giovedì 8 gennaio 2015

Repubblica 8.1.15
Sergio Staino
“Piango l’amico Georges uomo libero contro i dogmi”
intervista di Raffaella De Santis


LA LORO è stata una grande amicizia. Georges Wolinski per Sergio Staino non era solo un collega. Il loro primo incontro risale a più di trent’anni fa. Wolinski allora era noto per il personaggio di Paulette, ricca ereditiera orgogliosamente comunista. Ad unirli una satira corrosiva, un’ironia dissacrante e politicamente scorretta.
A quando risale la vostra amicizia?
«Ai tempi di Linus. Collaboravamo entrambi alla rivista. Wolinski era per me, insieme a Reiser, un mito. Così un giorno andai a Parigi e gli suonai al campanello. Poi nel corso degli anni è venuto spesso a mia casa in Toscana, insieme abbiamo fatto un viaggio a Cuba negli anni ‘90. Ha anche partecipato al mio film Non chiamarmi Omar, nella parte di un giornalista erotomane. Gli piaceva ridere sul sesso».
Quali sono i limiti alla libertà di critica?
«Wolinski era un antidogmatico, un anarchico di sinistra. Le sue storie erano certamente molto feroci, ma è la satira stessa a richiedere questo atteggiamento. La satira è per sua natura seminatrice di dubbi. La sua arma è l’intelligenza e in questo fa più male di un fucile o di una bomba».
Charlie Hebdo era nel mirino dei fondamentalisti. Ne avevate mai parlato?
«No, non discutevamo di questo. Nessun vignettista lavora pensando ai rischi. La libertà di espressione non può essere fermata in nome di un dogma. La satira esagera, allude, sottintende, è il suo modo di guardare il mondo».
Crede che questa tragedia innescherà forme di autocensura?
«Certo, si rischia che alimenti reazioni nazionaliste, che aiuti Salvini e Le Pen. Ma per quanto mi riguarda, dopo quello che è successo, ho ancora più voglia di dire la mia. Non dobbiamo permettere che il riso venga soffocato. Il mondo auspicato da questi fondamentalisti è di una tristezza terribile. Hanno colpito Parigi come simbolo della laicità e della democrazia».
Bobo che direbbe?
«Si sentirebbe orgoglioso di appartenere a una schiera di personaggi di carta che muoiono per il diritto di parlare».
Una vignetta di Wolinski che ricorda.
«Un operaio con una ragazza bellissima seduta sulle ginocchia e la frase: “Nulla è troppo per la classe operaia”».

Repubblica 8.1.15
La stampa in trincea.
Nella strage delle matite i giovani fanatici giustiziano i vecchi libertini
di Michele Serra

Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello del radicalismo laico e repubblicano, molto solido in Francia. Con una forte innervatura sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo ma ben presente anche prima, lungo Nove e Ottocento
NON è vero che a Charlie Hebdo niente è sacro. Sacra, in quel vecchio giornale parigino, è la libertà. Danzava, la libertà, allegra e nuda come le donnine di Wolinsky, attorno alla fragile trincea di scrivanie coperte di carta, matite, giornali, pennarelli (l’arsenale delle vittime) sulle quali sono caduti gli impenitenti artisti della satira francese, molti dei quali anziani, freddati dai loro giovani assassini.
Ragazzi bigotti che uccidono vecchi libertini. Autori di lungo corso come Georges Wolinsky, Charb, Cabu, usciti indenni da cento processi per oscenità, scampati a licenziamenti, fallimenti e censure, sopravvissuti perfino alle tante rissose diaspore interne al mondo (litigiosissimo) del giornalismo satirico, per poi morire così, macellati da due imbecilli sanguinari che della libertà niente possono e vogliono sapere: la libertà sta ai fanatici come la bicicletta ai pesci. Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello, così solido in Francia, del radicalismo laico e repubblicano. Con una forte innervatura sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo ma ben presente anche prima, a ritroso lungo Nove e Ottocento. Ispiratore indiscusso della rivista fu François Cavanna (origini piacentine), un vecchio hippy ribelle autore di versi esilaranti e spietati sulla soggezione dei popoli al potere e alle religioni. È morto nel suo letto quasi un anno fa, novantenne, candido e magro come un sacerdote, risparmiandosi questo orrore, e lo strazio di sapere offesa così in profondità la sua ilare tribù.
Il marchio di fabbrica di quel milieu satirico, immutato negli ultimi decenni e attraverso numerose testate, è una sorta di oltranzismo libertario e libertino che irrita anche la sinistra perbenista ed è sempre stato odiato dalla destra tradizionalista: il precedente direttore del giornale Philippe Val, omosessuale, pochi anni fa venne inseguito e picchiato per la strada, dopo un dibattito televisivo, da un gruppo di cristiani omofobi che voleva insegnarli come si sta al mondo. Una umiliante rappresaglia, ma niente in confronto al mostruoso esito del nuovo conflitto nel quale Charlie Hebdo, diciamo così per sua natura, non poteva non immischiarsi: quello tra la libertà di espressione e il fondamentalismo islamista. La lunga guerra iniziata “ufficialmente” nell’ormai lontano 1989 con la fatwa contro Salman Rushdie e i suoi Versi satanici . Guerra intestina all’Europa, va ricordato, fino dal suo primo atto: pare certo che la condanna a morte di Rushdie sia stata ispirata da ambienti islamisti londinesi, come se la refrattarietà di quel pezzo di Islam alla libertà di parola e di immagine fosse acuita, irreparabilmente, dalla promiscuità con i nostri costumi, ivi compresa la nostra (benedetta) scostumatezza.
La satira è, di suo, un linguaggio di confine, estremo e poco conforme alla disciplina. Restando (e purtroppo ci tocca) nella metafora bellica, è come un corpo di guastatori, le cui sortite non possono che scompaginare i ranghi, destabilizzare i ruoli. Sarebbe del tutto immorale, qui e ora, aprire il dibattito sulla liceità della blasfemia, o se volete della insolenza verso i dogmi religiosi. Sarebbe la cosa più blasfema da fare accanto a quei morti innocenti, e certamente morti di libertà (a causa della libertà, in nome della libertà). Sarebbe come se dalle retrovie, e con il culo al caldo, ci permettessimo di discettare sul rischio che si sono presi quei caduti.
Limitiamoci a constatare che, sul fronte della libertà di parola e di immagine, la satira non può che essere in prima linea. E a Charlie Hebdo avevano deciso di non arretrare di un passo. Ben sapendo — tra l’altro — che per una rivista fatta sostanzialmente da disegnatori la collisione con l’iconoclastia islamista è nelle cose. Le vittime di questa carneficina avevano tutte, metaforicamente o nella realtà, la matita in mano. E’ la matita, in questo vero e proprio Ground Zero della libertà di stampa, il minimo eppure potentissimo grattacielo abbattuto. Mettetevi una matita nel taschino, nei prossimi giorni, per sentirvi più vicini a Charlie, anche se non l’avete mai letto, anche se la satira vi piace così così, e la trovate eccessiva o sguaiata o provocatoria.
Salutiamo con un sorriso aperto — loro non vorrebbero di meglio — quella gente appassionata, intelligente e inerme, il direttore Charb (Stéphane Charbonnier), Cabu (Jean Cabus), Tignous (Berdard Verlhac), Georges Wolinsky, ingoiati dal buco nero dell’odio politico-religioso insieme al giornalista Bernard Maris, ad altri cinque compagni di lavoro e a due agenti di polizia. Provate a immaginare, per prendere le misure della strage di rue Nicolas- Appert, se i vignettisti che ogni giorno vi fanno ragionare o ridere sui giornali italiani venissero falciati tutti o quasi da un pogrom di fanatici, lasciando vuoto, sulla pagina, quel quadrato così superfluo e così indispensabile. Non dimentichiamoci mai, neanche per un secondo, come profuma di buono la libertà, e quanto siamo debitori, come europei, alla Francia e a Parigi.

il Fatto 8.1.15
Il mitra seppellisce più di una risata
di Alessandro Robecchi


A quella scemenza della risata che vi seppellirà non ci ho mai creduto molto, perché poi, come si vede, un paio di kalashnikov ti seppelliscono di più. Ma è proprio in questo “mitra contro matite” che si misura tutta la follia di ieri, morte contro disegnini, e il fatto che coi disegnini – con la satira – si possono dire cose enormi, e vere. Facevano quello, a Charlie Hebdo, e lo facevano con la tigna e la cattiveria che ci vogliono. Se si guardano le copertine degli ultimi anni, Charlie non ha risparmiato nessuno, dal pisello di Hollande alla tristezza di Allah, disgustato di essere amato da dei coglioni come gli integralisti che ieri hanno sparato. E poi c’è qualcosa di più e di peggio, perché la satira è la più libera delle nostre libertà e attaccando quella attacchi tutte le altre. Ridere di qualcosa rimane la cosa più eversiva che esista, malamente tollerata in democrazia, figurarsi presso soldati invasati che dicono di aver dio dallo loro parte. Ridere, e far ridere, necessita intelligenza, senso critico, capacità di rivelare l’assurdo anche dove nessuno lo vede, opinioni, libertà totale. Sono queste cose i veri nemici di chi ha sparato ieri a Parigi, e sono queste cose che alla fine, se le praticheremo con costanza, ci salveranno da loro. Matite contro mitra.

Repubblica 8.1.15
L’amaca
di Michele Serra

AVREI voluto lasciare vuoto questo cubicolo di carta, oggi, in segno di lutto, e di sconsolata impotenza. Ma poi ho pensato che il terrorismo ha un nemico invincibile, e questo nemico è la normalità delle nostre vite quotidiane. Le abitudini, i gesti utili e quelli inutili, le banali incombenze, il lavoro, la lettura, la scrittura, lo scambio di parole, insomma quella fitta e potentissima trama sociale che il terrorismo intende squarciare, senza mai riuscirci del tutto. Il suo obiettivo è renderci diversi da ciò che siamo: o più spaventati o più cattivi o più disorientati. Se invece riusciamo — in caso di terrorismo — a rimanere uguali a noi stessi, allora non possiamo che vincere, come un fiume enorme e pacifico che sommerge ogni asperità malevola. Mio compito è scrivere ogni giorno e questo voglio e devo fare. Immagino anche a Parigi — come accadde a Londra dopo le stragi islamiste nel metrò — lo sbandamento, lo sgomento, un breve annaspare nel panico, e poi la città che ricomincia a macinare la sua giornata, semmai con una punta di convinzione e di orgoglio in più. Ognuno di noi — non solamente i vignettisti satirici — è un potenziale bersaglio, di bomba o di raffica. Ma siamo talmente tanti, e talmente vivi e indaffarati, che fermarci è impossibile, come fermare il tempo che scorre.

Corriere 8.1.15
Il Corano e la tradizione
Quel divieto di mostrare il Profeta
di Roberto Tottoli


Non è il Corano, bensì le tradizioni islamiche che raccontano quanto voluto dallo stesso Maometto, a sancire l’opposizione islamica per le immagini. Alcune testimonianze limitano il divieto a statue e a riproduzioni in rilievo, oppure al volto e non ai corpi, altre sottolineano i vincoli più stringenti nei luoghi di culto.
Il timore che le ha dettate era quello dell’idolatria, ed è per questa ragione che molte volte il Profeta ne parlò e le proibì. Ma non di rado, le pratiche potevano esser diverse. Lo stesso Maometto, quando riconquistò Mecca poco prima di morire e impose la fede in Allah, cercò di risparmiare un affresco con Maria e Gesù conservato nella Kaaba. E i primi califfi non si fecero mancare lussi e privilegi dell’arte nelle loro residenze, dove ancora sopravvivono mosaici e riproduzioni figurate di esseri viventi.
Nella storia islamica prevalse la linea di proibire la riproduzione di esseri animati quali uomini e animali, che fu perseguita con maggior fermezza negli spazi di socialità, dando così vita a una delle peculiarità più importanti dell’arte islamica: l’aniconismo e la stilizzazione che trovano la massima espressione nei virtuosismi calligrafici. Eppure, negli stessi secoli, le miniature persiane hanno arricchito manoscritti e album delle corti con prodotti d’arte figurativa in cui non mancavano figure umane o di animali.
Ritrarre Maometto o il suo volto infrange tutte queste prescrizioni e qualcosa di più. Il divieto infatti riguarda tutti gli esseri animati, ma prima di ogni altro Dio, il Profeta, i suoi familiari o i suoi compagni più importanti. In forza di tale divieto, nessun luogo pubblico connesso alla storia del primo Islam o a Maometto ne contiene immagini o riproduzioni di fantasia. Solo qualche raro manoscritto medioevale, di uso personale e ristretto, riproduce le fattezze del volto di Maometto, prima che prevalesse l’uso di ricoprirlo con un velo o lasciarlo enigmaticamente in bianco.
Le miniature che ne racconteranno il prodigioso viaggio notturno a Gerusalemme lo ritrarranno sempre così, celandone enigmaticamente solo il viso.
Oggi la situazione è estremamente variegata. Il mondo islamico è invaso ormai da immagini di ogni tipo e in ogni direzione.
Fotografie, fumetti, film e televisioni sono ovunque. Prudenza e rispetto della tradizione continuano a prevalere però quando si tocca Maometto.
Magari accanto ai prodotti più tipici della modernità: produzioni televisive e cinematografiche su Maometto e i suoi familiari non li mostrano mai in volto, ma piuttosto di spalle, oppure ne fan sentire solo le voci.
E a questo rispetto per il dato tradizionale si saldano ormai, da anni, le visioni nette e restrittive di tradizionalisti, salafiti e jihadisti, per i quali delineare il volto del Profeta Maometto e commettere blasfemia mettendolo in cattiva luce sono un divieto assoluto. Un divieto da difendere a dispetto di una storia ben più complessa.

Il Sole 8.1.15
La satira, le religioni e il lato sacro del profano
Perché in principio era il ridere, il ridere era presso Dio
di Armando Torno


È possibile ancora ridere trattando temi religiosi? Dopo l’attentato di ieri a Parigi, al settimanale satirico Charlie Hebdo con morti e feriti come in un’azione di guerra, la risposta diventa difficile. O meglio, è ritornato il tempo delle incomprensioni e quanto è lecito per taluni diventa un crimine per altri. La violenza, che mai è stata cacciata dalla storia, gioca la sua parte ancora una volta. Eppure nella Bibbia non è vietato il sorriso, anzi sovente è incoraggiato. Come possiamo immaginare gli innamorati del Cantico dei Cantici, che si inseguono in tutto il piccolo libricino del Primo Testamento, senza pensare ai loro risolini?
Gesù è descritto sovente dai Vangeli in ambiti conviviali: nessuno potrà sostenere che vi partecipasse tenendo il broncio, anche se la questione del “riso di Cristo” è stata argomento di dibattito dei teologi medievali. Lo stesso profeta dell’Islam, Muhammad, o Maometto come si usa dire a causa di una tradizione medievale, manifesta nella letteratura islamica un senso dell’umorismo. Basterà ricordare un passo da Vite e Detti di Maometto (Meridiani Mondadori 2014) per rendersene conto: «Una vecchietta si avvicina a Muhammad e gli chiede se mai troverà posto in Paradiso: “No”, risponde il Profeta con tono aspro, “nel Cielo di Allah non entrano le vecchie”. La donna resta raggelata dalla risposta, ma Muhammad sorride, le porge una rosa e sussurra:”Quando sarai in Paradiso, tornerai a essere la fanciulla bella e sana che fosti ”».
Poter sorridere di talune questioni religiose non significa irriderle o farsene beffa: è semplicemente concedersi uno spazio di libertà per esercitare una delle facoltà donate all’uomo dal Creatore. Henri Bergson, che ben aveva studiato l’argomento in un libro edito nel 1901 e tuttora fondamentale, Il riso. Saggio sul significato del comico, stabilì che la differenza tra l’uomo e la bestia risiede nella capacità di ridere. Intuizione che porterà taluni esponenti della psicologia delle folle, come Gustave Le Bon, a credere che si diventa criminali quando si smarrisce il senso dell'umorismo. La qual cosa è successa all’Inquisizione o alle dittature, allorché giunsero al punto di non riuscire più a sopportare anche lievi forme di ironia. D’altra parte, ne Il nome della rosa di Umberto Eco il venerabile Jorge è disposto a uccidere pur di non far conoscere il secondo libro della Poetica di Aristotele che tratta del comico, convinto nella sua intransigenza che il riso può distruggere il dogma. I morti e i feriti del Charlie Hebdo ricordano che le lancette dell’orologio della ragione umana sono tornate indietro di alcuni secoli.
Sovente si ride di talune interpretazioni di altri uomini e non certo di Dio: i fondamentalismi, quasi sempre, dimenticano di distinguere i due aspetti. Ci confidava Gianantonio Borgonovo, esegeta biblico e arciprete del Duomo di Milano: «Una religione che pensa di agire in nome di Dio è falsa per sua natura, perché è Dio che muove all’azione l’uomo. Un Dio che uccide l’altro non può essere il vero Dio ma è una creazione della nostra mente. Dio fa vivere, non vuole la morte dell’altro». Prova ne è che l’episodio di Isacco (in ebraico codesto nome significa “Dio sorrida” o “Dio sorride”), nel capitolo 22 della Genesi: il Signore mette alla prova Abramo chiedendogli di sacrificare suo figlio ma poi un angelo lo ferma. Dio non vuole la morte del giovane ma desidera che egli continui a vivere; insomma, il primo libro della Bibbia evidenzia che non ci sono giustificazioni per uccidere in nome dell’Altissimo. E Paolo nella Lettera ai Filippesi scrive quasi a conclusione dell’argomento in questione: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi» (4,4).
Tra l’altro, la critica occidentale alle istituzioni religiose o a talune condotte dei loro rappresentanti, da almeno tre secoli a questa parte, si è coniugata attraverso ogni mezzo di comunicazione con il liberalismo e la democrazia. Le osservazioni potevano essere o no condivise, ma si è almeno imparato che esse non si risolvono con la violenza. La Chiesa è più credibile (e ha maggior forza morale) da quando l’Inquisizione ha smesso di accendere roghi. Si potrà non condividere l’attacco che Voltaire fa al Corano nel Dizionario filosofico, ma se ne bruciassimo le copie faremmo un favore al celebre illuminista. E così va detto delle dure parole scritte da Arthur Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione sul medesimo argomento. L’Islam fu criticato da personaggi quali George Bernard Shaw o Rabindranath Tagore, da politici come Theodore Roosevelt o Winston Churchill o dal padre della patria turco Mustafa Kemal Atatürk (tra l’altro, depenalizzò le bevande alcoliche), da pensatori notissimi quali Bertrand Russell o Carl Gustav Jung. La miglior risposta che ad essi è possibile dare passa dalle argomentazioni, non certo ricorrendo a censure e violenza.

Il Sole 8.1.15
Stragi, persone e idee
Houellebecq, Soumission e l’urgenza di una scelta
di Armando Massarenti


Ora siamo tutti chiamati a scegliere senza ambiguità. O difendiamo i principi e i valori di libertà faticosamente conquistati nella storia della nostra civiltà occidentale – in primis la libertà di stampa, di espressione, di satira, di critica, di parola, di cui si è nutrita la modernità fin dai suoi albori e da dove è nato tutto il resto – o ci abbandoniamo alle mille ambiguità che nel corso degli ultimi decenni hanno minato, in buona parte dei Paesi occidentali, la distinzione fondamentale tra diritto e religione, facendo entrare prepotentemente nella sfera pubblica principi estranei a quelli della laicità dello Stato.
È questa l’ambiguità di cui si nutre anche l’ultimo, discusso, romanzo di Michel Houellebecq, «Sottomissione» (in uscita per Bompiani), che contiene pagine che appaiono raggelanti se lette alla luce di ciò che è accaduto ieri, anche se in realtà nulla o ben poco fa pensare che il terribile attentato terroristico subito dalla rivista satirica Charlie Hebdo, che nel suo ultimo numero pubblicava in copertina una garbata presa in giro dello scrittore, abbia a che vedere con l’uscita contemporanea del romanzo. Di raggelante ci sono gli attentati rivendicati nel libro, inneggianti all’identità religiosa, che paiono preconizzare esattamente ciò che si è avverato. Un esempio di come un grande scrittore possa essere in grado di comprendere, meglio di mille analisi socio-politiche, che cosa bolle in pentola nella società, anche all’interno di un romanzo distopico (o utopico: già qui troviamo una notevole ambiguità), puro frutto dell’immaginazione, ambientato in un non troppo lontano 2022. È quello l’anno in cui Houellebecq immagina che in Francia, pur di non far vincere Marine Le Pen alle presidenziali, in vantaggio nei sondaggi, tutti i partiti tradizionalmente democratici votino per i Fratelli Musulmani, facendo succedere a Hollande un presidente musulmano. E ciò non si rivelerà per nulla sconvolgente. Il protagonista del romanzo è un professore universitario che si riconosce nelle parole ottocentesche di Huysmans – «sono ossessionato dal Cattolicesimo, inebriato dalla sua atmosfera d’incenso e di cera, gli giro intorno, scosso fino alle lacrime dalle sue preghiere, spremuto fino al midollo dai suoi salmi e dai suoi inni...» – ma che di fatto conduce una vita sentimentale insoddisfacente, fatta solo di relazioni saltuarie, con studentesse o escort di diverse età, a parte la sua ragazza ebrea che alla fine preferisce trasferirsi in Israele. Di fronte alla vittoria dell’Islam si converte, anzi si “sottomette” volentieri ad esso, con facilità e cogliendone tutti i vantaggi, individuali e sociali: l’Islam gli offre «la compagnia» e un quadro affettivo stabile – è la stessa religione a fornirgli le donne di cui ha bisogno – e garantisce una maggiore coesione sociale e, tra l’altro, minore disoccupazione. Ma la sua “sottomissione” è in realtà il simbolo di una resa ben più ampia, molto al di là dei problemi posti dall’immigrazione islamica in un Paese laico per antonomasia. È il suicidio di un’intera civiltà, quella dei Lumi, della liberaldemocrazia, dello Stato di diritto, che è costretta a cedere il passo a principi e valori – o alla barbarie – che l’avevano preceduta.
È a questa resa incondizionata, descritta da Houellebecq, e già pigramente presente in molti atteggiamenti sociali e intellettuali degli ultimi decenni, che l’attentato di ieri ci deve spingere a reagire con la massima fierezza. È vero che in questi ultimi anni – e non solo sul versante dell’Islam radicale – troppo spesso si è giocato con le parole per calpestare i principi dell’Illuminismo, fingendo di non capirne l’importanza da cui dipende la stessa identità europea e nordamericana. Autonomia, laicità, verità, umanità, universalità, diritti umani, tolleranza, metodo scientifico, divisione dei poteri: se crediamo in queste cose è perché, che ne siamo consapevoli o meno, siamo tutti figli dell’Illuminismo, e ne rivendichiamo i principi ogni volta che vogliamo protestare contro l’intolleranza, il fanatismo, la tortura, la censura, le discriminazioni, gli abusi e le menzogne del potere. Come ha sostenuto un altro francese illustre, Tzvetan Todorov, il problema è che i mali che i Lumi hanno voluto combattere, «oscurantismo, autorità arbitraria, fanatismo», si sono rivelati più resistenti di quanto non immaginassero gli uomini del XVIII secolo. Sono come «le teste dell’idra che rispuntano non appena tagliate». Ma è proprio per questo che non bisogna cedere. Non è questione di difendere una parte in causa. Non è questione di essere atei, cattolici o seguaci dell’Islam, moderato o radicale che sia. È questione di riconoscere entro un quadro costituzionale e legislativo certo le libertà di tutti. I padri fondatori della Costituzione americana erano quasi tutti ferventi religiosi, ma hanno deciso di tenere la religione fuori dalla sfera politica. La tragedia di ieri è avvenuta nello Stato che in realtà finora ha saputo tenere saldi i principi della laicità più di ogni altro Paese europeo. La loro sfida è, deve essere, anche la nostra.

il Fatto 8.1.15
Tra voto e realtà
Ue, la marea razzista e i jihadisti dentro casa
di Sal. Can.


L’attacco militare omicida che ha colpito Charlie Hebdo finirà per polarizzare non solo la politica francese, ma anche quella europea. I germogli di uno “scontro di civiltà”, per utilizzare la celebre definizione di Samuel Huntington, sono tutti sul terreno. La tendenza a favore dei partiti populisti o apertamente xenofobi era già chiara alle scorse europee quando, proprio in Francia, il Front National di Marine Le Pen raggiunse la prima postazione con il 24,9%. Risultati inferiori ma analoghi per impatto e significato politico, si erano avuti in Austria con il Fpo del defunto Jorge Haider al 19,7%, in Danimarca dove la destra conservatrice ha ottenuto il 26,6% e, in misura minore ma importante, in Olanda con il Pvv al 13,2% fino a raggiungere la “civilissima” Svezia dove il partito xenofobo dei “Democratici svedesi” ha sfiorato il 10%. Per non contare l’exploit di Nigel Farage in Gran Bretagna, con l’Ukip al primo posto e senza trascurare il risultato delle due formazioni più apertamente schierate contro l’immigrazione in Italia, Lega e Fratelli d’Italia: anche qui, un 10% sommando i due risultati.
Le dichiarazioni di ieri delle formazioni della destra già indicano come l’attentato sanguinario sarà utilizzato per cavalcare una campagna contro l’islamismo e, quindi, l’immigrazione che ne è portatrice. Ma più delle parole contano i fatti. I quotidiani di mezza Europa si sono occupati nei giorni scorsi delle mobilitazioni tedesche contro l’islamofobia promossa dal movimento Pegida, i Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’occidente, che manifestano ogni lunedì.
LE MANIFESTAZIONI, molto numerose, tenute a Dresda (roccaforte pegedista), Berlino, Stoccarda, Amburgo, hanno rappresentato il termometro di una situazione avvertita come pericolosa e che viene confermata anche dallo studio sulla “Germania post-migratoria”, reso noto dal quotidiano francese Le Monde. Il 31% dei tedeschi dichiara di non vedere la necessità di una cultura dell’accoglienza e dell’integrazione mentre il 25% “rigetta” la diversità e il 69% sopravvaluta il numero dei musulmani che vivono nel paese. In Svezia, invece, culla del welfare e di uno sviluppo apparentemente equilibrato, le cronache dicono che nell’ultimo periodo è avvenuto un attentato al mese contro moschee o luoghi islamici.
La frattura è talmente evidente che in Gran Bretagna, il paese con la più alta emorragia di giovani convertiti al jihadismo, il ministero degli Interni ha presentato un piano per costringere insegnanti di scuola materna e bambinaie a controllare i bambini per prevenire il rischio di “radicalizzazione” islamica. Ieri David Cameron e Angela Merkel hanno avuto un incontro bilaterale a Londra e hanno ovviamente condannato il barbaro attacco. Così come hanno fatto tutti i leader europei. Certamente, hanno dovuto prendere le misure a un fenomeno che secondo l’europarlamentare italiano Curzio Maltese, rappresenta l’effetto “di due fanatismi che si alimentano a vicenda. E che finora non ci ha portato nulla di buono come conferma la tragica morte dei colleghi parigini”.

La Stampa 8.1.15
Onu, Palestina accederà alla Corte Penale il 1 aprile
Lo ha annunciato il segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki-moon. Potrà così depositare le denunce per “crimini di guerra” contro lo Stato di Israele
di Maurizio Molinari

qui

Le vignette di Charlie Hebdo in uno slide show del Sole, qui

il Fatto 8.1.15
Le 146 sedi dem di Roma
Circoli veri e tessere false: il marcio del Pd Capitale
di Antonello Caporale


Fatto centro in via dei Giubbonari, nello storico circolo tra piazza Farnese e Torre Argentina, il rischio che la sinistra trascolori fino a divenire nero fumo è direttamente collegato alla distanza che separa il cuore di Roma dalle sue borgate. Più ci si allontana dalla città eterna più il Pd diviene preda di piccole imprese della clientela, gruppi di pressione, lobby dalle identità incerte.
NELLA MAPPA del rischio politico il quartiere Talenti, ad est della città, figurava per esempio tra le prime posizioni. Ed infatti ad inizio d’anno una bomba (vera) è scoppiata in un circolo (finto). Si temono altre cattive notizie, ed altri sospetti (tra il Prenestino e il Casilino, l’Aurelia e Boccea) illuminano la prima, straordinaria attività di zonizzazione delle clientele che un partito abbia mai tentato. Roma, in questo caso, è all’avanguardia della sperimentazione.
La bomba di Capodanno non è dimenticata, rimossa sì. Già ripulito l’ufficio, tolta l’insegna dalla stanzetta in cui Mirko Coratti, consigliere comunale, fatturava i profitti politici della sua piccola impresa, messa su in via della Bufalotta, dentro Talenti, l’est di Roma. Un’impresa sorta all’interno di un’azione parallela e autonoma di esercizio della professione politica. Giovane, arrembante, deciso. Votato a raccogliere, nei suoi passaggi da un partito all’altro, il meglio delle opportunità e sul mercato delle preferenze il massimo risultato possibile. Infatti s’era visto.
Primo tra gli eletti, aveva conquistato la poltrona di presidente del consiglio comunale. “L’abbiamo letto dai giornali, a noi non risultava quel circolo, e infatti è una sede privata”, dice Silvia Zingaropoli che insieme ad altri dieci volontari, sotto la guida di Fabrizio Barca e su mandato del commissario Matteo Orfini, hanno il compito di “mappare” il partito romano, radiografarne il corpo, saggiarne l’esistenza in vita.
Hanno saputo dai giornali della bomba che mani oscure hanno fatto esplodere nell’ufficio del presidente del consiglio comunale rimasto impigliato nella rete di Mafia capitale, e certo non è stato un bell’inizio.
PER CORATTI è un atto attribuibile “alla rabbia”, o anche “all’antipolitica”, a un moto popolare di ribellione che ha trovato in lui (si è sospeso dal partito e si professa innocente) un capro espiatorio perfetto. Gli inquirenti sembrano più cauti e cercano invece prove al sospetto che quello scoppio sia invece nel manuale tipico dell’intimidazione, un segnale di scuola dal tono inequivocabile.
Domanda: dov’è finito il partito, nelle mani di chi? “Sono molto preoccupato”, ha confidato Orfini. E ha ragione di esserlo perchè il timore è che altri uffici paralleli vengano alla luce, insieme a liste elettorali e tessere fasulle, congressi farsa, gruppi dirigenti fuori dalla condotta statutaria in un monopoli di cointeressenze, clientele, amicizie, e lucrosi vantaggi economici.
A Roma – magari obtorto collo – si inizia a fare quello che in verità dovrebbe essere realizzato con urgenza in ogni luogo di Italia. Da qualche settimana in un circolo del quartiere Monteverde un gruppo di volontari amanti della ricerca e della statistica, hanno iniziato l’esame delle 146 sedi di cui si compone il distretto politico del Pd. Devono appurare anzitutto se sono vere o finte. Si sono dati il compito di distinguere il partito “buono” da quello “cattivo”. I circoli stimabili e le zone off limits. I militanti certi dagli incerti. Perchè la realtà supera purtroppo la fantasia.
E UNA LETTERA del 5 settembre scorso inviata al segretario, poi commissariato, della federazione romana, è pietra fondativa di dove il relax dei costumi possa portare. La lettera, scritta da un pensionato e acclusa a una denuncia della coordinatrice del circolo “Versante Prenestino”, recita: “Io sottoscritto A. C dichiaro di non aver mai voluto essere iscritto al Partito democratico in quanto il mio orientamento politico è sempre stato di centro destra e che il giorno 5 novembre 2013 sono stato portato con l’inganno a votare in quanto nessuno mi aveva specificato che era il congresso del Pd e che i venti euro che mi sono stati dati servivano a pagare l’iscrizione. Il presidente Scipioni aveva contattato sia me che altri anziani del quartiere di Castelverde e ci aveva chiesto di andare a votare perchè ci avrebbe aiutato ad aprire il centro anziani. Quel giorno alcuni uomini di sua fiducia ci hanno dato venti euro e ci hanno detto chi votare”.
Uno, dieci, mille iscritti così? Era stata Valeria Spinelli, coordinatrice di un circolo sulla Prenestina, a denunciare l’enorme business politico che l’aveva costretta a sospendere le votazioni congressuali. Nonostante questa decisione un congresso finto si era tenuto ugualmente, con iscritti estranei al registro ufficiale senza che la commissione di garanzia trovasse da obiettare alcunchè.

Repubblica 8.1.15
un altro renziano

“Il Consiglio regionale guidato da un imputato” Polemica in Calabria
Reggio Calabria. Parte con due imputati eletti nell’Ufficio di Presidenza la X° legislatura del Consiglio regionale della Calabria. Ieri, a quasi due mesi dal voto, Palazzo Campanella si è infatti insediato e come primo atto ha proceduto all’elezione del Presidente del Consiglio, dei due vice presidenti e dei segretari-questori. Per lo scranno più alto, sostenuto dal centrosinistra e dal Ncd, è stato eletto il renziano Antonio Scalzo, consigliere uscente già rinviato a giudizio per presunte irregolarità nella gestione dell’Arpacal. Alla vice presidenza sono poi stati eletti Giuseppe Gentile (Ncd) e Francesco D’Agostino (lista Oliverio Presidente), mentre il ruolo di segretari-questori sarà ricoperto da Giuseppe Neri (Democratici Progressisti) e Giuseppe Graziano, anch’esso imputato nello stesso processo di Scalzo, che avrà inizio il 16 gennaio. La scelta di Scalzo è stato voluta e difesa dal segretario regionale del Pd, Ernesto Magorno, che ha commentato: «La magistratura fa il suo lavoro, noi qui facciamo politica». ( g. bal.)

Corriere 8.1.15
Tiziano Renzi
«Il papà del leader e la società fallita? È stato il governo a pagare il debito»


«Il governo paga i debiti della società della famiglia Renzi». È l’accusa di Giovanni Donzelli, consigliere regionale toscano di FdI: alla fine è stato coperto in gran parte con soldi pubblici — quelli del fondo di garanzia nazionale del governo, con più di 200 mila euro — il prestito bancario non restituito della Chil Post, la società della famiglia di Renzi, ora fallita, al centro di un’inchiesta della procura di Genova che vede indagato anche il padre del premier Tiziano Renzi per bancarotta fraudolenta. La vicenda ha origine nel 2009, con un prestito da oltre 400 mila euro concesso dalla Banca cooperativa di Pontassieve, con la garanzia di Fidi Toscana — finanziaria controllata per il 49% dalla Regione —, a Chil Post, società di comunicazione e marketing. «La richiesta fu presentata nel marzo 2009, mentre Renzi era presidente della Provincia», ha raccontato Donzelli. Allora la Chil era intestata a Laura Bovoli e Matilde Renzi, madre e sorella del premier, Tiziano Renzi è subentrato dopo. Poi Chil, nel 2010, è stata divisa in due: da un lato la Chil Promozioni srl, la società sana, con la Bovoli, madre del premier, presidente; dall’altro la Chil Post, una bad company su cui gravavano i debiti, che è stata ceduta ed è poi fallita nel 2013. «Scatta la richiesta a Fidi Toscana per erogare alla Bcc di Pontassieve i 263.114 euro rimasti da pagare», ha spiegato Donzelli. E nell’agosto del 2013 Fidi ha liquidato quanto doveva alla banca. Ma alla fine non sarà la finanziaria della Regione a metterci i soldi, ma Roma, è la denuncia di Donzelli: «Il governo Renzi, attraverso il ministero dello Sviluppo economico, ha dato 236.803 euro a Fidi (che quindi ha rimesso solo 26.311 euro)». La replica di Fidi Toscana: «L’operazione è regolare. Il ministero interviene con il fondo di garanzia per tutti e in tuta Italia».

il Fatto 8.1.15
Un’altra manina
Il governo paga 230mila euro per i debiti di papà Renzi
Fidi Toscana salda parte del mutuo della Chil Post e viene rimborsata dal Tesoro
“Un uso indecente dei soldi pubblici a fini familiari da parte del premier”
di Davide Vecchi


Da Fidi Toscana, partecipata dal Comune di Firenze e dalla Crs in cui sedeva Carrai, una garanzia di 300 mila euro alla Chil di Tiziano Renzi. Che però diventa “moroso” per la bancarotta fraudolenta. Poi ci pensa il Tesoro

A saldare i debiti del padre ci pensa il governo del figlio. Debiti, tra l’altro, concessi da una banca guidata da un fedelissimo del figlio, già in società con il fratello del cognato, a sua volta socio in un’altra azienda di famiglia riconducibile alla madre. Cose che capitano in casa Renzi. La vicenda è complessa e gli intrecci sono molti, come gli attori coinvolti.
Tutto ruota attorno alla Chil post, la società di Tiziano Renzi, dichiarata fallita nel marzo 2013 e sulla quale la Procura di Genova ha aperto un fascicolo iscrivendo nel registro degli indagati il padre del premier con l’accusa di bancarotta fraudolenta. Secondo i magistrati liguri, Tiziano avrebbe ceduto la parte sana dell’azienda alla Eventi 6 intestata alla moglie, Laura Bovoli, società che all’epoca dei fatti aveva tra i propri soci anche Alessandro Conticini, fratello di Andrea, marito di Matilde Renzi, sorella del premier e a sua volta socia nella Eventi 6.
ALLA CHIL POST rimangono così solo i debiti tra cui un mutuo di 496.717,65 euro stipulato nel luglio 2009 con il Credito Cooperativo di Pontassieve. Una cifra sostanziosa, concessa con un mutuo chirografario: senza accensione di ipoteche, quindi, ma solo basato sulle garanzie. La banca è guidata da Matteo Spanò, grande amico e sostenitore del premier. Nel 2005, Spanò era stato nominato direttore generale della Florence Multimedia, società della Provincia di Firenze creata dal neoeletto Renzi per la comunicazione e poi finita nel mirino della Corte dei conti che ha inizialmente ipotizzato un danno erariale di 10 milioni di euro. Non solo. Spanò era anche socio di Conticini nella Dot Media, società che ha ricevuto appalti diretti dal Comune, negli anni in cui Renzi è stato sindaco, e da altre controllate come la Firenze Parcheggi guidata dal fidatissimo Marco Carrai. Dot Media oggi cura fra l’altro la campagna elettorale dell’eurodeputata Alessandra Moretti candidata alla presidenza della Regione Veneto.
Diventato presidente della banca, Spanò elargisce il prestito alla Chil post di Tiziano Renzi che per ottenerlo riceve la copertura a garanzia del fondo per le piccole e medie imprese da Fidi Toscana spa della Regione guidata da Enrico Rossi e partecipata anche da Provincia e Comune di Firenze oltre alla Cassa di Risparmio nel cui board siede Carrai.
Fidi Toscana delibera la copertura dell’80% e il 13 agosto 2009 la banca versa i soldi alla Chil. I ratei vengono regolarmente pagati per due anni. Poi la società, nel frattempo svuotata della parte sana e poi ceduta ad altri titolari (ora indagati assieme a Tiziano Renzi), non rispetta più i versamenti e dichiara il fallimento. Così nell’estate 2013, la banca, ammessa al passivo dal Tribunale fallimentare di Genova, si rivolge a Fidi ottenendo il versamento di 263.114,70 euro, l’80% dell’esposizione complessiva. E la vicenda potrebbe chiudersi qui. Invece, il 18 giugno 2014, il ministero dell’Economia delibera di rifondare Fidi di 236.803,23 euro e liquida la somma il 30 ottobre successivo attraverso il Fondo centrale di garanzia. E così il debito contratto dal padre di Renzi è stato coperto dallo Stato.
“La perdita sofferta sull’operazione per noi è stata di 26 mila euro”, afferma Gabriella Gori, alla guida di Fidi da appena una settimana. Si è insediata il 29 dicembre a seguito delle dimissioni di Leonardo Zamparella costretto dal Cda a lasciare l’incarico perché condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per concorso in bancarotta come vicedirettore vicario del settore leasing e factoring di Monte dei Paschi. Il cambio al timone è stato determinante per avere accesso alle informazioni sulla Chil a seguito delle richieste formulate in merito dal consigliere regionale Giovanni Donzelli, oggi candidato presidente della Toscana per Fratelli d’Italia. Le risposte sono arrivate il 30 dicembre: Gori ha redatto un documento in cui riassume l’intera vicenda, con la specifica dei versamenti da parte del Tesoro. Per carità: tutto secondo protocollo, nulla di illecito.
IERI, DONZELLI assieme ad altri due consiglieri di minoranza, Paolo Marcheschi e Marina Staccioli, ha presentato un’interrogazione al governatore Rossi per chiedere spiegazioni. “Ci appare a dir poco indecente che i debiti creati dall’azienda di famiglia del premier siano stati pagati con soldi pubblici concessi in un momento in cui la crisi porta un imprenditore al suicidio ogni cinque giorni e in un Paese in cui l’accesso al credito è una delle maggiori difficoltà, insieme alla pressione fiscale, che riscontrano le aziende”, dice Donzelli. Da Rossi, prosegue, “vorremmo sapere perché la gestione dei fondi è stata affidata a Fidi senza alcuna gara, se e come ha valutato la domanda presentata da Chil, se la garanzia non deve essere revocata in caso di modifiche aziendali che trasformano radicalmente la società come è avvenuto alla Chil e, infine, se reputa corretto ed etico il comportamento della famiglia Renzi”. Secondo Donzelli “non dovrebbe essere prerogativa della Regione pagare, tramite fidi, i debiti dell’azienda di famiglia del presidente del Consiglio e del segretario del partito di maggioranza. E men che meno prerogativa dello Stato”.

Corriere 8.1.15
Il costoso peso dell’illegalità diffusa nell’Italia che non si riesce a risanare
di Corrado Stajano

L’indignazione nei confronti di corrotti e corruttori dura poco qui da noi, lo spazio di un mattino, una bolla di sapone, il breve pianto del bambino quando gli è sfuggito il pallone tra le case. Ma tutto quanto è esploso negli ultimi mesi sembra davvero preoccupante, segno di un Paese caduto in una crisi di civiltà. Non è mai successo che, di qua e di là dal Tevere, il presidente della Repubblica e il Papa abbiano usato a proposito della corruzione parole così gravi nei loro messaggi di fine anno.
Napolitano, nel denunciare le gravi patologie di cui l’Italia soffre: «A cominciare da quella della criminalità organizzata e dell’economia criminale; e da quella di una corruzione capace di insinuarsi in ogni piega della realtà sociale e istituzionale, trovando sodali e complici in alto».(…) «Dobbiamo bonificare il sottosuolo marcio e corrosivo della nostra società».
E papa Francesco, «essendo anche vescovo di Roma»: «Quando una società ignora i poveri, li perseguita, li criminalizza, li costringe a mafiarsi, quella società si impoverisce fino alla miseria». (…) «Domandiamoci: in questa città, in questa comunità ecclesiale, siamo liberi o siamo schiavi, siamo sale e luce? Siamo lievito? Oppure siamo spenti, insipidi, ostili, sfiduciati, irrilevanti, stanchi?».
I fatti sono sotto gli occhi di tutti, persino in una società passiva come la nostra, impaurita per la situazione economico-finanziaria che imprigiona uomini e donne nelle loro insicurezze private: Mafia Capitale dopo gli appalti e subappalti dell’Expo e dopo il Mose di Venezia. Traffici loschi ai danni della collettività, affari truffaldini coi soldi pubblici, un’illegalità diffusa, per citare soltanto le ultime colonne portanti del malfare. Con il sospetto che ovunque, o quasi, venga messo il dito si scopra che la legge, la regola, la disciplina siano considerate nemiche, come la questione morale.
La corruzione ha radici antiche, più in Italia che negli altri paesi dell’Europa occidentale dove non manca ma si trova davanti a reazioni sociali che costruiscono una naturale muraglia. Il nostro padre Dante collocò nella 5° bolgia dell’Inferno, immersi in uno stagno di pece bollente, i barattieri, coloro che si facevano corrompere per denaro traendo profitti e guadagni dai loro pubblici uffici. Nella Commedia finiscono straziati da diavoli neri, Cagnazzo, Barbariccia, Draghignazzo che fanno venire in mente gli uomini della banda della Magliana, er Cecato, er Catena, ‘o Scucciato, lo Gnappa.
Arrivando ai tempi moderni c’è soltanto da punzecchiare la memoria, tra il «mondo di sotto» e il «mondo di sopra», quello che più conta.
L’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della banca di Sindona, uomo dell’onestà assassinato a Milano nel 1979 dalla mafia politica, era esterrefatto e dolorante — risulta dai suoi diari — di trovarsi nemici uomini dello Stato che avrebbero dovuto essere al suo fianco: dal presidente del Consiglio a ministri, generali, banchieri dello Stato, pubblici amministratori.
E nel 1981 quando gli allora giudici istruttori di Milano, Gherardo Colombo e Giuliano Turone, indagando sulla mafia scoprirono le liste della P2 rimasero sbalorditi davanti ai nomi degli affiliati a quell’associazione segreta fuorilegge, ministri, capi dei servizi segreti, generali, ammiragli, diplomatici, segretari di partito, direttori di giornali.
E oggi? Come può risanare un paese gravemente malato e liberarlo dal costoso peso della corruzione l’attuale governo delle larghe intese fondato su un patto segreto con un condannato proprio per frode fiscale che sta scontando l’affidamento ai servizi sociali, a capo di un partito «alleato d’opposizione», come viene detto? Un simbolo del grottesco. O un ossimoro vivente.
Ma la positività è d’obbligo. Guai ad aver sospetti, anche su quel dissennato tentativo della norma «salva Berlusconi», un blitz da governo a fumetti andato a monte, per ora, perché nonostante tutto l’opinione pubblica seguita a essere vigile.
«Professionisti del retropensiero», ha tuonato Renzi indignato contro chi ha espresso critiche e legittimi dubbi. (Regista dell’inghippo, il presidente del Consiglio, o incapace di gestire un iter legislativo? «Tertium non datur»). Avrebbe potuto anche passar via liscio quel decreto fiscale, un regalo agli evasori e, due piccioni con una fava, la cancellazione della condanna di B. E sarebbero così diventati inutili anche gli incontri a due per la futura presidenza della Repubblica dove si teme che le parole grazia e agibilità politica faranno da presupposto alla trattativa su chi collocare sul Colle. Altro che rivoluzione copernicana. Il test della politica più vecchia e stantia, piuttosto. Il pegno che Renzi ha dato a B. e B. a Renzi. Resteranno fedeli.
Come aveva ragione quel gran critico senza eredi che fu Cesare Garboli quando, nel suo Ricordi tristi e civili scrisse: «Ci sono perfino degli aspetti comici nella capacità italiana di far convivere il carnevale con la tragedia».

da La Stampa di oggi:
Matteo Renzi nel suo intervento all’assemblea del Pd: «Se vogliamo continuare a farci del male per altri dieci giorni sulla delega fiscale parlando della “manina”, si sappia che quella manina è la mia»

Corriere 8.1.15
Il leader alla sinistra: la manina era la mia
La sfida alla minoranza sul decreto fiscale. E sul Quirinale: impostiamo insieme il metodo, gennaio è un bivio

di Monica Guerzoni

ROMA Nessun dietrofront. Anche davanti ai deputati del Pd, Matteo Renzi difende l’impianto della delega fiscale e rivendica la paternità della norma delle polemiche. «La manina è la mia» ribadisce, spiazzando chi si aspettava retromarce sull’articolo 19 bis, che fissa al 3% la soglia di non punibilità per i reati fiscali.
Il premier promette che «se c’è qualcosa da cambiare, si cambierà». Ma davanti alla minoranza che chiede di modificare subito la norma contenuta nel decreto attuativo della delega e ribattezzata «salva-Berlusconi», Renzi non spazza via l’incertezza. Né sul quando, né sul come: «Noi non facciamo leggi ad personam, ma neanche contra personam». E non si pensi che il governo abbia messo la firma su pacchetti di norme preparate dai tecnici, perché non è andata così. «Si è discusso e approfondito punto per punto» ricostruisce Renzi, dicendo ai suoi che non lo fa per «difendere» qualcuno a Palazzo Chigi e e promettendo, prima del voto, «un momento di discussione chiaro e trasparente».
Alla prima riunione del 2015 il leader arriva in ritardo e ai giornalisti risponde brusco: «Con quel che è successo a Parigi mi chiedete di fisco?». Pier Luigi Bersani se ne va prima che Renzi parli e affida il suo sconforto ai cronisti: «In quella norma del 3% c’è una proporzionalità, chi ha di più ha diritto a evadere di più». Ma lo stesso criterio, attacca l’ex segretario, manca nel Jobs Act, dove «si può essere licenziati anche se si fanno 5 minuti di ritardo».
Per la sinistra l’incidente sul decreto fiscale è tutt’altro che chiuso e rischia di minare l’unità del partito sull’elezione del capo dello Stato. Alfredo D’Attorre mette in guardia il premier: rinviare la modifica della delega fiscale al consiglio dei ministri del 20 febbraio «rischia di pregiudicare il percorso delle riforme e l’elezione del nuovo presidente».
E Davide Zoggia dà voce ai «sospetti» della minoranza, irritata e insoddisfatta: «Aspettare lascia intendere che ci sia un accordo, mentre nel Patto del Nazareno non doveva esserci altro tipo di intesa se non riforme e legge elettorale». Insomma, se quella norma è un «clamoroso errore», va modificata subito.
Fiutata l’aria poco salubre, Renzi chiede fedeltà in vista del voto sul Quirinale. Propone ai deputati di vedersi «per impostare un metodo» e non per aprire dibattiti su un nome. Per lui gennaio è un «bivio», in cui si capirà se la legislatura «esiste o resiste». Se non si fanno le riforme viene giù l’«architrave», la legislatura fallisce e con essa il Pd: «Chiedervi di allacciarvi le cinture a gennaio non nasce dalla paura, ma dalla convinzione che siamo alla prova dei fatti». Parole in cui la minoranza intravede la minaccia del voto anticipato.
Al centro della riunione, aperta da una relazione di Lele Fiano, i nodi della riforma costituzionale che oggi si vota alla Camera. Gianni Cuperlo assicura che nessuno lavora per paralizzarne l’iter e però «il testo non ha ancora risolto tutte le sue fragilità». Un appello a non blindarlo, lasciando che il Parlamento lo migliori cominciando dal sindacato preventivo di costituzionalità della legge elettorale. Il leader di Sinistra Dem chiede a Renzi una «discussione seria tra noi» su decreti attuativi del Jobs act, Quirinale e decreto fiscale. Per Pippo Civati discuterne «a babbo morto» è sbagliato, «Renzi non può banalizzare dicendo che la manina è la sua.. È un gioco pericoloso, serve una verifica di governo». Finisce con una battuta del premier sul cinquestelle Giarrusso, che vorrebbe impiccarlo: «Da sindaco chiederei il trattamento sanitario obbligatorio».

il Fatto 8.1.15
Sul 3% Renzi ricatta i ministri
Rivendica: “La manina è la mia”
Pier Luigi Bersani: “Così chi ha di più potrà evadere di più”
di Wa. Ma.


In Consiglio dei ministri la legge delega sul fisco si è “discussa e approfondita punto per punto”. Mentre rivendica “la manina è la mia”, scandendo bene le parole, davanti ai deputati del Pd, Renzi sfida i suoi ministri a sfilarsi dalla responsabilità sulla cosiddetta salva Berlusconi. Anche qui, è questione di interpretazione. “È vero, abbiamo discusso la legge delega, ma non la norma 19 bis”, spiega un ministro che era presente. Altra versione da fonti di governo: “Di quella norma si è parlato, anche se magari non tutti hanno capito quali effetti avrebbe avuto”. Comunque sia andata, il premier ricatta il suo governo: la “manina” è anche vostra, sembra dire, inchiodando tutti alla sua scelta politica. La sua versione definitiva dei fatti ingloba quella data a caldo anche ai fedelissimi (“Quella norma l’ho voluta io, è giusta, e mi serviva a recuperare soldi, ma non sapevo che avrebbe riguardato anche Berlusconi”). Il premier va oltre: la norma esiste, e lui la rivendica. L’ha già fatto nella e-news: “Noi non facciamo norme ad personam, né contra personam. Noi cambiamo il fisco per gli italiani, non per Berlusconi”. E adesso la usa: il segnale a B. è arrivato, il ricatto è sul tavolo, con il rinvio della decisione finale sul 3 per cento al 20 febbraio. Ma c’è un altro dato: “A Matteo di Berlusconi non importa niente, né nel bene, né nel male. Il punto è un altro”, spiegano nel cerchio stretto del premier. Quale? Il “favore” riguarda i gruppi industriali, senza l’appoggio dei quali Renzi non potrebbe governare. E quella soglia del 3 per cento è necessaria a loro. Non a caso Pier Luigi Bersani, che se ne va a gruppo in corso (“non si può discutere di riforme in cinque minuti”), attacca: “Nella norma sul fisco c'è una proporzionali: chi ha di più ha diritto ad evadere di più”, denuncia.
NON È DETTO che sia così facile da parte del governo - ammesso che si voglia fare - modificare la norma, in modo che riguardi le grandi imprese e non tocchi B.. Le ipotesi di cambiamento in campo sono varie, ma andranno tutte valutate: si discute di togliere la frode fiscale. E magari di abbassare la soglia di non punibilità del 3%. Ieri Renzi prima ha visto Padoan: i due procedono allineati. Poi, è andato all’assemblea dei deputati Pd. Clima surreale, causa la ripresa post-natalizia, ma anche e soprattutto l’attentato in Francia. Il segretario-premier stavolta non fa neanche la relazione d’apertura e annulla la partecipazione a Otto e mezzo. Voci dissidenti D’Attorre (ribadisce che è un errore rimandare al 20 febbraio la modifica della delega fiscale) e Cuperlo (chiede una riunione del partito che verta sulla situazione politica). Ma “è un dialogo tra sordi”, come commenta qualcuno dopo. Sulle riforme, vero oggetto all’ordine del giorno della riunione, si rimane al solito sulle generali. E il dissenso resta compresso e non preso in considerazione. Nella minoranza Pd ragionano così: “Con la salva-Berlusconi, Renzi prende due piccioni con una fava: blinda i voti per il Quirinale dei berlusconiani di Forza Italia, fermando pure le tentazioni di chi magari aveva qualche dubbio. E lascia in vita un oppositore per lui molto comodo e non pericoloso, neanche dal punto di vista elettorale”. Tono amaro, armi spuntate.

Repubblica 8.1.15
E all’assemblea dei deputati pd scatta il “processo” a Matteo
di Goffredo De Marchis


ROMA La norma salva-Silvio sta spostando gli equilibri dentro il Pd e può far sentire i suoi effetti nella partita del Quirinale. «Adesso ci vuole un candidato che non sia figlio del patto del Nazareno. Che incarni la lotta all’illegalità e a favore della massima trasparenza», dicono i bersaniani. Ed è questa l’aria che si respirava all’assemblea dei deputati Pd con Renzi, convocata per parlare di riforma costituzionale. Romano Prodi è il solito nome che corre di bocca in bocca quando si parla di un papabile non berlusconiano, ossia costruito fuori dal recinto stretto del rapporto del premier con l’ex Cavaliere. Ma ci sono anche Walter Veltroni, Pier Luigi Bersani, Raffaele Cantone e qualche altra figura che per il momento rimane coperta.
È il clima che si respirava ieri pomeriggio nell’auletta dei gruppi parlamentari di Montecitorio. Perché le varie minoranza non hanno avuto alcuna risposta sulla mossa renziana di rinviare al 20 febbraio la correzione del decreto fiscale. «Quasi una provocazione di Matteo — sottolinea Pippo Civati — che fissa una data successiva al 15 quando Berlusconi finisce di scontare la pena dei servizi sociali ».
Il bersaniano Alfredo D’Attorre ha avvertito il premier: «Stai compromettendo il dialogo con le varie componenti del partito. E se allunghi un’ombra sulle riforme e sull’elezione del presidente della Repubblica senza fare chiarezza il rischio è di inciampare in entrambi i casi ». Parole riprese e rilanciate da Gianni Cuperlo: «La situazione ci sta sfuggendo di mano. Dobbiamo fare al più presto un’assemblea meno surreale di questa. Che parli del lavoro, dei decreti del Jobs act, delle norme sul fisco, della legge elettorale e del Quirinale». Che questo tipo di attacchi arrivino a 20 giorni dalla convocazione delle Camere in seduta congiunta non è un buon segno per Renzi.
Il premier ha affrontato a modo suo l’atmosfera difficile di ieri. Ha rivendicato la sua «manina » nel testo della norma per la depenalizzazione delle frodi fiscali. Una manina che non ha trovato un muro nel consiglio dei ministri perché, come ricorda Graziano Delrio, «l’articolo 19 era nella cartellina consegnata ai ministri, si è discusso a lungo di soglie di non punibilità penale, sono intervenuti in tanti e nessuno ha portato critiche sul merito o politiche». Dice Civati: «Sicuramente è andata così. E peggiora la situazione. Significa che l’intero esecutivo è succube di Berlusconi».
Forse l’assemblea e i suoi tempi non erano giusti per dirlo. Ma Civati e altri come lui si aspettano nei prossimi giorni che qualche big della minoranza rilasci un’intervista che fa saltare il banco mettendo nero su bianco che un candidato uscito dall’asse Renzi-Berlusconi non può passare, che bisogna fare scelte diverse. Poi si vedrà come si spostano davvero gli equilibri nel Pd, come reagiranno anche i più leali degli oppositori. «Se Prodi o un profilo simile crescesse nelle prime votazioni, il Pd si troverebbe di fronte a un bel dilem- ma», pronostica Civati. Non c’entriamo con Berlusconi, con l’evasione fiscale, con i suoi guai giudiziari. Basta che lo dica qualcuno che ancora conta nella base e la partita del Quirinale si può aprire. «Il Pd — spiega D’Attorre — ha fra le sue ragioni costitutive il lavoro e la lotta ai grandi evasori. Se mancano questi pilastri si smarrisce l’identità. E non è una buona premessa per affrontare questo mese tanto difficile».
Bersani ha già fatto sentire la sua voce sul decreto fiscale ma non ha parlato all’assemblea. Ha taciuto anche Francesco Boccia quando ha visto che Renzi doveva correre via per altri impegni. Però c’è un’area del dissenso che può crescere dopo il pasticcio della norma salva-Silvio. Uno scivolone e non a caso dalle fonti vicine a Giorgio Napolitano si precisa che il capo dello Stato «non ne sapeva niente».
Che le mille componenti antirenziane possano costruire una candidatura alternativa e un dissenso organizzato è tutto da verificare. Su queste divisioni interne contano molto gli incaricati del premier sui numeri, Luca Lotti e Lorenzo Guerini. E sul sostegno di Forza Italia perché a molti appare chiaro che Renzi si fida più del rapporto con Berlusconi che del dialogo con la minoranza. «E chi pensava che Matteo avrebbe lanciato un messaggio distensivo sul Quirinale all’indomani del pasticcio fiscale, è rimasto deluso. Ma lui è così. Non gioca in difesa, va sempre all’attacco», dice Civati.

Repubblica 8.1.15
Mariastella Gelmini
“Il Quirinale si sblocca se il leader pd rispetta i patti”
intervista di C. L.


ROMA «Renzi è persona intelligente e sa che un’elezione in tempi rapidi del capo dello Stato può avvenire solo in caso di pieno rispetto di tutti gli accordi, sull’Italicum e sulla riforma del Senato».
Per adesso tutto sta procedendo, Mariastella Gelmini, al Senato avete difeso ancora una volta l’Italicum in aula.
«Fi dimostra grande serietà verso il Paese e il patto siglato con il premier. Chiaro che, come sostiene Paolo Romani, per noi non è un prendere o lasciare. Chiediamo che il premio sia alla coalizione e non alla lista e confidiamo che si vada in quella direzione, al termine di un confronto schietto in aula».
Eleggerete insieme anche il nuovo presidente?
«Stucchevole interrogarsi se quel passaggio sia parte del patto. La concatenazione dei fatti, tra dimissioni di Napolitano e i passaggi parlamentari delle riforme, non l’ha creata Fi, ma si è imposta. Ora tutto si tiene, è collegato ed è logico».
La sanatoria fiscale rientra in quella concatenazione dei fatti o addirittura nel patto del Nazareno?
«Tutto da stabilire che favorisca davvero Berlusconi. Senza considerare che in Francia la soglia di esenzione non è il 3 ma il 10 per cento e che la norma è realmente nell’interesse di tutti. Il governo era in buona fede, ma poi ha compiuto una sequenza di errori: Renzi ha finito con il rinviare addirittura a febbraio, creando le premesse per un suo indebolimento politico».
Tra voi c’è chi parla di ricatto in vista del Colle.
«Il rinvio del testo al 20 febbraio finisce impropriamente per collegare quella norma, di cui Berlusconi non sapeva nulla, al Quirinale. Altro che trattativa, è solo un enorme pasticcio». ( c. l.)

Repubblica 8.1.15
Cesare Damiano, minoranza Pd
“Sbagliato non rimediare subito il rinvio alimenta il dubbio”
intervista di T Ci.


ROMA «Non capisco perché Renzi voglia procrastinare a fine febbraio la decisione di cancellare quel tetto del 3%. Procedere invece in occasione del primo consiglio dei ministri, senza aspettare l’elezione del nuovo capo dello Stato, sarebbe una scelta pulita e fuori da ogni discussione, ambiguità o allusione». Il presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano (Pd) non ha dubbi, Palazzo Chigi deve chiudere la partita della norma salva-Silvio prima della sfida per il Quirinale.
La “manina” è di Renzi. Così ha ammesso il premier. Sorpreso?
«Renzi si è assunto la responsabilità. Ha tagliato la testa al toro per porre fine alla polemica. Che la manina sia effettivamente la sua, poi, questo non è dato saperlo. Ma di certo una manina di Palazzo Chigi c’è stata, visto che la norma si chiama 19 bis, non 19 o 20: un’aggiunta c’è stata di sicuro».
Rimandare le modifiche rischia di influenzare l’elezione del nuovo Presidente?
«Alimenta il dubbio piuttosto che chiarire l’equivoco ».
Pensa che il codicillo faccia parte del patto del Nazareno?
«Non penso a nessuna merce di scambio, piuttosto credo che si tratti di un errore a cui bisogna porre rimedio. E il premier sbaglia a non farlo subito».
Occorre una riunione ad hoc per discutere di questo contestato decreto fiscale?
«Oggi abbiamo discusso delle riforme costituzionali. A causa della vicenda francese, il premier ha giustamente dovuto lasciare la riunione prima della fine. Ecco, è giusto riprendere il dibattito e allargarlo anche agli altri punti politici».
Anche ai decreti attuativi del Jobs act?
«Certamente, perché sono necessarie alcune modifiche. Abbiamo impedito che nei decreti ci fosse l’opting-out e l’aberrazione del licenziamento per scarso rendimento. Non abbiamo evitato, però, i licenziamenti collettivi. Prevederli rappresenta un eccesso di delega e forse solleva un problema di costituzionalità. Il fatto che si introduca più libertà nei licenziamenti collettivi - in un momento di crisi e con questi dati sulla disoccupazione - certo non rasserena il clima sociale». ( t. ci.)

Repubblica 8.1.15
Ora per il Colle Renzi deve trattare con la minoranza del suo partito
Berlusconi resta il suo principale alleato, ma il caso Salva-Silvio porta il premier a un’intesa prima con i dem
di Stefano Folli


LA tragedia di Parigi distoglie per un giorno l’attenzione dalle incertezze domestiche. Ma le questioni aperte restano sul tavolo, nel nesso inestricabile fra riforma elettorale e Quirinale. È lo psicodramma destinato ad accompagnare gli italiani lungo questo mese e oltre, ma che diventerà tale soprattutto dal 15 gennaio, giorno in cui Napolitano potrebbe cessare dalle sue funzioni istituzionali. La novità di ieri rappresenta un punto di vantaggio per il presidente del Consiglio: al Senato si è cominciato a discutere la legge elettorale e le questioni pregiudiziali sui requisiti di costituzionalità sono state respinte anche con il voto di Forza Italia. È un segnale positivo per Renzi, insieme all’altro: aver accettato che la legge entri in vigore solo nel 2016 ha placato la Lega, l’Ncd, il partito berlusconiano. In un certo senso Salvini è il miglior alleato del premier sulla riforma. Per una semplice ragione: il premio di maggioranza alla lista piuttosto che alla coalizione, cavallo di battaglia renziano, calza a pennello al Carroccio che non ha alcuna intenzione di allearsi con Berlusconi alle prossime elezioni.
Di conseguenza la posizione favorevole al premio di coalizione viene indebolita, forse sbaragliata. All’interno di Forza Italia è la linea di Brunetta, ma tutto lascia pensare che il capogruppo sia in minoranza. Berlusconi solleverà un po’ di polvere, ma nella sostanza aiuterà Renzi ad approvare la riforma: e anche in tempi rapidi. Il fatto che i leghisti si siano del tutto affrancati e marcino in autonomia finirà per determinare un maggiore allineamento di Berlusconi a Renzi, condizione di cui peraltro pochi dubitano.
Tutto questo vuol dire che il capo di Forza Italia non ha ovviamente alcun desiderio di allentare il rapporto politico con il presidente del Consiglio. C’è stato, sì, l’incidente del decreto fiscale, ma la promessa di Palazzo Chigi è di ripresentarlo alla fine di febbraio. E in ogni caso Renzi resta per Berlusconi il miglior interlocutore possibile: per nulla al mondo intende farne a meno e poi ritrovarsi alle prese con la vecchia sinistra (soprattutto pensando al futuro delle sue aziende). Al tempo stesso il premier spiega al suo partito, perplesso e anzi sbigottito di fronte alla vicenda del «salva Silvio», che sul piano politico l’anziano avversario sarà sempre più irrilevante. La strategia renziana è quella di concedergli qualcosa, ma di privarlo di qualsiasi ruolo che non sia subordinato.
Ne derivano due conseguenze. Primo, Berlusconi resta il vero alleato di Renzi per la legge elettorale e soprattutto per eleggere il capo dello Stato. C’è da capire quanti voti del centrodestra si disperderanno, ma al fondo il presidente del Consiglio può contare sulla sponda berlusconiana per definire un candidato al Quirinale che sia gradito a entrambi. Secondo effetto, l’ostacolo che divide il premier da un evidente successo si annida ancora nel Pd. È qui che le vicende degli ultimi giorni, relative al mezzo condono fiscale, provocano le ricadute politiche più significative. Il danno d’immagine per Renzi è grave ed evidente. Ma resta da capire se il malcontento darà luogo a una fronda significativa contro la legge elettorale, oppure se avremo solo singoli dissidenti.
Sulla carta i non-renziani del Pd sono in grado di farsi sentire nell’elezione del presidente della Repubblica. E logica vorrebbe che Renzi trattasse con loro una strategia e anche una candidatura. La ferita del 2013 pesa e nella vecchia politica si ripartirebbe da quei 101 franchi tiratori anti-Prodi che costituiscono una ferita aperta nel vissuto del partito. Si cercherebbe di sanare il «vulnus» con un atto di riparazione. Renzi avrebbe tutto l’interesse a gestire una vera riconciliazione interna, prima di affidarsi ai voti del centrodestra. Lo farà? Per ora il dubbio rimane, ma sarà risolto presto: quando il Pd, ispirato dal suo segretario, dovrà individuare il candidato al Quirinale. Cioè il momento della verità.

il Fatto 8.1.15
Benvenuti tra noi
Anche a “Repubblica” sorge un sospetto

Il testo che segueè parte di un editoriale pubblicato da un importante giornale italiano, ieri. E non è Il Fatto Quotidiano: “Il problema non sono i dubbi o i sospetti. La vera questione sono gli interrogativi senza risposta che alimentano quei dubbi e quei sospetti. Le forme con cui il decreto fiscale è stato approvato e il suo contenuto stanno lasciando sul terreno troppe risposte inevase. Troppe le eccezioni e troppe le opacità. A cominciare da quella soglia del tre per cento che – se fosse confermata – di fatto concederebbe a Silvio Berlusconi di aggirare la legge Severino e tornare alla politica attiva. Anche ieri il presidente del Consiglio ha fatto poco per diradare le nubi. Da quattro giorni non si riesce a capire chi ha deciso di inserire quella norma e chi l’ha concretamente scritta. Un classico balletto dello scaricabarile che soprattutto tra sabato e domenica ha reso la vicenda ancor più nebulosa”. L’autore è Claudio Tito, capo del servizio politico di Repubblica, che viene accolto con soddisfazione tra quelli che s’accorgono che Renzi non è il Nazareno, ma il contraente del Patto del Nazareno con l’ex Cavaliere.
l’articolo di Claudio Tito citato è integralmente su “Segnalazioni” alla data di ieri

il Fatto 8.1.15
Il magistrato Rodolfo Sabelli (Anm)
La Salva B.? “Norma ingiusta e retroattiva”
di Luca De Carolis


Io non mi esprimo sulle ragioni che hanno portato a questa norma. Dico che così com’è scritta è ingiusta, e quindi non andrebbe applicata: a nessuno”. Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, schiva le domande sul movente politico dell’articolo “salva Berlusconi”, quel 19-bis spuntato nel decreto sui reati fiscali che cancellerebbe la condanna del capo di Forza Italia per frode fiscale. Ma sul merito Sabelli ha molto da dire.
Presidente, un’altra norma ad personam...
Le considerazioni di carattere politico non riguardano me e l’Anm: siamo magistrati, discutiamo degli aspetti giuridici.
Ripartiamo proprio dal merito: questo articolo ha valenza retroattiva, cioè cancella condanne già passate in giudicato?
A mio parere sì. L’articolo 2 del codice penale prevede, in linea generale, che la norma successiva più favorevole sia retroattiva. E in particolare, il comma 2 recita: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
Tradotto, Berlusconi se la caverebbe perché la cifra che ha evaso è sotto la soglia del 3 per cento del reddito imponibile, e quindi non più punibile a livello penale in base al 19-bis.
Non mi esprimo sul caso specifico. Ricordo solo che la soglia del 3 per cento introdotta dal 19-bis riguarda tutti i reati fiscali previsti dal decreto. Quindi, secondo la mia interpretazione, questa modifica travolgerebbe anche le sentenze passate in giudicato.
In che modo?
Tramite un incidente di esecuzione, che porterebbe alla revoca della condanna per abrogazione del reato.
Quale è il giudizio complessivo dell’Anm sulla norma?
Ci appare ingiusta, per molte ragioni. Innanzitutto proprio per la sua portata, perché si applica a tutti i reati fiscali contemplati dal decreto legislativo: quindi non colpisce solo l’omessa dichiarazione o quella infedele, ma anche le frodi e le fatture per operazioni inesistenti. E questo può portare a effetti a catena.
Ossia?
Determinati illeciti sono reati sintomo. Per capirci, la falsa fatturazione è uno degli strumenti tipici per creare fondi neri, utili per tutti gli impieghi che si possono immaginare, a prescindere dai reati di natura tributaria.
Quindi indagando sulle false fatture...
Si può arrivare a casi di corruzione. O a reati societari come la bancarotta fraudolenta.
Si è parlato molto del 19-bis anche come di una norma favorevole per gli evasori ricchi.
Certamente un altro aspetto problematico è l’assenza di una soglia massima. L’unica è il 3 per cento dell’imponibile: quindi maggiore è il reddito, maggiore può essere il valore dell’evasione.
Renzi ha ventilato modifiche, come l’esclusione della frode fiscale dai reati previsti e l’abbassamento della soglia.
Non voglio dare indicazioni o suggerimenti al governo. E giudico sempre le sue norme nel suo complesso. Vedremo.

il Fatto 8.1.15
Tutte le balle del governo sulla norma salva-evasori
Il testo non è pubblicato sul sito dell’esecutivo
Delrio e il premier dicono che c’è stata discussione, ma il decreto è piovuto dall’alto già pronto
di Stefano Feltri


A quasi due settimane dal Consiglio dei ministri del 24 dicembre, il governo continua ad aggrovigliarsi in versioni contrastanti: come è possibile che una norma uscita dalla commissione di esperti del Tesoro come stangata anti-evasione sia diventata il più colossale regalo ai professionisti della frode fiscale? Nessuna sanzione penale a chi imbroglia di proposito il fisco per somme fino al 3 per cento del fatturato, con il politicamente rilevante effetto collaterale di neutralizzare (o almeno indebolire) gli effetti della legge Severino che rendono incandidabile Silvio Berlusconi, condannato in Cassazione proprio per frode fiscale.
Il testo nascosto (per vergogna?)
La prima bugia è già sul sito go  verno.it : nel comunicato del Consiglio dei ministri del 24 dicembre si legge che “il Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Economia e Finanze, Pietro Carlo Padoan (sic, con refuso), ha approvato in via preliminare il decreto legislativo sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente” e che “il testo è pubblicato sul sito del governo”. Due falsità in poche righe: il premier ha ribadito anche ieri che il decreto nella sua versione finale è opera di Palazzo Chigi, non del ministero del Tesoro. E il testo è scomparso dal sito del governo, dove è rimasto finché il Fatto Quotidiano non ha denunciato la norma. Ora è intro  vabile. Comesebastassecancel  lare un decreto dal sito per farlo decadere. Dovrà esserci un altro Consiglio per ritirarlo e poi emanarne una nuova versione.
Rivendicare la manina presidenziale
“La manina è la mia”, ha detto ieri Matteo Renzi ai parlamentari Pd, per chiudere le polemiche. In realtà dovrebbe aprirle, perché la procedura usata dal premier è così irrituale da meritare da sola una spiegazione. La commissione di esperti del Tesoro guidata da Franco Gallo, ex presidente della Consulta, produce un testo di cui poi Renzi si appropria. Lo riconsegna ai ministri stravolto seguendo la corsia preferenziale dei documenti “fuori circuito”. Che non passano cioè dal pre-consiglio dei ministri riservato agli sherpa ministeriali. Non è neppure certo che la salva-Berlusconi sia stata elaborata dal Dagl, il dipartimento degli affari legali guidato dalla super-renziana Antonella Manzione. E allora chi ha materialmente scritto il testo? Renzi è forte di una laurea in giurisprudenza presa una ventina di anni fa, non risulta abbia competenze o velleità di tecnico della legislazione. Chi ha partorito una modifica che, con una spericolata capriola giuridica, poteva salvare Berlusconi da una condanna definitiva? Visto che il percorso della norma non è tracciabile, resterà il sospetto che si sia verificato quanto accade spesso nelle notti frenetiche delle commissioni parlamentari: che i beneficiari della norma se la scrivono da soli passandola poi a deputati amici compiacenti.
Gli equilibrismi di Delrio, smentito anche dal capo
Cercando di fare da scudo al governo, Renzi ha sbugiardato la versione che da giorni stava raccontando il suo sottosegretario Graziano Delrio, che gestisce le riunioni del Consiglio dei ministri. “I testi che escono dal Cdm sono collegiali: entrano in una maniera, ne escono trasformati, altrimenti non ci sarebbe bisogno di fare i consigli dei ministri. Talmente ovvio che è perfino difficile da spiegare, non c'è nessuna manina come ha detto in maniera chiara il ministro Padoan”, ripeteva ancora ieri mattina l’ex sindaco di Reggio Emilia. Una versione che serve a tenere compatto il governo, ma palesemente falsa. Il testo del decreto è entrato in Consiglio dei ministri con già la misura salva-evasori e lì, nella riunione, non è stato discusso, come confermano diversi ministri che però non vogliono esporsi pubblicamente. Il decreto ha saltato tutti i passaggi in cui avvengono le “decisioni collegiali” ed è atterrato sui tavoli dei ministri come opera diretta del capo del governo. Comprensibile, quindi, che nessuno abbia avuto una gran voglia di contestarlo.
Il legame col Quirinale e il patto del Nazareno
“Noi cambiamo il fisco per gli italiani, non per Berlusconi. Senza fare sconti a nessuno, nemmeno a Berlusconi, che sconterà la sua pena fino all’ultimo giorno”, ha detto due giorni fa Renzi. Ma il decreto non incideva sulla “pena” di Berlusconi (i servizi sociali che scadono il 15 febbraio), bensì sulle conseguenze non penali previste dalla legge Severino (l’incandidabilità). E il legame con Berlusconi e la partita del Colle lo conferma lo stesso premier: “Per evitare polemiche – sia per il Quirinale, che per le riforme – ho pensato più opportuno togliere di mezzo ogni discussione e inserire anche questo decreto nel pacchetto riforme fiscali del 20 febbraio”. Una scelta tutta politica: se il punto era modificare il decreto, bastava mandarlo alle commissioni competenti in Parlamento, recepire le loro valutazioni non vincolanti e adeguarlo. Invece Renzi lascia intravedere a Berlusconi la salvezza politica e poi gli promette che del tema si discuterà dopo l’elezione del capo dello Stato. Durante la quale Forza Italia è decisiva per il progetto renziano di eleggere un presidente al primo scrutinio con la maggioranza dei due terzi.

il Fatto 8.1.15
Il libera tutti
Quelli che aspettano il condono
di Carlo Di Foggia


La lista è così lunga che si fa prima a dire chi non c'è. S'intende quella dei potenziali graziati dalle norme contenute nel contestato decreto fiscale, quello che che avrebbe salvato Silvio Berlusconi, e non solo. L'ambito di applicazione della famosa soglia del 3% del reddito imponibile dichiarato (sotto la quale si può evadere e frodare il fisco senza rischiare il carcere) è vasto, e il combinato disposto con i cavilli infilati all'ultimo ne allargano ulteriormente le maglie. È un esercizio matematico difficile, ma il possibile risultato sono decine di nomi finiti in inchieste e processi eccellenti. I reati sono gli stessi contestati, per dire, a Sergio Scarpellini, immobiliarista noto perché padrone di casa di molti enti pubblici e istituzioni: omesso versamento iva. C'è poi l'indagine sulla famiglia Angelucci, i re delle cliniche romane: tra il 2007 e il 2009 sarebbero stati indicati elementi passivi fittizi per milioni di euro, mentre nel 2008 fatture per operazioni inesistenti per 733 mila euro.
IL COMMA 4 inserito nell'articolo 4 del decreto fiscale, punisce soprattutto chi elude il Fisco con operazioni di finanza strutturata, come i derivati ma anche inserendo elementi passivi fittizi. Articolo svuotato da un comma aggiunto alla fine (da Palazzo Chigi): vengono esclusi “flussi finanziari nelle scritture contabili obbligatorie”. È il caso degli Angelucci. Ma è soprattutto una norma salva banche perché rende inapplicabile la frode. Basta annotare tutto nei bilanci, come hanno fatto diversi istituti di credito in passato temendo un'azione penale: verrebbero graziati gli ex ad di Unicredit, Alessandro Profumo e Banca Intesa, Corrado Passera. Il caso di Profumo è più complesso. Nel giugno scorso la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio del manager, in merito alla cosiddetta “operazione Brontos”: 245 milioni che tra il 2007 e il 2008 sarebbero stati sottratti al Fisco con operazioni di finanza strutturata. Stando agli utili e al fatturato la vicenda processuale potrebbe rientrare anche nella famosa norma pro Berlusconi (quella del 3%).
I pm indicano anche il processo al patron dell'Ilva Emilio Riva – morto nell'aprile scorso – e due ex dirigenti del gruppo in relazione a una maxi evasione da 52 milioni. Salterebbe poi la condanna in primo grado per false fatturazioni all'ex ad di Fin-meccanica, Giuseppe Orsi e al numero uno di Agusta Westland, Bruno Spagnolini. Fin-meccanica verrebbe coinvolta dai ritocchi apportati da Palazzo Chigi al decreto anche in relazione all'inchiesta su fondi neri e tangenti per gli appalti del Sistri che ha portato a processo l’ex presidente Pier Francesco Guarguaglini. Le norme, però, avrebbero avuto un impatto soprattutto per il futuro, lasciando mano libera ai vertici dei grandi gruppi bancari e industriali, liberi dal timore di azioni penali, azzerando centinaia di accertamenti grazie alla cancellazione del raddoppio dei termini.
“Una norma che la Ragioneria avrebbe bocciato, perchè provocherebbe un buco di 10-15 miliardi all’Erario”, racconta chi ha seguiti l'iter del procedimento. Cifra che secondo un documento dell'Agenzia delle Entrate rivelato da Libero non sarebbe inferiore ai 16 miliardi. Sempre Libero ha rivelato altri nomi: Francantonio Genovese, Ras di Messina ed ex compagnio di partito di Renzi, arrestato per reati fiscali. E poi anche Lele Mora e Fabrizio Corona - almeno sul fronte dei reati tributari – e probabilmente anche il presidente di Ibm Italia, Nicola Ciniero (frode fiscale), e l'imprenditore varesino Gianfranco Castiglioni, fondatore del gruppo Cagiva (frode da 63 milioni). E via elencando.

il Fatto 8.1.15
Nessuna soglia
In Germania e Stati Uniti chi fa il furbo va in galera


CON UN INTERVENTO su alcuni quotidiani locali, ieri il pm di Trento Pasquale Profiti ha parlato dell'allargarsi di uno “spread di legalità tra noi e i paesi economicamente sviluppati”. Una metafora calzante dal momento che, nel giro del mondo alla ricerca dei delitti e delle pene per l'evasione fiscale, il decreto “Salva Berlusconi”, che cerca di alzare al 3% la soglia di non punibilità, si pone in netto contrasto. In Germania non è riconosciuta alcuna soglia e si è perseguibili a qualsiasi livello di evasione, che ci sia il dolo eventuale o che si tratti di omessa o fallace dichiarazione. Si rischiano comunque sanzioni e il carcere da 1 a 5 anni. E mentre in Italia rischierebbe il carcere solo chi evade più di 150.000 euro, nella terra della Merkel 50.000 euro di evasione sono considerati un caso “large scale”, su larga scala. Altro confronto per contrasto è quello con gli Stati Uniti dove “qualsiasi persona che tenti volontariamente, in qualsiasi modo, di eludere o aggirare qualsiasi tassa imposta, è colpevole di un crimine. Multato fino a 100.00 dollari (500.000 per le società) o condannato al carcere fino a 5 anni

il Fatto 8.1.15
Italicum, gli emendamenti sono 18 mila
di Sara Nicoli


Poche certezze, ancora ieri, alla partenza della discussione dell’Italicum in Senato che, secondo i piani di Renzi, dovrebbe essere approvato entro la fine del mese, prima della nomina del nuovo capo dello Stato. Si sa, per ora, che il provvedimento è gravato da oltre 18 mila emendamenti, difficilmente eliminabili con la tecnica parlamentare del canguro (voto che elimina i simili tra loro), che la Lega e Forza Italia hanno abbassato gli scudi dopo che il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, ha ufficializzato che il governo è favorevole a una clausola di salvaguardia all’Italicum che lo farà entrare in vigore nel 2016. Ma non è detta l’ultima parola, anzi. Il terreno resta accidentato. Stamattina la capigruppo del Senato deciderà come proseguire i lavori dopo la discussione generale (hanno parlato in 84, un record), ma già si agitano i pallottolieri su più punti. E si calcola che la fronda che potrebbe cercare di portare l’assalto all’Italicum, rallentandone i tempi e balcanizzando l’aula, può contare, oggi, su circa 140 senatori. Numero che esce dalla sommatoria dei 5Stelle (39), dissidenti Pd (35 secondo i rumor di Transatlantico) e dissidenti Fi (30), ai quali si possono sommare anche i 15 senatori della Lega Nord, solo in apparenza sopiti, 8 del Movimento per le Autonomie e almeno 12 del gruppo Misto ancora indecisi; una cifra decisamente alta. Che ha allarmato Renzi. Ieri, non a caso, a Palazzo Chigi sono arrivati in mattinata il capogruppo Pd Zanda, la Finocchiaro, presidente dell’Affari costituzionali e il ministro Boschi; l’accordo generale, infatti, ancora non c’è. Forza Italia non vuole né dell’abbassamento della soglia per l’ingresso alla Camera al 3% né, soprattutto, il premio di maggioranza alla lista invece che alla coalizione. E se in passato Berlusconi si era mostrato possibilista, ora con l’affondamento del “salva Silvio” la situazione appare assai più delicata. “Chiediamo al governo di ritirare questo testo – ha detto ieri Brunetta – perché noi non lo voteremo. E se non lo votiamo salta il patto del Nazareno”. La priorità del governo è blindare le modifiche il più possibile, ovvero il premio di maggioranza alla lista (e non più alla coalizione ), ballottaggio nazionale tra le prime due liste che scatta al di sotto del 40% (e non più al di sotto del 37%), abbassamento delle soglie al 3% per tutti i partiti (invece che al 4,5% per chi si coalizza e all’8% per chi non si coalizza) e introduzione dei capilista bloccati con doppia preferenza (di genere) dal secondo in lista in giù. Si vuole chiudere possibilmente entro il 22-23, data dell’incontro bilaterale tra Renzi e la Merkel a Firenze, ma oggi appare una chimera. Il terzo e ultimo passaggio alla Camera dell’Italicum, se tutto andrà liscio, sarà in discesa, considerando la forte maggioranza di cui gode il Pd a Montecitorio. Ma a quel momento bisogna arrivarci. E la strada oggi appare più in salita che mai.

il Fatto 8.1.15
Metodo Matteo: le leggi se le scrive da solo (e male)
di Wanda Marra


La riforma del lavoro è il penultimo esempio (l’ultimo è la delega fiscale) del metodo Renzi di fare le leggi. Un metodo che ha svuotato di ruolo e potere le sedi deputate. Per restare all’esempio del lavoro: il governo ad aprile 2014 vara la legge delega. Il Parlamento approva a dicembre. Con fiducia: il che vuol dire consegnare all’esecutivo una delega, appunto, praticamente in bianco per scrivere i decreti attuativi, quelli che danno contenuto alla riforma. Il Cdm della vigilia di Natale li fa e li approva. Ma c’è un punto – non esattamente secondario – quello sugli statali, che non viene chiarito: rimandato al Parlamento. O meglio alle future trattative politiche.
LA PRASSI è questa, dall’inizio. Il decreto sulla riforma della Pa, approvato dal Consiglio dei ministri il 12 giugno, arrivò al Quirinale 12 giorni dopo, il 24 giugno. Sdoppiato. Perché quello uscito dal Cdm era un testo “monstre”, un brogliaccio, fatto di norme giustapposte. In quel caso, Napolitano spiegò al giovane premier che le leggi non si possono fare così. Monito ribadito il 16 dicembre (parlando dell’ “abuso della decretazione d’urgenza”, e del “ricorso – per la conversione dei decreti – a voti di fiducia su abnormi ma-xi-emendamenti, ”), nel discorso alle alte cariche dello Stato per il resto iper-renziano. Ma il presidente del Consiglio va per la sua strada. Per dire, nella notte del 19 dicembre si fa approvare dal Senato la legge di stabilità (ovviamente con fiducia), con alcune parti direttamente in bianco. Confusione, imperizia, eccessiva velocità, mancanza di controllo delle strutture dei ministeri? In parte, ma di certo non solo. Perché Renzi ha reso prassi consolidata e portata alle sue potenzialità estreme l’abitudine di approvare le leggi “salvo intese”. Il che vuol dire che post Cdm si può intervenire di nuovo e inserire qualsiasi cosa come (sembra) sia successo con la delega fiscale. Lasciando un terreno di opacità su chi ha davvero voluto una cosa. Nei vari brogliacci di legge modificati in corsa in questi mesi è entrato di tutto: norme con sospetta incostituzionalità, favori all’una o all’altra lobby. Alcune cose sono state tolte successivamente, altre sono rimaste. Tra la conferenza stampa in cui lo stesso premier annuncia le misure e le misure effettivamente varate di tempo ne passa: e così è molto difficile per l’opinione pubblica distinguere tra promesse e realtà.
NEL FRATTEMPO, la verticalizzazione delle decisioni diventa massima. Perché il Parlamento, tra una fiducia e l’altra, è di fatto espropriato. E il Consiglio dei ministri ratifica spesso cose sulle quali non ha l’ultima parola. Affidata a chi, invece, le leggi poi le stende materialmente: il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi, guidato da Antonella Manzione. La fedelissima ex vigilessa di Firenze, che Renzi ha voluto ad ogni costo a Palazzo Chigi, nonostante la bocciatura della Corte dei Conti. Che ha il compito di eseguire materialmente le direttive del Capo. Ovvero tradurre in leggi le sue intenzioni. Alla fine, insomma, chi decide? Matteo Renzi.

Corriere 8.1.15
Disoccupazione
Crescono gli «under 25» che hanno perso o cercano un impiego. L’Istat: tasso record al 43,9% In Germania livello generale al minimo storico, pari al 6,5%. In Italia a novembre era del 13,4%
di Francesco Di Frischia


ROMA La disoccupazione, che continua a dilagare tra i giovani, fa segnare dal 1977 un nuovo record negativo in Italia. In Germania, invece, è la metà di quella nello Stivale. Sindacati e partiti di opposizione criticano le politiche del governo. Non la pensa così il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che, pur preoccupato per gli under 25, invita ad aspettare le ricadute di Jobs act e legge di Stabilità: «Solo nei prossimi mesi si potranno vedere gli effetti delle riforme». Stessa opinione dal premier, Matteo Renzi, e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
Intanto l’Istat rivela che il tasso di disoccupazione a novembre 2014 sale ancora, raggiungendo il 13,4%, in aumento (+0,2%) rispetto ad ottobre: si tratta del massimo storico dall’inizio sia delle serie mensili (gennaio 2004), sia delle trimestrali (37 anni fa). Complessivamente i disoccupati a novembre sono 3 milioni e 457 mila, cioè 40 mila in più rispetto a ottobre e 264 mila in più su base annua. Nello scorso mese gli occupati erano 22 milioni e 310 mila, ma in diminuzione dello 0,2% sia rispetto a ottobre 2014 (-48 mila) sia su base annua (-42 mila). Dolenti note pure dal tasso di disoccupazione tra i giovani (da 15 a 24 anni) a novembre 2014 balza al 43,9%, in rialzo (+0,6%) su ottobre. Anche in questo caso si tratta del valore più alto mai registrato. Secondo l’Istat sono in cerca di lavoro ben 729 mila under 25. Unico dato positivo: il tasso di inattivi (da 15 a 64 anni) che resta fermo al minimo storico del 35,7%. In un anno sono diminuiti di 312 mila unità.
La tendenza degli ultimi mesi sembra quindi associare a un calo dell’inattività e dell’occupazione, un aumento della disoccupazione.
Tutto un altro clima, invece, in Germania, dove la percentuale di chi non ha un lavoro scende al minimo storico (6,5%). Situazione sotto controllo anche in Europa: la disoccupazione è stabile, con un tasso a novembre dell’11,5% nell’Eurozona (18 Stati, la Lituania il 19°, è intrata l'1 gennaio 2015) e del 10% nell’Ue (28 Stati).
Tra chi critica l’esecutivo, il senatore M5S Nicola Morra scrive sul blog di Beppe Grillo: «Mentre 3 milioni e mezzo di italiani sono senza lavoro, il governo Renzi presenta una riforma che faciliterà altri licenziamenti». Maurizio Sacconi (Area popolare) chiede «più coraggio per invertire la tendenza in atto». E Giorgia Meloni (Fdi-An) invita la politica a «occuparsi dei veri problemi dell’Italia». Più dura Serena Sorrentino (Cgil): «Il governo non è in grado di rilanciare la crescita perché non punta sulla creazione di lavoro». Filippo Taddei (Pd) replica: «I dati confermano l’urgenza delle riforme». E il ministro Poletti aggiunge: «Il numero assoluto degli occupati tra i 15 e i 24 anni rimane stabile rispetto ai mesi precedenti, mentre il tasso di disoccupazione generale viene influenzato dal costante aumento degli inattivi che cercano lavoro: il loro numero infatti a novembre è il più basso degli ultimi due anni».

Repubblica 8.1.15
Europa in deflazione in Italia record storico della disoccupazione
Eurostat certifica un calo dello 0,2% a dicembre Un giovane sotto i 25 anni su due è senza lavoro
di Luisa Grion


ROMA L’Europa è in deflazione; in Italia i prezzi sono stagnanti, ma la disoccupazione raggiunge livelli da record. I senza lavoro - secondo i dati Istat di novembre - hanno raggiunto quota 3 milioni 457 mila, con un tasso che non si vedeva dai trimestri del 1977 (il 13,4 per cento) e che ha raggiunto, fra i più giovani, l’imbarazzante tetto del 43,9 per cento. Nell’area dell’euro lo scorso dicembre, secondo le stime preliminari di Eurostat, i prezzi sono scesi dello 0,2 per cento rispetto allo stesso mese del 2013 (a novembre era più 0,3). Non succedeva dal 2009, ma la Commissione europea non vuole ancora parlare di deflazione (quel calo generalizzato dei prezzi che si autoalimenta perché si rimandano gli acquisti in attesa di listini ancora più bassi). Preferisce vedere in questa tendenza un «dato temporaneamente negativo» che proseguirà nel breve periodo, ma invertirà la rotta con la ripresa. A determinare la caduta dei prezzi europei è stato il crollo del costo dell’energia (meno 6,3 per cento) e del petrolio particolare. Voce che ha causato anche la variazione zero dell’Italia e il suo tasso medio annuo d’inflazione per il 2014: 0,2 per cento contro l’1,2 del 2013. Un livello così basso non si vedeva dal 1959, cinquantacinque anni fa. «Ora è più probabile che le conseguenze positive della caduta del greggio per i redditi dei Paesi importatori di petrolio, come l’Italia, siano contrastate, se non del tutto annullate, da quelle negative indotte dalla deflazione», commenta Sergio De Nardis di Nomisma. Ferma sui prezzi, l’Italia peggiora ancora i suoi dati sul fronte del lavoro. Fra gli under 25 in cerca di occupazione il 43,9 per cento non lo trova: lo 0,6 per cento in più sul mese precedente, il 2,4 rispetto ad un anno fa. Un esercito di 729 mila ragazzi a spasso. Calano anche gli occupati totali: 22 milioni e 310 mila, ovvero 42 mila in meno rispetto al novembre 2013. Ed è a questo tasso di disoccupazione, arrivato ormai al 13,4 per cento (11,5 nell’Eurozona con una Germania al 6,5 per cento) che dovrà rivolgersi il Jobs Act del governo Renzi. «Vedremo i suoi effetti solo nei prossimi mesi», assicura il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. «Sono dati drammatici commenta però Cesare Damiano, sempre del Pd pensare di rendere i licenziamenti più facili è cosa abnorme: ci batteremo per cambiare ulteriormente i decreti sul Jobs Act e cancellare la norma sui licenziamenti collettivi».

il Fatto 8.1.15
Disoccupati, l’ottimismo renziano non produce effetti
I senza lavoro al 13,4%, è record
Giovani under 24 senza lavoro al 43,9%
L’Europa scopre la deflazione da petrolio
di Stefano Feltri


La notizia cattiva, la deflazione, è meno brutta di come sembra. E il dato sulla disoccupazione, in cui qualcuno potrebbe vedere segnali positivi, deve preoccupare. Partiamo dalla deflazione, cioè dai prezzi che scendono nella zona euro, segnale che la ripresa non c’è, che le famiglie rimandano i consumi e le imprese gli investimenti: Eurostat, l’agenzia fiscale dell’Unione europea, comunica che a dicembre 2014 i prezzi sono scesi dello 0,2 per cento su base annua, mentre a novembre salivano, seppure di poco, dello 0,3 per cento. È la temuta deflazione che non si vedeva dal 2009, l’anno in cui l’economia reale europea subì il contraccolpo del disastro finanziario americano e del crac della banca Lehman Brothers.
SE PERÒ SI GUARDANO gli altri indici, il quadro si ridimensiona parecchio e si capisce che l’ingresso nella deflazione dipende esclusivamente dal calo del prezzo del petrolio, arrivato ieri a 48 dollari al barile. L’indice che esclude l’energia, registra prezzi in crescita dello 0,6 per cento, se si escludono dal calcolo anche altri settori che tendono a drogare un po’ il dato complessivo (cibo, alcol, tabacco e cibo non lavorato) l’aumento è tra lo 0,6 e lo 0,7 per cento. Che è poco, ma quasi un punto più di quanto risulta dall’indice generale HICP. Insomma: la deflazione deriva dall’energia bassa ed è quindi una deflazione “migliore” rispetto a quella che è tutta colpa del rallentamento dell’attività economica.
L’economista di Unicredit Marco Valli scrive nella sua nota: “Recenti commenti del presidente della Bce Mario Draghi e del capo economista Peter Praet indicano crescenti preoccupazioni che il calo del prezzo del petrolio (senza dubbio una buona notizia per l’attività economica) potrebbe portare a sviluppi indesiderati nella formazione delle aspettative di prezzo per imprese e famiglie”. Diventa quindi più probabile che nella riunione del 22 gennaio la Banca centrale europea lanci un programma di acquisto di titoli di Stato dei Paesi dell’euro per una cifra tra 500 milioni e un miliardo di euro. Un tentativo estremo di immettere liquidità nel sistema bancario per farlo arrivare all’economia reale e stimolare un’economia che resta asfittica. È ancora da capire come saranno ripartiti i benefici tra Paesi e chi si farà carico dei rischi (se la Bce da sola o ciascuna banca centrale nazionale).
LO SCOPO DELLA MOSSA di Draghi è usare le leve della politica monetaria per sbloccare la situazione dell’Eurozona che ha la sua conseguenza sociale più grave nell’aumento del numero dei disoccupati. Ieri l’Istat, l’istituto italiano di statistica, ha comunicato che il tasso di disoccupazione è arrivato a novembre 2014 al 13,4 per cento, nuovo record da quanto si raccolgono i dati su base mensile (1977). È in aumento dello 0,2 per cento sul mese precedente. È vero che si riducono anche gli inattivi, cioè quelli che aspettano passivamente senza neppure cercare lavoro. Ma le persone che si rimettono a caccia di un impiego (per ottimismo o perché hanno finito i risparmi) sono però 12mila, non bastano a spiegare i 40mila disoccupati in più che si registrano rispetto a ottobre. Molto pessimistica l’analisi dell’economista Paolo Mameli di Intesa Sanpaolo: “Il calo di 113 mila unità registrato dagli occupati negli ultimi due mesi conferma la nostra idea che i segnali di miglioramento dell’occupazione (quasi interamente a tempo determinato) visti nei mesi centrali dell’anno potessero essere dovuti agli effetti del decreto Po-letti di aprile che aveva reintrodotto maggiore flessibilità in entrata”. Quell’illusorio miglioramento “una tantum”, scrive l’economista di Intesa, “sembra già svanito e, poiché una ripresa congiunturale deve ancora materializzarsi, non è alle viste un miglioramento del mercato del lavoro”.
Anche il calo degli inattivi, che più volte Renzi ha indicato come il segnale che il mercato del lavoro si è rimesso in movimento, non va sopravvalutato perché “in questo momento sembra dovuto più ad accresciute necessità economiche che non a una attenuazione dell’effetto scoraggiamento”.
IL MINISTRO POLETTI ci tiene a precisare che “solo nei prossimi mesi si potranno vedere gli effetti delle misure della legge di stabilità e della riforma del mercato del lavoro”. Il momento della verità per un primo bilancio del Jobs Act sarà quello in cui l’Istat diffonderà i dati sull’occupazione nel mese di gennaio, il primo in cui si applicano gli incentivi alle assunzioni previsti dalla legge di stabilità. In Germania, invece, è al minimo storico: 6,5 per cento, sotto le attese degli analisti e meno della metà di quello italiano. La crisi dell’euro riassunta in due opposti.

il Fatto 8.1.15
Il pessimo tempismo del Jobs Act
I consulenti del lavoro: si applica anche agli statali
La sinistra Pd torna all’attacco


Il decreto delegato sul Jobs Act non è ancora arrivato nelle commissioni parlamentari competenti che già il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan cominciano a difendere le nuove norme dai colpi che arrivano dalla statistica, cioè dal tasso di disoccupazione record al 13,4 per cento. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti arriva perfino ad ammettere che è “ragionevole pensare” che l’attesa per il Jobs Act “abbia spinto molte imprese a rinviare le assunzioni”. Una confessione da tenere presente quando arriveranno i primi dati sugli effetti del pacchetto governativo (verso marzo) che quindi andranno corretti un po’ al ribasso.
I pessimi numeri sul mercato del lavoro hanno rivitalizzato la minoranza del Pd, pronta a usare il passaggio dalle commissioni parlamentari (parere obbligatorio ma non vincolante sui decreti delegati) per creare qualche problema all’esecutivo. Il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, dice che con questi dati occupazionali “diventa ancora più abnorme voler rendere più facili i licenziamenti, come vorrebbe la destra. Per questo ci batteremo per cambiare ulteriormente i decreti sul Jobs Act e cancellare la norma sui licenziamenti collettivi”. E Gianni Cuperlo, sempre della sinistra Pd, chiede una nuova riunione del partito per discutere, tra l’altro, anche i contenuti del decreto delegato.
A complicare il quadro ci si mette la Fondazione dei consulenti del lavoro che sostiene: “La circostanza che il decreto sulle tutele crescenti non prevede una specifica esclusione dei dipendenti pubblici consente la piena efficacia dell’art. 2 del testo unico per il pubblico impiego il quale opera un rinvio generale alle leggi sui rapporti di lavoro privati”. Cioè il contrario di quanto ha assicurato Matteo Renzi. Chissà se i giudici darebbero ragione al premier o ai consulenti.

il Fatto 8.1.15
Il mercato è di sinistra
Come Tsipras seduce il Financial Times


A volte gli opposti si toccano: il Financial Times dedica grande spazio a un’intervista a George Stathakis, il ministro ombra dello Sviluppo economico. Con un taglio tutt’altro che ostile. Anzi. Stathakis annuncia che il partito di sinistra Syriza guidato da Alexis Tsipras vuole “rendere la vita più facile per il business, aiutarli rimuovendo i problemi con la burocrazia di cui si lamentano” e promette di colpire gli “oligarchi”, liberalizzando settori oggi in mano a pochi amici della politica. Il quadro per il Financial Times non è poi così male: se il 25 gennaio Syriza conquisterà il governo, infliggerà le eventuali perdite sul debito alla troika (cioè le istituzioni europee e gli Stati, inclusa l’Italia, che le hanno finanziate) mentre per combattere lo sclerotizzato capitalismo di relazione locale userà la leva della concorrenza e della liberalizzazione. Al FT sono felici.

Corriere 8.1.15
Il grande gioco diplomatico tra Pechino e i talebani
di Guido Santevecchi


Una delegazione di alto livello dei talebani afghani è stata a Pechino per presentare le sue richieste in vista di un possibile negoziato con il nuovo governo di Kabul. Non è la prima volta che gli insorti talebani cercano un Paese neutrale per un dialogo (nel 2013 il tentativo, sostenuto dagli americani, era stato fatto in Qatar ed era fallito); ma è inedito che la grande Cina si impegni in una mediazione internazionale.
A riprova della serietà dell’iniziativa c’è la mancanza di riflettori sulla visita dei talebani, guidati da Qari Din Mohammad Hanif, che fu ministro nel regime islamico abbattuto nel 2001. La delegazione è stata a Pechino a novembre e solo ora emergono alcuni particolari. I talebani chiedono di essere cancellati dalla lista delle organizzazioni sottoposte a sanzioni, emendamenti alla costituzione di Kabul, la partecipazione al governo. Questi dettagli sono stati fatti filtrare da fonti di Kabul, fiduciose che la Cina possa offrire un teatro ideale per colloqui sulla riconciliazione nazionale; a Pechino prevale la linea del riserbo (e questo è positivo).
Molti segnali indicano che la Cina stia entrando nel Grande Gioco di Kabul, ora che la coalizione militare internazionale ha abbandonato il ruolo combattente in Afghanistan. A fine ottobre Pechino ha ricevuto con grandi onori Ashraf Ghani, il nuovo presidente afghano. Ghani ha detto a Xi Jinping che l’Afghanistan guarda alla Cina come partner strategico; il leader comunista gli ha risposto staccando un assegno da 320 milioni di dollari per progetti di cooperazione civile. Pechino guarda a Kabul con interesse e preoccupazione: si è aggiudicata da tempo importanti concessioni petrolifere e nelle miniere di rame dell’Afghanistan (riserve minerarie valutate in un trilione di dollari). La preoccupazione viene dal rischio di contagio estremista nel suo Xinjiang, che confina per una novantina di chilometri con l’Afghanistan. Due ottimi motivi per mediare.

Repubblica 8.1.15
Pianeti
Non siamo più soli, nello spazio altre otto Terre
Acqua, rocce, luce E una distanza dal loro sole compatibile con la vita Ecco come la sonda Keplero ha scoperto nuovi mondi
di Dennis Overbye


NEW YORK L’UNIVERSO è grande, ma è pieno di piccoli pianeti. Pochi giorni fa gli astronomi han no annunciato di aver scoperto otto nuovi pianeti orbitanti attorno alle loro stelle a distanze compatibili con la presenza di acqua allo stato liquido. Con questa scoperta il numero complessivo dei pianeti teoricamente abitabili nella zona abitabile circumstellare arriva a una decina o anche a una ventina, a seconda di come è definita la zona abitabile di una stella.
Keplero, la sonda spaziale della Nasa con telescopio, arrivata al suo quinto anno di ricerche delle ombre dei pianeti che orbitano attorno ad altre stelle, ne ha individuate a centinaia, e sempre più questi altri mondi assomigliano alla Terra: sono globi rocciosi di poco più grandi del nostro pianeta, che con la giusta dose di illuminazione stellare e di acqua potrebbero trasformarsi in veri e propri giardini di un Eden microbico. Gli ultimi sono stati individuati da un gruppo di ricercatori guidati da Guillermo Torres del Centro di Astrofisica dell’Harvard- Smithsonian. Un altro gruppo di astronomi aveva detto di essere riuscito a calcolare le dimensioni di un gruppo di piccoli pianeti, per densità e composizione pressoché identiche a quelle della Terra.
Keplero ha scoperto finora 4175 potenziali pianeti, e di 1004 di essi è stata confermata l’esistenza: lo ha dichiarato Michele Johnson, la portavoce del centro Ames di ricerca della Nasa che guida Keplero. La maggior parte di essi, tuttavia, compresi gli ultimi, si trova a centinaia di anni luce di distanza, troppi per uno studio dettagliato. Scoprire i pianeti della zona abitabile circumstellare più vicini alla Terra sarà il compito del Satellite di studio degli esopianeti (Transiting Exoplanet Survey Satellite), il cui lancio avverrà nel 2017. Se però vorremo conoscere con precisione come è il tempo su quei mondi, se ci sono forme di vita o l’acqua, saranno necessari strumenti molto più potenti.
Sara Seager è a capo di un gruppo di studio di specialisti della Nasa incaricati di approfondire il concetto di occultatore, che dovrebbe aleggiare di fronte a un telescopio spaziale bloccando la luce proveniente dalla stella e rendendo così visibili i pianeti meno distinguibili. Un altro gruppo di ricercatori, guidato da Karl Stapelfeldt del Centro Goddard Space Flight della NASA, sta studiando un metodo noto come coronografo, grazie al quale il disco occultatore è all’interno del telescopio. Entrambi questi studi si concluderanno nei prossimi mesi: grazie a essi potrebbero essere modificati i piani volti a realizzare l’ex telescopio spia promesso alla Nasa tre anni fa. Gli astronomi sperano di lanciarlo all’inizio degli anni 2020.
Malgrado le numerose scoperte di Keplero, l’esistenza di un pianeta come la Terra, che abbia le stesse dimensioni e che orbiti intorno al medesimo tipo di stella, non è stata ancora confermata. I più “terrestri” dei nuovi mondi sono due, Keplero 438b e Keplero 442b, orbitanti entrambi intorno a stelle leggermene più piccole, più fredde e più rosse del nostro Sole. Keplero 438b ha un diametro del 12 per cento più grande di quello della Terra, e un anno di 35 giorni. Kepler 442 è più grande della Terra di un terzo e ha un anno di 112 giorni. «Tutti questi sono pianeti piccoli e teoricamente sono tutti abitabili» ha detto Doug Caldwell del SETI Institute e NASA Ames. Tutti e cinque i pianeti più piccoli di 1,6 volte le dimensioni della Terra sono situati lungo una linea ideale che congiunge la Terra e Venere. I pianeti più grandi sono risultati essere più vaporosi, forse perché quando i pianeti diventano più grandi la loro massa e la loro gravità aumentano e sono meglio in grado di tenersi stretti gas e componenti più leggeri.
Questo lavoro integra e conferma studi effettuati l’anno scorso da Geoffrey Marcy e dai suoi colleghi all’Università della California a Berkeley, che studiano la natura delle cosiddette super- Terre, pianeti più grandi del nostro e più piccoli di Nettuno.
Nel nostro sistema solare non ci sono pianeti di questa grandezza, ma secondo Keplero nella galassia sarebbero comuni. Saranno rocciosi come la Terra o gassosi come Nettuno? Secondo Courtney Dressing, il numero magico parrebbe essere 1,6 volte le dimensioni della Terra: forse è su pianeti di queste dimensioni che la ricerca dovrebbe concentrarsi per trovare compagnia nel cosmo.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2015, The New York Times