tendenza dei governi europei è di dare la colpa solo alle condizioni economiche», accusa Doyle: un buon sistema per avere la scusa d’accogliere solo 25 siriani al mese, come fa il governo britannico. «Le cose invece stanno diversamente: questi sono profughi politici. Se è solo la povertà a far scappare, perché i flussi aumentano ogni volta che esplode un conflitto? Due settimane dopo la guerra, da Gaza ne uscivano come non era mai successo. E lo stesso dall’Eritrea: nel 2013 arrivavano a migliaia, proprio nel momento più acuto di crisi». «L’Italia ha chiuso l’operazione Mare Nostrum — ha detto prima di Natale il direttore generale dell’Oim, William Lacy Swing —, ma l’operazione Triton che ha preso il suo posto, per quanto encomiabile, copre un’area troppo piccola» di quest’emergenza: quest’anno, i morti nel Mediterraneo sono stati 3.224, il 66% del totale (4.868), quattro volte di più che nel 2013. Eanche l’Italia ha dovuto assistere un numero di disperati, 45 mila, quattro volte superiore all’anno precedente.
I numeri non dicono tutto. «Andarsene — commenta l’Oim — è la fuga da un dramma verso un altro dramma: quello della perdita d’identità, in Paesi che ormai antepongono l’ostilità all’accoglienza». L’Egitto, che solo all’inizio del caos aprì a 300 mila damasceni, è diventato un carcere per tutti i sans papier . La Giordania e il Libano ospitano un quinto dell’intera popolazione siriana. In Turchia, la xenofobia è endemica. In Libia, i migranti restano in attesa per anni. Popoli interi senza identità e dignità, ha denunciato il Papa. Quello che nel dopoguerra Luigi Meneghello chiamava «il dispatrio». Una cosa più profonda della semplice migrazione e che nei nostri Cie conoscono bene: la tua vita interiore che aspetta un futuro e invece a poco a poco emigra da te, come tu sei uscito dal tuo mondo.

Corriere 5.1.15
Lo scandalo «normale» di un viadotto che crolla
di Sergio Rizzo

Che un viadotto costato 13 milioni duri 7 giorni dall’apertura perché cede un tratto di manto stradale non può essere considerato normale. Siamo però in Italia, dove nessuna opera pubblica è realizzata in modo normale.
Oggi non abbiamo elementi per affermare che cosa sia andato storto in questo caso e di chi sia la responsabilità. Ma nessuno si stupirebbe se si venisse a scoprire che c’è stata qualche carenza tecnica rilevante, magari negli studi sul terreno, nel progetto o nelle stesse procedure di gara. Anche le pietre sanno come vanno le cose negli appalti pubblici. I bandi sono fatti spesso male, per non dire malissimo. Talvolta anche i progetti sono carenti, con gli esecutivi che sono impercettibilmente più dettagliati dei definitivi e gli esperti conoscono bene quanto sia importante questo fatto.
Il motivo è semplice: se i bandi fossero scritti con le mani anziché con i piedi e i progetti esecutivi fossero perfetti, non ci sarebbe bisogno delle varianti in corso d’opera. Né del contenzioso infinito che accompagna regolarmente ogni opera pubblica piccola e grande. E neppure degli arbitrati. Con il risultato che i costi sarebbero più umani, l’esecuzione più rapida e il prodotto migliore. Il caso della linea C della Metro di Roma, con le sue 45 (quarantacinque) varianti dice tutto. Come dice tutto il costo di un chilometro di autostrada o di ferrovia ad alta velocità, che in Italia è triplo rispetto a Francia o Spagna. Per non parlare delle 395 (tante ne sono state censite) opere mai finite, delle quali 150 nella sola Sicilia.
Né si può trascurare un altro aspetto decisivo. Chi fa il collaudo di un lavoro pubblico spesso riceve quel compito per ragioni diverse dall’effettiva competenza, più legate alla retribuzione che l’incarico porta con sé. Incarico, peraltro, che non dà luogo all’effettiva assunzione di responsabilità. Con la conseguenza che alla fine, nonostante le laute prebende, chi ha messo il bollino su un ponte, un viadotto o una strada mai viene chiamato a rispondere. Queste cose le sappiamo da 20 anni, ma nessuno ha mai voluto cambiare le regole. Ci sarà un motivo?

Corriere 5.1.15
Periferie: una rinascita senza ghetti
di Vittorio Gregotti

Gli scontri nelle periferie delle città italiane hanno fatto riemergere alla fine del 2014 la questione sociale generale della vita nelle periferie. È certo una questione che nelle forme che conosciamo ha inizio soltanto duecento anni or sono. Prima dell’età della meccanizzazione, non senza ragione, esse si definivano borghi o sobborghi o banlieues ; e dopo invece slums , o bidonvilles nei Paesi in via di sviluppo. La questione delle periferie è stata oggetto (nelle vicende della società europea) di dibattiti, studi e proposte molto articolate e, da parte dell’architettura, di molte proposte strutturali, come le garden cities e le new towns. E , prima ancora, delle utopie di Fourier oppure in quanto «ripresa» del modello insediativo rurale (come nel Movimento Moderno) o ancora in quanto «risposta» razionale e moralmente doverosa dell’abitazione operaia: il tutto secondo diverse interpretazioni degli ideali socialdemocratici del welfare state, ma pur sempre in quanto «risposta» di soccorso urgente di un problema abitativo a basso costo di costruzione, di terreno e di servizi. Tutto questo anche con progressivi interventi di miglioramento delle loro connessioni con le parti centrali e storiche della città accanto alla quale erano collocate e la cui espansione le avrebbe poi travolte e riassorbite in quanto categoria insediativa e sociale diversa e separata.
Nello stato di incertezze culturali, di forte scarsità economica e di richiesta di attenzione nell’aumento della povertà e delle emergenze sociali dei nostri ultimi anni, mi rendo conto, forse è possibile rispondere solo con l’idea di «rammendo» e di «aggiustamento»; tuttavia questo non dovrebbe far dimenticare la necessità di indirizzare le opere nuove o di modificazione verso una concezione strutturale che deve proporre una discussione di fondo sulla nozione stessa di periferia , anche in relazione alla tensione in aumento verso l’abitare urbano e, quindi, verso un’organizzazione nuova dell’espansione delle città. Le città, almeno quelle europee, grandi e piccole, di fondazione, o come ingrandimento di un villaggio, come polis o come «città coloniale», con tutte le loro stratificazioni hanno conservato nella storia (pur con le loro modificazioni, rifacimenti, ristrutturazioni, aumenti e diminuzioni di popolazione) il carattere irrinunciabile della loro mescolanza sociale e funzionale e della presenza di servizi essenziali. Ma anche di monumenti di riferimento all’identità della città stessa e della sua cultura delle sue parti.
Nonostante le rilevanti differenze della vita collettiva e singolare dei nostri anni, l’espansione delle tecnologie e delle comunicazioni (e nonostante la presa di coscienza della globalità e delle differenze culturali dell’abitare del nostro intero pianeta) il fatto urbano deve offrire ovunque il proprio carattere fondamentale di mescolanza sociale, di lavoro, di cultura e di servizi che caratterizza da sempre l’idea di città: contro ogni specializzazione ingiustificata, contro ogni idea di gated community di poveri, di ricchi o di diversi. Questo non significa negare il carattere dei quartieri che costituiscono l’insieme urbano ognuno dei quali nasce in una particolare occasione economica e di costume storico, con regole insediative, densità, eccezioni e principi diversi di costruzione delle forme architettoniche, e degli spazi aperti. Quindi anche il «rammendo», l’emergenza, il soccorso dovuto, non dovrebbero mai dimenticare l’obbiettivo di modificazione strutturale di qualunque parte urbana costituito dalla coltivazione progressiva della mescolanza funzionale, sociale, di lavoro. Ma anche della presenza di elementi eccezionali (un’università, un teatro, un museo, ecc.) a servizio dell’intera città che favoriscano l’interscambio necessario delle parti alla costituzione dell’identità urbana.

Corriere 5.1.15
Berlino e la variabile greca
Non processate solo i debitori
di Lucrezia Reichlin

Le modalità che le istituzioni e i governi europei adotteranno per affrontare l’eventuale richiesta greca di una rinegoziazione del debito sono essenziali per capire se le economie dell’Unione usciranno dalla stagnazione nel 2015 e come evolverà il governo della moneta unica. L’Italia deve quindi tenere gli occhi ben aperti: la visione che prevarrà su come affrontare la crisi greca segnerà il futuro
di tutti, non solo quello di Atene.
Secondo indiscrezioni riportate dal settimanale tedesco Der Spiegel , Angela Merkel starebbe considerando lo scenario
di un’uscita della Grecia dall’euro come preferibile a nuove concessioni sul debito.
Un passo di questo tipo da parte di Berlino stupirebbe — e non a caso ieri fonti governative hanno negato cambi di linea. Nonostante i progressi ottenuti dal 2010, infatti, è irrealistico pensare che l’eurozona non sia più esposta a una crisi finanziaria e politica in caso di «Grexit». Difficile credere che la Germania non tema questa prospettiva. Interpreto piuttosto le indiscrezioni giunte dalla Cancelleria come un segnale: la Germania non è disposta ad accettare, anche di fronte al ricatto di un’uscita dalla zona euro, una sostanziale svalutazione del debito che Atene ha con le istituzioni europee (il cosiddetto «debito ufficiale»), in particolare con la Banca centrale. Un default sul «debito ufficiale» — quello nei confronti di Stati ed enti pubblici (pari ormai all’80% del totale) e non più con i privati, come accadde in occasione della precedente ristrutturazione che portò il debito greco a una riduzione stimata in circa 100 miliardi — comporterebbe de facto un’uscita della Grecia: non tanto per l’atteggiamento punitivo dei tedeschi, ma perché indurrebbe la Bce a non accettare più il debito greco come collaterale nelle operazioni di finanziamento alle banche.
È davvero questa l’intenzione di Alexis Tsipras? Io credo che l’astro nascente della sinistra greca sia consapevole di quanto una posizione di questo genere si rivelerebbe suicida. Suo obiettivo è invece chiamare una trattativa che parta dal riconoscimento di come la sola combinazione di riforme strutturali e consolidamento dei conti pubblici si sia rivelata fallimentare. Pur in dissenso con gli aspetti populisti del programma di Syriza, questo messaggio è ormai largamente condiviso da osservatori di provenienza e matrice politica diversa.
Ne è un esempio il discorso pronunciato nel giugno scorso alla Banca dei regolamenti internazionali da Benjamin Friedman.
Il rispettato studioso di economia monetaria all’università di Harvard ha sostenuto che alla radice della stagnazione europea c’è il fallimento delle strategie sul debito sovrano: parliamo del problema rappresentato dal fatto che alcuni Stati membri Ue hanno contratto un debito che non saranno in grado di ripagare. Un’analisi che condividiamo ormai in molti.
Le difficoltà nell’affrontare la questione sono oggettive. All’origine c’è la peculiarità della situazione nell’eurozona, un’area dove il debito di uno Stato membro è emesso in una moneta che quello Stato non ha diritto di stampare. A questa peculiarità, si aggiunge quella per cui il debito degli Stati più a rischio è ormai, quasi interamente, detenuto da investitori istituzionali e soprattutto dalla Bce.
Il modo in cui l’Europa si è mossa sinora non convince. Sono state imposte regole molto strette sul consolidamento di bilancio, demonizzando ogni forza politica in dissenso dalla linea del rigore e lasciando alla Banca centrale il monopolio delle politiche di management della domanda. Una dinamica che sottopone la Bce a pressioni che potrebbero mettere a repentaglio la sua stessa credibilità.
Trovare una soluzione diversa, che preveda un accordo sul debito capace di alleggerirne il peso sull’economia senza far oscillare la stabilità finanziaria dell’Unione, non è certo semplice. Accettare però che il futuro dell’Eurozona sia dettato esclusivamente dagli interessi dei creditori significa subordinare a questi interessi la crescita delle economie di tutti i Paesi dell’Unione.
Con Alexis Tsipras si tratterà, anzi probabilmente si sta già trattando: è essenziale per l’Unione che il negoziato fra governi sia accompagnato da un’iniziativa forte e multilaterale, capace di gettare le basi di un nuovo contratto tra debitori e creditori. Contratto che preveda una redenzione di parte del debito, ma legata a riforme ambiziose e al coordinamento tra politiche monetarie/fiscali a livello europeo. Questo patto dovrebbe partire dalla constatazione che le crisi del debito sono il risultato del comportamento volontario delle due parti (creditori e debitori): la loro soluzione non è la punizione di una sola (il debitore). Come ricorda Friedman nel suo discorso, questo principio è riconosciuto da più di un secolo nel concetto di limited liability (secondo cui la responsabilità finanziaria di un soggetto va limitata a una somma prefissata). Proprio questo principio, che fa della crescita l’interesse comune delle due parti, venne adottato alla conferenza di Londra nel 1953. Allora il Paese debitore era la Germania, che ottenne una riduzione del 50% sia dei debiti contratti negli anni 20 e non onorati nel decennio successivo, sia delle somme dovute agli Usa nel dopoguerra. Oggi la Germania, che è tornata leader in Europa, dovrebbe promuovere una conferenza sul debito europeo illuminata da quello stesso principio. Una previsione? No, per il momento è solo un mio auspicio. Buono, però, per fare del 2015 l’anno della svolta.

La Stampa 5.1.15
“Porteremo Netanyahu alla corte dell’Aia”
La sfida del presidente palestinese Abu Mazen: presto sarà presentato il primo caso, per crimini a Gaza
Gerusalemme blocca i suoi fondi: no ai linciaggi. E anche gli Usa pronti a tagliare miliardi di aiuti umanitari
di Maurizio Molinari

Il primo atto di accusa contro Israele per «crimini di guerra» riguarderà il recente conflitto a Gaza: ad anticiparlo è Shawan Jabarin, capo dell’Istituto palestinese sui Diritti Umani a Ramallah, in coincidenza con la pubblicazione da parte di Al Fatah su Facebook di un fotomontaggio in cui si suggerisce che il premier israeliano Benjamin Netanyahu è destinato a essere condannato all’impiccagione da parte del Tribunale penale internazionale (Tpi). «Il governo palestinese ha iniziato a istruire i casi da presentare al Tpi dell’Aia - anticipa Jabarin - il primo riguarderà crimini contro i civili commessi a Gaza durante la guerra d’agosto e il secondo la costruzione di insediamenti in Cisgiordania».
Il presidente Abu Mazen, il capo negoziatore Saeb Erakat e i consiglieri legali del governo palestinesi hanno compiuto tale scelta perché «le violenze contro i civili a Gaza e gli insediamenti sono due crimini di guerra prolungati nel tempo e dunque sono evidenti a tutti».
Cappio per Bibi su Facebook
La reazione del governo di Gerusalemme è arrivata con il premier Benjamin Netanyahu che ha preannunciato «nuovi e più duri passi» dopo la scelta di non consegnare ai palestinesi 125 milioni di dollari di ritenute fiscali. «L’Autorità palestinese ha scelto la strada dello scontro e non resteremo con le mani in mano ad assistere al linciaggio dei nostri soldati davanti al Tpi» ha aggiunto il premier. Fra le ipotesi in discussione, secondo il ministro della Sicurezza Yuval Steinitz, vi sono «più severe sanzioni finanziarie» e anche la denuncia dei leader palestinesi, a cominciare da Abu Mazen, in sedi internazionali o davanti a un tribunale degli Usa, per «sostegno al terrorismo» in ragione del patto di governo in vigore con Hamas.
«Il blocco delle rimesse fiscali mensili è un ulteriore crimine contro i palestinesi - ha commentato Erakat - e potremmo reagire sciogliendo l’Autorità palestinese, perché non abbiamo più i fondi per pagare dipendenti pubblici, vigili e infermieri». In questa maniera, assicura Erakat «i territori torneranno alla situazione del 1992, sotto totale occupazione israeliana, ma è questo che Netanyahu vuole». Sarebbe la fine del processo di Oslo. A conferma della scelta palestinese di puntare all’incriminazione di Netanyahu per «crimini di guerra» c’è il post sulla pagina Facebook di Al Fatah, il partito di Abu Mazen, in cui si sovrappone la sua foto a un cappio, suggerendo che il Tpi deciderà nei suoi confronti la massima pena. Mahmoud al-Aloul, portavoce di Al Fatah, nega ogni responsabilità ma il post non è stato rimosso. La delegittimazione reciproca delle leadership è totale.
La fine del processo di Oslo
Si spiega così anche la fuga di notizie sull’incontro che Avigdor Lieberman, ministro degli Esteri israeliani, avrebbe avuto la scorsa settimana in una capitale europea con Mohammed Dahlan, ex capo della sicurezza palestinese e acerrimo avversario di Abu Mazen. Resta da vedere quali passi compierà l’amministrazione Obama, contraria alla denuncia di Israele al Tpi: se dovesse anch’essa adottare sanzioni finanziarie, l’Autorità palestinese rischierebbe il collasso. Proprio l’ipotesi di sanzioni Usa spiega la scelta di Abu Mazen di ipotizzare un «ritorno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu» dopo lo smacco subito la scorsa settimana.

Repubblica 5.1.15
Davanti al muro della vergogna che imprigiona il popolo Sahrawi
È lungo 2720 chilometri Così il Marocco ha “ingabbiato” la gente del deserto
di Pietro Del Re

RABOUNI (ALGERIA MERIDIONALE) VISTO da lontano più che di un’invalicabile barriera militarizzata il “muro della vergogna” ha l’aspetto di una duna giallognola che si erge di pochi metri chiudendo allo sguardo l’orizzonte esagerato del Sahara. A un paio di chilometri riesci appena a scorgere i cavalli di frisia che lo precedono e le parabole dei radar posti a scandagliare il nulla di un deserto punteggiato da acacie contorte e spinosissime. Per via delle mine anti-uomo con cui sono state lardate queste sabbie è impossibile avvicinarsi ulteriormente. Mohammed, la nostra guida sahrawi, ci indica un sentiero segnato con piccoli massi a uso delle poche delegazioni di politici o di attivisti che si spingono fin qui: «Questa strada è “pulita”, ma non possiamo percorrerla perché i marocchini ci hanno appena individuati ». Infatti, accanto a una garitta, indoviniamo le sagome di tre o quattro soldati.
Assieme a quello di Cipro e a quello israeliano, il valico che separa il Sahara Occidentale “occupato” da quello “liberato” è una delle ultime, spietate barriere che nel pianeta tagliano in due una comunità o un’intera nazione. Lungo 2720 chilometri, il “muro” nel deserto è senz’altro il più armato e il meglio presidiato. Dice Mohammed: «È protetto da 160mila soldati marocchini, 240 batterie di artiglieria pesante, 20mila chilometri di filo spinato e 7 milioni di mine anti-uomo e anti-carro. A Rabat costa 4 milioni di dollari al giorno». Costruita a difesa dell’ultima colonia d’Africa, per i sahrawi questa barriera tiene prigioniero tutto un popolo, impedendogli l’accesso alle ricche miniere di fosfati e alle pescosissime coste dell’Atlantico, entrambe nella porzione di Sahara occidentale “occupata” dai marocchini nel 1975. Per Rabat, invece, si tratta di una “cinta di protezione” eretta per arginare le falangi del Fronte Polisario, movimento in lotta per l’autodeterminazione dei sahrawi in quelle terre. Quel movimento, però, ha rinunciato alla lotta armata quasi un quarto di secolo fa, quando, nel 1991, optò per la via diplomatica nella speranza che grazie all’aiuto della comunità internazionale venisse indetto un referendum sul Sahara Occidentale. Un sogno ancora irrealizzato.
Mohamed Abdelaziz, segretario generale del Fronte Polisario e presidente in esilio della Repubblica araba sahrawi democratica, ci riceve a Rabouni, campo profughi nel Sud. L’ex combattente Abdelaziz, che vanta 13 cicatrici di guerra e una presidenza da primato, cominciata nel 1978, considera il “muro” il simbolo della separazione. «Rabat ha chiuso la porta a ogni soluzione pacifica e calpesta i diritti della nostra comunità. Siamo stanchi dello status quo e nei campi profughi i nostri giovani invocano la ripresa della lotta armata. Siamo noi sahrawi che dobbiamo decidere che cosa fare della nostra terra. Non il Marocco che la occupa illegalmente, come sancì la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ».
Dal presidente Abdelaziz è andata una nostra delegazione parlamentare capeggiata dal senatore Pd Stefano Vaccari. All’Italia, il presidente chiede il riconoscimento della Repubblica araba sahrawi, come hanno già fatto un’ottantina di Paesi, e la condanna della Francia, «che da membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu ha sempre usato del suo diritto di veto per favorire la monarchia marocchina».
Anche per il primo ministro sahrawi, Abdelkader Taleb Omar, senza una risoluzione dell’Onu il suo popolo ricomincerà presto a guerreggiare. «I giovani non hanno lavoro e per loro l’unica soluzione è il ritorno alle armi. Insomma, o patria o morte». Taleb Omar dà tutte le colpe all’intransigenza del Marocco «che da sei mesi non riceve Christopher Ross, inviato del segretario generale dell’Onu Ban Kimoon, che blocca l’ingresso nel Sahara occidentale alle delegazioni straniere, ai giornalisti e alle ong, e che impedisce persino l’arrivo nel capoluogo El Ayun del nuovo capo della Minurso, l’agenzia delle Nazioni Unite per il referendum ».
Il Sahara occidentale ha anche altri problemi, quelli che nascono alle sue frontiere: con la Libia nelle mani delle milizie, diventata un gigantesco mercato di armi, con il Mali, roccaforte di Al Qaeda, con il Marocco da dove i narco-trafficanti sperimentano nuove rotte per il trasporto della droga verso l’Europa. «Se i negoziati non dovessero trovare uno sbocco, i giovani sahrawi che scalpitano per tornare a combattere potrebbero finire nelle fila dei jihadisti, aggiungendo instabilità a una regione di per sé già incandescente», sostiene Abdeslam Omar Lahsem, presidente dell’Associazione delle famiglie dei prigionieri e dei desaparecidos. «Nel 1975 fu un’invasione barbara, con ammazzamenti e deportazioni di massa. Con la repressione marocchina sono già scomparse almeno 500 persone».
L’8 ottobre 2010, a pochi chilometri da El Ayun, nel Sahara occidentale “occupato”, 20mila sahrawi montarono 7000 tende in località Gdein Izik. Fu l’equivalente di una locale piazza Taksim, in anticipo di tre anni sulla rivolta turca. I manifestanti chiedevano case e lavoro al “tiranno” marocchino. Un mese dopo le forze di sicurezza sgomberarono l’accampamento. Secondo il linguista statunitense Chomsky fu quell’episodio, e non un mese dopo l’immolazione del tunisino Mohamed Bouazizi, a segnare l’inizio delle primavere arabe.

Corriere 5.1.15
Siria
Torture e abusi, la brigata femminile di Isis semina il terrore a Raqqa
Secondo le testimonianze, le donne di Al Khansa, il battaglione di donne dello Stato Islamico, stanno terrorizzando e torturando le siriane di Raqqa
di M.Ser.
qui

Corriere 5.1.14
Terrorismo, quell’atroce guerra che sbarrò la via a un’Italia nuova
di Corrado Stajano


Il terrorismo? Sembra lontana secoli quella stagione di sangue. Non se ne parla o quasi. Anche se i problemi che furono discussi non superficialmente in quegli anni — la giustizia, le carceri, la funzione della pena, il rispetto della Costituzione e delle leggi, la dignità del cittadino — seguitano a essere di quotidiana attualità. Vengono invece dimenticati, sottovalutati, cancellati, lasciati ai margini del modesto dibattito politico di oggi.
Monica Galfré, che insegna Storia dell’Italia repubblicana all’Università di Firenze, ha ripercorso, in controtendenza culturale, il tragico cammino di quegli anni: il suo saggio, pubblicato da Laterza, La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987 rappresenta un contributo importante, anche per il nostro presente, naturalmente.
La studiosa dimostra che quella storia di violenza e di morte non è separata, come si vuol far credere, dalla storia della Repubblica alla quale è invece profondamente intrecciata. Nella sua ricerca si serve di nuove fonti, gli archivi privati, non usa le testimonianze orali, registra con estrema attenzione le cronache e i commenti dei quotidiani, trascura purtroppo la tv.
Pare che il saggio abbia due «anime» che si compongono. Nella prima, Monica Galfré affronta (volutamente senza completezza) certi fatti del terrorismo di sinistra e della manchevole risposta giudiziaria, istituzionale, politica, soprattutto agli inizi, degli apparati repressivi. I magistrati erano dotati di poveri strumenti. Il Pci si muoveva tra l’incapacità e il rifiuto di capire che le Br nascevano a sinistra. L’album di famiglia.
Il libro non parla delle ambiguità e delle complicità dei servizi segreti e neppure delle non ancora chiarite infiltrazioni e presenze internazionali. Anche la funzione della P2 è lasciata da parte. (Fu importante anche perché l’affiliazione alla Loggia segreta di un gran numero di generali a capo dei servizi, di ministri, di politici e di giornalisti di rango avvenne agli inizi del 1977, l’anno dopo il grande successo elettorale del Pci, anche se la Democrazia cristiana, nonostante gli scandali e il degrado, aveva tenuto. Per i 55 giorni del sequestro Moro, il ministro degli Interni Cossiga ebbe intorno a sé come consiglieri gli uomini della P2).
Il saggio di Monica Galfré documenta come la lotta dello Stato contro il terrorismo non abbia rispettato, come vien detto, le garanzie costituzionali. Ne fanno prova, tra i non pochi esempi, il caso del sanguinoso blitz di via Fracchia a Genova, nel 1980, dove furono uccisi senza ragione quattro terroristi; il caso di Marco, il figlio terrorista del vicesegretario della Dc, più volte ministro, Carlo Donat Cattin di cui i carabinieri sapevano e tacquero; il caso della tortura inflitta ai brigatisti sequestratori del generale Dozier, comandante della Nato nel Sud Europa. (Ancora oggi la Repubblica democratica attende una legge contro la tortura).
Fu un’atroce guerra. Duecento i morti, migliaia i feriti e innumerevoli gli attentati del terrorismo di sinistra, «che danno l’idea di un caso imparagonabile al resto d’Europa», scrive Monica Galfré. Se si pensa poi alle stragi, prerogativa dell’estremismo di destra, e alle altre innumerevoli vittime dei gruppi neofascisti, si ha la percezione del clima cupo che in quegli anni gravò sulla comunità.
Gli episodi furono barbari, non soltanto gli assassinii degli uomini illustri come Aldo Moro e di tanti onesti servitori dello Stato. Il giornale radio delle 8 dava ogni mattina notizia di una nuova esecuzione, dirigenti industriali, capireparto, guardie carcerarie, agenti di polizia, carabinieri, brigatisti pentiti, giornalisti.
Viene ripetuto ancora oggi che il terrorismo ebbe il merito di sollecitare un rinnovamento politico e sociale. Come mai, si può replicare, le vittime sono state spesso uomini di sentire democratico, Emilio Alessandrini, Guido Galli, Walter Tobagi, tra gli altri? Dopo la strage di piazza Fontana ci fu nella società italiana un risveglio che si manifestò nella volontà riformatrice alle elezioni del 1975 e del 1976. I terroristi, con la loro violenza cieca, seppero invece far regredire quel desiderio di mutare rotta, di dir no alla corruzione e al cattivo governo. L’assassinio del fratello del pentito Patrizio Peci, nel 1981, che rammenta i metodi nazisti, fece capire come i terroristi non potessero avere un consenso di massa.
La seconda «anima» del saggio ricostruisce con minuzia e inediti particolari i processi legislativi, essenziali forse più dei pentiti, a sconfiggere il terrorismo. Il percorso fu arduo, alla ricerca di una soluzione politica o semplicemente umana: dalla prima legge sui pentiti, del 1980, a quella, del 1982, che mettevano a rischio l’essenza stessa dello Stato di diritto. Come si poteva chiedere «sincerità» e «spontaneità del ravvedimento»? Soltanto la legge sulla dissociazione, approvata nel 1987, riuscì a porre fine al terrorismo.
Andò in porto dopo un vero travaglio, una cruda lotta tra gli uomini di buona volontà, senza interessi di parte, e coloro che legavano la decisione ai meschini interessi di partito, tra i socialisti di Craxi all’avventura, i comunisti sulla difensiva, i democristiani sempre con gli occhi puntati ai doppi e tripli forni del potere, i cattolici democratici e gli intellettuali laici che ebbero, invece, con i radicali, una funzione propositiva.
«Cercare di capire le ragioni degli uni e degli altri, reali o presunte che fossero — conclude Monica Galfré il suo libro utile e coraggioso — mi è parsa l’unica strada percorribile per restituire, in tutta la sua complessità, il quadro determinante dalla sconfitta del terrorismo e dalla difficile uscita dall’emergenza: e, attraverso questo capire cosa esso abbia significato per la storia e la coscienza del Paese. (...) Una storia di cui è ancora difficile parlare».

La Stampa 5.1.15
Thomas S. Eliot, perché la terra non resti desolata
Moriva cinquant’anni fa il grande poeta inglese Il suo richiamo alla necessità di ritrovare una vita vera, di nuovo “fertile”, è un monito anche per il nostro tempo
di Paolo Bertinetti

qui

Corriere 5.1.15
Così Reagan il «pacifista» spianò la strada a Gorbaciov
Trent’anni fa, l’11 marzo del 1985, appare sulla scena internazionale «l’uomo nuovo» sovietico, l’uomo del cambiamento, vanamente atteso dalla morte di Stalin nel 1953: Mikhail Gorbaciov
di Ennio Caretto


Il segretario del Pcus e ultimo presidente dell’Urss è destinato a rimanere nella storia per la fine della Guerra Fredda e la liquidazione dell’impero comunista.Così analizzato e approfondito è stato il ruolo di Gorbaciov nella conclusione della pace tra Usa e Urss, tra Nato e Patto di Varsavia, che al riguardo difficilmente potranno emergere delle novità. Novità che stanno invece emergendo sul ruolo del suo interlocutore principe, il presidente americano Ronald Reagan, l’icona dei conservatori che con Gorby al vertice di Reykjavik nell’ottobre 1986 sfiorò l’eliminazione di tutti gli arsenali atomici.
Secondo una massiccia serie di dossier desecretati di recente da Casa Bianca, Dipartimento di Stato e Cia, anche Reagan fu un «uomo nuovo», l’uomo dell’imprevisto cambiamento americano. Senza di lui le aperture di Gorbaciov non avrebbero avuto probabilmente buon esito.
Il leader del Cremlino, suggeriscono i documenti, ebbe la fortuna di trovare nel Reagan del 1985 non il falco del primo triennio al potere. Una metamorfosi compiuta nel 1984 e maturata nel 1983, quando il mondo aveva rischiato di nuovo l’olocausto nucleare come già accaduto nella crisi di Cuba del 1962. Un cambio di passo che a sua volta sarebbe servito a poco se l’Urss fosse rimasta nelle mani della generazione di leader pre-Gorbaciov: Breznev, Andropov o Chernenko.
A trasformare Reagan, «il cow boy dal grilletto facile» secondo i media liberal americani, fu la graduale presa di coscienza che l’olocausto nucleare era «un pericolo reale e imminente», e che un first strike , un attacco sovietico a sorpresa, sarebbe costato la vita a 125 milioni di americani, quasi metà della popolazione.
Appena eletto, Reagan era stato informato che nel novembre 1979 gli Usa si erano trovati sull’orlo di una guerra nucleare per un errore dei computer che avevano denunciato un lancio di 2.200 missili dall’Urss.
Nel 1983 al presidente capitò qualcosa di analogo: l’Urss dichiarò due volte l’allarme nucleare, dapprima a settembre, dopo avere abbattuto nei propri cieli un aereo di linea sudcoreano, e poi a novembre, in reazione a manovre militari Nato. Reagan si disse inorridito e determinato a ridurre o eliminare gli arsenali atomici.
Stando ai dossier, fu dovuto al cambiamento di Reagan anche il progetto di Scudo Spaziale varato nel marzo 1983, un progetto mai realizzato (per i sovietici era un piano di guerra) che a Reykjavik il presidente offrì di spartire con Gorbaciov. Reagan prese sempre più le distanze dai falchi, il direttore della Cia William Casey e il consigliere della Casa Bianca Edwin Meese, e fece perno sulla colomba «number one», il segretario di Stato George Shultz.
In quello stesso 1983 invitò a un vertice Andropov, succeduto a Breznev, e nel 1984 rinnovò l’offerta a Chernenko. La sua delusione per un mancato riscontro è rispecchiata in un suo appunto del maggio di quell’anno: «Smettiamo di implorarli!». Ma all’elezione di Gorbaciov, pochi mesi dopo, Reagan non esitò a tornare alla carica con una lettera personale. Il vertice ebbe luogo nel novembre 1985 e inaugurò la stagione del disgelo.
Il presidente sapeva che Gorbaciov era un leader diverso. Glielo aveva detto Margaret Thatcher, premier britannico, che lo aveva ricevuto nel dicembre 1984: «Con lui si possono fare affari». Glielo avevano confermato Shultz e il vicepresidente George Bush Sr. dopo averlo incontrato alle esequie di Chernenko a Mosca.
Un rapporto della Cia lo dipingeva come un riformista: Gorbaciov «avrebbe seguito le orme di Kruscev e non di Stalin». Casey fu costretto ad allinearsi. In un memorandum al presidente del giugno 1985 intitolato «La scopa nuova Gorbaciov», lo definì «il leader sovietico più attivo della storia», ne elogiò i programmi economici e sociali e le iniziative in politica estera: «Ha ammorbidito le richieste del Cremlino per un vostro vertice». Il primo e i tre che seguirono.
Su questo ritratto di Reagan pacifista è polemica. Gli storici più critici ricordano che il presidente aveva bollato l’Urss come «l’Impero del Male», accusa che non ritrattò se non nel 1988.
Sottolineano il tentativo di distruggere l’avversario economicamente e politicamente, perseguendo la superiorità atomica al punto che il Cremlino non escludeva la terza guerra mondiale.
Ma i documenti desecretati dimostrano che dal primo incontro con Gorbaciov Reagan si lasciò tutto questo alle spalle e che si adoperò con il partner sovietico per edificare un solido sistema di reciproca sicurezza innanzitutto in Europa. Non ci riuscì, il suo mandato scadde nel gennaio 1989, e il suo erede Bush Sr. tergiversò per un anno prima di riprendere la collaborazione. Troppo poco e troppo tardi. Gorbaciov cadde il natale del 1991 e l’incubo nucleare continuò a perseguitare Reagan: «Un conflitto atomico sarebbe la fine della nostra civiltà».

Corriere 5.1.15
«La civiltà dell’Europa è sfinita» Onfray promuove Houellebecq
«È un continente morto, oggi in mano ai mercati. Domani forse all’islam»
«Noi europei, così sfiniti e sottomessi»
Onfray con Houellebecq sul declino della nostra civiltà rispetto all’energia dell’islam
di Stefano Montefiori


Non è solo, Michel Houellebecq, nella visione di un’Europa in cui l’islam trionfa sull’illuminismo proposta nel suo nuovo romanzo, Sottomissione . L’analisi dello scrittore francese è condivisa da Michel Onfray, suo connazionale e come lui habitué della polemica culturale. «L’Europa è sfinita, è un continente morto oggi in mano ai mercati e domani, forse, in mano all’islam» dice il filosofo al Corriere.

PARIGI Il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione , immagina una Francia del 2022 governata da un presidente musulmano e un nuovo ordine sociale che prevede poligamia e donne che restano a casa a occuparsi di mariti e figli in omaggio a una religione — l’islam — che ha trionfato sulla civiltà dell’Illuminismo. Prima ancora dell’uscita (il 7 gennaio in Francia per Flammarion e il 15 gennaio in Italia per Bompiani) il libro scatena polemiche e discussioni, tra riconoscimento del valore letterario e critiche a una presunta voglia di provocazione. Il «Corriere» ha sollecitato l’opinione di Michel Onfray, uno dei più noti intellettuali francesi, autore di decine di opere tra le quali il celebre Trattato di ateologia e una Controstoria della filosofia (Ponte alle Grazie); un pensatore ateo che ha letto — e amato — il romanzo del momento.
Visto che «Sottomissione» è un romanzo e non un saggio, è possibile separare il valore letterario dal contenuto profetico?
«È un esercizio di stile, una fiction politica ma anche metafisica: un romanzo sull’ignavia delle persone, degli universitari in particolare. Un romanzo molto anarchico di destra. Un libro sulla collaborazione, vecchia passione… francese! Come un universitario specialista di Huysmans può convertirsi all’islam? Ne scopriamo le ragioni poco alla volta: la promozione sociale in seno all’istituzione riccamente finanziata dai Paesi arabi, gli stipendi mirabolanti dei convertiti, la possibilità della poligamia, una ragazza per il sesso, un’altra meno giovane per la cucina, una terza se si vuole, il tutto continuando a bere alcool… Questo libro è meno un romanzo sull’islam che un libro sulla collaborazione, la fiacchezza, il cinismo, l’opportunismo degli uomini…».
La parte più scioccante è forse il destino riservato alle donne. Qual è la sua opinione? È concepibile nella nostra società un’evoluzione simile?
«La nostra epoca è schizofrenica: bracca il minimo peccato contro le donne e, per fare questo, milita per la femminilizzazione dell’ortografia delle funzioni, la parità nelle assemblee, la teoria di genere, il colore dei giocattoli nelle bancarelle di Natale; la nostra epoca prevede che ci si arrabbi se si continua a rifiutare auteure o professeure (femminili di autore e professore ), ma fa dell’islam una religione di pace, di tolleranza e di amore, quando invece il Corano è un libro misogino quanto può esserlo la Bibbia o il Talmud. Se si vuole continuare a essere misogini con la benedizione dei sostenitori del politicamente corretto, l’islam alla Houellebecq è la soluzione!».
In una sua prima intervista alla «Paris Review», Houellebecq decreta la fine dell’Illuminismo e il grande ritorno della religione (l’islam, ma non solo). In quanto pensatore ateo, qual è la sua reazione?
«Credo che abbia ragione. I suoi romanzi colgono quel che fa l’attualità del nostro tempo: il nichilismo consustanziale alla nostra fine di civiltà, la prospettiva millenarista delle biotecnologie, l’arte contemporanea fabbricata dai mercati, le previsioni fantasticate della clonazione, il turismo sessuale di massa, i corpi ridotti a cose, la loro mercificazione, la tirannia democratica, la sessualità fine a se stessa, l’obbligo di un corpo performante, il consumismo sessuale, eccetera. Quindi, utilizzare i progressi incontestabilmente compiuti dall’islam in terra d’Europa per farne una fiction sull’avvenire della Francia è un buon modo per pensare a quel che è già».
Houellebecq descrive una società francese ed europea stanca, affaticata dalla perdita di valori tradizionali. Cosa pensa? L’Europa è condannata, come dicevano i neocon americani?
«Houellebecq continua a dipingere il ritratto di una Francia post-68. E ha ragione di vedervi un esaurimento, meno in rapporto con il breve termine del Maggio 68 che con il lungo periodo della civiltà giudaico-cristiana che crolla. Questa civiltà è nata con la conversione di Costantino all’inizio del IV secolo, il Rinascimento intacca la sua vitalità, la Rivoluzione francese abolisce la teocrazia, il Maggio 68 si accontenta di registrarne lo sfinimento. Siamo in questo stato mentale, fisico, ontologico, storico. Houellebecq è il ritrattista terribile di questo Basso Impero che è diventata l’Europa dei pieni poteri consegnati ai mercati. L’Europa è morta, ecco perché i politici vogliono farla!».
La mia impressione, leggendo il libro, è che si finisca per credere alla profezia. In questo sta l’abilità di scrittore di Houellebecq? O la sua previsione è davvero plausibile?
«È in effetti uno dei talenti di questo libro: il racconto è estremamente filosofico perché è estremamente credibile… Sottomissione rivaleggia con 1984 di Orwell, Fahrenheit 451 di Bradbury, Il mondo nuovo di Huxley. Per me è il migliore libro di Houellebecq, e di gran lunga. La sottomissione di cui diamo prova nei confronti di ciò che ci sottomette è attualmente sbalorditiva. È un altro sintomo del nichilismo nel quale ci troviamo».
Evocando l’islam, Houellebecq agita un fantasma molto presente nella Francia di oggi, come dimostrano i libri di Alain Finkielkraut e Éric Zemmour. È giustificata, questa preoccupazione dell’identità?
«Ricorrere alla parola fantasma è già un modo di prendere una posizione ideologica. Esiste una realtà che non è un fantasma e che coloro che ci governano nascondono: divieto di statistiche etniche sotto pena di farsi trattare da razzisti ancor prima di avere detto alcunché su queste cifre, divieto di rendere note le percentuali di musulmani in carcere sotto pena di farsi trattare da islamofobi al di fuori di qualsiasi interpretazione di queste famose cifre, eccetera. Non appena si nasconde qualcosa, si attira l’attenzione su quel che è nascosto: se non esiste che un fantasma, allora che si diano le cifre, saranno loro a parlare…».

Corriere 5.1.15
La Magna Carta ha 800 anni: libri e mostre per celebrarla


Sono iniziate in Inghilterra le celebrazioni per gli 800 anni della Magna Carta («Magna Charta Libertatum») , il documento suggellato il 15 giugno 1215 da re Giovanni Senza Terra a Runnymede vicino a Windsor ( nell’immagine : Giovanni Senza Terra, di autore anonimo, 1620). Un testo basilare per la politica e il diritto (e per i diritti umani) che pose il re, cioè l’autorità, al di sotto della legge e mise fine a soprusi, punizioni arbitrarie e abusi. Per il «fondamento della libertà», come è salutato il testo sul sito delle iniziative (magnacarta800th.com), oltre a documentari della Bbc e a una nuova traduzione a cura di David Carpenter per Penguin Classic, sono in calendario fino a giugno spettacoli al Globe di Londra, visite guidate e convegni. Il 20 gennaio il Parlamento inglese festeggerà il «Democracy Day» e aprirà la mostra «Parliament in the Making». Dal 13 marzo, la mostra alla British Library «Law, Liberty, Legacy» esporrà i 4 manoscritti della Magna Carta accanto alla Dichiarazione d’indipendenza americana e al «Bill of Rights» inglese.