martedì 6 gennaio 2015

Repubblica 6.1.15
Aumentano gli edifici ecclesiastici sconsacrati in Europa Alcuni si trasformano in abitazioni, altri in palestre e librerie
La messa è finita nelle chiese in disuso nascono bar e teatri
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO I CARDINALI creati nel nuovo Concistoro arrivano dalle periferie del mondo. L’Europa perde potere. E, proprio nel Vecchio continente, le chiese chiudono. Si trasformano. In che cosa? Officine, teatri, atelier, consigli d’amministrazione, alberghi di lusso. Tutto, fuorché nel sacro. La messa è finita e la vita delle chiese riprende sotto altra forma. Sullo sfondo, le antiche spoglie — i muri, gli stucchi, i dipinti preziosi — spesso restano, nobilitando la nuova struttura. Ma l’anima consacrata è persa, e al posto di altari compaiono tavoli da ping pong, elevatori d’automobili, banconi da bar, blocchi di partenza per piscine persino.
Il fenomeno è in aumento nel Nord Europa. Chiese che chiudono i battenti riaprono le porte come palestre, supermercati, o scuole di circo. Una mutazione all’ordine del giorno in Olanda, dove la gerarchia cattolica stima di dover dismettere entro i prossimi 10 anni due terzi dei suoi 1.600 edifici. Ma pure 700 chiese protestanti si preparano a lasciare da qui al 2018.
In Danimarca sono 200 le chiese che non servono più. Nella provincia della Frisia, dove addirittura 250 luoghi sacri su 750 sono stati chiusi, una commissione deciderà cosa fare degli edifici abbandonati. In Germania ne sono stati chiusi ben 515 dal 2005 a oggi. In Gran Bretagna se ne svuotano 20 ogni anno. Al punto che la Chiesa d’Inghilterra, così come quella di Scozia, ha messo sul proprio sito una sezione dedicata alla vendita delle chiese sconsacrate.
Alcune, le più piccole, trovano spesso nuova vita come abitazioni private. Ma non tutte le strutture più grandi possono trasformarsi in biblioteche, sale da concerto o centri culturali. Ad Arnhem, in Olanda, la chiesa di San Giuseppe, un tempo capace di accogliere fino a mille fedeli, ha visto i suoi marmi adattarsi a palazzetto per i patiti dello skateboard.
A Bristol, in Inghilterra, la chiesa di Saint Paul si è attrezzata come scuola circo, con tanto di funi e trapezi attaccati alle volte. A Edimburgo, in Scozia, una chiesa luterana ospita adesso un bar luminescente, con il nome di Frankenstein: immagini mostruose e laser compaiono puntuali a mezzanotte. In Olanda gli edifici sacri sono diventati oggi i contenitori più diversi: supermercati, palestre, negozi di abbigliamento, librerie, fiorai.
Ma perché le chiese chiudono? Le ragioni sono varie: scarsità di fedeli, di fondi, cambiamenti nelle abitudini legate alla presenza nelle cerimonie religiose, l’aumento di credi diversi. Nella vecchia Europa il numero dei musulmani è cresciuto al 2010 dal 4 al 6 per cento, proiettandosi secondo il Pew Research Center di Washington verso l’8%, cioè 58 milioni di fedeli islamici, entro il 2030. Ma per tutti i credenti la chiusura di un luogo religioso — per i cristiani spesso al centro di una città, di una piazza, di un paese — è un evento emotivo di forte impatto personale e sociale. Lì la gente ha pregato, gioito, celebrato, pianto. E la demolizione o il riuso del sito provoca un processo di straniamento. Non si tratta infatti solo di fede, ma anche di conservazione della memoria, storica e familiare.
Pure nel Sud d’Europa il fenomeno è una spia del cambiamento. In Italia, grande Paese d’arte, il passaggio delle consegne ha trasformato alcune chiese in splendide officine meccaniche. Altre ospitano eleganti spettacoli di prosa. Esistono poi navate riadattate a meravigliose reception di hotel a 5 stelle. Oppure atelier di moda e tavoli a U per i consigli di amministrazione aziendali. Da Como all’Aquila, da Viareggio alla Puglia, decine di edifici religiosi hanno trovato negli ultimi anni una ricollocazione sorprendente. Lo testimoniano le bellissime immagini del fotografo Andrea Di Martino, autore di un lavoro pluripremiato, La messa è finita , sulla nuova vita delle chiese sconsacrate in Italia. «Per cinque anni — dice Di Martino — dal 2008 al 2013, per cercarle ho viaggiato in tutto il Paese. Ho esplorato ogni regione per trovare il riutilizzo più interessante, concentrandomi sulle soluzioni architettoniche innovative, e sugli adattamenti più pratici per chi ora ci lavora. Ne ho fotografate più di 70».
Alla chiesa di St. Eusebius, in Olanda, il pastore Hans Pauw conferma che l’edificio dove attualmente celebra è in vendita. E non mostra di avere problemi con i ragazzi che corrono sul pavimento con gli skateboard ai piedi. «Ci sono alcune cose che non vogliamo — spiega — cioè che la chiesa diventi un casinò, oppure un casino, o robe del genere ». E sul Gesù che compare dipinto alla parete con uno skateboard in mano dice: «Io, veramente, dentro ci vedo molto humour ».

Repubblica 6.1.15
se l’Italia resta sospesa nel limbo costituziuonale
di Stefano Rodotà


IL tempo costituzionale dovrebbe appartenere alla lunga durata, mai immiserito da ansiosi bilanci di fine d’anno. Ma abbiamo perduto questa dimensione, e i sessant’anni trascorsi dall’approvazione della Costituzione italiana vengono con frequenza inquietante presentati come un periodo che l’avrebbe logorata nei suoi stessi principi, ignari che la Corte suprema degli Stati Uniti e il Conseil constitutionnel francese fondano ancora le loro sentenze sul Bill of Rights del 1791 e sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Obbligati a vivere in un eterno presente, rischiamo di non aver più la profondità dello sguardo indispensabile quando si affrontano temi che riguardano l’assetto complessivo delle istituzioni e il rapporto tra lo Stato e il cittadino.
Molte volte, in passato, si era sottolineata l’impossibilità di separare la parte prima della Costituzione, dedicata a principi e diritti, da quella successiva sull’organizzazione dello Stato. Questa connessione è stata ricacciata sullo sfondo, perché la decisione di procedere a una riforma costituzionale riguardante governo, parlamento e sistema delle autonomie, insieme all’approvazione di una nuova legge elettorale, ha giustamente calamitato l’attenzione sul fatto che viene disegnato un sistema che mette in discussione essenziali equilibri democratici. Obbligati a battersi su questa trincea, senza molto ascolto e con qualche sgraziata ripulsa, gli studiosi critici della riforma non hanno dedicato l’attenzione necessaria all’erosione costante dei diritti fondamentali verificatasi nell’ultima fase, motivata con l’argomento dell’austerità.
Una situazione eccezionale? Non sembrerebbe, perché il riferimento all’austerità ha ridato spazio ad impostazioni che subordinano il rispetto dei diritti fondamentali alle compatibilità economiche. E questo riduzionismo dei diritti mette in evidenza un problema non meno grave di quello denunciato a proposito delle modifiche della seconda parte della Costituzione. Più impegnativo, anzi, perché non si dovrebbe dimenticare che le costituzioni degli ultimi sessant’anni sono state tutte caratterizzate dal fatto che proprio lo spazio dei diritti è divenuto un loro connotato essenziale. Possiamo accettare che venga chiusa questa fase del costituzionalismo?
La questione non può essere elusa. La cultura politica e giuridica deve misurarsi con essa, andando anche al di là del pur necessario spirito difensivo e sviluppando indicazioni che non si colgono soltanto nella Costituzione italiana. Ma, per muoversi in questa direzione, bisogna liberarsi non solo dall’accettazione passiva con la quale una parte degli studiosi del diritto costituzionale ha registrato il primato attribuito all’economia, proponendo una ricostruzione dei diritti fondamentali come “diritti condizionati” dalla disponibilità delle risorse. È indispensabile reagire anche alle tesi di chi, pur radicalmente critico verso ogni forma di neoliberismo, conclude poi che la Costituzione non rappresenta più uno strumento adeguato, dunque da abbandonare, affidandosi alle virtù della sola lotta politica. Che è posizione sbagliata, perché trascura il dato di realtà rappresentato dal fatto che proprio i riferimenti alla Costituzione hanno consentito in questi anni difficili di reagire ad iniziative pericolose, dando così uno strumento in più all’azione e alla critica politica.
Si tratta, dunque, di capovolgere molte impostazioni correnti e di restituire ai diritti fondamentali quella funzione di guida ad essi affidata dalla Costituzione, recuperando così quello sguardo prospettico che deve sempre accompagnare la politica costituzionale. Affrontando la questione certamente più difficile, ed oggi centrale, quella del lavoro, Gustavo Zagrebelsky ha sottolineato che “la Costituzione dice, in verità, non che il lavoro è condizionato alla politica, ma che la politica è (deve essere) condizionata al lavoro”. La necessità di tornare ad essere consapevoli di questa gerarchia è colta bene da Gaetano Azzariti in uno scritto recente, e Lorenza Carlassare da tempo segnala l’obbligo di distribuire le risorse disponibili in modo da assicurare in primo luogo l’attuazione dei diritti fondamentali.
Come si possa affermare il primato dei diritti fondamentali e legare ad essi una parte delle risorse, è questione affrontata nei più diversi luoghi del mondo. La costituzione brasiliana esplicitamente vincola una quota delle entrate all’attuazione dei diritti sociali, dalla salute all’istruzione, e la Corte Suprema controlla il rispetto di questi criteri. In India, nel 2013, il diritto al cibo è stato riconosciuto per legge, prevedendo che a determinate categorie di cittadini siano assicurati cinque chili di cereali al mese. La Corte costituzionale tedesca, nel 2010, ha “parlato alla politica”, dichiarando in parte illegittima la legge sul mercato del lavoro perché violava “il diritto alla garanzia di un minimo vitale dignitoso”, e ha indicato i criteri che il parlamento deve seguire; e proprio il parlamento tedesco ha approvato una legge che dal 2013 riconosce ai bambini “il diritto a un posto all’asilo”, prevedendo che i genitori possano rivolgersi all’autorità giudiziaria che, qualora il posto manchi, impone al comune di provvedere, con un evidente vincolo sulla destinazione delle risorse (intervento richiesto fin dal 2008 dal sindacato dei metalmeccanici come misura necessaria per garantire alle donne il diritto al lavoro).
Siamo di fronte a situazioni e tecniche diverse, che restituiscono al costituzionalismo dei diritti fondamentali la sua visione prospettica, lo collocano al di là degli atteggiamenti puramente difensivi e mostrano la sua capacità di affrontare situazioni interamente nuove. Certo, oggi la sfida dei diritti sociali, la cui attuazione esige prestazioni pubbliche, appare assai più impegnativa, ma questo è il terreno dove si misura la coerenza dei sistemi democratici, che dichiarano d’essere fedeli ai principi di eguaglianza, libertà, solidarietà, dignità. Parole che perdono senso se non vengono continuamente misurate sulla materialità del vivere, su una realtà che sembra abbandonata ad una deriva che quotidianamente le contraddice. Se si vuol parlare di doveri, come da più parti si fa, questi non possono essere intesi come una via per ridurre le “pretese” individuali, ma indicano in primo luogo i doveri delle istituzioni nei confronti delle persone.
In Italia vi sono segnali che mostrano come la consapevolezza culturale di questi problemi possa essere accompagnata da azioni politiche concrete. Si stanno raccogliendo firme su una proposta di legge d’iniziativa popolare per modificare l’articolo 81, che dovrebbe essere considerata con attenzione da tutti quelli che, dalle parti più diverse, sono ormai consapevoli dei guasti determinati da una acritica costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. Ma questa proposta non esprime soltanto una logica difensiva. Prevede che la legge sulla contabilità e la finanza pubblica definisca “i vincoli di bilancio nel rispetto dei diritti fondamentali della persona” e che alle istituzioni locali siano attribuite le risorse pubbliche necessarie per tutelare i diritti sociali e civili, e comunque necessarie per garantire le prestazioni essenziali. Si può sfuggire ad una discussione pubblica su questo tema?
E, considerando l’influenza determinante del contesto globale sull’attuazione dei diritti, dovrebbe essere preso molto sul serio il monito di Marcello De Cecco, che su questo giornale ha messo in luce i rischi del Trattato Transatlantico in corso di negoziazione tra Stati Uniti e Unione europea. È troppo chiedere che il Parlamento italiano trovi un tempo non frettoloso per discutere un tema dal quale dipende il nostro futuro e dia al governo gli indirizzi necessari perché non si riconosca alle società multinazionali il potere di opporsi alle decisioni degli Stati con procedure incompatibili non solo con la tutela dei diritti, ma con gli stessi principi della democrazia?

Corriere 6.1.15
E infine anche Renzi si arrese ai 40 anni
di Luca Mastrantonio


I prossimi quarant’anni di Matteo Renzi non sono un mero dato aritmetico. Innanzitutto, per motivi personali: è molto sensibile a se stesso, parla in terza persona e forse sarà il primo a farsi gli auguri l’11 gennaio, magari per esorcizzare l’iscrizione al circolo «Splendidi quarantenni», come Nanni Moretti si definiva nel film Caro Diario. Poi, per aspetti sociali e storici: l’Italia guidata dal premier più giovane di sempre (record di precocità cui Renzi è affezionato almeno quanto Berlusconi alla propria longevità) sta vivendo uno strisciante scontro generazionale. Infine, per Renzi la questione generazionale ha valore politico: l’essere giovane era un elemento centrale del programma di apertura e novità. Perno del suo storytelling, prova di autenticità, coefficiente di talento in una società che spettacolarizza la giovane età. A fine 2015, cioè a 40 anni, Renzi non potrà più finire nella lista degli under 40 più influenti al mondo, com’è successo nel 2014 con Fortune, dove l’ex sindaco di Firenze era al terzo posto, dietro ai fondatori di Uber e di Airbnb (a pari merito) e a Mark Zuckerberg. Sia chiaro: Renzi ha superato la «linea d’ombra» da anni, e più volte, prendendo il timone e liberandosi da figure politiche paterne e fraterne, issando quale vessillo la sgargiante camicia bianca. Ha conquistato Firenze, ha perso con stile e vinto con forza le primarie del Pd, poi ha preso il posto di Enrico Letta. Ma il romanzo di Joseph Conrad, del 1917 — che ha ispirato anche una canzone di Jovanotti, cioè Lorenzo Cherubini, appunto La linea d’ombra —, racconta come abbandonare il malessere acerbo della seconda gioventù. Renzi lo farà? Forse l’ha già fatto, ma sembra restargli il vezzo di sentirsi ancora trentenne, anche nell’Imminenza dei quarant’anni, per usare il titolo di una poesia che Mario Luzi scrisse nel 1954, a Viterbo, dov’era membro esterno agli esami di maturità. Il poeta fiorentino sentì che qualcosa si era rotto, dopo anni di ansia, uggia, ilarità improvvise, mani tese, strappi: è un bilancio tormentato da pioggia e vento, ma luminoso, grazie anche alla fede. Il senso, così, si rivela: se non tutto fu vano, non tutto lo sarebbe stato.

Corriere 6.1.15
«Salva Berlusconi», scontro in Aula
di Francesco Di Frischia


ROMA La giornata di ieri non ha dissipato il mistero su chi abbia inserito la norma che potrebbe cancellare gli effetti della condanna per frode fiscale a Silvio Berlusconi. Nemmeno l’assunzione di responsabilità del premier Renzi sull’intero percorso del decreto fiscale è servita ad archiviare il caso. Il ministero dell’Economia resta al centro delle polemiche e l’eco dello scontro è arrivata anche a Montecitorio.
Ieri, in occasione della presentazione del Milleproroghe, scambio di vedute al vetriolo tra Alessandro Di Battista (M5S) e Walter Verini (Pd): «Ultimamente Palazzo Chigi sembra come uno di quei rioni in mano alla camorra — attacca il grillino — dove nessuno sa nulla all’inizio e poi alla fine qualcuno parla per proteggere qualcun altro». L’esponente della maggioranza replica: «Dire che il governo abbia voluto introdurre norme per fare un favore a qualcuno, si chiamasse Berlusconi o no, è veramente malafede. Ammettere però un errore è un segno di forza: non è questo governo che fa leggi ad personam ». Ma il clima politico rimane incandescente dopo che lo stesso premier domenica ha detto ai suoi di essere stato lui ad avere voluto, durante il Consiglio dei ministri del 24 dicembre, l’introduzione dell’articolo 19 bis: questo codicillo, secondo alcune interpretazioni, depenalizzerebbe il reato di frode fiscale stabilendo un tetto del 3% dell’evasione rispetto all’imponibile. In questo modo, però, se la norma diventasse legge rischierebbe di cancellare la condanna di Berlusconi .
Volontà o errore? I dubbi restano. A aprire i fuochi artificiali ci pensa Beppe Grillo che in un tweet posta un fotomontaggio che ritrae Berlusconi con in mano un burattino che ha il volto del premier e la scritta: «Renzi il burattino». Sul blog di Grillo i parlamentari M5S ribadiscono: «“Non sono stato io!” biascica Renzi dopo essere stato beccato ancora una volta nel talamo delle larghe intese insieme al suo amato Silvio. E comunque, l’articolo 19 bis è s tato piazzato lì a sua insaputa». Poco convinto anche Matteo Salvini (Lega) che si chiede: «Renzi non sapeva niente della legge che avrebbe aiutato Berlusconi. Voi gli credete?». Sposta il tiro Il Mattinale , la nota di FI alla Camera, che azzarda un sospetto: «Non è che tenere in sospeso questa legge sia una specie di ricatto? — scrivono gli azzurri pensando alla corsa per il Quirinale —. In nessun caso la cosa ci riguarda. Nessun ricatto».
Non la pesa così Annamaria Furlan (Cisl) che chiede di «cancellare l’articolo 19 bis». E aggiunge: «Un Paese con 130 miliardi di evasione fiscale non può permettersi una norma che premia gli evasori». Se Arturo Scotto (Sel) sostiene che «in una democrazia liberale il giorno dopo il “salva Berlusconi” qualcuno si sarebbe dimesso», Rosy Bindi (Pd) taglia corto: «L’azione è stata un po’ preoccupante, ma il governo ha corretto l’errore».

Corriere 6.1.15
«Così hanno stravolto il decreto»
L’ex presidente della Consulta Gallo: hanno cambiato il testo a Palazzo Chigi
Gallo, il capo del team tecnico dell’Economia: norma sbagliata, tenuti all’oscuro
di Dino Martirano


«Il testo era pulito» dice Franco Gallo, ex presidente della Consulta e supertecnico a cui Padoan affidò la redazione del decreto attuativo della delega fiscale. Il suo testo di ottobre non aveva l’articolo 19 bis «aggiunto a Palazzo Chigi» il 24 dicembre

Il giurista che ha preparato la riforma per il Tesoro: un errore, non si sa chi sia stato 1
ROMA Al ministero dell’Economia e delle Finanze lo schema di decreto legislativo che attua la delega fiscale, al quale in extremis verrà aggiunto il vagoncino della soglia di non punibilità sotto il 3% del reddito dichiarato, ha avuto una gestazione apparentemente tranquilla e trasparente. Ma ora è su Via XX Settembre che si addensano minacciosi nuvoloni carichi di veleni.
La commissione tecnica affidata all’ex presidente della Consulta Franco Gallo e all’ex sottosegretario Vieri Ceriani (governo Monti) viene insediata al Mef a luglio 2014 e già in ottobre consegna un testo scritto al ministro Pier Carlo Padoan. In quella prima versione, conferma Gallo che è stato ministro delle Finanze nel governo Ciampi e il cui nome circola da tempo anche per la corsa al Quirinale, non c’era traccia dell’articolo 19 bis comparso in corso d’opera il 24 dicembre a Palazzo Chigi.
«Il testo era pulito. Ho avuto notizia dell’introduzione del detto artic olo 19 bis, nel testo elaborato dalla commissione da me presieduta, solo dopo la seduta del Consiglio dei ministri del 24 dicembre nel quale è stato approvato, appunto, il decreto legislativo». D’altronde Gallo, da luglio a ottobre, lavora con magistrati del massimario della Cassazione, ufficiali della Guardia di Finanza e funzionari della Agenzia delle Entrate: e tutti, davanti alle ipotesi teoriche per addolcire la pillola di «un Fisco buono con i contribuenti», escludono la strada della soglia a percentuale della non punibilità. Sintetizza il presidente Gallo, entrando nel merito di quella che già qualcuno definisce «la grazia mascherata per Berlusconi»: «Ovviamente è una scelta politica e noi tecnici non dobbiamo fare altro che consegnare il nostro lavoro alla politica, che poi decide. Però ci vuole trasparenza, e a questo punto non si capisce chi sia stato a Palazzo Chigi a modificare il decreto con un‘operazione additiva ed emendativa. Io però quella norma la ritengo radicalmente errata, tecnicamente e in termini di politica legislativa, perché porta con sé la previsione di una soglia di non punibilità per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante artificio. E questo non è accettabile. Non solo perché tocca Berlusconi. La frode di per sé richiede una punizione». Gallo conferma che il testo varato dalla sua commissione è quello trasmesso da Padoan a Palazzo Chigi: «Certo, se gli uffici del Mef su altri aspetti hanno cambiato qualcosa, anche in direzione meno garantista, potevano pure farmi una telefonata...».
Sta di fatto che mentre l’ex presidente della Consulta difende il ministro Padoan, anche i suoi telefoni hanno un sussulto. Perché il sito Dagospia spara nel primo pomeriggio la notizia di un presunto vertice in Via XX Settembre per confezionare l’articolo «salva Berlusco ni», inteso come merce di scambio per ottenere i voti di FI nella corsa al Colle di Padoan: «Presenti alla riunione il ministro, l’avvocato del Cavaliere Coppi, il sottosegretario Lotti e il presidente Gallo».
Gallo è il primo a smentire: «Non so se mettermi a ridere. Smentisco nel modo più categorico di aver partecipato alla fantomatica riunione. Lotti poi non lo conosco neanche, il ministro Padoan non lo vedo da mesi, Coppi è un collega di facoltà e al ministero non ci vado da ottobre». Al professor Franco Coppi, che parla di «notizia falsa», va il primato della migliore battuta: «Io al ministero per suggerire la norma? Se fosse vero, l’avrei scritta certamente meglio. E non temo di essere smentito perché ora non si riescono a individuare neanche gli autori di una norma che, solo perché favorirebbe Berlusconi, va cancellata». Infine arriva la nota del Tesoro: «Notizia destituita di qualsiasi fondamento e frutto esclusivo di fantasia o volontà di diffamazione...».
Il presidente Gallo, ora, ritornerà al Mef già domani per una riunione straordinaria della commissione: «Ci vediamo, così passiamo in rassegna le modifiche apportate rispetto al nostro testo...». Di sicuro, anche se dallo stesso Renzi è stato annunciato uno slittamento della normativa, la soglia di non punibilità del 3% sarà al centro del dibattito.

il Fatto 6.1.15
Coppi, il legale del Caimano ammette “Renzi usa il salva-Berlusconi del 3 per cento per il Quirinale”
B. “Matteo mi ha chiamato per gli auguri il 24 dicembre sera”. Subito dopo aver infilato l’articolo-regalo
di Carlo Tecce


Con maniacale cura nel selezionare le parole più adatte, l’avvocato Franco Coppi fa un’annotazione al momento dei saluti: “Mi chiede se la polemica sul 3% per i reati fiscali e sul mio assistito Silvio Berlusconi c’entri con la partita per il Quirinale? E io le rispondo di sì, altrimenti perché Matteo Renzi promette che la pratica sarà rinviata a presidente eletto e dopo la fine dei servizi sociali a Cesano Boscone? ”.
Il professor Coppi inizia da lontano, cita Giulio Andreotti, un suo ex cliente: “Mi ripeteva che le notizie non vanno corrette o smentite, è dannoso. Ma io un ragionamento lo voglio fare”. E allora, avvocato, l’ormai famosa norma salva evasori e frodatori, avrebbe riabilitato il condannato Silvio Berlusconi? “Occorre valutare, forse sì, adesso non mi sembra più una questione attuale. E vi assicuro che non sono in disaccordo con Niccolò Ghedini (la considerava inutile per B.), difendiamo assieme Berlusconi, altrimenti sembriamo due cretini. E aggiungo che non ho mai incontrato il ministro Pier Carlo Padoan (riferimento a Dagospia). Quel che posso evidenziare è che il Tesoro e Palazzo Chigi non potevano non sapere l’esistenza del codice. E mi domando: perché ieri ritenevano giusta la legge e oggi è sbagliata? Colpa sempre di Berlusconi? ”. Era smaccatamente un dono infiocchettato per il suo assistito, non tema però, Renzi dice che vuole aspettare l’elezione del capo dello Stato. “Questo è l’aspetto che mi preoccupa e comprendo chi lo solleva: il provvedimento appare legato alle trattative per il Quirinale, utilizzato come un messaggio mentre ci avviciniamo all’appuntamento per la successione di Giorgio Napolitano. È scorretto per i cittadini che potrebbero beneficiare della soglia del 3% e per il Berlusconi politico. Per fortuna, il problema non mi riguarda”.
Vertice ad Arcore di B. e la telefonata con Matteo
Il professor Coppi offre lo spunto per ricostruire una faccenda con tante comparse ancora ignote – chi ha modificato e valutato il decreto legislativo in materia fiscale e chi l’ha vergato? – e due insigni protagonisti: i contraenti del patto del Nazareno, l’anziano Silvio Berlusconi e il giovane Matteo Renzi. Per lo scafato Coppi, la mossa del giovane è servita a rassicurare l’anziano. Anche in villa San Martino di Arcore, l’apparizione e la scomparsa dell’articolo 19 bis, che conteneva la scappatoia per l’ex Cavaliere, sono fenomeni che vengono interpretati come un segnale per il capo di Forza Italia. Un po’ di riguardo, perché fa intendere che Renzi potrebbe ripristinare completamente l’attività politica dell’alleato del Nazareno. E un po’ sovviene la sensazione che il regalo natalizio, licenziato dal Cdm il 24 dicembre di vigilia, sia stato sfruttato per pressare Berlusconi in vista del Colle. Non è soltanto una suggestione di Augusto Minzolini, ma un pensiero comune tra i dirigenti forzisti. L’ex Cavaliere, ieri pomeriggio, ha convocato i capigruppo di Camera (Renato Brunetta) e Senato (Paolo Romani), onnipresente il mai defilato Denis Verdini, per delineare le tattiche sul Quirinale e per imbracare un partito che cade a pezzi e ha rivelato, per l’occasione, di aver ricevuto una telefonata di Renzi proprio la sera del 24 dicembre, mentre il pacco di Palazzo Chigi era pronto per essere consegnato all’ex Cavaliere. Il pacco che avrebbe cancellato la sentenza Mediaset a quattro anni di reclusione e, soprattutto, gli effetti della legge Severino che lo rendono in-candidabile per sei. Automatico supporre che Renzi, se non fosse davvero così distratto, abbia informato Berlusconi e che il colloquio non sia terminato solo con i tradizionali auguri di buon Natale. Stavolta, l’ex Cavaliere non fa la vittima, non accusa l’inquilino di palazzo Chigi (che incontrerà a breve), quasi come se già fosse al corrente del canovaccio di questa vicenda, che l’ha prima improvvisamente liberato e poi immediatamente rinchiuso in gabbia. In sintesi: Berlusconi ha apprezzato lo sforzo di Renzi, e spera che in futuro sia più incisivo. Ovvio che debba inondare i suoi parlamentari con lo sfogo contro la sinistra che lo ricatta per il Quirinale, mescolando eventi politici a sventure private. E pure questo va registrato, incluso un flebile piano per sostenere Pier Ferdinando Casini al Colle. Per riconquistare l’agibilità politica, rabbonito da Ghedini, Berlusconi confida nella Corte di Strasburgo, che esaminerà il ricorso contro la Severino. E poi c’è l’amico di Firenze.
Il ruolo di Lotti e Verdini e gli esecutori a Chigi
Nonostante la sospetta generosità che ha spinto Renzi ad assumersi la responsabilità del miracolo natalizio per Berlusconi, prosegue la finta caccia ai responsabili. Quelli materiali sono facili da individuare: l’ex vigilessa Antonella Manzione, che dirige l’ufficio legislativo di Palazzo Chigi, e i tecnici che l’assistono. Oltre all’ex sindaco di Firenze, i mandati sono della stessa zona. È indiscrezione diffusa che le conseguenze del decreto fossero comprese dai toscani Luca Lotti e Denis Verdini, il sottosegretario di Renzi e l’emissario di Berlusconi sono i custodi dell’accordo del Nazareno. Appena il trucco è stato scoperto, però, è montata (l’artificiosa) armonia tra il Tesoro di Padoan a Palazzo Chigi. L’articolo 19 bis, imbarcato dal Consiglio dei ministri senza che fosse notato, ora se lo ricordano in Via XX Settembre: “Impianto condiviso, effetti sconosciuti”.
Non conviene allargare la distanza tra l’Economia e Palazzo Chigi, non alle pendici di un mese che sarà una scalata. L’agenda non lo permette.
Il faccia a faccia con i deputati e i senatori
L’esordio per Renzi è un esame con i parlamentari democratici, domani. L’ordine: timbrare l’Italicum a Palazzo Madama e la riforma costituzionale a Montecitorio. E poi, in coincidenza, tocca al Quirinale. Gli schieramenti sono i soliti: Lotti a sinistra, Verdini a destra, i franchi tiratori al centro, ovunque. Questi sono giorni da elenchi fatti e rifatti, mediazioni per raccattare i grandi elettori. Renzi ne dispone circa 450, e molti li perderà. Berlusconi non dà cifre esatte. Quelli di Forza Italia sono 150, così recitano le carte, le somme algebriche, senza contare le truppe di Raffaele Fitto. Ecco perché, prima di affrontare il Colle, occorre che Silvio&Matteo siano affiatati. La pendenza per l’ambita residenza va oltre il 3% dell’evasione fiscale.

il Fatto 6.1.15
Lotti e Manzione, manine del Giglio magico
I due fedelissimi del premier sono gli unici che possono aver infilato la salva Berlusconi nel decreto fiscale
di Davide Vecchi


La manina di Firenze. Nel balletto di attribuzioni poi smentite e ammissioni di paternità dell’ormai nota norma salva Berlusconi, una certezza c’è: è figlia del Giglio magico. Solamente due persone, ovviamente con il consenso del premier, avrebbero potuto infilare a Consiglio dei ministri concluso quelle poche righe che garantiscono la riabilitazione a Silvio Berlusconi: il responsabile del Dipartimento degli Affari giuridici di Palazzo Chigi, Antonella Manzione, o il fidato sottosegretario tuttofare di Renzi, Luca Lotti.
CAPO DEI VIGILI urbani di Firenze e direttore generale di Palazzo Vecchio, la 50enne Antonella Manzione, sorella di Domenico, ex magistrato oggi sottosegretario agli Interni, è arrivata a Roma poche settimane dopo lo sbarco di Renzi. Per averla al governo il premier l'ha dovuta imporre alla Corte dei conti: la magistratura contabile, infatti, aveva bocciato l'incarico di Manzione a capo del Dipartimento Affari giuridici e legali di Palazzo Chigi perché non aveva i requisiti. L’incarico quindi è stato “congelato” ma Renzi, in risposta, lo ha confermato mandando un nuovo contratto alla Corte dei conti. Imposta dunque nel cuore normativo del governo, Manzione è uno dei dirigenti di massima fiducia dell'ex sindaco. Già nel 2011 Renzi, allora sindaco, intervenne in difesa della donna contro il Pd che sollevò dubbi di incompatibilità tra l’incarico di capo dei vigili urbani e quello di direttore generale. E tutto filò secondo i desiderata renziani.
Il curriculum di Manzione, come quelli di buona parte dei renziani sbarcati a Roma, non offre grandi sorprese. Una laurea magistrale in Giurisprudenza, l’abilitazione da avvocato e una lunga carriera nell’amministrazione pubblica e in particolare nel corpo dei vigili urbani a Pietrasanta, Livorno, Verona, Lucca e, infine, Firenze. Nel 2006 diventa protagonista di un arresto: un esposto firmato nel 2002 dall’allora comandante della polizia locale della Versilia portò dietro le sbarre Massimo Mallegni, all’epoca sindaco di Pietrasanta eletto con il Pd. Il primo cittadino, accusato di ben 51 reati diversi, si fece 39 giorni di cella e altri 120 ai domiciliari. L’ordine d'arresto fu firmato da Domenico Manzione, fratello della vigilessa, in quegli anni magistrato presso il Tribunale di Lucca. Mallegni però dopo anni fu assolto con formula piena perché i fatti non sussistono. Non solo, la Cassazione ha anche giudicato illegittimo l’arresto e condannato al risarcimento dei danni Mal-legni. L’ex sindaco ora fa l'albergatore. I fratelli Manzione, invece, sono a Palazzo Chigi con l’amico di Rignano d’Arno. L’ha ammesso la stesso Domenico Manzione, in un’intervista, di essere stato nominato sottosegretario già nel governo Letta “in quota renziana”.
L'ASCESA di Luca Lotti, invece, è interamente scandita dalla benevolenza dell’amico Matteo. Per lui oggi cura i rapporti con le forze dell’ordine, i servizi segreti e il livello riservato degli uffici romani. È talmente fedele da essere stato inserito nel cda della fondazione Open, la cassaforte del fu rottamatore, insieme a Elena Maria Boschi, Marco Carrai e Alberto Bianchi.
Figlio del primo direttore della banca di Cambiano Marco Lotti e nipote del terracottaio Gelasio, Luca è cresciuto a Samminiatello, piccola frazione di Montelupo, con la passione del calcio. La sua prima occupazione è stata allenatore della squadra femminile del paese. Frequentando gli scout ha conosciuto Renzi e da allora i due non si sono più separati. Nel 2004, con in tasca il diploma, diventa capo dello staff dell’amico Matteo eletto presidente della Provincia. Nel 2009 Renzi diventa sindaco e Lotti è assunto a chiamata come responsabile della segreteria del primo cittadino e nove giorni dopo viene assunta anche la moglie Cristina Mordini. Nel 2011 diventa responsabile dell’ufficio di gabinetto del sindaco. Eletto nel 2013 alla Camera, a dicembre entra nella segreteria nazionale del Pd nel frattempo “scalato” dall’amico Matteo che poi lo nomina sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio con delega all’Editoria.
Si spiega facilmente, dunque, come la sua libertà d’azione sia limitata ai desiderata di Renzi. Matteo ordina, lui esegue. Come ai tempi di Palazzo Vecchio quando l’amico Matteo lo chiamava nel suo ufficio mentre era con degli ospiti o con alcuni dei suoi assessori, che ricordano alla perfezione la scena perché frequente. Matteo lo chiamava: “Luca ce li fai du’ caffè? Ma boni, eh”. Ecco, magari al governo i due caffè sono diventati tre righe da infilare in una norma per salvare Berlusconi.

il Fatto 6.1.15
Condanna Mediaset
“Così la norma può salvare Berlusconi”
di Gianni Barbacetto


La manina (o manona) che ha inserito l’articolo salva-Berlusconi nel decreto di Natale ha potuto farlo – e avrebbe avuto davvero l’effetto di salvare dalla condanna l’ex presidente del Consiglio – perché da qualche mese è saltata in Italia quella che si chiama (anzi, si chiamava) “intangibilità del giudicato”: una condanna definitiva è irrevocabile e non può più essere cambiata. Ora non è più così: se arriva una nuova norma, più favorevole all’imputato, la condanna può saltare, o comunque la pena deve essere ricalcolata.
È STATA la Corte di cassazione a stabilirlo, in una sentenza delle sezioni unite emessa dell’ottobre 2014. Il caso considerato era quello di un imputato di detenzione e spaccio di stupefacenti condannato nel 2012 a 6 anni di carcere perché la legge ex Cirielli, nel 2005, aveva proibito di dare prevalenza all’attenuante del “fatto di lieve entità” (la dose modesta di droga detenuta) rispetto all’aggravante della recidiva. Questa proibizione era stata cancellata dalla Corte costituzionale nel 2012. Dunque la Cassazione aveva riconosciuto che quella condanna, benché definitiva, poteva, anzi doveva essere cambiata. A questa determinazione erano giunte le sezioni unite della suprema corte, con a capo il primo presidente Giorgio Santacroce, relatore Franco Ippolito e, tra i giudici, Antonio Esposito, ovvero il presidente del collegio di Cassazione che nell’estate 2013 ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi per frode fiscale. Proprio il reato “manomesso” dal decreto natalizio che stabilisce una soglia del 3 per cento sotto la quale la frode evapora e il reato sparisce.
È indiscutibile che quella norma, più favorevole al reo, si sarebbe applicata anche a Berlusconi. Lo spiegano gli stessi magistrati della Cassazione che fanno riferimento all’articolo 2 del codice penale e all’articolo 673 del codice di procedura penale. Il primo dice che nessuno può essere punito per un fatto che non è più reato secondo la legge esistente al momento della sua applicazione e che, se vi è stata già condanna definitiva, cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali. L’articolo 673 dice come avviene processualmente la revoca della condanna, su richiesta del condannato, in caso arrivi una nuova norma; e stabilisce che a intervenire per “salvare” il condannato è il giudice dell’esecuzione.
Berlusconi, condannato definitivo per frode fiscale, ha l’esecuzione della pena ancora in corso: ancora per qualche settimana deve andare a far visita, per qualche ora, ai malati di Alzheimer dell’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Dunque se fosse passata la norma natalizia il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto cancellare la sua condanna. Ma quello che più conta, nel suo caso, è la cancellazione “di tutti gli effetti penali” della sentenza: cioè dell’interdizione che gli impedisce di stare in Parlamento e di candidarsi alle elezioni. Ormai la pena, scontata in affidamento ai servizi sociali, è quasi arrivata al termine. È la possibilità di ricandidarsi il vero regalo della strenna di Natale del governo Renzi. E questo è chiaramente affermato dalla sentenza della Cassazione che dice che “la revoca della sentenza può aver luogo quando la sentenza è ancora in esecuzione o sono ancora attuali, in tutto o in parte, gli effetti penali a essa ricollegabili”. L’interdizione, appunto, che tiene lontano Berlusconi dalle liste elettorali.
IL NON POTERSI candidare è l’effetto della sentenza che lo ha condannato a 4 anni per frode fiscale, con conseguente interdizione dai pubblici uffici. Ma la strenna del Nazareno avrebbe azzerato anche l’altra legge che gli impedisce di candidarsi: la Severino. Una sentenza delle sezioni unite del 1994 dice infatti che a “saltare” in casi come questi non sono soltanto gli effetti penali diretti della condanna (come l’interdizione, o la perdita della patria potestà...), ma anche quelli non automatici, tra cui potrebbero rientrare quelli indotti appunto dalla legge Severino. Davvero un gran regalo di Natale, quello del governo Renzi. Saltato per un soffio.

Repubblica 6.1.15
L’intesa Renzi-Berlusconi sembra adesso fragile e lo scenario politico è totalmente cambiato
La partita del Colle ora si complica e il leader è più debole
Cambia poco se la vicenda del decreto è una cospirazione o un pasticcio
In un attimo ha ripreso vita la minoranza pd e Grillo è uscito dal letargo
di Stefano Folli


LO scenario politico è cambiato in fretta a cavallo di Capodanno. Tanto in fretta che adesso le incognite superano le certezze. Fino all’altro giorno l’accordo Renzi-Berlusconi appariva abbastanza solido, una cornice in grado di reggere alla duplice, imminente prova: prima la riforma elettorale al Senato e subito dopo, alla fine del mese, l’elezione del capo dello Stato. Franchi tiratori nei due campi erano messi nel conto, certo, ma gli ottimisti, pallottoliere alla mano, dimostravano che il premier aveva in mano i numeri giusti e che il suo alleato di Palazzo Grazioli gli sarebbe rimasto al fianco con lealtà. All’improvviso oggi prevale un’idea di fragilità. Peggio: i contorni del patto del Nazareno diventano opachi e certe contiguità politiche sembrano solo lo schermo per scambi inconfessabili, benché maldestri, e giochi di potere poco limpidi.
Può sembrare incredibile, ma la vicenda tragicomica del decreto fiscale e del tetto al 3 per cento per salvare Berlusconi, potrebbe essere davvero il frutto di un gran pasticcio all’italiana e non il parto di due cospiratori. Ma ai fini pratici non cambia nulla. Né cambia qualcosa che il presidente del Consiglio si sia assunto la responsabilità di aver inserito la norma contestata nel decreto dopo aver dichiarato di non saperne nulla (ma in precedenza aveva anche detto di aver dedicato tutto il tempo necessario alla lettura puntigliosa, paragrafo per paragrafo, del provvedimento fiscale).
Aquesto punto diventa meno importante conoscere chi, materialmente, ha scritto il famigerato passaggio. Conta di più capire quali saranno le conseguenze politiche e parlamentari del grave errore. Il fatto che Renzi se lo sia caricato sulle spalle, nel tentativo di alleggerire la pressione mediatica, e abbia ritirato il testo (almeno fino a dopo il voto sul capo dello Stato), non risolve la questione di fondo. Semmai certifica che il colpo ricevuto ha messo il premier in una difficoltà senza precedenti. In un attimo ha ripreso vita la minoranza del Pd, che Renzi non aveva esitato a umiliare nei mesi scorsi; e lo stesso Grillo sembra uscito all’improvviso dal suo letargo. La partita del Quirinale si fa più incerta e per i candidati vicini al premier la strada è in salita.
Non è un buon risultato per l’uomo che si vanta, non a torto, di aver quasi cancellato il movimento dei Cinque Stelle e di aver cambiato la fisionomia della vecchia sinistra. Ma Renzi impara a sue spese che basta sbagliare una mossa per ritrovarsi ai piedi della montagna. E in questo caso le mosse sbagliate sono due. Quella sul fisco, le cui ricadute vanno molto al di là del caso Berlusconi perché si toglie rilevanza penale a un numero eccessivo di reati tributari, dando l’impressione (magari solo l’impressione) di voler inseguire qualche tornaconto elettorale. E quella che riguarda il volo per Courmayeur. Qui il premier si è esposto alla polemica capziosa dei «grillini». I quali hanno torto nel merito, perché un capo di governo ha diritto di spostarsi con i mezzi dello Stato, salvo che non vi rinunci per ragioni di opportunità (come fece a suo tempo Enrico Letta). Tuttavia hanno ragione su un punto: l’attacco ai privilegi della «casta» fu un argomento forte del Renzi prima maniera, quando voleva vincere le primarie nel Pd e frenare l’espansione dei Cinque Stelle. C’è quindi una certa contraddizione nei comportamenti, non grave e tuttavia insidiosa se qualcuno, come è accaduto, la fa rilevare.
La sfortuna del presidente del Consiglio è che questi episodi negativi, figli di un eccesso di sicurezza o di errori di valutazione, avvengono alla vigilia dei due passaggi cruciali della legislatura. Il patto del Nazareno si è indebolito nel momento sbagliato. A conferma che spesso le scelte politiche sono condizionate da stati emotivi e psicologici. Il «renzismo» fino a oggi ha goduto di circostanze molto favorevoli nella psicologia di massa. Vedremo se saprà reagire a questi non irrilevanti incidenti di percorso.

Repubblica 6.1.15
Gianni Cuperlo
“Se Matteo vuole eliminare i sospetti modifichi il decreto e lo vari subito”
“Agganciare la riforma al voto sul Quirinale alimenta la tesi di un collegamento tra vicende distinte”
intervista di Giavanna Casadio


ROMA «Si ripulisca subito il decreto sul fisco e non lo si posticipi all’elezione del capo dello Stato ». Gianni Cuperlo, leader della sinistra dem, fa pressing e denuncia.
Cuperlo, va tolta ora la norma del 3% ma rimessa dopo l’elezione del capo dello Stato?
«No quella norma va tolta e basta. Io dico che agganciare l’emanazione del decreto al voto sul Quirinale o alla scadenza dei servizi sociali del leader di Forza Italia rischia di alimentare la tesi di un collegamento tra vicende e scadenze distinte e che tali devono rimanere nell’interesse di tutti, del paese, del governo e del Pd».
Lo scudo sembra cucito su misura per Berlusconi, che se ne avvantaggerebbe. Lei pensa male di Renzi?
«Io non penso male di Renzi. Il punto è riconoscere l’errore e porvi rimedio».
Quindi secondo lei si è trattato di un errore?
«Non saprei come altro definirlo. Il che non rende l’episodio meno serio».
Non c’è stata sorveglianza adeguata? Chi ha colpa?
«Non ho le informazioni per giudicare. Sto ai fatti. Una commissione autorevole guidata da Franco Gallo, l’ex presidente della Consulta, elabora un decreto attuativo della delega fiscale. Quel testo viene trasmesso dal ministero dell’economia a Palazzo Chigi per essere approvato alla vigilia di Natale. Non è chiaro se prima, durante o dopo il consiglio dei ministri, si introduce il famoso scudo del 3 per cento con il sospetto rimbalzato da stampa e opposizioni che la mossa punti a beneficiare il leader di Forza Italia. In realtà alcune norme introdotte paiono sbagliate nel merito prima che per le loro ricadute politiche. E soprattutto agiscono in contrasto con l’urgenza di colpire senza sconti illegalità, evasione e frodi».
Tutto questo fa parte del patto del Nazareno, è questo il suo sospetto?
«Renzi lo esclude e io ho l’abitudine di credere alle parole del segretario del Pd. Però sul punto ha un modo immediato per convincere anche chi coltiva dei dubbi».
Cosa dovrebbe fare il governo, ritirare tutta la legge?
«Dovrebbe fare esattamente l’opposto. Lui, volendo liquidare i sospetti di una legge su misura per chicchessia, ha annunciato il ritiro del decreto con l’intenzione di ripresentarlo solo dopo l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Ma usiamo la logica. Se davvero si vuole sgombrare il campo da qualunque ombra, il governo ha una strada tracciata. Ripristini il testo autenticato dal Ministero dell’Economia e lo renda operativo da subito. Per quale ragione aspettare? Rinviare?
Quindi la riforma del fisco merita di andare avanti?
«Certo. Il decreto con le giuste modifiche è un buon testo? Bene, lo si ripulisca e si proceda spediti. Il che non dovrebbe impedire un confronto sulla coerenza tra le norme comparse all’ultimo e la battaglia decisiva da condurre nel paese contro corruzione e illegalità».
Ma c’è un candidato del Quirinale che possa eliminare l’ombra di un patto oscuro?
«Non voglio immaginare alcun patto oscuro. Per salvare l’Italia serve un presidente autorevole ».
Il tempo sembra non passare mai. Con qualsiasi governo e legislatura, spunta un salvacondotto per Berlusconi?
«Su quella stagione io metto una pietra sopra. Questo 2015 deve aprirsi sotto un’altra agenda. Il destino dell’euro, la Grecia, i dati sulla povertà, una ripresa che stenta. Dovremmo provare tutti a essere fino in fondo figli e padroni di un tempo migliore».

Corriere 6.1.15
Fisco e Quirinale, sospetti da fugare subito
di Antonio Polito


Anche se fosse solo un «incidente di percorso», la norma che depenalizzava le frodi fiscali sotto una certa soglia deve suonare come un campanello d’allarme per alcuni metodi del «renzismo». Il primo problema è il Consiglio dei ministri. Nel quale evidentemente, per fretta, timidezza o esibizione di decisionismo, le norme non si discutono più collegialmente con la necessaria attenzione; oppure i titolari dei dicasteri non sorvegliano ciò che accade dopo la riunione del Consiglio, nei margini di discrezionalità aperti dalla formuletta «salvo intese».
Il secondo problema è l’eccesso di leggi delega, che lasciano le mani dell’esecutivo un po’ troppo libere di legiferare al posto del Parlamento, ridotto ad esprimere semplici pareri consultivi. Il terzo problema è la responsabilità dei civil servants , qui da noi chiamati burocrati, accusati spesso dal premier di frenare: funzione che questa volta si sarebbe invece rivelata utilissima, se qualcuno l’avesse esercitata. L’ultimo problema consisterebbe in una rivalutazione dei cosiddetti gufi, perché meno male che in giro c’è qualcuno che i testi li legge, a differenza dei ministri che li approvano.
In ogni caso, Renzi è uscito dall’impaccio come al solito con successo nei confronti dell’opinione pubblica: agli italiani cui la norma piaceva ha fatto sapere che l’aveva voluta lui, e a tutti gli altri che è stato lui a toglierla.
Resta però una nota stonata nella sommaria ricostruzione degli eventi finora fornita, e che ci costringe a tornare sull’argomento. Sia Renzi sia Berlusconi hanno fatto esplicito riferimento al patto del Nazareno, l’uno per negare che la norma ne facesse parte, e l’altro per affermare che era stata inserita ad arte proprio per farlo saltare.
Il presidente del Consiglio ha anzi aggiunto una cosa che in un Paese appena più pignolo sull’uso del potere pubblico avrebbe fatto sensazione. Ha detto cioè che sospende la norma e la riproporrà solo dopo l’elezione del futuro presidente della Repubblica.
Legare così una legge dello Stato che vale erga omnes a un’operazione politica, anche se solo per allontanare i sospetti, rischia di accrescerli invece che dissiparli. Perché aggiunge un ulteriore elemento di pressione su Berlusconi, sui «grandi elettori» di Forza Italia e sull’intero Parlamento: dopo l’ipotesi di una riforma elettorale postdatata al 2016, la depenalizzazione fiscale con la clausola post quem .
La necessaria e sacrosanta ricerca alla luce del sole di larghe alleanze per l’elezione del capo dello Stato inizia insomma ad appesantirsi di troppi sospetti do ut des . Per toglierli di mezzo, è opportuno tirar fuori manine e manone da sotto il tavolo e giocare a carte scoperte. Cominciando con il chiarire in maniera convincente che cosa è successo nel Consiglio dei ministri della vigilia di Natale.

Corriere 6.1.15
Un pasticcio che può avere ripercussioni sul Quirinale
di Massimo Franco


Purtroppo, l’opacità delle dinamiche che hanno portato al decreto fiscale cosiddetto «salva Berlusconi» rimane intatta. E favorisce la fioritura di indiscrezioni avvelenate e strumentalizzazioni. Il suo ritiro temporaneo, «fino all’elezione del capo dello Stato», ha detto Matteo Renzi, allunga un’ombra pesante non solo su Palazzo Chigi. Le opposizioni alimentano il sospetto che sia stato tentato uno scambio inconfessabile, e per il momento non riuscito, tra voti berlusconiani per il Quirinale e codicilli a favore dell’ex Cavaliere. Il problema è che finora né il premier, né FI sono riusciti a contrastare in modo convincente questa vulgata. Il pasticcio rischia di avere riflessi negativi sull’elezione del capo dello Stato.
L’ipotesi che Renzi e Berlusconi fossero al corrente di quanto stava avvenendo rimane da verificare. L’intesa ritrovata negli ultimi giorni tra i due contraenti del patto del Nazareno di un anno fa, viene fatta risalire dagli avversari dell’asse Pd-FI proprio a quella misura. Il premier ha cercato di troncare le polemiche attribuendosi la responsabilità del provvedimento. La scelta è coraggiosa ma ha prodotto un risultato controverso, perché è rimasta coperta l’identità dei redattori materiali della norma; ed è stato impossibile ricostruirne la genesi.
Il risultato politico immediato va al di là di una misura che, se approvata, permetterebbe anche di «perdonare» l’evasione fiscale per la quale è stato condannato Berlusconi. L’effetto dell’incidente, ad appena nove giorni dalle dimissioni annunciate di Giorgio Napolitano, è di rianimare l’ala antiberlusconiana della sinistra, che va ben oltre l’opposizione interna a Renzi; e di mettere nell’occhio del ciclone i ministri e i funzionari di Palazzo Chigi che avrebbero assecondato un’operazione maldestra. Il sospetto è che quanto sta venendo fuori possa avere tra gli obiettivi anche quello di tagliare fuori dalla corsa per il Quirinale il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan.
Nel testo del suo decreto arrivato a Palazzo Chigi non c’era traccia della soglia del 3%
di evasione fiscale al di sotto della quale un reato non è punibile. Il mistero è come sia comparsa in Consiglio dei ministri; e come mai nessuno, almeno in apparenza, abbia notato il cambiamento. Se si pensa che nelle ultime settimane il presidente del Consiglio ha fatto di tutto per attenuare le tensioni, l’inciampo è grave. Non colpisce tanto l’offensiva di Beppe Grillo per accreditare la tesi di un Berlusconi «ventriloquo di Renzi». Fa riflettere il silenzio di una filiera del Pd e di FI, da sempre ostile al patto del Nazareno.
È un silenzio interpretabile in modi diversi. Per comprenderne il significato, basterà aspettare la seduta del Senato in programma giovedì per discutere la riforma elettorale. Potrebbe essere una prima indicazione, quasi una prova generale di quanto potrà accadere tra qualche settimana, quando cominceranno gli scrutini per il Quirinale. FI chiede a Renzi di difendere il provvedimento, teso secondo i berlusconiani a proteggere «gli imprenditori onesti», e a non cedere alle pressioni di chi vorrebbe far saltare il patto del Nazareno. Può darsi che una spiegazione di quanto sta accadendo sia proprio questa. Ma difendere quell’accordo, da ieri forse sarà meno facile.

il Fatto 6.1.15
Dal salva-banche a B: modifiche ad personam
Nel decreto incriminato, tante le aggiunte in extremis che sembrano scritte su misura per gli istituti di credito e i grandi gruppi finanziari
di Carlo Di Foggia


C’è la “manina” che l'ha inserita e c'è la penna che l'ha scritta. La norma salva Berlusconi non è più orfana, ma ha molti padri. “L'ho voluta io, ma mi avevano dato rassicurazioni avvocati e magistrati”, ha spiegato il premier al Fatto. Vera la prima. Alcuni dei consulenti – lato magistratura – negano infatti di averla mai vista. Chi ha seguito da molto vicino l'iter del provvedimento, però, parla di “molte modifiche”, “calibrate”.
UN TESTO, quello cambiato all'ultimo da Palazzo Chigi – non quello elaborato al Tesoro – arricchito di aggiunte tecniche che vanificano l'impianto originale, e sembrano scritte da fiscalisti esperti, su misura per i grandi gruppi bancari e finanziari. Norme con un nome specifico. È il caso, per dire, del comma 4 inserito nell'articolo 4 del decreto, quello che punisce soprattutto chi elude il Fisco con operazioni di finanza strutturata, come i derivati. Un articolo meritorio, vanificato però dal comma aggiunto alla fine: vengono esclusi “flussi finanziari nelle scritture contabili obbligatorie”. È una norma salva banche perché di fatto svuota la frode fiscale, e in questo modo aiuta gli Istituti che in passato hanno messo nero su bianco le operazioni sospette temendo un'azione penale: se ne avvantaggerebbero gli ex ad di Unicredit, Alessandro Profumo e Banca Intesa, Corrado Passera. Nel giugno scorso, la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di Profumo in merito alla cosiddetta “operazione Brontos”: 245 milioni di euro che sarebbero stati sottratti al Fisco con operazioni di finanza strutturata. Visti gli utili, il caso potrebbe rientrare anche nella famosa norma pro Berlusconi (che cancella il reato di frode se l'importo evaso è inferiore al 3% del reddito dichiarato). “Ma quel comma preoccupa soprattutto per il futuro”, confida chi ha lavorato al testo. Il cavillo riavvicina i contatti con il mondo bancario, raffreddati non poco dopo il colpo inflittogli dal decreto sugli 80 euro, che ha alzato l'aliquota (dal 12% deciso da Letta al 26%) sulle plusvalenze derivanti dalle rivalutazioni delle quote della Banca d’Italia in pancia a molti istituti. Il riavvicinamento passa soprattutto dal lavoro sotterraneo compiuto in questi mesi dal sottosegretario e uomo ombra di Renzi, Luca Lotti. L'interesse degli ambienti finanziari è alto, meno quello industriale. Non è un caso se ieri la berlusconiana Daniela Santanchè se la sia presa con Confindustria: “Il suo silenzio è ipocrita”, ha attaccato. Il Sole 24 Ore ha più volte messo in evidenza gli aspetti critici del testo e, in ultimo, attaccato la norma pro-Berlusconi.
QUI, I POSSIBILI beneficiari sono molti, da Prada, che ha pagato 470 milioni (ma c’è un fascicolo aperto dalla Procura di Milano per “omessa o infedele dichiarazione dei redditi” nei confronti di Miuccia Prada, Patrizio Bertelli e il loro commercialista, ad Armani (270 milioni). Tornando alle operazioni strutturate, ad avere contraccolpi potrebbe essere anche il processo al patron dell'Ilva Emilio Riva – morto nell'aprile scorso – due ex dirigenti del gruppo e un ex manager della filiale di Londra di Deutsche Bank, in relazione a una maxi evasione da 52 milioni. Soldi sottratti al Fisco con una falsa rappresentazione nelle “scritture contabili obbligatorie”, proprio la circostanza esclusa dal comma inserito in calce all'articolo 4. Lo stesso che viene depotenziato da un'altra incredibile modifica che separa “l'ostacolo all'accertamento”, dall’“induzione in errore dell'amministrazione finanziaria (il Fisco, ndr) ” con una “e” anziché una “o”: stando al testo, quindi, se entrambi i casi non si verificano il reato non si commette.
Peggio ancora accade con l'articolo 17, che elimina la possibilità di raddoppiare i tempi di accertamento (da 4 a 8 anni). Fonti di governo fanno sapere che verrà modificata perché “è impossibile che la Ragioneria possa farla passare”. Il motivo è semplice: “Cancellerebbe centinaia di accertamenti, facendo perdere molti miliardi all’Erario”. Il combinato disposto fra tutte queste norme - spiegano fonti della magistratura – cancellerebbe circa 8 processi su 10 in materia di reati tributari. Intervistato dal Tg5, il premier ha chiarito che la norma incriminata (e l'intero decreto) per ora è solo congelata: “Ne riparleremo dopo l'elezione del Quirinale, quando Berlusconi avrà completato i servizi sociali”. “L'impianto dell’articolo (quello sul 3%, ndr) è condiviso dal ministro Pier Carlo Padoan”, confermano dal Tesoro: “Andranno però rivisti gli effetti: nessuno poteva prevedere favorissero una persona specifica (Berlusconi, ndr) ”. La partita è solo rimandata.

La Stampa 6.1.15
Pd spaccato sull’impianto delle norme fiscali
di Carlo Bertini


«Che soprattutto in tempi di crisi ci sia una necessità di fare un accordo con i contribuenti è evidente, il modo in cui lo fai cambia però la natura del messaggio». Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio è uno di quelli meno teneri con Renzi, riassume bene il sentimento della minoranza Pd: su un episodio, che al di là del caso Berlusconi, solleva il tema se non sia giusto per la sinistra il nuovo approccio di politica fiscale del governo. Che a dire il vero finora non sembra aver destato grandi critiche: infatti si son levati pochi lamenti nel Pd quando uscì il provvedimento sul rientro di capitali, dove pur pagando tutte le tasse e sanzioni attenuate non si è perseguibili penalmente. Come a dire che se per fare cassa può esser utile poco male. Ma ora la levata di scudi è trasversale, dai prodiani ai lettiani fino ai pasdaran bersaniani il grido d’allarme è corale, perché «a prescindere da Berlusconi si dà un segnale pessimo», attacca Pippo Civati. «Se pure l’intenzione è buona si può ragionare su strumenti diversi dalla franchigia percentuale affinché l’errore dell’artigiano non copra i 200 milioni di evasione di una grande impresa. Capisco il tentativo di rendere il fisco amico, più semplice e meno oppressivo, ma ci deve essere sempre un rigore di fondo, a prescindere dal caso Berlusconi».
Ma i renziani difendono l’impianto, Ernesto Carbone, membro della Commissione Finanze, è convinto che siano «norme sacrosante, fissare la soglia con percentuali è una formula giusta». Dunque a sentir gli uomini del premier l’impostazione di una sinistra rigorista verso l’evasione resta immutata e infatti «sono state raddoppiate le sanzioni». «Credo a Renzi. Penso si sia trattato di un errore», dice il prodiano Franco Monaco. «Ma la norma è sbagliata perché sarebbe un regalo ai grandi evasori».
«Che soprattutto in tempi di crisi ci sia una necessità di fare un accordo con i contribuenti è evidente, il modo in cui lo fai cambia però la natura del messaggio». Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio è uno di quelli meno teneri con Renzi, riassume bene il sentimento della minoranza Pd: su un episodio, che al di là del caso Berlusconi, solleva il tema se non sia giusto per la sinistra il nuovo approccio di politica fiscale del governo. Che a dire il vero finora non sembra aver destato grandi critiche: infatti si son levati pochi lamenti nel Pd quando uscì il provvedimento sul rientro di capitali, dove pur pagando tutte le tasse e sanzioni attenuate non si è perseguibili penalmente. Come a dire che se per fare cassa può esser utile poco male. Ma ora la levata di scudi è trasversale, dai prodiani ai lettiani fino ai pasdaran bersaniani il grido d’allarme è corale, perché «a prescindere da Berlusconi si dà un segnale pessimo», attacca Pippo Civati. «Se pure l’intenzione è buona si può ragionare su strumenti diversi dalla franchigia percentuale affinché l’errore dell’artigiano non copra i 200 milioni di evasione di una grande impresa. Capisco il tentativo di rendere il fisco amico, più semplice e meno oppressivo, ma ci deve essere sempre un rigore di fondo, a prescindere dal caso Berlusconi».
Ma i renziani difendono l’impianto, Ernesto Carbone, membro della Commissione Finanze, è convinto che siano «norme sacrosante, fissare la soglia con percentuali è una formula giusta». Dunque a sentir gli uomini del premier l’impostazione di una sinistra rigorista verso l’evasione resta immutata e infatti «sono state raddoppiate le sanzioni». «Credo a Renzi. Penso si sia trattato di un errore», dice il prodiano Franco Monaco. «Ma la norma è sbagliata perché sarebbe un regalo ai grandi evasori».

Corriere 6.1.15
Quando la franchigia di punibilità diventa soglia di abuso
di Luigi Ferrarella


Se uno entrasse in banca e dicesse «Fermi tutti! Ho la licenza di rapinare il 3 per cento della cassaforte», i cassieri chiamerebbero la neuro prima ancora che i carabinieri: invece viene presentato come indice di un Fisco più «amico» l’aver previsto per legge la licenza di «rapinare» il 3 per cento dalla «cassaforte» di tutti, cioè di evadere le tasse fino al 3 per cento del reddito dichiarato senza conseguenze penali, sostituite dal raddoppio delle sanzioni amministrative.
Tra un Fisco «amico» e non vessatorio verso i contribuenti onesti in crisi — condivisibile obiettivo del decreto legislativo del governo Renzi — e un Fisco invece «tonto» e indulgente verso i furbi, il confine sottile passa anche dall’architettura delle soglie di rilevanza penale dei vari tipi di reati tributari.
In sé le soglie non sono uno scandalo, esistono in molti Paesi e da anni anche nel nostro ordinamento, e peraltro già il decreto di Natale (ora congelato a «dopo le elezioni per il Quirinale») in più casi le alzerebbe sensibilmente.
Ma proprio per questo si fatica a comprendere che senso abbia, anche al netto delle ricadute sulla posizione di Berlusconi, una ulteriore ma generale «clausola di non punibilità» che, per tutti i reati tributari, e in aggiunta ai singoli «tetti» fissi interni, esoneri da conseguenze penali chi evade sino al 3 per cento dell’imponibile dichiarato.
Certo non lo si fa per evitare che finiscano in tribunale quanti in crisi non riescono a versare l’Iva o le ritenute dovute, visto che troverebbero già riparo penale nella soglia di non punibilità alzata da 50 mila a ben 150 mila euro: scelta tutta politica, discrezionale ma facoltà dell’esecutivo, che potrà poi essere variamente giudicata dai cittadini alle prossime elezioni, come pure l’esenzione penale della «dichiarazione infedele» fino a 150 mila euro, o dell’«omessa dichiarazione» se sino a 50 mila euro di imposta evasa. Se poi lo scopo è quello di puntare al pragmatico pagamento delle tasse piuttosto che a un match penale ritenuto velleitario, già altre norme del decreto amplierebbero le chance del contribuente indagato di ottenere l’estinzione dei reati di «dichiarazione infedele», di «omessa dichiarazione» e di «omesso versamento di Iva e ritenute», o la riduzione sino a metà della pena in altri tipi di reati fiscali, a condizione di aver pagato il proprio debito tributario prima dell’inizio del processo.
Allo stesso modo un’altra parte del decreto già si propone (con efficacia messa peraltro in dubbio da molti tributaristi) di dare più «certezza del diritto» e chiarire dove finisca l’«elusione» delle norme fiscali e dove invece cominci la loro «evasione»: in modo da scoraggiare l’«abuso del diritto» sfruttato da quei contribuenti sempre in furbetto slalom tra le norme, ma anche scongiurare lo speculare «diritto dell’abuso» brandito dalle talvolta forzate interpretazioni di un erario famelico per missione.
Diventa però una presa in giro se le sagome dell’ingenuo contribuente che commetta un errore formale nella dichiarazione dei redditi, o del piccolo imprenditore alla sbarra perché credeva a torto di poter praticare una certa politica di ottimizzazione fiscale, vengono usate come «scudo umano» di chi invece con le proprie condotte esprime tutta l’intenzione di sottrarsi ai doveri fiscali.
Subordinare a una soglia di evasione del 3 per cento anche la rilevanza penale del comportamento di chi per non pagare le tasse usa fatture false, gonfia oneri fittizi o non dichiara redditi, è già un razzolare male rispetto al predicare bene che non si dovrebbe convivere con l’evasione, che chi non paga le tasse ruba servizi e futuro a quelli che le pagano, che non è con una ammenda (per quanto salata) che dovrebbe cavarsela chi dichiara o fabbrica falsità.
Ma ancor più assurdo diventa far dipendere la rilevanza penale da una soglia di non punibilità neanche fissa, cioè da un «tetto» almeno uguale per tutti, ma addirittura da una percentuale, appunto il 3 per cento dei redditi dichiarati, surreale «modica quantità» di quella droga-evasione che tutti a parole lamentano intossichi l’economia: una percentuale che moltiplica il disvalore sociale, perché rende relativo il concetto stesso di rispetto della legge, e amplifica l’iniquità della diseguaglianza, perché paradossalmente consente di evadere di più a chi ha di più.
Costruita così all’articolo 19 bis, somiglia non solo a un condono per il passato ma anche a una licenza a delinquere per il futuro, una polizza d’assicurazione sulla dose socialmente accettabile di evasione fiscale: una sorta di preventivo, utile a garantire ai grandi contribuenti (imprese, banche, superprofessionisti) di poter pianificare a tavolino e calcolare al centesimo quanta fetta di evasione fiscale sarà loro consentito assaporare ogni anno.

Corriere 6.1.15
Così Buzzi orientava i voti alle Europee
Mafia Capitale, la lettera spedita a tutti i soci della coop: «Votate per Giovannelli e Zingaretti»
Una copia trovata a casa del boss di ‘ndrangheta arrestato a Roma. Il ruolo dell’ex Br La Maestra
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Salvatore Buzzi aveva a disposizione un «pacchetto» da migliaia di voti. L’uomo che con l’ex estremista dei Nar Massimo Carminati è accusato di aver guidato l’associazione mafiosa infiltrata nel Campidoglio e in altre istituzioni della Capitale, poteva orientare le scelte politiche di soci e dipendenti delle sue cooperative. E nel 2004, in occasione delle Europee, decise di puntare sul centrosinistra sponsorizzando Oriano Giovannelli e Nicola Zingaretti.
La prova è in una lettera trovata durante le perquisizioni disposte dai magistrati della Procura di Roma ed eseguite dai carabinieri del Ros guidati dal generale Mario Parente. Nuovi documenti allegati all’inchiesta che fanno emergere il ruolo di primo piano di altri detenuti nella gestione della «29 giugno», come Franco La Maestra, ex brigatista condannato a 18 anni di reclusione che dal carcere rivendicò anche l’omicidio di Massimo D’Antona.
La «raccomandazione»
L’11 dicembre vengono arrestati Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, affiliati al clan calabrese dei Mancuso che avrebbero fatto affari con Carminati, Buzzi e i loro sodali. Durante la perquisizione nell’appartamento di Ruggiero a Roma, i carabinieri trovano le ricevute di pagamento da parte della cooperativa di Buzzi, un’agenda, alcuni appunti e «una lettera indirizzata ai soci e dipendenti delle “Cooperative 29 Giugno”, “L’apostrofo” e “Formula Ambiente”, datata 7 giugno 2004 avente ad oggetto l’invito di Buzzi Salvatore a sostenere la candidatura di Giovannelli e Zingaretti al Parlamento Europeo (in alto a sinistra è riportato a matita “per Zidda Giovanni (da distribuire”)». Zingaretti riuscì a vincere e attualmente è presidente della Regione Lazio. Giovannelli è deputato del Pd. Gli inquirenti sono convinti che fossero all’oscuro della «sponsorizzazione» di Buzzi, ma ritengono importante il metodo perché richiama il sistema utilizzato da altre organizzazioni mafiose che orientano il proprio «pacchetto» elettorale a favore di un partito e dei suoi candidati. E infatti sottolineano come la lettera era stata inviata anche agli esponenti della cosca di ‘ndrangheta.
«Ho buttato tutto»
Il giorno del blitz che porta in carcere Buzzi e gli altri, i soci della «29 giugno» sono preoccupati per quanto potrà accadere. Scrivono i carabinieri nella loro informativa riferita a quando viene «registrato» il 2 dicembre: «In questa fase appariva di particolare rilevanza il ruolo assunto da La Maestra Franco il quale, unitamente a Rotolo e Ruggiero, cercava di definire la gestione dei soci. Alle 13.31, l’intercettazione ambientale attiva sull’autovettura di Rotolo consentiva di captare una conversazione avvenuta all’interno del veicolo tra quest’ultimo e La Maestra nel corso della quale il primo, oltre a commentare con il suo interlocutore gli arresti, presupponendo evidentemente un coinvolgimento all’interno della vicenda giudiziaria, gli confidava: “Guarda io ho buttato tutto, computer, ho buttato tutto, quello di mio (...) l’ho buttato lo scorso anno, di mio niente, che cazzo mi potevano di’ per anni di Buzzi” intendendo dunque che il “contenuto” del computer che lo stesso aveva provveduto a distruggere, avrebbe potuto fornire ulteriori elementi di prova, utili all’indagine».
«Comandiamo noi»
Nel pomeriggio di quello stesso giorno c’è un altro colloquio tra Rotolo, La Maestra e Ruggiero. Annotano gli investigatori: «La conversazione aveva ad oggetto i nuovi assetti interni. In particolare Rotolo, ipotizzando l’intenzione da parte di qualcuno a voler “prendere potere della 29 giugno”, individuava in Colantuono Guido uno da tenere “a bada”, sottolineando che, in mancanza di Buzzi, il comando sarebbe dovuto naturalmente passare in mano a “a noi che siamo i detenuti” asserzione cui anche La Maestra si mostrava concorde “e certo che comandiamo noi, che faccio comanda’ a lui! ma che scherzi!». E l’ex brigatista proprio riferendosi a Buzzi aggiunge: «Poi ci ha detto mentre andava via... m’ha guardato e m’ha fatto “me raccomando, non litigate” praticamente poi m’ha guardato, m’ha detto sta cosa, s’è avvicinato eh... “tu sei il capo, mi raccomando... non litigate... non litigate».

Repubblica 6.1.15
“Se Buzzi canta i boss l’ammazzano”
Mafia Capitale, nelle intercettazioni successive all’arresto le minacce degli intermediari con la ‘ndrangheta Confermati i legami con i clan. Il capo della “29 giugno” ai suoi: “Adesso che sono in carcere non mettetevi a litigare”
di Maria Elena Vincenzi


ROMA Minacce di morte, pizzini e regole sulla successione. Roba da associazione mafiosa, per l’appunto, quella che ieri la procura di Roma ha depositato al tribunale dei Riesame, chiamato a decidere sulla revoca della custodia cautelare di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, entrambi calabresi ed entrambi in carcere dall’11 dicembre scorso nell’ambito dell’inchiesta su Mafia Capitale (i giudici si sono riservati). I due, accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso, sarebbero il collegamento tra la banda guidata da Massimo Carminati e il clan Mancuso di Vibo Valentia. Un legame che avrebbe uno snodo centrale in Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative capitoline, considerato dai pm il braccio finanziario del “Cecato”.
Parla chiaro l’informativa che i carabinieri del Ros del 3 gennaio: i legami con i calabresi c’erano eccome, secondo l’accusa. Il 3 dicembre, giorno successivo ai primi arresti, Rotolo e Ruggiero (in quel momento ancora a piede libero, ndr) non si danno pace. Commentano gli arresti con gli amici, si preoccupano di fare la stessa fine. E pensano alla gestione futura: già il giorno successivo alla retata, fissano un incontro per decidere che cosa ne sarà della Cooperativa 29 giugno, fino ad allora guidata da Buzzi. Prima di andare alla riunione Rotolo incontra Franco La Maestra, ex brigatista condannato a 18 anni di carcere e coinvolto nell’omicidio di Massimo D’Antona, e uomo di fiducia di Buzzi. L’ex terrorista racconta: «Ieri l’ho visto (Buzzi, ndr). C’ha teso a specifica’ a noi de Giovanni (Campennì, ndr). .. ha detto... ”quello non deve...non si deve neanche avvicina’...” le testuali parole so state queste mentre lo portavano via... ”non voglio che Giovanni stia in mezzo ai piedi”... ci ha detto a me e a Salvatore (Ruggiero, ndr) ». Giovanni Campennì, imprenditore, senon condo i pm Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli è il collegamento tra Buzzi e la ‘ndrangheta. Non a caso Rocco e La Maestra si stupiscono delle parole di Buzzi e si chiedono se quest’ultimo non avesse appositamente voluto far individuare Campennì dalle forze dell’ordine. «E se l’è cantatu stu scemo di merda? — chiede Rotolo — I Mancuso u ‘mmazzano».
Sta di fatto che, proprio come nella tradizione mafiosa, Buzzi negli attimi prima di finire in carcere, riesce a dare le indicazioni sulla sua “successione” alla guida delle cooperative. Vuole escludere Campennì e decidere chi deve prendere il suo posto. «Mentre andava via — dice ancora La Maestra a Rotolo — m’ha guardato e m’ha fatto: “Me raccomando, non litigate. Tu sei il capo, mi raccomando, non litigate”. Poi mentre andava via mi ha detto: “Ci vediamo tra due anni”... lui s’è già attrezzato».
Infine i pizzini. I militari del Ros ne hanno sequestrati alcuni a casa di Salvatore Ruggiero. In mezzo a una serie di ricevute di pagamento da parte della Cooperativa 29 Giugno, gli investigatori hanno trovato anche due pen drive, una lettera del 2004 in cui Buzzi invitava i suoi soci e dipendenti a votare Oriano Giovannelli e Nicola Zingaretti al Parlamento europeo e tre pizzini. Uno con la dicitura “Glok 179.21, uno con scritto “Rosario 29 giugno” e un terzo: “Fasciani”. Probabilmente il riferimento è al clan che da anni gestisce la malavita di Ostia. Elementi sui quali ora il Ros è al lavoro.

Corriere 6.1.15
Atene-Madrid, le due sinistre unite nella lotta (all’austerity)
Gli orizzonti aperti dalla possibile vittoria di Siryza e Podemos
di Andrea Nicastro


Vederli abbracciati a novembre nel Teatro Nuevo Apolo di Madrid ha dato i brividi a molti. Pablo Iglesias era appena stato eletto segretario del nuovo partito spagnolo Podemos con quasi 100 mila voti online. Alexis Tsipras, leader del partito Syriza, era arrivato apposta dalla Grecia per sancire la prima alleanza programmatica antiausterity d’Europa. Su quel palco dal nome evocativo non c’erano due anti sistema qualsiasi, ma i capi di formazioni che i sondaggi danno vincenti nei rispettivi Paesi. Tsipras potrebbe arrivare al governo di Atene già con il voto del 25 gennaio. Iglesias avrà le sue possibilità in Spagna entro fine anno. «Il 2015 sarà l’anno del cambio in Europa — ha proclamato il padrone di casa —. E cominceremo con la Grecia».
Pablo e Alexis sono contro il rigore finanziario, i sacrifici sociali, i tagli al Welfare, ma anche entrambi a favore di politiche sociali per disoccupati e sfrattati, più aiuti di Stato alla ripresa dell’occupazione e per una ristrutturazione concordata del debito. E che i padroni dei mercati internazionali se ne facciano una ragione: la politica, per Pablo e Alexis, ha la priorità sulla finanza.
Quei molti che hanno tremato li considerano pericolosi comunisti o quanto meno populisti che con le «loro facili soluzioni a problemi complessi» si preparano a distruggere l’euro con quel che ne seguirà in termini di spread, recessione e destabilizzazione della casa comune europea. Per altri sono invece quell’alternativa che mancava al pensiero unico anti deficit e antinflazione che ha dominato l’Europa dal 2008 a oggi. Fa specie che fra questi ultimi ci sia anche il Financial Times che bolla il tandem Syriza-Podemos come «gli estremisti che potrebbero salvare l’eurozona».
Pablo e Alexis hanno il crisma dei rivoluzionari predestinati. Entrambi nascono nell’anno in cui il loro Paese torna alla democrazia dopo la dittatura militare, il ’74 per la Grecia, il ’78 per la Spagna. Lo spagnolo porta addirittura il nome del fondatore del partito socialista locale, esplicito omaggio dei genitori. Il greco non ha dubbi sin da ragazzo e milita tra i giovani comunisti. Sono belli, telegenici e con la parlantina brillante, capaci di sintonizzarsi con quella parte di società che i partiti tradizionali hanno lasciato orfana. Gemelli separati? Sarebbe come dire che Grecia e Spagna sono uguali perché condividono (assieme ad altri) corruzione, evasione fiscale e debolezza del tessuto industriale.
Pablo Iglesias è un professore di scienze politiche. Un teorico che sa affascinare con il gusto rétro della coda di cavallo e l’analisi di un malessere a cui mancava persino il coraggio di esprimersi. Podemos nasce dal movimento degli Indignati, ma ha nel nome un richiamo, democraticamente ineccepibile, al «Yes, we can» del primo Barack Obama.
Alexis Tsipras ha la solidità della sua laurea in ingegneria e la forza magnetica di chi ha saputo vincere tutte o quasi le elezioni a cui si è presentato sin dalla prima, per il Comune di Atene, nel 2006. Guida quello che era un mosaico di relitti della storia (trotskisti, leninisti, eurocomunisti, maoisti), ma con lo sforzo di elaborare soluzioni originali alla crisi economica dal vocabolario del partito certe parole sono scomparse. In fondo, il programma interno di Syriza ha un ardore socialdemocratico anni 70 genericamente keynesiano.
Iglesias e Tsipras sono due anticasta ancora coerenti e senza cravatta, uno viaggia in metrò, l’altro in Vespa. Sono figli della gratuità della Rete, ne sanno sfruttare le potenzialità, Pablo ha impostato una cibercrazia di partito riuscendo a costruire una struttura dal nulla in pochi mesi.
Alexis che era già una stella della sinistra continentale quando Pablo era solo un assistente universitario, ha tentato di uscire via Internet dai confini greci per le elezioni europee di maggio. Lo sbarco in Italia non ha dato grandi risultati, ma è il metodo che conta.
Pochi giorni fa, Pablo Iglesias ha scritto: «Alexis sa come noi che vincere le elezioni non è prendere il potere e che i margini di manovra nell’attuale, ineludibile quadro europeo sono piccoli». Vecchi rivoluzionari o nuovi riformisti?

Corriere 6.1.15
L’Europa ostaggio delle urne di Atene
di Paolo Macry


La grande Europa della moneta unica attende col fiato sospeso le decisioni politiche che prenderà, a fine gennaio, la piccola Grecia, temendo — ancor più dopo il crollo delle Borse di ieri — che una vittoria elettorale di Alexis Tsipras riporti l’euro alla tempesta finanziaria del 2011. Lorenzo Bini Smaghi ha rilevato su queste colonne che per la sola Italia il costo di una ristrutturazione del debito ellenico potrebbe arrivare a venti miliardi. E le rivelazioni di Der Spiegel — pur con la precisazione giunta due giorni fa dal governo tedesco — hanno fatto riaffiorare i dubbi sulla reale volontà di Berlino di mantenere a tutti i costi Atene nell’euro, così riproponendo la dura contrapposizione tra Stati creditori e Stati debitori.
Frattanto, quale che sia il giudizio sulle responsabilità e sulle possibili soluzioni, una cosa è certa: intorno a questioni di tanta rilevanza, oltre 300 milioni di europei dipendono oggi dalle scelte di 10 milioni di greci. Il che pone il problema del rapporto tra sovranità e democrazia nel Vecchio Continente: fino a che punto, passo dopo passo, esso si è andato deteriorando? Dopotutto, sarebbe come se in Italia i risultati elettorali della Valle d’Aosta avessero il potere di condizionare la scelta del nuovo governo o perfino il nostro assetto costituzionale, magari a dispetto della volontà del resto del Paese. Ne saremmo sconcertati.
Si dirà che, nelle più gravi crisi geopolitiche dell’ultimo secolo, i piccoli Paesi hanno spesso giocato un ruolo determinante. È successo con la Serbia del 1914, con i territori centroeuropei a maggioranza tedesca nel 1938, con Cuba nel 1962, e via dicendo. Succede con le inesauribili tensioni su scala globale che da oltre mezzo secolo si sono concentrate attorno alle poche decine di migliaia di chilometri quadrati dell’ enclave israelo-palestinese. Una contraddizione di scala che rimane simboleggiata dal dilemma (pacifista e brutale al tempo stesso) di Marcel Déat: è possibile morire per Danzica?
In molte di quelle circostanze, tuttavia, erano stati i padroni del mondo — gli imperi continentali europei, la Germania nazista, l’Urss, gli Usa, le dittature petrolifere — a utilizzare, manipolare o addirittura inventare le crisi regionali, piegandole alle proprie strategie. I «piccoli» avevano potuto costituire la miccia di conflitti globali, ma era toccato ai «grandi» decidere di dar fuoco alle polveri. I rapporti di forza apparivano comunque rispettati, come vuole il pragmatismo delle relazioni internazionali.
Quel che accade oggi è tutt’altra cosa. La Grecia non rappresenta lo strumento, né è la vittima delle brame di qualche grande potenza. Al contrario, è la volontà democraticamente espressa dai suoi elettori a costituire una potenziale minaccia per la stabilità dell’unione monetaria. E sono perciò le prospettive economiche e sociali di tedeschi, francesi, italiani, spagnoli, eccetera che potrebbero essere modificate dalle autonome scelte di un Paese strutturalmente e politicamente marginale. L’orientamento di una piccola minoranza demografica rischia insomma di avere vistose conseguenze sull’intero continente.
Non è questione di poco conto. Quali che siano i torti e le ragioni della crisi annunciata, la sproporzione tra la debole Grecia e il resto del continente (ivi compresa la robusta area centro-settentrionale) illustra come meglio non si potrebbe l’intrecciarsi storicamente inusuale dei destini dei popoli europei, mettendo in forse la stessa logica sulla quale si fonda la democrazia rappresentativa e confermando le numerose contraddizioni esistenti fra le regole dell’Unione e le prerogative degli Stati nazionali che ne fanno parte. Si tratta di nodi sui quali, evidentemente, i padri fondatori dell’euro non hanno mostrato, a suo tempo, grande preveggenza .

Corriere 6.1.15
Non solo economia e commerci, ora la Cina ci sfida sul numero dei siti Unesco
di Paolo Conti


«Il mio non è allarmismo ma un doveroso richiamo ad assicurare le indispensabili priorità alle scelte in campo culturale, ai diversi livelli istituzionali in cui avvengono». Giovanni Puglisi, rettore dello Iulm di Milano e presidente della Commissione italiana per l’Unesco, è preoccupato: «Con le ultime incredibili vicende di Pompei, la Cina potrebbe sorpassare prossimamente l’Italia per numero di siti riconosciuti dall’Unesco, ora ne ha 47». Cioè il nostro unico, vero primato mondiale in campo culturale: una leggenda mediatica, usata spesso da troppi politici disinformati e orecchianti, attribuisce al nostro Paese il 60, il 70, o l’80% del patrimonio artistico del Pianeta, dipende dall’estro e dall’enfasi del momento. Tutto falso. L’Italia possiede, fino a oggi con 50 luoghi, la più lunga lista di beni culturali e paesaggistici riconosciuti Patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco, l’organizzazione culturale dell’Onu. Aggiunge Puglisi: «La Cina sta procedendo come un carro armato, ha già superato la Spagna e ora ci tallona. A giugno ci sarà l’assise Unesco a Bonn e si deciderà per il 2015. La Cina ha presentato due candidature, noi una sola: la Palermo normanno-araba-bizantina. Scelta ineccepibile, ma mancano molte documentazioni. L’indispensabile indicazione dell’ente gestore del sito. Così come non c’è ancora l’impegno formale, da parte del cardinale arcivescovo di Palermo e dei vescovi di Monreale e di Cefalù, che le cattedrali interessate non saranno chiuse al pubblico per motivi di culto. Non sono dettagli ma sostanza. In più a febbraio si dovrà stabilire la candidatura, o le candidature, per il 2016». Tutti appuntamenti vicinissimi. Insiste Puglisi: «Il pareggio è vicino, se non ci muoviamo, se non c’è assoluta unità di intenti — penso a Palermo — di tutti gli enti coinvolti nella proposta. In più la vicenda di Pompei è solo l’ultima di una lunga serie di inefficienze, incurie, irresponsabilità, cialtronaggine e pigrizia politica». Niente allarmismo, dice Puglisi. Ma una profonda preoccupazione, è impossibile non nutrirla.

Corriere 6.1.15
Europa e islam intesa Feconda?
E se l’islam si adattasse alle libertà dell’Occidente?
Mi piacerebbe pensare che ciò implichi un adattamento alla libertà di pensiero
di Emmanuel Carrère


Due romanzi profetici hanno segnato il secolo scorso — 1984 e Il mondo nuovo. Erano profetici non perché predicessero il futuro, che li ha smentiti, ma perché enunciavano una verità sul presente. Le anticipazioni di Michel Houellebecq appartengono alla stessa famiglia. Con Aldous Huxley egli condivide una curiosità affascinata per i fenomeni religiosi; con George Orwell l’orrore della correttezza politica e un senso acuto — di cui raramente gli si dà credito — della common decency. Per di più, e Dio sa quanto mi piacciono Huxley e Orwell, è un romanziere più possente di loro.
L’avvenire non sarà forse quello descritto in Particelle elementari , La possibilità di un’isola o, oggi, in Sottomissione , ma se attualmente c’è qualcuno, nella letteratura mondiale e non solo francese, che pensa questa sorta di enorme mutazione che tutti noi sentiamo essere in corso senza avere i mezzi di analizzarla, e che non concerne soltanto la civiltà occidentale ma lo status dell’umanità, questi è lui.
Sottomissione , dunque. E’, ancora una volta, la cronaca di una mutazione. Il cronista è un universitario, specialista di Huysmans, e uno degli abituali portavoce dell’autore: si scalda, da solo, piatti al microonde; ossessionato dalla nostalgia e dall’impossibilità della coppia, sfiora l’amore vero con una ragazza intelligente, simpatica, bella e che oltretutto lo ama ma che la sua onestà patologica gli impedisce di amare; non aspira che ad andare a dormire verso le quattro del pomeriggio con una bottiglia di alcol forte, una stecca di sigarette, una pila di buoni libri che non molti ormai leggono, e la prospettiva a questo ritmo di morire rapidamente, infelice e solo. Inutile dire che per tutta la vita questo misantropo se ne è infischiato abbastanza della politica, ma ecco che le cose cambiano e che la politica comincia a interessarlo.
Il libro comincia con l’elezione presidenziale del 2020. Nella precedente, quella del 2017, François Hollande è stato rieletto per sbarrare la strada a Marine Le Pen, ma durante il secondo mandato, catastrofico, del presidente socialista, si manifesta una nuova e potente forza politica: la Fratellanza musulmana. Il suo leader, Mohammed Ben Abbes, è un islamista moderato, dal fisico rassicurante del «vecchio droghiere tunisino di quartiere», che evita l’antisemitismo imbarazzante, sostiene la causa palestinese ma con circospezione, recluta i suoi seguaci ben al di là delle popolazioni musulmane. La situazione è quindi totalmente nuova: i due grandi partiti, di centro-destra e di centro-sinistra, attorno ai quali si strutturava la vita politica del Paese dalla fine della Seconda guerra mondiale, sono del tutto screditati, emarginati. Le forze presenti sono ormai il Front National (Fn) e la Fratellanza musulmana. Entrambi sono partiti democratici, che hanno scelto il ricorso alle urne, e ciascuno di essi ha un bel da fare con i propri estremisti rispettivi: movimenti identitari da un lato, jihadisti dall’altro. Gli editorialisti virtuosi si sgolano a denunciare le «Cassandre» che predicono l’inevitabile guerra civile fra immigrati musulmani e popolazioni autoctone dell’Europa occidentale; Houellebecq ne approfitta per raccontare il mito di Cassandra e meravigliarsi di come viene di solito usato allorché le predizioni pessimistiche di questa profetessa hanno come particolarità di essersi sempre realizzate. Al primo turno, il Fn si ritrova come previsto in testa, ma la Fratellanza è in seconda posizione. Inizia il gioco delle trattative e delle coalizioni: ultima possibilità di avere un piccolo ruolo per i partiti tradizionali guidati da Jean-François Copé e Manuel Valls. Alla fin fine, chi ha la meglio è ancora una volta un’alleanza contro il Fn: un Fronte repubblicano allargato in cui Ump e Ps aderiscono alla candidatura di Ben Abbes. Questi promette che, se verrà eletto, nominerà François Bayrou primo ministro e che, nel formare il governo, esigerà per gli islamisti solo il ministero dell’Educazione. Il fatto è che egli si preoccupa poco dell’economia e anche della geopolitica: per lui, la vera posta in gioco sono i bambini e la loro educazione. Che siano musulmane, ebree o cristiane — spiega — le famiglie desiderano per i loro figli una educazione che non si limiti alla trasmissione di conoscenze, ma integri una formazione spirituale, che corrisponda alla loro tradizione. A questo discorso mellifluo Marine Le Pen replica con toni accesi, e sul terreno dell’intransigenza laica e repubblicana. Tre milioni di elettori nazionalisti sfilano in Place de la Concorde rivendicando, contro l’oscurantismo religioso, l’eredità dei Lumi. Malgrado ciò, Ben Abbes viene eletto. E tutto va bene.
Addirittura benissimo. All’inizio, si è leggermente turbati nel non vedere più, da nessuna parte, donne che indossino la gonna né, ben presto, donne che frequentino i luoghi pubblici, ma la Francia ritrova un ottimismo che aveva perso dalle «Trente glorieuses» (i trenta gloriosi anni di crescita economica dalla fine della Seconda guerra allo choc petrolifero, ndr ). Visto che le donne escono dal mercato del lavoro, la curva della disoccupazione si inverte. La previdenza sociale è sostituita dalla solidarietà familiare. Lo Stato smette di aiutare l’industria, comunque disastrata, a vantaggio dell’artigianato e della piccola impresa individuale. La sharia regola una società ridiventata patriarcale, meno libera ma più sicura e più felice. L’asse della costruzione europea si sposta verso il Sud. Mohammed Ben Abbes vuole diventare, e diventerà, il primo presidente eletto dell’Europa: un’Europa allargata ai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, e che presto avrà di nuovo un peso nel mondo. Egli soltanto ha un progetto di civiltà, che non è difensivo e nostalgico come quello degli identitari, ma dinamico e visionario. La laicità, il secolarismo, il materialismo ateo hanno fatto il loro tempo: quello dell’islam è giunto, ed è la seconda chance dell’Europa, la prospettiva di una nuova età dell’oro per il vecchio continente. Happy end.
Mi rendo conto che questo riassunto per sommi capi può dare l’impressione di una satira canzonatoria, di una fantapolitica a breve termine e che non guarda molto lontano. Ma parliamo di un libro di Michel Houellebecq, cioè di un libro di straordinaria consistenza romanzesca in cui, insieme all’anticipazione, troviamo pagine magnifiche su Huysmans, sugli scrittori cattolici della fine del XIX secolo, sulla letteratura in generale. Specialità tradizionali della casa, come gli incontri di sesso con escort girls chiamate Nadiabeurette o Babeth la salope. Osservazioni sociologiche di un’acutezza sbalorditiva. Ma lì dove il libro vola alto e raggiunge quella strana posizione sovrastante, quasi extraterrestre, che rende Houellebecq unico, è verso la fine, quando il narratore si converte. Lo fa per ragioni opportunistiche: perché così potrà fare ritorno alla Sorbona, facoltà ormai coranica, con un bell’appartamento di funzione e tre mogli, due giovani per il sesso, una vecchia per la cucina (sono anche loro contente? La questione non viene affrontata).
Tuttavia, non è un cinico, e il punto culminante del libro è la sua conversazione con un seducente personaggio che, anch’esso universitario, autore di una tesi su «René Guénon, lettore di Nietzsche», passato attraverso gli ambienti identitari poi convertitosi all’islam, è diventato un potente apparatchik del nuovo regime. E’ una conversazione che mi ha fatto pensare a quella di Winston Smith, l’eroe di 1984 , con l’ufficiale incaricato di torturarlo e non solo di sottometterlo a Big Brother, ma di farglielo amare. Mi ha fatto pensare anche alla Leggenda del Grande inquisitore nei Fratelli Karamazov. Essa si svolge nella casa del Tentatore, che è quella in cui ha vissuto Jean Paulhan, in rue des Arènes.
Né il narratore né Houellebecq hanno la minima stima per l’eminenza grigia della Nrf (Nouvelle revue française), ma stimano Dominique Aury, che per amore di Paulhan ha scritto Histoire d’O . Un libro kitsch quanto si vuole, ma sublime, trascinato dall’intuizione che il sommo della felicità umana risiede nella sottomissione: al padrone nell’erotismo, a Dio nell’islam. E’ quello che significa, letteralmente, la parola islam: sottomissione. La si potrebbe anche tradurre, a ragione: accordo, assenso, consenso; e Houellebecq vi acconsente: diversamente dal buddismo, che considera il mondo come un tessuto di sofferenza e di illusione, o anche dal cristianesimo, che lo vede come una valle di lacrime, l’islam lo accetta tale e quale. Reputa perfetta, e dunque non perfettibile, la creazione di Dio. Siamo lontani dalla «religione più stupida» denunciata dall’autore ai tempi di Piattaforma. Al contrario, una religione più semplice, e più vera di qualsiasi altra: a condizione di prenderla in blocco, così com’è, e di non cercarvi l’unica cosa che non vi si può trovare, quella da cui precisamente essa ci emancipa: la libertà.
A questo punto della lettura mi sono chiesto cosa pensasse davvero Houellebecq, e quello che io stesso pensavo, di tutto ciò. Comincio da me, non perché sia più semplice — in realtà non so bene cosa penso su questo argomento scivoloso —, ma perché ho comunque trascorso gli ultimi sette anni a scrivere un grosso volume ( Il regno , che uscirà in Italia a marzo per Adelphi) sugli inizi del cristianesimo, e mi ha colpito che il mondo antico, fra il I e il IV secolo, si fosse sentito gravemente minacciato da una religione orientale intollerante, fanatica, i cui valori erano interamente opposti ai suoi. Le menti migliori temevano qualcosa come una «grande sostituzione». Ebbene, questa «grande sostituzione», questa mescolanza contro natura dello spirito della ragione greco-romano e della strana superstizione giudeo-cristiana, c’è stata davvero. Ciò che ne è risultato è quella cosa non così insignificante chiamata civiltà europea. Molti intelletti, di nuovo, credono che oggi questa civiltà sia minacciata, e io ritengo tale minaccia reale, ma non è impossibile che sia anche feconda, che l’islam più o meno a lungo termine non rappresenti il disastro ma l’avvenire dell’Europa, come il giudeo-cristianesimo fu l’avvenire dell’Antichità. Per quanto mi riguarda, mi piacerebbe pensare che ciò implichi un adattamento dell’islam alla libertà di pensiero europea: è qui che mi allontano da Houellebecq, che deve considerare «l’islam dei Lumi» come una contraddizione in termini, una pia fantasticheria da utile idiota o da umanista (parola che, come egli dice, gli dà «leggermente voglia di vomitare»). La grandezza dell’islam, se ho letto bene, non è di essere compatibile con la libertà ma di sbarazzarcene. E appunto, che liberazione!
«Mi chiedevo se facesse dell’ironia — dice il narratore del suo tentatore —, ma in realtà no, non credo». Forse mi sbaglio, ma nemmeno io credo che Houellebecq sia ironico. Né il suo eroe quando considera la propria conversione come «la possibilità di una seconda vita, senza un gran rapporto con la precedente», e certamente migliore. «Non avrei avuto niente da rimpiangere»: è l’ultima frase del libro, e la trovo altrettanto memorabile dell’ultima frase di 1984 : «Amava il Grande Fratello». Invece il senso è totalmente diverso: Winston Smith si è arreso, ma Orwell continua a resistere per lui. La resistenza non interessa a Houellebecq. Egli ritiene che l’Occidente sia spacciato, talmente spacciato che non c’è più niente da rimpiangere. Che la libertà, l’autonomia, l’individualismo democratico ci abbiano immersi in uno sconforto assoluto; sconforto che nessuno ha descritto meglio di lui. Se rimane una speranza al di fuori della pura estinzione (alla quale si capisce che Houellebecq non sarebbe ostile) essa scaturirà da quelle che secondo noi rappresentano le peggiori minacce per la nostra civiltà e per l’idea che ci facciamo dell’umanità: la clonazione nelle Particelle elementari e La possibilità di un’isola , e l’islamismo. Quello che temevamo di più è ciò che, una volta passati dall’altra parte, ci sembrerà più desiderabile, al punto che ci stupiremo di non averlo desiderato prima. Tale capovolgimento radicale delle prospettive è quello che in termini religiosi si chiama conversione e, in termini storici, cambiamento di paradigma. E’ di questo che parla Houellebecq, non parla mai di altro, è praticamente l’unico a parlarne, per lo meno a parlarne così, come se potesse accedere ai libri di storia del futuro — supponendo che ci siano ancora libri di storia, e un futuro —, ed è per questo che lo leggiamo tutti, sbigottiti.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Corriere 6.1.15
Contro-cortei in tutta la Germania per dire no al razzismo
Cresce la reazione alle marce di Pegida a Dresda. E a Colonia si spengono le luci del Duomo
di Maria Serena Natale


Il dolore della Seconda guerra mondiale, la rivolta contro il regime comunista negli anni Ottanta, le inquietudini per un’identità minacciata dalla differenza. Nei cortei che si sono svolti ieri in quattro città tedesche s’incrociano le memorie della Germania ferita del Novecento e le contraddizioni del Duemila.
A Colonia, Dresda, Stoccarda e Berlino si sono dati appuntamento i gruppi di protesta contro il movimento dei Pegida, i «Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente» che ogni lunedì sfilano per denunciare la presunta invasione del Paese da parte delle forze oscurantiste, ricollegandosi idealmente alle marce pacifiche che si svolgevano il primo giorno della settimana nella Ddr tra il 1989 e il 1990. Un richiamo ai capitoli eroici della storia tedesca che rientra nella strategia dei Pegida di presentarsi ufficialmente come custodi di un’idea di purezza nazionale svincolata da pericolose commistioni con il neonazismo. Ecco perché dalle manifestazioni sono stati banditi vessilli e slogan dell’estrema destra, che guarda comunque con simpatia ai cortei del lunedì.
Un tentativo di introdurre il crescente sentimento anti-islam nel dibattito pubblico e sfuggire alle accuse di razzismo. Tentativo fallito, visto l’intervento insolitamente diretto della stessa cancelliera Angela Merkel che nel discorso di fine anno ha riaffermato il legame costitutivo tra identità occidentale e accoglienza con un esplicito riferimento alle marce Pegida. «L’immigrazione è un guadagno per tutti, è naturale accogliere coloro che cercano rifugio — ha dichiarato la Merkel —. A tutti coloro che vanno a queste manifestazioni dico: non seguite quanti vi invitano a parteciparvi! Troppo spesso i loro cuori sono pieni di pregiudizi, di gelo, di odio».
Negli ultimi tre mesi i raduni Pegida a Dresda, la città che nella Frauenkirche distrutta nel conflitto mondiale e rimasta un cumulo di macerie per 45 anni fino alla ricostruzione trova uno dei simboli della rinascita tedesca, sono passati da poche centinaia a oltre 17 mila partecipanti. Il movimento guidato da Lutz Bachmann ieri ha provato a sfondare con la prima manifestazione organizzata a Berlino, che però ha raccolto solo qualche centinaio di persone, sfidate da un contro-corteo di 5 mila cittadini. Colonia, altra città martire, per dire no alle marce dell’odio ha spento le luci del Duomo, la più grande chiesa gotica del Nord-Europa, patrimonio dell’umanità.

Repubblica 6.1.15
Arresti e purghe nelle università, stampa censurata Così Xi Jinping vuole bloccare l’influenza occidentale sul Paese
Cina, il ritorno dei maoisti “Riscopriamo Marx e Lenin”
di Giampaolo Visetti


PECHINO XI JINPING ha conquistato il partito grazie all’immagine di riformatore, ma si rivela oggi più rosso dei nostalgici neo-maoisti che ha sconfitto nella corsa per il potere. Nel primo biennio al potere, il successore di Hu Jintao ha costruito la propria fama di guerriero anti-corruzione, arrivando a colpire i funzionari più influenti dentro il comitato centrale del Politburo.
Arginato il cancro che corrodeva dall’interno il partito-Stato, il presidente cinese rivolge ora l’attenzione ai «pericoli esterni», lanciando una nuova campagna contro docenti, giornalisti, artisti e intellettuali, accusati di «contaminare la nazione con idee occidentali e liberali». Pechino nelle ultime settimane assiste così a sorpresa al grande ritorno di maoisti, rivoluzionari, generali e conservatori di sinistra, scatenati in purghe e delazioni all’interno di università, media e centri culturali. L’obbiettivo ufficiale è impedire «all’influenza straniera di destabilizzare il Paese, diffondendo concetti come stato di diritto e società civile». Analisti e dirigenti più aperti confidano che Xi Jinping punta invece a «fingere una svolta politica a sinistra per promuovere riforme economiche di destra». Riconquistare l’appoggio dei falchi neomaoisti, spaventati e perseguitati dal 2012, sarebbe cioè necessario per trasformare la Cina in un regime autoritario sempre più simile ai capitalismi dell’Occidente.
Eserciti di “custodi della tradizione”, ingaggiati dalla propaganda, balzano sui blogger che osano criticare Mao Zedong e ripuliscono il web dalle «crescenti eresie ispirate dal liberalismo occidentale». Ispettori del partito infiltrano scuole, università, redazioni, uffici, teatri, case editrici e istituzioni culturali per «stanare i compagni non abbastanza comunisti ». Non è esplosa la violenza della «rivoluzione culturale », ma i nuovi «guardiani dell’ideologia » hanno il potere di eliminare chiunque si opponga alle direttive presidenziali che si rifanno esplicitamente a Marx e a Lenin. Negli ultimi giorni, come riportato dall’agenzia Xinhua, lo stesso Xi Jinping ha diffuso nuove linee guida affinché «i centri formativi d’eccellenza tengano alta la guardia sull’ideologia».
La «rivoluzione degli ombrelli », che ha scosso Hong Kong tra fine settembre e metà dicembre, ha spaventato i leader di Pechino. Le rivendicazioni democratiche degli studenti, nell’ex colonia britannica, hanno suggerito ai vertici del partito che «la corruzione politica frena la crescita economica», ma che «il virus della democrazia occidentale può far implodere il sistema».
Il New York Times , parlando di «fase due dell’attacco al dissenso cinese», ha ricordato ieri che due documenti interni censurano i «valori universali che criticando Mao minano la sopravvivenza del partito». Zhang Hongliang, esponente della sinistra patriottica, allo stesso giornale ha detto che grazie a Xi Jinping «dopo un periodo di oblio oggi in Cina è un momento d’oro per essere di sinistra».
Per gli oppositori i rischi aumentano ogni giorno. Wang Congsheng, docente di Diritto, è stato arrestato per aver rivolto blande critiche al partito, come il giornalista Qiao Mu. L’editorialista Wang Yaofeng è stato licenziato per il sostegno ai giovani di Hong Kong. Centinaia di cronisti, avvocati e professori sono ridotti al silenzio dall’incubo delle persecuzioni.
Simbolo dell’offensiva neomaoista sono i documenti numero 30 e numero 9 del Comitato centrale, il primo riservato, il secondo pubblicato online. In questi Xi Jinping sintetizza la sua visione del potere, intimando ai funzionari di «non lasciar cantare gli uccelli che volano contro il partito» e di «non lasciar mangiare il cibo del partito a chi vuol avvelenare l’intera pietanza». L’ufficiale Global Times ha scritto che «il sistema adotterà decisioni sempre più forti contro chi mina la stabilità del partito, ponendo due alternative: cambiare o essere espulsi».
Se la campagna anti-corruzione ha seminato il panico nel circolo ristretto della nomenclatura, quella neo-maoista colpisce ora la maggioranza dei cinesi. Dagli abusi dei pochi eletti Pechino passa ai diritti diffusi che la classe media sempre più rivendica come naturali. Secondo lo storico Wu Si, Xi Jinping rilancia Mao per smontare l’accusa di essere un neo-liberale. Esercito e nostalgici assicurano al contrario che «riscopre il comunismo per globalizzarlo». La gente, più semplicemente, si ripone la domanda che l’assilla dall’inizio: chi è realmente il suo nuovo imperatore?

La Stampa 6.1.15
Il Maimonide dimezzato si ricompone a Gerusalemme
Preziosa copia quattrocentesca di un testo del filosofo ebreo spagnolo, smembrata da due secoli, dopo lunghe peripezie torna in mostra nella sua interezza: grazie alla collaborazione tra Israele e Vaticano
di Maurizio Molinari


Due metà di un antico codice ebraico miniato si ricongiungono a Gerusalemme per la prima volta dopo essere state separate per due secoli, grazie a una stretta collaborazione tra Museo d’Israele e Biblioteca Apostolica Vaticana che scrive un nuovo capitolo delle relazioni tra Chiesa e mondo ebraico: è la storia della copia riccamente illustrata del Mishneh Torah di Maimonide, uno dei codici legali ebraici più autorevoli e consultati fino a oggi, datata 1457, che sarà esposta integralmente al pubblico, nel 50° anniversario del museo più visitato dello Stato ebraico.
I due volumi
A raccontarci l’ultimo miglio della storia del manoscritto, che attraversa oltre cinque secoli di burrasche europee, è Daisy Raccah Djivre, capo curatrice della sezione di Arte e Cultura ebraica presso il Museo di Israele a Gerusalemme. «Tutto cominciò nel 2004, quando, in seguito a una visita ufficiale alla Biblioteca Apostolica Vaticana, il cardinale Raffaele Farina, l’allora Prefetto, ci accordò il prestito di quattro manoscritti ebraici miniati della loro preziosa collezione per esporli al museo», ricorda Raccah Djivre, «fra i quali questa copia del Mishneh Torah di Maimonide, nato a Cordova nel 1135 e vissuto soprattutto in Egitto fino alla morte nel 1204». È questo il momento in cui nasce il desiderio di ricongiungerlo all’altro volume di oltre 600 pagine. Il Museo di Israele si mette alla ricerca del resto dell’opera, che era in mani private, e quanto avviene negli anni seguenti, fra indagini storiche, vendite all’asta ed eventi rocamboleschi, consente di ricostruire il percorso parallelo delle due parti del manoscritto miniato.
I due volumi sono commissionati da Moses Anav ben Yizhak, e firmati dal copista Nechemia, forse originario dell’Italia settentrionale. L’avvenuta separazione, per cause ancora da identificare, porta la metà oggi in Vaticano a entrare nella collezione del bibliofilo romano Giovanni Francesco De Rossi; alla sua morte, nel 1854, la moglie dona la collezione ai gesuiti prima a Roma e poi a Vienna, fino a quando nel 1921 viene integrata nella Biblioteca Apostolica. L’altra metà segue un cammino diverso ma parallelo: conservata nella collezione di una famiglia ebraica di filantropi di Francoforte, nel 1920 viene acquisita dalla Biblioteca Statale di Francoforte dove resta durante l’intera Seconda guerra mondiale.
Da Francoforte a New York
All’indomani del crollo della Germania di Adolf Hitler, una famiglia ebraica emigrata da Francoforte a New York ne ottiene la consegna dal Comune in seguito a un patteggiamento sui risarcimenti per gli ingenti averi requisiti dai nazisti. Questa metà del codice dunque varca l’Atlantico, rimanendo in una collezione privata fino a quando viene messa in vendita e acquistata da Michael e Judith Steinhardt di New York, che lo concedono in prestito per esporlo. Nel 2013 il Museo di Israele e il Metropolitan Museum of Art di New York riescono ad acquistare insieme la metà newyorkese, ponendo fine alle incertezze di ulteriori compravendite e aste. Appena questo fronte si chiude, grazie al continuo dialogo con la Biblioteca Apostolica Vaticana, il Museo d’Israele ottiene dal Prefetto Cesare Pasini il consenso per il prestito e l’esposizione del volume vaticano con quello complementare a Gerusalemme. Per il direttore del Museo di Israele, James Snyder, si tratta di «un’opera d’arte dell’Alto Rinascimento italiano, e il prestito della Biblioteca Apostolica è un esempio di scambi cultural-diplomatici così importanti di questi tempi». Pasini concorda nell’identificare l’unicità del testo con l’«unicità dell’evento che vede riunite le due metà di una compagine divisa da secoli», sottolineando anche «la rarità del testo e la straordinaria bellezza delle miniature».
Il copista Nehemia
Il resto avverrà a metà maggio, quando il codice inviato dalla Biblioteca Vaticana arriverà all’ingresso del Museo di Israele in una cassetta sigillata per essere mostrato al pubblico per un periodo di quattro mesi prima di tornare a Roma. È un evento che pone le basi per il possibile studio congiunto del codice al fine di affrontare le molte domande ancora senza risposta: chi era il copista Nehemia? Lo stile della bottega artistica che lo ha miniato era di produzione lombarda o piuttosto veneta? Come, quando e perché vennero separati questi volumi e come arrivarono uno a Roma e l’altro a Francoforte? Dalle risposte sapremo se la parabola del manoscritto ricongiunto potrà diventare un esempio a cui richiamarsi per ricostruire la storia di altri antichi testi ebraici grazie alla collaborazione fra Israele e Vaticano. «Questo progetto realizzato col Vaticano dimostra come grazie a scambi culturali di valore si possa approfondire la conoscenza di oggetti preziosi nel tentativo costante di ricomporre storia, identità e percorsi di volumi che costituiscono parte integrante dell’identità del popolo del libro», conclude Raccah Djivre.

(The Israel Museum, Jerusalem, for Michael and Judy Steinhardt, by Ardon Bar-Hama) - Incipit illustrato (libri 7-14). Il codice è stato realizzato intorno al 1457 dal copista Nehemia, originario probabilmente del Nord Italia

Corriere 6.1.15
Ebrei censiti per tassarli
Si pensava che a Roma fossero 16 mila ma superavano di poco i 4 mila nel 1733
di Paolo Mieli

«Nonostante ciò che talora sembrano credere i principianti, i documenti non saltan fuori, qui o là, per effetto di chi sa quale imperscrutabile volere degli dei», scriveva Marc Bloch in Apologia della storia o mestiere di storico (Einaudi). Lo ricorda Raffaele Pittella a conclusione di un libro a cura di Angela Groppi, Gli abitanti del ghetto di Roma. La «Descriptio Hebreorum» del 1733 , che l’editore Viella si accinge a mandare in libreria. La citazione di Bloch vuole essere un omaggio alla Groppi che ha trovato un importantissimo documento della Chiesa, nel quale vengono censiti gli abitanti del quartiere ebraico romano, appunto, nel 1733. Fino ad oggi non esistevano certificati di quantificazione della presenza ebraica a Roma nell’arco di tempo che va dalla prima metà del Cinquecento (1527, la vigilia del Sacco) alla fine del Settecento (1796). E anche quei documenti del 1527 (quando tra l’altro il ghetto non era ancora stato istituito) e del 1796 non erano veri e propri censimenti: la prima conta verrà fatta solo all’inizio dell’Ottocento. Perché allora la Chiesa nel 1733 decise di «numerare» gli israeliti romani? Per poterli tassare.
Il 4 agosto del 1731, il Sant’Uffizio aveva dato incarico ad un proprio rappresentante, Raimondo Rasi, di reperire fondi (più di quelli già ricevuti) tra gli abitanti del ghetto. La sua missione era quella di «recuperare a favore della Reverenda Camera Apostolica la somma di 70 mila e più scudi». Rasi, scrive la Groppi, «si era recato nell’archivio del ghetto dove, dopo averne fatto sostituire la serratura, continuò poi ad andare per alcuni mesi in compagnia di un guardiano del Tribunale del Sant’Uffizio per “perquisire e scegliere” i documenti più interessanti da prelevare». A fine lavoro, Rasi, «i cui scritti sono sempre improntati a uno spirito violentemente antiebraico», accusava gli ebrei di «mentire sulla loro reale capacità economica e di fornire falsi giuramenti sui capitali che c’erano nel ghetto, a fronte del fatto che la riduzione delle tasse sul capitale dopo la chiusura dei banchi veniva addotta dall’Università come principale causa della sua insolvenza». L’uomo mandato dal Sant’Uffizio aveva anche insinuato che gli ebrei mentissero in merito alla loro consistenza numerica per versare un ammontare ridotto di tributi. A suo dire sarebbero stati 16 mila. Al cospetto dell’assoluta non coincidenza tra le cifre proposte da Rasi e i documenti prodotti dagli ebrei, e in quella che la Groppi definisce «una situazione sempre più confusa e delicata da un punto di vista politico e religioso», la congregazione presieduta dal cardinale Alessandro Albani «non trovò altra soluzione che chiedere l’intervento di un visitatore apostolico cui demandare il compito di fare chiarezza sul reale stato economico della comunità ebraica romana».
Fu così che il 29 aprile del 1733 si giunse alla nomina del chierico di camera, futuro tesoriere e poi cardinale, monsignor Mario Bolognetti, nell’auspicio di «dare una soluzione alla controversia esistente tra Camera Apostolica e Università degli ebrei riguardo al debito contratto da quest’ultima». E fu monsignor Bolognetti che commissionò il «censimento» trovato tre secoli dopo da Angela Groppi. Censimento redatto nel corso di sette giornate, in un arco temporale che va dal 27 luglio al 17 agosto 1733. Con la tecnica con cui, a partire dal 1614, si compilavano ogni anno gli «stati delle anime» per valutare la presenza dei cristiani in funzione del loro adempimento del precetto pasquale. Ma qui non si trattava di indagini aventi a che fare con il credo religioso. La missione era quella di «fare chiarezza sul numero complessivo degli ebrei e sull’esatta quantità delle famiglie presenti in ghetto» a fini fiscali. La Reverenda Camera Apostolica decise di «contare gli abitanti del claustro ebraico» onde poterli costringere a pagare quei settantamila scudi di cui si è detto. Così, nota la Groppi, «ancora una volta, come era avvenuto prima del Sacco del 1527 e secondo una tradizione che pervade gran parte dell’età moderna e che riguarda l’intera popolazione, non solo quella ebraica, furono le urgenze fiscali e le necessità amministrative a determinare una rilevazione nominativa degli ebrei di Roma».
Si scoprì che gli ebrei erano meno di quanti si supponeva che fossero. E rimase l’atto che ne certificava consistenza e identità.
Il documento trovato dalla Groppi, scrive Michael Gasperoni, «si presenta come un vero e proprio stato delle anime che riporta i nominativi degli abitanti famiglia per famiglia, percorrendo il ghetto casa per casa». Purtroppo manca la condizione sociale o professionale degli ebrei censiti. E la loro età. Ma, osserva Gasperoni, «pur con tutti i suoi limiti, la numerazione del 1733 costituisce l’unica fonte a noi pervenuta sulla popolazione ebraica romana tra il Cinquecento e il 1796». E, aggiunge, «c’è da scommettere che altri documenti di questa natura emergeranno nel corso delle prossime ricerche sulla comunità romana». Kenneth Stow, autore del pregevole Il ghetto di Roma nel Cinquecento. Storia di un’acculturazione (Viella), lo dice a chiare lettere: «Il materiale di questo volume è di inestimabile valore, poiché mette a nostra disposizione un gran numero di notizie e dettagli totalmente assenti per questo periodo cruciale della vita del ghetto». Angela Groppi e gli altri autori di questo libro «meritano», a detta di Stow, «sincera gratitudine; questo “censimento” impegnerà i ricercatori per diversi anni a venire». Dal censimento, e dal contesto di crisi che lo circonda, osserva Stow, «emerge il quadro di una comunità disorientata, sempre più impoverita e che, non è esagerato dirlo, era sotto attacco». Perché?
Paolo IV nel 1555 aveva ordinato, con la bolla Cum nimis absurdum , l’istituzione del ghetto e aveva disposto che potesse esserci una sola sinagoga. Ma di templi la comunità ebraica ne aveva ben cinque. Nel maggio del 1731, come si legge in uno straordinario saggio di Giancarlo Spizzichino, l’Inquisizione ordinò la chiusura della sinagoga di Porta Leone che era sopravvissuta all’esterno del ghetto, nel cosiddetto «ghettarello», un’area adiacente al ponte Quattro Capi. Ad un tempo si decise di amalgamare le cinque sinagoghe esistenti (ognuna delle quali seguiva una diversa tradizione rituale), abbattendo le pareti divisorie nell’edificio che le ospitava. In quello stesso maggio del 1731, su ordine del Sant’Uffizio fu eseguito nel ghetto un saccheggio di libri ebraici, gran parte dei quali non furono mai restituiti. In agosto, ha scritto Spizzichino, «venne sequestrata una larga parte della documentazione contenuta nell’archivio dell’Università, al fine di utilizzarla per verificare la sua reale consistenza economica in merito al debito che la Reverenda Camera Apostolica vantava nei suoi confronti». Ma trascorsero due anni e non venne fuori niente che confermasse i sospetti della Chiesa. Fu in quel momento che l’autorità ecclesiastica decise di «contare gli ebrei» allo scopo di verificare se erano di più di quel che dicevano di essere, sospettando che in tal modo volessero occultare il loro «imponibile». «L’Università, come era allora definita l’istituzione comunitaria», era la domanda implicita, «aveva forse risorse finanziarie nascoste?».
 Secondo un pregiudizio che si è diffuso nei secoli, gli ebrei tendono a non dire apertamente da quanti membri è composta la loro comunità. Un’annotazione in calce a «La descrittione dell’Anime di Roma 1696» (presente in un manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana) recita così: «Si avvertisce, che mancano l’Ebrei, li quali dicono di essere sempre meno di quello realmente sono per defraudare più che sia possibile il Dazio di tanto a testa, ma per ordinario sogliono essere nove, o dieci mila». L’annotazione è indicativa di quel «timore giudaico» che — a detta di Attilio Milano, dopo un approfondimento di tale questione — spingeva spesso a sopravvalutare il numero degli ebrei. Ed «è un esempio del perdurante pregiudizio secondo cui gli abitanti del Ghetto di Roma erano soliti mentire riguardo la propria consistenza proprio per eludere i contributi loro imposti». Gli esperti della Chiesa avrebbero coronato d’alloro la missione se avessero scoperto il vero numero degli israeliti. Molto più alto, s’intende, di quello prospettato da loro stessi. Di qui l’incredibile cifra prospettata da Rasi secondo cui la comunità romana avrebbe contato sedicimila individui. Che invece alla vera conta, prodotta nel documento rinvenuto da Angela Groppi, risultano essere poco più di quattromila. Un quarto di quelli immaginati da Rasi.
Eugenio Lo Sardo, direttore dell’Archivio di Stato di Roma, definisce la pubblicazione del libro curato dalla Groppi «un pietra miliare per una più accorta esplorazione della storia degli ebrei romani». Il direttore dell’Archivio ricorda che in quello stesso 1732, mentre Raimondo Rasi «si affannava a redigere la sua perizia sul debito dell’Università degli Ebrei di Roma», Voltaire «dava gli ultimi ritocchi a un testo che avrebbe lasciato una traccia profonda nell’Europa del primo Settecento»: le Lettres sur les Anglois . Tra le novità del regno inglese di Giorgio II, il filosofo accennava alla novità positiva della Borsa. «Entrate in quell’edificio», scriveva, «in quel luogo ben più rispettabile si molte corti: vi troverete riuniti i rappresentanti di tutte le nazioni… Là l’ebreo, il maomettano, il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione, lì si dà dell’infedele solo a chi fa bancarotta; lì il presbiteriano si fida dell’anabattista, l’anglicano recita le promesse del quacchero e all’uscita di queste pacifiche e libere assemblee, alcuni vanno alla sinagoga, altri vanno a bere». Voltaire, nota Lo Sardo, «che altrove non è certo generoso con gli ebrei», mette qui in rilievo «l’importanza della loro presenza per lo sviluppo dell’economia e del commercio inglesi». Cosa che aveva ben compreso Ferdinando I de’ Medici invogliando gli israeliti a trasferirsi a Livorno con la promessa di ampie garanzie di libertà così da fare di quel porto uno dei più importanti centri di affari dell’epoca.
E invece l’immagine della Chiesa quale emerge dall’esegesi di questo documento ritrovato da Angela Groppi (e di quelli ad esso collegati) testimonia una «scarsa lungimiranza politica e amministrativa». Il quadro dell’amministrazione pontificia «che emerge in filigrana da questo groviglio di provvedimenti, comunica la sensazione di passiva indolenza, di cieca chiusura mentale, anche di fronte alla straordinaria crisi economica che attanagliava lo Stato ecclesiastico già da qualche decennio e che andò man mano aggravandosi nel tempo».
C’è poi un particolare che accresce l’importanza del documento. Stow nota come la storica Manuela Militi abbia individuato nella famiglia numero 397 la presenza di Anna del Monte, «la cui effettiva esistenza viene ora per la prima volta confermata». Si tratta della donna ebrea di cui si sono occupati Giuseppe Sermoneta nella prefazione al suo diario, Ratto della signora Anna del Monte, trattenuta a’ Catecumini tredici giorni dallo 6 alli 19 maggio anno 1749 (Carucci), e, più recentemente Marina Caffiero in Rubare le anime. Diario di Anna del Monte ebrea romana (Viella). Anna era stata oggetto di una «raffinata pressione psicologica» (come scrive la stessa Caffiero in Storia degli ebrei nell’Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione , edito da Carocci) nella Casa dei Catecumeni dopo che un neofita, Sabbato Coen, aveva affermato che gli era stata promessa in sposa. Il suo diario conteneva molte preziose annotazioni su come la Chiesa provava, appunto, a «rubare le anime» degli israeliti, cioè cercava di costringerli alla conversione. E adesso il «censimento» trovato da Angela Groppi conferma l’autenticità di quel diario.
Quello di Roma non è un ghetto tra i tanti. Massimo D’Azeglio, che lo visitò e ne scrisse in Sull’emancipazione civile degli israeliti (1848), lo rappresentò come un «ammasso uniforme di case e tuguri mal tenuti, peggio riparati e mezzo cadenti», un reticolo di «strade strette e immonde», dove le «famiglie di que’ disgraziati vivono, e più d’una per locale, ammucchiate a ogni piano, nelle soffitte e perfino nelle buche sotterranee». Finché, nella notte del 17 aprile 1848, alla viglia della Pasqua ebraica, Pio IX ne fece abbattere mura e portoni, ciò che segnò la fine del ghetto come «recinto chiuso». Il resto lo fece l’unificazione del Paese: uno dei primi impegni dell’amministrazione sabauda dopo la presa di Roma nel 1870 fu per l’abbandono di ogni discriminazione nei confronti degli ebrei. Ma il piccolo quartiere ebraico romano mantenne la sua identità e — come ha scritto Anna Foa in Ebrei in Europa Dalla Peste Nera all’emancipazione (Laterza) — «più degli altri ghetti, finì per rappresentare l’immagine stessa della segregazione e della discriminazione». Quello di Roma, scrive ancora Anna Foa, «è infatti un ghetto che sopravvive all’età dei ghetti». Anche per questo ha un grande rilievo il fatto che ne sia stato rinvenuto un «documento d’identità» di tre secoli addietro.

Repubblica 6.1.15
“Dr Livingstone, I suppose” Ma il grande esploratore fu aiutato da un re africano
La leggenda del missionario vittoriano ridimensionata da uno studio: “Sopravvisse solo grazie a una tribù locale”
di Enrico Franceschini


LONDRA PIÙ che per le sue mirabolanti imprese, è passato alla storia per una frase: «Il dottor Livingstone, suppongo». Così il giornalista Henry Morton Stanley, inviato alla ricerca del più celebre esploratore del suo tempo, si sarebbe rivolto a David Livingstone, apparentemente scomparso tre anni prima nel cuore del continente nero, ritrovandolo finalmente sulle rive del lago Tanganica il 10 novembre 1871. Erano i due unici bianchi nel raggio di centinaia di chilometri, per cui non dovevano esserci dubbi sull’identità del viaggiatore sperduto. Il fatto che ciononostante si salutassero come durante un casuale incontro tra gentiluomini al club è entrato nel mito, a dimostrazione dell’etichetta, dell’imperturbabilità, del leggendario understatement inglese. È incerto che il colloquio fosse andato proprio così, tenuto conto della capacità del giornalismo popolare britannico di abbellire una storia: basta leggere L’inviato speciale di Evelyn Waugh per averne abbondanti prove. Ma adesso la ricerca di un’università africana contribuisce a smitizzare un poco le incredibili avventure di Livingstone nella giungla, rivelando che l’avventuroso missionario, senza l’aiuto del giovane re di una tribù locale, sarebbe difficilmente sopravvissuto.
Walima Kalusa, docente di storia della Zambia University, sostiene che il viaggio di Livingstone lungo il corso del fiume Zambesi, durante il quale scoprì le cascate a cui diede il nome della regina Vittoria, fu possibile soltanto grazie all’assistenza cruciale a lui offerta da re Sekeletu, diciannovenne monarca dei Kololo, la popolazione locale. Il ruolo del re e del suo popolo nella missione dell’esploratore fu cancellato da quello che è diventato un episodio simbolo del coraggio, dell’intraprendenza e dell’indomito spirito britannico, scrive lo studioso in un saggio pubblicato dal Journal of African Cultural Studies e riassunto dal quotidiano Independent di Londra. In realtà Livingstone diventò «completamente dipendente dalla generosità di Sekeletu durante il viaggio», tenuto conto della sua «totalmente inadeguata scorta di viveri, indumenti e altri generi di prima necessità ». Livingstone era convinto che il sovrano-ragazzo lo aiutasse perché attirato dalla civiltà occidentale, osserva lo storico, mentre documenti dell’epoca indicano che la ragione era ben diversa: il re cercava semplicemente di rafforzare il proprio potere a fronte di rivali interni e sperava che la missione dell’esploratore del British Empire aumentasse il proprio prestigio. Come che sia, non gli lesinò gli aiuti, ordinando ai suoi servitori di trasportarlo in barella quando Livingstone si ammalò e fornendogli ogni tipo di collaborazione e soccorso. Grazie all’aiuto del re dei Kololo, Livingstone riuscì a tornare in patria, dove fu accolto come un eroe. Fu nel viaggio successivo in Africa per trovare le sorgenti del Nilo che si persero le tracce dell’intrepido esploratore, quando soltanto uno dei suoi 44 messaggi inviati a Zanzibar arrivò a destinazione, mettendo in moto le ricerche che condussero al celebrato incontro con Stanley sulle sponde del lago Tanganica. I due inglesi continuarono poi insieme la missione fino a che Livingstone, deciso ad andare avanti fino al successo a dispetto di qualsiasi difficoltà, si ammalò di malaria e morì di un’emorragia. Il suo corpo fu portato a Londra, dove è sepolto nell’abbazia di Westminster, mentre il cuore fu interrato nel luogo della morte, sul lago Bangweulu, nello Zambia. Parafrasando la ricostruzione forse un po’ fantasiosa di Stanley, l’epitaffio con cui ricordarlo potrebbe dunque essere leggermente diverso: «Il dottor Livingstone, suppongo. E chi è questo giovane re africano al suo fianco?».

La Stampa 6.1.15
La nipote di Picasso vende opere per 290 milioni di dollari


La nipote di Pablo Picasso, Marina, ha deciso di vendere alcune delle opere del nonno per un totale di 290 milioni di dollari. Si tratterebbe di almeno sette quadri dell’artista tra cui un ritratto della prima moglie Olga, risalente al 1923 e intitolato Portrait de femme (Olga), per circa 60 milioni, del dipinto del 1921 Maternité (54 milioni) e di Femme à la mandoline (Mademoiselle Leonie assise) del 1911 (60 milioni). In vendita anche la famosa villa dell’artista a Cannes, «La Californie» (nella foto). I quadri verranno venduti direttamente da Marina, che incontrerà i clienti a Ginevra. La nipote dell’artista ha scritto che Picasso si rifiutò di aiutare finanziariamente la sua famiglia quando lei era una bambina, e suo fratello si uccise nel 1973 (pare, secondo il New York Post, dopo che la seconda moglie del pittore, Jacqueline, gli aveva impedito di vedere il nonno al momento della sua morte). «Ha portato tutti quelli che gli erano vicini alla disperazione», ha scritto Marina del nonno in un libro di memorie del 2001, sottolineando poi che la sua eredità è stata lasciata «senza amore».