venerdì 9 gennaio 2015

La Stampa 9.1.15
Italiani timidi nel difendere i nostri valori
di Vladimiro Zagrebelsky

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La Stampa 9.1.15
Checkpoint Charlie
di Massimo Gramellini
pagina a cura di Marco Castelnuovo

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La Stampa 9.1.15
Pensiero critico per andare contro gli estremismi
di Marco Belpoliti


Alla fine degli Anni Ottanta Salman Rushdie, scrittore angloindiano, riceve la fatwa, una condanna a morte, per via del suo romanzo «I versi satanici». La decreta Khomeini, leader religioso iraniano, per il trattamento irriguardoso nel romanzo riservato a suo dire al profeta Maometto. Rushdie, che nel libro ha fornito del capo spirituale e politico dell’Iran un ritratto ben poco lusinghiero, è costretto a nascondersi per due decenni protetto dai servizi segreti britannici. Quasi ventisei anni dopo un altro scrittore, il francese Michel Houellebecq, pubblica alla vigilia del sanguinoso massacro di Rue Nicolas Appert, un romanzo, «Sottomissione» (Bompiani), in cui descrive uno scenario completamente opposto. Non ci sono più due attori indiani che precipitano dal cielo, dopo un attentato terroristico all’aereo su cui volavano, bensì un raffinato intellettuale parigino che discetta di simbolismo e autori cattolici, e si dedica al sesso. Decide di convertirsi, ovvero di arrendersi all’Islam trionfante. Nella distopia architettata da Houellebecq la Francia è ora dominata dal partito della Fratellanza islamica, che ha vinto le elezioni, e il suo leader, Mohammed Ben Abbes, ha avuto i voti degli avversari del Front National ed ha istituito una repubblica islamica. Nella provocazione, intelligente e letterariamente accattivante dello scrittore francese, tutto si è rovesciato. Come si sa il suo romanzo ha anticipato di un giorno o poco più la vicenda dell’assalto al giornale satirico. Si tratta di qualcosa che con Jung si può chiamare «sincronicità»; qui la coincidenza tra l’immaginazione dell’arte e i fatti della vita. Il romanzo, pur non parlando di attentati a giornalisti e disegnatori, ha indicato uno dei temi che si celano dentro le ultime vicende che stanno insanguinando il Pianeta: l’eccesso. Da qualche tempo il fanatismo ha fatto ritorno sulla scena. Fanatico è uno che è ispirato, che è posseduto da una divinità o da un demone, che è colto da entusiasmi e compie atti eccessivi, fuori luogo. L’eccesso domina oggi molti campi. Uno psicoanalista inglese di grande talento, Adam Philipps, ha tenuto qualche anno fa alla Bbc cinque conversazioni sul tema dell’eccesso, in cui ha spiegato come abbracci diverse esperienze umane, dall’anoressia ai kamikaze, dal giocatore compulsivo al bambino che reclama attenzioni. Segna soprattutto i principali conflitti politici e religiosi oggi in atto, ed anche eccessive sono le sproporzioni economiche tra singoli individui, classi sociali e nazioni; ma anche sesso e violenza ne mostrano sempre nuove facce. Discorso difficile quello sull’eccesso, che Houellebecq condensa nel suo romanzo, perché, come dice Philipps, «niente è più eccessivo dei discorsi sull’eccesso». Quello che colpisce nella coincidenza di romanzo e attentato è questa comune radice, che in un caso, nello scrittore, assume le forme della distopia politico-sociale, e nell’assalto dei terroristi quella della ben più terribile e reale della strage di vite umane. L’eccesso è la libertà di uscire, dice Phillips. Da cosa? Dalle regole, prima di tutto, dalle giuste misure stabilite attraverso patti più o meno scritti in ogni società. L’eccesso è contagioso e permette di essere eccessivi a propria volta. Ogni eccesso rivela i desideri e le convinzioni che vi si occultano in modo più o meno palese. Il protagonista del romanzo di Houellebecq rinuncia a ciò che è il valore per eccellenza della cultura dei Lumi, la libertà, per sottomettersi – questo il significato della parola Islam – a un regime religioso in forte contrasto con il suo passato d’intellettuale. Compie un eccesso, così come eccessivo è in fondo tutto il suo estetismo e la sua sessualità di maschio occidentale dedito al godimento. Pasolini ha ben descritto nel suo nerissimo «Salò Sade» l’arbitrio che si cela nella libertà. Nell’eccesso della nuova fede cui si converte, il protagonista trova ragioni per suo sadomasochismo. Cosa ha in comune questo personaggio di carta con i giovani che armati di mitragliatori hanno fatto strage nella sede di Charlie Hebdo? Nulla, se non l’eccesso che connota oggi la realtà contemporanea e ne fa senza dubbio un’età dell’estremismo. La convinzione di Hoellebecq è che l’Occidente sia perso, che non abbia più futuro e la depressione sia il nostro unico destino. Allora perché resistere? Perché tutto ciò non risolve il problema dell’eccesso, quello degli altri, come il nostro. «Ogni nostro eccesso è il segno di una privazione ignota», conclude Philipps. Davanti all’attacco assassino alla rivista satirica francese non è tanto la bandiera della libertà che bisogna issare, bensì il vessillo del nostro pensiero critico, che non deve indietreggiare nell’indagare anche quanto di oscuro c’è in noi. Solo così l’eccesso non l’avrà vinta.

“La Stampa” in edicola, con la copertina di vignette, qui

Corriere 9.1.15
Le mille matite della libertà
di Aldo Cazzullo


I giornali latini ripubblicano le vignette di Charlie Hebdo. I giornali anglosassoni tendono a nasconderle, talvolta a condannarle. Non sono soltanto diverse scelte editoriali; corrispondono a una diversa lettura della tragedia di Parigi, e del passaggio storico che stiamo vivendo. Atto di guerra o terrorismo? Scontro tra culture o attacchi di una minoranza nemica della sua stessa comunità?
Alcune di quelle vignette sono efficaci. Altre non fanno ridere. Altre ancora appaiono inopportune. Si possono criticare. Ma sarebbe un errore grave dividersi oggi sulla libertà d’espressione, che va difesa sempre, anche quando diventa libertà di dissacrazione. Il contrasto tra il riso e l’integralismo religioso è antico di secoli. Umberto Eco ne ha tratto un best seller mondiale, sostenendo che l’uomo è l’unico animale che ride, ed è l’unico animale che sa che deve morire; se il riso è l’antidoto alla paura della morte, è logico che il nichilismo islamista ne abbia orrore. Ogni terrorista ha trovato giustificazioni e alibi, pure nel recente passato italiano. Questa volta non ne dovrà trovare. Non ci sono provocatori e provocati; ci sono vittime e carnefici.
Dissacrare però non basta. È anche il momento di costruire: valori, regole, convivenza basata sul rispetto reciproco e sulla legalità. Negare che sia in corso una guerra, che l’altra sponda del nostro mare sia il campo di battaglia e l’Europa la retrovia in cui l’esercito islamico tenta di reclutare o infiltrare i suoi combattenti, sarebbe negare la realtà. Ma il confronto con l’Islam non può essere ridotto alla guerra. È un tema cruciale della modernità, del nostro tempo segnato dalle migrazioni e dal mondo globale.
Il confronto con l’Islam è un tema che attraverserà le nostre vite. Chiama in causa non soltanto le capacità militari e di intelligence dell’Europa; ne sollecita l’identità culturale, la coesione sociale. Contrapporre violenza a violenza, uniformare tutti i musulmani in un’unica condanna farebbe il gioco degli assassini di Parigi; che sperano di suscitare l’intolleranza proprio nella terra di Voltaire, che contano di seminare l’odio tra popoli che la storia ha condannato a combattersi, come nell’Algeria degli Anni Cinquanta, ma anche a convivere, attorno a un unico mare e talora nella stessa terra.
La Francia è il Paese più esposto, non solo perché ha avuto un impero coloniale; è il Paese del velo vietato per legge, della Repubblica laica in piena crisi identitaria. Ma anche l’Inghilterra multiculturale ha generato terroristi e tagliagole. L’Italia il suo Islam lo sta importando, ed è cruciale costruire argini più efficaci all’immigrazione senza controllo. Possiamo essere orgogliosi delle vite salvate in mare, e nello stesso tempo agire contro gli scafisti e impedire atti di aperta ostilità, come le imbarcazioni lanciate con il pilota automatico contro le nostre coste. È importante tenere alta la guardia, rafforzare la prevenzione e la sicurezza. Ma non è meno importante costruire — con la scuola, con la politica, anche con la discussione pubblica che passa attraverso i media — un sistema di princìpi condivisi da trasmettere ai nostri figli e ai nuovi italiani.
A maggior ragione ora che il disagio legato alla distruzione del lavoro tradizionale rende più difficile accogliere profughi e immigrati, il confronto con l’Islam va affrontato sapendo chi siamo e in cosa crediamo. La risposta migliore all’offensiva fondamentalista è consolidare la nostra democrazia, riaffermare i nostri valori. Tra questi, oltre alla laicità dello Stato e al rispetto della donna, c’è anche il diritto a criticare e, se si vuole, a ridere del fanatico il quale «vi diceva che la verità ha il sapore della morte; e voi non credevate alla sua parola, ma alla sua tetraggine».

Corriere 9.1.15
Vogliono uccidere la nostra anima
Non sono pazzi criminali, li muove un’ideologia politica
Più l’Occidente si autocensura, più diventeranno audaci
di Ayaan Hirsi Ali


Dopo la carneficina di mercoledì, forse l’Occidente metterà finalmente da parte le tante scuse artificiose impiegate finora per negare ogni nesso tra violenza e Islam radicale.
Questo non è stato un attacco sferrato da uno squilibrato, da un lupo solitario. Non è stata un’aggressione per mano di delinquenti qualunque. Era stata programmata per fare più morti possibile, durante una riunione di redazione, con armi automatiche e un piano di fuga. Gli assassini volevano seminare il terrore, e ci sono riusciti. Ma di cosa ci sorprendiamo? Se c’è una lezione da imparare, è che tutto ciò che noi crediamo dell’Islam non ha alcun peso. Questo tipo di violenza, la jihad, rappresenta quello in cui credono gli islamisti. Il Corano è disseminato di appelli alla jihad violenta, ma non solo. In troppa parte dell’Islam, la jihad si è evoluta in un’ideologia moderna. La «bibbia» del jihadista del ventesimo secolo è «Il concetto coranico della guerra», scritto dal generale pakistano S.K. Malik.
Nella sua analisi l’anima umana — e non il campo di battaglia fisico — rappresenta il centro dove portare il conflitto. E il modo migliore di colpire l’anima è attraverso il terrore, «il punto in cui il mezzo e il fine si ricongiungono». Ogni volta che giustifichiamo la loro violenza in nome della religione, ci pieghiamo alle loro richieste. Nell’Islam, è un grave peccato rappresentare o denigrare il profeta Maometto. I musulmani sono liberi di crederci, ma perché devono imporlo ad altri? L’Islam, con i suoi 1.400 anni di storia e un miliardo e mezzo di fedeli, dovrebbe riuscire a tollerare qualche vignetta. L’Occidente deve costringere i musulmani, specie quelli della diaspora, a rispondere a questa domanda: che cosa è più offensivo per un credente, l’uccisione, la tortura, la schiavitù, la lotta armata e gli attacchi terroristici in nome di Maometto, o la produzione di disegni, film e libri che si fanno beffe degli estremisti e della loro visione di ciò che Maometto rappresenta?
Per rispondere a Malik, la nostra anima in Occidente crede nella libertà di coscienza e parola. Sono le libertà che formano l’anima della nostra civiltà. Ed è proprio in questo che gli islamisti ci hanno attaccato. Tutto dipende da come reagiremo. Se ci convinciamo di combattere contro un manipolo di pazzi criminali, non saremo in grado di fornire risposte. Dobbiamo riconoscere che gli islamisti di oggi sono motivati da un’ideologia politica, radicata nella dottrina fondante dell’Islam. Sarebbe un notevole cambiamento di rotta per l’Occidente, che troppo spesso ha reagito alla violenza jihadista con tentativi di conciliazione. Cerchiamo di blandire i capi di governo islamici che premono per costringerci a censurare stampa, università, libri di storia, programmi scolastici. Loro alzano la voce, e noi obbediamo. In cambio cosa otteniamo? I kalashnikov nel cuore di Parigi. Più ci sforziamo di attenuare, placare, conciliare, più ci autocensuriamo, più il nemico si fa audace ed esigente.
C’è una sola risposta a questo vergognoso attacco jihadista contro Charlie Hebdo : l’obbligo di media e leader occidentali, religiosi e laici, di proteggere i diritti elementari di libertà di espressione, che sia la satira o altro. L’Occidente non deve più inchinarsi, non deve più tacere. Dobbiamo inviare ai terroristi un messaggio univoco: la vostra violenza non riuscirà a distruggere la nostra anima.
Traduzione di Rita Baldassarre

il Fatto 9.1.15
Clericalismi
Il fondamentalismo si combatte soltanto con la laicità assoluta
di Paolo Flores d’Arcais

Eroi delle libertà democratiche, pronunzia tempestivamente il presidente Hollande. È vero. Wolinski e i suoi compagni di Charlie Hebdo erano infatti libertini sessuomani, estremisti di sinistra, atei, anarchici-e-comunisti, e infine irresponsabili, come recitava cristallinamente e orgogliosamente il sottotitolo del settimanale. Oggi ne fanno il ditirambo governanti reazionari e giornalisti d’establishment, despoti e finte sinistre, Papi e Leghe arabe, con tassi di ipocrisia diversi e che non proviamo neppure a misurare. Meglio così, devono ora tutti allinearsi a difesa del diritto alle “enormità” con cui gli “estremisti” irresponsabili appena assassinati avevano caratterizzato le loro vite, riempito le pagine di Charlie e nutrito le nostre libertà.
Mentre avevano ancora la matita in mano li hanno solo attaccati, mal sopportati, diffamati. L’elogio che obtorto collo devono farne oggi è perciò la vignetta e l’editoriale che Wolinski e Charb avrebbero potuto scrivere sull’ipocrisia del potere. Non dimentichiamolo.
La strage è stata fatta in nome di Dio, il dio monoteista, creatore e onnipotente, il Dio di Maometto, Allah il Clemente e Misericordioso (sono i primi due dei suoi novantanove nomi). L’islam dunque, ma quello fondamentalista e terrorista, si è detto. L’altro islam è una vittima, si sottolinea. Senza dubbio. A un patto: che questo altro islam parli in modo forte, chiaro, senza contorsionismi semantici, e con adamantina coerenza di comportamenti. Non basta perciò che condanni come mostruosa la strage di rue Nicolas Appert 10 (ci mancherebbe!) è ineludibile che riconosca la legittimità e la normalità democratica di quanto Charlie praticava in modo esemplare per intransigenza: il diritto di criticare tanto i fanti che i santi, fino alla Madonna, al Profeta e a Dio stesso nelle sue multiformi confessioni concorrenziali.
ANCHE, e verrebbe da dire soprattutto, quando tale critica è vissuta dal credente come un’offesa alla propria fede. Questo esige la libertà democratica, poiché tale diritto svanisce se dei suoi limiti diviene arbitro e padrone il fedele.
La laicità più rigorosa, che esclude Dio, qualsiasi Dio, dalla vita pubblica (scuole, tribunali, comizi elettorali, salotti televisivi, ecc.), è perciò l’unica salvaguardia contro l’incubazione di un brodo di coltura clericale che inevitabilmente può diventare pallottola fondamentalista.

Repubblica 9.1.15
L’appello di Garton Ash ai giornali europei
“Pubblicate le vignette no al veto degli assassini”
di Timothy Garton Ash


PROPONGO che tutti i media d’Europa rispondano all’azione assassina dei terroristi islamisti coordinandosi per pubblicare la prossima settimana una selezione delle vignette di Charlie Hebdo assieme ad un comunicato che spieghi i motivi dell’iniziativa. Una settimana si solidarietà e di libertà, in cui tutti gli europei, musulmani inclusi, ribadiscano il loro impegno in difesa della libertà di parola, l’unico strumento che ci consente di armonizzare la diversità con la libertà.
In caso contrario a vincere sarà il veto imposto dagli assassini. Perché nonostante le prese di posizione risolute dei media, le vignette solidali e le commoventi manifestazioni all’insegna del motto “Je suis Charlie”, gran parte delle pubblicazioni, lasciate a se stesse, in futuro si autocensureranno per paura. E gli estremisti violenti di altre convinzioni ne trarranno insegnamento: se vuoi imporre il tuo tabù, imbraccia un fucile. Le diversità non si risolvono con la violenza. Si risolvono con la parola. Questo è il principio fondamentale che dobbiamo difendere uniti, soprattutto noi che ci guadagniamo la vita con le parole e con le immagini. Possiamo infuriarci, essere brutali, sarcastici, offensivi — ed essere offesi. Esistono dei limiti, imposti da leggi che possiamo tentare di cambiare in parlamento. Possiamo manifestare pacificamente, ricorrendo anche alla disubbidienza civile. Ma solo lo stato democratico può far uso legittimo delle violenza, che in quel caso chiamiamo forza. La moneta sovrana della libertà ha due facce. Su un sito web dedicato al dibattito sulla libertà di parola ho formulato il principio in questi termini: «Non minacciamo di ricorrere alla violenza né accettiamo l’intimidazione violenta». E’ la seconda affermazione che ora esige questo momento straordinario di solidarietà da parte dei media europei.
Propongo che durante questa settimana si pubblichino non solo le vignette di Charlie Hebdo relative a Maometto, ma anche alcune mirate ad altri soggetti, così da evidenziar- ne il carattere satirico, offensivo per diverse categorie di persone. La satira è proprio questo. Il comunicato avrà il compito di motivare la pubblicazione delle vignette satiriche da parte di media che non ne hanno normalmente l’abitudine. I lettori e gli spettatori dovranno essere avvertiti in anticipo della pubblicazione, ma le immagini non dovranno essere in alcun modo censurate o modificate.
Ci vorrà tempo per organizzare un’azione del genere, ma non sarà un male, anzi, contribuirà a tenere alta l’attenzione sul tema, dato che i media macinano notizie a ritmo inesorabile. Sarebbe ottimo se i media liberi di tutto il mondo aderissero all’iniziativa, ma spetta soprattutto agli europei in questo momento mostrarsi solidali in difesa della libertà di parola, per noi valore determinante, nonché chiave del nostro modo di vivere. E’ la libertà da cui le altre in gran parte dipendono.
Il commento verrà redatto in forma autonoma da ogni singolo quotidiano, rivista, sito web, blog o pagina di rete sociale, come è giusto che sia. Io comunque scriverei così: «Non si deve mai permettere che la violenza limiti la libertà di parola. Per questo, pur non pubblicando normalmente vignette satiriche, abbiamo scelto di farlo oggi, assieme ad altri media in tutta Europa. Solo questa solidarietà dimostrerà agli assassini e aspiranti tali che non possono dividere i media per renderli succubi ricorrendo all’intimidazione affinché si autocensurino. L’attacco contro uno è attacco contro tutti. In questo senso nous sommes tous Charlie .
Così gli assassini otterranno come unico risultato che le vignette su Maometto saranno sotto gli occhi di milioni di persone che altrimenti non le avrebbero mai viste. Sono gli assassini, non i vignettisti, a far questo all’immagine del Profeta. E’ sorto infatti un enorme, legittimo, interesse da parte dell’opinione pubblica riguardo alla causa verosimile del grottesco massacro dei vignettisti francesi Charb, Cabu, Honore, Wolinski e Tignous — nomi ormai entrati nella storia — dei loro colleghi e dei poliziotti per mano dei terroristi.
La pubblicazione coordinata delle vignette non è un gesto gratuito. Non è contro l’Islam. Al contrario, è proprio in difesa della realtà per cui i musulmani d’Europa — a differenza dei cristiani e degli atei in gran parte del Medio Oriente — possono esprimere liberamente le loro convinzioni più radicate e sfidare quelle altrui. È in gioco il destino dell’Europa e della libertà. La nostra convivenza nella libertà dipende da questo: che non prevalga il veto degli assassini». Traduzione Emilia Benghi

Repubblica 9.1.15
Cacciari: “Politica di accoglienza o avremo il conflitto in Europa”
intervista di Rodolfo Sala


MILANO «I fatti orrendi di Parigi dovrebbero imporre a tutti noi di ragionare alla grande, ma in questo clima sono in pochi a ragionare, soprattutto in Italia. Il livello del dibattito è deprimente». Lo dice il filosofo Massimo Cacciari E quale sarebbe, professore, la prima riflessione da fare?
«Negli ultimi venti-trent’anni abbiamo vissuto tutti nell’illusione che la storia potesse in qualche modo cancellare la propria dimensione tragica. Che la nostra Penisola potesse restare fuori dalle trasformazioni epocali che hanno rivoluzionato la geopolitica e prodotto una serie di conflitti (Afghanistan, Iraq, la questione irrisolta dei rapporti tra Israele e palestinesi) che anche per colpa dell’Occidente restano pesantemente irrisolti».
Risultato?
«Vedo un rischio terribile e concreto. Il rischio di una guerra civile in Europa. Mi spiego: dobbiamo tenere presente che nel 2050 la metà della popolazione del nostro continente sarà di origine extracomunitaria, quindi è impensabile ritenerci in guerra, noi europei, con l’altra parte, con il mondo islamico. Per questo dico che bisogna ragionare alla grande. Il problema è con chi».
A che cosa allude?
«In Europa, per non dire dell’Italia, in questo momento c’è una deficienza paurosa di personale politico in grado di affrontare il problema. Qui non c’è un’Europa in guerra, ci sono conflitti da disinnescare anche con le armi dell’intelligenza. E con la consapevolezza che si tratta di un processo lungo, difficile, faticoso. Ma non c’è alternativa, altrimenti si va dritti verso quello scontro di civiltà a cui puntano proprio i terroristi».
Le armi dell’intelligenza, lei dice...
«Certo. Se durante il secondo conflitto mondiale ci fosse stato solo il generale Patton, e non anche la lungimiranza di leader come Churchill e Roosevelt, avrebbe vinto Hitler. Affontare il problema solo dal lato della semplice repressione non basta, non può bastare. Anche se questi islamisti hanno compiuto un indiscutibile salto di qualità».
In che senso?
«Non siamo in presenza del kamikaze solitario, della bomba anonima. Le azioni come quella di Parigi sono programmate con una logica militare che punta, voglio ripeterlo, allo scontro di civiltà».
Quindi?
«Fino a quando la nostra democrazia non dimostrerà di essere accogliente, e continuerà con le disuguaglianze, questo tipo di terrorismo troverà sempre terreno favorevole. Sullo scenario europeo, ora si pensa di far fuori la Grecia, mentre si allargano i confini dell’Unione alla Lituania: è pazzesco».
Ma i toni salgono, Salvini dice che siamo in guerra...
«Una battuta che si commenta da sé, sotto il profilo culturale. Sarebbe un errore madornale additare nell’Islam il nemico, il modo per moltiplicare gli jihadisti».
Aggiunge che il Papa non deve dialogare con l’Islam...
«Figuriamoci che cosa importa al Pontefice delle parole di Salvini. Che insieme alla Le Pen sta facendo di tutto per ostacolare il dialogo. Se si votasse domani la Lega e il Front national prenderebbero una valanga di voti. Sarebbe pericolosissimo, allora sì che saremmo in guerra. Certo, poi occorre realismo ».
E cioè?
«Riconoscere che fino a quando non sarà abbattuto lo Stato islamico dobbiamo aspettarci il peggio. Ma lo si abbatte solo se non si invoca il conflitto di civiltà. Purtroppo quando la storia appare tragica si fa molto fatica a ragionare. È del tutto logico, e porta anche voti: ma è anche pericolosissimo. Bisognerebbe fare un grande sforzo a partire da noi italiani, non credo sia inutile. In fin dei conti, con la storia che abbiamo, dovremmo essere vaccinati. Anche se adesso non pare così».

Repubblica 9.1.15
Pennac: “Solo ora capiamo che per le nostre guerre lontane rischiamo di morire qui a casa”
Dopo la strage e lo shock, lo scrittore riflette sulle cause dell’assalto:
“La Francia ha esportato il conflitto in paesi come Mali e Afghanistan, credendo che gli estremisti non avrebbero colpito. C’è un solo rimedio: combattere sempre violenza e intolleranza”
intervista di Fabio Gambaro


PARIGI «SONO tristissimo. Conoscevo bene Tignous e Bernard Maris. E poco tempo fa avevo cenato con Charb e Cabu. Mi era anche capitato d’incontrare Wolinski. Di fronte alla loro morte sono senza parole». Appena avuta la notizia dell’attacco a Charlie Hebdo , l’altra sera Daniel Pennac si è recato alla manifestazione sulla Place de la Republique, dove insieme a migliaia di altre persone ha protestato contro la barbarie di un odio ingiustificabile. «Erano persone coraggiose, capaci di continuare a fare il loro lavoro nonostante le molte minacce ricevute. Ma al di là delle qualità professionali erano persone adorabili, lontanissime da ogni violenza e aggressività. Grazie al loro entusiasmo, Charlie Hebdo ha sempre rappresentato la forza e il piacere di un’assoluta libertà di pensiero, che certo poteva scioccare chi preferisce trincerarsi dietro certezze incrollabili. I terroristi hanno voluto assassinare la loro libertà».
Gli assalitori gridavano «abbiamo ammazzato Charlie». Ci sono riusciti per davvero?
«Assolutamente no. Charlie Hebdo continuerà a vivere. Io, come molti altri, farò di tutto per aiutarli. Troveremo il modo di far sopravvivere lo spirito libero e irriverente del giornale, scrivendo, disegnando, abbonandosi, aiutando finanziariamente la redazione. L’ironia e l’autoironia sono sempre necessarie: un’anima senza ironia diventa un inferno ».
A chi parla dei limiti della satira, cosa risponde?
«È tutta la vita che ne sento parlare. Chi invoca questo tipo di limiti in realtà vuole solo imporre i propri limiti agli altri. I cattolici, i musulmani, i tradizionalisti, ciascuno vuole far prevalere le proprie regole. Ma ciò non ha senso. Solo una convinzione ottusa e prigioniera di certezze ideologiche e religiose può sentire il bisogno d’imporre un limite all’ironia. Gli unici limiti concepibili sono quelli che l’umorista, l’artista si pone da solo. Io so che ci sono ambiti su cui non scriverò mai, ma questo lo decido io. Nessuno potrà mai impormi gli argomenti su cui scrivere o meno».
La situazione, però, è diventata da guerra.
«La Francia è in guerra, solo che finora il campo di battaglia era geograficamente lontano, in Mali, in Afghanistan. Quindi ci siamo illusi che gli estremisti contro cui stavamo combattendo non avrebbe mai potuto colpirci. Oggi sappiamo che non è vero. E temo che in futuro assisteremo ad altri attacchi di questo tipo».
Come spiega la radicalizzazione di certi giovani che imboccano la strada del terrorismo?
«È il risultato di molti fattori, tra cui il capitalismo odierno che fa la guerra ai poveri e non alla povertà. In questo modo marginalizza una parte della popolazione che si sente esclusa e isolata dalla società. Se a ciò si aggiungono le discriminazioni subite, si comprende come certe persone possano progressivamente radicalizzarsi al punto da odiare la società in cui vivono. Spesso manipolati, costoro diventando disponibili alla violenza e alla follia del terrorismo».
Per la società francese, quali saranno le conseguenze di quanto è accaduto?
«Purtroppo le vittime simboliche di questa strage sono innanzitutto i musulmani di Francia che si ritrovano presi tra due fuochi. Da un lato, ci sono gli assassini che pretendono di parlare in loro nome. Dall’altra, un’opinione pubblica che chiede loro di dimostrare continuamente di essere diversi e lontani dagli assassini. Per i musulmani è una situazione molto difficile. Se i terroristi incarnano una malattia mortale, a modo suo anche l’estrema destra è una malattia mortale, sebbene di un altro tipo. Ma possiamo produrre degli anticorpi».
Come fare?
«Non dobbiamo cedere alla paura degli altri. Non cedere al terrore è il migliore degli anticorpi ».
La cultura può contribuire?
«Mi piacerebbe rispondere di sì, ma purtroppo l’esperienza del passato c’insegna che non è vero. La cultura non ha mai evitato le catastrofi. La Germania aveva la cultura più avanzata, ma questa non ha potuto evitare la Shoah. La cultura può alimentare le coscienze, non può disarmare gli assassini. Il che naturalmente non significa che non si debba continuare a battersi e a lottare contro tutte le forme d’intolleranza e di violenza».
(L’ultimo libro di Daniel Pennac è Storia di un corpo , pubblicato come gli altri da Feltrinelli)

Repubblica 9.1.15
Il vero complesso di inferiorità dei fondamentalisti fragili e confusi
di Slavoj Zizek

ORA che siamo tutti sotto shock, dopo la carneficina negli uffici di Charlie Hebdo, è il momento giusto per trovare il coraggio di ragionare. Naturalmente dobbiamo condannare senza ambiguità gli omicidi come un attacco contro l’essenza stessa delle nostre libertà, e condannarli senza nessun distinguo mascherato. Ma questo afflato di solidarietà universale non è abbastanza. Il ragionamento di cui parlo non ha assolutamente nulla a che vedere con le relativizzazioni da quattro soldi di questo crimine (il mantra del «Chi siamo noi occidentali, che abbiamo compiuto massacri terribili nel terzo mondo, per condannare atti come questi? »). E ha ancora meno a che fare con la paura patologica di tanti liberali progressisti occidentali di macchiarsi di islamofobia. Per questi finti progressisti, qualsiasi critica dell’islam viene additata come espressione dell’islamofobia occidentale: Salman Rushdie è stato accusato di aver provocato gratuitamente i musulmani, e quindi di essere responsabile (almeno in parte) della fatwa che lo condanna a morte, e via così.
Il risultato di posizioni del genere è quello che ci si può aspettare in questi casi: più i progressisti occidentali rovistano nel loro senso di colpa, più vengono accusati dai fondamentalisti islamici di essere ipocriti che cercano di nascondere il loro odio per l’islam. Questa costellazione riproduce alla perfezione il paradosso del superego: più obbedisci a quello che l’Altro pretende da te, più ti senti colpevole. In pratica, più tollerate l’islam, più forte sarà la pressione su di voi… Molto tempo addietro Friedrich Nietzsche percepiva che la civiltà occidentale stava avanzando verso l’Ultimo Uomo, una creatura apatica, senza grandi passioni o grandi impegni. Incapace di sognare, stanco della vita, non si prende rischi, cerca soltanto comfort e sicurezza, una manifestazione di tolleranza reciproca: «Un po’ di veleno ogni tanto, per fare sogni piacevoli. E tanto veleno alla fine, per una morte piacevole ». In effetti può sembrare che la spaccatura fra il permissivo primo mondo e la reazione fondamentalista contro di esso coincida sempre più con la contrapposizione fra una vita lunga e soddisfacente, piena di benessere materiale e culturale, e una vita dedicata a qualche Causa trascendente. “I migliori” non sono più capaci di impegnarsi fino in fondo, mentre «i peggiori» si impegnano in un fanatismo razzista, religioso, sessista.
Ma i terroristi fondamentalisti corrispondono esattamente a questa descrizione? La cosa di cui mancano con ogni evidenza è una qualità che è facile discernere in tutti i fondamentalisti autentici, dai buddisti tibetani agli Amish americani: l’assenza di risentimento e invidia, la profonda indifferenza verso il modo di vivere dei non credenti. Se i cosiddetti fondamentalisti dei nostri giorni sono convinti davvero di aver trovato la via verso la Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non credenti, perché dovrebbero invidiarli? Quando un buddista incontra un edonista occidentale, non lo condanna di certo: si limita a osservare benevolmente che la ricerca di felicità dell’edonista è controproducente. Al contrario dei veri fondamentalisti, gli pseudofondamentalisti terroristi sono profondamente infastiditi, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non credenti: si ha la sensazione che combattendo il peccatore stiano combattendo la loro stessa tentazione di peccato. Il terrore del fondamentalismo islamico non è radicato nella convinzione dei terroristi della propria superiorità, in un desiderio di preservare la propria identità cultural-religiosa dal furibondo assalto della civiltà consumistica globale. Il problema dei fondamentalisti non è che li consideriamo inferiori a noi, ma al contrario che loro stessi si considerano segretamente inferiori. È per questo che quando li rassicuriamo, pieni di condiscendenza e political correctness, che non ci sentiamo assolutamente superiori a loro non facciamo altro che farli inferocire ancora di più e alimentare il loro risentimento. Il problema non è la differenza culturale (il loro sforzo per preservare la propria identità), ma il contrario, il fatto che i fondamentalisti sono già come noi, che segretamente hanno già interiorizzato i nostri parametri e misurano se stessi in base a essi.
Il fondamentalismo è una reazione — una reazione falsa e mistificatrice, naturalmente — contro un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il liberalismo lo genera, ripetutamente. Affinché questa tradizione fondamentale possa sopravvivere, il liberalismo necessita dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. È il solo modo per sconfiggere il fondamentalismo, tagliargli l’erba sotto i piedi.
Ragionare in risposta agli omicidi di Parigi significa mettere da parte il compiacimento autocelebrativo del liberale permissivo e accettare che il conflitto tra la permissività liberale e il fondamentalismo in definitiva è un conflitto falso. Quello che Horkheimer aveva detto riguardo a fascismo e capitalismo, e cioè che chi non è disposto a parlare in modo critico del capitalismo non dovrebbe contestare neppure il fascismo, andrebbe applicato anche al fondamentalismo dei nostri giorni: chi non è disposto a parlare in modo critico della democrazia liberale non dovrebbe contestare neppure il fondamentalismo religioso.
Traduzione di Fabio Galimberti

il Fatto 9.1.15
Lo Stato paga i debiti ma Chil di papà Renzi non aveva i requisiti
L’azienda non comunicò il trasferimento di sede a Genova per non perdere la copertura di Fidi Toscana
di Davide Vecchi


Tiziano Renzi avrebbe dovuto comunicare il trasferimento della sede della sua azienda, la Chil Post, da Firenze a Genova alla finanziaria Fidi Toscana, come prevede lo statuto del fondo di garanzia da cui ha ricevuto i fondi per coprire parte dei debiti contratti. Il cambio di regione avrebbe ovviamente comportato la decadenza del beneficio. Per carità: si sarà sicuramente trattato di una dimenticanza. Il dato emerge dagli atti custoditi in Regione relativi all’azienda di casa Renzi, poi fallita e per cui il padre del premier è indagato per bancarotta fraudolenta dalla procura ligure. E non è l’unico elemento interessante.
RICOSTRUENDO la vicenda emerge che la Chil è una delle pochissime aziende per cui il ministero dell’Economia ha coperto il fondo di garanzia toscano. Creato nel febbraio 2009 per volere dell’allora governatore Claudio Martini e finalizzato ad aiutare le imprese regionali ad affrontare la crisi economica, il fondo “emergenza economia misura liquidità” in cinque anni ha sottoscritto garanzie per un miliardo e 126 milioni di euro a 5.687 aziende toscane. E ne ha dovuto effettivamente elargire solamente 16 milioni di euro. Nulla, rispetto alla cifra complessiva garantita. Di questi 16 milioni lo Stato, attraverso il fondo centrale di garanzia costituito presso il Mef, ha restituito a Fidi Toscana appena un milione di euro, tra cui proprio i 236.803,23 deliberati a giugno 2014. Ed è così che lo Stato guidato da Renzi ha pagato parte del debito della società di casa Renzi.
A spiegare l’iter seguito dalla Chil Post è Simonetta Baldi, dirigente della Regione responsabile del settore politiche orizzontali a sostegno delle imprese, l’ufficio che gestisce il fondo di garanzia e tiene i rapporti con Fidi Toscana, la finanziaria controllata per il 49% dall'ente guidato da Enrico Rossi. Baldi non svela nulla: si limita a confermare le informazioni in nostro possesso. “Il fondo è stato creato nel febbraio 2009 e la Chil è stata tra le prime a rivolgersi a noi appena un mese dopo” ed è stata “anche tra le prime ad andare in sofferenza”, ricorda Baldi. Di “5.687 aziende che sono ricorse a noi non sappiamo quante poi sono fallite ma decisamente poche” anche perché “il fondo ha funzionato molto bene per la quasi totalità delle imprese”. Su un miliardo e 200 milioni garantiti “siamo intervenuti per appena 16 milioni, come sa”. Baldi conferma anche le cifre ricevute dal ministero dell’Economia: “Sì, poco più di un milione di euro”. E spiega che non è affatto scontato che il rimborso avvenga, “anzi”. Funziona così: “Al ministero dell’Economia c'è il fondo centrale che serve come contro-garanzia ma può essere attivato solo a determinate condizioni” e comunque viene rimborsato “con tempi piuttosto lunghi, tra il pagamento che effettuiamo noi per l’azienda e quello che riceviamo dal Mef c’è un gap di anni”. Per la Chil Post “sono arrivati in sei mesi, sì. Ma è stata una delle prime pratiche a essere aperta e ad andare in sofferenza”.
SECONDO il regolamento, inoltre, la Chil Post non avrebbe potuto beneficiare del fondo di garanzia perché nel frattempo ha cambiato sede e proprietà. Baldi, ancora una volta, conferma: “C’è stato un difetto di informazione, i passaggi di proprietà Fidi Toscana li ha saputi successivamente”, dopo il fallimento. Va detto che la società non ha cambiato partita Iva o forma, rimanendo una srl, ma “se ricevessi una domanda da un’impresa di Genova gli dico di no, ovviamente”, garantisce Baldi. Quando la Chil fece domanda era una società toscana, quindi al momento dell’ammissione alla garanzia l’impresa aveva tutte le caratteristiche in regola.
È IL 16 MARZO 2009 quando Tiziano Renzi presenta richiesta e il 13 agosto 2009 l’operazione va in porto a garanzia di un mutuo con il credito cooperativo di Pontassieve da 496.717,65 euro. Dopo poco più di un anno, l’otto ottobre 2010, circa due milioni in beni e servizi - ritenuti dagli inquirenti genovesi la parte sana della Chil Post - sono ceduti alla Eventi 6 di Laura Bovoli, madre dell’ex rottamatore. Passa meno di una settimana e il 14 ottobre Tiziano Renzi trasferisce la società a Genova. Infine il 3 novembre cede l’intera proprietà della Chil Post a Gian Franco Massone, prestanome per il figlio Mariano, entrambi indagati con il padre del premier dalla procura ligure.
A questo punto però l’azienda è ormai priva di beni ed è gravata da un passivo di un milione e 150 mila euro, compresi 496 mila euro di esposizione con il Credito cooperativo di Pontassieve guidato dal fidatissimo amico del premier, Matteo Spanò. I debiti non vengono ripianati e Massone dichiara il fallimento della Chil Post nel 2013. Il mutuo viene ammesso al passivo dal tribunale e così Fidi Toscana onora la sua garanzia. Poi coperta dal Tesoro.

Corriere 9.1.15
Alle primarie liguri partigiani in campo: no agli infiltrati

Nove ex partigiani dell’Anpi di Genova hanno firmato una lettera dopo che Ncd ha dichiarato che voterà per Raffaella Paita nonostante la decisione dei garanti Pd di escludere gli esponenti della destra dal voto alle primarie per la Regione. «A tutto eravamo preparati ma non che i nostri rappresentanti si alleassero con questi figuri, fra loro ci sono ex picchiatori fascisti». Anche lo storico Arrigo Petacco sostiene Paita e lo sfidante Sergio Cofferati chiosa: «È uno che ha negato la responsabilità di Mussolini nell’omicidio Matteotti». Oggi si chiude e domenica si vota.
E.D.

il Fatto 9.1.15
Domenica in Liguria
Primarie inquinate, lo storico di destra firma per la renziana
di Ferruccio Sansa


Arrigo Petacco. Lo storico è la goccia che rischia di far traboccare il vaso delle primarie liguri. Poche settimane fa sul blog di Beppe Grillo aveva rivisto la morte di Giacomo Matteotti “assolvendo” Mussolini e adesso appoggia il candidato Raffaella Paita alle primarie Pd di domenica contro Sergio Cofferati. È bastato questo per far esplodere una tensione che covava da settimane nel partito. Sono intervenuti perfino i partigiani con un appello firmato da ex combattenti guidati dal vicepresidente dell’Anpi genovese, Gianni Ponta: “A tutto eravamo preparati, ma mai avremmo pensato che i nostri rappresentanti politici di centrosinistra si potessero alleare con questi figuri… tra questi ci sono anche ex picchiatori fascisti che ogni anno anziché la Liberazione festeggiavano il loro rito recandosi a Predappio in onore della ‘buonanima‘ di Mussolini. È un affronto che non possiamo accettare e useremo la sola arma che ci resta: quella della democrazia che abbiamo contribuito a riconquistare. Sarà il nostro voto, o non voto, a dire che non accetteremo mai di confonderci con gli eredi diretti e indiretti dei fascisti di Salò e dei missini di Almirante”. Era solo questione di tempo perché il bubbone scoppiasse: le primarie del Pd (e quindi la vittoria alle regionali di maggio) rischiano di essere decise dagli scajoliani e dal centrodestra. Come settimane fa ha denunciato Il Fatto Quotidiano, non si contano più gli ex esponenti Pdl-An scesi in piazza per appoggiare l’ala renziana del Pd rappresentata da Raffaella Paita (la candidata sostenuta fortissimamente da Claudio Burlando, governatore uscente). Prima Pierluigi Vinai, già candidato sindaco di Genova con il Pdl e il sostegno della Curia di Bagnasco (nonché uomo Pdl nella fondazione della banca Carige). Poi ecco Roberto Avogadro, ex sindaco di Alassio (centrodestra). Pochi giorni fa arriva un sostenitore che suscita clamore. Quell’Alessio Saso, oggi Ncd, così definito dagli stessi vertici Pd: “Oltre a essere un ex esponente di An, Saso è indagato (voto di scambio, ndr) nell’inchiesta Maglio 3 sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nel ponente ligure”.
Fino agli ultimi pezzi grossi: da Eugenio Minasso (Ncd, in passato fotografato mentre festeggia con membri di famiglie calabresi al centro di inchieste) a Franco Orsi, prima Dc, quindi Forza Italia, infine Pdl. A lungo sostenitore doc di Claudio Scajola, ma impegnato anche per Luigi Grillo (entrambi i leader liguri del centrodestra sono stati arrestati quest’anno). Non una manovra di corridoio, ma un’alleanza siglata davanti a centinaia di persone nel palazzetto dello sport di Albisola (Savona). Nelle speranze di Paita e Burlando doveva essere la mossa finale contro Cofferati. Ora rischia di ritorcersi loro contro. Dipenderà dall’affluenza alle urne: se sarà bassa, il peso del centrodestra e degli apparati sarà decisivo.
E RENZI? TACE. Non ama né il duo Burlando-Paita (pur se renziani), né Coffe-rati. Strane primarie, quelle liguri. Dimostrazione dei travagli del Pd più che della forza del partito. Da una parte si teme l’astensionismo degli elettori – quelli veri – del centrosinistra, dall’altra si prevede di registrare tutti i votanti per evitare infiltrazioni. E strano destino per la Liguria Rossa, regione amministrata dalla sinistra dal Dopoguerra. Oggi il suo futuro è nelle mani dei vecchi “nemici”, dopo che Paita e scajoliani hanno siglato il Nazareno di Albisola. Proprio a pochi chilometri da Stella, paese di Sandro Pertini. Chissà cosa avrebbe detto il Presidente-partigiano…

il Fatto 9.1.15
Pd, solo Mucchetti chiede a Renzi di spiegare la Salva B.
Il partito non appoggia il parlamentare che vuole capire cosa è successo col decretodi
di Wanda Marra


“Credo che questa Assemblea sia interessata a capire quale sia stato effettivamente il testo del decreto fiscale licenziato dal ministero dell'Economia, quale testo sia arrivato in Consiglio dei ministri, se sia lo stesso o se abbia subito modificazioni di contenuto e, qualora tali modificazioni di contenuto siano state apportate, chi le abbia apportate e come”. Così il senatore Pd, Massimo Mucchetti ieri, intervenendo in Aula a Palazzo Madama, chiede formalmente a Renzi di andare a riferire sulla delega fiscale. Non sul merito, però. Sul metodo, con cui il governo fa le leggi. Soprattutto sull’uso dei provvedimenti in delega: un modo per farsi votare di fatto un mandato in bianco.
“CI INTERESSA sapere, nei limiti del ragionevole e del possibile, se su questa materia ci sia stato dibattito in Consiglio dei ministri oppure no e chi sia intervenuto dicendo che cosa. Infine, dovremmo essere informati su quale sia stato il testo votato e come, in base a quali procedure, si sia deciso di ritirarlo”, spiega Mucchetti in Aula. Aveva chiesto al capogruppo Luigi Zanda di intervenire già il giorno prima. Gli era stato detto di no, per ragioni di opportunità relative all’attentato in Francia. Poi, ieri, ha parlato. Intervento duro, che evidentemente ha creato dei problemi alla maggioranza renziana. Tant’è vero che subito dopo a correggere il tiro interviene Giorgio Tonini, segretario d’Aula e membro della segreteria dem: “Il gruppo del Pd ha accolto la richiesta del senatore Mucchetti, di intervenire su questa vicenda, anche confidando nel senso di responsabilità e di equilibrio del collega. Ma i contenuti del suo intervento impegnano Mucchetti e non il gruppo democratico”. La questione si chiude così. Anche se Lega, Movimento 5 Stelle e Sel si uniscono alla richiesta. Intanto Renzi evidentemente accusa il colpo di un inizio d’anno non proprio brillante, tra passaggi su aerei di stato e “manine” per salvare Berlusconi: secondo l’Huffington Post, che ha sentito i maggiori sondaggisti, ha perso 5 punti di gradimento.
E non fa niente che il malumore intorno alla questione sia palpabile. Bersani in diretta a L’Aria che tira rilancia la richiesta. E con l’occasione rimette il nome di Prodi in pista per il Colle. Tanto per agitare ancora di più le acque in cui naviga il governo. Ma il premier non cede: non ha nessuna intenzione di andare a riferire. “Su cosa poi? ”, si chiedono i suoi. Già su cosa? La richiesta di Mucchetti riguarda non un testo, non un fatto. Ma una prassi. “Se siamo in un regime monocratico, in cui decide tutto il presidente del Consiglio, qualcuno ce lo deve dire”, si sfoga un senatore della minoranza Pd. La risposta ufficiale arriva dal ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi: “Il governo non riferirà. Gli atti del Cdm non sono oggetto di informativa parlamentare”, spiega alla capigruppo di Palazzo Madama. La tesi dell’esecutivo è esattamente questa: il Consiglio dei Ministri è segreto. In questo caso, poi, pieno di segreti inconfessabili. Il rinvio al 20 febbraio, intanto, scontenta pure quelli per cui era stata fatta la delega: deve andare avanti "il prima possibile", secondo la Confidustria. Sulla stessa lunghezza d’onda anche la Confcommercio.

La Stampa 9.1.15
Quirinale, l’ipotesi primarie scuote il Pd
Ora Bersani rilancia Prodi
“Ma non certo per bruciarlo”
E si tira fuori dalla corsa: “Io dico la mia, altri stanno zitti”
di Carlo Bertini


«No, figuriamoci se io voglio bruciare Prodi! Ma che potevo dire, che non andrebbe bene per il Colle? Proprio io che mi sono dimesso su quella vicenda?». In Transatlantico le malelingue già spargono veleni su quelle parole, «per il Quirinale si deve ripartire da Prodi», pronunciate in tv da Pierluigi Bersani. In realtà «lo ha fatto per affossarlo», sibilano i renziani, convinti che la candidatura del professore non abbia grosse chances.
Avvolto in uno sciarpone prima di infilare le scale dell’ingresso posteriore di Montecitorio, Bersani si fa una risata quando gli si riporta la voce più maliziosa: che se ha nominato Prodi in questa fase sapendo cosa avrebbe scatenato, è perché in realtà sta facendo un pensierino su se stesso come possibile candidato. Conosce le regole del gioco e sa cosa comporta ogni soffio su un tema così delicato.
Passo indietro sul casus belli: a metà mattina, su La7 all’Aria che tira, l’ex leader si districa così di fronte al fuoco di fila della conduttrice Mirta Merlino, che ad un certo punto lo inchioda su un quesito secco: bisogna ripartire da Prodi? «Non voglio fare nomi... ma è immaginabile ripartire da dove ci si è fermati. Non ho bisogno di dire niente, altrimenti poi Prodi si arrabbia...». E parlando in terza persona, rivanga l’episodio fatidico del 2013, quando «ci fu un mix tra chi non voleva Prodi e chi non voleva Bersani. C’era qualche complotto in giro...».
Per ore dunque la trottola torna a girare sul nome del Professore - agenzie, siti, social network, il blog di Grillo che lo dà come favorito stando ai bookmakers. Ma Bersani si mostra perfettamente consapevole di quanto sia ardua la partita per chi davvero puntasse a sanare la ferita del 2013. «Io non ho proposto Prodi, ho parlato per me. Volete che io non sia d’accordo su di lui?». E la tesi che invece stia pensando a se stesso non regge a suo dire, viste le critiche continue a Renzi, a partire dal decreto fiscale sul quale «non gli faccio i complimenti».
«Io sparo a zero tutti i giorni mentre invece altri se ne stanno buoni e zitti come usa fare in questi frangenti. Non rinuncio a dire la mia, quindi...». Piuttosto Bersani ha una sua idea sul metodo che seguirà Renzi. «Proverà dalla quarta votazione in poi a procedere sulla base di un accordo che coinvolga l’Ncd e Forza Italia, su un nome che sia ben accolto anche dal Pd. Insomma, non vorrà certo fare uno scontro frontale...», è la previsione dell’ex leader. Il quale in realtà viene dipinto come il vero manovratore della fronda che si sta mettendo in moto al Senato sulla legge elettorale.
«Ha ripreso tutto in mano lui», dicono i dissidenti Pd, che insieme a fittiani e oppositori vari, stanno alzando dighe al Senato su preferenze e premio alla lista. Per far capire a Renzi che prima dei voti sul Colle deve trattare. «Capisco il Nazareno e che Berlusconi i suoi se li deve nominare lui anche se perde ma dobbiamo usare raziocinio, c’è un meccanismo come il Mattarellum...». Parola di Bersani appunto.

La Stampa 9.1.15
Quirinale, l’ipotesi primarie riapre i giochi dentro il Pd
Renzi incerto se cavalcarle o scartarle. Il primo a realizzarle fu Moro
di Fabio Martini


Non c’è ancora una proposta compiuta, ma per la prima volta se ne comincia a parlare e se la cosa va avanti potrebbe cambiare la storia delle prossime settimane: perché il Pd non sceglie il candidato al Quirinale attraverso una Primaria a voto segreto tra i suoi grandi elettori? Ieri mattina l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha aperto ad uno scenario di questo tipo: rispondendo ad una domanda nella trasmissione «L’aria che tira», l’ex leader del Pd ha ricordato che nell’aprile 2013, «erano pronte le schede» per fare votare i grandi elettori Pd a scrutinio segreto, ma poi quando lui stesso propose Romano Prodi, «una ovazione» interruppe l’iter e non se ne fece più nulla. Bersani di fatto ha aperto la strada ad una discussione sull’utilizzo d una procedura di democrazia interna che peraltro ha precedenti illustrissimi.
Nella Prima Repubblica
La Dc - accompagnata da una «damnatio memoriae» ben oltre le sue «colpe» - sperimentò in diverse occasioni democratiche Primarie interne. Il primo a proporle fu Aldo Moro, nel 1962 segretario della Dc. Lo sbarramento dei franchi tiratori era imponente e Moro indisse una votazione segreta tra i grandi elettori Dc. Come scrisse un grande giornalista - Vittorio Gorresio de «La Stampa» - «si era convenuto che gli scrutatori avrebbero dovuto proclamare soltanto il nome del primo in classifica, senza indicare il numero dei voti che egli avesse raccolto, né la sua percentuale, né la distanza dal secondo, né alcuna graduatoria: e poi bruciare le schede in un forno». Raffinato rito da conclave per preservare la (successiva) unità interna della Dc e che premiò Segni. Procedura ripetuta nel 1971: primo Leone, secondo Moro. Nel 1985, grazie alla regia di Ciriaco De Mita, voto segreto con plebiscito per Francesco Cossiga. Anche stavolta schede bruciate.
La tentazione
Matteo Renzi, che è diventato leader grazie alle Primarie, si sentirà insidiato dalla suggestione bersanian-democristiana o la cavalcherà? Una cosa è certa: Bersani, nelle elezioni presidenziali del 2013, ha scartato la opzione del voto segreto tra candidati alternativi. Da questo punto di vista la ricostruzione da lui fatta dell’ultima corsa presidenziale, omette alcuni passaggi decisivi. Nella primavera del 2013, dopo la clamorosa bocciatura in aula della candidatura di Franco Marini, appoggiato anche da Forza Italia, Bersani fece sapere ai notabili del partito di essere pronto a virare bruscamente su Romano Prodi. A quel punto - e non è dettaglio da poco- Massimo D’Alema fece sapere di essere pronto a candidarsi anche lui, in un testa a testa con Prodi, del tipo, vinca il migliore. La notte del 18 aprile furono preparate le schede per votare e l’indomani i grandi elettori del Pd furono convocati al cinema Capranica. Dietro le quinte si sapeva che subito dopo Bersani (che avrebbe proposto di votare Romano Prodi), si sarebbe alzata Anna Finocchiaro per proporre D’Alema. Ma non andò così: il presidente dell’assemblea, Luigi Zanda propose di votare per alzata di mano e, in assenza di uno «scatto» da parte dello schieramento opposto, la candidatura dell’ex presidente della Commissione europea passò per acclamazione. Una forzatura che fu vissuta dallo schieramento pro-D’Alema come uno schiaffo e aprì la strada ad una successiva, in qualche modo «fisiologica» rappresaglia.

Corriere 9.1.15
Il blitz della minoranza contro Renzi
E Bersani: sul Colle ripartire da Prodi
Mucchetti: «salva-Berlusconi», chiarisca
Tensione tra i dem. Legnini (Csm): norma errata
di Monica Guerzoni


ROMA La minoranza del Pd non molla l’osso della cosiddetta «salva Berlusconi», anzi prova a morderlo con più forza ancora. L’ala sinistra del partito del premier, che si è riunita per serrare i ranghi, chiede a Matteo Renzi di spiegare in Parlamento com’è andata sul «pasticcio» fiscale e, per contrastare il Patto del Nazareno, rimette sulla pista del Quirinale il nome di Romano Prodi, il più temuto da Forza Italia. Alfredo D’Attorre ritiene che la minoranza, grazie a Sel e ai cinquestelle, abbia «più voti di quelli che Forza Italia può garantire». Ma il presidente Matteo Orfini prova a fermare i giochi: «Evitiamo il tritacarne mediatico che danneggia i nomi...».
È Pier Luigi Bersani ad affondare il colpo, a chiedere in diretta tv (su La 7) che Renzi riferisca in aula «vista la situazione che si è creata», che il decreto contestato venga affrontato prima del consiglio dei ministri del 20 febbraio e che il governo cancelli la parte delle frodi fiscali. «Renzi ha detto “la manina è la mia... A me piace la franchezza — attacca Bersani — ma non riesco a fargli i complimenti». Per Pippo Civati, che presenta con Sel un emendamento sul conflitto d’interessi, la «legge vergogna» è opera della «manona» di Renzi. Per D’Attorre si tratta di «un’ombra gigantesca, gettata dal premier sulla credibilità del Pd». Anche il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, chiede di eliminare la norma del 3%, perché «rischierebbe di ammazzare processi importantissimi e costituire strumento per la costituzione di fondi neri, indebolendo la lotta alla corruzione».
Bersani intanto avverte Renzi, lo invita a non stravolgere l’idea di società incarnata dal Pd: «Per i lavoratori facciamo all’americana, per gli evasori all’italiana? Ci sono dei punti limite». C’è che il meccanismo dei nominati nella legge elettorale «non sta in piedi» e c’è che i bersaniani si preparano a bocciare un candidato al Quirinale che sia espressione del Patto del Nazareno. Gli chiedono di Prodi e Bersani, senza far nomi: «Bisogna ripartire da dove ci si è fermati». Rosy Bindi concorda e rivendica il copyright della proposta: «L’ho detto un mese fa che l’elezione del presidente deve partire da Prodi, dal sanare la ferita dei 101 franchi tiratori che sanguina ancora». E poi, sull’accordo con Berlusconi: «L’incidente sul fisco ha fatto nascere dei dubbi sulla trasparenza del Patto del Nazareno e ora Renzi deve riferire in Parlamento. Non solo perché dovremo votare il capo dello Stato, ma perché possa procedere l’iter delle riforme».
L’assalto della sinistra contro il leader, accusato di muoversi da «sindaco d’Italia», inizia al mattino nell’aula del Senato. Massimo Mucchetti apre la seduta chiedendo al premier di raccontare in Parlamento, «per filo e per segno», come quella norma sia finita nel decreto fiscale. I renziani insorgono. Il ministro Boschi nella riunione dei capigruppo dice no all’informativa urgente invocata dalla minoranza. E a Palazzo Madama scoppia il caso: chi ha autorizzato Mucchetti a parlare a nome del gruppo? Il tema sollevato dal giornalista-senatore e rilanciato dalla minoranza è il sospetto che Palazzo Chigi abbia «un problema di governance».
Per la Bindi «la figura del presidente del consiglio dei ministri come primus inter pares sta subendo una trasformazione profonda, si va verso il rafforzamento della figura del premier rispetto alla autonomia dei ministri». E Bersani, quando gli chiedono se il gabinetto di Renzi sia diventato una sorta di governo parallelo: «L’ho letto sui giornali e non sarò io a smentirlo».
Per Cecilia Guerra la «salva Berlusconi» deve essere modificata prima del 20 febbraio, «ma non può decidere il premier con Padoan, deve farlo il consiglio dei ministri». E Miguel Gotor è sulla stessa lunghezza d’onda: «Invece di parlare di manine o manone, guantate o meno, sarebbe opportuno che Renzi venisse a riferire nelle sedi istituzionali riguardo a un episodio che ha ampi margini di ambiguità».

Corriere 9.1.15
Il senatore Mucchetti: Pd sorpreso? Li avevo avvertiti
L’esponente della sinistra: avevo informato il capogruppo e ho avuto il via libera
Ma Zanda smentisce. E in Aula il suo vice Tonini deve prendere le distanze
di M. Gu.


ROMA Per i renziani l’intervento di Massimo Mucchetti è un agguato parlamentare, organizzato a tavolino dalla minoranza. Un «blitz» ordito dai bersaniani per indebolire il segretario-premier nella corsa verso il Quirinale. Ma il senatore, che per primo ha chiesto a Renzi di riferire in Parlamento sul fattaccio del decreto fiscale, smentisce trappole e conferma la sua buona fede.
«Mercoledì — ricostruisce Mucchetti — avevo avvisato il capogruppo Luigi Zanda di voler intervenire in apertura di seduta, sull’ordine dei lavori, per chiedere che la presidenza del Senato audisse il presidente del Consiglio sui problemi di governance emersi, sul decreto fiscale, nel processo decisionale del governo». Zanda però smentisce di avergli dato il via libera a intervenire a nome del gruppo e l’ufficio stampa fa trapelare l’«irritazione» del presidente per l’intervento del senatore. Zanda e Mucchetti ieri si sono parlati, senza però arrivare a un chiarimento.
Tra gli applausi di bersaniani, leghisti, cinquestelle e senatori di Sel (e mentre i renziani rumoreggiavano) Mucchetti ha chiesto a Renzi di chiarire l’iter del decreto fiscale: «È possibile che ci sia stato un funzionamento non perfetto delle decisioni politiche...». È possibile cioè, sospetta Mucchetti, che le decisioni collegiali del consiglio dei ministri siano «state modificate in modo monocratico», il che porrebbe «un problema di governance democratica». Stupore di Sacconi e sintonia di Calderoli, convinto che l’intervento di Mucchetti sia stato autorizzato dal gruppo, visto che si è tenuto in apertura di seduta. Ma Giorgio Tonini, vice di Zanda, smentisce Mucchetti. «Il gruppo — ha ammonito in aula il senatore renziano — ha accolto la richiesta confidando nel suo senso di responsabilità e di equilibrio, ma i contenuti dell’intervento impegnano Mucchetti e non il Pd». Presa di distanza ufficiale, alla quale Tonini aggiunge che «aver detto di parlare a nome del gruppo e non in dissenso è un elemento di scorrettezza». Mucchetti nega di aver tradito la fiducia del gruppo e ribalta la versione di Tonini: «Non voglio polemizzare. Ma ho informato i vertici del gruppo della proposta che intendevo fare, come del resto lo stesso Tonini ha riconosciuto nel suo breve intervento. Il testo del mio è disponibile e ciascuno può giudicare se sia o meno equilibrato e responsabile». Incassati gli apprezzamenti di Bersani, Bindi e Civati, Mucchetti tiene il punto: «Mi pare un approccio burocratico aprire una capziosa questione di metodo, laddove esistono diversi punti di vista su come vengono prese le decisioni del governo. Mi domando se, per Tonini, questo processo decisionale sia aderente al dettato costituzionale». Per lui non lo è affatto, visto che «una deliberazione collegiale del cdm è stata corretta dall’iniziativa individuale del presidente del Consiglio».

Corriere 9.1.15
Il caso del 3% può saldare le opposizioni al leader Pd

di Massimo Franco

Il caso non sta rientrando, anzi. Quando oggi Matteo Renzi tornerà dal viaggio-lampo negli Emirati Arabi Uniti, si accorgerà che il pasticcio del cosiddetto decreto fiscale «salva-Berlusconi» è diventato una sorta di bandiera dei suoi avversari interni. Di più: il vessillo dietro il quale la minoranza del Pd ma anche alcuni spezzoni delle opposizioni si schierano chiedendogli di trattare sulla legge elettorale e, sullo sfondo, sul Quirinale. Si tratta di un segnale che contraddice quelli, più distensivi, sulla riforma elettorale: sebbene anche sull’ Italicum si contesti un sistema che porterebbe a «nominare» circa il 60 per cento dei deputati.
Il problema non è tanto il provvedimento in sé, comparso misteriosamente nel testo presentato dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, il 24 dicembre scorso; e disconosciuto da tutti. A creare imbarazzo e acuire i sospetti di uno scambio inconfessabile tra depenalizzazione di uno dei reati per i quali è stato condannato Silvio Berlusconi, e voti per un candidato di Renzi al Quirinale, è quanto è accaduto dopo. Il fatto che il presidente del Consiglio abbia rivendicato la paternità almeno politica del decreto — «la manina è mia» — non è stato considerato sufficiente a placare la tensione.
Le molte domande sull’incidente si sono saldate con la voglia di mettere in mora il patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Né è piaciuta la scelta di difendere il provvedimento, e in parallelo di cambiarlo per poi ripresentarlo a Palazzo Chigi il 20 febbraio; e cioè a cavallo dell’elezione del successore di Giorgio Napolitano. Le sue dimissioni sono previste infatti per il 14 gennaio, e le Camere dovrebbero cominciare le votazioni in seduta comune giovedì 29 gennaio. Alcuni esponenti del Pd vorrebbero che si chiarisse la dinamica del «salva Berlusconi» prima di cominciare a votare per il capo dello Stato.
L’ex segretario Pier Luigi Bersani, ma non solo, contesta anche il merito del provvedimento, che a suo avviso protegge chi froda il Fisco. «Il modo per venirne fuori», secondo Bersani, «è non aspettare il 20 febbraio»; e invece ripresentare il decreto in Consiglio dei ministri e «togliere la parte delle frodi fiscali». Renzi, infierisce l’ex segretario del Pd, si è comportato come «l’oste che dà da bere agli ubriachi». Sono indizi di un confronto destinato a inasprirsi in vista della competizione per il Quirinale. È come se, vedendo un premier in difficoltà, un pezzo del Pd gli facesse capire che dovrà scendere a patti.
In questo contesto, candidare Romano Prodi, ex presidente della Commissione Ue e fondatore dell’Ulivo, come fa Bersani, appare una mossa a doppio taglio. Si ricorda come fu «bruciato» nel 2013 da 101 franchi tiratori, molti dello stesso Pd. E si dice a Renzi che occorre «ripartire da lì». Ma così si conferma che la vera incognita sarà la tenuta dei gruppi parlamentari di un partito di nuovo in tensione. Renzi, che ultimamente ha cercato di limitare al massimo le occasioni e i fattori di attrito, ha un paio di settimane per recuperare la fronda ed evitare una replica delle lacerazioni a sinistra di circa due anni fa. Non sarà facile, ma è costretto a provarci. Di più: se è possibile, a riuscirci.

Corriere 9.1.15
I conti del capo del governo sui franchi tiratori: sono al massimo 150
Dal quarto scrutinio non servirebbero più a nulla agli avversari
di Francesco Verderami


ROMA Non si era mai visto in una partita a scacchi che la prima mossa la facesse il nero. E invece nella sfida per il Quirinale Bersani ha deciso di anticipare il premier — cui spetta di diritto il bianco — togliendogli il compito di aprire il gioco. Ecco una delle tante novità che già oggi rendono la prossima corsa al Colle assai diversa rispetto alle edizioni precedenti. E c’è più di un motivo se l’ex segretario del Pd ha lanciato pubblicamente la candidatura di Prodi come successore di Napolitano. Nel partito c’è chi dice l’abbia fatto per riproporre sulla scena la generazione dei «rottamati», c’è chi sostiene l’abbia fatto per lanciar poi se stesso, e c’è infine Bersani, che da tempo voleva render nota la sua idea: «Aspetto che Renzi mi risponda “Prodi no”. Gli dirò che l’avevo capito due anni fa...».
Muovere un pezzo così pregiato ed esporlo immediatamente al sacrificio, vale se garantisce al giocatore la possibilità di mettere sotto scacco l’avversario. E Bersani infatti dichiara scacco al premier, additandolo come regista della famosa «operazione dei 101» che fu il principio della fine per l’allora capo della «ditta». Non è uno scacco matto, figurarsi. Ma ora le parti si sono rovesciate, ora è Renzi a dover fronteggiare lo stesso Parlamento e un partito — il suo — dove persino dirigenti a lui vicini ammettono sottovoce che «non sarà facile gestire i gruppi», specie dopo lo scandalo della norma fiscale «salva Berlusconi» per la quale si sentono a disagio.
Loro, non Renzi. Addossandosi di nuovo la responsabilità del codicillo contestato — un autentico segreto di Pulcinella nel Palazzo — e ripetendo che «la manina era la mia» e che «tornerò a metterci mano dopo l’elezione del capo dello Stato», il premier prova a rovesciare il gioco. Visto che aspettano il voto segreto per tendergli un agguato, lui a sua volta vuol tenere alleati e rivali tutti appesi: il Pd, i partner di governo e in misura minore Berlusconi, che già stava appeso e che ora gli starà ancor più appresso, data la posta in palio personale. È una mossa spericolata quella di Renzi, non c’è dubbio, ai limiti dell’azzardo. Un’altra novità paragonata ai metodi passati.
Ma il capo dei democrat scommette su due cose: intanto è convinto che la tempesta provocata dalla norma «salva Berlusconi» si placherà nel giro di pochi giorni, giusto il tempo che esca dal circuito politico-mediatico; e poi ritiene che sul Quirinale nel Pd prevarrà quello che lui definisce «senso di responsabilità istituzionale», e che i suoi avversari interni bollano come «conformismo opportunista». La traduzione, che val bene per entrambe le versioni, è: alla fine, dove vanno? Anche perché Renzi ha fatto i conti: al momento calcola al massimo 150 franchi tiratori, ma dalla quarta votazione ne servirebbero 190 per uccellarlo. Più che a una mediazione, insomma, si prepara a una prova di forza. Anche in questo caso non ci sono precedenti.
Così come non era mai accaduto che per il Colle ci fosse un florilegio di candidature: avanti di questo passo ci saranno più quirinabili che grandi elettori. E Renzi pare alimenti ad arte questa moda, muovendo pezzi sulla scacchiera prima ancora che inizi la partita. Tolto di mezzo Padoan, vittima eccellente sull’altare del Nazareno, il premier si esercita a testare i suoi interlocutori. Ognuno ovviamente fornisce una versione diversa delle volontà di Renzi. «Sono a caccia di una donna». E poi compare il nome di Bassanini. «Voglio una soluzione concordata». E poi spunta l’asse tra Lotti e Verdini. «Non è un incarico per un improvvisato». E intanto Grasso non fa che parlare dell’imminente periodo di supplenza al Quirinale. «Niente nomi per ora». E però chiede: «Ma secondo te, quello lì...».
Come un Mourinho che nelle vigilie importanti sente il rumore dei nemici, Renzi fa «pretattica sfrenata» per dirla con Bersani, che l’altro giorno ai suoi compagni ha raccontato: «Matteo di nomi ne ha già fatti almeno una decina. Praticamente tutti». E dietro quella risata c’è la consapevolezza — anche in autorevoli ministri del Pd — che il premier tenga coperta la vera mossa, da spendere al momento opportuno per dichiarare scacco matto al Parlamento. Chissà. Se ci riuscisse, sarebbe un’assoluta novità.
Di sicuro una novità, un’altra, c’è. Perché non solo Renzi tiene tutti appesi con la norma «salva Berlusconi», anche i grandi elettori sono appesi alla data ufficiale d’inizio della corsa per il Colle. Da tempo l’ipotesi più accreditata dal Quirinale è che Napolitano si dimetta il 14 gennaio, subito dopo il rendiconto del premier per la chiusura del semestre italiano in Europa. Ma visto che al Senato il voto sulla legge elettorale inizierà solo il 13, da ieri in Parlamento ha preso a circolare la voce che il capo dello Stato possa posticipare di qualche giorno il suo addio. Il Cavaliere — già in ansia per la supplenza di Grasso — ha chiesto preoccupato se il ritardo avrebbe implicazioni politiche. Sulla corsa al Colle no. Slitterebbe solo la decisione di Renzi sul decreto fiscale...

Repubblica 9.1.15
Prodi e salva-Silvio l’ultima trincea dei bersaniani per fermare Renzi
di Stefano Folli


Il segretario della Lega Salvini sta diventando l’unica voce dell’opposizione
NON ha torto Matteo Salvini quando nota l’anomalia di un’Italia politica assorbita dalla discussione per iniziati intorno alla legge elettorale mentre l’attenzione dell’Europa è tutta per l’11 settembre francese e le sue ricadute. Avrebbe ancora più ragione se in Parlamento la Lega non fosse coinvolta allo stesso livello degli altri gruppi intorno alle clausole della riforma. E non c’è da stupirsi, visto che dall’esito di queste manovre dipendono gli assetti dei prossimi anni.
D’altra parte, le anomalie non finiscono qui. Proprio la strage di Parigi ha proiettato Salvini sulle reti televisive come unica voce di peso dell’opposizione non «grillina». Si conferma il vuoto nel centrodestra, vuoto sempre più colmato dalla Lega, a fronte di un Berlusconi vincolato all’intesa con Renzi. E viceversa. Di conseguenza emerge una terza anomalia. Quasi alla vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica la vera dialettica non è fra il Pd e Forza Italia, bensì fra il Pd fedele alla linea del presidente del Consiglio e il Pd dissidente, vale a dire la più volte citata minoranza dei Bersani, D’Alema, Civati e altri. Un gruppo frastagliato, privo di disciplina interna e finora sconfitto in tutte le schermaglie intrecciate con il premier.
Oggi qualcosa sta cambiando? È presto per esserne certi, ma se gli avversari di Renzi vogliono giocare la loro partita in vista del Quirinale, questo è il momento di entrare in campo. Ecco perché sono interessanti le affermazioni rese ieri da Bersani, ex segretario del partito uscito di scena dopo il voto del 2013 e la rielezione di Napolitano. Allora, quando si trattò di eleggere il capo dello Stato, «ci fu un mix fra chi non voleva Prodi e chi non voleva Bersani. C’era qualche complotto in giro...». Bersani parlava all’”Aria che tira” e le sue parole sembrano pesate con una certa cura.
L’accusa di complotto è solo in apparenza generica. In realtà l’ex segretario e i suoi amici sono convinti che sia stato Renzi il regista del sabotaggio, attraverso i fatidici 101 franchi tiratori che affossarono la candidatura di Prodi e di fatto misero anche il segretario con le spalle al muro. Avere evocato quell’episodio — e non è la prima volta — ha un solo significato: la richiesta al presidente del Consiglio di sanare la ferita di quasi due anni fa «ripartendo da Prodi». Una sorta di «heri dicebamus» che implica un negoziato fra Renzi e la minoranza. Per meglio dire, fra Renzi e Bersani stesso.
Sotto il profilo della convenienza politica, il premier avrebbe tutto l’interesse ad accogliere l’invito. Ma l’uomo è spavaldo e non gradisce che gli si tagli la strada. Bersani, del resto, non gli ha lesinato critiche sul pasticcio del decreto fiscale. A conferma che quello è il punto dolente su cui il pragmatismo renziano può incagliarsi, ovvero può riprendere slancio sfruttando fino in fondo l’appoggio esterno di Berlusconi. Sta di fatto che ieri a Palazzo Madama, in sintonia con l’intervento del suo vecchio segretario, il senatore Mucchetti ha chiesto la presenza di Renzi in aula per spiegare la genesi della fatidica norma cosiddetta salva-Berlusconi inserita nel decreto. Mucchetti ha parlato a titolo personale, ma con l’autorizzazione del suo gruppo. Ha usato un tono misurato, così da non mescolarsi coi gruppi d’opposizione, dai Cinque Stelle al Sel, ma le frasi erano inequivocabili.
Ovvio che il presidente del Consiglio non si piegherà alla richiesta. Tuttavia il doppio segnale fuori e dentro il Parlamento (Bersani e il puntiglioso senatore) non va sottovalutato. C’è un segmento del partito che chiede a Renzi di tornare in un certo senso al 2013. Il che significa non ricadere nella tentazione del «veto » e non escludere Prodi e forse lo stesso Bersani dalla rosa dei possibili candidati alla presidenza. Ieri la minoranza del Pd ha messo le carte in tavola; vedremo come risponderà Renzi nei prossimi giorni.

il Fatto 9.1.15
Svizzera, a chi conviene l’accordo
Aliquote favorevoli per i capitali nascosti all’estero da oltre otto anni
Attesi 30 miliardi su 2-300
di Camilla Conti

Milano Le trattative vanno avanti da qualche anno. Ci aveva provato, invano, il governo di Mario Monti. Gli sherpa di Enrico Letta erano arrivati a un passo dalla meta annunciando a più riprese il “quasi goal” senza però sfondare mai la porta. Dopo due anni e mezzo di negoziati, l’accordo ora sembra arrivato e nelle prossime settimane è attesa la firma fra Italia e Svizzera sulla revisione dell’accordo di doppia imposizione e sulle modalità per lo scambio automatico di informazioni.
L’accelerazione decisiva è scattata a inizio dicembre, dopo che il Parlamento italiano ha approvato la legge sulla cosiddetta voluntary disclosure per l’emersione dei capitali detenuti illecitamente all’estero. La nuova legge fissa infatti nel 2 marzo l’ultimo giorno utile per firmare intese fiscali che consentano ai Paesi inseriti oggi nella “black list” dei paradisi fiscali di passare nella “white list”. Una volta firmato l'accordo, gli italiani potranno mettersi in regola pagando sanzioni più basse rispetto a quelle previste nel caso di Paesi inseriti nella “lista nera”. Secondo gli esperti, il rientro dei capitali è conveniente se i capitali si trovano in Svizzera da più di otto anni, quindi già prescritti. In questo caso il costo del rimpatrio si aggira tra il 12 e il 15 per cento. Se invece si trovano all’estero da meno di otto anni, il costo può arrivare al 50 per cento. Per i patrimoni leciti come le vecchie eredità, i patrimoni dei professionisti e gli utili societari sottratti al fisco italiano la sanzione prevede il pagamento delle imposte sui rendimenti per ogni anno di permanenza all’estero, oltre alle multe e agli interessi per il ritardato pagamento e alle sanzioni per la mancata comunicazione sul quadro Rw della dichiarazione dei redditi. Ci sarà tempo fino al prossimo 15 settembre per autodenunciarsi al Fisco e godere degli sconti. Rispetto agli scudi fiscali precedenti, però, non è previsto l'anonimato sui capitali rimpatriati.
LA PROMOZIONE alla lista bianca conviene alla Svizzera, perché consentirà alle sue imprese di operare con più facilità in Italia. Quanto a Renzi, conta di recuperare un po’ di ossigeno per i conti pubblici. La norma introdotta nell’ultimo decreto Milleproroghe, inoltre, punta ad attingere 671 milioni già da quest’anno dalle entrate derivanti dal rientro dei capitali per evitare l'aumento degli acconti d'imposta del prossimo autunno e il rincaro delle accise sulla benzina a partire dal 2016. Secondo alcune stime riportate nei giorni scorsi da Italia Oggi, gli italiani hanno depositato in Svizzera nel corso degli anni tra i 200 e i 300 miliardi di euro. Di questi, il 40% circa non ha goduto in passato di alcuna forma di regolarizzazione. Le previsioni degli analisti parlano dunque di circa 80-120 miliardi di euro che potrebbero venire interessati dall'ultima voluntary disclosure varata dal parlamento. Ma soltanto una metà dovrebbe approfittare della manovra e non più di 25-30 miliardi di euro sembrano destinati a rimpatriare.

Repubblica 9.1.15
Cina
“Donne giovani e belle” E ora arriva il casting delle mamme in affitto
Sempre più coppie vogliono figli “perfetti”
A Pechino è boom di donazione di ovuli
di Giampaolo Visetti

PECHINO GIOVANI , belle e intelligenti ». Gli inviti ai casting occupano uno spazio speciale nelle università più esclusive, in multinazionali e ristoranti di lusso. Le agenzie cinesi non cercano attrici e modelle. Oggi sono a caccia di mamme per conto terzi.
La nazione più popolosa del mondo vede lo spettro di un invecchiamento record e il business della donazione di ovuli registra un boom senza precedenti. Le coppie che non possono avere figli non si accontentano di una donatrice scelta dal destino. Pretendono ciò che i mutati canoni della bellezza asiatica suggeriscono essere il massimo: «Pelle chiara, altezza oltre 160 centimetri, occhi a ciliegia». Per il mercato nero della fecondazione è una pioggia d’oro. Migliaia di ragazze e di ragazzi, grazie alla donazione, possono pagarsi gli studi, o permettersi lo shopping. Un successo per tutti: i clienti ottengono l’erede che sognano, i donatori guadagnano un reddito inatteso e lo Stato conta sulla frenata del crollo demografico.
«Il vero affare però — avverte il quotidiano Beijing News — lo fanno i mediatori». Per ovuli first class le agenzie trattengono fino all’equivalente di 9mila euro, una fortuna. Informazioni confidenziali, ma avvocati e attiviste per i diritti delle donne denunciano che, chiusa l’era del figlio unico, si apre quella di «aste e selezione preventiva della specie ». Gli annunci delle agenzie, a Pechino e a Shanghai, dilagano anche per le strade, sui mezzi pubblici e nelle bacheche elettroniche degli atenei. Le studentesse da concorso di bellezza e con un curriculum da genio strappano fino a mille euro per ogni donazione, corrisposto ufficialmente come «sussidio per il vitto».
Il sogno di un discendente fuori dal normale è così irresistibile che ai commercianti di ovuli si rivolgono pure le coppie che non avrebbero problemi a generare in modo naturale. La nuova classe media, sopravvissuta al trauma degli aborti forzati di Stato, scopre il ribattezzato «effetto Hollywood »: tutti devono essere belli e di successo, per trasformarsi nei «consumatori-tipo» pianificati dal partito. Se la storia familiare non testimonia esemplari all’altezza delle attese, meglio rivolgersi al mercato che affrontare una delusione. «La donazione degli ovuli — si difendono le agenzie — non è pericolosa e aiuta i partner che non possono concepire un bambino. Limitarla per legge è un’altra forma di condizionamento della libertà individuale».
I problemi, per il traffico clandestino, esplodono quando i clienti si sentono truffati: neonati come gli altri, figli con handicap, eredi che non vogliono studiare, o con un profilo non scolpito dal chirurgo estetico. Migliaia, nell’ultimo anno, le denunce di mediatori accusati di non aver selezionato ovuli di «qualità sufficiente ». Le autorità, dopo il primo freno tirato nel 2006, intimano ora «visite mediche e raccolta ovuli solo negli ospedali pubblici». La legge considera però solo i fattori sanitari, non quelli narcisistici, e s’ingrossa l’esercito di chi pretende un figlio non per amore, ma per esibizionismo. La Commissione nazionale per la salute rivela che l’87 per cento delle coppie che pensa ad un bebè in provetta pone avvenenza e quoziente intellettivo in testa alle priorità, prima ancora della salute.
Negli ultimi trent’anni, dopo che Deng Xiaoping limitò le nascite, la precedenza è stata data al sesso: niente femmine, solo maschi, per assicurarsi lavoro e sostegno economico nella vecchiaia. «Social network e industria del cinema — osserva l’Accademia delle scienze di Pechino — rovesciano i valori: in Cina non servono più braccia, ma intelligenze a volti adatti alla società dei consumi». Medici e ricercatori ripetono che i caratteri dei donatori non sono automaticamente riscontrabili negli individui nati da ovuli impiantati e le autorità hanno appena limitato a cinque donne gli spermatozoi provenienti da un unico donatore. Campagna vana, vista la moltiplicazione di agenzie e cliniche della fertilità anche in villaggi e regioni meno ricche. Sotto accusa finiscono così i veleni che minano la salute dei cinesi e lo stile di vita che sconvolge la società. Gli scienziati avvertono che mai come oggi la popolazione più numerosa del pianeta si scopre affetta da deficit di fertilità, mentre i sociologi lanciano l’allarme sulla «solitudine imposta dall’urbanizzazione forzata». Un’ignota mamma «bella, alta e intelligente » serve per dimostrare di «avercela fatta». Ma per milioni di cinesi l’investimento è anche l’unica possibilità di avere un contatto, pur a distanza, con qualcuno.

Corriere 9.1.15
L’impronta di Augusto su Roma
di Eva Cantarella


«Se lo spettacolo vi è piaciuto, applaudite» disse Augusto prima di morire, dopo aver chiesto uno specchio ed essersi pettinato. Così quantomeno scrive Svetonio, e poco importa che l’aneddoto sia vero o falso. A far pensare alla vita di Augusto come a uno spettacolo contribuiscono, in effetti, non pochi elementi: il carattere dell’uomo, come pochi altri consapevole dell’importanza della sua immagine pubblica e privata, la sua genialità nel conquistare e mantenere il consenso e nel legare la gens Iulia, alla quale apparteneva, al mito delle origini troiane di Roma (e quindi a una sua remota ascendenza divina).
Fu veramente uno spettacolo, la vita di Augusto, sotto il cui governo Roma si trasformò da Repubblica in Principato, mentre la città, secondo il suo progetto, assumeva anche urbanisticamente un nuovo aspetto. Ed ecco, oggi, un libro di uno dei maggiori archeologi italiani, e non solo, Andrea Carandini, accompagnarci in una visita a quella Roma. Il libro si intitola La Roma di Augusto in 100 monumenti (Utet, pp.144, € 30) e anche se sarebbe riduttivo definirlo tale è, in primo luogo, una straordinaria guida ai monumenti riconducibili al periodo del potere augusteo (44 a.C. - 14 d.C.).
Individuati tra gli strati di rovine che i secoli hanno accumulato e sovrapposto, questi monumenti guidano il lettore in una visita che non è solo archeologica. Accompagnata da un apparato di testi (affidati, per ciascuno degli scavi, a uno dei nove archeologi che hanno collaborato con Carandini e illustrati da un eccezionale apparato iconografico), questa straordinaria visita contestualizza i monumenti, restituendone non solo l’immagine, ma anche la funzione e la storia. Classificati per tipologie (quelli dedicati a infrastrutture e servizi, quelli amministrativi, i luoghi di culto, gli edifici per la produzione e il commercio, quelli per le attività culturali, i monumenti onorari, le abitazioni, le aree funerarie) i documenti, nel loro insieme, prospettano un quadro generale della cultura dell’epoca, sotto tutti i suoi diversi aspetti. Qualche esempio, partendo dal diritto pubblico: la descrizione del luogo destinato alle votazioni assembleari (chiamato Saepta Iulia, dopo la sua ristrutturazione, portata a termine da Augusto) offre informazioni fondamentali sulle trasformazioni del sistema politico romano: tra l’altro, quelle che riguardano le basi sulle quali veniva concesso il diritto di voto e su come si svolgevano le operazioni elettorali.
Passando ad altro tipo di monumento: la casa delle Vestali. Sorteggiate tra le famiglie più in vista quando avevano un’età tra i 6 e i 10 anni, le sacerdotesse di Vesta erano tenute a un voto di castità che le vincolava per 30 anni, e punite con una morte orribile (la vivisepoltura) se venivano meno al voto. Oltre che ad avvicinarci alla religione dei nostri antenati, la visita alla loro casa contribuisce alla conoscenza di alcuni importanti aspetti della condizione femminile.
E ancora: il tempio dedicato a Marte Ultore (vendicatore), costruito da Augusto per adempiere un voto fatto poche ore prima della battaglia di Filippi, in cui sconfisse i cesaricidi, offre molti spunti per riflettere su una caratteristica importante della cultura e del diritto romano, vale a dire la persistenza della concezione arcaica della vendetta intesa come imprescindibile dovere sociale.
Inutile insistere sull’interesse e l’importanza di questo libro, sul quale tante altre cose si vorrebbero dire. Non potendolo fare, non resta che lasciare il piacere di scoprirle a chi lo leggerà.

Corriere 9.1.15
Come e dove fu ucciso Berija, l’uomo dei segreti
risponde Sergio Romano


Mi ero fatto l’idea che Berija, capo dell’Nkvd, fosse un uomo spietato, vizioso e autoritario. Però la Nezavisimaya Gazeta ha pubblicato lettere, documenti e testimonianze, in gran parte inediti, da cui emergerebbe un quadro differente del personaggio. Sembrerebbe che fosse un riformatore che non era riuscito nell’intento di apportare una svolta nella politica sovietica. Aveva proposto, tra l’altro, dopo la morte di Stalin, la liberazione di tanti condannati ai lavori forzati, ma aveva trovato l’opposizione di Kruscev e di altri capi del Politburo. Non è una novità, ma in precedenza correva fama che costoro l’abbiano strangolato e non fatto giustiziare dopo un processo. Fu Kruscev a narrarlo a Pajetta in un momento di sincerità dovuta all’alcol.
Antonio Fadda

Caro Fadda,
Secondo uno studioso polacco (Thaddeus Wittlin), autore di una biografia di Lavrentij Berija, sulla sua morte esistono non meno di cinque versioni. Secondo una prima versione sarebbe stato arrestato di fronte al Teatro Bolshoi, mentre stava per assistere alla prima rappresentazione di un’opera sui Decabristi, e trasportato immediatamente alla Lubjanka per un rapido processo, seguito un colpo di pistola alla nuca. Secondo un’altra tesi, sarebbe stato «preso in carico» dai maggiori esponenti del regime dopo un ricevimento all’ambasciata di Polonia e subito portato alla Lubjanka, dove la sua sorte sarebbe stata quella descritta nella prima versione.
Secondo una terza tesi, il processo politico a Berija avrebbe avuto luogo al Cremlino, nella notte del 26 giugno 1953, durante una riunione del Consiglio dei ministri, allora presieduto da Georgij Malenkov. Gli sarebbe stato rimproverato di avere preso iniziative indipendenti e azzardate, senza consultare i colleghi del governo e del Presidium del partito: la liberazione dei medici ebrei, accusati da Stalin di avere complottato contro il regime, e la benevolenza dimostrata verso i berlinesi che erano scesi in piazza, dieci giorni prima, per protestare contro la politica economica e sociale della Repubblica democratica tedesca.
Quanto alla morte, esistono, alla fine di questa terza versione, sceneggiature diverse. Messo alle strette, Berija avrebbe cercato di estrarre una pistola dalla borsa, ma Krusciov avrebbe afferrato il suo braccio e deviato la canna verso il soffitto. Chiamato da Malenkov, sarebbe apparso immediatamente nella sala del Consiglio il generale Kirill Moskalenko, eroe della battaglia di Kursk, che avrebbe abbattuto Berija con un raffica di fucile mitragliatore. Secondo altre versioni, diffuse da Krusciov in tempi diversi, il giustiziere sarebbe stato lo stesso Krusciov o un altro bolscevico della prima guardia, Anastas Mikojan. Esiste infine una versione ufficiale secondo cui Berija, arrestato in giugno, sarebbe stato processato e fucilato in dicembre. Sul Corriere del 6 maggio 2000, Vittorio Strada ha pubblicato la lettera che Berija avrebbe scritto prima dell’esecuzione per protestare la sua innocenza e chiedere ai «cari compagni» la nomina di una commissione d’inchiesta.
Fu un riformatore? Forse, ma le sue riforme, come quelle di Krusciov, erano probabilmente lo strumento di cui si sarebbe servito per scalare il potere e sbarazzarsi del maggiore numero possibile dei suoi molti nemici. Per raggiungere lo scopo avrebbe fatto largo uso di tutte le informazioni compromettenti sui suoi compagni di partito che aveva raccolto negli anni in cui era capo dei servizi di sicurezza e ministro degli Interni. Fu questa la ragione per cui fu eliminato.

Repubblica 9.1.15
“Il vero Bach si chiamava Magdalena”
Il direttore d’orchestra Martin Jarvis: le “Suites” le ha composte la moglie
“Lei era un genio e le partiture sono sue. Ho le prove certe: c’è anche la firma”
di Roberto Brunelli


ANNA Magdalena era giovane, forse bella. Era devota a suo marito. Suo marito era tutto, suo marito era un genio, suo marito era il Kapellmeister Johann Sebastian Bach. Lo accompagnava in concerto. Lei cantava, lui suonava il clavicembalo. Ma ancora più spesso la ragazza se ne stava in casa, a Köthen, china sulle carte. A trascrivere partiture. Copie su copie, centinaia di pagine di suoni. Musica assoluta, rivolta a Dio. Fin qui la storia, quella conosciuta: lui il creatore, lei la fedele copista.
Ora, però, c’è un signore di nome Martin Jarvis, riverito professore alla Charles Darwin University in Australia e direttore d’orchestra, il quale se ne esce con una teoria — lui parla di “prove” — che mette sottosopra non solo quella storia ma anche gli ultimi trecento anni di conoscenza musicale. Eccola: le “Suites per violoncello solo”, monumento dell’ingegno umano come lo sono la Cappella Sistina per l’arte o le Piramidi nell’architettura, non le ha scritte Johann Sebastian Bach. Le ha scritte Anna Magdalena, sua seconda moglie. Lui, Jarvis, esibisce prove grafologiche, una serrata ricostruzione storica e analisi approfondite sul manoscritto realizzato dalla giovane sposa (l’originale autografo del Kapellmeister è andato perduto — o non esiste, appunto): insomma quelle pagine sono Written by Mrs Bach , come dice il titolo del libro di Jarvis e anche di un documentario che sta facendo furore in vari festival europei. Ovvio che le teorie del professore e musicista — nonché figlio di un commissario di polizia gallese — incontrano molta fiera ostilità e discreto sconcerto, soprattutto in ambito accademico: ma sono critiche alle quali lui contrappone un’intera vita di studioso nei meandri della “galassia Bach”, compresi saggi, lezioni universitarie, articoli scientifici.
Scusi, professor Jarvis, ci spieghi bene: è come se qualcuno oggi ci dicesse “non è stato Leonardo a dipingere la Gioconda”...
«Quel che dico io è che le Suites per violoncello sono l’opera di un genio: e questo è Anna Magdalena Bach! Dunque, noi accettiamo senza problemi che Mozart a cinque anni fosse un fenomeno musicale, ma ci sembra impossibile dare lo stesso credito ad una giovane ragazza, una ventenne di cui già sappiamo che fosse un grande talento. Johann Sebastian era suo insegnante e mentore, indubbiamente, ma lei era un genio. Il che appare in tutta la sua evidenza a qualsiasi musicista che esamini da vicino la relazione armonica tra i due minuetti e la sua progressione nel secondo minuetto nella prima Suite».
Ma com’è giunto a questa scoperta?
«Sin dal primo momento in cui ho suonato il preludio della prima Suite, nel 1971, da studente alla Royal Academy of Music, il mio istinto mi disse che questa non era musica di Johann Sebastian. Il mio professore di viola Winifred Copperwheat mi raccontò che non esiste un manoscritto originale di Bach delle Suites. M’insospettii subito: c’è qualcosa di sbagliato in questa storia, pensai. Dopodiché, io capovolgo il ragionamento: da un punto di vista strettamente musicale, non c’è alcuna prova che sia stato Johann Sebastian il compositore delle Suites: mancano, per così dire, le “impronte digitali” del suo stile. In altre parole, se venissero alla luce adesso, niente le identificherebbe come musica di Bach».
Lei si è rivolto anche ad esperti calligrafi forensi, che hanno analizzato i manoscritti di Bach e di sua moglie, giusto?
«Sì. Le prove dimostrano la presenza della grafia e della scrittura musicale di Anna Magdalena anche in manoscritti in cui per tradizione non dovrebbero essere presenti, ossia in partiture che risalgono al 1713, ben sette anni prima di quando i libri di storia dicono che lei sia entrata nella vita di Bach. Uno degli esperti da me interpellati, Heidi Harralson, dichiara esplicitamente che vi è “un ragionevole grado di certezza scientifica” che sia stata Anna Magdalena a comporre le Suites. E infine c’è quella “firma” che appare su uno dei due manoscritti attraverso i quali l’opera è giunta a noi: “Ecrite par Madame Bachen, son Epouse”, ossia “scritto da madame Bach, sua sposa”. Fu il colpo di fulmine sulle mie lunghe e intense ricerche».
Ma sono un’opera rivoluzionaria, che ha ridefinito completamente il suono del violoncello...
«Certo, e non sorprende che Rostropovich le abbia suonate davanti al Muro di Berlino quando crollò. Anzi, le dico che sono ben più rivoluzionarie di altre pagine similari di Bach, per esempio le Sonate e Partite per violino solo: ogni singolo aspetto delle Suites è innovazione pura. Lo ripeto: sono state composte da un genio, Anna Magdalena, “messe insieme” ( composee) con l’assistenza di suo marito, Johann Sebastian, come indicato nel manoscritto di cui le dicevo prima».
I suoi critici però dicono che le Suites non possono esser state composte da Anna Magdalena perché aveva troppi figli a cui badare: ben tredici. Cosa risponde?
«Un argomento miserevole che ho sentito così spesso da musicisti maschi che chiaramente non sanno quanti compositori donna con bambini ci siano stati nella storia. Vi sono compositrici sin da quando esiste quella forma d’arte che si chiama musica, solo che queste non sono state riconosciute. A parte questo, casa Bach aveva molti domestici, e la prima cognata di Johann Sebastian ha vissuto con loro fino alla sua morte nel 1729, molti anni dopo che le Suites erano state composte. E poi non ci sono mai stati tutti quei bambini contemporaneamente in quella casa, molti purtroppo morirono prematuri ».
Ritiene che anche altri capolavori di Bach si possano attribuire ad Anna Magdalena?
«Sì, ritengo che lei abbia composto anche diverse pagine del primo e del secondo libro del Clavicembalo ben temperato, l’Aria delle Variazioni Goldberg e che ci sia qualche suo inserto nelle Sonate e Partite per violino solo. E forse anche molto di più».
Casals, Fournier, Yo Yo Ma, Rostropovich, Brunello… per i grandi violoncellisti della storia le Suites rappresentano più o meno l’apice di una carriera. Qual è l’interpretazione che lei ama di più?
«Io veramente adoro la versione del violoncellista inglese Stephen Isserlis: anche se lui proprio si rifiuta di credere alla mia teoria...».
Che tipo di persona era Anna Magdalena?
«Era una musicista estremamente dotata, probabilmente assai ambiziosa e guidata da un profondo desiderio di comporre musica. Penso anche che fosse molto bella: Bach fece realizzare un suo ritratto dopo il 1730 e lo teneva sempre con sé. La loro è una storia di vera passione amorosa. Purtroppo, quel ritratto è andato perduto. Ma lei, Anna Magdalena, finalmente l’abbiamo ritrovata».

giovedì 8 gennaio 2015

Repubblica 8.1.15
Sergio Staino
“Piango l’amico Georges uomo libero contro i dogmi”
intervista di Raffaella De Santis


LA LORO è stata una grande amicizia. Georges Wolinski per Sergio Staino non era solo un collega. Il loro primo incontro risale a più di trent’anni fa. Wolinski allora era noto per il personaggio di Paulette, ricca ereditiera orgogliosamente comunista. Ad unirli una satira corrosiva, un’ironia dissacrante e politicamente scorretta.
A quando risale la vostra amicizia?
«Ai tempi di Linus. Collaboravamo entrambi alla rivista. Wolinski era per me, insieme a Reiser, un mito. Così un giorno andai a Parigi e gli suonai al campanello. Poi nel corso degli anni è venuto spesso a mia casa in Toscana, insieme abbiamo fatto un viaggio a Cuba negli anni ‘90. Ha anche partecipato al mio film Non chiamarmi Omar, nella parte di un giornalista erotomane. Gli piaceva ridere sul sesso».
Quali sono i limiti alla libertà di critica?
«Wolinski era un antidogmatico, un anarchico di sinistra. Le sue storie erano certamente molto feroci, ma è la satira stessa a richiedere questo atteggiamento. La satira è per sua natura seminatrice di dubbi. La sua arma è l’intelligenza e in questo fa più male di un fucile o di una bomba».
Charlie Hebdo era nel mirino dei fondamentalisti. Ne avevate mai parlato?
«No, non discutevamo di questo. Nessun vignettista lavora pensando ai rischi. La libertà di espressione non può essere fermata in nome di un dogma. La satira esagera, allude, sottintende, è il suo modo di guardare il mondo».
Crede che questa tragedia innescherà forme di autocensura?
«Certo, si rischia che alimenti reazioni nazionaliste, che aiuti Salvini e Le Pen. Ma per quanto mi riguarda, dopo quello che è successo, ho ancora più voglia di dire la mia. Non dobbiamo permettere che il riso venga soffocato. Il mondo auspicato da questi fondamentalisti è di una tristezza terribile. Hanno colpito Parigi come simbolo della laicità e della democrazia».
Bobo che direbbe?
«Si sentirebbe orgoglioso di appartenere a una schiera di personaggi di carta che muoiono per il diritto di parlare».
Una vignetta di Wolinski che ricorda.
«Un operaio con una ragazza bellissima seduta sulle ginocchia e la frase: “Nulla è troppo per la classe operaia”».

Repubblica 8.1.15
La stampa in trincea.
Nella strage delle matite i giovani fanatici giustiziano i vecchi libertini
di Michele Serra

Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello del radicalismo laico e repubblicano, molto solido in Francia. Con una forte innervatura sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo ma ben presente anche prima, lungo Nove e Ottocento
NON è vero che a Charlie Hebdo niente è sacro. Sacra, in quel vecchio giornale parigino, è la libertà. Danzava, la libertà, allegra e nuda come le donnine di Wolinsky, attorno alla fragile trincea di scrivanie coperte di carta, matite, giornali, pennarelli (l’arsenale delle vittime) sulle quali sono caduti gli impenitenti artisti della satira francese, molti dei quali anziani, freddati dai loro giovani assassini.
Ragazzi bigotti che uccidono vecchi libertini. Autori di lungo corso come Georges Wolinsky, Charb, Cabu, usciti indenni da cento processi per oscenità, scampati a licenziamenti, fallimenti e censure, sopravvissuti perfino alle tante rissose diaspore interne al mondo (litigiosissimo) del giornalismo satirico, per poi morire così, macellati da due imbecilli sanguinari che della libertà niente possono e vogliono sapere: la libertà sta ai fanatici come la bicicletta ai pesci. Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello, così solido in Francia, del radicalismo laico e repubblicano. Con una forte innervatura sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo ma ben presente anche prima, a ritroso lungo Nove e Ottocento. Ispiratore indiscusso della rivista fu François Cavanna (origini piacentine), un vecchio hippy ribelle autore di versi esilaranti e spietati sulla soggezione dei popoli al potere e alle religioni. È morto nel suo letto quasi un anno fa, novantenne, candido e magro come un sacerdote, risparmiandosi questo orrore, e lo strazio di sapere offesa così in profondità la sua ilare tribù.
Il marchio di fabbrica di quel milieu satirico, immutato negli ultimi decenni e attraverso numerose testate, è una sorta di oltranzismo libertario e libertino che irrita anche la sinistra perbenista ed è sempre stato odiato dalla destra tradizionalista: il precedente direttore del giornale Philippe Val, omosessuale, pochi anni fa venne inseguito e picchiato per la strada, dopo un dibattito televisivo, da un gruppo di cristiani omofobi che voleva insegnarli come si sta al mondo. Una umiliante rappresaglia, ma niente in confronto al mostruoso esito del nuovo conflitto nel quale Charlie Hebdo, diciamo così per sua natura, non poteva non immischiarsi: quello tra la libertà di espressione e il fondamentalismo islamista. La lunga guerra iniziata “ufficialmente” nell’ormai lontano 1989 con la fatwa contro Salman Rushdie e i suoi Versi satanici . Guerra intestina all’Europa, va ricordato, fino dal suo primo atto: pare certo che la condanna a morte di Rushdie sia stata ispirata da ambienti islamisti londinesi, come se la refrattarietà di quel pezzo di Islam alla libertà di parola e di immagine fosse acuita, irreparabilmente, dalla promiscuità con i nostri costumi, ivi compresa la nostra (benedetta) scostumatezza.
La satira è, di suo, un linguaggio di confine, estremo e poco conforme alla disciplina. Restando (e purtroppo ci tocca) nella metafora bellica, è come un corpo di guastatori, le cui sortite non possono che scompaginare i ranghi, destabilizzare i ruoli. Sarebbe del tutto immorale, qui e ora, aprire il dibattito sulla liceità della blasfemia, o se volete della insolenza verso i dogmi religiosi. Sarebbe la cosa più blasfema da fare accanto a quei morti innocenti, e certamente morti di libertà (a causa della libertà, in nome della libertà). Sarebbe come se dalle retrovie, e con il culo al caldo, ci permettessimo di discettare sul rischio che si sono presi quei caduti.
Limitiamoci a constatare che, sul fronte della libertà di parola e di immagine, la satira non può che essere in prima linea. E a Charlie Hebdo avevano deciso di non arretrare di un passo. Ben sapendo — tra l’altro — che per una rivista fatta sostanzialmente da disegnatori la collisione con l’iconoclastia islamista è nelle cose. Le vittime di questa carneficina avevano tutte, metaforicamente o nella realtà, la matita in mano. E’ la matita, in questo vero e proprio Ground Zero della libertà di stampa, il minimo eppure potentissimo grattacielo abbattuto. Mettetevi una matita nel taschino, nei prossimi giorni, per sentirvi più vicini a Charlie, anche se non l’avete mai letto, anche se la satira vi piace così così, e la trovate eccessiva o sguaiata o provocatoria.
Salutiamo con un sorriso aperto — loro non vorrebbero di meglio — quella gente appassionata, intelligente e inerme, il direttore Charb (Stéphane Charbonnier), Cabu (Jean Cabus), Tignous (Berdard Verlhac), Georges Wolinsky, ingoiati dal buco nero dell’odio politico-religioso insieme al giornalista Bernard Maris, ad altri cinque compagni di lavoro e a due agenti di polizia. Provate a immaginare, per prendere le misure della strage di rue Nicolas- Appert, se i vignettisti che ogni giorno vi fanno ragionare o ridere sui giornali italiani venissero falciati tutti o quasi da un pogrom di fanatici, lasciando vuoto, sulla pagina, quel quadrato così superfluo e così indispensabile. Non dimentichiamoci mai, neanche per un secondo, come profuma di buono la libertà, e quanto siamo debitori, come europei, alla Francia e a Parigi.

il Fatto 8.1.15
Il mitra seppellisce più di una risata
di Alessandro Robecchi


A quella scemenza della risata che vi seppellirà non ci ho mai creduto molto, perché poi, come si vede, un paio di kalashnikov ti seppelliscono di più. Ma è proprio in questo “mitra contro matite” che si misura tutta la follia di ieri, morte contro disegnini, e il fatto che coi disegnini – con la satira – si possono dire cose enormi, e vere. Facevano quello, a Charlie Hebdo, e lo facevano con la tigna e la cattiveria che ci vogliono. Se si guardano le copertine degli ultimi anni, Charlie non ha risparmiato nessuno, dal pisello di Hollande alla tristezza di Allah, disgustato di essere amato da dei coglioni come gli integralisti che ieri hanno sparato. E poi c’è qualcosa di più e di peggio, perché la satira è la più libera delle nostre libertà e attaccando quella attacchi tutte le altre. Ridere di qualcosa rimane la cosa più eversiva che esista, malamente tollerata in democrazia, figurarsi presso soldati invasati che dicono di aver dio dallo loro parte. Ridere, e far ridere, necessita intelligenza, senso critico, capacità di rivelare l’assurdo anche dove nessuno lo vede, opinioni, libertà totale. Sono queste cose i veri nemici di chi ha sparato ieri a Parigi, e sono queste cose che alla fine, se le praticheremo con costanza, ci salveranno da loro. Matite contro mitra.

Repubblica 8.1.15
L’amaca
di Michele Serra

AVREI voluto lasciare vuoto questo cubicolo di carta, oggi, in segno di lutto, e di sconsolata impotenza. Ma poi ho pensato che il terrorismo ha un nemico invincibile, e questo nemico è la normalità delle nostre vite quotidiane. Le abitudini, i gesti utili e quelli inutili, le banali incombenze, il lavoro, la lettura, la scrittura, lo scambio di parole, insomma quella fitta e potentissima trama sociale che il terrorismo intende squarciare, senza mai riuscirci del tutto. Il suo obiettivo è renderci diversi da ciò che siamo: o più spaventati o più cattivi o più disorientati. Se invece riusciamo — in caso di terrorismo — a rimanere uguali a noi stessi, allora non possiamo che vincere, come un fiume enorme e pacifico che sommerge ogni asperità malevola. Mio compito è scrivere ogni giorno e questo voglio e devo fare. Immagino anche a Parigi — come accadde a Londra dopo le stragi islamiste nel metrò — lo sbandamento, lo sgomento, un breve annaspare nel panico, e poi la città che ricomincia a macinare la sua giornata, semmai con una punta di convinzione e di orgoglio in più. Ognuno di noi — non solamente i vignettisti satirici — è un potenziale bersaglio, di bomba o di raffica. Ma siamo talmente tanti, e talmente vivi e indaffarati, che fermarci è impossibile, come fermare il tempo che scorre.

Corriere 8.1.15
Il Corano e la tradizione
Quel divieto di mostrare il Profeta
di Roberto Tottoli


Non è il Corano, bensì le tradizioni islamiche che raccontano quanto voluto dallo stesso Maometto, a sancire l’opposizione islamica per le immagini. Alcune testimonianze limitano il divieto a statue e a riproduzioni in rilievo, oppure al volto e non ai corpi, altre sottolineano i vincoli più stringenti nei luoghi di culto.
Il timore che le ha dettate era quello dell’idolatria, ed è per questa ragione che molte volte il Profeta ne parlò e le proibì. Ma non di rado, le pratiche potevano esser diverse. Lo stesso Maometto, quando riconquistò Mecca poco prima di morire e impose la fede in Allah, cercò di risparmiare un affresco con Maria e Gesù conservato nella Kaaba. E i primi califfi non si fecero mancare lussi e privilegi dell’arte nelle loro residenze, dove ancora sopravvivono mosaici e riproduzioni figurate di esseri viventi.
Nella storia islamica prevalse la linea di proibire la riproduzione di esseri animati quali uomini e animali, che fu perseguita con maggior fermezza negli spazi di socialità, dando così vita a una delle peculiarità più importanti dell’arte islamica: l’aniconismo e la stilizzazione che trovano la massima espressione nei virtuosismi calligrafici. Eppure, negli stessi secoli, le miniature persiane hanno arricchito manoscritti e album delle corti con prodotti d’arte figurativa in cui non mancavano figure umane o di animali.
Ritrarre Maometto o il suo volto infrange tutte queste prescrizioni e qualcosa di più. Il divieto infatti riguarda tutti gli esseri animati, ma prima di ogni altro Dio, il Profeta, i suoi familiari o i suoi compagni più importanti. In forza di tale divieto, nessun luogo pubblico connesso alla storia del primo Islam o a Maometto ne contiene immagini o riproduzioni di fantasia. Solo qualche raro manoscritto medioevale, di uso personale e ristretto, riproduce le fattezze del volto di Maometto, prima che prevalesse l’uso di ricoprirlo con un velo o lasciarlo enigmaticamente in bianco.
Le miniature che ne racconteranno il prodigioso viaggio notturno a Gerusalemme lo ritrarranno sempre così, celandone enigmaticamente solo il viso.
Oggi la situazione è estremamente variegata. Il mondo islamico è invaso ormai da immagini di ogni tipo e in ogni direzione.
Fotografie, fumetti, film e televisioni sono ovunque. Prudenza e rispetto della tradizione continuano a prevalere però quando si tocca Maometto.
Magari accanto ai prodotti più tipici della modernità: produzioni televisive e cinematografiche su Maometto e i suoi familiari non li mostrano mai in volto, ma piuttosto di spalle, oppure ne fan sentire solo le voci.
E a questo rispetto per il dato tradizionale si saldano ormai, da anni, le visioni nette e restrittive di tradizionalisti, salafiti e jihadisti, per i quali delineare il volto del Profeta Maometto e commettere blasfemia mettendolo in cattiva luce sono un divieto assoluto. Un divieto da difendere a dispetto di una storia ben più complessa.

Il Sole 8.1.15
La satira, le religioni e il lato sacro del profano
Perché in principio era il ridere, il ridere era presso Dio
di Armando Torno


È possibile ancora ridere trattando temi religiosi? Dopo l’attentato di ieri a Parigi, al settimanale satirico Charlie Hebdo con morti e feriti come in un’azione di guerra, la risposta diventa difficile. O meglio, è ritornato il tempo delle incomprensioni e quanto è lecito per taluni diventa un crimine per altri. La violenza, che mai è stata cacciata dalla storia, gioca la sua parte ancora una volta. Eppure nella Bibbia non è vietato il sorriso, anzi sovente è incoraggiato. Come possiamo immaginare gli innamorati del Cantico dei Cantici, che si inseguono in tutto il piccolo libricino del Primo Testamento, senza pensare ai loro risolini?
Gesù è descritto sovente dai Vangeli in ambiti conviviali: nessuno potrà sostenere che vi partecipasse tenendo il broncio, anche se la questione del “riso di Cristo” è stata argomento di dibattito dei teologi medievali. Lo stesso profeta dell’Islam, Muhammad, o Maometto come si usa dire a causa di una tradizione medievale, manifesta nella letteratura islamica un senso dell’umorismo. Basterà ricordare un passo da Vite e Detti di Maometto (Meridiani Mondadori 2014) per rendersene conto: «Una vecchietta si avvicina a Muhammad e gli chiede se mai troverà posto in Paradiso: “No”, risponde il Profeta con tono aspro, “nel Cielo di Allah non entrano le vecchie”. La donna resta raggelata dalla risposta, ma Muhammad sorride, le porge una rosa e sussurra:”Quando sarai in Paradiso, tornerai a essere la fanciulla bella e sana che fosti ”».
Poter sorridere di talune questioni religiose non significa irriderle o farsene beffa: è semplicemente concedersi uno spazio di libertà per esercitare una delle facoltà donate all’uomo dal Creatore. Henri Bergson, che ben aveva studiato l’argomento in un libro edito nel 1901 e tuttora fondamentale, Il riso. Saggio sul significato del comico, stabilì che la differenza tra l’uomo e la bestia risiede nella capacità di ridere. Intuizione che porterà taluni esponenti della psicologia delle folle, come Gustave Le Bon, a credere che si diventa criminali quando si smarrisce il senso dell'umorismo. La qual cosa è successa all’Inquisizione o alle dittature, allorché giunsero al punto di non riuscire più a sopportare anche lievi forme di ironia. D’altra parte, ne Il nome della rosa di Umberto Eco il venerabile Jorge è disposto a uccidere pur di non far conoscere il secondo libro della Poetica di Aristotele che tratta del comico, convinto nella sua intransigenza che il riso può distruggere il dogma. I morti e i feriti del Charlie Hebdo ricordano che le lancette dell’orologio della ragione umana sono tornate indietro di alcuni secoli.
Sovente si ride di talune interpretazioni di altri uomini e non certo di Dio: i fondamentalismi, quasi sempre, dimenticano di distinguere i due aspetti. Ci confidava Gianantonio Borgonovo, esegeta biblico e arciprete del Duomo di Milano: «Una religione che pensa di agire in nome di Dio è falsa per sua natura, perché è Dio che muove all’azione l’uomo. Un Dio che uccide l’altro non può essere il vero Dio ma è una creazione della nostra mente. Dio fa vivere, non vuole la morte dell’altro». Prova ne è che l’episodio di Isacco (in ebraico codesto nome significa “Dio sorrida” o “Dio sorride”), nel capitolo 22 della Genesi: il Signore mette alla prova Abramo chiedendogli di sacrificare suo figlio ma poi un angelo lo ferma. Dio non vuole la morte del giovane ma desidera che egli continui a vivere; insomma, il primo libro della Bibbia evidenzia che non ci sono giustificazioni per uccidere in nome dell’Altissimo. E Paolo nella Lettera ai Filippesi scrive quasi a conclusione dell’argomento in questione: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi» (4,4).
Tra l’altro, la critica occidentale alle istituzioni religiose o a talune condotte dei loro rappresentanti, da almeno tre secoli a questa parte, si è coniugata attraverso ogni mezzo di comunicazione con il liberalismo e la democrazia. Le osservazioni potevano essere o no condivise, ma si è almeno imparato che esse non si risolvono con la violenza. La Chiesa è più credibile (e ha maggior forza morale) da quando l’Inquisizione ha smesso di accendere roghi. Si potrà non condividere l’attacco che Voltaire fa al Corano nel Dizionario filosofico, ma se ne bruciassimo le copie faremmo un favore al celebre illuminista. E così va detto delle dure parole scritte da Arthur Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione sul medesimo argomento. L’Islam fu criticato da personaggi quali George Bernard Shaw o Rabindranath Tagore, da politici come Theodore Roosevelt o Winston Churchill o dal padre della patria turco Mustafa Kemal Atatürk (tra l’altro, depenalizzò le bevande alcoliche), da pensatori notissimi quali Bertrand Russell o Carl Gustav Jung. La miglior risposta che ad essi è possibile dare passa dalle argomentazioni, non certo ricorrendo a censure e violenza.

Il Sole 8.1.15
Stragi, persone e idee
Houellebecq, Soumission e l’urgenza di una scelta
di Armando Massarenti


Ora siamo tutti chiamati a scegliere senza ambiguità. O difendiamo i principi e i valori di libertà faticosamente conquistati nella storia della nostra civiltà occidentale – in primis la libertà di stampa, di espressione, di satira, di critica, di parola, di cui si è nutrita la modernità fin dai suoi albori e da dove è nato tutto il resto – o ci abbandoniamo alle mille ambiguità che nel corso degli ultimi decenni hanno minato, in buona parte dei Paesi occidentali, la distinzione fondamentale tra diritto e religione, facendo entrare prepotentemente nella sfera pubblica principi estranei a quelli della laicità dello Stato.
È questa l’ambiguità di cui si nutre anche l’ultimo, discusso, romanzo di Michel Houellebecq, «Sottomissione» (in uscita per Bompiani), che contiene pagine che appaiono raggelanti se lette alla luce di ciò che è accaduto ieri, anche se in realtà nulla o ben poco fa pensare che il terribile attentato terroristico subito dalla rivista satirica Charlie Hebdo, che nel suo ultimo numero pubblicava in copertina una garbata presa in giro dello scrittore, abbia a che vedere con l’uscita contemporanea del romanzo. Di raggelante ci sono gli attentati rivendicati nel libro, inneggianti all’identità religiosa, che paiono preconizzare esattamente ciò che si è avverato. Un esempio di come un grande scrittore possa essere in grado di comprendere, meglio di mille analisi socio-politiche, che cosa bolle in pentola nella società, anche all’interno di un romanzo distopico (o utopico: già qui troviamo una notevole ambiguità), puro frutto dell’immaginazione, ambientato in un non troppo lontano 2022. È quello l’anno in cui Houellebecq immagina che in Francia, pur di non far vincere Marine Le Pen alle presidenziali, in vantaggio nei sondaggi, tutti i partiti tradizionalmente democratici votino per i Fratelli Musulmani, facendo succedere a Hollande un presidente musulmano. E ciò non si rivelerà per nulla sconvolgente. Il protagonista del romanzo è un professore universitario che si riconosce nelle parole ottocentesche di Huysmans – «sono ossessionato dal Cattolicesimo, inebriato dalla sua atmosfera d’incenso e di cera, gli giro intorno, scosso fino alle lacrime dalle sue preghiere, spremuto fino al midollo dai suoi salmi e dai suoi inni...» – ma che di fatto conduce una vita sentimentale insoddisfacente, fatta solo di relazioni saltuarie, con studentesse o escort di diverse età, a parte la sua ragazza ebrea che alla fine preferisce trasferirsi in Israele. Di fronte alla vittoria dell’Islam si converte, anzi si “sottomette” volentieri ad esso, con facilità e cogliendone tutti i vantaggi, individuali e sociali: l’Islam gli offre «la compagnia» e un quadro affettivo stabile – è la stessa religione a fornirgli le donne di cui ha bisogno – e garantisce una maggiore coesione sociale e, tra l’altro, minore disoccupazione. Ma la sua “sottomissione” è in realtà il simbolo di una resa ben più ampia, molto al di là dei problemi posti dall’immigrazione islamica in un Paese laico per antonomasia. È il suicidio di un’intera civiltà, quella dei Lumi, della liberaldemocrazia, dello Stato di diritto, che è costretta a cedere il passo a principi e valori – o alla barbarie – che l’avevano preceduta.
È a questa resa incondizionata, descritta da Houellebecq, e già pigramente presente in molti atteggiamenti sociali e intellettuali degli ultimi decenni, che l’attentato di ieri ci deve spingere a reagire con la massima fierezza. È vero che in questi ultimi anni – e non solo sul versante dell’Islam radicale – troppo spesso si è giocato con le parole per calpestare i principi dell’Illuminismo, fingendo di non capirne l’importanza da cui dipende la stessa identità europea e nordamericana. Autonomia, laicità, verità, umanità, universalità, diritti umani, tolleranza, metodo scientifico, divisione dei poteri: se crediamo in queste cose è perché, che ne siamo consapevoli o meno, siamo tutti figli dell’Illuminismo, e ne rivendichiamo i principi ogni volta che vogliamo protestare contro l’intolleranza, il fanatismo, la tortura, la censura, le discriminazioni, gli abusi e le menzogne del potere. Come ha sostenuto un altro francese illustre, Tzvetan Todorov, il problema è che i mali che i Lumi hanno voluto combattere, «oscurantismo, autorità arbitraria, fanatismo», si sono rivelati più resistenti di quanto non immaginassero gli uomini del XVIII secolo. Sono come «le teste dell’idra che rispuntano non appena tagliate». Ma è proprio per questo che non bisogna cedere. Non è questione di difendere una parte in causa. Non è questione di essere atei, cattolici o seguaci dell’Islam, moderato o radicale che sia. È questione di riconoscere entro un quadro costituzionale e legislativo certo le libertà di tutti. I padri fondatori della Costituzione americana erano quasi tutti ferventi religiosi, ma hanno deciso di tenere la religione fuori dalla sfera politica. La tragedia di ieri è avvenuta nello Stato che in realtà finora ha saputo tenere saldi i principi della laicità più di ogni altro Paese europeo. La loro sfida è, deve essere, anche la nostra.

il Fatto 8.1.15
Tra voto e realtà
Ue, la marea razzista e i jihadisti dentro casa
di Sal. Can.


L’attacco militare omicida che ha colpito Charlie Hebdo finirà per polarizzare non solo la politica francese, ma anche quella europea. I germogli di uno “scontro di civiltà”, per utilizzare la celebre definizione di Samuel Huntington, sono tutti sul terreno. La tendenza a favore dei partiti populisti o apertamente xenofobi era già chiara alle scorse europee quando, proprio in Francia, il Front National di Marine Le Pen raggiunse la prima postazione con il 24,9%. Risultati inferiori ma analoghi per impatto e significato politico, si erano avuti in Austria con il Fpo del defunto Jorge Haider al 19,7%, in Danimarca dove la destra conservatrice ha ottenuto il 26,6% e, in misura minore ma importante, in Olanda con il Pvv al 13,2% fino a raggiungere la “civilissima” Svezia dove il partito xenofobo dei “Democratici svedesi” ha sfiorato il 10%. Per non contare l’exploit di Nigel Farage in Gran Bretagna, con l’Ukip al primo posto e senza trascurare il risultato delle due formazioni più apertamente schierate contro l’immigrazione in Italia, Lega e Fratelli d’Italia: anche qui, un 10% sommando i due risultati.
Le dichiarazioni di ieri delle formazioni della destra già indicano come l’attentato sanguinario sarà utilizzato per cavalcare una campagna contro l’islamismo e, quindi, l’immigrazione che ne è portatrice. Ma più delle parole contano i fatti. I quotidiani di mezza Europa si sono occupati nei giorni scorsi delle mobilitazioni tedesche contro l’islamofobia promossa dal movimento Pegida, i Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’occidente, che manifestano ogni lunedì.
LE MANIFESTAZIONI, molto numerose, tenute a Dresda (roccaforte pegedista), Berlino, Stoccarda, Amburgo, hanno rappresentato il termometro di una situazione avvertita come pericolosa e che viene confermata anche dallo studio sulla “Germania post-migratoria”, reso noto dal quotidiano francese Le Monde. Il 31% dei tedeschi dichiara di non vedere la necessità di una cultura dell’accoglienza e dell’integrazione mentre il 25% “rigetta” la diversità e il 69% sopravvaluta il numero dei musulmani che vivono nel paese. In Svezia, invece, culla del welfare e di uno sviluppo apparentemente equilibrato, le cronache dicono che nell’ultimo periodo è avvenuto un attentato al mese contro moschee o luoghi islamici.
La frattura è talmente evidente che in Gran Bretagna, il paese con la più alta emorragia di giovani convertiti al jihadismo, il ministero degli Interni ha presentato un piano per costringere insegnanti di scuola materna e bambinaie a controllare i bambini per prevenire il rischio di “radicalizzazione” islamica. Ieri David Cameron e Angela Merkel hanno avuto un incontro bilaterale a Londra e hanno ovviamente condannato il barbaro attacco. Così come hanno fatto tutti i leader europei. Certamente, hanno dovuto prendere le misure a un fenomeno che secondo l’europarlamentare italiano Curzio Maltese, rappresenta l’effetto “di due fanatismi che si alimentano a vicenda. E che finora non ci ha portato nulla di buono come conferma la tragica morte dei colleghi parigini”.

La Stampa 8.1.15
Onu, Palestina accederà alla Corte Penale il 1 aprile
Lo ha annunciato il segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki-moon. Potrà così depositare le denunce per “crimini di guerra” contro lo Stato di Israele
di Maurizio Molinari

qui

Le vignette di Charlie Hebdo in uno slide show del Sole, qui

il Fatto 8.1.15
Le 146 sedi dem di Roma
Circoli veri e tessere false: il marcio del Pd Capitale
di Antonello Caporale


Fatto centro in via dei Giubbonari, nello storico circolo tra piazza Farnese e Torre Argentina, il rischio che la sinistra trascolori fino a divenire nero fumo è direttamente collegato alla distanza che separa il cuore di Roma dalle sue borgate. Più ci si allontana dalla città eterna più il Pd diviene preda di piccole imprese della clientela, gruppi di pressione, lobby dalle identità incerte.
NELLA MAPPA del rischio politico il quartiere Talenti, ad est della città, figurava per esempio tra le prime posizioni. Ed infatti ad inizio d’anno una bomba (vera) è scoppiata in un circolo (finto). Si temono altre cattive notizie, ed altri sospetti (tra il Prenestino e il Casilino, l’Aurelia e Boccea) illuminano la prima, straordinaria attività di zonizzazione delle clientele che un partito abbia mai tentato. Roma, in questo caso, è all’avanguardia della sperimentazione.
La bomba di Capodanno non è dimenticata, rimossa sì. Già ripulito l’ufficio, tolta l’insegna dalla stanzetta in cui Mirko Coratti, consigliere comunale, fatturava i profitti politici della sua piccola impresa, messa su in via della Bufalotta, dentro Talenti, l’est di Roma. Un’impresa sorta all’interno di un’azione parallela e autonoma di esercizio della professione politica. Giovane, arrembante, deciso. Votato a raccogliere, nei suoi passaggi da un partito all’altro, il meglio delle opportunità e sul mercato delle preferenze il massimo risultato possibile. Infatti s’era visto.
Primo tra gli eletti, aveva conquistato la poltrona di presidente del consiglio comunale. “L’abbiamo letto dai giornali, a noi non risultava quel circolo, e infatti è una sede privata”, dice Silvia Zingaropoli che insieme ad altri dieci volontari, sotto la guida di Fabrizio Barca e su mandato del commissario Matteo Orfini, hanno il compito di “mappare” il partito romano, radiografarne il corpo, saggiarne l’esistenza in vita.
Hanno saputo dai giornali della bomba che mani oscure hanno fatto esplodere nell’ufficio del presidente del consiglio comunale rimasto impigliato nella rete di Mafia capitale, e certo non è stato un bell’inizio.
PER CORATTI è un atto attribuibile “alla rabbia”, o anche “all’antipolitica”, a un moto popolare di ribellione che ha trovato in lui (si è sospeso dal partito e si professa innocente) un capro espiatorio perfetto. Gli inquirenti sembrano più cauti e cercano invece prove al sospetto che quello scoppio sia invece nel manuale tipico dell’intimidazione, un segnale di scuola dal tono inequivocabile.
Domanda: dov’è finito il partito, nelle mani di chi? “Sono molto preoccupato”, ha confidato Orfini. E ha ragione di esserlo perchè il timore è che altri uffici paralleli vengano alla luce, insieme a liste elettorali e tessere fasulle, congressi farsa, gruppi dirigenti fuori dalla condotta statutaria in un monopoli di cointeressenze, clientele, amicizie, e lucrosi vantaggi economici.
A Roma – magari obtorto collo – si inizia a fare quello che in verità dovrebbe essere realizzato con urgenza in ogni luogo di Italia. Da qualche settimana in un circolo del quartiere Monteverde un gruppo di volontari amanti della ricerca e della statistica, hanno iniziato l’esame delle 146 sedi di cui si compone il distretto politico del Pd. Devono appurare anzitutto se sono vere o finte. Si sono dati il compito di distinguere il partito “buono” da quello “cattivo”. I circoli stimabili e le zone off limits. I militanti certi dagli incerti. Perchè la realtà supera purtroppo la fantasia.
E UNA LETTERA del 5 settembre scorso inviata al segretario, poi commissariato, della federazione romana, è pietra fondativa di dove il relax dei costumi possa portare. La lettera, scritta da un pensionato e acclusa a una denuncia della coordinatrice del circolo “Versante Prenestino”, recita: “Io sottoscritto A. C dichiaro di non aver mai voluto essere iscritto al Partito democratico in quanto il mio orientamento politico è sempre stato di centro destra e che il giorno 5 novembre 2013 sono stato portato con l’inganno a votare in quanto nessuno mi aveva specificato che era il congresso del Pd e che i venti euro che mi sono stati dati servivano a pagare l’iscrizione. Il presidente Scipioni aveva contattato sia me che altri anziani del quartiere di Castelverde e ci aveva chiesto di andare a votare perchè ci avrebbe aiutato ad aprire il centro anziani. Quel giorno alcuni uomini di sua fiducia ci hanno dato venti euro e ci hanno detto chi votare”.
Uno, dieci, mille iscritti così? Era stata Valeria Spinelli, coordinatrice di un circolo sulla Prenestina, a denunciare l’enorme business politico che l’aveva costretta a sospendere le votazioni congressuali. Nonostante questa decisione un congresso finto si era tenuto ugualmente, con iscritti estranei al registro ufficiale senza che la commissione di garanzia trovasse da obiettare alcunchè.

Repubblica 8.1.15
un altro renziano

“Il Consiglio regionale guidato da un imputato” Polemica in Calabria
Reggio Calabria. Parte con due imputati eletti nell’Ufficio di Presidenza la X° legislatura del Consiglio regionale della Calabria. Ieri, a quasi due mesi dal voto, Palazzo Campanella si è infatti insediato e come primo atto ha proceduto all’elezione del Presidente del Consiglio, dei due vice presidenti e dei segretari-questori. Per lo scranno più alto, sostenuto dal centrosinistra e dal Ncd, è stato eletto il renziano Antonio Scalzo, consigliere uscente già rinviato a giudizio per presunte irregolarità nella gestione dell’Arpacal. Alla vice presidenza sono poi stati eletti Giuseppe Gentile (Ncd) e Francesco D’Agostino (lista Oliverio Presidente), mentre il ruolo di segretari-questori sarà ricoperto da Giuseppe Neri (Democratici Progressisti) e Giuseppe Graziano, anch’esso imputato nello stesso processo di Scalzo, che avrà inizio il 16 gennaio. La scelta di Scalzo è stato voluta e difesa dal segretario regionale del Pd, Ernesto Magorno, che ha commentato: «La magistratura fa il suo lavoro, noi qui facciamo politica». ( g. bal.)

Corriere 8.1.15
Tiziano Renzi
«Il papà del leader e la società fallita? È stato il governo a pagare il debito»


«Il governo paga i debiti della società della famiglia Renzi». È l’accusa di Giovanni Donzelli, consigliere regionale toscano di FdI: alla fine è stato coperto in gran parte con soldi pubblici — quelli del fondo di garanzia nazionale del governo, con più di 200 mila euro — il prestito bancario non restituito della Chil Post, la società della famiglia di Renzi, ora fallita, al centro di un’inchiesta della procura di Genova che vede indagato anche il padre del premier Tiziano Renzi per bancarotta fraudolenta. La vicenda ha origine nel 2009, con un prestito da oltre 400 mila euro concesso dalla Banca cooperativa di Pontassieve, con la garanzia di Fidi Toscana — finanziaria controllata per il 49% dalla Regione —, a Chil Post, società di comunicazione e marketing. «La richiesta fu presentata nel marzo 2009, mentre Renzi era presidente della Provincia», ha raccontato Donzelli. Allora la Chil era intestata a Laura Bovoli e Matilde Renzi, madre e sorella del premier, Tiziano Renzi è subentrato dopo. Poi Chil, nel 2010, è stata divisa in due: da un lato la Chil Promozioni srl, la società sana, con la Bovoli, madre del premier, presidente; dall’altro la Chil Post, una bad company su cui gravavano i debiti, che è stata ceduta ed è poi fallita nel 2013. «Scatta la richiesta a Fidi Toscana per erogare alla Bcc di Pontassieve i 263.114 euro rimasti da pagare», ha spiegato Donzelli. E nell’agosto del 2013 Fidi ha liquidato quanto doveva alla banca. Ma alla fine non sarà la finanziaria della Regione a metterci i soldi, ma Roma, è la denuncia di Donzelli: «Il governo Renzi, attraverso il ministero dello Sviluppo economico, ha dato 236.803 euro a Fidi (che quindi ha rimesso solo 26.311 euro)». La replica di Fidi Toscana: «L’operazione è regolare. Il ministero interviene con il fondo di garanzia per tutti e in tuta Italia».

il Fatto 8.1.15
Un’altra manina
Il governo paga 230mila euro per i debiti di papà Renzi
Fidi Toscana salda parte del mutuo della Chil Post e viene rimborsata dal Tesoro
“Un uso indecente dei soldi pubblici a fini familiari da parte del premier”
di Davide Vecchi


Da Fidi Toscana, partecipata dal Comune di Firenze e dalla Crs in cui sedeva Carrai, una garanzia di 300 mila euro alla Chil di Tiziano Renzi. Che però diventa “moroso” per la bancarotta fraudolenta. Poi ci pensa il Tesoro

A saldare i debiti del padre ci pensa il governo del figlio. Debiti, tra l’altro, concessi da una banca guidata da un fedelissimo del figlio, già in società con il fratello del cognato, a sua volta socio in un’altra azienda di famiglia riconducibile alla madre. Cose che capitano in casa Renzi. La vicenda è complessa e gli intrecci sono molti, come gli attori coinvolti.
Tutto ruota attorno alla Chil post, la società di Tiziano Renzi, dichiarata fallita nel marzo 2013 e sulla quale la Procura di Genova ha aperto un fascicolo iscrivendo nel registro degli indagati il padre del premier con l’accusa di bancarotta fraudolenta. Secondo i magistrati liguri, Tiziano avrebbe ceduto la parte sana dell’azienda alla Eventi 6 intestata alla moglie, Laura Bovoli, società che all’epoca dei fatti aveva tra i propri soci anche Alessandro Conticini, fratello di Andrea, marito di Matilde Renzi, sorella del premier e a sua volta socia nella Eventi 6.
ALLA CHIL POST rimangono così solo i debiti tra cui un mutuo di 496.717,65 euro stipulato nel luglio 2009 con il Credito Cooperativo di Pontassieve. Una cifra sostanziosa, concessa con un mutuo chirografario: senza accensione di ipoteche, quindi, ma solo basato sulle garanzie. La banca è guidata da Matteo Spanò, grande amico e sostenitore del premier. Nel 2005, Spanò era stato nominato direttore generale della Florence Multimedia, società della Provincia di Firenze creata dal neoeletto Renzi per la comunicazione e poi finita nel mirino della Corte dei conti che ha inizialmente ipotizzato un danno erariale di 10 milioni di euro. Non solo. Spanò era anche socio di Conticini nella Dot Media, società che ha ricevuto appalti diretti dal Comune, negli anni in cui Renzi è stato sindaco, e da altre controllate come la Firenze Parcheggi guidata dal fidatissimo Marco Carrai. Dot Media oggi cura fra l’altro la campagna elettorale dell’eurodeputata Alessandra Moretti candidata alla presidenza della Regione Veneto.
Diventato presidente della banca, Spanò elargisce il prestito alla Chil post di Tiziano Renzi che per ottenerlo riceve la copertura a garanzia del fondo per le piccole e medie imprese da Fidi Toscana spa della Regione guidata da Enrico Rossi e partecipata anche da Provincia e Comune di Firenze oltre alla Cassa di Risparmio nel cui board siede Carrai.
Fidi Toscana delibera la copertura dell’80% e il 13 agosto 2009 la banca versa i soldi alla Chil. I ratei vengono regolarmente pagati per due anni. Poi la società, nel frattempo svuotata della parte sana e poi ceduta ad altri titolari (ora indagati assieme a Tiziano Renzi), non rispetta più i versamenti e dichiara il fallimento. Così nell’estate 2013, la banca, ammessa al passivo dal Tribunale fallimentare di Genova, si rivolge a Fidi ottenendo il versamento di 263.114,70 euro, l’80% dell’esposizione complessiva. E la vicenda potrebbe chiudersi qui. Invece, il 18 giugno 2014, il ministero dell’Economia delibera di rifondare Fidi di 236.803,23 euro e liquida la somma il 30 ottobre successivo attraverso il Fondo centrale di garanzia. E così il debito contratto dal padre di Renzi è stato coperto dallo Stato.
“La perdita sofferta sull’operazione per noi è stata di 26 mila euro”, afferma Gabriella Gori, alla guida di Fidi da appena una settimana. Si è insediata il 29 dicembre a seguito delle dimissioni di Leonardo Zamparella costretto dal Cda a lasciare l’incarico perché condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per concorso in bancarotta come vicedirettore vicario del settore leasing e factoring di Monte dei Paschi. Il cambio al timone è stato determinante per avere accesso alle informazioni sulla Chil a seguito delle richieste formulate in merito dal consigliere regionale Giovanni Donzelli, oggi candidato presidente della Toscana per Fratelli d’Italia. Le risposte sono arrivate il 30 dicembre: Gori ha redatto un documento in cui riassume l’intera vicenda, con la specifica dei versamenti da parte del Tesoro. Per carità: tutto secondo protocollo, nulla di illecito.
IERI, DONZELLI assieme ad altri due consiglieri di minoranza, Paolo Marcheschi e Marina Staccioli, ha presentato un’interrogazione al governatore Rossi per chiedere spiegazioni. “Ci appare a dir poco indecente che i debiti creati dall’azienda di famiglia del premier siano stati pagati con soldi pubblici concessi in un momento in cui la crisi porta un imprenditore al suicidio ogni cinque giorni e in un Paese in cui l’accesso al credito è una delle maggiori difficoltà, insieme alla pressione fiscale, che riscontrano le aziende”, dice Donzelli. Da Rossi, prosegue, “vorremmo sapere perché la gestione dei fondi è stata affidata a Fidi senza alcuna gara, se e come ha valutato la domanda presentata da Chil, se la garanzia non deve essere revocata in caso di modifiche aziendali che trasformano radicalmente la società come è avvenuto alla Chil e, infine, se reputa corretto ed etico il comportamento della famiglia Renzi”. Secondo Donzelli “non dovrebbe essere prerogativa della Regione pagare, tramite fidi, i debiti dell’azienda di famiglia del presidente del Consiglio e del segretario del partito di maggioranza. E men che meno prerogativa dello Stato”.

Corriere 8.1.15
Il costoso peso dell’illegalità diffusa nell’Italia che non si riesce a risanare
di Corrado Stajano

L’indignazione nei confronti di corrotti e corruttori dura poco qui da noi, lo spazio di un mattino, una bolla di sapone, il breve pianto del bambino quando gli è sfuggito il pallone tra le case. Ma tutto quanto è esploso negli ultimi mesi sembra davvero preoccupante, segno di un Paese caduto in una crisi di civiltà. Non è mai successo che, di qua e di là dal Tevere, il presidente della Repubblica e il Papa abbiano usato a proposito della corruzione parole così gravi nei loro messaggi di fine anno.
Napolitano, nel denunciare le gravi patologie di cui l’Italia soffre: «A cominciare da quella della criminalità organizzata e dell’economia criminale; e da quella di una corruzione capace di insinuarsi in ogni piega della realtà sociale e istituzionale, trovando sodali e complici in alto».(…) «Dobbiamo bonificare il sottosuolo marcio e corrosivo della nostra società».
E papa Francesco, «essendo anche vescovo di Roma»: «Quando una società ignora i poveri, li perseguita, li criminalizza, li costringe a mafiarsi, quella società si impoverisce fino alla miseria». (…) «Domandiamoci: in questa città, in questa comunità ecclesiale, siamo liberi o siamo schiavi, siamo sale e luce? Siamo lievito? Oppure siamo spenti, insipidi, ostili, sfiduciati, irrilevanti, stanchi?».
I fatti sono sotto gli occhi di tutti, persino in una società passiva come la nostra, impaurita per la situazione economico-finanziaria che imprigiona uomini e donne nelle loro insicurezze private: Mafia Capitale dopo gli appalti e subappalti dell’Expo e dopo il Mose di Venezia. Traffici loschi ai danni della collettività, affari truffaldini coi soldi pubblici, un’illegalità diffusa, per citare soltanto le ultime colonne portanti del malfare. Con il sospetto che ovunque, o quasi, venga messo il dito si scopra che la legge, la regola, la disciplina siano considerate nemiche, come la questione morale.
La corruzione ha radici antiche, più in Italia che negli altri paesi dell’Europa occidentale dove non manca ma si trova davanti a reazioni sociali che costruiscono una naturale muraglia. Il nostro padre Dante collocò nella 5° bolgia dell’Inferno, immersi in uno stagno di pece bollente, i barattieri, coloro che si facevano corrompere per denaro traendo profitti e guadagni dai loro pubblici uffici. Nella Commedia finiscono straziati da diavoli neri, Cagnazzo, Barbariccia, Draghignazzo che fanno venire in mente gli uomini della banda della Magliana, er Cecato, er Catena, ‘o Scucciato, lo Gnappa.
Arrivando ai tempi moderni c’è soltanto da punzecchiare la memoria, tra il «mondo di sotto» e il «mondo di sopra», quello che più conta.
L’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della banca di Sindona, uomo dell’onestà assassinato a Milano nel 1979 dalla mafia politica, era esterrefatto e dolorante — risulta dai suoi diari — di trovarsi nemici uomini dello Stato che avrebbero dovuto essere al suo fianco: dal presidente del Consiglio a ministri, generali, banchieri dello Stato, pubblici amministratori.
E nel 1981 quando gli allora giudici istruttori di Milano, Gherardo Colombo e Giuliano Turone, indagando sulla mafia scoprirono le liste della P2 rimasero sbalorditi davanti ai nomi degli affiliati a quell’associazione segreta fuorilegge, ministri, capi dei servizi segreti, generali, ammiragli, diplomatici, segretari di partito, direttori di giornali.
E oggi? Come può risanare un paese gravemente malato e liberarlo dal costoso peso della corruzione l’attuale governo delle larghe intese fondato su un patto segreto con un condannato proprio per frode fiscale che sta scontando l’affidamento ai servizi sociali, a capo di un partito «alleato d’opposizione», come viene detto? Un simbolo del grottesco. O un ossimoro vivente.
Ma la positività è d’obbligo. Guai ad aver sospetti, anche su quel dissennato tentativo della norma «salva Berlusconi», un blitz da governo a fumetti andato a monte, per ora, perché nonostante tutto l’opinione pubblica seguita a essere vigile.
«Professionisti del retropensiero», ha tuonato Renzi indignato contro chi ha espresso critiche e legittimi dubbi. (Regista dell’inghippo, il presidente del Consiglio, o incapace di gestire un iter legislativo? «Tertium non datur»). Avrebbe potuto anche passar via liscio quel decreto fiscale, un regalo agli evasori e, due piccioni con una fava, la cancellazione della condanna di B. E sarebbero così diventati inutili anche gli incontri a due per la futura presidenza della Repubblica dove si teme che le parole grazia e agibilità politica faranno da presupposto alla trattativa su chi collocare sul Colle. Altro che rivoluzione copernicana. Il test della politica più vecchia e stantia, piuttosto. Il pegno che Renzi ha dato a B. e B. a Renzi. Resteranno fedeli.
Come aveva ragione quel gran critico senza eredi che fu Cesare Garboli quando, nel suo Ricordi tristi e civili scrisse: «Ci sono perfino degli aspetti comici nella capacità italiana di far convivere il carnevale con la tragedia».

da La Stampa di oggi:
Matteo Renzi nel suo intervento all’assemblea del Pd: «Se vogliamo continuare a farci del male per altri dieci giorni sulla delega fiscale parlando della “manina”, si sappia che quella manina è la mia»

Corriere 8.1.15
Il leader alla sinistra: la manina era la mia
La sfida alla minoranza sul decreto fiscale. E sul Quirinale: impostiamo insieme il metodo, gennaio è un bivio

di Monica Guerzoni

ROMA Nessun dietrofront. Anche davanti ai deputati del Pd, Matteo Renzi difende l’impianto della delega fiscale e rivendica la paternità della norma delle polemiche. «La manina è la mia» ribadisce, spiazzando chi si aspettava retromarce sull’articolo 19 bis, che fissa al 3% la soglia di non punibilità per i reati fiscali.
Il premier promette che «se c’è qualcosa da cambiare, si cambierà». Ma davanti alla minoranza che chiede di modificare subito la norma contenuta nel decreto attuativo della delega e ribattezzata «salva-Berlusconi», Renzi non spazza via l’incertezza. Né sul quando, né sul come: «Noi non facciamo leggi ad personam, ma neanche contra personam». E non si pensi che il governo abbia messo la firma su pacchetti di norme preparate dai tecnici, perché non è andata così. «Si è discusso e approfondito punto per punto» ricostruisce Renzi, dicendo ai suoi che non lo fa per «difendere» qualcuno a Palazzo Chigi e e promettendo, prima del voto, «un momento di discussione chiaro e trasparente».
Alla prima riunione del 2015 il leader arriva in ritardo e ai giornalisti risponde brusco: «Con quel che è successo a Parigi mi chiedete di fisco?». Pier Luigi Bersani se ne va prima che Renzi parli e affida il suo sconforto ai cronisti: «In quella norma del 3% c’è una proporzionalità, chi ha di più ha diritto a evadere di più». Ma lo stesso criterio, attacca l’ex segretario, manca nel Jobs Act, dove «si può essere licenziati anche se si fanno 5 minuti di ritardo».
Per la sinistra l’incidente sul decreto fiscale è tutt’altro che chiuso e rischia di minare l’unità del partito sull’elezione del capo dello Stato. Alfredo D’Attorre mette in guardia il premier: rinviare la modifica della delega fiscale al consiglio dei ministri del 20 febbraio «rischia di pregiudicare il percorso delle riforme e l’elezione del nuovo presidente».
E Davide Zoggia dà voce ai «sospetti» della minoranza, irritata e insoddisfatta: «Aspettare lascia intendere che ci sia un accordo, mentre nel Patto del Nazareno non doveva esserci altro tipo di intesa se non riforme e legge elettorale». Insomma, se quella norma è un «clamoroso errore», va modificata subito.
Fiutata l’aria poco salubre, Renzi chiede fedeltà in vista del voto sul Quirinale. Propone ai deputati di vedersi «per impostare un metodo» e non per aprire dibattiti su un nome. Per lui gennaio è un «bivio», in cui si capirà se la legislatura «esiste o resiste». Se non si fanno le riforme viene giù l’«architrave», la legislatura fallisce e con essa il Pd: «Chiedervi di allacciarvi le cinture a gennaio non nasce dalla paura, ma dalla convinzione che siamo alla prova dei fatti». Parole in cui la minoranza intravede la minaccia del voto anticipato.
Al centro della riunione, aperta da una relazione di Lele Fiano, i nodi della riforma costituzionale che oggi si vota alla Camera. Gianni Cuperlo assicura che nessuno lavora per paralizzarne l’iter e però «il testo non ha ancora risolto tutte le sue fragilità». Un appello a non blindarlo, lasciando che il Parlamento lo migliori cominciando dal sindacato preventivo di costituzionalità della legge elettorale. Il leader di Sinistra Dem chiede a Renzi una «discussione seria tra noi» su decreti attuativi del Jobs act, Quirinale e decreto fiscale. Per Pippo Civati discuterne «a babbo morto» è sbagliato, «Renzi non può banalizzare dicendo che la manina è la sua.. È un gioco pericoloso, serve una verifica di governo». Finisce con una battuta del premier sul cinquestelle Giarrusso, che vorrebbe impiccarlo: «Da sindaco chiederei il trattamento sanitario obbligatorio».

il Fatto 8.1.15
Sul 3% Renzi ricatta i ministri
Rivendica: “La manina è la mia”
Pier Luigi Bersani: “Così chi ha di più potrà evadere di più”
di Wa. Ma.


In Consiglio dei ministri la legge delega sul fisco si è “discussa e approfondita punto per punto”. Mentre rivendica “la manina è la mia”, scandendo bene le parole, davanti ai deputati del Pd, Renzi sfida i suoi ministri a sfilarsi dalla responsabilità sulla cosiddetta salva Berlusconi. Anche qui, è questione di interpretazione. “È vero, abbiamo discusso la legge delega, ma non la norma 19 bis”, spiega un ministro che era presente. Altra versione da fonti di governo: “Di quella norma si è parlato, anche se magari non tutti hanno capito quali effetti avrebbe avuto”. Comunque sia andata, il premier ricatta il suo governo: la “manina” è anche vostra, sembra dire, inchiodando tutti alla sua scelta politica. La sua versione definitiva dei fatti ingloba quella data a caldo anche ai fedelissimi (“Quella norma l’ho voluta io, è giusta, e mi serviva a recuperare soldi, ma non sapevo che avrebbe riguardato anche Berlusconi”). Il premier va oltre: la norma esiste, e lui la rivendica. L’ha già fatto nella e-news: “Noi non facciamo norme ad personam, né contra personam. Noi cambiamo il fisco per gli italiani, non per Berlusconi”. E adesso la usa: il segnale a B. è arrivato, il ricatto è sul tavolo, con il rinvio della decisione finale sul 3 per cento al 20 febbraio. Ma c’è un altro dato: “A Matteo di Berlusconi non importa niente, né nel bene, né nel male. Il punto è un altro”, spiegano nel cerchio stretto del premier. Quale? Il “favore” riguarda i gruppi industriali, senza l’appoggio dei quali Renzi non potrebbe governare. E quella soglia del 3 per cento è necessaria a loro. Non a caso Pier Luigi Bersani, che se ne va a gruppo in corso (“non si può discutere di riforme in cinque minuti”), attacca: “Nella norma sul fisco c'è una proporzionali: chi ha di più ha diritto ad evadere di più”, denuncia.
NON È DETTO che sia così facile da parte del governo - ammesso che si voglia fare - modificare la norma, in modo che riguardi le grandi imprese e non tocchi B.. Le ipotesi di cambiamento in campo sono varie, ma andranno tutte valutate: si discute di togliere la frode fiscale. E magari di abbassare la soglia di non punibilità del 3%. Ieri Renzi prima ha visto Padoan: i due procedono allineati. Poi, è andato all’assemblea dei deputati Pd. Clima surreale, causa la ripresa post-natalizia, ma anche e soprattutto l’attentato in Francia. Il segretario-premier stavolta non fa neanche la relazione d’apertura e annulla la partecipazione a Otto e mezzo. Voci dissidenti D’Attorre (ribadisce che è un errore rimandare al 20 febbraio la modifica della delega fiscale) e Cuperlo (chiede una riunione del partito che verta sulla situazione politica). Ma “è un dialogo tra sordi”, come commenta qualcuno dopo. Sulle riforme, vero oggetto all’ordine del giorno della riunione, si rimane al solito sulle generali. E il dissenso resta compresso e non preso in considerazione. Nella minoranza Pd ragionano così: “Con la salva-Berlusconi, Renzi prende due piccioni con una fava: blinda i voti per il Quirinale dei berlusconiani di Forza Italia, fermando pure le tentazioni di chi magari aveva qualche dubbio. E lascia in vita un oppositore per lui molto comodo e non pericoloso, neanche dal punto di vista elettorale”. Tono amaro, armi spuntate.

Repubblica 8.1.15
E all’assemblea dei deputati pd scatta il “processo” a Matteo
di Goffredo De Marchis


ROMA La norma salva-Silvio sta spostando gli equilibri dentro il Pd e può far sentire i suoi effetti nella partita del Quirinale. «Adesso ci vuole un candidato che non sia figlio del patto del Nazareno. Che incarni la lotta all’illegalità e a favore della massima trasparenza», dicono i bersaniani. Ed è questa l’aria che si respirava all’assemblea dei deputati Pd con Renzi, convocata per parlare di riforma costituzionale. Romano Prodi è il solito nome che corre di bocca in bocca quando si parla di un papabile non berlusconiano, ossia costruito fuori dal recinto stretto del rapporto del premier con l’ex Cavaliere. Ma ci sono anche Walter Veltroni, Pier Luigi Bersani, Raffaele Cantone e qualche altra figura che per il momento rimane coperta.
È il clima che si respirava ieri pomeriggio nell’auletta dei gruppi parlamentari di Montecitorio. Perché le varie minoranza non hanno avuto alcuna risposta sulla mossa renziana di rinviare al 20 febbraio la correzione del decreto fiscale. «Quasi una provocazione di Matteo — sottolinea Pippo Civati — che fissa una data successiva al 15 quando Berlusconi finisce di scontare la pena dei servizi sociali ».
Il bersaniano Alfredo D’Attorre ha avvertito il premier: «Stai compromettendo il dialogo con le varie componenti del partito. E se allunghi un’ombra sulle riforme e sull’elezione del presidente della Repubblica senza fare chiarezza il rischio è di inciampare in entrambi i casi ». Parole riprese e rilanciate da Gianni Cuperlo: «La situazione ci sta sfuggendo di mano. Dobbiamo fare al più presto un’assemblea meno surreale di questa. Che parli del lavoro, dei decreti del Jobs act, delle norme sul fisco, della legge elettorale e del Quirinale». Che questo tipo di attacchi arrivino a 20 giorni dalla convocazione delle Camere in seduta congiunta non è un buon segno per Renzi.
Il premier ha affrontato a modo suo l’atmosfera difficile di ieri. Ha rivendicato la sua «manina » nel testo della norma per la depenalizzazione delle frodi fiscali. Una manina che non ha trovato un muro nel consiglio dei ministri perché, come ricorda Graziano Delrio, «l’articolo 19 era nella cartellina consegnata ai ministri, si è discusso a lungo di soglie di non punibilità penale, sono intervenuti in tanti e nessuno ha portato critiche sul merito o politiche». Dice Civati: «Sicuramente è andata così. E peggiora la situazione. Significa che l’intero esecutivo è succube di Berlusconi».
Forse l’assemblea e i suoi tempi non erano giusti per dirlo. Ma Civati e altri come lui si aspettano nei prossimi giorni che qualche big della minoranza rilasci un’intervista che fa saltare il banco mettendo nero su bianco che un candidato uscito dall’asse Renzi-Berlusconi non può passare, che bisogna fare scelte diverse. Poi si vedrà come si spostano davvero gli equilibri nel Pd, come reagiranno anche i più leali degli oppositori. «Se Prodi o un profilo simile crescesse nelle prime votazioni, il Pd si troverebbe di fronte a un bel dilem- ma», pronostica Civati. Non c’entriamo con Berlusconi, con l’evasione fiscale, con i suoi guai giudiziari. Basta che lo dica qualcuno che ancora conta nella base e la partita del Quirinale si può aprire. «Il Pd — spiega D’Attorre — ha fra le sue ragioni costitutive il lavoro e la lotta ai grandi evasori. Se mancano questi pilastri si smarrisce l’identità. E non è una buona premessa per affrontare questo mese tanto difficile».
Bersani ha già fatto sentire la sua voce sul decreto fiscale ma non ha parlato all’assemblea. Ha taciuto anche Francesco Boccia quando ha visto che Renzi doveva correre via per altri impegni. Però c’è un’area del dissenso che può crescere dopo il pasticcio della norma salva-Silvio. Uno scivolone e non a caso dalle fonti vicine a Giorgio Napolitano si precisa che il capo dello Stato «non ne sapeva niente».
Che le mille componenti antirenziane possano costruire una candidatura alternativa e un dissenso organizzato è tutto da verificare. Su queste divisioni interne contano molto gli incaricati del premier sui numeri, Luca Lotti e Lorenzo Guerini. E sul sostegno di Forza Italia perché a molti appare chiaro che Renzi si fida più del rapporto con Berlusconi che del dialogo con la minoranza. «E chi pensava che Matteo avrebbe lanciato un messaggio distensivo sul Quirinale all’indomani del pasticcio fiscale, è rimasto deluso. Ma lui è così. Non gioca in difesa, va sempre all’attacco», dice Civati.

Repubblica 8.1.15
Mariastella Gelmini
“Il Quirinale si sblocca se il leader pd rispetta i patti”
intervista di C. L.


ROMA «Renzi è persona intelligente e sa che un’elezione in tempi rapidi del capo dello Stato può avvenire solo in caso di pieno rispetto di tutti gli accordi, sull’Italicum e sulla riforma del Senato».
Per adesso tutto sta procedendo, Mariastella Gelmini, al Senato avete difeso ancora una volta l’Italicum in aula.
«Fi dimostra grande serietà verso il Paese e il patto siglato con il premier. Chiaro che, come sostiene Paolo Romani, per noi non è un prendere o lasciare. Chiediamo che il premio sia alla coalizione e non alla lista e confidiamo che si vada in quella direzione, al termine di un confronto schietto in aula».
Eleggerete insieme anche il nuovo presidente?
«Stucchevole interrogarsi se quel passaggio sia parte del patto. La concatenazione dei fatti, tra dimissioni di Napolitano e i passaggi parlamentari delle riforme, non l’ha creata Fi, ma si è imposta. Ora tutto si tiene, è collegato ed è logico».
La sanatoria fiscale rientra in quella concatenazione dei fatti o addirittura nel patto del Nazareno?
«Tutto da stabilire che favorisca davvero Berlusconi. Senza considerare che in Francia la soglia di esenzione non è il 3 ma il 10 per cento e che la norma è realmente nell’interesse di tutti. Il governo era in buona fede, ma poi ha compiuto una sequenza di errori: Renzi ha finito con il rinviare addirittura a febbraio, creando le premesse per un suo indebolimento politico».
Tra voi c’è chi parla di ricatto in vista del Colle.
«Il rinvio del testo al 20 febbraio finisce impropriamente per collegare quella norma, di cui Berlusconi non sapeva nulla, al Quirinale. Altro che trattativa, è solo un enorme pasticcio». ( c. l.)

Repubblica 8.1.15
Cesare Damiano, minoranza Pd
“Sbagliato non rimediare subito il rinvio alimenta il dubbio”
intervista di T Ci.


ROMA «Non capisco perché Renzi voglia procrastinare a fine febbraio la decisione di cancellare quel tetto del 3%. Procedere invece in occasione del primo consiglio dei ministri, senza aspettare l’elezione del nuovo capo dello Stato, sarebbe una scelta pulita e fuori da ogni discussione, ambiguità o allusione». Il presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano (Pd) non ha dubbi, Palazzo Chigi deve chiudere la partita della norma salva-Silvio prima della sfida per il Quirinale.
La “manina” è di Renzi. Così ha ammesso il premier. Sorpreso?
«Renzi si è assunto la responsabilità. Ha tagliato la testa al toro per porre fine alla polemica. Che la manina sia effettivamente la sua, poi, questo non è dato saperlo. Ma di certo una manina di Palazzo Chigi c’è stata, visto che la norma si chiama 19 bis, non 19 o 20: un’aggiunta c’è stata di sicuro».
Rimandare le modifiche rischia di influenzare l’elezione del nuovo Presidente?
«Alimenta il dubbio piuttosto che chiarire l’equivoco ».
Pensa che il codicillo faccia parte del patto del Nazareno?
«Non penso a nessuna merce di scambio, piuttosto credo che si tratti di un errore a cui bisogna porre rimedio. E il premier sbaglia a non farlo subito».
Occorre una riunione ad hoc per discutere di questo contestato decreto fiscale?
«Oggi abbiamo discusso delle riforme costituzionali. A causa della vicenda francese, il premier ha giustamente dovuto lasciare la riunione prima della fine. Ecco, è giusto riprendere il dibattito e allargarlo anche agli altri punti politici».
Anche ai decreti attuativi del Jobs act?
«Certamente, perché sono necessarie alcune modifiche. Abbiamo impedito che nei decreti ci fosse l’opting-out e l’aberrazione del licenziamento per scarso rendimento. Non abbiamo evitato, però, i licenziamenti collettivi. Prevederli rappresenta un eccesso di delega e forse solleva un problema di costituzionalità. Il fatto che si introduca più libertà nei licenziamenti collettivi - in un momento di crisi e con questi dati sulla disoccupazione - certo non rasserena il clima sociale». ( t. ci.)

Repubblica 8.1.15
Ora per il Colle Renzi deve trattare con la minoranza del suo partito
Berlusconi resta il suo principale alleato, ma il caso Salva-Silvio porta il premier a un’intesa prima con i dem
di Stefano Folli


LA tragedia di Parigi distoglie per un giorno l’attenzione dalle incertezze domestiche. Ma le questioni aperte restano sul tavolo, nel nesso inestricabile fra riforma elettorale e Quirinale. È lo psicodramma destinato ad accompagnare gli italiani lungo questo mese e oltre, ma che diventerà tale soprattutto dal 15 gennaio, giorno in cui Napolitano potrebbe cessare dalle sue funzioni istituzionali. La novità di ieri rappresenta un punto di vantaggio per il presidente del Consiglio: al Senato si è cominciato a discutere la legge elettorale e le questioni pregiudiziali sui requisiti di costituzionalità sono state respinte anche con il voto di Forza Italia. È un segnale positivo per Renzi, insieme all’altro: aver accettato che la legge entri in vigore solo nel 2016 ha placato la Lega, l’Ncd, il partito berlusconiano. In un certo senso Salvini è il miglior alleato del premier sulla riforma. Per una semplice ragione: il premio di maggioranza alla lista piuttosto che alla coalizione, cavallo di battaglia renziano, calza a pennello al Carroccio che non ha alcuna intenzione di allearsi con Berlusconi alle prossime elezioni.
Di conseguenza la posizione favorevole al premio di coalizione viene indebolita, forse sbaragliata. All’interno di Forza Italia è la linea di Brunetta, ma tutto lascia pensare che il capogruppo sia in minoranza. Berlusconi solleverà un po’ di polvere, ma nella sostanza aiuterà Renzi ad approvare la riforma: e anche in tempi rapidi. Il fatto che i leghisti si siano del tutto affrancati e marcino in autonomia finirà per determinare un maggiore allineamento di Berlusconi a Renzi, condizione di cui peraltro pochi dubitano.
Tutto questo vuol dire che il capo di Forza Italia non ha ovviamente alcun desiderio di allentare il rapporto politico con il presidente del Consiglio. C’è stato, sì, l’incidente del decreto fiscale, ma la promessa di Palazzo Chigi è di ripresentarlo alla fine di febbraio. E in ogni caso Renzi resta per Berlusconi il miglior interlocutore possibile: per nulla al mondo intende farne a meno e poi ritrovarsi alle prese con la vecchia sinistra (soprattutto pensando al futuro delle sue aziende). Al tempo stesso il premier spiega al suo partito, perplesso e anzi sbigottito di fronte alla vicenda del «salva Silvio», che sul piano politico l’anziano avversario sarà sempre più irrilevante. La strategia renziana è quella di concedergli qualcosa, ma di privarlo di qualsiasi ruolo che non sia subordinato.
Ne derivano due conseguenze. Primo, Berlusconi resta il vero alleato di Renzi per la legge elettorale e soprattutto per eleggere il capo dello Stato. C’è da capire quanti voti del centrodestra si disperderanno, ma al fondo il presidente del Consiglio può contare sulla sponda berlusconiana per definire un candidato al Quirinale che sia gradito a entrambi. Secondo effetto, l’ostacolo che divide il premier da un evidente successo si annida ancora nel Pd. È qui che le vicende degli ultimi giorni, relative al mezzo condono fiscale, provocano le ricadute politiche più significative. Il danno d’immagine per Renzi è grave ed evidente. Ma resta da capire se il malcontento darà luogo a una fronda significativa contro la legge elettorale, oppure se avremo solo singoli dissidenti.
Sulla carta i non-renziani del Pd sono in grado di farsi sentire nell’elezione del presidente della Repubblica. E logica vorrebbe che Renzi trattasse con loro una strategia e anche una candidatura. La ferita del 2013 pesa e nella vecchia politica si ripartirebbe da quei 101 franchi tiratori anti-Prodi che costituiscono una ferita aperta nel vissuto del partito. Si cercherebbe di sanare il «vulnus» con un atto di riparazione. Renzi avrebbe tutto l’interesse a gestire una vera riconciliazione interna, prima di affidarsi ai voti del centrodestra. Lo farà? Per ora il dubbio rimane, ma sarà risolto presto: quando il Pd, ispirato dal suo segretario, dovrà individuare il candidato al Quirinale. Cioè il momento della verità.

il Fatto 8.1.15
Benvenuti tra noi
Anche a “Repubblica” sorge un sospetto

Il testo che segueè parte di un editoriale pubblicato da un importante giornale italiano, ieri. E non è Il Fatto Quotidiano: “Il problema non sono i dubbi o i sospetti. La vera questione sono gli interrogativi senza risposta che alimentano quei dubbi e quei sospetti. Le forme con cui il decreto fiscale è stato approvato e il suo contenuto stanno lasciando sul terreno troppe risposte inevase. Troppe le eccezioni e troppe le opacità. A cominciare da quella soglia del tre per cento che – se fosse confermata – di fatto concederebbe a Silvio Berlusconi di aggirare la legge Severino e tornare alla politica attiva. Anche ieri il presidente del Consiglio ha fatto poco per diradare le nubi. Da quattro giorni non si riesce a capire chi ha deciso di inserire quella norma e chi l’ha concretamente scritta. Un classico balletto dello scaricabarile che soprattutto tra sabato e domenica ha reso la vicenda ancor più nebulosa”. L’autore è Claudio Tito, capo del servizio politico di Repubblica, che viene accolto con soddisfazione tra quelli che s’accorgono che Renzi non è il Nazareno, ma il contraente del Patto del Nazareno con l’ex Cavaliere.
l’articolo di Claudio Tito citato è integralmente su “Segnalazioni” alla data di ieri

il Fatto 8.1.15
Il magistrato Rodolfo Sabelli (Anm)
La Salva B.? “Norma ingiusta e retroattiva”
di Luca De Carolis


Io non mi esprimo sulle ragioni che hanno portato a questa norma. Dico che così com’è scritta è ingiusta, e quindi non andrebbe applicata: a nessuno”. Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, schiva le domande sul movente politico dell’articolo “salva Berlusconi”, quel 19-bis spuntato nel decreto sui reati fiscali che cancellerebbe la condanna del capo di Forza Italia per frode fiscale. Ma sul merito Sabelli ha molto da dire.
Presidente, un’altra norma ad personam...
Le considerazioni di carattere politico non riguardano me e l’Anm: siamo magistrati, discutiamo degli aspetti giuridici.
Ripartiamo proprio dal merito: questo articolo ha valenza retroattiva, cioè cancella condanne già passate in giudicato?
A mio parere sì. L’articolo 2 del codice penale prevede, in linea generale, che la norma successiva più favorevole sia retroattiva. E in particolare, il comma 2 recita: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
Tradotto, Berlusconi se la caverebbe perché la cifra che ha evaso è sotto la soglia del 3 per cento del reddito imponibile, e quindi non più punibile a livello penale in base al 19-bis.
Non mi esprimo sul caso specifico. Ricordo solo che la soglia del 3 per cento introdotta dal 19-bis riguarda tutti i reati fiscali previsti dal decreto. Quindi, secondo la mia interpretazione, questa modifica travolgerebbe anche le sentenze passate in giudicato.
In che modo?
Tramite un incidente di esecuzione, che porterebbe alla revoca della condanna per abrogazione del reato.
Quale è il giudizio complessivo dell’Anm sulla norma?
Ci appare ingiusta, per molte ragioni. Innanzitutto proprio per la sua portata, perché si applica a tutti i reati fiscali contemplati dal decreto legislativo: quindi non colpisce solo l’omessa dichiarazione o quella infedele, ma anche le frodi e le fatture per operazioni inesistenti. E questo può portare a effetti a catena.
Ossia?
Determinati illeciti sono reati sintomo. Per capirci, la falsa fatturazione è uno degli strumenti tipici per creare fondi neri, utili per tutti gli impieghi che si possono immaginare, a prescindere dai reati di natura tributaria.
Quindi indagando sulle false fatture...
Si può arrivare a casi di corruzione. O a reati societari come la bancarotta fraudolenta.
Si è parlato molto del 19-bis anche come di una norma favorevole per gli evasori ricchi.
Certamente un altro aspetto problematico è l’assenza di una soglia massima. L’unica è il 3 per cento dell’imponibile: quindi maggiore è il reddito, maggiore può essere il valore dell’evasione.
Renzi ha ventilato modifiche, come l’esclusione della frode fiscale dai reati previsti e l’abbassamento della soglia.
Non voglio dare indicazioni o suggerimenti al governo. E giudico sempre le sue norme nel suo complesso. Vedremo.

il Fatto 8.1.15
Tutte le balle del governo sulla norma salva-evasori
Il testo non è pubblicato sul sito dell’esecutivo
Delrio e il premier dicono che c’è stata discussione, ma il decreto è piovuto dall’alto già pronto
di Stefano Feltri


A quasi due settimane dal Consiglio dei ministri del 24 dicembre, il governo continua ad aggrovigliarsi in versioni contrastanti: come è possibile che una norma uscita dalla commissione di esperti del Tesoro come stangata anti-evasione sia diventata il più colossale regalo ai professionisti della frode fiscale? Nessuna sanzione penale a chi imbroglia di proposito il fisco per somme fino al 3 per cento del fatturato, con il politicamente rilevante effetto collaterale di neutralizzare (o almeno indebolire) gli effetti della legge Severino che rendono incandidabile Silvio Berlusconi, condannato in Cassazione proprio per frode fiscale.
Il testo nascosto (per vergogna?)
La prima bugia è già sul sito go  verno.it : nel comunicato del Consiglio dei ministri del 24 dicembre si legge che “il Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Economia e Finanze, Pietro Carlo Padoan (sic, con refuso), ha approvato in via preliminare il decreto legislativo sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente” e che “il testo è pubblicato sul sito del governo”. Due falsità in poche righe: il premier ha ribadito anche ieri che il decreto nella sua versione finale è opera di Palazzo Chigi, non del ministero del Tesoro. E il testo è scomparso dal sito del governo, dove è rimasto finché il Fatto Quotidiano non ha denunciato la norma. Ora è intro  vabile. Comesebastassecancel  lare un decreto dal sito per farlo decadere. Dovrà esserci un altro Consiglio per ritirarlo e poi emanarne una nuova versione.
Rivendicare la manina presidenziale
“La manina è la mia”, ha detto ieri Matteo Renzi ai parlamentari Pd, per chiudere le polemiche. In realtà dovrebbe aprirle, perché la procedura usata dal premier è così irrituale da meritare da sola una spiegazione. La commissione di esperti del Tesoro guidata da Franco Gallo, ex presidente della Consulta, produce un testo di cui poi Renzi si appropria. Lo riconsegna ai ministri stravolto seguendo la corsia preferenziale dei documenti “fuori circuito”. Che non passano cioè dal pre-consiglio dei ministri riservato agli sherpa ministeriali. Non è neppure certo che la salva-Berlusconi sia stata elaborata dal Dagl, il dipartimento degli affari legali guidato dalla super-renziana Antonella Manzione. E allora chi ha materialmente scritto il testo? Renzi è forte di una laurea in giurisprudenza presa una ventina di anni fa, non risulta abbia competenze o velleità di tecnico della legislazione. Chi ha partorito una modifica che, con una spericolata capriola giuridica, poteva salvare Berlusconi da una condanna definitiva? Visto che il percorso della norma non è tracciabile, resterà il sospetto che si sia verificato quanto accade spesso nelle notti frenetiche delle commissioni parlamentari: che i beneficiari della norma se la scrivono da soli passandola poi a deputati amici compiacenti.
Gli equilibrismi di Delrio, smentito anche dal capo
Cercando di fare da scudo al governo, Renzi ha sbugiardato la versione che da giorni stava raccontando il suo sottosegretario Graziano Delrio, che gestisce le riunioni del Consiglio dei ministri. “I testi che escono dal Cdm sono collegiali: entrano in una maniera, ne escono trasformati, altrimenti non ci sarebbe bisogno di fare i consigli dei ministri. Talmente ovvio che è perfino difficile da spiegare, non c'è nessuna manina come ha detto in maniera chiara il ministro Padoan”, ripeteva ancora ieri mattina l’ex sindaco di Reggio Emilia. Una versione che serve a tenere compatto il governo, ma palesemente falsa. Il testo del decreto è entrato in Consiglio dei ministri con già la misura salva-evasori e lì, nella riunione, non è stato discusso, come confermano diversi ministri che però non vogliono esporsi pubblicamente. Il decreto ha saltato tutti i passaggi in cui avvengono le “decisioni collegiali” ed è atterrato sui tavoli dei ministri come opera diretta del capo del governo. Comprensibile, quindi, che nessuno abbia avuto una gran voglia di contestarlo.
Il legame col Quirinale e il patto del Nazareno
“Noi cambiamo il fisco per gli italiani, non per Berlusconi. Senza fare sconti a nessuno, nemmeno a Berlusconi, che sconterà la sua pena fino all’ultimo giorno”, ha detto due giorni fa Renzi. Ma il decreto non incideva sulla “pena” di Berlusconi (i servizi sociali che scadono il 15 febbraio), bensì sulle conseguenze non penali previste dalla legge Severino (l’incandidabilità). E il legame con Berlusconi e la partita del Colle lo conferma lo stesso premier: “Per evitare polemiche – sia per il Quirinale, che per le riforme – ho pensato più opportuno togliere di mezzo ogni discussione e inserire anche questo decreto nel pacchetto riforme fiscali del 20 febbraio”. Una scelta tutta politica: se il punto era modificare il decreto, bastava mandarlo alle commissioni competenti in Parlamento, recepire le loro valutazioni non vincolanti e adeguarlo. Invece Renzi lascia intravedere a Berlusconi la salvezza politica e poi gli promette che del tema si discuterà dopo l’elezione del capo dello Stato. Durante la quale Forza Italia è decisiva per il progetto renziano di eleggere un presidente al primo scrutinio con la maggioranza dei due terzi.

il Fatto 8.1.15
Il libera tutti
Quelli che aspettano il condono
di Carlo Di Foggia


La lista è così lunga che si fa prima a dire chi non c'è. S'intende quella dei potenziali graziati dalle norme contenute nel contestato decreto fiscale, quello che che avrebbe salvato Silvio Berlusconi, e non solo. L'ambito di applicazione della famosa soglia del 3% del reddito imponibile dichiarato (sotto la quale si può evadere e frodare il fisco senza rischiare il carcere) è vasto, e il combinato disposto con i cavilli infilati all'ultimo ne allargano ulteriormente le maglie. È un esercizio matematico difficile, ma il possibile risultato sono decine di nomi finiti in inchieste e processi eccellenti. I reati sono gli stessi contestati, per dire, a Sergio Scarpellini, immobiliarista noto perché padrone di casa di molti enti pubblici e istituzioni: omesso versamento iva. C'è poi l'indagine sulla famiglia Angelucci, i re delle cliniche romane: tra il 2007 e il 2009 sarebbero stati indicati elementi passivi fittizi per milioni di euro, mentre nel 2008 fatture per operazioni inesistenti per 733 mila euro.
IL COMMA 4 inserito nell'articolo 4 del decreto fiscale, punisce soprattutto chi elude il Fisco con operazioni di finanza strutturata, come i derivati ma anche inserendo elementi passivi fittizi. Articolo svuotato da un comma aggiunto alla fine (da Palazzo Chigi): vengono esclusi “flussi finanziari nelle scritture contabili obbligatorie”. È il caso degli Angelucci. Ma è soprattutto una norma salva banche perché rende inapplicabile la frode. Basta annotare tutto nei bilanci, come hanno fatto diversi istituti di credito in passato temendo un'azione penale: verrebbero graziati gli ex ad di Unicredit, Alessandro Profumo e Banca Intesa, Corrado Passera. Il caso di Profumo è più complesso. Nel giugno scorso la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio del manager, in merito alla cosiddetta “operazione Brontos”: 245 milioni che tra il 2007 e il 2008 sarebbero stati sottratti al Fisco con operazioni di finanza strutturata. Stando agli utili e al fatturato la vicenda processuale potrebbe rientrare anche nella famosa norma pro Berlusconi (quella del 3%).
I pm indicano anche il processo al patron dell'Ilva Emilio Riva – morto nell'aprile scorso – e due ex dirigenti del gruppo in relazione a una maxi evasione da 52 milioni. Salterebbe poi la condanna in primo grado per false fatturazioni all'ex ad di Fin-meccanica, Giuseppe Orsi e al numero uno di Agusta Westland, Bruno Spagnolini. Fin-meccanica verrebbe coinvolta dai ritocchi apportati da Palazzo Chigi al decreto anche in relazione all'inchiesta su fondi neri e tangenti per gli appalti del Sistri che ha portato a processo l’ex presidente Pier Francesco Guarguaglini. Le norme, però, avrebbero avuto un impatto soprattutto per il futuro, lasciando mano libera ai vertici dei grandi gruppi bancari e industriali, liberi dal timore di azioni penali, azzerando centinaia di accertamenti grazie alla cancellazione del raddoppio dei termini.
“Una norma che la Ragioneria avrebbe bocciato, perchè provocherebbe un buco di 10-15 miliardi all’Erario”, racconta chi ha seguiti l'iter del procedimento. Cifra che secondo un documento dell'Agenzia delle Entrate rivelato da Libero non sarebbe inferiore ai 16 miliardi. Sempre Libero ha rivelato altri nomi: Francantonio Genovese, Ras di Messina ed ex compagnio di partito di Renzi, arrestato per reati fiscali. E poi anche Lele Mora e Fabrizio Corona - almeno sul fronte dei reati tributari – e probabilmente anche il presidente di Ibm Italia, Nicola Ciniero (frode fiscale), e l'imprenditore varesino Gianfranco Castiglioni, fondatore del gruppo Cagiva (frode da 63 milioni). E via elencando.

il Fatto 8.1.15
Nessuna soglia
In Germania e Stati Uniti chi fa il furbo va in galera


CON UN INTERVENTO su alcuni quotidiani locali, ieri il pm di Trento Pasquale Profiti ha parlato dell'allargarsi di uno “spread di legalità tra noi e i paesi economicamente sviluppati”. Una metafora calzante dal momento che, nel giro del mondo alla ricerca dei delitti e delle pene per l'evasione fiscale, il decreto “Salva Berlusconi”, che cerca di alzare al 3% la soglia di non punibilità, si pone in netto contrasto. In Germania non è riconosciuta alcuna soglia e si è perseguibili a qualsiasi livello di evasione, che ci sia il dolo eventuale o che si tratti di omessa o fallace dichiarazione. Si rischiano comunque sanzioni e il carcere da 1 a 5 anni. E mentre in Italia rischierebbe il carcere solo chi evade più di 150.000 euro, nella terra della Merkel 50.000 euro di evasione sono considerati un caso “large scale”, su larga scala. Altro confronto per contrasto è quello con gli Stati Uniti dove “qualsiasi persona che tenti volontariamente, in qualsiasi modo, di eludere o aggirare qualsiasi tassa imposta, è colpevole di un crimine. Multato fino a 100.00 dollari (500.000 per le società) o condannato al carcere fino a 5 anni

il Fatto 8.1.15
Italicum, gli emendamenti sono 18 mila
di Sara Nicoli


Poche certezze, ancora ieri, alla partenza della discussione dell’Italicum in Senato che, secondo i piani di Renzi, dovrebbe essere approvato entro la fine del mese, prima della nomina del nuovo capo dello Stato. Si sa, per ora, che il provvedimento è gravato da oltre 18 mila emendamenti, difficilmente eliminabili con la tecnica parlamentare del canguro (voto che elimina i simili tra loro), che la Lega e Forza Italia hanno abbassato gli scudi dopo che il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, ha ufficializzato che il governo è favorevole a una clausola di salvaguardia all’Italicum che lo farà entrare in vigore nel 2016. Ma non è detta l’ultima parola, anzi. Il terreno resta accidentato. Stamattina la capigruppo del Senato deciderà come proseguire i lavori dopo la discussione generale (hanno parlato in 84, un record), ma già si agitano i pallottolieri su più punti. E si calcola che la fronda che potrebbe cercare di portare l’assalto all’Italicum, rallentandone i tempi e balcanizzando l’aula, può contare, oggi, su circa 140 senatori. Numero che esce dalla sommatoria dei 5Stelle (39), dissidenti Pd (35 secondo i rumor di Transatlantico) e dissidenti Fi (30), ai quali si possono sommare anche i 15 senatori della Lega Nord, solo in apparenza sopiti, 8 del Movimento per le Autonomie e almeno 12 del gruppo Misto ancora indecisi; una cifra decisamente alta. Che ha allarmato Renzi. Ieri, non a caso, a Palazzo Chigi sono arrivati in mattinata il capogruppo Pd Zanda, la Finocchiaro, presidente dell’Affari costituzionali e il ministro Boschi; l’accordo generale, infatti, ancora non c’è. Forza Italia non vuole né dell’abbassamento della soglia per l’ingresso alla Camera al 3% né, soprattutto, il premio di maggioranza alla lista invece che alla coalizione. E se in passato Berlusconi si era mostrato possibilista, ora con l’affondamento del “salva Silvio” la situazione appare assai più delicata. “Chiediamo al governo di ritirare questo testo – ha detto ieri Brunetta – perché noi non lo voteremo. E se non lo votiamo salta il patto del Nazareno”. La priorità del governo è blindare le modifiche il più possibile, ovvero il premio di maggioranza alla lista (e non più alla coalizione ), ballottaggio nazionale tra le prime due liste che scatta al di sotto del 40% (e non più al di sotto del 37%), abbassamento delle soglie al 3% per tutti i partiti (invece che al 4,5% per chi si coalizza e all’8% per chi non si coalizza) e introduzione dei capilista bloccati con doppia preferenza (di genere) dal secondo in lista in giù. Si vuole chiudere possibilmente entro il 22-23, data dell’incontro bilaterale tra Renzi e la Merkel a Firenze, ma oggi appare una chimera. Il terzo e ultimo passaggio alla Camera dell’Italicum, se tutto andrà liscio, sarà in discesa, considerando la forte maggioranza di cui gode il Pd a Montecitorio. Ma a quel momento bisogna arrivarci. E la strada oggi appare più in salita che mai.

il Fatto 8.1.15
Metodo Matteo: le leggi se le scrive da solo (e male)
di Wanda Marra


La riforma del lavoro è il penultimo esempio (l’ultimo è la delega fiscale) del metodo Renzi di fare le leggi. Un metodo che ha svuotato di ruolo e potere le sedi deputate. Per restare all’esempio del lavoro: il governo ad aprile 2014 vara la legge delega. Il Parlamento approva a dicembre. Con fiducia: il che vuol dire consegnare all’esecutivo una delega, appunto, praticamente in bianco per scrivere i decreti attuativi, quelli che danno contenuto alla riforma. Il Cdm della vigilia di Natale li fa e li approva. Ma c’è un punto – non esattamente secondario – quello sugli statali, che non viene chiarito: rimandato al Parlamento. O meglio alle future trattative politiche.
LA PRASSI è questa, dall’inizio. Il decreto sulla riforma della Pa, approvato dal Consiglio dei ministri il 12 giugno, arrivò al Quirinale 12 giorni dopo, il 24 giugno. Sdoppiato. Perché quello uscito dal Cdm era un testo “monstre”, un brogliaccio, fatto di norme giustapposte. In quel caso, Napolitano spiegò al giovane premier che le leggi non si possono fare così. Monito ribadito il 16 dicembre (parlando dell’ “abuso della decretazione d’urgenza”, e del “ricorso – per la conversione dei decreti – a voti di fiducia su abnormi ma-xi-emendamenti, ”), nel discorso alle alte cariche dello Stato per il resto iper-renziano. Ma il presidente del Consiglio va per la sua strada. Per dire, nella notte del 19 dicembre si fa approvare dal Senato la legge di stabilità (ovviamente con fiducia), con alcune parti direttamente in bianco. Confusione, imperizia, eccessiva velocità, mancanza di controllo delle strutture dei ministeri? In parte, ma di certo non solo. Perché Renzi ha reso prassi consolidata e portata alle sue potenzialità estreme l’abitudine di approvare le leggi “salvo intese”. Il che vuol dire che post Cdm si può intervenire di nuovo e inserire qualsiasi cosa come (sembra) sia successo con la delega fiscale. Lasciando un terreno di opacità su chi ha davvero voluto una cosa. Nei vari brogliacci di legge modificati in corsa in questi mesi è entrato di tutto: norme con sospetta incostituzionalità, favori all’una o all’altra lobby. Alcune cose sono state tolte successivamente, altre sono rimaste. Tra la conferenza stampa in cui lo stesso premier annuncia le misure e le misure effettivamente varate di tempo ne passa: e così è molto difficile per l’opinione pubblica distinguere tra promesse e realtà.
NEL FRATTEMPO, la verticalizzazione delle decisioni diventa massima. Perché il Parlamento, tra una fiducia e l’altra, è di fatto espropriato. E il Consiglio dei ministri ratifica spesso cose sulle quali non ha l’ultima parola. Affidata a chi, invece, le leggi poi le stende materialmente: il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi, guidato da Antonella Manzione. La fedelissima ex vigilessa di Firenze, che Renzi ha voluto ad ogni costo a Palazzo Chigi, nonostante la bocciatura della Corte dei Conti. Che ha il compito di eseguire materialmente le direttive del Capo. Ovvero tradurre in leggi le sue intenzioni. Alla fine, insomma, chi decide? Matteo Renzi.

Corriere 8.1.15
Disoccupazione
Crescono gli «under 25» che hanno perso o cercano un impiego. L’Istat: tasso record al 43,9% In Germania livello generale al minimo storico, pari al 6,5%. In Italia a novembre era del 13,4%
di Francesco Di Frischia


ROMA La disoccupazione, che continua a dilagare tra i giovani, fa segnare dal 1977 un nuovo record negativo in Italia. In Germania, invece, è la metà di quella nello Stivale. Sindacati e partiti di opposizione criticano le politiche del governo. Non la pensa così il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che, pur preoccupato per gli under 25, invita ad aspettare le ricadute di Jobs act e legge di Stabilità: «Solo nei prossimi mesi si potranno vedere gli effetti delle riforme». Stessa opinione dal premier, Matteo Renzi, e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
Intanto l’Istat rivela che il tasso di disoccupazione a novembre 2014 sale ancora, raggiungendo il 13,4%, in aumento (+0,2%) rispetto ad ottobre: si tratta del massimo storico dall’inizio sia delle serie mensili (gennaio 2004), sia delle trimestrali (37 anni fa). Complessivamente i disoccupati a novembre sono 3 milioni e 457 mila, cioè 40 mila in più rispetto a ottobre e 264 mila in più su base annua. Nello scorso mese gli occupati erano 22 milioni e 310 mila, ma in diminuzione dello 0,2% sia rispetto a ottobre 2014 (-48 mila) sia su base annua (-42 mila). Dolenti note pure dal tasso di disoccupazione tra i giovani (da 15 a 24 anni) a novembre 2014 balza al 43,9%, in rialzo (+0,6%) su ottobre. Anche in questo caso si tratta del valore più alto mai registrato. Secondo l’Istat sono in cerca di lavoro ben 729 mila under 25. Unico dato positivo: il tasso di inattivi (da 15 a 64 anni) che resta fermo al minimo storico del 35,7%. In un anno sono diminuiti di 312 mila unità.
La tendenza degli ultimi mesi sembra quindi associare a un calo dell’inattività e dell’occupazione, un aumento della disoccupazione.
Tutto un altro clima, invece, in Germania, dove la percentuale di chi non ha un lavoro scende al minimo storico (6,5%). Situazione sotto controllo anche in Europa: la disoccupazione è stabile, con un tasso a novembre dell’11,5% nell’Eurozona (18 Stati, la Lituania il 19°, è intrata l'1 gennaio 2015) e del 10% nell’Ue (28 Stati).
Tra chi critica l’esecutivo, il senatore M5S Nicola Morra scrive sul blog di Beppe Grillo: «Mentre 3 milioni e mezzo di italiani sono senza lavoro, il governo Renzi presenta una riforma che faciliterà altri licenziamenti». Maurizio Sacconi (Area popolare) chiede «più coraggio per invertire la tendenza in atto». E Giorgia Meloni (Fdi-An) invita la politica a «occuparsi dei veri problemi dell’Italia». Più dura Serena Sorrentino (Cgil): «Il governo non è in grado di rilanciare la crescita perché non punta sulla creazione di lavoro». Filippo Taddei (Pd) replica: «I dati confermano l’urgenza delle riforme». E il ministro Poletti aggiunge: «Il numero assoluto degli occupati tra i 15 e i 24 anni rimane stabile rispetto ai mesi precedenti, mentre il tasso di disoccupazione generale viene influenzato dal costante aumento degli inattivi che cercano lavoro: il loro numero infatti a novembre è il più basso degli ultimi due anni».

Repubblica 8.1.15
Europa in deflazione in Italia record storico della disoccupazione
Eurostat certifica un calo dello 0,2% a dicembre Un giovane sotto i 25 anni su due è senza lavoro
di Luisa Grion


ROMA L’Europa è in deflazione; in Italia i prezzi sono stagnanti, ma la disoccupazione raggiunge livelli da record. I senza lavoro - secondo i dati Istat di novembre - hanno raggiunto quota 3 milioni 457 mila, con un tasso che non si vedeva dai trimestri del 1977 (il 13,4 per cento) e che ha raggiunto, fra i più giovani, l’imbarazzante tetto del 43,9 per cento. Nell’area dell’euro lo scorso dicembre, secondo le stime preliminari di Eurostat, i prezzi sono scesi dello 0,2 per cento rispetto allo stesso mese del 2013 (a novembre era più 0,3). Non succedeva dal 2009, ma la Commissione europea non vuole ancora parlare di deflazione (quel calo generalizzato dei prezzi che si autoalimenta perché si rimandano gli acquisti in attesa di listini ancora più bassi). Preferisce vedere in questa tendenza un «dato temporaneamente negativo» che proseguirà nel breve periodo, ma invertirà la rotta con la ripresa. A determinare la caduta dei prezzi europei è stato il crollo del costo dell’energia (meno 6,3 per cento) e del petrolio particolare. Voce che ha causato anche la variazione zero dell’Italia e il suo tasso medio annuo d’inflazione per il 2014: 0,2 per cento contro l’1,2 del 2013. Un livello così basso non si vedeva dal 1959, cinquantacinque anni fa. «Ora è più probabile che le conseguenze positive della caduta del greggio per i redditi dei Paesi importatori di petrolio, come l’Italia, siano contrastate, se non del tutto annullate, da quelle negative indotte dalla deflazione», commenta Sergio De Nardis di Nomisma. Ferma sui prezzi, l’Italia peggiora ancora i suoi dati sul fronte del lavoro. Fra gli under 25 in cerca di occupazione il 43,9 per cento non lo trova: lo 0,6 per cento in più sul mese precedente, il 2,4 rispetto ad un anno fa. Un esercito di 729 mila ragazzi a spasso. Calano anche gli occupati totali: 22 milioni e 310 mila, ovvero 42 mila in meno rispetto al novembre 2013. Ed è a questo tasso di disoccupazione, arrivato ormai al 13,4 per cento (11,5 nell’Eurozona con una Germania al 6,5 per cento) che dovrà rivolgersi il Jobs Act del governo Renzi. «Vedremo i suoi effetti solo nei prossimi mesi», assicura il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. «Sono dati drammatici commenta però Cesare Damiano, sempre del Pd pensare di rendere i licenziamenti più facili è cosa abnorme: ci batteremo per cambiare ulteriormente i decreti sul Jobs Act e cancellare la norma sui licenziamenti collettivi».

il Fatto 8.1.15
Disoccupati, l’ottimismo renziano non produce effetti
I senza lavoro al 13,4%, è record
Giovani under 24 senza lavoro al 43,9%
L’Europa scopre la deflazione da petrolio
di Stefano Feltri


La notizia cattiva, la deflazione, è meno brutta di come sembra. E il dato sulla disoccupazione, in cui qualcuno potrebbe vedere segnali positivi, deve preoccupare. Partiamo dalla deflazione, cioè dai prezzi che scendono nella zona euro, segnale che la ripresa non c’è, che le famiglie rimandano i consumi e le imprese gli investimenti: Eurostat, l’agenzia fiscale dell’Unione europea, comunica che a dicembre 2014 i prezzi sono scesi dello 0,2 per cento su base annua, mentre a novembre salivano, seppure di poco, dello 0,3 per cento. È la temuta deflazione che non si vedeva dal 2009, l’anno in cui l’economia reale europea subì il contraccolpo del disastro finanziario americano e del crac della banca Lehman Brothers.
SE PERÒ SI GUARDANO gli altri indici, il quadro si ridimensiona parecchio e si capisce che l’ingresso nella deflazione dipende esclusivamente dal calo del prezzo del petrolio, arrivato ieri a 48 dollari al barile. L’indice che esclude l’energia, registra prezzi in crescita dello 0,6 per cento, se si escludono dal calcolo anche altri settori che tendono a drogare un po’ il dato complessivo (cibo, alcol, tabacco e cibo non lavorato) l’aumento è tra lo 0,6 e lo 0,7 per cento. Che è poco, ma quasi un punto più di quanto risulta dall’indice generale HICP. Insomma: la deflazione deriva dall’energia bassa ed è quindi una deflazione “migliore” rispetto a quella che è tutta colpa del rallentamento dell’attività economica.
L’economista di Unicredit Marco Valli scrive nella sua nota: “Recenti commenti del presidente della Bce Mario Draghi e del capo economista Peter Praet indicano crescenti preoccupazioni che il calo del prezzo del petrolio (senza dubbio una buona notizia per l’attività economica) potrebbe portare a sviluppi indesiderati nella formazione delle aspettative di prezzo per imprese e famiglie”. Diventa quindi più probabile che nella riunione del 22 gennaio la Banca centrale europea lanci un programma di acquisto di titoli di Stato dei Paesi dell’euro per una cifra tra 500 milioni e un miliardo di euro. Un tentativo estremo di immettere liquidità nel sistema bancario per farlo arrivare all’economia reale e stimolare un’economia che resta asfittica. È ancora da capire come saranno ripartiti i benefici tra Paesi e chi si farà carico dei rischi (se la Bce da sola o ciascuna banca centrale nazionale).
LO SCOPO DELLA MOSSA di Draghi è usare le leve della politica monetaria per sbloccare la situazione dell’Eurozona che ha la sua conseguenza sociale più grave nell’aumento del numero dei disoccupati. Ieri l’Istat, l’istituto italiano di statistica, ha comunicato che il tasso di disoccupazione è arrivato a novembre 2014 al 13,4 per cento, nuovo record da quanto si raccolgono i dati su base mensile (1977). È in aumento dello 0,2 per cento sul mese precedente. È vero che si riducono anche gli inattivi, cioè quelli che aspettano passivamente senza neppure cercare lavoro. Ma le persone che si rimettono a caccia di un impiego (per ottimismo o perché hanno finito i risparmi) sono però 12mila, non bastano a spiegare i 40mila disoccupati in più che si registrano rispetto a ottobre. Molto pessimistica l’analisi dell’economista Paolo Mameli di Intesa Sanpaolo: “Il calo di 113 mila unità registrato dagli occupati negli ultimi due mesi conferma la nostra idea che i segnali di miglioramento dell’occupazione (quasi interamente a tempo determinato) visti nei mesi centrali dell’anno potessero essere dovuti agli effetti del decreto Po-letti di aprile che aveva reintrodotto maggiore flessibilità in entrata”. Quell’illusorio miglioramento “una tantum”, scrive l’economista di Intesa, “sembra già svanito e, poiché una ripresa congiunturale deve ancora materializzarsi, non è alle viste un miglioramento del mercato del lavoro”.
Anche il calo degli inattivi, che più volte Renzi ha indicato come il segnale che il mercato del lavoro si è rimesso in movimento, non va sopravvalutato perché “in questo momento sembra dovuto più ad accresciute necessità economiche che non a una attenuazione dell’effetto scoraggiamento”.
IL MINISTRO POLETTI ci tiene a precisare che “solo nei prossimi mesi si potranno vedere gli effetti delle misure della legge di stabilità e della riforma del mercato del lavoro”. Il momento della verità per un primo bilancio del Jobs Act sarà quello in cui l’Istat diffonderà i dati sull’occupazione nel mese di gennaio, il primo in cui si applicano gli incentivi alle assunzioni previsti dalla legge di stabilità. In Germania, invece, è al minimo storico: 6,5 per cento, sotto le attese degli analisti e meno della metà di quello italiano. La crisi dell’euro riassunta in due opposti.

il Fatto 8.1.15
Il pessimo tempismo del Jobs Act
I consulenti del lavoro: si applica anche agli statali
La sinistra Pd torna all’attacco


Il decreto delegato sul Jobs Act non è ancora arrivato nelle commissioni parlamentari competenti che già il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan cominciano a difendere le nuove norme dai colpi che arrivano dalla statistica, cioè dal tasso di disoccupazione record al 13,4 per cento. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti arriva perfino ad ammettere che è “ragionevole pensare” che l’attesa per il Jobs Act “abbia spinto molte imprese a rinviare le assunzioni”. Una confessione da tenere presente quando arriveranno i primi dati sugli effetti del pacchetto governativo (verso marzo) che quindi andranno corretti un po’ al ribasso.
I pessimi numeri sul mercato del lavoro hanno rivitalizzato la minoranza del Pd, pronta a usare il passaggio dalle commissioni parlamentari (parere obbligatorio ma non vincolante sui decreti delegati) per creare qualche problema all’esecutivo. Il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, dice che con questi dati occupazionali “diventa ancora più abnorme voler rendere più facili i licenziamenti, come vorrebbe la destra. Per questo ci batteremo per cambiare ulteriormente i decreti sul Jobs Act e cancellare la norma sui licenziamenti collettivi”. E Gianni Cuperlo, sempre della sinistra Pd, chiede una nuova riunione del partito per discutere, tra l’altro, anche i contenuti del decreto delegato.
A complicare il quadro ci si mette la Fondazione dei consulenti del lavoro che sostiene: “La circostanza che il decreto sulle tutele crescenti non prevede una specifica esclusione dei dipendenti pubblici consente la piena efficacia dell’art. 2 del testo unico per il pubblico impiego il quale opera un rinvio generale alle leggi sui rapporti di lavoro privati”. Cioè il contrario di quanto ha assicurato Matteo Renzi. Chissà se i giudici darebbero ragione al premier o ai consulenti.

il Fatto 8.1.15
Il mercato è di sinistra
Come Tsipras seduce il Financial Times


A volte gli opposti si toccano: il Financial Times dedica grande spazio a un’intervista a George Stathakis, il ministro ombra dello Sviluppo economico. Con un taglio tutt’altro che ostile. Anzi. Stathakis annuncia che il partito di sinistra Syriza guidato da Alexis Tsipras vuole “rendere la vita più facile per il business, aiutarli rimuovendo i problemi con la burocrazia di cui si lamentano” e promette di colpire gli “oligarchi”, liberalizzando settori oggi in mano a pochi amici della politica. Il quadro per il Financial Times non è poi così male: se il 25 gennaio Syriza conquisterà il governo, infliggerà le eventuali perdite sul debito alla troika (cioè le istituzioni europee e gli Stati, inclusa l’Italia, che le hanno finanziate) mentre per combattere lo sclerotizzato capitalismo di relazione locale userà la leva della concorrenza e della liberalizzazione. Al FT sono felici.

Corriere 8.1.15
Il grande gioco diplomatico tra Pechino e i talebani
di Guido Santevecchi


Una delegazione di alto livello dei talebani afghani è stata a Pechino per presentare le sue richieste in vista di un possibile negoziato con il nuovo governo di Kabul. Non è la prima volta che gli insorti talebani cercano un Paese neutrale per un dialogo (nel 2013 il tentativo, sostenuto dagli americani, era stato fatto in Qatar ed era fallito); ma è inedito che la grande Cina si impegni in una mediazione internazionale.
A riprova della serietà dell’iniziativa c’è la mancanza di riflettori sulla visita dei talebani, guidati da Qari Din Mohammad Hanif, che fu ministro nel regime islamico abbattuto nel 2001. La delegazione è stata a Pechino a novembre e solo ora emergono alcuni particolari. I talebani chiedono di essere cancellati dalla lista delle organizzazioni sottoposte a sanzioni, emendamenti alla costituzione di Kabul, la partecipazione al governo. Questi dettagli sono stati fatti filtrare da fonti di Kabul, fiduciose che la Cina possa offrire un teatro ideale per colloqui sulla riconciliazione nazionale; a Pechino prevale la linea del riserbo (e questo è positivo).
Molti segnali indicano che la Cina stia entrando nel Grande Gioco di Kabul, ora che la coalizione militare internazionale ha abbandonato il ruolo combattente in Afghanistan. A fine ottobre Pechino ha ricevuto con grandi onori Ashraf Ghani, il nuovo presidente afghano. Ghani ha detto a Xi Jinping che l’Afghanistan guarda alla Cina come partner strategico; il leader comunista gli ha risposto staccando un assegno da 320 milioni di dollari per progetti di cooperazione civile. Pechino guarda a Kabul con interesse e preoccupazione: si è aggiudicata da tempo importanti concessioni petrolifere e nelle miniere di rame dell’Afghanistan (riserve minerarie valutate in un trilione di dollari). La preoccupazione viene dal rischio di contagio estremista nel suo Xinjiang, che confina per una novantina di chilometri con l’Afghanistan. Due ottimi motivi per mediare.

Repubblica 8.1.15
Pianeti
Non siamo più soli, nello spazio altre otto Terre
Acqua, rocce, luce E una distanza dal loro sole compatibile con la vita Ecco come la sonda Keplero ha scoperto nuovi mondi
di Dennis Overbye


NEW YORK L’UNIVERSO è grande, ma è pieno di piccoli pianeti. Pochi giorni fa gli astronomi han no annunciato di aver scoperto otto nuovi pianeti orbitanti attorno alle loro stelle a distanze compatibili con la presenza di acqua allo stato liquido. Con questa scoperta il numero complessivo dei pianeti teoricamente abitabili nella zona abitabile circumstellare arriva a una decina o anche a una ventina, a seconda di come è definita la zona abitabile di una stella.
Keplero, la sonda spaziale della Nasa con telescopio, arrivata al suo quinto anno di ricerche delle ombre dei pianeti che orbitano attorno ad altre stelle, ne ha individuate a centinaia, e sempre più questi altri mondi assomigliano alla Terra: sono globi rocciosi di poco più grandi del nostro pianeta, che con la giusta dose di illuminazione stellare e di acqua potrebbero trasformarsi in veri e propri giardini di un Eden microbico. Gli ultimi sono stati individuati da un gruppo di ricercatori guidati da Guillermo Torres del Centro di Astrofisica dell’Harvard- Smithsonian. Un altro gruppo di astronomi aveva detto di essere riuscito a calcolare le dimensioni di un gruppo di piccoli pianeti, per densità e composizione pressoché identiche a quelle della Terra.
Keplero ha scoperto finora 4175 potenziali pianeti, e di 1004 di essi è stata confermata l’esistenza: lo ha dichiarato Michele Johnson, la portavoce del centro Ames di ricerca della Nasa che guida Keplero. La maggior parte di essi, tuttavia, compresi gli ultimi, si trova a centinaia di anni luce di distanza, troppi per uno studio dettagliato. Scoprire i pianeti della zona abitabile circumstellare più vicini alla Terra sarà il compito del Satellite di studio degli esopianeti (Transiting Exoplanet Survey Satellite), il cui lancio avverrà nel 2017. Se però vorremo conoscere con precisione come è il tempo su quei mondi, se ci sono forme di vita o l’acqua, saranno necessari strumenti molto più potenti.
Sara Seager è a capo di un gruppo di studio di specialisti della Nasa incaricati di approfondire il concetto di occultatore, che dovrebbe aleggiare di fronte a un telescopio spaziale bloccando la luce proveniente dalla stella e rendendo così visibili i pianeti meno distinguibili. Un altro gruppo di ricercatori, guidato da Karl Stapelfeldt del Centro Goddard Space Flight della NASA, sta studiando un metodo noto come coronografo, grazie al quale il disco occultatore è all’interno del telescopio. Entrambi questi studi si concluderanno nei prossimi mesi: grazie a essi potrebbero essere modificati i piani volti a realizzare l’ex telescopio spia promesso alla Nasa tre anni fa. Gli astronomi sperano di lanciarlo all’inizio degli anni 2020.
Malgrado le numerose scoperte di Keplero, l’esistenza di un pianeta come la Terra, che abbia le stesse dimensioni e che orbiti intorno al medesimo tipo di stella, non è stata ancora confermata. I più “terrestri” dei nuovi mondi sono due, Keplero 438b e Keplero 442b, orbitanti entrambi intorno a stelle leggermene più piccole, più fredde e più rosse del nostro Sole. Keplero 438b ha un diametro del 12 per cento più grande di quello della Terra, e un anno di 35 giorni. Kepler 442 è più grande della Terra di un terzo e ha un anno di 112 giorni. «Tutti questi sono pianeti piccoli e teoricamente sono tutti abitabili» ha detto Doug Caldwell del SETI Institute e NASA Ames. Tutti e cinque i pianeti più piccoli di 1,6 volte le dimensioni della Terra sono situati lungo una linea ideale che congiunge la Terra e Venere. I pianeti più grandi sono risultati essere più vaporosi, forse perché quando i pianeti diventano più grandi la loro massa e la loro gravità aumentano e sono meglio in grado di tenersi stretti gas e componenti più leggeri.
Questo lavoro integra e conferma studi effettuati l’anno scorso da Geoffrey Marcy e dai suoi colleghi all’Università della California a Berkeley, che studiano la natura delle cosiddette super- Terre, pianeti più grandi del nostro e più piccoli di Nettuno.
Nel nostro sistema solare non ci sono pianeti di questa grandezza, ma secondo Keplero nella galassia sarebbero comuni. Saranno rocciosi come la Terra o gassosi come Nettuno? Secondo Courtney Dressing, il numero magico parrebbe essere 1,6 volte le dimensioni della Terra: forse è su pianeti di queste dimensioni che la ricerca dovrebbe concentrarsi per trovare compagnia nel cosmo.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2015, The New York Times