lunedì 12 gennaio 2015

il Fatto 12.1.15
Mario Cardinali, direttore de il Vernacoliere
“Questi ammazzano come l’Inquisizione”

(...) Ma qui per me il problema è il papato. Poi c’è un limite: se dico che il papa mi ha fatto due palle così i credenti se ne devono fare una ragione, perché è critica. Quello che non posso dire è che uno è stronzo perché crede. Non dobbiamo prendere per il culo tutti, ma rispondere a un’oppressione.
dall’intervista di Francesca Schianchi

La Stampa 12.1.15
Il Quirinale e i nemici del premier
di Marcello Sorgi


Se serviva una conferma delle divisioni interne del Pd alla vigilia delle dimissioni di Napolitano, è arrivata puntuale dal tormentato andamento delle primarie in Liguria.
Contrapposizioni locali, ma non solo, in una regione in cui i disastri provocati dalle recenti alluvioni hanno intaccato il rapporto tra sindaci, amministratori ed elettori di centrosinistra. Ma quello della Liguria non è il solo esempio di tensioni interne, a un anno dall’ascesa di Renzi alla guida del partito e a dieci mesi dall’approdo a Palazzo Chigi.
Dopo il lungo negoziato tra maggioranza e minoranza interna del Pd, che aveva preceduto l’approvazione della legge-delega sul Jobs Act, l’arrivo in Parlamento dei decreti delegati, con cui il governo si accinge a rendere operativa la riforma, rischia di far ripartire il braccio di ferro. Anche se la delega dà alle Camere solo un parere consultivo sul contenuto dei decreti, l’ex ministro Damiano, che aveva condotto la trattativa nella fase precedente all’approvazione della legge, ha annunciato che intende ottenere dal governo una serie di modifiche sulla spinosa materia dei licenziamenti. Se Renzi, che ha già accettato un compromesso pur di portare a casa la riforma, dovesse accettare di modificarla ulteriormente, il contenzioso con la minoranza Pd sarebbe risolto, ma subito se ne aprirebbe un altro con Ncd, che a malincuore aveva accettato l’edulcorazione del testo originario. Ma cosa accadrebbe, invece, se dovesse tener duro?
È opinione diffusa che la recrudescenza dell’opposizione interna nei confronti del premier abbia varie ragioni, non ultimo il recente indebolimento della sua immagine personale, causato dalla decisione di usare l’aereo di Stato per portare in vacanza la famiglia e dal controverso inserimento nel decreto fiscale, poi ritirato, della cosiddetta norma salva-Berlusconi. Due indiscutibili errori, anche se di diversa entità, ma non tali da motivare una riscossa a tutto campo degli avversari di Renzi. La ragione vera delle turbolenze sta nella corsa al Quirinale: partita nel momento in cui il Presidente ha annunciato l’addio nel messaggio tv di Capodanno, e destinata ad entrare nel vivo da giovedì, se mercoledì, come tutto lascia pensare, saranno formalizzate le dimissioni.
Per quanto la lista dei diciannove candidati annunciata da Renzi sia ormai pubblica, la sensazione è che uno straccio di accordo, dentro e fuori il Pd non sia ancora all’orizzonte. Di giorno in giorno, il borsino dei «presidenziabili» fa registrare alti e bassi, sia in zona promozione che retrocessione. Ma finché non matura un’intesa di massima su un nome, o su un numero ristretto di nomi, la trattativa vera non può cominciare. Il nome, o i nomi, non si trovano, perché una larga parte del partito che controlla la maggioranza dei Grandi Elettori (ben 450 dei 505 che bastano dalla quarta votazione in poi) considera la scadenza del Quirinale, non solo come il delicato - vieppiù delicato, dopo l’arrembaggio dei franchi tiratori e il fallimento del 2013 - passaggio che deve servire a scegliere il successore di Napolitano. Ma anche come la grande occasione per piegare Renzi ed eleggere un Presidente a lui sgradito.
È in questa chiave che bisogna leggere le tensioni di questi giorni. Dalle primarie al Jobs Act, al cammino delle riforme istituzionali e di quella elettorale, il discorso è chiaro: o Renzi si rassegna alla sottomissione, o si condanna a una guerriglia parlamentare e a un rinvio delle riforme, in coincidenza con le votazioni per il Quirinale. Che a quel punto, in un Parlamento ancora intossicato dai fumi della battaglia, non potrebbero che indirizzarsi verso uno stallo, o peggio ancora verso una soluzione imprevedibile e fuori controllo.
Va detto che non tutti, tra gli avversari di Renzi, la mettono giù così pesante. E quelli che lo fanno apertamente e davanti alle telecamere rappresentano una minoranza della minoranza, il grosso della quale, guidata da Bersani, al contrario punta a trattare e a trovare un punto di convergenza con il premier. Ma il problema non sta nei toni e neppure nelle tattiche adoperate per convincere Renzi a mollare, per evitare di sottoporsi a un ulteriore logoramento o a una sconfitta. Infatti, comunque lo si proponga, un ragionamento del genere non sta in piedi.
Puntare a convincere il premier ad accettare un compromesso, e perfino a farsene promotore, è legittimo. In politica, non a caso, si dice che chi ha più filo tesse. Ma credere che sia davvero possibile eleggere un Presidente della Repubblica a dispetto di Renzi è fuori dalla realtà. Renzi ha messo da parte da tempo la baldanza con cui all’inizio approcciava la questione, forse anche perché ha capito che la corsa al Colle è disseminata di trappole. Ma conserva in pieno il potere di proposta, se non come premier, come segretario del Pd. Se non sta bene a lui, in altre parole, nessun candidato potrà allinearsi ai nastri di partenza. Né alla prima, né alla quarta votazione, né in quelle successive. È su questo dettaglio che dovrebbero riflettere i suoi oppositori. Prima di scatenare un’altra guerriglia che non porterebbe a nulla.

La Stampa 12.1.15
Liguria, primarie alla Paita
Ma Cofferati denuncia brogli
L’ex sindacalista: “Ai seggi cose gravissime, non accetto l’esito”
Polemica sugli immigrati: “Voto inquinato da cinesi e marocchini”
di Jacopo Iacoboni


Secondo le regole delle primarie Pd gli stranieri possono votare, purché regolarmente residenti in Liguria, e con permesso di soggiorno e carta d’identità: ma che pensare se gli stranieri al voto in alcuni seggi della Liguria, ieri, arrivavano a gruppi di dieci persone? «Società civile» o truppe cammellate? In Liguria bisognerà stabilirlo. La cosa si potrebbe trasformare nella più clamorosa rissa politica mai vista nella storia della primarie del Pd, anche perché alle dieci e mezzo di sera i due reali sfidanti - Raffaella Paita, la candidata sponsorizzata da Burlando, neorenziana, e Sergio Cofferati - erano molto vicini, con lei che si dichiara vincitrice, per pochi voti, tremila, su 50mila votanti: «Sarà un lavoro enorme - sono le prime parole di Paita a tarda sera - saranno anni rock, lavorerò per l’unità del Pd».
L’unità però pare lontana (forse più del rock). Cofferati ci anticipa: «Ho chiesto un pronunciamento alla Commissione nazionale di garanzia. Fino a che non ci sarà, non accetterò nessun esito. Sono successe cose gravissime. Non solo i cinesi ai seggi a La Spezia, tra l’altro in un seggio dove la signora Paita si è intrattenuta due ore in coda per dire chi votare... Che idiozia, oltretutto».
Una grana per Roma
Insomma, un malcontento e polemiche che il Pd dovrà a questo punto gestire a Roma, cioè un’altra enorme grana per Renzi, la sensazione di un voto alterato. Al seggio di Bolzaneto c’erano dei rom in coda per votare, e hanno votato. Piu tardi è venuto fuori che a La Spezia ci sono stati gruppi non piccoli di cinesi in almeno due seggi. Ci sono posti troppo «bulgari», sospetti: ad Albenga su 1500 voti Paita ne ha presi 1300, e Cofferati appena 200. A Pietra Ligure 750 voti lei e solo 50 lui. La denuncia di Cofferati era arrivata per tempo: «Mi hanno segnalato numerosissimi casi di violazione delle regole», comunicava in tarda mattinata, dopo aver votato nel seggio di Palazzo Ducale, camicia aperta, senza cravatta, in una tiepida giornata genovese. «L’inquinamento è molto pesante, per i voti della destra, o con il voto organizzato di intere etnie, oltre ai cinesi alla Spezia, i marocchini a Imperia», raccontava l’uomo che in un’altra vita fu la speranza della sinistra italiana, e al quale si sono aggrappati a Genova - anche obtorto collo - un po’ tutti quelli stufi del sistema-Burlando. Storie così non sono inedite nel Pd: successe coi cinesi a Napoli nelle primarie vinte da Cozzolino e poi annullate (non perché votarono i cinesi, ma per le tantissime schede contestate); successe a Roma nel 2013, la dirigente Pd Cristiana Alicata denunciò: «Ho visto gruppi di rom accampati in fila ai seggi», in zona Magliana-Portuense, vicino al campo nomadi di via Candoni (dove, si scoprirà poi, Buzzi era impegnatissimo, a modo suo, nel «sociale»). Paita sui cinesi risponde così: «Non so se sia vero, ma non ci vedo niente di male. Io sono per l’integrazione, trovo normale che anche comunità di stranieri partecipino alle nostre votazioni. Mi stupisco che un uomo che si dice di sinistra come Cofferati non la pensi così». A un certo punto ieri alle sei la candidata è stata fatta uscire dal seggio Allende, a La Spezia, perché è vietato per i candidati intrattenersi dentro il seggio. Proprio lì, dopo, è arrivata una cinese che non sapeva come votare, e subito l’hanno instradata alcuni suoi connazionali.
Battuta l’astensione
E dire che il Pd aveva scongiurato una temutissima astensione, l’effetto-Emilia non c’è stato. Poco meno di 50mila votanti: numeri alti, a febbraio scorso per il segretario regionale c’erano stati 20mila elettori, alle primarie di Genova nel 2012 - quelle sentitissime da cui uscì vincitore Marco Doria, anche grazie all’harakiri Pinotti-Vincenzi - 26mila. Eppure colpivano anche i votanti a Genova (15300) rispetto ai 12300 di La Spezia, la città di Paita, che ha un quinto degli abitanti del capoluogo. Finirà a commissioni di garanzia; anche il ministro di Giustizia Orlando - spezzino, endorsement per Cofferati - ha chiesto informazioni sulle tante cose strane avvenute.

Corriere 12.1.15
Pasticcio primarie in Liguria

Vince Paita, Cofferati accusa: «Non riconosco il risultato»
Polemica per i cinesi e i marocchini ai seggi «a pagamento»
di Francesco Alberti


Genova La Cina è vicina, decisamente troppo, anche per chi, come Sergio Cofferati, il soprannome di Cinese se lo porta addosso dai tempi della Cgil. L’ex sindaco di Bologna e attuale europarlamentare è uscito sconfitto dalle primarie del Pd ligure, ma sulla consultazione si allunga l’ombra di irregolarità, di file di cinesi e di stranieri di varie etnie spediti ai seggi per condizionare l’esito finale. Sarà la renziana Raffaella Paita, 40 anni, assessore della giunta Burlando, la candidata dei Dem alle Regionali (con 28.916 voti contro i 24.827 dell’avversario). Ma è una vittoria sulla quale pesano mille incognite.
Cofferati, pronto a dare battaglia — «Non riconosco il risultato» — ha denunciato ad urne ancora aperte «pesanti violazioni ed inquinamenti». Per tutto il giorno si sono rincorse voci di cinesi, nordafricani, marocchini e rom in fila ai seggi dietro pagamento. Più che il rischio astensionismo (l’affluenza, con quasi 55.000 votanti, ha superato ogni più rosea previsione), lo spettro che aleggia su queste primarie ricorda quello che nel gennaio del 2011 portò all’annullamento delle consultazioni di Napoli. Inevitabile, in questo clima, che il successo della Paita — già finita nel ciclone delle polemiche per aver accettato il palese sostegno da parte di alcuni esponenti della destra ligure legati a Scajola — scivoli in secondo piano. Il sasso di Cofferati è stato lanciato quando ancora nessuno poteva prevedere l’esito finale. Nette e forti le parole dell’ex leader Cgil: «Mi sono stati segnalati numerosi casi di violazioni esplicite delle regole. C’è stato un inquinamento molto pesante, non solo per i voti della destra, ma per la presenza organizzata di intere etnie, come quella cinese a La Spezia e quella marocchina a Ponente e a Savona». Guarda caso, proprio le città dove Lella Paita ha fatto il pieno, arrivando in certi casi a doppiare il suo avversario. Lei, combattiva, ha subito replicato per le rime: «Mi risulta che la comunità marocchina nel seggio di Migliarina abbia votato compatta per Cofferati su indicazione della Cgil. Trovo normale che anche gli stranieri partecipino al voto, mi stupisce che uno di sinistra come il mio avversario sia di parere contrario».
Il Cinese ha già fatto sapere «di voler investire della questione la commissione di garanzia e la segreteria nazionale del Pd». Angelo Sanza, responsabile dell’ufficio di presidenza del Centro democratico, il cui candidato Massimiliano Tovo ha preso solo le briciole, ha aggiunto altri dettagli: «Ci risultano file di cinesi e marocchini ai seggi, persone che chiedono agli imbarazzati scrutatori dove possono ritirare il compenso che è stato loro promesso, per non parlare di noti esponenti del centrodestra che si sono recati al voto». Un vero e proprio incrocio di etnie in movimento, a sentire varie fonti: nordafricani ad Imperia, sudamericani a Savona, nomadi a Genova, marocchini ad Albenga. «Se è vero ciò che si sente in giro, in alcuni seggi il voto va annullato» ha detto il segretario pd di Genova, Alessandro Terrile. Ombre dalle quali la vincitrice ha cercato di mantenersi lontana: «Ho vinto in 3 province su 4 con un divario enorme: lavorerò per l’unità del partito, ora dobbiamo concentrarci sulla sfida delle Regionali». Cofferati, come da previsioni, ha vinto a Genova. La Spezia, Savona e Imperia sono andati alla rivale. La quale, più che mai baldanzosa, si è così congedata ieri notte dai fan esultanti: «Vi assicuro che saranno anni rock». E in effetti, dopo il pasticcio andato in onda ieri, nel Pd ligure ci sarà molto da ballare.

Corriere 12.1.15
La rabbia dell’ex leader Cgil che evoca i pm
«Tantissime irregolarità, so che si stanno valutando i ricorsi in Procura. Il partito faccia chiarezza»
di Erika Dellacasa


GENOVA È stata una continua altalena. La serata è iniziata con la vittoria di Sergio Cofferati a Genova con oltre il 60 per cento dei voti, poi sono arrivati i risultati dei seggi di La Spezia e i numeri hanno cominciato a scivolare verso la vittoria di Raffaella Paita: Savona ha dato la spallata finale e l’assessore della giunta Burlando ha potuto dichiarare la sua soddisfazione. Il Cinese è precipitato da quella che sembrava una vittoria quasi trionfale alla sconfitta. Ma non è finita: «Non riconosco il risultato» sono state le prime parole dell’ex segretario della Cgil ed eurodeputato pd.
Al termine di una campagna elettorale dai toni feroci che ha visto lo scontro con Raffaella Paita arrivare a un punto, evidentemente, di rottura, Cofferati dichiara apertamente «io non ci sto». E spiega: «Al termine di una giornata di voto simile non posso riconoscere il risultato e aspetto che la commissione di garanzia valuti i moltissimi casi di irregolarità segnalati. Il caso è politicamente grave, aspetto quindi che faccia le sue valutazioni sulla base delle segnalazioni che ha ricevuto. E che sono molte e documentate».
Cofferati punta il dito non solo contro le incursioni della destra nelle primarie del centrosinistra ma contro episodi specifici che rasentano il broglio elettorale nell’opinione dei collaboratori dell’eurodeputato. Lo scontro che sta lacerando il Pd ligure quindi non è finito, anzi, il peggio deve ancora arrivare.
Cofferati infatti si è spinto fino a dichiarare che «non solo ci sono state richieste di annullamento del voto per irregolarità nei seggi ma so che è stata valutata non da me ma da altri la presentazione di esposti alla Procura della Repubblica. Sono questioni delicate, si va dal voto di scambio all’uso di elementi lesivi della privacy. Non sono al momento a conoscenza di elementi specifici ma ci sono precise segnalazioni». Quindi ha continuato «solo dopo che la commissione avrà espresso il suo parere potrò commentare un risultato che potrò riconoscere come tale. L’intervento della commissione è necessario per rispetto di tutti coloro che sono andati a votare, volendo partecipare a un processo democratico e credendo nella trasparenza e nelle regole. Un partito deve avere come obiettivo la buona politica, molto importante è il giudizio sulle modalità con cui questo voto è avvenuto». Regole che secondo i sostenitori di Cofferati sono state ripetutamente violate. Le lacerazioni aperte da una campagna elettorale troppo violenta fra rappresentanti dello stesso partito sembrano a questo punto difficilmente sanabili.

il Fatto 12.1.15
Liguria, Primarie Pd
Paita batte Cofferati con cinesi & destre
di Ferruccio Sansa e Lorenzo Tosa


Genova Ha vinto Raffaella Paita (53,1% contro 45,6%). Ha vinto il sistema che ha guidato la Liguria negli ultimi decenni. Ha perso Sergio Cofferati, simbolo della sinistra all’inizio del Duemila. Ha perso Genova, schiacciata dal voto nelle altre province. Ma di sicuro hanno perso le primarie. Non solo liguri, perché questa consultazione avrà un peso nazionale. A prescindere da un annullamento che non è escluso.
Con un paradosso: a decidere chi sarà il candidato Pd alle regionali (e quindi al 90% la persona che guiderà la Liguria) potrebbero essere stati scajoliani, post fascisti e cinesi. A denunciarlo gli stessi dirigenti Pd: sono stati visti cinesi e nordafricani alle urne, segnala il segretario provinciale di La Spezia, Alessandro Pollio. E Cofferati rincara la dose: “Oltre a me, sono stati segnalati tanti cinesi ai seggi”, ha provato a scherzare. Prima di sparare a zero: “Mi sono stati segnalati numerosissimi casi di violazione delle regole – ha proseguito il “Cinese” – L'inquinamento è molto pesante e non solo per i voti della destra ma con il voto organizzato di intere etnie, come quella cinese alla Spezia e quella marocchina a ponente”.
PAITA RISPONDE per le rime: “La comunità marocchina di Migliarina (La Spezia) mi risulta abbia votato Cofferati su input della Cgil”. Poi aggiunge, senza timore di suscitare polemiche: “Ma scusate: gli stranieri li vogliamo far votare o no? Se sì, non vedo dove stia il problema”. Ma Paita pensa già da candidato alle elezioni: “Abbiamo vinto in tre province su quattro con uno scarto enorme. Adesso lavorerò per l’unità”. Sarà difficile. Il Pd sta esplodendo: “Ho visto comportamenti da criminalità organizzata”, attacca un dirigente. E Stefano Zara (Pd): “Rischia di essere la pietra tombale sulle primarie”.
Dovevano essere una prova di democrazia, una dimostrazione di vitalità del Pd. Le primarie liguri invece rischiano di mettere definitivamente in crisi il partito. Non importa che sia stato scongiurato lo spauracchio dei seggi deserti: “Hanno votato 54.420 elettori, nel 2013 per l’elezioni di Matteo Renzi erano stati 60mila”, ricorda Luca Borzani, intellettuale ed ex assessore Pd. Il punto è un altro: mai si era visto uno scontro tanto aspro. Tanto da far dire a Cofferati di aver respirato “odio”. Da fargli ipotizzare: “Non è detto che ci si possa poi ritrovare a sostenere lo stesso candidato”. Insomma, c’è il rischio serio di una spaccatura nel Pd. Non basta: “Ho visto un sistema di potere, una cupola terrorizzata dall’idea che fossero aperti i cassetti. Che si scoprisse cosa avevano fatto in questi anni”.
La lettura dei risultati dice molto. Genova (64% a Cofferati, 34,9% Paita) resta isolata, marginale nella sua stessa regione, come sottolinea Zara: “Il capoluogo che conta due terzi della popolazione regionale alla fine peserà meno della Spezia che ha un quarto degli abitanti”. La sorte della Liguria è decisa dalle province: La Spezia, paitiana fino al midollo (67,4% per la candidata cittadina contro 32% di Cofferati). Ma sorprendono soprattutto i dati di Imperia (57% Paita) e Savona (67,9% Paita, con percentuali bulgare nel Ponente). Una sorpresa relativa per chi da settimane denunciava il rischio che a decidere le primarie fossero gli scajoliani e la destra che apertamente si sono schierati con Paita. Appoggi scomodi, ma alla fine forse decisivi. Alleanze prima consumate nei corridoi della politica e poi alla luce del sole.
PRIMA SI ERA registrata la conversione al Pd di Pierluigi Vinai, già candidato sindaco di Genova con il Pdl e caro alla Curia di Bagnasco. Poi era toccato a Roberto Avogadro, ex sindaco di Alassio (centrodestra). Fino ai casi più clamorosi: Alessio Saso, un passato in An e un presente nell’Ncd. Ma soprattutto un’indagine sulle spalle per voto di scambio. E che dire di Eugenio Minasso, Ncd, in passato fotografato mentre festeggia l’elezione in Regione con membri di famiglie calabresi al centro di inchieste? Per ultimo era toccato a Franco Orsi (Pdl), da molti definito scajoliano doc. Uno che aveva abbandonato le celebrazioni del 25 aprile durante il discorso di Oscar Luigi Scalfaro. “Ben vengano nuovi elettori”, ha tagliato corto Burlando, primo grande sponsor di Paita, che dovrebbe garantire la continuità di potere. Del resto la posta in gioco era enorme: si doveva decidere se conservare o mandare a casa un sistema di potere sedimentato in decenni che comanda dalla prima all’ultima poltrona. Quindi la politica, certo, ma anche l’economia che dà appalti, le banche che finanziano, le Asl e la Sanità che decidono il 70 % del bilancio regionale, i giornali. Tutto. Erano in gioco miliardi.
Paita già si sente governatrice. Ma l’unico ostacolo tra lei e la poltrona potrebbe arrivare dallo stesso Pd. Da un eventuale annullamento. “Queste primarie non sono finite”, conclude Cofferati ed evoca il possibile interventodellamagistratura. “Allafine potrebbero decidere di candidare il ministro Orlando, magari per toglierselo dal governo”.

Repubblica 12.1.15
Liguria, nelle primarie caos vince la Paita
Battuto Cofferati, che protesta per gli stranieri ai seggi: “C’è materia per la procura, non riconosco il risultato”
di Ava Zunino


GENOVA La guerra delle primarie del Pd in Liguria per la scelta del candidato presidente della Regione si chiude con una vittoria delle truppe renziane di Raffaella Paita, 40 anni, assessore regionale uscente. Ha vinto contro Sergio Cofferati, l’europarlamentare saldamente ancorato alla minoranza dem. Il distacco, quando i dati sono ancora ufficiosi, è nell’ordine dei quattromila voti. Cofferati domina nel capoluogo, ma fuori Genova stravince Paita.
«Ho vinto in 3 Province su 4 con uno scarto enorme — dice lei — adesso lavorerò per l’unità del Pd e per affrontare al meglio la sfida delle regionali, saranno anni rock». La partita non è finita, dice invece Sergio Cofferati, che chiede alla commissione di garanzia di pronunciarsi sulle segnalazioni di irregolarità nel voto. Arriva nella sede del Pd che sono quasi le undici di sera e annuncia: «Non considero affatto concluse queste primarie. Prendo atto dei risultati ma non li riconosco, ci sono tantissime segnalazioni di irregolarità. Chiedo che la commissione di garanzia esamini tutte le segnalazioni per la partecipazione impropria del centrodestra e le ipotesi di voto eterodiretto di intere comunità di stranieri». Parla anche di «ipotesi di possibile interesse da parte della procura». Dunque, dice, per lui i risultati saranno tali quando la commissione di garanzia si sarà espressa.
La giornata del voto, con quasi cinquantamila elettori che sono andati nei 300 seggi sparsi per la Liguria, città, riviere ed entroterra, è stata caratterizzata dalla tensione, la stessa che ha dominato le ultime settimane della campagna elettorale. In uno dei seggi de La Spezia, ad esempio, le operazioni di voto sono state interrotte per una decina di minuti: prima si è presentata una donna cinese che voleva votare, pur non avendo i documenti di soggiorno in regola e poi da due cabine sono scattati i flash delle fotocamere dei cellulari per immortalare la scheda.
La spaccatura tra i due contendenti è netta. Cofferati alle cinque del pomeriggio, tre ore prima della chiusura dei seggi, denunciava già irregolarità di voto. Ai seggi delle primarie il clima era torrido. E’ successo di tutto e le segnalazioni fioccano anche dal resto della coalizione. Angelo Sanza, responsabile dell’ufficio di presidenza nazionale di Centro Democratico, che sostiene il candidato outsider, l’ex Udc Massimiliano Tovo (poco più del’1 per cento dei consensi), parla addirittura di stranieri, “file di cinesi e marocchini” che ai seggi hanno votato e poi hanno chiesto «agli imbarazzati scrutatori, dove potevano ritirare il compenso che era stato loro promesso». Anche Cofferati (peraltro soprannominato da sempre “il cinese”) denuncia la presenza dei cinesi e di altri stranieri ai seggi.
Intanto nel centrosinistra comincia al resa dei conti e Sel annuncia: «Non saremo mai nella coalizione con Paita per le elezioni regionali».

Corriere 12.1.15
Vannino Chiti
«Non appoggerò l’Italicum se non ci sono preferenze vere»
intervista di Daria Gorodisky


ROMA Senatore Vannino Chiti, siamo alla fase finale della riforma elettorale?
«A Palazzo Madama forse si voterà la settimana prossima. Poi tornerà alla Camera. Ci sono già importanti modifiche: lo sbarramento unico al 3% per accedere alla ripartizione dei seggi e il 40% come soglia, al primo turno, per il premio di maggioranza di lista. Ma spero che ce ne siano altre».
La minoranza del Partito democratico, di cui lei fa parte, è contraria ai capilista bloccati.
«Non esiste un problema di maggioranze o minoranze pd: lo scorso congresso è passato e il prossimo è lontano anni… Si tratta di avere un sistema di voto che tenga insieme governabilità e rappresentatività. Il premio alla lista garantisce la prima».
Mentre per la rappresentatività?
«Con un Senato che non sarà più eletto dai cittadini non possono andare bene i capilista bloccati per la Camera: il 60% dei deputati non verrebbero scelti, ma nominati. E, per avere anche solo 1 o 2 “scelti”, il partito arrivato secondo dovrebbe ottenere almeno il 20% dei consensi».
C’è chi propone di presentare lo stesso capolista in diverse circoscrizioni: l’eletto, optando per una, lascerebbe il posto a chi ha conquistato più preferenze.
«No, prevarrebbe l’appartenenza a correnti partitiche o amicali. E sono anche contrario all’ipotesi di ridurre il numero delle circoscrizioni, che aumenterebbe i costi ed eroderebbe ancora la fiducia dei cittadini nella politica. Servono pochi candidati ben noti localmente. E ci sono soltanto due strade: o i collegi uninominali, o le liste circoscrizionali con almeno il 75% di eletti con le preferenze. Poi si potrebbe valutare la possibilità di coalizione in caso di secondo turno».
Forza Italia dissente su molti punti. Ci può essere riforma senza di loro?
«Siamo vicini all’elezione per il Quirinale, non credo che si voglia una rottura con Forza Italia».
E la minoranza pd la voterà comunque?
«Sono valutazioni personali. Per me, una legge elettorale che non consente la vera scelta dei deputati non può essere appoggiata».

Corriere 12.1.15
Fassina-Civati, missione greca: qui a scuola di sinistra vera
Il tour dei due esponenti pd per studiare Syriza
di Andrea Nicastro


ATENE L’autoironia non manca. «Ci fosse anche Gianni Cuperlo potremmo anche fondare un nuovo Pd in esilio». Fine settimana di vacanze-lavoro per Stefano Fassina e Pippo Civati. Due dei più coriacei dissidenti del renzismo sono arrivati alla scuola di Atene per abbeverarsi alla fonte della nuova sinistra-sinistra di Alexis Tsipras. Sono l’avanguardia delle scanzonate Brigate Kalimera della sinistra italiana prenotate sui voli low cost per il weekend elettorale di fine gennaio quando il partito anti liberista e anti austerity Syriza potrebbe conquistare la maggioranza del Parlamento greco. «Per chi come noi crede sia possibile un’alternativa alle politiche rigoriste europee sarebbe una bella spinta». Solo all’idea brilla nuova luce negli occhi.
Sono come al primo giorno di un nuovo corso che promette di insegnare cose meravigliose. Invece di Platone hanno trovato il giovane Tsipras. Civati è venuto a sue spese con la compagna. Anche Fassina attinge al portafogli personale, ma in compagnia di «uno degli ultimi funzionari di partito viventi, praticamente un dinosauro» (così come si definisce l’interessato). Pure «l’esemplare in via di estinzione» è in ferie.
Sarà la passione, l’aria dolce di Atene, il profumo di souvlaki o che qui discutere di politica attorno ad una bella cena costa meno di 10 euro a testa, fatto sta che la maggior parte degli incontri assume una venatura nostalgica. Non è mai bello stare in panchina a guardare gli altri vincere, anche quando sono degli amici. La rete di accoglienza è fatta da pochi elementi scelti. Un ex candidato nelle liste di Tsipras in Italia, un’ex giovane comunista esiliata a Roma ai tempi dei colonnelli, simpatizzanti di origini disparate. Compare anche Stathis, fratello del rivoluzionario Panagulis, amore di Oriana Fallaci e ispiratore del suo «Un uomo». Pare un viaggio nel tempo: passato e futuro.
Il lavoro che la coppia di minoranza si propone in Grecia è serio quanto ciclopico: capire come Syriza sia riuscito in tre anni a passare dal 2-3% a proiezioni che lo danno primo partito con il 30 per cento. La scalata greca è avvenuta per di più senza rinnegare l’ispirazione marxista del movimento. Ai due Pd in trasferta potrebbe forse bastare un innesto di egalitarismo e una spintarella keynesiana. Civati sembra preoccuparsi soprattutto di carpire il segreto del radicamento sociale di Syriza attraverso le associazioni di assistenza promosse dal partito. Mense sociali, ambulatori gratuiti, il vecchio sano lavoro di base che nel Pd «made in Renzi» è dato per «desaparecido». «Movimento sociale e politico crescono insieme — dice Pippo —. E crescita dovrebbe coincidere con uguaglianza». Fassina, da buon economista, è concentrato sui numeri. Guarda alla gravità della crisi sociale greca e alla disperazione che ne è nata. «In Italia, fortunatamente, non siamo arrivati a tanto».Tra un piatto di tzatziki e un dibattito, il gioco degli specchi tra Grecia e Italia regala riflessi a volontà. Un tempo era la sinistra ateniese a scappare da noi, domani chissà? Allora la sinistra italiana era la più forte d’Europa, il 26 gennaio potrebbe essere la greca. Una volta facevano scuola le salamelle alle Feste dell’Unità e la capillarità delle sezioni Pci. Oggi è Syriza ad inventarsi le lenticchie equosolidali e le associazioni di auto-aiuto. Parallelismi e fughe in avanti. Da noi la frammentata banda dell’Ulivo di Prodi è stata incapace di reggere alla prova di governo, qui ad Atene l’ala massimalista del partito potrebbe togliere il sorriso a Tsipras. C’è spazio anche per qualche frecciatina al frenetico segretario restato in Italia. «Nel semestre europeo di presidenza italiana, Renzi non ha aperto alcun discorso di verità sull’Eurozona — dice Fassina —. Vediamo se ci riesce la Grecia con la vittoria di Alexis Tsipras».
I due hanno alberghi e agende diverse, ma incontri a ripetizione anche con esponenti di partiti diversi dal rosso Sypras. Fassina ne approfitta per presentare il suo libro-manifesto «Il lavoro prima di tutto» (Donzelli editore) nel Caffè Aitiou, giusto sotto il Partenone. «Il programma di Syriza non è affatto estremista — spiega —. Anzi è l’unico realista perché prende atto che l’agenda della Troika non funziona».
La vera domanda dal pubblico all’ex dipendente del Fondo Monetario Internazionale è «riusciremo a convincere il mondo a condonare il nostro debito pubblico?». L’ex vice ministro delle Finanze cerca di regalare le rassicurazioni che i compagni greci vorrebbero sentire da lui. Parla della necessità di una «conferenza sul debito» e di una «rinegoziazione». Ma chi è minoranza non può dare garanzie. Il massimo che gli esce è: «Farò di tutto per convincere il Pd ad appoggiare le richieste di Syriza».

La Stampa 12.1.15
Preah Vihear, la pace danza con Shiva
Il tempio conteso fino al 2013 tra Cambogia e Thailandia è ora affidato alle cure di un Comitato internazionale: con i due Paesi ex belligeranti impegnati fianco a fianco
di Daniela Fuganti


Gli anni dei conflitti armati fra la Cambogia e la Thailandia per la sovranità sul tempio di Preah Vihear, situato sulla catena montuosa del Dangrêc, sembrano volgere al termine. Il celebre monumento, gioiello del Patrimonio Unesco dal 2008, non trovava pace da molto tempo: ultima roccaforte dei khmer rossi nel 1979 grazie alla sua posizione inespugnabile, arena di azioni di guerriglia negli Anni 80 e 90, teatro infine degli scontri di confine che avevano fatto nel 2011 una trentina di vittime, possiede ora il suo Cic (Comitato Internazionale di Coordinamento).
Creata sul modello dell’ormai ventennale e rodato Cic di Angkor - che coordina e valuta i progetti scientifici proposti dai 23 Paesi finanziatori, tra cui l’Italia, per gli interventi di consolidamento dei duecento templi sparsi nella foresta -, la nuova iniziativa pare nata sotto i migliori auspici. Lo scorso dicembre a Siem Reap, nella sede dell’Apsara (l’Autorità che gestisce il sito di Angkor), si trovavano infatti riunite intorno allo stesso tavolo la Cambogia (Paese al quale la Corte internazionale di Giustizia dell’Aia ha definitivamente assegnato il santuario l’11 novembre 2013) e la Thailandia (che sembra aver messo da parte gli atavici rancori).
Se ne rallegra Sok An, il vice primo ministro cambogiano, che ha seguito in prima persona le vicissitudini legate all’interminabile affaire e che parla addirittura di luna di miele. «La presenza della delegazione thailandese qui a Siem Reap - sottolinea - significa che il nostro paziente lavoro diplomatico, la nostra fermezza e la nostra flessibilità hanno dato i loro frutti. Vuol dire anche che l’istituzione del nuovo Cic per Preah Vihear - copresieduta da Cina e India, con la partecipazione degli Stati fondatori, Francia, Stati Uniti, Giappone, Belgio, Corea e… Thailandia - ispira fiducia ai nostri vicini che ben conoscono il prestigio mondiale di cui gode quello di Angkor».
Stiamo parlando di uno dei più spettacolari monumenti dell’architettura khmer, uno dei luoghi più sacri dell’Asia. Azedine Beschaouch, archeologo, membro dell’Accademia francese delle Iscrizioni e Belle Lettere, segretario scientifico permanente del Cic di Angkor, come anche di quello neonato di Preah Vihear, qui con affettuoso rispetto chiamato «il venerabile», perché senza la sua determinazione probabilmente tutta questa struttura non esisterebbe, spiega come l’importanza spirituale del tempio risieda nella posizione spettacolare.
I segni della Creazione
La leggenda vuole che, sull’area di quello che era un semplice luogo di eremitaggio, nel IX secolo il principe Indrâyadha (figlio del re Jayavaram II) installasse una parte dell’immenso linga, simbolo fallico di Shiva proveniente dal famoso tempio di Vat Pohu (oggi in Laos).
«Il dio indu Shiva - racconta Sachchidanand Sahai, grande specialista indiano di epigrafia sanscrita e khmer - ha ordinato che i segni della Creazione venissero posti su questo magnifico promontorio per essere visti dal mondo intero. Secondo la mitologia khmer, la catena del Dangrêk (che all’epoca non costituiva una frontiera poiché i territori khmer si estendevano fino a Bangkok) corrisponde all’Himalaya dell’impero di Angkor, e la falesia di Preah Vihear viene associata al monte Kailash, dimora divina di Shiva». Da più di un millennio, pellegrini e re salgono al tempio arrampicandosi sulla ripida scalinata della montagna, scandendo nello sforzo del cammino sacro (via di purificazione verso l’emancipazione completa) i ritmi dell’evoluzione e della creazione dell’Universo, per arrivare all’ultimo (destinazione finale dell’uomo) dei cinque padiglioni che, su ottocento metri di lunghezza, compongono il santuario, sinuosamente sdraiato lungo un’asse Nord-Sud: su in cima, dove l’immagine di Kala, il demonio, incarnazione del tempo assoluto con le fauci spalancate, ci ricorda che alla fine il Tempo ingoierà tutto.
Da pochi anni, esiste una comoda strada per coloro - rari turisti e fedeli locali - che vogliono accedere al tempio dal lato cambogiano (essendo per ora sbarrato l’ingresso dalla parte thailandese), senza arrancare sul ripido dislivello che conduce alla sommità del monte. Ma chi non sale faticosamente a piedi attraverso la scala di legno (nell’attesa che sia restaurata quella originaria di pietra), lungo la lussureggiante foresta solcata da spettacolari cascate d’acqua, godendo di un panorama sempre più sontuoso man mano che si avanza, al quale sono abituati i rari militari che ancora sorvegliano le postazioni lungo la montagna, non può capire cosa significhi arrivare a destinazione.
Più che un sito archeologico
«La semplice presentazione di Preah Vihear come un sito archeologico o architettonico - sottolinea Sahai - non basta a spiegarne l’essenza profonda. Ho scoperto solo nel 2008 il motivo per il quale è stato edificato il santuario: la chiave si trova nel ritratto dello Shiva scolpito sul frontone dell’ultimo gopura, immortalato mentre danzando alla luce del sole calante schiaccia la testa di un demonio, la forza del male con fattezze di elefante. Tutta la montagna è il teatro aperto della danza del benefico dio indu, espressione di gioia e di energia, che si svolge ogni sera secondo la credenza dei fedeli. Ho avuto io stesso il privilegio di assistere parecchie volte al tramonto del sole sulla falesia di Preah Vihear, aspettando la danza di Shiva».

Corriere 12.1.15
Galileo e Cesi ai confini tra magia e scienza
Un saggio di Paolo Galluzzi esplora i rapporti dell’astronomo con il fondatore dei Lincei
di Nuccio Ordine


Che relazioni esistevano tra le nuove scoperte cosmologiche di Galileo fondate sull’osservazione del cielo con il cannocchiale e il programma di ricerca che Federico Cesi aveva tracciato nel fondare l’Accademia dei Lincei?
A questo interrogativo cerca di dare una risposta il lavoro di Paolo Galluzzi, «Libertà di filosofare in naturalibus» . I mondi paralleli di Cesi e Galileo , pubblicato nella collana di studi dell’Accademia Nazionale dei Lincei (pp. 599, e 100). Direttore del Museo Galileo di Firenze, membro di prestigiose accademie (Accademia Reale delle Scienze di Svezia e dell’Accademia Nazionale dei Lincei), Galluzzi ha insegnato Storia della scienza a Siena e Firenze ed è internazionalmente conosciuto per i suoi lavori su Leonardo da Vinci e sulle accademie scientifiche europee.
In questo volume, lo studioso accompagna il lettore in un affascinante viaggio nella cultura scientifica e naturalistica dei primi due decenni del Seicento. Un viaggio sapientemente caratterizzato da un movimento centripeto (in cui i temi vengono ricondotti ai singoli punti di vista delle due grandi figure che dominano il libro: Galileo e Cesi) e da un movimento centrifugo (in cui le riflessioni animate dallo scienziato toscano e dal fondatore dell’Accademia vengono inserite nella più ampia rete di scambi con altri filosofi e scienziati, tra i quali Bernardino Telesio, Giordano Bruno o Tommaso Campanella).
Galluzzi compie una dettagliata radiografia dei rapporti tra Galileo e Cesi ricostruendo una serie di passaggi importanti, a volte trascurati nelle ricostruzioni storiografiche della nascita della prima Accademia dei Lincei. E lo fa utilizzando immagini, lettere, testimonianze, opere manoscritte e a stampa, documenti di ogni genere, con l’obiettivo di analizzare gli stessi avvenimenti ora con gli occhi di Galileo e ora con gli occhi di Cesi. Tra i due protagonisti esistono una serie di convergenze fondate sulla generica volontà di intraprendere nuove strade per spezzare le catene di un sapere tradizionale (entrambi erano convinti «della natura fluida, unitaria e corruttibile dei cieli»). Ma gli strumenti e i metodi utilizzati per conoscere i segreti astronomici e naturali non sono gli stessi. Le loro relazioni, conclude con finezza Galluzzi, «vengono rappresentate più adeguatamente con due rette parallele, che procedono affiancate ma che, pur puntando verso un obiettivo comune, non si incontrano mai».
Gli interessi, insomma, coltivati da Cesi e dai suoi amici (Della Porta, Persio, Heck) erano fortemente influenzati anche da Ficino e Paracelso, difficilmente accordabili con la concezione di Galileo. Questa «divergente convergenza», però, non costituì un vero ostacolo. E anche se lo scienziato non prese mai seriamente in considerazione il tentativo di conciliare metodi e temi delle sue indagini «con i programmi che stavano al cuore al Principe dei Lincei», si era creato un clima di sincera collaborazione, fondato sulla coscienza di un reciproco bisogno: Galileo non poteva rinunciare al sostegno di Cesi nelle sue battaglie contro le autorità ecclesiastiche romane e Cesi, con «calcolata ambiguità», cercava di inscrivere i lavori dell’Accademia nel solco delle rigorose scoperte galileane.
Alla fine del viaggio, il lettore non avrà solo ripercorso le relazioni tra Galileo e Cesi ma anche visitato gli affascinanti confini tra magia e scienza, tra oroscopi e astronomia.

Corriere 12.1.15
La lezione dei decabristi per la Russia di Stalin
risponde Sergio Romano


Caro Romano, nella risposta sui misteri intorno alla morte di Berija lei accenna alla rappresentazione di un’opera sui Decabristi. Vuole spiegarci chi erano?
Amalia Rossetti

Cara Signora Rossetti ,
Furono chiamati «decabristi» perché insorsero contro il potere il 26 dicembre 1825 (in russo dicembre è dekabr ’) presentandosi in formazione militare sulla piazza del Senato a Pietroburgo. I teorici e i leader del movimento, nato intorno al 1815, erano ufficiali dell’esercito, spesso nobili e veterani delle guerre napoleoniche. Avevano combattuto contro l’imperatore dei francesi, avevano vinto ed erano entrati trionfalmente nella sua capitale. Ma a questi giovani ufficiali accadde ciò che era accaduto alle legioni romane quando la Grecia conquistata aveva catturato a sua volta il rozzo vincitore ( Graecia capta ferum victorem cepit ). Nel corso delle loro campagne militari avevano fatto conoscenza con l’Europa illuminata e liberale, avevano letto Voltaire, Rousseau e Beccaria, appreso sul campo i fasti e i nefasti della rivoluzione francese. Da quelle esperienze era nato un movimento che si proponeva la riforma politica e sociale della Russia, una monarchia costituzionale per alcuni, una repubblica giacobina per altri.
La morte dell’imperatore Alessandro I e una crisi costituzionale al vertice dello Stato sulla persona del successore li aveva indotti ad agire. Ma quando trovarono sulla piazza del Senato formazioni militari molto più compatte e numerose, esitarono e furono spazzati via, di lì a poco, dai cannoni dei loro avversari. Vi furono molti arresti, qualche condanna a morte, al carcere o all’esilio. Ma i fatti dimostrarono che il movimento dei decabristi non aveva le sue radici nella società ed era strettamente minoritario.
I bolscevichi e l’Unione Sovietica hanno reso omaggio ai decabristi, tra l’altro intitolando ai loro nomi alcune piazze e vie, ma li hanno sempre considerati troppo elitari e borghesi per essere considerati «precursori».
In una circostanza analoga (il ritorno in patria dei combattenti dopo la vittoria contro la Germania nella Seconda guerra mondiale) Stalin, tuttavia, si comportò come se dalle loro file, dopo l’esperienza europea, potesse uscire un movimento neo-decabrista e giocò d’anticipo, con un numero considerevole di mini-purghe nei ranghi dell’Armata Rossa. Una lettera dal fronte «sbagliata» o una barzelletta contro il regime raccontata intorno a una bottiglia di vodka bastavano perché il malcapitato venisse arrestato e inviato in un «campo di rieducazione».
La sentenza per una barzelletta era cinque anni. Se la pena era superiore, i compagni del campo accoglievano il nuovo venuto ironicamente dicendo: «Ma allora qualche cosa devi averla fatta».

domenica 11 gennaio 2015

La Stampa 11.1.15
Intervista a Papa Francesco: “Avere cura di chi è povero non è comunismo, è Vangelo”
Il Pontefice: “Il Nuovo Testamento non condanna i ricchi, ma l’idolatria della ricchezza. Il nostro sistema si mantiene con la cultura dello scarto, così crescono disparità e povertà”
di Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi

qui

il Fatto 11.1.15
Cambio al vertice Boko Haram e Califfato
L’Europa ha un solo leader che può arginare il nuovo terrore: Francesco
di Furio Colombo


Molti sono stati colpiti dalla coincidenza di due fatti di sangue orrendi e lontani: la strage a Parigi nella redazione di un giornale giudicato blasfemo (dodici morti in una stanza, e l’altro evento di sangue francese). E il massacro di almeno duemila persone portato a termine in poche ore, fra villaggi e campagne, al confine con la Nigeria, da due diverse unità militari addestrate e armate di un nuovo fondamentalismo islamico, nel primo caso un commando, nel secondo un esercito. Emergono due capi, Al Baghdadi e Boko Haram, che proclamano due Califfati. Vuol dire dominio assoluto, l’uno dal Medio Oriente verso l'Europa, l’altro dal centro dell'Africa verso il mondo.
NON SAPPIAMO NULLA dei rapporti fra i due potentati al momento, ma sappiamo che i due potentati esistono e che la loro minaccia non è di parole. Al Baghdadi domina una parte dell'Iraq e della Siria, con capitale Mosul. Boko Haram (che, ricorderete ha esordito con il reclutamento forzato di bambini per il suo esercito, e poi con il rapimento di duecento giovanissime studentesse da “convertire” all'islamismo) è il padrone di villaggi, città e campagne in tutta la parte nord della Nigeria su cui impone e mantiene un potere di sangue. Se rileggete le righe di riassunto della situazione che precedono, noterete che, a prima vista, niente è nuovo o diverso dalle storie di violenza a cui la storia contemporanea ci ha abituato ai margini dell'impero. Anche la grande minaccia, ormai varie volte realizzata, a partire dall'11 settembre, di colpire dentro l'impero, è causa di una continua paura, ma non è più un fatto nuovo. Ciò che è nuovo è l’emergere in posizioni di comando assoluto di nuovi personaggi che sono totalmente liberi di annunciare e poi di realizzare iniziative di una folle violenza, perché non appartengono ad alcuna classe dirigente del passato, rappresentano in modo arbitrario e autodefinito, valori ambigui che non devono giustificare ma solo proclamare. E così nasce un presunto Islam fondamentalista che è un’ottima trovata per disorientare i credenti di quella fede, e una buona mossa per chiamare alla guerra credenti altrettanto finti di un presunto mondo cristiano.
Ma è avvenuto qualcosa di nuovo persino rispetto ai tempi finiti da poco con una irruzione di “teste di cuoio” e l’uccisione di Osama bin Laden. È avvenuto un cambio di classe dirigente che improvvisamente si è autoassegnata la guida degli insorti di un mondo di autoproclamato fondamentalismo islamico, e che in realtà raccoglie tutte le ribellioni estreme lungo la linea non negoziabile di “rivincita” e “riconquista”, dopo la guerra in Iraq e le sue moltissime vittime, ma anche di “diverstà” inventata e sostenuta come tale dal pregiudizio europeo.
CHE COSA INTENDO per “nuova classe dirigente”? e come mai lo stesso fenomeno si manifesta con la stessa forza distruttiva e apparentemente cieca, dal Medio Oriente al cuore dell'Africa? Forse la spiegazione è questa. Fino a un momento fa occupanti e resistenti, invasori e ribelli, dominatori e dominati, erano guidati, allo stesso modo, dalle classi colte e dall'apparato dirigente, dai gruppi sociali delle parti in causa. Questo fatto non ha mai evitato durezza, crudeltà e violenza anche estrema. Ma disponeva di strumenti di comunicazione e di intesa reciproca, in caso di necessità. E le due parti avverse cercavano, ciascuna in modo diverso, compressione e sostegno in altre culture e altri Paesi del mondo. Al Baghdadi e Boko Haram rappresentano un nuovo tipo di dirigente rivoluzionario che, tra le classi dirigenti del proprio ambito, o del mondo, non cercano e non chiedono niente. Non vogliono comprensione e non offrono giustificazione. Le loro radici sono altrove, nel tempo (che è evidentemente un mitico passato) ; nei luoghi, che sono vissuti come del tutto privi della struttura civile e organizzativa iniziata col colonialismo e poi divenute abituali; nei rapporti umani, che cercano in basso, e nella appartenenza concepita come ubbidienza e sottomissione; nelle regole, che sono libere da ogni codice e dettate solo da opportunismo spettacolare e da efficacia emotiva, dando e ricevendo il senso di un potere che non deve trattare condizioni o sottostare a doveri.
Ma un altro cambiamento drammatico segna questo ultimo periodo di vita politica internazionale. Dal punto cruciale dell’equilibrio mondiale escono gli Stati Uniti, che avevano e hanno pur sempre un potere sproporzionatamente grande. Ed entra la debole e divisa Europa, che non ha una politica e non ha una guida, ma appare come unico guardiano e garante delle regole del gioco.
IL CAMBIO DELLA GUARDIA non è stato pianificato o voluto. Accade perché gli Usa hanno ritirato le loro opzioni di guerra. Accade perché lo sconvolgimento e il cambiamento di classe dirigente del Medio Oriente e dell'Africa ricadono fatalmente sull’Europa e sugli europei, come ha dimostrato la vicenda francese. In ogni caso le ragioni del cambio della guardia contano poco. Conta che sia avvenuta. E colpisce l’inadeguatezza dell'Europa unita e delle sue istituzioni di fronte al compito di reggere l'equilibrio del mondo libero, e di tenere a bada le pulsioni violentemente aggressive. È questa situazione che ha dettato le pagine, controverse e apparentemente solo provocatorie del libro Soumission di Houellebecq: una Francia che si arrende, diventa islamica ed elegge un presidente islamico. Houellebecq non ha tenuto conto di Papa Francesco.
Non è un difensore, è un testimone. Con un compito più difficile del suo predecessore. Infatti la follia, come un incendio pericoloso, sembra venire da una parte e dall'altra, dalla “nuova classe dirigente” islamica disposta a tutto, e dal gruppo Le Pen-Salvini, altrettanto privo di scrupoli pur di esibirsi. Il compito di Francesco è grande e impossibile. Ma in Europa Francesco, al momento, è l’unico leader.

Repubblica 11.1.15
I terroristi confiscano il loro dio per ammazzare la gente
di Eugenio Scalfari

qui

Corriere La Lettura 11.1.15
Non c’è religione senza feticci
di Adriano Favole


«Le religioni sono delle pratiche nelle quali oggetti-segno, immagini, cose naturali e oggetti costruiti da mano umana e talvolta divina svolgono una parte importante, per non dire essenziale, per la possibilità stessa di creare una dimensione trascendente, di renderla presente e pensabile». Nel suo ultimo libro ( Materia sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa , Raffaello Cortina), Ugo Fabietti, ricorrendo a un’amplissima documentazione etnografica e storica, fornisce un’originale mappatura del fenomeno religioso, adottando come filo conduttore la materialità degli oggetti di culto, l’uso di immagini e icone, la dimensione sensoriale, gestuale, corporea (disciplina, digiuno, astinenza, violenza).
Che si tratti delle statue del presepe che, proprio in questi giorni, molti riporranno negli armadi accanto a oggetti di uso quotidiano dopo averli investiti nel periodo natalizio di un’aura «numinosa» (come avrebbe detto Rudolf Otto); che si tratti di un churinga , l’assicella lignea o litica che contiene i segni-simboli degli itinerari compiuti dagli antenati nel tempo mitico del sogno e che gli anziani aborigeni mostrano agli iniziandi; e ancora che si tratti delle alasitas , i piccoli oggetti che rappresentano in miniatura case, appezzamenti di terra, automobili, cibo e altri desideri e che i devoti della Vergine di Urkupiña (Bolivia) depongono ai piedi della sua statua in segno di buon auspicio, gli oggetti sono ben più di semplici corredi, paraphernalia del fenomeno religioso.
L’esteriorità e la materialità delle cose religiose non sono ostacoli e pericolose fonti di idolatria (anche se molto spesso sono percepiti e denunciati come tali dalle autorità del culto), ma vie di accesso al trascendente, situandosi in quella zona grigia tra l’ordinario e l’extraordinario, tra il tapu (ciò che è off limits , irraggiungibile, intoccabile, sacro) e il profano.
La materia sacra fornisce a Fabietti un filo con cui cucire una grande varietà di religioni e culture, attraversate con il rispetto e la delicatezza di un’analisi che mira a comprendere il fenomeno religioso evitando quelle pericolose derive etnocentriche che dividono le esperienze del trascendente in «vere» e «false», «spirituali» e «idolatre», superstiziose, magiche o autenticamente religiose. Culture e religioni non sono espressioni di «alterità» radicali, bensì di «scarti», per dirla con François Jullien ( Contro la comparazione. Lo «scarto» e il «tra» , Mimesis), ovvero configurazioni che mescolano differenze e somiglianze. Lo studio della materia sacra non si risolve in un’ideologia materialista né nel tentativo di svelare forme di «falsa coscienza». Si tratta di fornire, scrive Fabietti, un contributo privo di postura ideologica, un «quadro neutrale sul religioso» che apra la possibilità di «una educazione alla coesistenza degli universi religiosi che il nostro tempo vede troppo spesso confliggere».
Non esistono religioni prive di oggetti sacri e non esistono religioni e culture aniconiche, che possano cioè fare totalmente a meno delle immagini. Esistono certo religioni ed epoche iconoclaste, così come l’autenticità degli oggetti religiosi (una reliquia, un’immagine autoprodotta della Vergine su un muro o in una stampa fotografica) suscita spesso conflitti e contrasti tra autorità e fedeli o tra aderenti a culti differenti. Uno stesso oggetto sacro poi può far scaturire punti di vista alternativi.
A Cuzco, l’antica capitale dell’impero Inca, nel corso del XVI secolo, l’ostia — il corpo di Cristo secondo i cristiani — veniva fatta sfilare in processione il giorno del Corpus Domini, una festa inserita nel calendario cristiano nel 1311 da Clemente V. Per gli spagnoli la materia sacra dell’ostia, un oggetto che, è bene ricordarlo, secondo il credo cattolico non rappresenta, ma è la divinità, rendeva visibile nel suo percorso processionale il trionfo della civiltà sulla barbarie, la vittoria politica, culturale e religiosa sul popolo nativo. I nobili inca avevano verso l’ostia un atteggiamento inclusivo e resiliente al tempo stesso. Inclusivo perché non ebbero difficoltà (come avviene spesso nelle religioni politeiste) ad adottare divinità e immagini sacre cristiane, ma anche resiliente perché il Corpus Domini veniva celebrato lo stesso giorno in cui si teneva in precedenza la festa del solstizio d’estate in onore della divinità solare. I nobili inca decoravano i loro vestiti con il Sole che «rappresentava l’aspetto dell’ostia rotonda racchiusa nell’ostensorio quasi sempre rifinito in modo tale da ricordare i raggi che promanano da qualcosa di simile al Sole (nel caso specifico lo Spirito Santo)».
Pochi termini hanno avuto un successo simile a quello di «feticcio» nel linguaggio delle scienze e delle religioni europee. Derivata dal portoghese (e a sua volta dal latino) feitiço , cioè «fatto», «fabbricato», «artefatto», la parola «feticcio» è servita a giudicare e svalutare esperienze religiose di società africane, oceaniane, americane, assimilate a religioni popolane e folkloriche (anch’esse piene di «feticci») e considerate troppo invischiate nella materialità degli oggetti e delle immagini a scapito dell’autentica spiritualità.
In realtà, nessuna religione può fare a meno della materia sacra: la distinzione tra «venerare» e «adorare» le immagini sacre, ovvero tra il considerarle semplici rappresentazioni oppure parte della realtà trascendente (divinità, antenati) è possibile solo a livello teorico-filosofico. Nella pratica religiosa (di qualunque religione), oggetti e immagini aprono la via al trascendente proprio perché si collocano, in modo ambivalente, tra il qui e l’ altrove , tra la materia e il simbolo, tra l’ordinario e lo straordinario. Da questo punto di vista gli oggetti sono fonti di autorità e sono dotati di capacità di azione ( agency ). Allo stesso modo, il corpo — concepito à la Merleau-Ponty come un «chiasmo», ovvero materia che tuttavia sola ci può far sperimentare ciò che sta oltre — è veicolo dell’esperienza religiosa.
Attorno a corpi e oggetti «densi», Fabietti ha costruito un testo che, per autorevolezza e ampiezza di riferimenti comparativi, è destinato a divenire un punto di riferimento imprescindibile per un settore di studi come l’antropologia delle religioni.

Repubblica 11.1.15
La parola è potente e il segno lascia il segno
di Michele Serra


QUASI MI VERGOGNO , adesso, del paio di querele per “vilipendio della religione” che meritai in quanto fondatore e direttore di Cuore, più di vent’anni fa. Scaramucce che mi parvero, ai tempi, grande battaglie. E non lo erano perché la civilizzazione ci ha portato, tra i suoi tanti vantaggi, quello della mediazione giuridica dell’offesa. Il massimo disturbo era cercarsi un buon avvocato. Il massimo rischio, perdere del tempo. Quanto alla “religione” vilipesa devo aggiungere subito, perché non è un dettaglio, che la maggior parte delle (poche) seccature giudiziarie che ci toccarono, a Cuore, scaturirono non dalla suscettibilità dei bigotti, ma da quella delle aziende. La sacralità del Prodotto e del Marchio, già vent’anni fa, era decisamente superiore non solamente a quella degli déi; anche a quella degli esseri umani. Con Grillo — quando lavoravo con lui — avevamo stabilito, in sintesi, che offendere Andreotti era molto meno rischioso che offendere Coccolino.
Uso il verbo “offendere” perché non è intelligente né leale defalcare la satira a semplice attività spiritosa, innocuo divertimento. Non erano simpatici pagliacci, i caduti di Charlie Hebdo. Erano artisti e intellettuali che sapevano di usare un linguaggio di confine, non facile da pronunciare e neppure da capire: il malinteso, ogni satirico lo sa, è pane quotidiano. Sapevano che la parola è potente e che il segno lascia il segno. E sapevano di rischiare la vita, perché la comunità degli offesi, nel loro caso, non riconosce la mediazione giudiziaria (che è dialettica per definizione). Conosce solo, per “lavare l’onta”, il sangue dell’altro. Ed è esattamente questo, per la nostra etica di civilizzati, l’aspetto mostruoso, rivoltante dell’accaduto: imbatterci nella risoluzione pre-civile, primitiva, di un contenzioso culturale.
Allora come oggi non ho mai condiviso, e neppure mai capito fino in fondo, che cosa intende dire chi dice che “la libertà d’espressione non può avere limiti”. Mi sembra una concezione davvero riduttiva della libertà, quasi una sua “neutralizzazione”. Un renderla — appunto — inoffensiva, comoda e facile per tutti, comprensibile a tutti. Invece la libertà (da sempre!) è uno scandalo. Disturba e offende. Urta certezze e conformismi, irrita i repressi, scompiglia convenzioni sociali sedimentate. Il suo “limite” è il cozzo, costante, con sensibilità e usanze altrui. Si pensi, per fare solo un esempio, alla ricaduta sociale della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e Settanta: non è forse per rimediare a quella “offesa” — l’offesa della libertà — che parecchi maschi patologici picchiano e uccidono le loro compagne quando queste scelgono di liberarsi di loro? Non sono forse, costoro, i lanciatori di acido, gli accoltellatori, artefici di un terrorismo diffuso contro l’autodeterminazione delle donne?
E per non parlare sempre degli altri: anche io che sono ateo, e non ho tabernacoli da difendere, mi offendo sovente, per esempio per l’arroganza con la quale i bigotti giudicano strano e divagante il mio punto di vista, come se non fosse strano e divagante, piuttosto, venerare il calcagno di San Vattelappesca. Ma considero l’offesa — come dire — parte del mestiere di vivere e soprattutto del vivere in società. È un urto gestibile, mediabile, a volte addirittura utile perché innesca (capita, mi è capitato) un processo di comprensione reciproca. E qualora non trovassi requie alla mia offesa, potrei sempre rivolgermi a un giudice. Perfino il duello — aggiungo — rientrava nella mediazione giuridica, sia pure in forma cruenta. Era ad armi pari e intriso, per i duellanti e i loro padrini, di un sentimento di lealtà tra chi si odia. Ripeto: lealtà tra chi si odia. Il contrario della vile esecuzione di inermi praticata, ormai su vasta scala, dagli assassini jihadisti.
Non è dunque l’offendersi di fanatici musulmani, siano essi pochi o tanti, il vero scandalo. Ogni essere umano e ogni comunità hanno pieno diritto di considerarsi offesi. Lo scandalo, di tale portata da configurarsi anche “tecnicamente” come una dichiarazione di guerra, è la totale incapacità di quegli offesi di accettare la loro offesa come parte integrante, inevitabile, vitale del confronto culturale e della mediazione giuridica. Vuol dire, tout court, negare alla radice il confronto culturale e la mediazione giuridica.
Ai tempi di Tango ( predecessore di Cuore) Sergio Staino sintetizzò in una vignetta-manifesto la questione satirica, che è poi un sunto “specializzato”, ma molto rappresentativo, della questione della libertà. Un Bobo guerriero, con lo spadone sguainato, lanciava il suo urlo di guerra. “Chi si incazza è perduto”. Sapeva bene, Bobo, che la satira è una spada, metaforica ma tagliente quanto basta a produrre ferite. E sapeva che può anche fare “incazzare”, che anche una matita può essere così ben temperata da diventare acuminata. Ma assegnava giustamente agli offesi il compito di gestire l’offesa. All’epoca non potevamo immaginare che la gestione dell’offesa (la sua elaborazione, direbbe uno psicanalista) sarebbe diventata una questione di vita e di morte; nonché una questione di civiltà. Di vita e di morte della civiltà. Non “la nostra” civiltà: quella di chiunque riconosce la mediazione dei conflitti, ovvero la democrazia, come base della convivenza.
Ci consola e ci illumina considerare che, nel vecchio slogan di Staino, “perduto” è chi si incazza. Chi perde il lume della ragione e del rispetto perde prima di tutto se stesso. Il fanatico è sempre perduto in partenza. Ha sempre perduto in partenza.

Repubblica 11.1.15
L’amaca
di Michele Serra


LE IMMAGINI postate dalla coppietta Coulibaly- Boumeddiene mentre si addestra a sparare assomigliano non poco a quelle degli stragisti dei college americani, a quelli dei nazi alla Breivik, a quelle dei killer paranoici del mondo intero. Esiste, trasversale ai terrorismi, un narcisismo delle armi in pugno, qualcosa come «credevate fossi solo il cretino della porta accanto, guardate qui, invece, che razza di impavido guerriero». Rimando al giudizio, più competente, degli psicanalisti, ma viene da pensare che la componente più “contemporanea” del terrorismo, meglio dei terroristi, sia il narcisismo. La ricerca disperata di un’immagine nella quale rispecchiarsi e finalmente approvarsi e amarsi. Il famoso “anonimato delle periferie” dev’essere una soma ben pesante se in così tanti, pur di liberarsene, diventano assassini pazzi. Rimane il mistero di come in precedenza, e per generazioni, l’anonimato sia stato una pena così leggera da sopportare, quasi impercepibile. Forse la fame, il freddo e altri problemi più assillanti, riguardanti il corpo e non l’anima, suggerivano di rimandare il lusso di sentirsi protagonisti. E poi, certo, la mediaticità moltiplica la questione del “chi sono io?” al punto che non c’è stragista, oramai, che non certifichi sul web di esserlo, uno stragista. Come fa il professionista con il biglietto da visita.

Repubblica 11.1.15
Disgelo Renzi-Bersani per compattare il Pd ora nei piani per il Colle un candidato della “Ditta”
Ieri a Bologna clima disteso dopo le frecciate sul fisco
Tra gli ex-Ds salgono le chance di Fassino e Veltroni
di Francesco Bei


ROMA «Pierluigi ci dobbiamo parlare». «Matteo, io sono qua». Il primo passo, ieri mattina, lo ha compiuto Renzi, com’era naturale che fosse. Per ricompattare il partito in vista del voto sul Quirinale il segretario ha incontrato ieri il più temibile — visto il seguito di cui ancora gode nei gruppi — dei suoi antagonisti interni. Il più temibile, ma in fondo anche il più ragionevole: Pierluigi Bersani. Complice l’inaugurazione della nuova sede della Granarolo, i due hanno avuto uno scambio di battute definito da entrambe le parti «affettuoso». Di fronte allo sguardo benevolo del vescovo di Bologna, il primo a rompere il ghiaccio è stato Renzi.
«Speravo fossi qui...». Bersani, dopo un primo momento di freddezza, si è sciolto in un sorriso e ha liquidato giorni di attacchi e frecciatine con una battuta delle sue: «Eminenza, vedo che qui dentro avete messo insieme il diavolo e l’acqua santa!».
Il «diavolo», ovvero Renzi, ne ha approfittato subito; si è preso sottobraccio «l’acqua santa» Bersani e, allontanandosi dai ministri Galletti e Martina e dal presidente della regione Bonaccini, ha intavolato una rapida discussione con il leader della minoranza. Per ora pare si sia trattato soltanto di una prima presa di contatto in vista dell’apertura della trattativa vera e propria. Eppure, dopo gli attacchi della scorsa settimana da parte di Bersani, al premier premeva iniziare a stringere i bulloni del suo partito per iniziare a limitare l’area del possibile dissenso. Come ripete ai suoi in questi giorni, per Renzi infatti «il problema non è Berlusconi, perché comunque lui almeno una novantina di voti me li porta. Il problema sono le minoranze del Pd». Per questo Bersani, con la sua autorevolezza e la sua storia, è considerato a palazzo Chigi come uno dei pilastri su cui far ruotare tutta la strategia. E l’incontro di ieri mattina, al di là del contenuto, è comunque un segnale di disgelo che allenta le tensioni accumulate finora. Non che gli elementi di distanza siano diminuiti, anzi. Su alcuni dossier — su tutti la percentuale di eletti/nominati nell’Italicum — la minoranza bersaniana è decisa a non mollare di un centimetro. Così come sul decreto fiscale e sui decreti delegati del Jobs act in arrivo lunedì alla Camera. «Credo — ha buttato lì Bersani alla Granarolo a proposito del Jobs Act — che questa partita non sia finita. Credo che già nelle prossime settimane possa essere evidente come qualche correzione a queste norme possa esse- re fatta». Non è un caso se ieri Cesare Damiano, altro esponente dell’ala dialogante bersaniana, abbia insistito su almeno tre punti da modificare nel decreto che riguarda il contratto a tutele crescenti: «I licenziamenti collettivi, la tipizzazione dei licenziamenti disciplinari e l’indennità». Questa e altre portate dovranno far parte della trattativa sul Quirinale e se Renzi vuole arrivare al quarto scrutinio con la maggioranza dei 450 voti dem assicurati qualcosa dovrà concedere.
Ma le premesse, a sentire il segretario, ci sono tutte. Non sol- tanto perché il capo del governo riconosce a Bersani di «essersi comportato bene, a differenza di altri, anche sulla vicenda del decreto fiscale», un colpo che a Palazzo Chigi hanno accusato molto. Il fatto è che il premier ormai si è convinto che l’unica condizione che possa tenere unito il partito è quella di sottoporre ai grandi elettori «uno della Ditta». Che ci sia arrivato per scelta o perché soltanto così può sperare di uscirne senza rompersi le ossa, il segretario ha comunque preannunciato questa novità agli intimi: «Per chiudere un accordo proporrò uno della Ditta». Un’anticipazione importante, in grado di azzerare tutti i contatori e restringere la rosa dei papabili a pochi nomi, se la definizione renziana di “Ditta” è la stessa che usa Bersani, ovvero la provenienza ex Pci. Di nuovo si torna a Walter Veltroni, ma anche a Piero Fassino o Anna Finocchiaro. Mentre lo stesso Bersani, troppo in prima linea, sarebbe fuori dalla corsa.
In ogni caso all’elezione del successore di Napolitano bisogna ancora arrivarci. Perché il capo dello Stato, come ricorda ogni giorno Renzi, «ancora è al suo posto ». Una forma di rispetto ma anche una speranza, quella che Napolitano voglia e possa allontanare di qualche giorno la data delle sue dimissioni. Nel silenzio del Quirinale, negli ambienti renziani si coltiva ancora l’idea che il Presidente possa concedere un po’ di tempo in più per consentire al Senato di approvare l’Italicum e alla Camera la riforma costituzionale. Solo qualche giorno in più. La voce di un breve rinvio delle dimissioni è tornata nuovamente a rimbalzare tra i palazzi, alimentata dal momento particolare legato all’emergenza terrorismo. Un fronte che Napolitano continua a presidiare, come dimostra la lunga telefonata avuta ieri con il capo dello Stato francese François Hollande proprio sulla strage a Charlie Hebdo.

Repubblica 11.1.15
Roiberto Speranza, Pd
“Abbiamo 450 voti e con Forza Italia arriviamo a 700 è vietato fallire”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «I numeri ci sono, è vietato fallire. E se alla maggioranza si aggiungesse Forza Italia si sarebbero sulla carte 700 voti». Roberto Speranza, il capogruppo dem alla Camera, è ottimista sull’elezione del nuovo capo dello Stato. Ma avverte: «Solo su una figura di alto profilo, autorevolezza e autonomia, all’altezza di Giorgio Napolitano, si può costruire l’unità del Pd e la massima condivisione tra le forze politiche».
Speranza, anche lei come Renzi scommette sull’elezione del nuovo capo dello Stato al quarto turno?
«Sì, penso proprio di sì e mi augurerei anche prima. Il Pd ha sulle sue spalle il massimo delle responsabilità che gli derivano dai numeri parlamentari e anche dai delegati regionali».
Quali numeri ci saranno?
«Il Pd avrà circa 450 Grandi Elettori. Chiaro che noi non possiamo che partire dal dialogo con la maggioranza, però vorrei si potesse discutere con tutte le altre forze politiche. Mi auguro che questa volta i grillini scendano dal tetto e provino a giocare una partita in termini costruttivi».
Renzi difende l’asse con Berlusconi?
«Non mi piace parlare di asse con Berlusconi. C’è un lavoro condiviso sulle riforme costituzionali che spero porti ben presto sia all’approvazione della riforma del Senato e del Titolo V sia della legge elettorale. Credo che Forza Italia non si sottrarrà al dialogo sul presidente della Repubblica, benché i due terreni siano distinti e non ci può essere alcuno scambio tra Quirinale e riforme. Sommando i voti della maggioranza a quelli Forza Italia si arriverebbe intorno ai 700 voti.
Non si può fallire, quindi?
«Penso proprio di no. E mi auguro che i grillini non scelgano la strategia di tenersi fuori dalla discussione. Comunque se Forza Italia decide di starci, i numeri sono abbastanza larghi con un significativo margine rispetto al quorum dei 505».
È ottimista?
«Sì. E come Pd sentiamo la responsabilità di eleggere un presidente della Repubblica che rappresenti un cardine per le istituzioni in un tempo così difficile. I numeri parlamentari possono portarci a costruire questa scelta nel migliore modo possibile, senza passaggi traumatici. C’è una coincidenza di destino tra la capacità del Pd di essere all’altezza delle sfide che ha di fronte e la tenuta del paese. Per questo ritengo indispensabile non fallire, individuando una personalità all’altezza di Giorgio Napolitano».
Per prima cosa però conviene che il premier incassi l’unità del partito?
«Questo è indispensabile. Si può unire Pd se si individuano figure di alto profilo e di grande autorevolezza e autonomia. Credo sia sbagliato immaginare che ci siano franchi tiratori già certi. Lo spazio dei “franchi tiratori” si può azzerare, o ridurre il più possibile. Non si fanno trabocchetti a prescindere: è una lettura molto sbagliata».
Chi terrà il pallottoliere: lei, Lotti, Renzi in persona?
«Renzi ha annunciato una riunione dei Grandi Elettori quando i tempi saranno maturi, ma ci vorrà un coordinamento tra gruppi parlamentari e partito».
Voi dem finirete nelle solite risse con resa dei conti tra correnti?
«No. Ciascuno di noi ha ancora le cicatrici dell’esperienza terribile vissuta nel 2013. Nessuno ha voglia di rivivere quei giorni. Rispetto ad allora tra di noi c’è molta più maturità e sono convinto che con un’impostazione largamente partecipata, posano esserci le condizioni per non ripetere gli errori del passato».
Come capogruppo ha qualcosa da rimproverarsi per quanto accadde nel 2013? Ci fu troppa inesperienza?
«C’erano 181 deputati appena arrivati alla Camera... Prima o poi scriverò qualcosa su quei giorni».

Repubblica 11.1.15
Sconti a teatro se prendi la tessera dem
di Silvia Bignami


BOLOGNA . Sconti a teatri, musei e cinema per chi si iscrive al Pd. Si gioca questa carta, il Pd di Bologna, per uscire dalla crisi del tesseramento, fermo a un meno 20% di tesserati rispetto al 2013 a livello regionale, e a meno 25% sotto le due Torri. L’idea, che nasce dalla responsabile cultura del Pd bolognese Isabella Angiuli, è quella di firmare convenzioni con enti culturali pubblici e privati e di concedere quindi un benefit ai tesserati dem, proprio come fanno le coop o le grandi liberie, per aumentare il numero dei propri associati.
Un’idea che in poco tempo consentirebbe a molti iscritti di risparmiare ben più di quel che costa fare la tessera (circa 15 euro l’anno) e che potrebbe dunque dare una spinta a una campagna iscrizioni in forte flessione. Dopo il tracollo della partecipazione alle regionali di novembre, con una affluenza al 37%, i riflettori sono infatti puntati sugli iscritti. Nel 2014 i tesserati a Bologna sono infatti appena 14mila, con poche speranze di raggiungere entro la chiusura della campagna tesseramento, a febbraio, i 19mila del 2013. Sotto di 15mila iscritti anche il Partito democratico regionale, fermo a 60mila tesserati contro i 76mila dell’anno precedente. Una situazione che preoccupa molto Pier Luigi Bersani, ieri a Bologna per partecipare all’inaugurazione di un nuovo stabilimento della Granarolo, insieme al premier Matteo Renzi. «I dati sul tesseramento in Emilia Romagna non sono soddisfacenti — dice l’ex leader dem — e anche se qui va comunque meglio che altrove, vale quel che dico sempre: serve un partito, senza grandi forze collettive non c’è democrazia». Lancia l’allarme anche il sindaco di Bologna Virginio Merola che rivela come negli ultimi cinque anni, dal 2010 in poi, gli iscritti si siano quasi dimezzati in città.
La soluzione suggerita da Angiuli, già discussa nel forum cultura del partito, è dunque quella degli sconti per i tesserati. Un’idea che però rischia di creare intrecci poco trasparenti, visto che gli enti pubblici — spesso controllati da istituzioni governate dal Pd — dovrebbero concedere convenzioni speciali a un partito per fare sconti ai propri iscritti. Una questione delicata su cui il centrodestra promette battaglia, che tuttavia la Angiuli ha liquidato nei giorni scorsi con semplicità, invitando anche gli altri partiti a ipotizzare anche per i loro associati gli stessi sconti.

il Fatto 11.1.15
Colle, solo 190 deputati dem sicuri per Renzi
Sale la tentazione Grasso, che libererebbe la presidenza del Senato alla Finocchiaro
Ma la scelta finale potrebbe essere tra POrodi e Veltroni
di Luca De Carolis e Wanda Marra


Ormai siamo al meno 3: mercoledì Giorgio Napolitano si dimetterà. Con un atto privato, una lettera. Da quel momento scattano i 15 giorni necessari per indire i comizi elettorali e poi parte l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Nello studio di Lilli Gruber Renzi ha scommesso che il Parlamento riuscirà ad eleggerlo al quarto scrutinio. Ma in realtà, la situazione è tutt’altro che tranquilla. Due deputati renziani, Marco Di Maio e Marco Donati hanno avuto il compito di monitorare il gruppo Pd a Montecitorio. E anche di cercare di recuperare voti dai Cinque Stelle. Per ora il pallottoliere non è esattamente Colle, ma potrebbe, andando sul massimo scranno di Palazzo Madama, far piacere alla minoranza. Pier Carlo Padoan p ancora in lizza. Ma potrebbe pagare in prima persona il pasticcio sulla delega fiscale. Tra i nomi sondati, resiste ancora Graziano Delrio. Sta molto coperto Dario Franceschini, ma ci spera. Tra i politici le preferenze vanno a Walter Veltroni e Romano Prodi. Rispetto ad entrambi sarebbe difficile per la minoranza dem dire di no. Soprattutto visto che il fondatore dell’Ulivo l’hanno tirato in ballo loro. Il Professore è super attivo e Renzi stesso potrebbe sceglierlo, magari come male minore. Potrebbe essere determinante l’ultima parola di Berlusconi. Che non sarebbe più così contrario. Anche se preferirebbe Veltroni.
La minoranza dem spinge anche Sergio Mattarella: altro nome “teoricamente” adatto e anche di quelli portati avanti per provocare Renzi. Piace molto Pierluigi Castagnetti: provenienza cattolica, ottimo rapporto con il presidente del Consiglio. E potrebbe non andare male all’ex Cavaliere dovrebbe dire di no? Molti, però, sono pronti a giurare che il premier stia lavorando ancora al colpo secco, al primo voto, anche se non lo dice. Perché se la minoranza sceglie la strada del caos e non quella della collaborazione potrebbe altrimenti usare i primi tre voti per promuovere dei nomi. Che poi diventerebbe difficile ritirare.
I deputati sicuri sono 190-200 su 307 dem. I senatori sono un’ottantina. E con alcuni grandi elettori si arriva a più di 400 voti. In questo momento, le sacche di resistenza principali all’interno del Pd sono bersaniani e cuperliani.
L’ATTIVISMO di Bersani in questi giorni è stato letto da molti renziani come un’autocandidatura. Dalla minoranza smentiscono: ha usato toni troppo duri in questi giorni. Sferzante Miguel Gotor, a proposito di Berlusconi: “Ho fiducia in Renzi, ma due soci normalmente il presidente lo scelgono assieme... ”. I Cinque Stelle in arrivo verso il premier dovrebbero essere sempre una decina. E poi, c’è l’asse con Berlusconi. Più che mai si discute di candidati. Anche se con Forza Italia stanno trattando direttamente Matteo Renzi e Luca Lotti. Tra i nomi che circolano, ieri di nuovo sale quello del presidente del Senato, Pietro Grasso: sarà in una posizione favorita, visto che farà le veci di Napolitano. Potrebbe essere considerato da tutti sufficientemente malleabile. E poi, la sua poltrona la vuole Anna Finocchiaro.

Il Sole 11.1.15
Quarta votazione: contro il logoramento Renzi carica l’arma delle urne
di Lina Palmerini


La quarta votazione: questo è l’obiettivo che si è dato Renzi per eleggere il nuovo capo dello Stato. Ma se salta, quante votazioni è in grado di sostenere il premier? E a che punto potrebbe rispolverare l'arma del voto anticipato?
Difficile immaginare un Parlamento suicida, che si avventura verso un’estenuante serie di fumate nere sul capo dello Stato. È difficile in un clima come quello di oggi, con la sfiducia popolare ai massimi contro partiti e istituzioni. Ma è difficile soprattutto perché l’arma di Matteo Renzi - anche se momentaneamente sparita - resta quella delle elezioni anticipate. È da qualche settimana che non evoca più la possibilità di un voto ma è anche vero che ha dovuto sgombrare il campo da ricatti sulle urne per mandare avanti l’iter delle riforme, in particolare dell’Italicum. La paura delle elezioni era la mina da disinnescare per spingere la seconda lettura della legge elettorale ma non è detto che non rientri di nuovo in ballo se la partita del Quirinale si dovesse complicare.
È chiaro che nel momento in cui Renzi fissa il suo obiettivo alla quarta votazione per eleggere il presidente della Repubblica, il messaggio è che non accetterà uno scenario di logoramento. Uno scenario in cui si possa arrivare, come è accaduto in passato, alla decima votazione o anche oltre con l’unico effetto di indebolire la sua leadership. Quella “quarta votazione” ha un sottotitolo chiaro soprattutto per la minoranza Pd: cioè che a un certo punto Renzi ritirerà fuori l’arma delle elezioni anticipate. Mostrerà di nuovo al suo partito e a tutto il Parlamento lo spettro di urne a breve che appare il deterrente più efficace.
Va detto che larga parte dei parlamentari è al momento senza un’occupazione. Persone che nel curriculum hanno scritto allo spazio “professione” definizioni vaghe, consulente o giornalista, ma che in realtà un mestiere dovranno cercarselo se finisce la legislatura. E va anche detto che tutti i parlamentari di prima nomina non potranno contare sulla pensione che con le nuove regole (metodo contributivo, un po' meno di 2mila euro per legislatura) scatta dopo 4 anni, sei mesi e un giorno. Insomma, l’interesse che la legislatura prosegua c’è. E un Parlamento in balia di votazioni senza esito presta il fianco alla richiesta di scioglimento anticipato.
La dottrina è piuttosto divisa sulla possibilità che un supplente del capo dello Stato, in questo caso Pietro Grasso, possa sciogliere le Camere. È un caso di scuola e un tema molto dibattuto che ha anche un altro elemento da considerare: le scadenze europee, l’esame dei conti pubblici a marzo, lo spettro di una manovra di circa 4 miliardi. Ma se il Parlamento mostrasse con tutta evidenza un quadro politico sfilacciato e un’istituzione che non riesce a funzionare, o il supplente o il nuovo capo dello Stato una soluzione dovrebbero comunque cercarla. E in questo quadro la minaccia di Renzi avrebbe un senso e lo avrebbe soprattutto per la minoranza Pd che probabilmente non tornerebbe più in Parlamento.
Anche se la legge elettorale sarà il Consultellum e non l’Italicum, anche se ci sono le preferenze e non i “nominati”, sarà pur sempre il segretario a scegliere chi mettere in lista. E non c’è dubbio che Renzi troverebbe il modo di portare un gruppo parlamentare che risponda - tutto - a lui e non, come è adesso, anche all’ex segretario Bersani. Insomma, si aprirebbe davvero lo scenario di scissione che non conviene a nessuna delle fazioni. Per questa ragione, “quarta votazione” potrebbe anche preannunciare la candidatura di un politico del Pd che ricompatti le fazioni.

Corriere 11.1.15
Camusso: i vigili assenti? Sto con chi lavora
La leader della Cgil e il caso di Roma. «Il governo ha abbassato la guardia sulla lotta all’evasione»
intervista di Enrico Marro


Jobs act, articolo 18, licenziamenti. Il numero uno della Cgil, Susanna Camusso, ribadisce in un’intervista al Corriere l’impegno del sindacato contro ogni forma di terrorismo: «Il nostro cuore è a Parigi». Accusa il governo di aver «abbassato la guardia sull’evasione fiscale». E sui vigili assenteisti a Roma durante le feste aggiunge: «Sto con chi lavora».
«Decreto fiscale pessimo e non trasparente Il Colle? Giusto il dialogo con Berlusconi»
Camusso: il governo crea disuguaglianze, le norme sul lavoro sono a rischio Consulta
ROMA Dopo aver guidato la delegazione della Cgil alla fiaccolata di giovedì in piazza Farnese, sotto l’ambasciata di Francia, Susanna Camusso sceglie di essere intervistata nella sede romana del Corriere dove ribadisce l’impegno del sindacato contro ogni forma di terrorismo: «Il nostro cuore è a Parigi, con chi scende in piazza a difesa della libertà di stampa e di satira. Penso che in questo momento sia importante dire che non ci facciamo travolgere dalla paura e che la vera risposta a questo orrore è l’integrazione. Un valore che nel mondo del lavoro, nel sindacato pratichiamo da tempo».
Come?
«La Cgil ha numerosi dirigenti di categoria e di territorio di fede mussulmana e l’integrazione si è affermata nelle aziende non solo a parole ma attraverso i tanti accordi che garantiscono agli immigrati congrui periodi di ferie per poter tornare nei Paesi di origine o per assicurare le pause quotidiane per la preghiera. È anche grazie a questa integrazione che non ci sono tensioni rispetto alla condanna di questi atti di terrorismo».
Segretario, partiamo dallo sciopero generale del 12 dicembre. Non è servito a fermare il Jobs act del governo Renzi. Una sconfitta?
«No. Le manifestazioni e lo sciopero hanno cambiato lo scenario politico, riproposto la centralità del lavoro e della qualità dell’occupazione. Sapevamo che Renzi avrebbe tirato dritto. Ma l’azione di contrasto non finisce qui. Si apre una stagione che vedrà la Cgil, insieme alla Uil e se possibile anche con la Cisl, impegnata su tutti i fronti. I decreti legislativi sono pieni di norme che producono diseguaglianze che si prestano ad essere messe in discussione dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea di giustizia».
Come si fa a difendere l’articolo 18 sui licenziamenti davanti all’assenteismo di massa dei vigili a Roma?
«Se condizioni la difesa di un diritto al fatto che tutti si comportino bene non difendi più alcun diritto. Detto questo, io sto con quelli che la notte di San Silvestro sono andati a lavorare. La Cgil, fin dall’inizio, ha detto: ci sono le regole, si applichino. Non è vero che nel pubblico impiego non si può licenziare. Ciò non toglie che lo sciopero dei vigili contro il sindaco e contro il comandante del corpo sia sacrosanto».
Scioperano contro chi vuole punire coloro che hanno appunto infranto le regole.
«No. Scioperano perché c’è una vertenza sull’organizzazione del lavoro e sul salario aperta da tempo che il sindaco non vuole concludere».
Torniamo al Jobs act. Ma la Cgil non era favorevole al contratto a tutele crescenti?
«Sì, ma doveva essere un’altra cosa. Doveva servire a togliere di mezzo i tanti contratti precari e portare alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro, con la previsione che a un certo punto sarebbe comunque scattata la tutela dell’articolo 18. Invece niente. Sa cosa c’è di crescente in questo contratto? Solo l’indennizzo a fronte della possibilità per le imprese di licenziare, demansionare, fare ciò che vogliono».
Non crede che aver semplificato i licenziamenti possa aiutare le aziende a superare la soglia dei 15 dipendenti e incentivare gli investimenti dall’estero?
«Non ho mai conosciuto un investitore che non viene in Italia perché c’è l’articolo 18. Quanto alle piccole imprese, si addensano tra i 7 e i 9 dipendenti, non sotto i 15».
Questo governo è guidato dal segretario del Pd. Un governo di sinistra che ha con la Cgil rapporti peggiori di quelli che aveva Berlusconi.
«Non esageriamo. È un governo di coalizione, che ha un grande problema: si ritiene autosufficiente. Perciò non ascolta i buoni consigli e segue i cattivi esempi, aumentando la diseguaglianza».
Fa bene Renzi a cercare un accordo con Berlusconi sul Quirinale?
«Sì, la posizione della Cgil è sempre stata quella che su questa carica, come sulle riforme istituzionali, si debba cercare il massimo consenso con tutti gli attori politici».
Ha un nome da suggerire?
«A parte la mia propensione per una donna, serve un presidente che sia un autentico interprete della Costituzione».
Nella partita entrerà il decreto fiscale che depenalizza la frode, con possibili benefici per lo stesso Berlusconi?
«Il fatto che Renzi abbia ammesso che la manina è sua e che allo stesso tempo abbia sospeso l’approvazione del decreto fino a dopo le elezioni per il Quirinale fa pensare che esso possa essere usato come un’arma di pressione. Ci saremmo aspettati invece la massima trasparenza. Tanto più che i contenuti sono pessimi, non per presunti accordi, ma perché prospettano un allentamento della lotta all’evasione».
Il governo vuole un Fisco più semplice.
«Ma allora semplifichi. Invece qui si abbassa la guardia, mettendo a rischio il gettito. Non è questa la politica fiscale che auspichiamo».
Che invece sarebbe?
«Fondata sulla lotta all’evasione e sulla progressività del prelievo. Non c’è un altro Paese dove l’83% dell’Irpef viene da dipendenti e pensionati».
Di qui anche la richiesta della patrimoniale?
«Il problema fondamentale nella nostra società è la crescita della diseguaglianza. Il Fisco serve appunto per redistribuire e creare equità».
Se verrà ammesso il referendum della Lega per abrogare la riforma Fornero voterete sì, conferma?
«Con Cisl e Uil abbiamo una piattaforma per cambiarla. È urgente, per rimediare a questa follia del prolungamento infinito dell’età di pensionamento. Sarebbe utile che il governo aprisse un confronto con noi per cambiare la legge. Se non lo farà neppure per evitare l’eventuale referendum, voteremo sì».
Si possono rinnovare i contratti con l’inflazione a zero?
«La Cgil non ha condiviso il modello contrattuale del 2009 e non rinuncia all’obiettivo della crescita dei salari, che si può ottenere anche attraverso la redistribuzione dei profitti».

Repubblica 11.1.15
Jobs Act, decreti alle Camere ma dubbi della Ragioneria


ROMA I due decreti attuativi sul Jobs Act (contratto a tutele crescenti e nuova Aspi) arriveranno alle Camere domani. Lo ha assicurato Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, sottolineando che inviando entrambi i testi - che prima dovranno ottenere la «bollinatura» della Ragioneria - partito e governo dimostrano «la piena consapevolezza» sull’emergenza lavoro. La disoccupazione ha raggiunto il 13,4 per cento e Palazzo Chigi è convinto che le aziende stiano frenando le assunzioni in attesa delle nuove norme, quindi intende fare in fretta. In realtà c’è un intoppo: secondo la Ragioneria i 2,2 miliardi stanziati per coprire la nuova Aspi nel 2017 non bastano. I tecnici vorrebbero introdurre una «clausola d’indirizzo», ovvero stabilire che se le risorse saranno insufficienti non ci dovrà essere sforatura di bilancio, ma si ridurrà semmai l’entità dell’assegno versato. Clausola che il governo non intende aggiungere: la decisione è attesa per domani, subito dopo i testi passeranno alle commissioni Lavoro di Camera e Senato per un parere non vincolante. Durante questo passaggio Cesare Damiano, presidente di Commissione alla Camera, promette di dare battaglia per correggere il contratto a tutele crescenti in tre punti: «licenziamenti collettivi, tipizzazione dei licenziamenti disciplinari e indennità».

Repubblica 11.1.15
Quel sospetto che nuoce alla democrazia
di Nadia Urbinati


L’ARTICOLO 19-bis ha fatto la sua comparsa nel decreto legislativo sulla delega fiscale come un gioco di prestigio. Ha lasciato dietro di sé interrogativi senza risposta sulla sua paternità, ma ha soprattutto innescato dubbi e sospetti sul tipo di cemento che sostiene il governo. Domande inevase e sospetti sono come fratelli siamesi, il loro destino è fatalmente lo stesso, e ha la sua genesi nel patto del Nazareno, una trattativa della quale i cittadini non sanno nulla e sono informati per default, mediante le domande inevase di casi come questo. La segretezza che circonda la concertazione con Forza Italia è all’origine di quel che avviene oggi senza spiegazione. Perché è nella zona buia che si annida l’idra: l’errore (che nella segretezza non può venire alla luce), il sospetto (che nasce dalla non trasparenza), la menzogna e la reticenza (strategie classiche del nascondimento). L’esito è la massima diffidenza, la caduta della fiducia (peraltro già bassa come mostra il recente sondaggio di Repubblica). Un caso da manuale di fisiologia degli arcana imperii.
Scriveva Norberto Bobbio che nelle forme di dominio vi è la tendenza di chi gestisce il potere a «sottrarsi allo sguardo dei dominati nascondendosi e nascondendo, ovvero attraverso la segretezza e il mascheramento». La democrazia è l’unica forma di governo le cui regole fondamentali hanno lo scopo di permettere che conflitti e trattative, mediazioni e decisioni, avvengano alla luce del sole o che vi si dirigano, anche se partono nella penombra. Infatti, per poter sopravvivere, questo sistema politico ha bisogno della fiducia nel rapporto fra cittadini e istituzioni. Per questo, le norme tendono a bandire l’uso del sotterfugio e della simulazione, ovvero della segretezza, generatrice di sfiducia. Certo, nessun sistema politico può funzionare senza un ambito di riservatezza, ma si tratta di una “necessità” della quale si è consapevoli e che non viene mai accettata senza discussione (la lotta per abolire il segreto di Stato o le norme per accorciare il tempo di segretezza dei documenti riservati ne sono una prova).
La logica della segretezza porta non soltanto alla menzogna e all’inganno, ma anche a rendere fatti reali e raccontati così di- varicati per cui le rappresentazioni che provengono dalle fonti ufficiali provocano fenomeni di autoinganno negli stessi attori politici, per i quali è più facile fare errori, come quello di “calare” il testo 19-bis nel decreto del governo ad un certo punto della riunione. Ha commentato il ministro Padoan, nel tentativo di diradare il dubbio, che sarebbe assurdo pensare che qualcuno abbia tramato per salvare Silvio Berlusconi visto che l’ipotetica norma “salva Silvio” sarebbe diventata di pubblico dominio. Come pensare di poter nascondere una legge? Si potrebbe rispondere che la stupidità non è meno innocente della calcolata manipolazione. Gli errori, le risposte non date, infine la decisione di rinviare la discussione del decreto sulla delega fiscale a dopo l’elezione del Capo dello Stato stanno insieme. E sono il prodotto di quel grumo di silenzio sulla trattativa del Nazareno.
Si potrebbe obiettare che i patti hanno bisogno di una zona di penombra. Il tutto pubblico non è più di successo del tutto segreto. Ricordiamo la trattativa in streaming tra il Pd di Pier Luigi Bersani e il M5S, all’indomani delle elezioni politiche. Quell’accordo in pubblico e il patto del Nazareno mettono, entrambi, la mediazione politica a rischio. Nel primo caso perché la trasparenza assoluta non lascia margini di trattativa, in quanto il do ut des su cui i patti si reggono deve rischiare il giudizio del pubblico delle due parti. Nel secondo per l’opposta ragione: siccome tutto deve restare segreto anche un brandello di notizia o un errore banale possono innescare la diffidenza che fa smottare il terreno sotto i piedi delle parti. Se il primo caso si appoggia su una visione distorta del pubblico che non distingue tra livello preparatorio e formale dell’accordo, il secondo prevede un sistema politico non liberale, nel quale nessuno ha il diritto di chiedere conto a chi domina la scena. Entrambe le circostanze mettono a repentaglio ciò che si propongono di realizzare. Si potrebbe dire che gli attori deragliano dal percorso o perché il sole li acceca o perché il buio non li fa vedere. Solo l’ombra consente la visione: il do ut des non può essere escluso a priori dunque, ma deve poter essere svelato. Deve essere decente e ragionevole, non impossibile da essere messo in pubblico. Deve poter essere chiaro.

Corriere 11.1.15
In Parlamento è scontro sulla mozione pro Palestina
di Massimo Rebotti


La mozione per il riconoscimento della Palestina è in calendario alla Camera per il 16 gennaio. Nelle ultime settimane diversi parlamenti (Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e, con maggiori polemiche, Francia e Parlamento europeo) hanno votato testi pro Palestina. Una discussione partita da lontano (nel 2012 l’assemblea dell’Onu ha riconosciuto la Palestina come «Stato osservatore») e che venerdì sarebbe toccata all’Italia. Una parte del Parlamento ritiene però che le stragi in Francia abbiano cambiato radicalmente il quadro. Forza Italia e Ncd hanno quindi chiesto al presidente della Camera Boldrini di rinviare: «Ragioni di opportunità politica». Il centrodestra, al posto del voto sulla Palestina, vorrebbe un dibattito con il premier Renzi sulle linee guida di politica estera del governo, proprio alla luce di quanto è successo a Parigi. Dietro a un apparente match sul calendario dei lavori c’è uno scontro politico che il senatore di FI Maurizio Gasparri esplicita così: «Parlare del riconoscimento della Palestina all’indomani della strage in Francia è una provocazione. I terroristi di Hamas sono assetati di sangue, alla pari degli sterminatori di Parigi». Risponde il capogruppo di Sel Arturo Scotto: «Si scordino il rinvio, la tragedia francese non c’entra nulla. Per quale motivo non si può discutere del diritto dei palestinesi di vivere in pace accanto a Israele nel proprio Stato?». Prima ancora che si inizi a discutere, la Palestina torna a dividere.

La Stampa 11.1.15
Il cinema come impegno civile
L’addio al regista che ha messo il dito nelle piaghe dell’Italia contemporanea. Per lui ogni film era una battaglia, da combattere a viso aperto
di Fulvia Caprara


Il piglio da condottiero, il tono deciso, i modi diretti e una curiosità insaziabile per il mondo e per i suoi abitanti. Francesco Rosi era così. Dai tempi dell’esordio, con La sfida, nel 1958, radiografia della camorra del tempo «praticata da piccoli boss locali su contadini taglieggiati» agli ultimi anni, inquinati dal dolore insuperabile per la morte della compagna Giancarla, ma anche rischiarati dai tributi, dagli omaggi, soprattutto dalla vicinanza e dall’affetto degli amici e dei colleghi che con lui dividevano la passione fondante della vita: «Il cinema è conoscenza - diceva Francesco Rosi, scomparso ieri nella sua casa romana -, un grande mezzo di comunicazione che permette di offrire testimonianze sulla realtà».
Nel nome di questa certezza, Rosi ha costruito il suo percorso di regista di fama internazionale, inventore di un cinema che ha fatto scuola, ma anche, e soprattutto, di testimone della storia d’Italia: «Dai miei film non vengono mai fuori celebrazioni di personalità deviate, ma piuttosto il quadro dei rapporti tormentati tra giustizia e illegalità». Una lente usata fin dall’inizio, dopo gli anni di scuola a Napoli, dopo la giovinezza divisa con Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli e Giorgio Napolitano, che e come lui s’interessava di teatro, dopo gli studi di giurisprudenza, dopo l’infanzia in epoca fascista : «Sono nato - raccontava a Giuseppe Tornatore - nel novembre del ’22, l’anno della marcia su Roma, lo stesso giorno in cui nacque Salvatore Giuliano. Bisognava portare la divisa da balilla, poi da avanguardista, una volta ero a un’adunata senza uniforme, si incazzarono, fui punito». Più tardi la ribellione diventò voglia di capire, di indagare, e con quella spinta Rosi iniziò a fare cinema, avventurandosi ogni volta sui territori più accidentati della realtà italiana.
Ogni film era una battaglia, da combattere a viso aperto, guardando in faccia gli eventuali pericoli. Nel 1962, per girare Salvatore Giuliano, s’immerse nell’universo torbido di Cosa Nostra, conobbe Leonardo Sciascia, e poi i cittadini di Montelepre convincendoli a recitare scene cui avevano preso parte nella vita reale: «Ho descritto i criminali senza il gusto dell’avventura e del personaggio che invece oggi è tanto diffuso. Giuliano l’ho visto da morto e da lontano, inserendolo nel contesto delle sue azioni, evitando accuratamente di farlo diventare un mito».
L’anno dopo, a Napoli, per Le mani sulla città, Rosi studia i verbali delle riunioni del Consiglio Comunale scosse dagli scontri fra sinistra e destra monarchica. Al centro del film, da una parte il costruttore Nottola interpretato da Rod Steiger, dall’altra il consigliere comunista Carlo Fermariello, grandi occhi azzurri, fama di tombeur de femmes, per la prima volta davanti alla macchina da presa in un ruolo che rifletteva la sua vita. Prima di lui era stato preso in considerazione Antonio Caldoro, (padre di Stefano Caldoro attuale, governatore della regione Campania), ma Fermariello alla fine fu la scelta migliore: «L’avevo conosciuto, mi era parso che continuasse a esprimere con passione e con tenacia l’impegno e le preoccupazioni che, prima di lui, erano appartenuti all’ingegnere e architetto Luigi Cosenza. Mostrare quei personaggi serviva a innescare la discussione concreta, fattiva su quei conflitti». Alla Mostra di Venezia, quando il film vinse il Leone d’oro, attribuito all’unanimità, si scatenarono reazioni infuocate: «Signore e signori della buona società veneziana vennero alla proiezione portandosi le chiavi dei loro palazzi affacciati sulla laguna. Erano chiavi fatte a tubo, con un foro, perfette per fischiare. E per quello furono usate».
Proteste, contrasti, minacce e anche difficoltà pratiche di realizzazione dei film si trasformavano, nelle mani del Maestro, in materia creativa, stimolo a fare meglio e di più. Successe con Il caso Mattei e con Lucky Luciano: «Sai com’è - commentava con Tornatore -, quando c’è l’ombra della mafia tutto si complica, no?». E con Cronaca di una morte annunciata, girato a Cartagena de Indias, nel luglio dell’86, tra continui temporali che imponevano pause alle riprese, su un set pieno di comparse (tra le altre anche la figlia Carolina), con i protagonisti Rupert Everett e Ornella Muti afflitti dal caldo umido. Su tutti Francesco Rosi, fascia rossa intorno alla testa, regnava con elegante autorità, voce stentorea, senso pratico tipicamente partenopeo. Caratteristiche mai perse, anche quando, tanti anni dopo, confessava lo smarrimento doloroso dell’essere rimasto vedovo, oppure constatava, senza giri di parole, il peso inevitabile degli anni: «Ho un’età molto rispettabile - rispondeva alla domanda su un eventuale prossimo lavoro .- Le cose bisogna farle quando si è sicuri di poterle affrontare e portare avanti».
Francesco Rosi ci è riuscito, fino alla fine, seguendo la voce della sua coscienza civile, il suo impulso di uomo libero, assetato di verità.

Corriere 11.1.15
Rosi
Addio al regista dell’impegno civile. Diceva: il cinema è realtà
di Paolo Mereghetti


I film? «Mi piace vederli al cinema, in una sala di proiezione col pubblico. Voglio sentire la reazione della gente, capire se è diversa dalla mia. Il cinematografo è un miracolo, un grande sostegno per l’affermazione della democrazia. […] Perché il cinematografo sa sempre mostrarti la verità dei comportamenti».
Sono risposte di Francesco Rosi a Giuseppe Tornatore per quello straordinario libro-conversazione che è Io lo chiamo cinematografo (Mondadori) e vi si può leggere l’amore e l’entusiasmo che non ha mai abbandonato il regista, morto ieri a Roma a 92 anni (era nato a Napoli il 15 novembre 1922).
In quelle affermazioni c’è la passione civile che ha fatto di Rosi il più importante (e il più bravo) dei registi «politici» italiani, ma c’è anche la passione cinefila che l’aveva spinto, poco tempo fa, a dare il proprio sostegno ai ragazzi che lottavano per tener aperto il cinema America. «Puoi usare il cinema come vuoi — diceva ancora a Tornatore — ma è difficile che il cinema tradisca la realtà». Ed è proprio nel rispetto di quella «realtà» che è nato e cresciuto il suo cinema e che Rosi ha firmato i suoi capolavori.
Avvocato mancato, anonima comparsa per il cinema e per la rivista, disegnatore senza lavoro, trovò la sua strada grazie a Visconti che lo chiamò sul set di La terra trema e poi per collaborare alla sceneggiatura di Bellissima . Assistente di Emmer, Matarazzo, Giannini, Antonioni e Monicelli, esordì nella regia nel 1958 con La sfida , rielaborazione di un fatto di cronaca (l’ascesa e la caduta di un trafficante di sigarette nei mercati generali di Napoli) dove la lezione neorealistica si intreccia a quella del cinema americano. Anche in I magliari (1959) ritroviamo la lotta tra il vecchio boss e il nuovo arrivato in una Germania di piccoli e grandi truffatori, ma è con i due film successivi che Rosi modificherà radicalmente il modo di fare cinema politico in Italia. E non solo. Il primo è Salvatore Giuliano (1961, Orso d’argento a Berlino): le gesta del bandito e la sua misteriosa uccisione sono scomposti e ricostruiti attraverso una lunga serie di flashback dove finzione e documentario si fondono magistralmente. Il nodo economico-politico che ha portato all’affermazione della mafia viene presentato con grande chiarezza e in modo cinematograficamente esemplare. La stessa esemplarità all’origine di Le mani sulla città (1963, Leone d’oro a Venezia), dove un caso inventato di speculazione edilizia a Napoli gli serve per mostrare i compromessi del potere economico e politico (ancora una volta) e come si adatti ai cambiamenti della città. Scavare nel reale — della Storia, della Cronaca, della Politica — sarà sempre il faro che illuminerà il suo cammino di regista, sia nei film più liberi e fantasiosi, come Il momento della verità (1965, un povero andaluso cerca il riscatto nella tauromachia), C’era una volta… (1967, una favola ispirata a Basile, sulla furbizia popolaresca) o Carmen (1984, dove l’opera di Bizet è riletta in un rigoroso verismo), sia in quelli più impegnati e «militanti», come Uomini contro (1970, da Lussu, sulla prima guerra mondiale), Il caso Mattei (1972, sulla morte del padre dell’Eni), Lucky Luciano (1973, sulla carriera del boss mafioso), C adaveri eccellenti (1976, sulle trame degli anni di piombo), Cristo si è fermato a Eboli (1979, dal romanzo di Carlo Levi) o Tre fratelli (1981, sui destini di tre italiani variamente «impegnati». Per me il suo vero, struggente canto del cigno).
Tutte opere, per usare le parole di un grande esegeta di Rosi, il francese Michel Ciment, dove le «risposte contengono ulteriori domande, in una spirale infinita che viene svelata da film taglienti come una lama d’acciaio, duri e nello stesso tempo brillanti». Gli ultimi film — Cronaca di una morte annunciata , 1987; Dimenticare Palermo , 1990 e La tregua , 1997 — non ritrovano la forza delle opere precedenti ma non inficiano minimamente un’opera di grandissimo livello, capace di «rappresentare la vita e i personaggi in un contesto sociale e politico», come disse lo stesso Rosi, «sperando così di aiutare il pubblico a conoscere la realtà del nostro Paese». Beh, possiamo proprio dire che l’ha fatto, e di questo gliene saremo sempre grati.

Corriere 11.1.15
Noi, i sogni e quello sguardo sulla democrazia ammalata
di Raffaele La Capria


Ultimamente Franco Rosi ed io ci telefonavamo tutti i giorni, lui stava male e il suo male era uno di quelli tenaci, che non perdonano. Non so quanto ne fosse consapevole, ma mi diceva sempre, con una specie di distaccata rassegnazione: è duro da sopportare, ci vuole pazienza, molta pazienza. Ha pazientato, poi ha mollato. Quando andavo a trovarlo, per distrarlo gli parlavo sempre dei suoi film che erano la sua vita, anzi erano quelli cui aveva affidato la sua sopravvivenza, perché sapeva di aver fatto dei film che avevano un posto importante nella storia del cinema. Avevamo lavorato insieme in molti film lui ed io, avevo partecipato alla sceneggiatura di Le mani sulla città , di Cristo si è fermato a Eboli , di Uomini contro , di C’era una volta , la nostra è stata non solo un’amicizia di sentimenti ma anche di lavoro, durata circa ottant’anni, da quando ragazzini ci tuffavamo nelle acque di Posillipo, poi a scuola nello stesso liceo dove studiavano Chinchino Compagna, Peppino Patroni Griffi, Giorgio Napolitano, Antonio Ghirelli, e a Roma dove arrivammo coi nostri sogni e le nostre ambizioni, e col tempo avemmo anche molte soddisfazioni. Franco riuscì a fare i suoi bellissimi film, Peppino diventò un commediografo di successo, Antonio Ghirelli si affermò come storico e grande giornalista sportivo, e Giorgio Napolitano diventò addirittura presidente della Repubblica. Non ci possiamo lamentare se si pensa a come eravamo partiti da Napoli, con pochi soldi e senza nessuna protezione.
Ma tra gli amici quello cui sono stato più vicino, anche per temperamento, è stato Franco, e oggi che non c’è più mi sembra che se ne sia andata anche una parte di me. Quante cose abbiamo fatto insieme! Non solo i film, ma anche i viaggi per i sopralluoghi. E come fu bella la sera in cui a Venezia andammo a ritirare il Leone d’oro per il film Le mani sulla città ! Franco ed io apparimmo sui giornali sotto il titolo: I leoni di Napoli. Chi lo avrebbe immaginato. Ma non solo vivemmo insieme i momenti belli della vita, anche quelli tragici, terribili, ci videro vicini. Quando morì la figlioletta di Franco in un incidente d’auto. O quando l’amata moglie Giancarla finì con la vestaglia in fiamme nella sua stanza. Molto dolore ha invaso la vita di Franco, la sua grande consolazione è stata la figlia Carolina, lei è stata il suo sostegno. Ma ora vorrei dire due parole sui film di Franco. Sono film che dopo il neorealismo introducono una nuova forma di realismo più critico e meno sentimentale, fatto di passione civile e analisi sociale, e con una struttura narrativa più complessa. Col tempo mi sono accorto che quasi tutti i suoi film presentano una storia puntualmente documentata ( Salvatore Giuliano , Il caso Mattei , Lucky Luciano ) piena di intrecci e connessioni di cui non si viene a capo. Sono tutti casi accaduti sotto gli occhi di tutti e non risolti. Tutti casi in cui sembra di intravvedere la verità o il colpevole, li si sfiora, senza mai poterli veramente incastrare. Cosa c’è di più italiano di questa situazione.
Più che un cinema politico, quello di Rosi è il cinema della democrazia ammalata che non è riuscita mai a scoprire gli autori delle stragi e dei delitti, né a chiarirne le motivazioni o le cause. Questa particolarità dei filmi di Rosi fa sì che la loro forma espressiva e la costruzione siano anch’essi in funzione di questa impossibilità di venire a capo dei fatti; la loro struttura rassomiglia a un mosaico in cui le tessere scomposte lasciano soltanto intravedere la figura nascosta e dove l’apparente disordine però produce nello spettatore il tentativo di ricomporlo, di legare i fatti, il desiderio di afferrare quella verità che il film mette sotto gli occhi e che riproduce fedelmente la realtà di questi anni. Così i film di Rosi ci trasmettono lo smarrimento tragico che attanaglia la coscienza civile di tanti italiani, ma anche la volontà, la lucida determinazione di vigilare per superarlo.

Corriere La Lettura 11.1.15
Basta attese. Il desiderio è sempre più breve
di Carlo Bordoni


Desiderare, nell’etimologia latina, significa «avvertire l’assenza delle stelle» e, dunque, sentire la mancanza di qualcosa. Un vuoto interiore che spinge a immaginare la soddisfazione e che, per Marc Augé, è produttore di futuro: l’ homo desiderans è vitale, ha un progetto e vuole realizzarlo. Se il desiderio insoddisfatto del giovane Werther, preso dalla passione per la bella Lotte, si strugge nell’attesa frustrata e può persino uccidere, oggi, lontani dallo spirito romantico di Goethe, siamo noi a uccidere il desiderio, dominando con la razionalità e le leggi di mercato la sua forza dirompente. Ma così facendo distruggiamo anche il futuro, di cui il desiderio è una forma di costruzione: riducendolo a poca cosa, confondendolo con la semplice «voglia» da soddisfare nell’immediatezza offerta dalla società dei consumi, pronta ad accogliere ogni richiesta o addirittura anticiparla.
Ora i desideri sono brevi, cancellati dal miraggio di una gratificazione perenne. Deformati, manovrati, fatti nascere artificialmente all’ingresso dei centri commerciali e spenti opportunamente al passaggio dalle casse. Per la società della produttività, volta al progresso, vigeva il principio etico segnalato da Max Weber del «rinvio della gratificazione», dell’esaltazione dello spirito di sacrificio e della sopportazione della fatica in vista di un beneficio futuro. La durata era un valore e il rinvio della gratificazione alla base della formazione del desiderio.
Invece nella società consumista si assiste a un rovesciamento dei valori, l’attesa è avvertita come esasperante e insopportabile; il transitorio sostituisce il durevole; indipendentemente dalla crisi economica in atto e dalla capacità di acquisto delle persone. Questo vale per gli oggetti materiali, ma anche per i rapporti umani. Sentimenti, passioni e amori risentono del desiderio breve, reso ineludibile dall’esigenza di una gratificazione immediata, da ottenere in fretta, magari liberandosi di una relazione per paura di perdere l’occasione di sperimentarne un’altra, più intrigante. Tolto il tempo d’attesa, di corteggiamento, tutto è bruciato nella ricerca di un’opportunità che sta dietro l’angolo e deve essere colta subito. Eliminare l’attesa dal desiderio produce instabilità sociale e pesa sulla durata delle relazioni, rendendole transitorie.
L’abbreviazione del desiderio spegne anche l’immaginazione che l’attesa ha creato. Privato dei sogni e preoccupato solo di ciò che può avere subito, l’ homo consumans , che ha sostituito l’ homo desiderans , vive solo nel presente. Ma la soddisfazione immediata è destinata a essere sterile. Svanisce un attimo dopo aver appagato la voglia. Si traduce in insoddisfazione, poiché la vera soddisfazione non sta nel raggiungimento dell’oggetto del desiderio, ma nel desiderio stesso: in quell’infinito, straziante tempo trascorso nella ricerca della felicità.

Corriere La Lettura 11.1.15
La cultura si mangia e fa tanto bene. Ai conti
di Paolo Conti


Raramente uno slogan coniato dalla politica si è rivelato più falso, fuorviante e avulso dalla concreta realtà economica del nostro Paese. L’idea che «con la cultura non si mangia» non solo è lontana dalla verità ma nega il nucleo più vitale e maggiormente rivolto al futuro della nostra imprenditoria. La recente ricerca Io sono cultura. L’Italia della qualità e della bellezza , realizzata da Symbola, la Fondazione per le qualità italiane, con Unioncamere in collaborazione con la Regione Marche dimostra il contrario.
Prendiamo le quote di turismo. Nel Nord-Est l’8,6% del flusso turistico ha una motivazione culturale, nel Nord-Ovest è dell’11,6%, al Centro siamo a quota 21,6% e al Sud al 14,8%. È chiaro che nel peso del Centro c’è Roma, con tutto ciò che rappresenta (prima tra tutte la presenza della Santa Sede, con Papa Bergoglio formidabile catalizzatore mediatico). Ma sono cifre importantissime. Prendiamo il caso dei turisti giapponesi: il 68,8% dei loro arrivi ha una motivazione culturale (proprio dal Paese che, nel dopoguerra, puntò tutto sulla tecnologia).
Altre cifre. Il sistema produttivo culturale vale 80 miliardi di euro (tra non profit e pubblica amministrazione), denaro che riesce ad attivare — si legge nella ricerca — 134 miliardi di euro arrivando così a costituire una filiera culturale, in senso lato, di 214 miliardi di euro. E così il sistema produttivo culturale passa dal 5,7%, come incidenza, al 5,3% , considerando l’intera filiera del resto dell’economia attivata. Insomma, con la cultura si mangia: e come. Ne sanno qualcosa i 289 mila occupati in Lombardia nel settore, i 160 mila del Lazio e del Veneto (cifre identiche), i 107 mila in Toscana, i 60 mila della Sicilia, così come lo sanno rispettivamente le 84.495 imprese culturali della Lombardia, le 53.482 del Lazio e le 38.136 del Veneto, le 34.729 della Toscana e le 26.828 della Sicilia. Interessante sottolineare come il settore dell’architettura piloti con il 34,1% l’intero settore delle imprese culturali nel comparto creativo, mentre l’audiovisivo si ferma ad appena il 2,7% e i videogiochi-software sono a quota 10,2%, superati (incredibilmente ancora) dal comparto libri e stampa, all’11,2%.
Nella ricerca si legge anche che, nonostante il clima recessivo, l’export legato alla cultura durante la crisi è cresciuto del 35%: era di 30,7 miliardi nel 2009, nel 2013 è arrivato a 41,6 miliardi, totalizzando il 10,7% di tutte le vendite oltre confine delle nostre imprese. Prima di inventare un altro slogan-scorciatoia sulla cultura, studiare le carte e le cifre.

Corriere La Lettura 11.1.15
Scienza e filosofia a confronto Facciamo pace con il caso
La smania di prevedere e calcolare non ci aiuta ad affrontare il futuro
di Donatella Di Cesare


Circa due terzi dei tumori non sarebbero riconducibili né alle predisposizioni ereditarie né ai fattori ambientali né, tanto meno, allo stile di vita. Lo sostengono, sulla prestigiosa rivista «Science», il genetista Bert Vogelstein e il matematico Cristian Tomasetti. Il risultato della ricerca, condotta sulla base di modelli molto complessi, culmina in due parole relativamente ordinarie: bad luck , cattiva sorte. Il cancro sarebbe, dunque, in gran parte questione di sfortuna.
La notizia ha suscitato sconcerto e persino sdegno. A irritare non è solo lo scarto tra la complessità dei mezzi impiegati e l’apparente banalità dell’esito. Piuttosto è lo spazio che in tal modo la ricerca scientifica concede a un concetto nebuloso come il «caso».
Che la guerra contro il cancro debba subire una battuta d’arresto? E per di più sotto i colpi del caso? Non ne viene allora minata la nostra fede incrollabile nella scienza? Dovremmo ammettere di esserci sbagliati confidando, per il nostro futuro, nei calcoli e nelle previsioni della medicina?
Negli ultimi decenni siamo stati portati a considerare normali quei progressi straordinari che hanno modificato, più di quanto non si immagini, il nostro rapporto con la vita. I limiti sono saltati, le frontiere sono state spostate o addirittura rimosse. Sono cambiati genesi, qualità, durata ed esito della vita. Le aspirazioni più recondite, i desideri più inesaudibili sono diventati realtà: avere figli quando prima non era possibile, guarire da malattie congenite, sconfiggere morbi virulenti. Il prolungamento della vita ha modificato la comprensione che ciascuno ha di sé.
Siamo stati presi dall’euforia vertiginosa dell’illimitato. Quel che prima era dettato dalle dure leggi della necessità, o inscritto nella imperscrutabile volontà di Dio, è divenuto risultato di una scelta. In breve: siamo stati educati alla cultura dell’antidestino.
Come potremmo accettare allora che il cancro dipenda in gran parte dal «caso»? E che cosa significa questo termine, che ci si attenderebbe semmai da un filosofo, non da uno scienziato?
Caso, connesso con il verbo cadere, è quel che cade, o meglio, quel che accade — è un evento che sopraggiunge, senza che ci sia una causa evidente, prevista o prevedibile, a provocarlo. L’uso del termine deriva dal gioco dei dadi. Il caso è la sorte che tocca a ognuno nel grande gioco della vita. Ma sono stati gli antichi Greci a riflettere sul concetto — non solo nell’ambito della filosofia. Proprio i primi medici si sono interrogati sulla possibilità di ricorrere alla parola túche , sorte. In uno scritto attribuito a Ippocrate, il fondatore della medicina scientifica, è detto che «caso è un mero nome, non ha sostanza, non significa nulla». Se la malattia è vista sin dall’inizio come un caso, che disturba il normale fluire della salute, e si manifesta attraverso i sintomi, la medicina prende tuttavia le distanze da un termine che appare sospetto.
Che cosa sarebbe il caso altro che un concetto-limite? Che cosa indicherebbe, se non l’ammissione della propria ignoranza? Non conoscere le cause della malattia, non saperne fornire una spiegazione, non autorizza, per i medici greci, a parlare di «caso». Bad luck , la formula usata dai ricercatori americani, verrebbe dunque bollata probabilmente dai medici greci come non scientifica.
I filosofi sono stati ben più indulgenti. Pur interpretando il caso in modi diversi, lo hanno accolto come parte integrante della vita. Non lo hanno respinto al limite, come quell’ignoto che resta ancora da spiegare. Hanno discusso intorno alle differenze tra sorte, fortuna, provvidenza, a seconda delle loro convinzioni e del loro credo, ma non hanno mai smesso di interrogarsi sul ruolo che il caso può svolgere non solo per la felicità umana, ma anche nelle alterne vicende della storia. Questo non vuol dire diventare fatalisti. «Nessun vincitore crede al caso», scrive Friedrich Nietzsche. E poi che ne sarebbe della libertà? E della responsabilità?
Non si può, dunque, pretendere di eliminare, dalla vita umana e dalla storia, l’imprevisto e l’imprevedibile. Cogliere il momento giusto, assecondare il caso, rimettersi all’incalcolabile, in un difficile equilibrio tra agire e attendere, costituisce la saggezza del vivere. Perciò i filosofi, anche nei tempi più recenti, hanno lanciato un monito contro il ricorso ai calcoli razionali che non di rado si rivelano ingannevoli.
Il monito è rivolto anche agli scienziati, sebbene nella scienza le cose stiano diversamente. Perché il caso viene visto come un singolo fenomeno che devia dalla legge e ne richiede una correzione. Per gli scienziati il caso, che emerge nell’applicazione pratica, rappresenta il compito ulteriore della loro ricerca, quel limite che devono ambire a superare. Sta qui il progresso della scienza: nella sua costante capacità di rettifica che ne incrementa la attendibilità. Si capisce allora perché, quando si imbatte nell’inatteso, il ricercatore miri non solo a ricondurlo ai canoni scientifici, ma anche a prevederlo. Gioca insomma d’anticipo, con statistiche e calcoli della probabilità. Dopo gli eventi traumatici che il genere umano ha sperimentato negli ultimi decenni, la previsione sembra ormai far parte della responsabilità che il ricercatore si assume verso il mondo.
Che cosa non si tenta oggi di prevedere? Dagli eventi atmosferici all’andamento della Borsa valori, dagli sviluppi demografici ai sondaggi d’opinione. L’uso smodato di misurazioni e calcoli è tuttavia la spia di un atteggiamento che, dalla scienza, si è andato pericolosamente diffondendo nella vita. Il che ha non solo reso sempre più difficile accettare l’imprevisto, ma ha danneggiato il nostro rapporto con il futuro.
Nell’ambito della medicina la questione è ancor più complessa. Come ha scritto il filosofo Hans Jonas, «la medicina è una scienza, ma la professione medica è l’esercizio di un’arte». Si tratta di un’arte che non produce nulla e contribuisce piuttosto a guarire, cioè a ristabilire l’equilibrio del paziente — non senza la partecipazione di quest’ultimo, chiamato alla cura attiva di sé.
Il «caso» di un paziente non è soltanto il singolo caso di una legge generale; è anche, e soprattutto, la caduta del malato, l’estromissione da quei rapporti in cui si svolgeva la sua vita, il suo dolore, non solo fisico, l’imprevisto mutare della sua esistenza. Ogni caso è individuale, ogni trattamento è specifico, ogni cura, se deve avere buon esito, non può che nascere da un incontro e, anzi, da un dialogo tra medico e paziente. È riduttivo vedere nella medicina una scienza come un’altra e nel medico un semplice esperto. Nulla, inoltre, dovrebbe essere affidato semplicemente a un esperto — tanto meno l’equilibrio della propria vita.
Sotto questo aspetto la conclusione a cui sono giunti Vogelstein e Tomasetti, per quanto controcorrente, non è poi così scioccante. Guardando alle cellule staminali, che nel dividersi, per sostituire quelle vecchie, danno luogo a mutazioni genetiche, a «errori del Dna», i due ricercatori hanno considerato il ruolo della cattiva sorte accanto ai fattori ambientali e ereditari. I tessuti di alcuni organi — cervello, tiroide, polmone, fegato, pancreas, e così via — si dividono con una certa frequenza. Che cosa guida l’andamento della divisione? Spesso solo il caso.
Questo è forse un parlare da filosofi, o meglio, da scienziati che desiderano indicare il limite in cui si scontra la ricerca. Non c’è traccia, però, di un vuoto fatalismo. Tanto più che Vogelstein e Tomasetti, oltre a ricordare il valore della prevenzione, del corretto stile di vita, la necessità di condizioni ambientali favorevoli, hanno sottolineato l’importanza della diagnosi precoce.
Ma prevenire non vuol dire prevedere né, tanto meno, sconfiggere il tumore. Purtroppo, accanto ai progressi della scienza, si deve constatare non di rado un regredire nella cura della salute. Sapere che la medicina non è onnipotente, che l’imprevisto è sempre in gioco, può semmai indurci a scegliere per la nostra vita quel che è giusto. E può forse spingerci a mutare atteggiamento verso l’inatteso, verso il caso, anche quello della malattia o — come si dice in italiano — del cadere malati.
Del nostro corpo siamo responsabili, non padroni. Lo prova il fatto che, a nostra insaputa, le cellule errano nel dividersi. Lottare per vivere più a lungo — e in modo degno! — non dovrebbe mai far dimenticare che, alla fin fine, della vita siamo ospiti. Rischioso non è accettare ragionevolmente il caso, bensì pretendere di decidere tutto, mantenendo un controllo che di fatto ci sfugge.
La sfida prometeica lanciata quotidianamente contro il caso nasconde a stento un malessere profondo. Non riusciamo più a immaginare un futuro condiviso; non riusciamo più a proiettarci in un dopo di noi, che sia quello di un aldilà religioso, di una storia del mondo che riscatterà il passato, delle generazioni che ci seguiranno. Si prolunga la vita, ma si contraggono le aspettative di ciascuno nell’arco breve della propria esistenza fisica. E così, mentre il presente sembra l’unico tempo in cui troviamo rifugio, il corpo diventa il solo terreno del nostro io, un terreno che tentiamo di coltivare intensamente, ciascuno per sé, e forse anche contro gli altri, mentre è irrimediabilmente friabile e caduco. Anziché aumentare le nostre capacità di previsione, dovremmo allora forse riflettere con più consapevolezza sul caso e sulla caducità.

Corriere La Lettura 11.1.15
Eventi fortuiti salvarono Hitler e Federico II
di Antonio Carioti


Uno che se ne intendeva, Niccolò Machiavelli, riteneva «potere essere vero che la fortuna sia arbitra di metà delle azioni nostre». E in effetti nella storia non è raro che eventi anche di enorme portata siano condizionati da eventi casuali. Un esempio macroscopico, di cui si è parlato parecchio lo scorso anno per via del centenario, è l’attentato di Sarajevo. Quel 28 giugno 1914 il tentativo di uccidere l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo era in un primo tempo fallito e fu solo il fortuito errore di percorso compiuto in seguito dal suo autista, con la conseguente necessità di fermarsi per cambiare strada, che mise l’erede al trono di Austria-Ungheria e la moglie alla comoda portata della pistola impugnata dall’attentatore serbo Gavrilo Princip.
Oltre agli attentati riusciti per caso, ci sono anche quelli falliti per mera combinazione. Hitler se la cavò due volte in circostanze del genere: e se la congiura del 20 luglio 1944 giunse quando ormai la guerra era entrata nella sua fase finale, ben diversa era la situazione l’8 novembre 1939, a conflitto appena cominciato, quando il Führer scampò per un pelo alla bomba collocata da Georg Elser nella birreria di Monaco di Baviera dove era in corso una cerimonia celebrativa. Hitler uscì dal locale pochi minuti prima dello scoppio perché le previsioni metereologiche avverse lo avevano indotto a tornare a Berlino in treno anziché in aereo. In altre occasioni le condizioni atmosferiche hanno influenzato il corso della storia. Violenti tifoni furono determinanti nel mandare all’aria i due tentativi dell’imperatore mongolo Kublai Khan, signore della Cina, di invadere il Giappone, nel 1274 e nel 1281: tra l’altro nasce da quella vicenda il termine kamikaze , ossia «vento divino», che poi fu adottato per i piloti suicidi della Seconda guerra mondiale. Anche alcuni progetti d’invasione della Gran Bretagna vennero compromessi dalle tempeste: la Invincibile Armata del re di Spagna Filippo II, nel 1588, venne prima respinta dalle navi inglesi, ma poi distrutta dalla furia delle onde.
Fu invece la pioggia, che era caduta abbondantemente nelle ore precedenti, a ritardare l’assalto dei francesi contro gli inglesi a Waterloo rispetto ai piani di Napoleone, il 18 giugno 1815, con conseguenze fatali sull’esito della battaglia, che venne vinta da Wellington grazie al soccorso prussiano. Per tornare a Machiavelli, il segretario fiorentino era convinto che la coincidenza tra una temporanea malattia di Cesare Borgia e la morte di suo padre, il Papa Alessandro VI, fosse stata decisiva nel provocarne la rovina. Di certo un fattore del tutto contingente come la salute dei potenti influenza non poco le vicende storiche: viene da domandarsi quali altre gesta avrebbe compiuto Alessandro Magno, se non fosse scomparso a soli 33 anni, oppure che sorte avrebbe avuto Atene se il suo leader carismatico Pericle non fosse perito di peste all’inizio della guerra del Peloponneso. Di certo il re di Prussia Federico II il Grande se la sarebbe vista brutta se il 5 gennaio 1762, in piena guerra dei Sette anni, non fosse morta la zarina di Russia Elisabetta I, il cui successore Paolo III concluse con lui la pace separata che gli consentì di riprendere fiato nella lotta ad austriaci e francesi, evitando una disfatta che sembrava segnata.

Repubblica 11.1.15
Le verità nascoste nelle false leggende
Lo studio di Maurizio Bettini e William Short è un viaggio nella cultura dell’antichità
Alla ricerca di quei miti “più veri del vero”
di Marino Niola


GLI antropologi sono sempre alla ricerca di mondi lontani. In certi casi nello spazio, in altri nel tempo. A migliaia di chilometri o migliaia di anni. In entrambi i casi si tratta di un viaggio. La differenza è che risalire il corso dei secoli è più difficile che attraversare i mari. La posta in gioco, ardua ma esaltante, è la conoscenza antropologica degli antichi. E per riuscire nell’impresa è necessario saper navigare tra le correnti del tempo senza andare fuori rotta. A dirlo è Maurizio Bettini in un bellissimo libro curato insieme a William M. Short e appena apparso per i tipi del Mulino. Titolo, Con i Romani.
Un’antropologia della cultura antica (pagg. 439, Euro 30).
Certo che studiare sul campo la civiltà Romana, come Lévi-Strauss ha fatto con i Nambikwara del Mato Grosso, è un’impresa da far tremare le vene e i polsi. Eppure seguendo le piste indicate dai due curatori del volume e dalla loro équipe, composta da fior di classicisti, si capisce che l’obiettivo non è irrealizzabile. Bisogna però evitare di guardare il passato con gli occhi del presente e cercare di guadagnare un punto di vista lontano, proprio come fanno i bravi etnologi quando si sforzano di tradurre le parole dei loro informatori indigeni senza tradirne lo spirito. E nel caso della cultura romana gli “informatori” indigeni hanno lasciato un numero impressionante di testimonianze scritte. Sono i poeti, i giuristi, i letterati, i filosofi e gli storici che hanno rappresentato se stessi utilizzando codici linguistici, retorici e stilistici che già di per sé illuminano aspetti profondi della Roma antica. Perché solo decostruendo le parole e i concetti che si può penetrare il vero senso di usi e costumi, categorie mentali e religiose, passioni e superstizioni, totem e tabù. L’importante è la- sciarsi guidare da Virgilio e Cicerone, da Varrone e da Plinio, da Tito Livio e da Ovidio senza sovrapporre le nostre ragioni di moderni alle risposte già contenute in quella che Nietzsche chiamava la parola del passato. Che è come un Graal, in attesa della domanda ben posta. E un perfetto esempio di domanda ben posta lo offre Maurizio Bettini quando interroga il ruolo del mito nella storia politica e sociale dell’Impero. Senza attardarsi su questioni come la verità o la falsità di quelle narrazioni, che i Romani definivano fabulae, l’autore ci fa scoprire, da vero antropologo, la profonda verità sociale di racconti che in sé non sono veri. Come la favola, diffusa nella letteratura e nella storiografia latina, secondo cui a fondare Alba Longa sarebbe stato Iulo, figlio di Enea e antenato di Romolo e Remo. Che si spiega con il desiderio di Augusto di legittimare il suo potere, proprio attraverso l’appartenenza alla gens Iulia e la presunta discendenza da quel mitico progenitore. Assolutamente immaginario e al tempo stesso assolutamente reale. Come dire che non è vero quel che il mito dice, ma è ben vero quel che il mito fa. Cioè produrre quell’effetto speciale che si chiama realtà.
CON I ROMANI a cura di Maurizio Bettini e William M. Short, IL MULINO, PAGG . 439 EURO 30

Il Sole Domenica 11.1.15
Walter Benjamin (1892-1940)
Una vita vissuta nel dettaglio
Un'ottima biografia del pensatore tedesco uscita negli Stati Uniti, il Paese che più di tutti ha alimentato l'interesse per lui
di Nicola Gardini


Chi è Walter Benjamin? Foucaultianamente lo si potrebbe definire un "auteur", cioè uno che ha messo in circolazione idee e modelli culturali, "discours", e che sarebbe sbagliato identificare con un individuo biologico, uno come Freud e Marx, insomma, o, certo, lo stesso Foucault, o il nostro Gramsci. E questo è tanto vero che certi manco sanno pronunciare il suo nome, come se appunto lo si identificasse più propriamente con quello che ha lasciato detto, e neanche tutto, qualche formula memorabile, come «l'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica» e «il compito del traduttore», che di Benjamin, comunque si pronunci, hanno fatto un'icona della modernità e un mostro sacro dei "graduate studies".
La domanda, però, andrebbe posta anche al passato, perché non c'è "discours" senza mente e la mente ha le sue occasioni storiche, ricercate o prodotte dalle circostanze. Dunque, chi era Benjamin? Ebreo assimilato, amico di Adorno, di Scholem e di Hannah Arendt, nacque e visse lunghi anni a Berlino, cercò alternative alla metropoli a Capri e a Ibiza, finì esule a Parigi per sfuggire al nazismo e morì suicida nel 1940 in un paesino della Spagna, dalla quale sperava di prendere la via dell'America. Si uccise per paura di essere rispedito in bocca al nemico, e il giorno dopo i suoi compagni poterono varcare il confine e mettersi in salvo. Il suo corpo non si sa bene dove sia finito, e neanche il cruciale manoscritto che pare si portasse dietro durante l'ultima fuga.
Dedicò la sua vita alla critica, mischiando teologia e marxismo, filosofia e storia, teorie del linguaggio e poesia, e si occupò da pioniere di cultura mediatica. L'opera scritta è vastissima. Eccelse nel saggio e nella recensione, ma compose anche poesie, racconti di viaggio e resoconti autobiografici, in particolare uno, Infanzia berlinese, un piccolo capolavoro. Tradusse Baudelaire e Proust. La varietà dei suoi temi è impressionante: il giocattolo, il romanzo giallo, la letteratura francese e non solo, il dramma barocco tedesco, l'arte di Klee, la radio, la fotografia, la droga, Parigi... Su tutto mostrava uguale competenza, e tutto nelle sue mani si benjaminizzava, acquistando valore e densità, fino ad apparire complesso, a risaltare sul comune fondo di una cultura sempre più conformista, cui il suo stile teso e spesso difficile si contrapponeva di per sé con forza di oggetto inconquistabile. Lavorava contemporaneamente a più progetti, e il progetto è certamente la sua "forma" più tipica. I suoi capolavori sono libri mai compiuti, come quello sui passages di Parigi, di cui resta un monumentale abbozzo. Vista dall'alto, tanta opera disegna un paesaggio di approssimazioni, che non sono fallimenti, ma esempi di una nuova rinnovante vitalità e bellezza.
Benjamin insegna a guardare dove l'occhio e l'attenzione meno si provano, a riconoscere la salvezza di una totalità nel residuo, a trasmettere nonostante, anzi proprio in virtù della decurtazione e della costrizione. L'aneddoto vale per la storia; la traduzione per una lingua assoluta e comune. Quello che sembra perdita è sopravvivenza, nel dettaglio di una fotografia sta depositato un tempo.
Quando morì, pochi conoscevano il genio dell'uomo e l'importanza delle sue riflessioni. Oggi esiste una vera e propria industria benjaminiana.
Quasi tutto è edito e pubblicato in numerose lingue. In Italia Benjamin lo conosciamo soprattutto grazie all'editore Einaudi, che da decenni mette a disposizione i saggi fondamentali (ultimamente anche altri si sono dati da fare per averlo in catalogo, da Adelphi a Castelvecchi, che da poco ha pubblicato le trasmissioni radiofoniche). Ma della fortuna internazionale di Benjamin è principalmente responsabile l'America. E dall'America quest'anno è arrivata anche la biografia che mancava: Walter Benjamin. A Critical Life, uscita per Harvard University Press (da noi uscirà per Einaudi). Gli autori sono Howard Eiland e Michael W. Jennings, che per lo stesso editore curano anche le traduzioni dell'opera.
Questa biografia è un capolavoro. Schivando con eleganza qualunque mitologizzazione, ricostruisce passo passo il formarsi dell'opera e i movimenti, la personalità, i rapporti e le ambizioni del personaggio. Molte delle quasi settecento pagine complessive sono dedicate all'illustrazione del pensiero, mettendo in luce nessi tra momenti anche distanti. Il dosaggio tra cronaca, cronologia, commento e documentazione è perfetto.
Il racconto procede vario e sicuro, con chiarezza esemplare, senza gergalità, senza ingorgarsi di citazioni, con fede così integrale al rigore delle premesse filologiche che a lettura ultimata ci si sente consolati. Non era facile, dati i tanti piani dell'indagine.
Ma i piani qui si incastrano tutti a meraviglia, e se qualche fessura rimane, non si ricorre certo al sensazionalismo, al romanzesco, all'illazione psicanalitica, alla smorfia lirica, al giudizio morale, all'ingrandimento bozzettistico o all'osanna per riempirla.
Gli autori, d'altronde, non cedono mai neppure ad alcuna noiosa cautela, non sanno cos'è la freddezza, perché muovono da una conoscenza completa dei materiali e delle fonti (anche inedite, come certe splendide lettere) e dalla semplice consapevolezza di avere a che fare con uno degli intellettuali più alti del secolo passato. Il Benjamin che ci ridanno è il pensatore appassionato, lo scrittore dalle più scritture, il critico della modernità, ma anche il campione della più ermetica riservatezza, l'amico di molti talenti, l'uomo dall'andatura impacciata, l'amante quasi immateriale, il marito difficile, "el miserable", come venne soprannominato a Ibiza dalla gente per la sua aria infelice e malandata. Se un tema accomuna i momenti di una vita così fervida e inquieta sia mentalmente sia geograficamente è proprio il bisogno; e la depressione, le fantasie suicide, che finirono per vincere su qualunque ipotesi di futuro.
Howard Eiland e Michael W. Jennings, Walter Benjamin. A Critical Life, Harvard University Press, pagg. 768, $ 39,95

Il Sole Domenica 11.1.15
Saggezza antica
Neoplatonici, mi manda Porfirio
di Giulio Busi


Né in cielo né in terra, né in basso tra gli uomini né nello spazio cristallino dove albergano gli dei. Il destino dei demoni si consuma a mezz'aria. Non si può dire che siano di carne e ossa ma neppure impalpabili come gli esseri supremi. Di bere e mangiare non son capaci, oppure sì, di soppiatto, mentre nessuno guarda: respirano l'odore dell'incenso, e s'inebriano del vino delle libagioni, fanno crapula con gli avanzi dei sacrifici. E il sesso? È proprio vero che non fa per loro? Demoni puri e casti – beato chi ci crede! Di questi figuri era piena la cultura antica, una vera mania, un ingorgo demonico che riempiva i templi e i libri dei primi secoli dell'era volgare.
Almeno fino a quando i cristiani, vittoriosi in politica e nella società, ne buttarono a mare un bel po', o li diedero in pasto al loro capo, il demonio, che non ci si pensasse più. Prima delle purghe antidemoniche del IV-V secolo, anche gli occhi dei filosofi scrutavano febbrilmente il mondo di mezzo. Da lì, dalla sfera di forze invisibili che fanno da ponte tra l'umano e il divino, si pensava venissero consigli, previsioni, direttive circa la condotta che deve tenere il saggio. Su questo mondo degli intermediari incorporei, apparentemente lontano dalla mentalità moderna, si concentra il libro di Crystal Adley sulla divinazione e la teurgia neoplatoniche. Fior di pensatori – da Porfirio a Giamblico e a Proclo – hanno indagato quelli che potremmo chiamare i "quadri intermedi" della grande azienda del cosmo. L'uomo dell'età tardo antica era come ossessionato dalla continuità. Una catena ininterrotta legava cielo e terra, come un passamano, che faceva scendere dall'alto l'influsso superno, e salire dal basso preghiere e suppliche.
Più raffinati degli uomini anche se più grossolani e impacciati degli dei, i demoni facevano l'ufficio di traduttori e interpreti. A loro si rivolgeva spesso l'adepto dei misteri, o il sacerdote oracolare, affinché gli dessero ali e impulso per ascendere. Senza questa minuziosa gerarchia dell'invisibile non si capirebbe la stessa teurgia, ovvero il tentativo di imbrigliare le forze cosmiche attraverso l'uso di simboli e la recitazione di formule arcane. Pratiche che il mondo greco-romano non considerava affatto superstiziose o magiche in senso deteriore. La vera filosofia, credevano i neoplatonici, sa ascendere di grado in grado, e, dopo essersi avvalsa dei demoni, si libra fino alle soglie della luce incorruttibile. Certo, aver contatti col mondo di mezzo comportava rischi e tentazioni, e il pericolo di restare per via. Come quando si sale su una scala troppo ripida e si ha paura di scendere né ci si attenta a inerpicarsi ancora. Volete cavarvi da lì? Chiedete al demone di turno, e dite che vi manda Porfirio, il neoplatonico.
Crystal Addey, Divination and Theurgy in Neoplatonism: Oracles of the Gods, Ashgate Farnham, pagg. XV, 335, € 91,30

Il Sole Domenica 11.1.15
Suicidio assistito /1
Questioni di vita e di morte
In Italia si evita di discutere di eutanasia, ma le esperienze di altri Paesi possono essere un'utile guida
di Gilberto Corbellini


L'ultima volta che ho discusso di fine vita è stato con un amico malato terminale, che chiedeva informazioni e consigli. Per quelle che erano le sue attese, aveva aspettato troppo a parlarne. Forse non pensava che la malattia avrebbe avuto un'evoluzione così rapida, e solo ora ne parlava con moglie e amici, anche per un senso personale di riservatezza e resistenza psicologica. I comportamenti umani nelle fasi finali della vita sono variabili, ed è bene così. Di fronte a una situazione che precipitava, mi chiese anche di aiutarlo ad andare a morire in Svizzera. Dove il suicidio assistito è depenalizzato e vanno non pochi italiani, come l'intellettuale e politico Lucio Magri qualche anno fa. La mia risposta, che non c'era il tempo e avrebbe dovuto cercare di organizzarsi in qualche modo qui, lo preoccupava. E capiva che l'Italia è in ritardo su un fronte sanitario socialmente importante. Lo rassicurai che avrebbe trovato qualche eccellente hospice, dove si pratica una medicina palliativa di qualità e si aiutano le persone a morire senza soffrire, cercando di assecondare con senso pratico le diverse esigenze.
Ma come succede per tutte le cose italiane, la qualità non è lo standard di riferimento. Quindi, in assenza di un sistema di norme efficace esiste un significativo rischio, in alcuni contesti geografici e sociali, di finire la propria vita con sofferenze fisiche e psicologiche, o anche illegalmente, cioè con aiuti non trasparenti o nell'inganno e negli abusi qualificati come decisioni che si prendono in una sorta di "zona grigia".
L'Italia non riesce a produrre, come invece sta accadendo in altri Paesi democratici, una legislazione sulle cure di fine vita, che sia coerente con gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione, da cui discende che ogni cittadino ha un diritto inviolabile all'autodeterminazione, a non soffrire e a rifiutare trattamenti medici. Non si riesce nemmeno a discutere del tema, nonostante i richiami continui del Presidente della Repubblica e una recente proposta di legge per la legalizzazione dell'eutanasia presentata dal senatore Luigi Manconi a partire da una proposta elaborata dall'Associazione Luca Coscioni. Mentre è comprensibile che il Comitato Nazionale di Bioetica e le commissioni parlamentari evitino di trattare l'argomento, giacché le posizioni prevalenti sono contro l'opzione di una libera scelta individuale in merito a quando e come mettere fine alla propria vita, d'altro canto c'è il timore che succeda come per la legge sulla fecondazione assistita. Infatti, mentre nel Paese c'è una larga e qualificata maggioranza di cittadini favorevole a una legislazione sul "fine vita", che includa la legalizzazione del suicidio assistito e dell'eutanasia, in Parlamento questa posizione è minoritaria. Per cui si teme che il risultato finisca per essere una legge incostituzionale come quella sulla fecondazione assistita, che ha richiesto dieci anni per essere smantellata. Ovvero una legge come quella votata in senato nella precedente legislatura, che prevedeva delle direttive anticipate ridicole: non vincolanti e senza che i trattamenti medici di sostegno vitale fossero nella disponibilità del paziente che perde coscienza.
Dato il carattere eticamente controverso della materia, il Governo non ha intenzione di metterla in agenda. Il che è un peccato perché la sfera sanitaria delle cure di fine vita sarebbe in settore dove, lasciando più libertà di scelta ai pazienti e coinvolgendoli nelle decisioni, soprattutto anticipate, si potrebbero ottenere significativi risparmi di denaro pubblico e privato. La valutazione dei costi delle cure di fine vita e del loro contenimento, in Paesi dove già oggi i due terzi di chi muore ha più di 75 anni, è un tema destinato prima o poi a entrare in agenda.
Nel resto del mondo la discussione è più avanzata, e tutti i timori di chine scivolose paventati da chi difende l'indisponibilità della vita anche in condizioni di grave sofferenza, non hanno trovato alcuna conferma. Il suicidio medicalmente assistito è legale in Belgio, Olanda, Lussemburgo, Oregon, Montana, Washington, Vermont e nella provincia canadese del Québec, ed è depenalizzato in Svizzera. In quest'ultimo Paese operano diverse organizzazioni che favoriscono un flusso di stranieri, soprattutto tedeschi e italiani, che vogliono essere aiutati a interrompere una vita giudicata dolorosa e indesiderata. L'eutanasia è legale in Belgio, Olanda, Lussemburgo, Colombia e dal giugno 2014 in Québec. In Olanda e Belgio è legale l'eutanasia dei minorenni che lo chiedono, quando soffrono di una malattia terminale e c'è l'accordo dei genitori. La Francia consente, con la legge Leonetti del 2005, le direttive anticipate e il diritto di rifiutare ogni trattamento medico (incluse idratazione e nutrizione artificiali), e il Parlamento sta per autorizzare la sedazione palliativa o terminale se il paziente lo richiede in modo insistente e lucido. Nonostante le promesse elettorali di Holland, i medici francesi non se la sentono di operare in regime di eutanasia legalizzata. Altri Paesi presentano quadri normativi in evoluzione, e ci sono chiare indicazioni che dove i pazienti non possono essere aiutati nelle fasi terminali della vita sono più frequenti i casi di eutanasia praticata anche in assenza di richieste del paziente (eutanasia clandestina o involontaria). Inoltre, contrariamente alle previsioni dei critici, i Paesi che hanno legalizzato suicidio assistito e/o eutanasia non hanno ridotto investimenti e servizi di medicina palliativa.
A proposto: il mio amico è morto serenamente. Era fortunato, perché aveva vicino chi lo amava e condivideva una sana e pragmatica idea laica della vita e dei valori. Una legge sarebbe necessaria per assicurare anche chi non goda di questi privilegi privati, di esercitare un diritto. Che non è quello di morire, ma di decidere la qualità delle ultime esperienze di vita. In questo senso, una legge sarebbe anche a garanzia di chi ritiene che la vita abbia un valore che trascende la persona, e che oggi nella "zona grigia" rischia che altri decidano al suo posto e altrimenti.

Il Sole Domenica 11.1.15
Suicidio assistito /2
L'esempio tedesco
di Arnaldo Benini


Il 13 novembre 2014 al Bundestag tedesco (corrisponde alla Camera dei deputati) 48 parlamentari hanno discusso cinque proposte di legge sul suicidio assistito, sulle quali il Parlamento voterà fra circa un anno. Sondaggi ripetuti confermano che il 65-70 per cento della popolazione, che sta rapidamente invecchiando, è favorevole ad aiutare la persona che desidera morire. Medici che facilitano il decesso voluto dall'ammalato non vengono perseguiti dalla giustizia, perché l'aiuto al suicidio non è penalmente perseguibile, come non lo è il suicidio. In 11 delle 16 repubbliche l'assistenza al suicidio è però vietata al medico dagli ordini professionali, col rischio del ritiro della licenza. Legge e prassi comuni a tutto il Paese sono indifferibili. Il problema etico e di proceduta è chiaro: quanta libertà di decisione va riconosciuta e garantita alla persona che vuole morire e quale aiuto e assistenza possono darle medici e familiari? Deve lo Stato intervenire quando qualcuno si toglie volontariamente la vita con l'aiuto di un'altra persona (medico, familiare)? Alcuni parlamentari temono un'eccessiva regolamentazione della libertà personale, in circostanze così complicate e dolorose. Deputati democristiani e socialisti hanno sostenuto che il principio dell'etica medica del rispetto della dignità della vita non deve giustificare una sofferenza atroce e senza sollievo. Il medico deve avere la libertà e la certezza giuridica di aiutare il paziente che desidera morire, anche perché la medicina palliativa non è sempre in grado di alleviare le sofferenze terminali. Altri, anche fra i socialisti, hanno sostenuto che il suicidio assistito non è accettabile, non per ragioni di fede ma di rispetto della dignità umana. Alla persona che soffre vanno offerte assistenza e compagnia, non l'aiuto a morire. Nuovi ospizi e migliore assistenza domiciliare diminuirebbero il desiderio della fine anzitempo per dolore e solitudine.
La discussione non ha avuto riferimenti confessionali e ideologici. Cristiani e socialisti, credenti, agnostici e atei, si sono espressi sia a favore sia contro l'aiuto al suicidio assistito. Diversi parlamentari di vari gruppi non hanno nascosto dubbi e difficoltà a decidere, perché non si sentivano in grado di prevedere se sceglieranno di vivere fino alla fine naturale a costo di soffrire o preferiranno il suicidio. Sorprendente e apprezzabile la mancanza di riferimenti a concetti nebulosi e confusi come accanimento terapeutico ed eutanasia attiva o passiva, sui quali di regola si svolge una discussione ideologica e astratta che può indurre a provvedimenti crudeli. Ogni caso di suicidio assistito va giudicato a sé, senza classificazioni normative. In Germania si prevede una legge che confermerà la libertà del suicidio e la liceità per familiari e medici dell'aiuto a chi lo desidera. Essa sarà approvata solo col voto determinante di molti democristiani. Le associazioni, come quelle svizzere, che organizzano il suicidio sotto la sorveglianza delle procure, rimarranno vietate. La discussione di una legge, che più delicata e complessa è difficile immaginare, è stata un modello di cultura politica, di misura, saggezza, rispetto per posizioni diverse e concretezza. Un esempio per il Parlamento italiano, se mai troverà il coraggio e la libertà di coscienza di affrontare il problema.

Il Sole Domenica 11.1.15
Diritto naturale. I lemmi di Kant
È stata completata l'edizione critica dei corsi che il filosofo tenne nel semestre estivo del 1784 a Königsberg. Un'opera monumentale
di Riccardo Pozzo


In tre volumi, è stata completata la nuova edizione critica lemmatizzata di un importante manoscritto di Kant sul diritto naturale, noto come Naturrecht Feyerabend dal nome dello studente che trascrisse le lezioni. Il testo riporta l'intero corso che Kant tenne nel semestre estivo del 1784 all'Università Albertina di Königsberg, commentando secondo l'usanza del l'epoca la quinta edizione del manuale in latino di Gottfried Achenwall, Ius naturae (Göttingen 1763). Nel Naturrecht Feyerabend gli studiosi trovano la prima esposizione completa della filosofia del diritto kantiana, ben tredici anni prima della prima parte della Metafisica dei Costumi, la Dottrina del diritto.
L'importanza di questa edizione è molteplice: si tratta infatti dell'unica trascrizione pervenutaci dei dodici corsi annunciati da Kant sul diritto naturale (a partire dal 1767). Era già stata pubblicata nell'edizione dell'Accademia delle opere di Kant, ma in appendice a un volume, senza apparato critico e soprattutto con una trascrizione dal manoscritto approntata in gran fretta dal curatore, Gerhard Lehmann, lasciando sul campo una quantità notevole di errori, anche gravi, che rendevano il testo poco utilizzabile (e finora poco esaminato, nonostante la sua importanza). Frutto di una rilettura integrale del manoscritto, la nuova edizione ci restituisce il testo in una versione affidabile, con un ampio apparato critico di note, indici e concordanze, che consentono un inquadramento assai preciso del corso del semestre estivo del 1784, preparato in un anno decisivo per la genesi della Critica della ragion pratica, precisamente negli stessi mesi che Kant dedicava alla stesura finale di Che cos'è l'illuminismo? e della Fondazione della metafisica dei costumi, usciti rispettivamente nel 1784 e 1785. I tre testi contemporanei s'illuminano a vicenda su temi decisivi come la libertà e la dignità dell'uomo. Tra pochi mesi uscirà presso Bompiani l'edizione italiana, bilingue, a cura di Hinske e Sadun Bordoni. Va segnalato che la traduzione in inglese prevista anni fa nel quadro della Cambridge Edition of the Works of Immanuel Kant è stata sospesa in attesa di questo nuovo testo critico, che sarà tradotto presto anche in francese, spagnolo, portoghese e altre lingue.
Leggiamo nell'introduzione del Naturrecht: «Nel mondo come sistema di scopi deve esserci uno scopo ultimo, e questo è l'essere razionale. Se non ci fosse alcuno scopo, anche i mezzi sarebbero inutili e non avrebbero alcun valore. – L'uomo è scopo, ed è pertanto contraddittorio che egli possa essere semplicemente mezzo. \ – L'uomo, cioè, è scopo in se stesso, e può pertanto avere solo un valore intrinseco, cioè avere dignità, nessun equivalente del quale può essere posto. Le altre cose hanno un valore estrinseco, ovvero un prezzo, onde ciascuna cosa, che è parimenti funzionale a un certo scopo, può essere posta come equivalente. Il valore intrinseco dell'uomo si fonda sulla sua libertà, sul fatto che egli possiede una propria volontà.
Dato che egli deve essere il fine ultimo, la sua volontà non deve dipendere da null'altro» (p. 5 - KgS 27/2/2:1319s.). In queste righe troviamo annunciato da Kant per la prima volta il grande tema della dignità dell'uomo, oggi più che mai da porre al centro del nostro orizzonte morale.
Il Naturrecht Feyerabend sarà presentato a Roma presso l'Aula Marconi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Piazzale Aldo Moro 7, il 13 gennaio alle ore 16,00 con interventi di Agata Amato, Francesco D'Agostino, Tullio De Mauro, Tullio Gregory, Giacomo Marramao e Loris Sturlese. Saranno presenti gli autori.
Heinrich P. Delfosse, Norbert Hinske, Gianluca Sadun Bordoni, Stellenindex und Konkordanz zum "Naturrecht Feyerabend", Forschungen und Materialien zur deutschen Aufklärung, vol. III/30, Frommann-Holzboog, Stuttgart Bad Cannstatt 2010-2014, 3 voll., p. XLI-206; CXXXV-174; LXI-617; ISBN 9783772815607, 9783772825910, 9783772826580.

Il Sole Domenica 11.1.15
Fisiognomica antica
Faccia un pensiero
di Carlo Carena


Dorella Cianci offre con Corpi di parole uno schizzo storico della fisiognomica nella Grecia antica intervallato da amabili soste ed excursus sull'ideale di bellezza (e di bruttezza) e sulle osservazioni del corpo umano in quella cultura filosofica e letteraria che al corpo umano ha dedicato tanta attenzione nella pratica di vita e in quella dell'arte. Il sottotitolo del volume è appropriatamente Descrizione e fisiognomica nella cultura greca. Nell'arte greca non c'è quasi altro che il corpo umano, e nella filosofia esso ha soffermato la meditazione, quando non ha esercitato anche la prassi dei pensatori più geniali e più eminenti. Ha creato addirittura una branca del sapere, la fisiognomica, collegando l'aspetto esteriore degli esseri, non solo dell'uomo, alle attitudini interiori. Già Aristotele argomentava che se un lupo è istintivamente feroce e una volpe astuta, probabilmente certi uomini che rassomigliano loro fisicamente nei movimenti, negli atteggiamenti, nei tratti del volto, nel colore della pelle, ne hanno anche le caratteristiche psichiche.
Per conto suo, era egli stesso un tipo da analizzare in base alle sue stesse dottrine, se dobbiamo dare retta al suo rivale Platone. Il quale, a detta di Eliano nella Storia varia, non soffriva il collega perché sempre vestito in modo ricercato, pavoneggiandosi con una grande quantità di anelli, loquace e inopportuno nel parlare, e «con un'espressione beffarda dipinta sul volto».
Assieme ai filosofi del V secolo, l'arte dell'analisi e del significato delle fisionomie è approfondita e utilizzata anche dai medici come strumento d'indagine sulle malattie e sui malati. Nel trattato ippocratico sui pronostici si insegna che nelle malattie acute il volto degli infermi si presenta col naso affilato, gli occhi cavi, le tempie infossate, le orecchie fredde, la pelle del viso rigida e secca, il colore giallastro o nero. L'occhio clinico è il compagno più sicuro del medico, come di tutti noi, perché, dice ancora Platone, quella della vista è «la più acuta delle sensazioni che ci procura il corpo». Di lì, dirà un grande poeta, Euripide, nell'Ippolito, Eros istilla la più formidabile fra tutte le passioni.
Ed ecco l'amabile bellezza. Sua regola fondamentale è l'armonia, presentata e analizzata molto bene e con coerente eleganza da Dorella Cianci in alcuni paragrafi dell'Introduzione. Il termine che la esprime, kosmos, si trova ripetutamente già nel loro primo genio poetico, Omero: kosmos è una forma ben fatta ma anche un ornamento, un gioiello. Cosmico è per Eraclito l'universo, e cosmici sono i pianeti per Pitagora. Un'indagine sistematica dei testi ha portato la Cianci a fornirci questo interessante profilo: che cioè l'interesse dei Greci fra gli elementi costitutivi della bellezza si rivolgeva principalmente alla statura, alla voce, e anche più ai capelli, al naso, alla barba, agli occhi e al seno. Per le gambe, sono connotate soprattutto le cosce, le caviglie e i piedi. I capelli hanno da essere lunghi, soprattutto per le donne, «che talvolta si servono anche di capelli altrui per avere un bell'aspetto» (Artemidoro, II secolo d. C.); e quanto agli uomini, i capelli lunghi e biondi sottolineano il valore dei guerrieri, e per questo a Sparta erano imposti ai giovani. Caratterizza invece i filosofi il fatto che «per risparmiare, nessuno di loro va mai dal barbiere né ai bagni» (Aristofane nelle Nuvole). Ma Aristotele li portava corti.
Quanto all'opposto, alla bruttezza, i Greci possedevano un campionario umano nella loro stessa letteratura e nella mitologia. Efesto, Tersite, Socrate erano sgraziati nel volto e nel corpo da far ridere. Esopo era repellente. Persino Pericle aveva un cranio così voluminoso che fu sempre ritratto con l'elmo in testa. E le donne potevano dirsi brutte se di volto deforme, collo corto e posteriore poco pronunciato.
L'analisi si approfondisce ancora verso la fine del volume, componendo dei ritratti ideali e significanti, legando ancora più strettamente l'estetica alla fisiognomica. Per cui la chioma scarmigliata si addice ed esprime lutti e dolori, mentre le chiome ricadenti suscitano fremiti: ammirabili, dice Ovidio nelle Metamorfosi, quei capelli agitati sulle spalle eburnee e cadenti senza cura sul collo. Gli occhi non siano piccoli, meschini e scimmieschi; né troppo grandi, lenti e bovini. Il naso non grosso in punta (irascibile), né ricurvo come nei corvi gracchianti, né aguzzo come nei cani, ma smussato perché così è quello dei leoni.
Forse la più veramente bella descrizione della bellezza armonica e appropriata alla sorte umana, che non quella ideale e degli dèi olimpici, si trova in due dei ritratti delineati in una sua operetta omerica da Isacco Porfirogenito, principe e scrittore bizantino del XII secolo, oggetto di particolare studio da parte della Cianci. Ecuba regina di Troia è una vecchia dal colorito di miele, occhi belli e bel naso, tranquilla, e pure ha scavalcato tutte le donne per sventura. Andromaca sua nuora, di media altezza, è magra, con bel naso e begli occhi, belle sopracciglia, capelli ricci e biondi lunghi all'indietro, rapida di mente e con le guance sorridenti, e pure è moglie di Ettore e madre di Astianatte.
Dorella Cianci, Corpi di parole, prefazione di Giuseppe Tognon, Edizioni Ets, Pisa, pagg. 136, € 15,00

Il Sole Domenica 11.1.15
Regimi
Totalitarismi uniti dall'arte
Tra la Germania nazista, l'Italia fascista e la Russia sovietica vi erano delle affinità estetiche
Predominarono il realismo e il monumentalismo classicheggiante
di Emilio Gentile


Scriveva a metà degli anni Cinquanta lo storico tedesco dell'arte Werner Hoftmann: «Il totalitarismo è una denominazione comune sotto cui vengono a trovarsi in stretta vicinanza forme apparentemente opposte, come il bolscevismo della fase leninista-stalinista, il fascismo di Mussolini e il nazionalsocialismo di Hitler. La più evidente e sorprendente dimostrazione di questo loro intimo accordo, diretto contro la libertà umana, è proprio il fatto che quelle tre forme produssero la stessa concezione artistica. Lo stile artistico ufficiale dei Paesi totalitari è ovunque il medesimo».
Si era allora nella Guerra fredda, e il termine «totalitarismo» era usato soprattutto nella polemica anticomunista per identificare la Russia sovietica con la Germania nazista. Gli studiosi che non condividevano quella polemica o militavano nel comunismo, negavano qualsiasi affinità fra i due regimi, e taluni arrivarono fino a proporre la messa al bando del termine «totalitarismo» perché privo di validità storica e scientifica. Qualcosa di analogo avveniva nella storia dell'arte, dove tuttavia era più difficile negare le affinità estetiche fra i tre regimi, dove predominò il realismo e il monumentalismo classicheggiante per rappresentare la loro visione del mondo.
Solo dopo il 1990, con la fine del comunismo in Europa, la storiografia è tornata a riflettere sul totalitarismo con atteggiamento scientifico, considerandolo un fenomeno costituito dai regimi partito unico, senza per questo identificarli quasi fossero tronchi di uno stesso albero, ma esaminandoli piuttosto come alberi diversi, che crescendo in una particolare situazione avevano assunto caratteristiche simili.
È tuttavia significativo che la storia dell'arte sia stato il campo dove la riflessione comparativa fra i regimi totalitari si è avviata con maggior impegno, con l'organizzazione di mostre che illustravano la loro produzione estetica, come la mostra «Kunst und Diktatur 1922-1956», organizzata dalla Künstlerhaus di Vienna dal 28 marzo al 15 agosto 1994, e «Art and Power. Europe under the dictators 1930-1945», organizzata a Londra dalla Hayward Gallery dal 26 ottobre 1995 al 21 gennaio 1996, successivamente trasferita a Barcellona e a Berlino.
Queste mostre erano state precedute dalla pubblicazione di un importante studio comparativo sulla produzione estetica dei regimi totalitari, il libro dello storico dell'arte russo Igor Golomostock, L'arte totalitaria nell'Urss di Stalin, nella Germania di Hitler, nell'Italia di Mussolini e nella Cina di Mao (Leonardo, Milano 1990). Da allora si è sviluppato un nutrito filone di studi comparativi sull'arte totalitaria, nel quale si colloca il volume sull'arte di regime di Maria Adriana Giusti, docente al Politecnico di Torino e professore onorario della Xi'an Jiaotong University in Cina.
Senza apportare interpretazioni originali, e nonostante qualche svista (a pagina 16: Giuseppe Bottai non era ministro della Cultura ma dell'Educazione nazionale dal 1936), il volume offre un ricco apparato di immagini, purtroppo non collocate secondo una successione cronologica, che avrebbe consentito di percepire le variazioni di stile nelle diverse fasi dei tre regimi.
Per ciascun regime, le immagini sono divise in sezioni – arte, grafica, architettura – precedute da un'introduzione. Viene così efficacemente documentata la molteplicità delle espressioni artistiche totalitarie, dalla grafica e dal manifesto, alla pittura e alla scultura, al cinema, e soprattutto all'architettura e al progetto urbano che, scrive Giusti, «incidono profondamente sulla trasformazione degli spazi come espressioni multi-scala della visione totalitaria del regime... Le trasformazioni delle capitali, Roma, Berlino e Mosca sono al centro della strategia di affermazione del potere totalitario». Attraverso visioni oscillanti «tra la mitologia del progresso nelle avanguardie e l'antimodernismo nell'ortodossia della cultura di Stato», «filtra la sostanza utopica del sogno totalitario che proietta l'arte ben oltre la ricerca di efficacia realistica o di intenti persuasivi e mediatici».
Nella scelta dello stile estetico dei tre regimi, accomunati dalla concezione dell'arte come strumento di propaganda per diffondere fra le masse la propria ideologia, decisivo fu il ruolo dei loro dittatori, diversissimi per temperamento, formazione, cultura, e per l'atteggiamento verso la creatività artistica. Dei tre, l'unico che aveva ambizioni artistiche era Hitler, aspirante architetto mancato e mediocre pittore di paesaggi negli anni giovanili, e tuttavia convinto di essere un architetto geniale, con una concezione dell'arte condizionata da un convenzionale realismo ottocentesco e dall'ossessiva ideologia razzista.
Il capo nazista intervenne «pesantemente sulle attività artistiche, bandendo il modernismo internazionale e avvalendosi di un unico architetto e di un unico stile», mentre Stalin, che non aveva pretese artistiche ma si considerava comunque un «ingegnere di anime», impose il realismo socialista «come sintesi di cultura e potere, giungendo però al connubio tra costruttivismo e tradizionalismo». Quanto al duce, Giusti lo definisce «più ambiguo nelle scelte, volte a esaltare tensioni, movimento, inarrestabilità degli impulsi, confidando nell'eloquenza dell'architettura come sintesi di tutte le arti e nella cinematografia come migliore arma di persuasione». Ma più che di ambiguità, si può parlare di eclettismo per un politico simpatizzante, fin da giovane, per le avanguardie moderniste, che sentiva affini al suo temperamento e al dinamismo fascista.
Osservando le espressioni estetiche dei tre regimi, dove si staglia ossessiva la figura del dittatore e prevalgono le scene di vita quotidiana animate dal corale entusiasmo di collettività operose e gioiose, non si ha tuttavia l'impressione di una piatta uniformità. Pur nella prevalente retorica del realismo, del gigantismo e del monumentalismo, la creatività individuale è riuscita a farsi strada, a emergere.
Siamo di fronte a una «contraddizione irrisolvibile» tra la libertà creativa e il condizionamento ideologico, come afferma Giusti; oppure siamo di fronte al fatto tutt'altro che contraddittorio, e molto più rattristante: e cioè, che la creatività artistica – anche quella di un grande artista – non è affatto incompatibile con l'adesione convinta al sogno totalitario di dominio e di manipolazione dell'uomo?
Maria Adriana Giusti, Arte di regime, Giunti, Firenze, pagine 252, € 49,00

Il Sole Domenica 11.1.15
Henry Kissinger
Stati Uniti, Cina e l'ordine che verrà
Per l'ex segretario di Stato americano l'equilibrio globale sarà determinato da come la grande potenza in carica e quella emergente sapranno convivere
di Ugo Tramballi


«La storia della gran parte delle civilizzazioni è un racconto di ascesa e di caduta d'imperi», tenta di semplificare Henry Kissinger. Rendere comprensibili l'affermarsi di una potenza e le cause del suo declino; illustrare le dinamiche che provocano i conflitti e creano gli ordini mondiali; spiegare perché ora è il disordine, più di un ordine, che governa le relazioni internazionali. È questa la missione ambiziosa dell'ultimo saggio dell'ex segretario di Stato americano.
World Order, che non è ancora stato tradotto in italiano, inizia la sua narrazione contemporanea dalla pace di Westfalia del 1648: «Quasi tutti i re affermarono di governare per diritto divino, accettando che Dio avesse ugualmente dotato molti altri monarchi» è la folgorante semplificazione di quel trattato che ancora definisce i fondamenti delle relazioni fra Stati.
Già Cina (Mondadori 2012) era un promemoria per i sinologi e contemporaneamente un testo fondamentale per chi volesse studiare l'emergente potenza asiatica. World Order è un testo imprescindibile per gli specialisti e una necessaria introduzione al mondo e alle sue principali regioni politiche per tutti gli altri: Europa, Russia, Islam, India, Cina, Stati Uniti. Nulla di nuovo, nella cadenza storica dei protagonisti. Ma in Kissinger c'è la capacità di descrivere l'essenza dei problemi con sintetica profondità. «Tutto della Russia – il suo assolutismo, le dimensioni, le ambizioni e le insicurezze globali – rappresenta un'implicita sfida al concetto tradizionale europeo di ordine internazionale, costruito sull'equilibrio e il riserbo». Oppure il secolare problema americano nel chiarire il rapporto fra il suo vasto potere e i suoi principi morali: «Quando praticavano ciò che altrove era definito imperialismo, lo chiamavano "compimento del nostro destino manifesto di diffondere la Provvidenza"».
Ogni regione del mondo ha le sue criticità ma per Henry Kissinger, di natura un "westfaliano" ma troppo realista per ancorarsi a un solo schema, il nuovo ordine sarà determinato da come la grande potenza in carica e la nuova, emergente, sapranno convivere. «L'approccio americano alla politica è pragmatico; quello cinese concettuale. L'America non ha mai avuto un potente nemico alle frontiere; la Cina non è mai stata senza un potente avversario alle frontiere. Gli americani reputano che ogni problema abbia una soluzione, i cinesi che ogni soluzione sia un biglietto d'ammissione a una nuova serie di problemi». Nonostante uno studio di Harvard dimostri che in 15 casi storici quando una potenza stabilita e una emergente interagiscono sia scoppiata una guerra, Kissinger è ottimista.
Il realismo kissingeriano cede invece al pessimismo riguardo all'era digitale che rende difficile distinguere tra informazione, conoscenza e saggezza. Per essere più chiaro Kissinger cita T.S. Eliot: «Where is the life we have lost in living? Where is the wisdom we have lost in knowledge? Where is the knowledge we have lost in information?». Quando migliaia di cittadini invocano in rete le dimissioni di un governo o un intervento militare a fini umanitari, questa è un'espressione di democrazia automatica che impone il sostegno morale e politico occidentale. Ma in questo modo, dice Kissinger, «la diplomazia rischia un intervento indiscriminato, disconnesso dalla strategia. Enuncia assoluti morali a una platea globale prima che sia possibile stabilire le intenzioni degli attori centrali, le loro prospettive di successo o l'abilità di realizzare politiche a lungo termine». Il danno maggiore dell'era digitale, conclude Kissinger, sarà di produrre leader deboli, «riluttanti a esercitare una guida indipendente dalle tecniche di ricerca di un database».
Henry Kissinger, World Order, Pensan

Il Sole Domenica 11.1.15
Tommaso
Summa di teologica chiarezza
di Armando Torno


Il sistema dottrinale di Tommaso d'Aquino, morto nel 1274 a una cinquantina d'anni, fu ostacolato dai contemporanei e guadagnò a fatica credito fuori dall'ordine domenicano. Soltanto con il Concilio di Trento – XVI secolo – la sua opera si impose all'attenzione universale. La Seconda Scolastica, animata nel tardo Cinquecento da gesuiti acutissimi quali Francisco Suarez o Juan de Mariana, ne diffuse le idee influenzando diritto, politica, teologia. Giovanni XXII lo canonizzò nel 1323 e Pio V nel 1567 lo dichiarò Dottore della Chiesa; ebbe tra i titoli soprattutto quello di Doctor angelicus. Leone XIII nella Aeterni Patris (1879) ne rilanciò il pensiero: tra i filosofi. Il neotomismo che seguì nel secolo scorso vantò esponenti quali Maritain, Gilson, Bontadini, Vanni Rovighi.
L'opera principe, oltre che di maggior estensione, di Tommaso è La Somma Teologica (Summa Theologiae), divisa in tre parti e iniziata a Roma nel 1265: fino al 1268 scrisse la prima pars; la prima secundae la vergherà a Parigi nel 1270, mentre la secunda sucundae sarà terminata nel 1271; la tertia pars, avviata a Parigi nel 1271-72, verrà continuata (ma non terminata) a Napoli. La penna si ferma alla questione 90 articolo 4 della terza parte; è il fatidico 6 dicembre 1273, giorno in cui l'Angelico rinuncia a ogni attività intellettuale. Alle obiezioni di Reginaldo da Piperno, che gli era confidente confessore segretario, replica: Le testimonianze concordano: gli accadde qualcosa di straordinario durante la celebrazione dell'Eucarestia nell'autunno di quel 1273; la sua vita non fu più la stessa.
Summa indica un compendio universitario, testo che segue un piano ordinato di trattazione della materia. Tommaso la concepì con fine pedagogico, proponendosi - senza apologie o polemiche – di trattare con chiarezza gli argomenti, offrendo risposte con riferimenti indispensabili. Fondandosi sull'autorità della Scrittura e di Agostino, il domenicano estende l'impianto aristotelico alla teologia. L'opera è razionale: divisa in parti con la medesima struttura, ognuna di esse si ripartisce in questioni dedicate al tema da trattare, e le questioni si suddividono in articoli formulati con una domanda. Sono enunciati gli argomenti contro la tesi proposta, poi quelli a favore; seguono le risposte, eventuali riflessioni e talvolta contestazioni o altro.
Ebbe la prima integrale a stampa nel 1485 a Basilea; fu tradotta in italiano tra il 1950 e il 1974 da Salani, a cura di Tito Sante Centi: 35 volumi con il latino a fronte. La stessa è stata rivista e riedita dalle Edizioni Studio Domenicano di Bologna, le quali stanno recando nella nostra lingua tutto Tommaso. Nel 1996 ci fu, sempre per la casa bolognese, l'edizione di Roberto Coggi solo in volgare (6 tomi). E ora, curata di Giuseppe Barzaghi e Giorgio Carbone, ulteriormente riveduta, queste edizioni pubblicano l'integrale della Summa Theologiae in 4 volumi, con testo e traduzione su doppia colonna; 2 tomi (parti I e II-I) uscirono prima dell'estate e in dicembre sono apparsi gli altri 2 (parti II-II e III). Impresa editoriale lodevolissima per un'opera che è ancora un riferimento.
Nella seconda parte, sezione seconda, Tommaso tratta tra l'altro della guerra giusta, ammette che è lecito tendere insidie (q.40, a.3), che in una rissa «peccano quelli che si difendono ingiustamente» (q.41, a.1). Esamina i prestiti e condanna l'usura, giacché (q.78, a.1). Nella terza parte, ove si parla di Cristo, ribadisce che non ha avuto un corpo celeste ma terrestre, riprendendo la definizione di Aristotele: «Essendo la forma dell'uomo una certa realtà naturale, esige una determinata materia, ossia la carne e le ossa, che vanno poste nella definizione dell'uomo, come insegna il Filosofo» (q.5, a.2). È ancora il pensatore greco che aiuta Tommaso a sciogliere il dubbio se «la Beata Vergine ha avuto in qualche modo un ruolo attivo nel concepimento del corpo di Cristo» (q.32, a.4), mentre Dionigi l'Aeropagita lo supporta per dimostrare che il suo concepimento non è stato naturale (q.33, a.4).
Si narra che sovente lo chiamassero per la riservatezza e per le dimensioni corporee. Eppure pochissimi seppero essere eloquenti e agili in teologia come lui.
Tommaso d'Aquino, La Somma Teologica, parte II-II e parte III: pagg. 1820, € 80 e pagg. 1216, € 50.
L'opera in 4 volumi, di circa pagg. 6000, costa € 230guin Press, New York, pagg. 420, $ 36,00

l’ateo Franco Fortini e la mistica Simone Weil
Il Sole 11.1.15
Fede & scienza /1
Trasparenza per il dialogo
di Gianfranco Ravasi


Un paio d'anni prima della sua morte, avvenuta nel 1994, ho avuto l'occasione di incontrare Franco Fortini e curiosamente scoprii un suo vivo interesse – sorprendente in un "laico" così netto, anche per la sua matrice culturale – per la figura e l'opera di Simone Weil. Ne conosceva profondamente persino la dimensione mistica, per altro inscindibile dalla finissima sua razionalità. Fu così che una volta il discorso cadde su uno dei suoi scritti più incisivi, L'ombra e la grazia del 1947, e su un passo in particolare che vorrei ora citare integralmente nella versione pubblicata da Bompiani nel 2002: «L'uso della ragione rende le cose trasparenti allo spirito. Ma non si vede ciò che è trasparente. Si vede, attraverso il trasparente, quel che è opaco, celato quando il trasparente non era trasparente... Pulire la polvere serve solo a vedere il paesaggio. La ragione deve esercitare la sua funzione solo per giungere ai veri misteri, ai veri indimostrabili che sono il reale... La scienza, oggi, o cercherà una fonte di ispirazione al di sopra di se stessa o perirà».
Questa intuizione un po' paradossale, tra le tante di Simone, giustifica una prassi che si sta sempre più diffondendo rispetto al passato e ad alcuni epigoni ancor oggi attivi, cioè gli apologeti irriducibili della scienza o della teologia, racchiusi nelle loro fortezze autosufficienti, che hanno in "gran dispitto" chi sta fuori dell'una o dell'altra. Si tratta, cioè, del dialogo tra scienziati e teologi, laddove, però, il termine "dialogo" conservi il suo valore etimologico e non scada in un concordismo meramente strategico alla maniera politica per cui persino le "convergenze" possono essere "parallele". In greco, infatti, dià- significa sia il confronto tra due lógoi diversi ma epistemologicamente corretti, sia lo scavo giù, nella profondità del lógos in questione.
Detto in altri termini, non si abbatte il celebre Noma, propugnato da Stephen Gould, dei due Non-Overlapping Magisteria, ossia della non-sovrapponibilità dei due percorsi autonomi della conoscenza filosofico-teologica e dell'analisi empirico-scientifica, ma si riconosce l'importanza di entrambi per una comprensione "simbolica" dell'essere e dell'esistere. E, come è noto, il simbolo può contenere in sé anche estremi dialettici. Che la scienza si interessi del fenomeno e quindi della "scena" non esclude che altri approcci – il filosofico, l'artistico, il teologico – si dedichino al fondamento e al senso ulteriore della realtà. Il teologo non chiederà, perciò, allo scienziato di dimostrare l'esistenza dell'anima o di Dio, a meno che si tratti di qualche apologeta "teo-con", parallelo a certi scienziati alla Dawkins o alla Dennett che, senza imbarazzo, sono convinti di poter confutare asserti filosofico-teologici con la loro strumentazione argomentativa di taglio scientifico.
Come diceva il vecchio Schelling, «ciascuno custodisca castamente la sua frontiera», ma ricordi anche che il suo territorio non esaurisce ogni estensione e il suo scavo non scruta ogni profondità. Il vento cristallino della trasparenza scientifica, per usare la metafora della Weil, non esclude che siano rilevanti altri sguardi. Anzi, nell'unicità della persona e nella stessa coscienza unificante dell'individuo può coesistere una pluralità distinta ma non separata di itinerari gnoseologici dalle grammatiche diverse ma capaci di comporsi in un'armonia plurale. Detto in altri termini più diretti, una persona può essere sia scienziato sia credente e la storia è colma di simili testimonianze (per stare agli ecclesiastici scienziati, basti citare Copernico, Cusano, Mendel, Spallanzani, Torricelli, Mercalli, Lemaître eccetera). Queste considerazioni molto semplificate vogliono solo introdurre a uno dei tanti esempi di "dialogo" serio e non comparativistico-concordistico tra uno scienziato e un teologo.
È il caso del confronto tra uno zoologo, Ludovico Galleni, e un teologo dogmatico, Francesco Brancato, attorno a una questione che in passato era il nodo rovente dell'incrocio e dello scontro tra le due discipline, l'evoluzione. Il teologo catanese aveva già intrecciato un duetto con un astrofisico, Piero Benvenuti, per una discussione più globale di indole cosmologica (Contempla il cielo e osserva, edito dalla San Paolo nel 2013). Ora è l'antropologia a essere coinvolta, ed è significativo che lo scienziato presenti per primo il suo status quaestionis con una netta affermazione: «L'evoluzione è ormai un dato acquisito nel carniere della conoscenza umana». Tra l'altro, è curioso che Galleni abbia una particolare simpatia per Teilhard de Chardin, scienziato ma pure gesuita e teologo, che visse senza imbarazzo questa duplicità, anche se – a mio avviso – non sempre «custodendo castamente la frontiera».
Il teologo Brancato accoglie il dato offerto dallo scienziato e lo adotta persino come cifra dell'intero universo. Il suo è, però, un percorso ulteriore, consapevole comunque che la scienza moderna ha offerto al credente un'immagine inedita rispetto a quelle da cui partiva la ricerca religiosa precedente. Le domande di base alle quali cerca di rispondere sono allora queste: «Come bisogna proporre oggi, in modo nuovo, ciò che la teologia, illuminata dalla Scrittura e posta nella viva tradizione della Chiesa, dice dell'uomo e del mondo? Come parlare dell'uomo – non solo: come parlare di Dio – nell'età della scienza?». È in questa prospettiva che la teologia non accantona ma ripropone in una nuova declinazione il suo paradigma sistematico che comprende categorie come la causalità prima e la finalità ultima, l'anima e il simbolo, l'uomo nel mondo e oltre il mondo, il tempo e l'eterno, lo spazio e l'infinito e così via.
È indubbio che l'identità e l'unicità dell'oggetto considerato sia dallo scienziato sia del teologo possa creare nelle due analisi sconfinamenti o tensioni, sovrapposizioni e discrasie. L'importante è che ci sia il rispetto di fondo delle autonomie e una dose di reciproca umiltà per cui si bandiscono le illusioni onnicomprensive e totalizzanti. La scienza apre e percorre itinerari in panorami mirabili; la teologia da essi può avviare altri percorsi verso un oltre che non deve ignorare né tanto meno può negare le tappe delineate dalla scienza. Le due ricerche non sono tra loro esclusive ma neppure tra loro repellenti o repulsive e alla fine entrambe permettono di comprendere meglio l'uomo e il mondo.
Francesco Brancato con Ludovico Galleni, L'atomo sperduto. Il posto dell'uomo nell'universo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), pagg. 220, € 20,00
Si veda anche F. Asti - E. Cibelli edd., Scienza e fede in dialogo, Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale, Napoli (Viale Colli Aminei, 2), pagg. 284, € 20,00

Il Sole Domenica 11.1.15
Firenze, Palazzo Strozzi
Picasso e la sua Spagna
di Ada Masoero


Gratificata da un grande successo di pubblico (a oggi 150mila visitatori), la mostra che in Palazzo Strozzi esplora l'opera di Picasso nel suo rapporto con l'arte spagnola del '900, trova la sua acme emozionale nella sala dedicata a Guernica, un grandioso spazio in penombra ordinato come un incalzante percorso di avvicinamento verso il celeberrimo, gigantesco (e inamovibile) dipinto del Reina Sofía di Madrid, che vale da solo la visita a questa rassegna. Tutti i temi che sarebbero confluiti in quell'opera-icona vi sono infatti seguiti sin dal loro primo formarsi nell'immaginario di Picasso, a partire dalla figura del Minotauro, alter Ego dell'artista, che amava quell'essere archetipico, in cui convivono umano e ferino, e che volle intrecciarne il mito con la tauromachia. Fino a giungere all'esito così denso e concettualmente complesso di Minotauromachia, 1935, l'acquaforte in cui la bambina che sino ad allora aveva guidato il mostro cieco, cerca di salvarlo con la luce della verità.
C'è poi il tema del cavallo, simbolo del popolo, che dalla bocca spalancata, la lingua trasformata in un dardo, sembra emettere un grido senza fine, e c'è la figura della madre urlante che stringe il figlio morto, in una sintesi tanto stringata quanto potente del massacro compiuto dall'aviazione tedesca nella città basca di Guernica, a cui Picasso volle dedicare il dipinto commissionatogli dalla Repubblica spagnola per l'Expo di Parigi del 1937.
Se questa sala oscura rappresenta il cuore emotivo della mostra e al contempo illustra al meglio la centralità assunta da Picasso nelle vicende artistiche del Paese d'origine, nelle altre sezioni il curatore, Eugenio Carmona, sviluppa una sequenza di tesi con cui si propone di illustrare l'arte spagnola dal 1910 al 1953 nei suoi rapporti, anche dialettici, con la figura di Picasso.
Così, dopo l'incipt dedicato al Chef-d'œuvre inconnu, il racconto di Balzac nel quale il pittore Frenhofer, alla ricerca ossessiva della perfezione, dipinge e ridipinge la sua tela fino a creare un incomprensibile garbuglio e giunge a bruciarlo e a suicidarsi (Vollard lo pubblicò nel 1931 in un'edizione illustrata proprio da Picasso), si entra nella sala in cui va in scena l'"antistile" dell'artista, che rifiutò costantemente di farsi imbrigliare dalla fedeltà a un unico linguaggio espressivo, spesso coltivandone due o più contemporaneamente e perlustrando lo stesso tema con modi diversi (neo-classici, surrealisti, espressionisti, neo-cubisti...), come fossero variazioni musicali. A provarlo sono opere capitali come la testa cubista di Fernande, 1910, il Ritratto di Dora Maar e quello dell'altra compagna anch'essa in carica nel 1939, Marie Thérèse Walter, oltre alla meravigliosa natura morta dei Gronghi del 1940.
Di qui in poi la prospettiva cambia ed entra in gioco la sua relazione con altri maestri spagnoli, affrontata in sezioni che, benché fitte di opere importanti (tutte del Reina Sofía), risultano però talora come "irrigidite" dalle tesi che il curatore si propone di dimostrare: in esse si indaga ora la presenza della razionalità anche in un'arte, come la spagnola, da sempre associata al pathos e alla concitazione (e qui è Juan Gris il campione); ora il lirismo di certa pittura e scultura fondate sul segno (ancora Picasso e Miró, Gonzáles, Gargallo...); ora la pittura del reale e sopra-reale (la sezione più modesta) per giungere, dopo l'indagine del rapporto natura-cultura, alla sala in cui Picasso – ormai un mito – diventa l'idolo polemico della generazione dei Tàpies, Saura, Guerrero, Millares, tutti ormai avviati verso una nuova e "altra" modernità.
Picasso e la modernità spagnola, Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 25 gennaio. Catalogo Mandragora

Il Sole Domenica 11.1.15
Amsterdam
Il Museo van Gogh rinnovato
Il percorso è stato ridisegnato: non più sequenza cronologica ma grandi temi legati all'ambiente, all'arte e alla vita di Vincent
di Marco Carminati


Chi ha in mente il vecchio allestimento del Museo van Gogh di Amsterdam forse ricorderà che i quadri di Vincent erano appesi a pareti bianche, ed erano disposti in una rigida sequenza cronologico-geografica, seguendo i vari luoghi di residenza del pittore (Nuenen, Parigi, Arles, St. Remy, Auvers-sur-Oise). Oggi questa linea di lettura si percepisce appena. Il museo – radicalmente ridisegnato da Marcel Schmalgemeijer – procede adesso per temi, in modo da offrire una visione più completa della storia di van Gogh e da mettere in campo tutti gli aspetti che hanno contribuito a consacrarne la fama: l'arte, la vita, la famiglia, il contesto storico, il mito che sorse attorno a lui e l'influenza esercitata dalla sua arte fino ai nostri giorni.
Ma c'è di più. Attraverso i social network, i curatori del museo hanno cercato di capire quali siano gli argomenti che più interessano i visitatori, e hanno scoperto che i temi più apprezzati sono quelli legati alla vita di van Gogh, e nello specifico alla vicenda del taglio dell'orecchio, alle sofferenze della malattia, alla tragedia della morte per suicidio. E così, senza troppi snobismi intellettuali, i curatori sono venuti incontro alle richieste del pubblico realizzando dei pennelli specifici (tra l'altro fatti benissimo) dedicati ai temi più gettonati della biografia vangoghiana e collocandoli in alcuni punti chiave lungo il percorso. La scelta si è rivelata vincente: davanti a queste sezioni tematiche (soprattutto attorno alla vicenda dell'orecchio mozzato) si accalcano, di norma, più persone che davanti ai Girasoli!
Ma vediamo di capire le linee principali del nuovo percorso. La filosofia di fondo è che non si viene qui per ammirare una sequenza di capolavori di van Gogh ma si viene qui per «entrare nel mondo di van Gogh». Il quale ci viene incontro subito, al pian terreno, con una sequenza mozzafiato di autoritratti, con la sua tavolozza originale esposta in una teca e con pannelli cronologici di inquadramento biografico. Sulle pareti giganteggia l'ingrandimento di uno dei suoi autoritratti.
Si sale al primo piano. Le pareti sono verde scuro, come scura è la tavolozza di van Gogh agli esordi. È noto che il debuttante van Gogh volesse diventare un «pittore di contadini» e che avesse dinnanzi precisi modelli da imitare. A questo tema è dedicata la prima parte del piano, che culmina con i Mangiatori di patate del 1885. Subito dopo van Gogh sente il bisogno di perfezionarsi. Va prima ad Anversa e poi, nel 1886, sbarca a Parigi. L'impatto con la capitale francese è fondamentale. Qui Vincent incontra i pittori impressionisti (alle pareti ammiriamo Monet, Manet, Pissarro, Fantin La Tour, eccetera), qui la tavolozza di Vincent si rischiara (e anche le pareti delle sale diventano verde chiaro) e i soggetti e lo stile dei quadri mutano. Da questa "minirivoluzione" scaturiranno i Girasoli. Vincent è un pittore molto metodico che studia seriamente i colori e si esercita nella prospettiva, come ci documentano sezioni apposite ricche di supporti didattici.
Ma è il momento di salire al secondo piano (il verde delle pareti è ancora più chiaro). Qui ci viene raccontata la storia della famiglia di van Gogh e le circostanze della nascita del museo. Il nuovo allestimento esalta il ruolo dei van Gogh, e in particolare la figura di Vincent Willem van Gogh, il figlio Theo van Gogh (fratello di Vincent) che ereditò tutti i quadri dello zio e fondò il Museo Van Gogh nel 1973. Oggetti personali e documenti ripercorrono le tappe di questa straordinaria avventura. Ad esempio, sono esposti alcuni oggetti di proprietà della famiglia, tra cui un martin pescatore imbalsamato e i gomitoli di lana usati da van Gogh per i suoi esperimenti cromatici. Da non perdere sono alcune lettere originali del pittore eccezionalmente esposte, vicino alle quali è stato collocato l'armadio in cui Theo van Gogh conservò gelosamente le ottocento missive inviategli dal fratello.
Van Gogh ebbe molti amici tra i colleghi pittori, e con alcuni di loro sognò di realizzare una sorta di "repubblica delle arti" nella città di Arles. Questo è il tema sviluppato attorno alla Casa gialla di Vincent, e qui si trova il ricco e gettonatissimo pannello che racconta della lite con Paul Gauguin e del gesto autolesionista del lobo mozzato. A van Gogh disegnatore è dedicata l'ultima parte del piano: un dispositivo touch screen permette di sfogliare i suoi taccuini. Una vera emozione.
Ma ci aspetta ancora un piano, il terzo. Quassù le pareti sono di un verde sempre più tenue. Per van Gogh dipingere diventa una terapia. Nel cronicario di St. Remy Vincent realizza opere sublimi (Iris, Mandorli in fiore), ma questa produzione diventa superproduzione negli ultimi due mesi di vita, nei quali il pittore dipinge 65 quadri in 60 giorni. Questa frenesia ebbe effetti nefasti: il 27 luglio 1890, vagando nei campi di Auvers-sur-Oise, van Gogh si spara un colpo di pistola. Il 29 luglio muore.
Il nuovo percorso, però, non si arresta al triste epilogo. Al contrario. Il percorso si spalanca sul futuro e ci racconta come il testimone di Vincent venne raccolto da altro maestri, dai Nabis francesi agli Espressionisti tedeschi, fino a Francis Bacon.
Da notare, infine che in questo entusiasmante «viaggio nel mondo di van Gogh» il visitatore non viene mai lasciato solo. All'ingresso può procurarsi un tablet da portare con sé per informarsi sui quadri più importanti. Non solo. Accanto ai capolavori più celebri il visitatore trova anche dei touch screen che permettono ulteriori approfondimenti. In alcuni punti si possono anche alzare dei ricevitori per ascoltare le descrizioni dei quadri direttamente da van Gogh, attraverso la lettura di passi delle lettere. In termini d'apparati didattici, un occhio particolare è riservato ai più bambini con famiglie al seguito: alcuni quadri di van Gogh sono stati appesi ad altezza di bambino e corredati da oggetti autentici. Un esempio? I quadri coi celebri nidi sono accompagnati da nidi veri. Un vero spasso (anche per i grandi).

«E Susanna non vien...»
Il Sole 11.1.15
La lezione di Mozart sull'amore
di Quirino Principe

«E Susanna non vien...», canta l'amareggiata contessa d'Almaviva nel III atto delle Nozze di Figaro: è l'inizio del recitativo cui seguirà l'aria «Dove sono i bei momenti». In quel crocevia drammaturgico, vibrazioni dolorose turbano la solidità dell'intreccio e dei ruoli. È un sisma che scuote ma non distrugge: dopo la folle giornata tutto si conclude in letizia, e le ferite dell'anima rimangono come tracce di colore. (Ma è letizia vulnerabile: dopo Le barbier e Le Mariage, Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais aveva completato la trilogia con La mère coupable, commedia "nera", livida, messa in musica nel 1966 da Darius Milhaud). La ferita non sanabile è il tempo che scorre e tutto logora. Non è azzardato sentire in «Dove sono...» un'anticipazione della Marschallin in Der Rosenkavalier: «Die Zeit, die ist ein sonderbarer Ding...». Ci piace afferrare in mano questo appiglio e aprire questa porta per suggerire ai lettori come entrare nel grande saggio di Leonetta Bentivoglio e Lidia Bramani. Il libro investe (è il termine giusto) il tema fondamentale della civiltà umana, quello che tra le civiltà mette a nudo le differenze e i gradi qualitativi: l'amore e la sessualità, secondo l'articolazione tutta occidentale in tre gradi, libido, eros, agápe.
Ma l'amore è tema sovente distorto o banalizzato o scambiato per altro fenomeno che ne è larva o scimmia. Perché non sfugga di mano, è necessario dargli una fisionomia definita storicamente ma, insieme, universale e sovratemporale. Simili fisionomie le troviamo nella letteratura: Saffo, Alcmane, Catullo, Properzio, i provenzali, Dante, Shakespeare, Goethe, Verlaine, Puškin. Li Tai-Pao. O nelle arti visive: Simonetta Cattaneo come Venere botticelliana, la misteriosa adolescente di Petrus Christus, le dame dagli occhi di gatto nei dipinti murali egizi. O nella musica: Lidia Bramani e Leonetta Bentivoglio uniscono una loro antica predilezione al migliore oggetto possibile di scelta. Tenendo per fermo che la più grave responsabilità delle deformazioni e adulterazioni a danno delle idee di amore, libido, eros, sessualità, ricade sul cristianesimo, e in particolare sulla tradizione cattolica post-tridentina, e considerando che la musica tanto più dichiara significati universali quanto più è alta e nobile e di geniale fattura, la fisionomia doveva essere quella di un compositore religioso in senso non triviale, e perciò «laico e anticlericale», maestro in un'arte alimentata «di scienza, di teatro, di letteratura, della nascente psicologia e di saggi giuridici e filosofici». Questo compositore rappresenta per essenza lo spirito occidentale. Le autrici del libro lo hanno "ascoltato" «in senso drammaturgico e musicale, alla luce del suo egualitarismo, del suo pacifismo, del suo sincretismo cristiano, del suo animalismo e della sua tolleranza», e con tali connotati non può essere se non Wolfgang Amadeus Mozart. Le tre opere "italiane" su libretti di Lorenzo Da Ponte si rivelano non soltanto fonti di felicità per i sensi e per l'intelligenza, ma anche un autentico, moderno e luminosamente laico Tractatus sull'amore e sulla realtà pericolosa e vulnerante del sesso, nel quale perfette chiavi di lettura decifrano a priori i fenomeni del nostro tempo, come il femminismo, le pulsioni bisessuali, le provocazioni salutari delle perseguitate "pussy riots". Ci colpisce la "singletudine" enunciata da Despina, l'autoerotismo adombrato da Cherubino, il "poliamore" che traspare da Dorabella e Fiordiligi, il supremo mistero del dongiovannismo. Così, quel recitativo con aria della contessa, che dà titolo al libro, è un dolente Tractatus in miniatura: l'immagine, aperta anche con coraggio tutto femminile allo sguardo pubblico e sociale, di una libido che fu, di un eros irrimediabilmente consunto, di un'improbabile agápe. Le tre opere come insegnamento di vita privata e civica: in tale direzione le autrici di questo libro magistrale continueranno a scavare. «Però, attenzione, Mozart è una miniera sterminata e ipnotica: il rischio è quello, esaltante, di non uscirne più».
Leonetta Bentivoglio, Lidia Bramani, «E Susanna non vien»: amore e sesso in Mozart, Feltrinelli, Milano, pagg. 286, € 16,00