martedì 13 gennaio 2015

Repubblica 13.1.15
Nel dialogo Berlinguer-Bettazzi le radici del Pd
In “L’anima della sinistra” Claudio Sardo ricostruisce l’incontro fra cattolici e comunisti
di Claudio Tito


«COSTRUIRE e far vivere qui in Italia un partito laico e democratico». A pronunciare questa frase non è stato uno dei “padri fondatori” del Pd. Non si tratta di una scontata locuzione suggerita negli anni in cui il centrosinistra italiano si è misurato con la formazione dell’Ulivo prima e del Partito Democratico poi. Ma è di Enrico Berlinguer. Che nella lettera dell’ottobre 1977 con cui rispondeva a Monsignor Bettazzi definiva il Pci proprio in quei termini: «laico e democratico».
Può essere la prova che già in quegli anni, il Dna del tutto originale del Partito comunista italiano prevedesse uno sviluppo nella direzione poi assunta dagli anni Novanta in poi? Secondo Claudio Sardo, ex direttore dell’ Unità, nella sostanza sì. Nel libro L’anima della sinistra ( edito dalla Eir) torna a pubblicare lo scambio epistolare tra il segretario comunista e il vescovo di Ivrea, accompagnata da due saggi, di Giuseppe Vacca, storico del marxismo e del Pci, e di Domenico Rosati, ex presidente delle Acli.
È evidente che il contesto politico e sociale di quelle due missive non è paragonabile alla lunga transizione che ha impegnato il nostro Paese dalla caduta del Muro di Berlino ad oggi. Era la stagione del “pensiero lento” ma profondo e non quello veloce e superficiale di twitter. La trasformazione del sistema dei partiti e la metamorfosi della sinistra italiana hanno stravolto i parametri della politica rispetto agli anni Settanta. Il confronto in quel periodo si basava sul “compromesso storico” prima e sulla “solidarietà nazionale” poi. Sul dialogo e la potenziale intesa, dunque, tra i due grandi partiti popolari che nel 1976 rappresentavano i tre quarti dell’elettorato e che però dal dopoguerra si fronteggiavano su trincee opposte in una democrazia bloccata. Eppure quel dialogo in una certa misura può rappresentare l’embrione del Pd. «Non ci sarebbero stati in Italia né l’Ulivo né il Pd – scrive Sardo - senza la storia del Partito comunista italiano e senza la particolare natura della Democrazia cristiana». I passi avanti compiuti da Berlinguer nel rapporto con i cattolici (già avviato nei primi anni del decennio precedente da Togliatti) e con l’associazionismo cattolico, e l’idea – attualissima ma mai portata fino in fondo – di una «seconda rivoluzione democratica», costituiscono, forse anche involontariamente, il terreno più fertile per la costruzione di una moderna sinistra «democratica e laica». In quel quadro politico, Monsignor Bettazzi chiedeva “garanzie” al Pci sulla sua lealtà democratica e sulla possibilità di una convivenza civile tra i cattolici e i comunisti, nonostante il materialismo marxista. In una certa misura – osserva Rosati – quelli potevano essere definiti i «valori non negoziabili» del tempo. La risposta del leader di Botteghe oscure è “rivoluzionaria” rispetto al movimento comunista internazionale. La diversità italiana si conferma nella dichiarazione che il Pci non «professa l’ideologia marxista, come filosofia materialistica ateistica». E, spiega Vacca, configura il Pci come «un partito non ideologico». Il confronto con il mondo cattolico poneva così le premesse per dare vita a una miscela culturale unica. «Quello che voi siete – diceva Aldo Moro nel 1977 rivolgendosi al Pci – noi abbiamo contribuito a farvi essere e quello che noi siamo, voi avete aiutato a farci essere ». Per i comunisti italiani rappresentava anche lo strumento originale per la ricerca di una “terza via” ante litteram tra comunismo e socialdemocrazia. E negli anni Ottanta per non rassegnarsi all’affermazione del riformismo di stampo craxiano.
Quindi, conclude Sardo, «senza quell’intreccio nelle radici politico-cultirali della sinistra, senza il peculiare impasto del comunismo italiano, il centrosinistra avrebbe avuto una diversa configurazione e non sarebbero state poste le basi per la nascita del Pd».
IL LIBRO L’anima della sinistra a cura di Claudio Sardo (Eir, pagg. 111, euro 15)

il Fatto 13.1.15
I tagli che scaricano i “matti” sulla società
Il servizio psichiatrico d’urgenza azzerato in molte regioni
I medici del 118: “Con i pazienti violenti rischiamo la vita”
di Paola Porciello


Sembra la trama di un film dell’orrore la vicenda che nella notte tra il 30 e il 31 dicembre ha visto protagonista una donna di Sarno di 52 anni, affetta da uno stato di psicosi maniacale. Gli operatori del 118, chiamati dal marito, l'hanno trovata in evidente stato di agitazione che brandiva un coltello di 50 cm. Medici e familiari sono riusciti a mettersi in salvo per un pelo solo grazie all’intervento delle forze dell’ordine. Eventi simili si presentano non di rado da quando le aziende sanitarie hanno deciso di fare a meno del medico specialista nella fascia oraria notturna. “Una riorganizzazione con tagli alla spesa – spiegano gli operatori del servizio di primo intervento – che ci fa rischiare la vita. Si tratta di pazienti già in terapia presso il servizio di Igiene mentale ed è necessario che sul posto, sia per competenze, per mezzi e possibilità di trattamento con farmaci specifici, ci sia uno psichiatra reperibile”.
LA CAMPANIA, e in particolare la provincia di Salerno, era l’ultimo avamposto che aveva resistito al progressivo smantellamento da Nord a Sud dell’assistenza specializzata “h24”. Un taglio che, a fronte di un modesto risparmio economico, sta producendo spesso l’effetto contrario. La legge Basa-glia del 1978, che ancora regola l'assistenza psichiatrica nel nostro paese, introduceva
non a caso anche una filosofia di cura individualizzata e centrata su servizi integrati nei luoghi di vita delle persone. A distanza di 37 anni la riforma pare però essere destinata a rimanere disattesa, se non addirittura cannibalizzata dai piccoli ma devastanti interventi (o mancati provvedimenti) che hanno generato servizi di salute mentale disomogenei e frastagliati sul territorio. A fronte di isolati centri di eccellenza, esistono ancora vaste zone in cui il servizio è lacunoso, con situazioni che arrivano fino al degrado e al limite della legalità.
Qualche esempio dei disservizi più clamorosi: l’apertura solo diurna dei Centri di salute mentale (Csm), spesso per fasce orarie ridotte, con conseguenti ricoveri "forzosi" che in alcuni casi somigliano più a deportazioni. L’esiguità degli interventi territoriali individualizzati e integrati spesso limitati alla sola prescrizione di farmaci. La sopravvivenza di “comunità ex-art. 26”, luoghi privi di valenza riabilitativa e più connotati come “contenitori sociosanitari”. E ancora, l’offerta di ricoveri in cliniche private convenzionate, accessibili anche senza il coordinamento dei Csm. Tutti modelli di assistenza al di fuori della cultura territoriale dei progetti “obiettivo” e dei piani per la salute mentale post legge 180.
Occorre specificare che non esiste alcuna normativa nazionale che imponga il taglio nella fascia oraria notturna. I progetti obiettivo vanno tutti in direzione contraria ma non sono vincolanti e finiscono per soccombere alle politiche sanitarie regionali che, insieme alle pressioni corporative e sindacali, determinano il quadro attuale. Dunque che fine hanno fatto le promesse prospettate dalla Legge Basaglia su diritto alla salute e libertà individuali? Se dobbiamo basarci sugli ultimi provvedimenti e sulle testimonianze di pazienti e operatori, dobbiamo concludere che è in corso una pericolosa marcia indietro.
Secondo Claudio Mencacci, già presidente della Società italiana di Psichiatria, è giusto fare a meno dello psichiatra nelle ore notturne perché "Un'urgenza psichiatrica è pari a qualsiasi altra urgenza sanitaria. In tal modo si riduce la stigmatizzazione che accompagna i pazienti psichiatrici quali pazienti 'violenti' e 'pericolosi'. A Milano, dove lavoro, c'è un numero sufficiente di psichiatri. I piccoli centri sono i più colpiti da carenze nell'assistenza".
PEPPE DELL’ACQUA, considerato da molti l'erede di Basaglia, è direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste. Per lui la rivoluzione culturale apportata dalla Legge 180 non è stata inutile: “Oggi siamo l’unico paese in Europa con una legge che ci permette di vedere che la contenzione è una violenza, non un atto medico. Purtroppo però negli ultimi 30 anni i servizi hanno subito una forte dispersione per via di forme organizzative stupide messe in atto dalle Regioni con la scusa della spending review”.

Corriere 13.1.15
Senza ricetta la pillola dei 5 giorni dopo
Contraccettivi, sì dell’Ue. L’Italia frena

di Margherita De Bac

ROMA Liberalizzata dalla Commissione europea la pillola dei «5 giorni dopo». Potrà essere venduta senza ricetta medica. Per la prima volta un contraccettivo ottiene il diritto, allargato a tutta la comunità, di saltare il filtro della prescrizione. E diventa un medicinale assimilabile a sciroppi e lassativi. Vale anche per le minorenni. Parliamo di un anticoncezionale d’emergenza. Dopo un rapporto sessuale a rischio, in 8 casi su 10 previene la gravidanza ritardando o impedendo l’ovulazione, quindi la fase di maggior fecondità. Su questo punto da anni c’è una polemica insoluta, i cattolici fermi nel sostenere che è un vero e proprio abortivo. «Lo Stato è complice se facilita questi percorsi», tuona il cardinale Elio Sgreccia, Pontificia accademia.
Ecco le motivazioni dei tecnici: «È più efficace se preso entro 24 ore dal rapporto. Rimuovere il bisogno della prescrizione dovrebbe velocizzare l’accesso al medicinale e aumentarne l’efficacia». Approvata dall’agenzia dell’Ue nel 2009, la pillola a base di Ulipristal perde così l’ultimo vincolo. In Italia è arrivata nel 2012, unico Paese ad imporre che la donna dimostri con un test negativo di non essere incinta. La ditta produttrice Hra Pharma richiederà all’Agenzia nazionale del farmaco italiana (Aifa), l’inclusione dell’anticoncezionale nella categoria dei Sop (senza obbligo di prescrizione) e l’abolizione del test. Nel 2014, circa 20 mila confezioni vendute. Perché 5 giorni? È il tempo di sopravvivenza dello spermatozoo.
Bruno Mozzanega, presidente della Società italiana di procreazione responsabile (www.sipre.eu) è furente: «Una truffa. Se il rapporto sessuale non protetto avviene il giorno precedente l’ovulazione, il più fertile del ciclo, si interviene dopo il concepimento, quindi è aborto». Dissente Carlo Bastianelli, ricercatore ginecologo dell’università «La Sapienza» di Roma: «È innocua, giusto dispensarla prima possibile senza ostacoli. Come per la pillola del giorno dopo, il libero acquisto non aumenterà le vendite».


Corriere 13.1.15
la subdola arma del terrore che vuole rubarci il futuro
La possibilità di essere coinvolti in crimini planetari provoca una paura che può paralizzare la nostra psiche
di Donatella Di Cesare

Può dunque succedere di andare al supermercato sotto casa e trovarsi d’improvviso, indifesi e inermi, sulla scena di un crimine planetario, vittime di una violenza frenetica, che vorrebbe essere sacra, di un terrore insieme lucido e incomprensibile.
All’indomani di un evento che fa epoca, che segna un prima e un poi nella storia, e muta radicalmente il paesaggio politico europeo, ci si potrebbe illudere di essere alla fine dell’incubo. Non resterebbe allora che elaborare il lutto per il crimine efferato. La vita potrebbe riprendere il suo corso normale. A un certo punto sarebbe lecito — come si dice in questi casi — voltare pagina.
Eppure ciascuno, almeno inconsciamente, sa che gli sforzi per attenuare o neutralizzare il trauma sono vani. Perché non siamo alla fine, bensì all’inizio dell’incubo. Quel che è accaduto potrebbe ripetersi — con la stessa crudele imprevedibilità. Noi continuiamo ad essere inermi, indifesi, consegnati, nella nostra nuda vulnerabilità, a una violenza asimmetrica e unilaterale che può sorprenderci e aggredirci ovunque. È una violenza che non si trincera dietro un fronte e non ha frontiere, che è evasiva e tuttavia inevitabile, che appare inquietantemente estranea, pur provenendo dall’interno. Perciò ci terrorizza.
Nel discorso politico, e in quello dei media, si parla sbrigativamente di «terrorismo» per indicare un fenomeno nuovo e sconosciuto che non si riesce né a definire né a nominare. L’ impasse della lingua è la spia di una difficoltà concettuale. Si ricorre a un’etichetta vaga, applicabile a fenomeni molto diversi che vengono così pericolosamente unificati. Per una sorta di pigrizia intellettuale ci si accontenta della riprovazione contenuta nel termine «terrorismo», senza descrivere il fenomeno. La filosofia più recente ha sottolineato sia l’ambiguità di quest’uso, sia la mancanza di coordinate e di punti di orientamento che possano contribuire a far luce sulla nuova violenza globale che congiunge fanatismo sacrificale e razionalità tecnologica.
Ma che cos’è il terrore? Che cosa lo distingue dalla paura, dal panico o dall’angoscia? L’etimologia di «terrore» rinvia alla reazione fisica, al corpo che trema e tenta di fuggire dinanzi alla minaccia improvvisa e inspiegabile. Sono presenti ancora, nella memoria di tutti, le immagini degli ostaggi che si precipitano fuori, in preda al panico. Ma il terrore, al contrario della paura, non è solo un’emozione spontanea. Piuttosto ha una dimensione collettiva e nasce dalla coscienza diffusa di un pericolo imminente. Ecco perché è potuto diventare, nel corso della modernità, un’arma politica usata nel modo forse più raffinato dal nazismo, quell’ordine del terrore in cui è stata riconosciuta l’essenza del dominio totalitario.
Nel terrore che incombe oggi sulla nostra vita quotidiana, e subdolamente si propone di cambiarla dal profondo, c’è però qualcosa di inedito, più grave e insieme più sfuggente. È un terrore che mira al futuro, che non si esaurisce in quel che è stato. Punta a produrre effetti sulla psiche di tutti, a infliggere, nelle coscienze e negli inconsci, un trauma destinato a restare aperto. Perché fa credere che il peggio non sia passato, ma sia di là da venire.
Il terrore attuale è un’arma che viene dal futuro ed è rivolta al futuro. L’attacco non è mai finito, il rischio è sempre in agguato. L’anonima invisibilità del nemico, l’indeterminatezza della causa, la difficoltà di localizzare l’aggressione, che potrebbe scatenarsi ovunque, anche nello spazio virtuale del web, rendono ancor più indecifrabile e inquietante la minaccia. Siamo allora inermi anche perché subiamo la ferita di un futuro preceduto dai segni terrificanti del peggio che deve ancora avvenire.
Se si produce nella collettività, il terrore colpisce tuttavia i singoli, divide e isola, provoca indifferenza, disinteresse, passività, depressione. La richiesta di maggiore sicurezza viene dalla somma delle paure individuali. Ma i mezzi di protezione e controllo, che spesso limitano la libertà di ciascuno, non fanno altro che rasserenare temporaneamente. La democrazia, messa a repentaglio dal terrore, colpita nel suo cardine, può difendersi solo rinsaldando il legame sociale, l’essere-insieme, la convivenza.

il Fatto 13.1.15
Solidarietà in edicola
Domani allegato al Fatto il nuovo CHARLIE HEBDO

Domani il nuovo numero di Charlie Hebdo sarà nelle edicole italiane in allegato a il Fatto Quotidiano. È il nostro modo di essere vicini e di esprimere solidarietà al settimanale francese sanguinosamente colpito dalla strage di Parigi e di testimoniare il nostro impegno per la libertà di espressione e dunque di satira. Ringraziamo gli amici di Charlie Hebdo e quelli di Libération che li ospitano per aver subito accolto con gioia la nostra proposta. Dal ricavato dell’iniziativa Fatto - Charlie (in edicola a 2 euro) trarremo una donazione per le famiglie delle vittime.
FQ

Corriere 13.1.15
Quegli improbabili campioni di libertà

Dal russo Lavrov all’ungherese Orbán, dal turco Davutoglu al gaboniano Bongo a Parigi hanno sfilato rappresentanti di governi che limitano il diritto di espressione
di Stefano Montefiori
 
PARIGI Forse una figura migliore l’ha fatta il ministro degli Esteri del Marocco, Salaheddine Mezour, che è venuto a Parigi per presentare le condoglianze a Hollande ma poi si è rifiutato di partecipare alla marcia. Assenza rara, e motivata.
Nel 2006 il settimanale marocchino Journal hebdomadaire , in un servizio sulle caricature di Maometto del giornale danese Jyllands Posten poi ripubblicate da Charlie Hebdo , mise in pagina una foto che lasciava intravedere uno dei disegni. Si scatenò la rabbia popolare, assecondata da un regime che non amava quel giornale troppo critico (e costretto a chiudere nel 2010). Domenica, dopo la visita all’Eliseo, il ministro Mezour ha disertato la manifestazione ed è tornato in Marocco, dove il governo pochi giorni prima aveva proibito la distribuzione di tutti i giornali stranieri con vignette di Charlie Hebdo (quelli nazionali neanche ci avevano provato a pubblicarle). Altri capi di Stato e di governo, domenica, non hanno avuto la stessa pur discutibile coerenza.
Si sono mostrati Charlie a Parigi, essendo persecutori di Charlie in patria. L’organizzazione non governativa Reporters sans Frontières ha protestato contro la presenza nel corteo di Paesi come l’Egitto (al 159° posto su 180 nella classifica della libertà di stampa 2014), Turchia (154°), Russia (148°) o Emirati Arabi Uniti (118°).
«Come fanno i rappresentanti di regimi predatori della libertà di stampa a sfilare a Parigi?», si legge nel comunicato pieno di sdegno di Rsf. «È intollerabile che quanti riducono al silenzio i giornalisti nei loro Paesi approfittino di Charlie per cercare di migliorare la loro immagine internazionale», ha spiegato il segretario di Rsf, Christophe Deloire.
Tra mille scritte «Je suis Charlie» c’erano pure il ministro degli Esteri russo Lavrov, il premier ungherese Viktor Orbán, il premier turco Davutoglu, il presidente del Gabon, Ali Bongo. Non esattamente i migliori amici dei giornalisti.
«E perché non Bashar al Assad?», si è allora chiesta su Twitter la reporter di Le Monde Marion Van Renterghem, inaugurando l’hashtag di grande successo # PauvreCharlie , povero Charlie. In molti hanno chiesto l’arrivo del nordcoreano Kim Jong-un, o lamentato la spiacevole assenza del dittatore cileno Augusto Pinochet (morto nove anni fa).
Hollande ha capito che l’arrivo degli improbabili campioni di libertà a Parigi rischiava di intaccare lo stato di grazia collettivo, e ha cercato di distinguere. Un conto era la marcia repubblicana per la libertà di espressione, un altro la lotta al terrorismo: e se il russo Lavrov non ha titolo per la prima, può tornare utile per la seconda.
Non a caso il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha proclamato che Parigi era domenica «la capitale mondiale della resistenza contro il terrorismo»: i capi di Stato e di governo sfilavano contro gli attentati, più che a favore di Charlie Hebdo . Ma se la sfumatura ha permesso di salvare la giornata da un punto di vista diplomatico, il corto circuito si è creato quando anche i politici più discussi si sono messi a marciare, per pochi minuti, sullo stesso boulevard calpestato dalla folla immensa di «Je suis Charlie».
Così, abbiamo visto Sameh Shoukry, ministro degli Affari esteri dell’Egitto, Paese dove attualmente sedici giornalisti sono incarcerati. Tra loro, i tre di Al-Jazeera in prigione dal dicembre 2013, accusati di avere diffuso false notizie e di essere vicini ai Fratelli musulmani. Poi Ahmet Davotoglu, primo ministro della Turchia, dove la lotta al terrorismo, secondo Reporters sans frontières, viene regolarmente utilizzata per giustificare la persecuzione di giornalisti sgraditi al regime. Nel dicembre scorso 24 persone sono state arrestate dopo le perquisizioni tra i media dell’opposizione al presidente Erdogan. L’Algeria, al 121° posto nella classifica di Rsf, era rappresentata dal ministro degli Esteri Ramtane Lamamra, che ha potuto manifestare a Parigi quando ad Algeri sono proibite le manifestazioni contro il quarto mandato del presidente Abdellaziz Bouteflika.
E poi Ali Bongo, ultimo protagonista della dinastia che governa il Gabon, dove appena il 3 gennaio scorso il giornalista Jonas Moulenda, autore di un’inchiesta sui crimini rituali, è stato costretto a rifugiarsi in Camerun. «Non posso dire che vedere Ali Bongo alla marcia mi abbia fatto bene», ha detto in tv Laurent Léger, uno dei giornalisti sopravvissuti per miracolo al massacro di Charlie Hebdo . E ancora il presidente del Benin, Boni Yayi, che ha decretato un giorno di lutto nazionale e ha marciato a Parigi quando i giornali Le Béninois libéré e L’indépendant in patria sono perseguiti per offesa al capo dello Stato.
Uno dei casi più interessanti, perché nell’Unione Europea, è quello di Viktor Orbán, primo ministro dell’Ungheria, che non solo dal 2011 punisce per legge l’«informazione non equilibrata», cioè critica nei confronti del suo potere, ma ha pure approfittato della marcia della fraternità per dire alla tv di Stato di Budapest che i massacri di Parigi dovrebbero servire da lezione: «Non vogliamo vedere tra noi minoranze con caratteristiche culturali diverse. Vogliamo che l’Ungheria resti l’Ungheria».
Luz, altro vignettista superstite, è amareggiato: «Abbiamo visto sfilare tutti i nostri personaggi. Pure l’assurdità contro la quale ci battiamo, era alla marcia».

il Fatto 13.1.15
Leader nel soffocare la libertà d’espressione
Trova l’intruso
Nella sfilata dell’ipocrisia a Parigi dietro i big europei c’erano 20 leader (dalla Turchia alla Russia alla Giordania) che nei loro Paesi calpestano la libertà di stampa
di Salvatore Cannavò


Con i due milioni di parigini in piazza hanno sfilato anche 50 capi di Stato e di governo. La foto dei leader apparsa su tutti i giornali del mondo ha puntato a rappresentare i milioni scesi a manifestare. Ma, scorrendo i loro nomi, e al netto dei giudizi politici, non sempre sono in grado di onorare la loro presenza. Basta leggere l’elenco e guardare alla situazione dell’informazione nel rispettivo paese.
Re Abdallah di Giordania. In prima fila accanto alla bella moglie Ranja, guida un paese in cui la libertà di informazione è talmente ridotta da figurare al 149° posto nella classifica stilata da Reporters sans frontieres (Rsf). È di pochi giorni fa la condanna ai lavori forzati dello scrittore e accademico palestinese Mudar Zahran.
Ahmet Davutoglu, primo ministro turco. Il paese di Erdogan tiene in carcere decine di giornalisti. Secondo il Cpj (Comitato per la protezione dei giornalisti) è il maggior paese al mondo a incarcerare i giornalisti seguito da Iran e Cina (non presenti in piazza).
Benjamin Netanyahu premier di Israele. Secondo Rwb molti giornalisti sono stati arrestati arbitrariamente. Il paese è al 96° posto nella classifica sulla libertà di informazione citata. Sameh Choukry, ministro Esteri Egitto. La notizia è del 20 dicembre, il giornalista Mahmoud Abou Zied ha denunciato di essere stato rapito e imprigionato da almeno 16 mesi. Nonostante sia in carcere da 500 giorni, la sua carcerazione è stata prorogata. L'Egitto è al 159° posto in classifica. Sergej Lavrov, ministro Esteri Russia. Il governo di Mosca tiene imprigionati diversi giornalisti tra cui il blogger Dmitry Shipilov, in galera dal 10 settembre, arrestato dopo un'intervista a un esponente dell'autonomia siberiana. La Russia è al 148° posto della classifica.
Abdallah ben Zayed Al-Nahyane, ministro degli Esteri degli Emirati arabi uniti. Anche tra gli emiri c’è l'usanza di incarcerare giornalisti, come l'egiziano Anas Fouda, tenuto in isolamento per un mese senza accuse. Gli Eau sono al 118° posto.
Mehdi Jomaa, primo ministro Tunisia. Il paese della “primavera araba” ha recentemente imprigionato per 3 anni il blogger Yassine Ayan per aver diffamato l’esercito. Una “grossa violazione del diritto di espressione ” secondo Amnesty International. Il paese è al 133° posto nella classifica di Rwb.
Boïko Borisov, capo del governo Bulgaria. Il paese non ha mancato di distinguersi negli attacchi ai giornalisti come quelli avvenuti a luglio davanti al parlamento di Sofia. La Bulgaria è al 100° posto nella classifica
Eric Holder, ministro Giustizia Usa. Anche il paese campione della libertà limita quella di stampa come avvenuto durante gli incidenti di Ferguson dove la polizia ha arrestato e detenuto ingiustamente alcuni reporter del prestigioso Washington Post. Nella classifica di Rwb, in ogni caso, gli Stati Uniti sono al 46° posto.
Antonis Samaras, premier Grecia. Per reprimere le tante manifestazioni di protesta la Grecia ha più volte colpito e ferito i giornalisti. Tanto che si trova al 99° posto nella classifica. La seconda peggior posizione di tutta la Ue.
Jens Stoltenberg, segretario generale Nato. L’Alleanza atlantica non ha mai risposto del bombardamento, e l’uccisione, di 16 giornalisti serbi a Belgrado nel 1999.
Ibrahim Boubacar Keïta, presidente Mali. Molti giornalisti sono stati espulsi (fonte Cpj) dopo aver denunciato la violazione dei diritti umani. Il Mali è al 122° posto della classifica. Viktor Orban, premier ungherese. Da quando è al potere, il premier si è distinto per gli attacchi alla stampa e all’indipendenza dei media. Dal 2010 vige una legge molto restrittiva. Al 64° posto nella classifica.
Ali Bongo, presidente del Gabon. I quotidiani di opposizione hanno denunciato a settembre la chiusura temporanea delle pubblicazioni a causa della pirateria informatica del governo che però nega. 98ª posizione.
Miro Cerar, primo ministro Slovenia. Casi di blogger condannati a 6 mesi di prigione per diffamazione come nel caso di Mitja Kunstelj. Il paese, però, tra quelli considerati è tra i migliori della classifica, al 34° posto.
Enda Kenny primo ministro Irlanda. Ancora meglio fa l'Irlanda, 16ª nella lista stilata da Rwb. Eppure il paese di Kenny considera ancora la “blasfemia” un’offesa da condannare.
Ewa Kopacz, primo ministro Polonia. Il paese che esprime anche il presidente della Ue, Donald Tusk, è quello che, lo scorso giugno, ha requisito una montagna di intercettazioni ambientali tra politici comprovanti un importante caso di corruzione. La Polonia è comunque al 19° posto della classifica.
David Cameron, premier Gran Bretagna. Il governo inglese è quello che ha minacciato e perseguito il giornale The Guardian per il caso Snowden chiedendo insistentemente di distruggere gli hard disk dei suoi computer. 33ª posizione.
Il fratello dell’emiro Mohamed Ben Hamad Ben Khalifa Al Thani del Qatar. Lo scrittore e poeta Mohamed Rashid al-Ajami è stato condannato a 15 anni di carcere per avere insultato il regnante. Il paese è al 113° posto.
Nizar al-Madani, numero due dell'ambasciata saudita. Solo venerdì scorso, nel paese il blogger Raif Badawi è stato condannato a 10 anni di prigione e a 1000 frustate da diluire in 20 settimane per aver “insultato” l'Islam. L’Arabia saudita è al 164° posto della classifica sulla libertà di informazione.

La Stampa 13.1.15
Cofferati: “Regole stravolte E Renzi se ne sta zitto”
L’ex sindaco: “È riuscito il tentativo di snaturare la competizione grazie a ex fascisti e vecchi arnesi. Sono successe cose da Procura”
di Federico Geremicca


«Io di Renzi non parlo. Lui fino ad ora non ha detto una sola parola, e se sta zitto non posso attribuirgli un ruolo che il segretario né rivendica né smentisce. Ma la questione delle regole stravolte e dell’inquinamento delle primarie liguri l’ho denunciata per tempo a tutti i livelli. A Roma ci sono persone che rivestono ruoli per esercitarli: ecco, io attendo che comincino a farlo». Parla Sergio Cofferati, detto «il cinese», anche se è meglio lasciar perdere soprannomi e ironie, visto che le primarie contro Raffaella Paita lui le avrebbe perse, dice, anche per colpa di un po’ di cinesi...
Sono stati loro a fregarla?
«Ce lo dirà la Commissione dei garanti, ai quali abbiamo girato un mucchio di segnalazioni. Cinesi, giovani marocchini, ex fascisti e vecchi arnesi».
Tutti contro di lei? E perché mai, onorevole?
«Perché il tentativo di snaturare le primarie, qui in Liguria è perfettamente riuscito: dovevano servire per scegliere il candidato-presidente, le hanno trasformate nello strumento per decidere le future alleanze. E per farlo hanno usato tutto e di più».
Concretamente?
«La mia avversaria ha avviato le primarie dicendo: se vinco io, governerò col nuovo centrodestra. E il nuovo centrodestra ha ringraziato e si è dato da fare. Il segretario regionale dell’Ncd ha annunciato: voto e farò votare per lei. È un ex fascista non pentito e inquisito per voto di scambio: quando, dove e chi ha deciso che in Liguria dobbiamo governare con gente così?».
Magari era una fanfaronata, e poi non è successo e non succederà niente...
«Errore: è successo. In tutti i Comuni dove il sindaco è dell’Ncd, Raffaella Paita ha vinto con percentuali improbabili. Ci sono state riunioni organizzative, come quella voluta dall’ex senatore Orsi (Pdl) sindaco di Albissola, per influenzare il voto alle nostre primarie. Per inciso: Orsi è quel parlamentare che abbandonò il palco per protesta mentre Scalfaro celebrava il 25 aprile... Quel che è accaduto era noto da settimane: loro gli hanno dato anche un nome».
Un nome?
«Sì, un nome: io li accusavo di voto di scambio, loro mi hanno risposto (intervista di Orsi al Corriere della Sera) che era un voto di scambio amministrativo. Hanno votato Raffaella Paita per tornare al governo della Liguria».
E Renzi zitto?
«Lui sì, la sua ministra Pinotti no. È andata a Sestri Levante a sostenere la mia avversaria dicendo che era indispensabile fare un governo come a Roma: e che dunque era giusto cercare i voti della destra».
E Renzi zitto?
«Lui sì, il governatore uscente della Regione no. Burlando gli ha mandato un tweet domenica sera: penso di riuscire a farti un gradito regalo per la tua festa di compleanno. Immagino si riferisse alla vittoria della Paita e al conseguente governo col centrodestra».
È scandalizzato?
«Non per questo, si figuri, anche se io avevo inteso che l’alleanza con Alfano fosse frutto di una fase di emergenza: si fanno le riforme e si torna a votare. È cambiata la linea? Ripeto: dove e quando?».
È scandalizzato per cosa, allora?
«Per quel che ho visto e che mi hanno raccontato. Decine di marocchini sedicenni portati ai gazebo. Gruppi di cinesi guidati da un capo che pagava per tutti e diceva chi votare. E a Lavagna, addirittura, il caso di una signora che vota, poi le vengono chiesti - come da regolamento - due euro e lei sbotta: ma come, me li hanno appena dati e li devo restituire? Roba da Procura, qualcuno forse lo denuncerà».
Perché non lei?
«Perché alcune di queste cose non le ho viste di persona. E perché tengo al partito in cui milito: sono uno dei 45 fondatori del Pd...».
Al punto di accettare una sconfitta così?
«Io aspetto quel che diranno i garanti, e poi deciderò cosa fare. Sarebbe meglio facesse lo stesso anche Orfini, presidente del Pd.
Ho letto che dice che verrà annullato qualche voto e si andrà avanti: peccato che i garanti tornino a riunirsi proprio domani...».

La Stampa 13.1.15
Il reclutatore degli stranieri “Votare è un loro diritto”
di Maurizio Fico


Non solo i cinesi a La Spezia, ma anche i nordafricani ad Albenga e schiere di albanesi e altri extracomunitari a Savona. Qui in particolare c’è stata una vera e propria regìa. Il suo autore non si nasconde, anzi è orgoglioso del risultato. Lui è Franco Costantino che nel 2007, alla fortezza del Priamar, organizzò il primo concerto per gli albanesi, comunità che a Savona guida nettamente la classifica della popolazione straniera (2433 residenti). Impegnato da quasi vent’anni in iniziative sociali a fianco di immigrati, Costantino, che si definisce «un socialista indipendente senza tessere in tasca», responsabile nazionale dell’Aics (associazione italiana cultura e sport) e con vari incarichi nel mondo dell’associazionismo e del volontariato rivendica con orgoglio il suo contributo al successo della Paita, attraverso un piccolo esercito composto da albanesi, nigeriani, dominicani e brasiliani. A Savona, dove il sindaco Berruti, renziano della prima ora, appoggiava invece Sergio Cofferati, e dove in giunta siede il fratello di Costantino, Jorg, molti albanesi si sono schierati con Paita. «Nessun segreto, chi vuole può andarsi a leggersi i nomi di queste persone che hanno esercitato con senso civico e intelligenza un diritto importante, tra l’altro ampiamente legittimato dalla stesse regole sottoscritte dal Pd. La reazione scomposta di Cofferati apre piuttosto degli interrogativi: quando le regole non corrispondono più ai risultati sperati allora le mettiamo in discussione?» Costantino usa toni duri: «Chi sta cercando di far passare come voto organizzato questa giusta rappresentanza è in cattiva fede e ai limiti della diffamazione».
Perché l’appoggio degli albanesi e di altri extracomunitari a Paita? «Ha fatto suoi gli impegni di Burlando. Il presidente uscente in questi anni, personalmente e attraverso diversi assessori si è distinto nel saper raccogliere le istanze degli stranieri, cercando in certi casi di superare i lacci molto stretti della Bossi-Fini. Credo che la Paita intenda istituire un tavolo in cui sia riconosciuta una giusta rappresentanza ai miei amici immigrati e confido che presto possa essere organizzato un primo incontro. Cofferati non l’ho mai visto a fianco degli extracomunitari, nelle zone degradate di Genova e della Liguria». Aggiunge Costantino: «Io non ho organizzato proprio nulla, sono stati i rappresentati di queste comunità a chiedermi un aiuto per potersi finalmente rendere visibili e far sentire la propria voce. La mia presa in carico delle loro attese è assolutamente lecita e trasparente. Si tratta di persone con regolare permesso di soggiorno o naturalizzati e residenti a Savona che da 8-15 anni contribuiscono con il proprio lavoro alla crescita economica della città. Pagano le imposte e i contributi».

Corriere 13.1.15
Liguria, la vittoria di Paita appesa al verdetto dei garanti pd
di Erika Dellacasa


Non c’è ancora la proclamazione. Domani la decisione sui ricorsi Genova Un fatto è certo: la proclamazione della vincitrice non è ancora avvenuta. Grava l’ombra dei ricorsi sulle primarie del centrosinistra in Liguria, vinte da Raffaella Paita contro Sergio Cofferati. A tenere tutto in sospeso è la decisione della commissione di garanzia, che dopo aver preso atto di «segnalazioni che denunciano gravi irregolarità nelle operazioni elettorali» si è aggiornata a domani per esaminare almeno quattro episodi.
«Abbiamo chiesto — spiega Fernanda Contri che presiede la commissione — di acquisire i verbali dei seggi in cui sono segnalate irregolarità». I verbali devono essere consegnati dal comitato elettorale che ieri ha «tecnicamente» convalidato il numero dei votanti (54.941) e il risultato finale (28.973 voti per Paita al 53,1% e 24.916 per Cofferati al 45,6%) quindi lo ha trasmesso al comitato politico dopo un confronto serrato sugli immigrati. Qui infatti sta il nodo. Anche se la commissione accertasse le accuse di aver fatto votare extracomunitari ignari (fornendo loro i 2 euro) o altre scorrettezze, potrebbe annullare il voto nei singoli seggi ma non le primarie. «Non spetta a noi convalidare il vincitore» spiega Contri «ma all’organo politico». E il comitato politico dovrebbe aspettare il verdetto della commissione.
I sostenitori di Paita fanno sapere che gli extracomunitari che hanno votato non supererebbero quota mille. Da Roma il vicesegretario del Pd Guerini ha affermato che «se ci sono state situazioni non corrette saranno sanzionate», poi ha difeso le primarie come «strumento con una larga partecipazione». Paita guarda al governo della Regione e apre a Cofferati: «Ho vinto contro un big nazionale e con uno scarto di 4mila voti, un margine enorme. Non mi aspettavo la sua reazione, ma penso che prevarrà il buonsenso. Abbiamo bisogno anche di lui per costruire questa nuova fase».
Ma l’ex leader della Cgil non raccoglie e insiste sulla necessità di «andare fino in fondo», pur non chiedendo l’annullamento del voto: «Se le primarie vengono stravolte dal voto di centrodestra, anche un cieco vedrebbe che siamo di fronte a una novità inquietante — ha detto l’eurodeputato, che oggi potrebbe incontrare Renzi a Strasburgo —. Così si perde credibilità. Non ho obiezioni sul fatto che gli stranieri vadano a votare. Il problema è quando ci vengono portati in massa senza sapere cosa fanno». «Quella di Paita è una vittoria enorme — dice il governatore Burlando a LaPresse —. Io ne sono stato fuori ma quando ho capito che Cofferati avrebbe fatto della demolizione del mio lavoro di 10 anni il centro del suo messaggio ho voluto dire la mia». Dal centrodestra intanto la Lega gioca la sua carta, la candidatura di Edoardo Rixi, vice di Salvini .

Corriere 13.1.15
«Voto pagato». Il giallo del seggio di Albenga
L’ex sindaco leghista: ho visto rimborsare gli stranieri
Anche il segretario dem di Savona accusa
di Francesco Alberti


ALBENGA (Savona) La signora che stende il bucato alla finestra di via Roma indica l’enorme portone che sovrasta i vicoli del centro storico medievale: «Lo vede? È quello verde. C’era una ressa di stranieri domenica mattina che pareva il Ramadan…». Al bar d’angolo è lunedì di frizzi e lazzi: «Per un giorno tutti fieui di Caruggi (ragazzi dei vicoli, ndr ): bianchi, neri e gialli…».
Eccola qui la copertina delle ennesime primarie finite in baruffa (se va bene): Albenga, 23 mila anime, 1.590 votanti all’altare laico dei Democratici per scegliere tra Raffaella Paita e Sergio Cofferati. Un’enormità quanto a partecipazione se solo la si paragona ai 250 votanti di Alassio (su 11 mila abitanti) o ai 392 di Albissola (10 mila residenti). E mica è finita: di queste 1.590 schede, 1.320 portavano il nome della Paita e solo 236 erano per il Cinese.
Fulvio Briano, segretario del Pd di Savona, la mette giù piuttosto pesante: «Ci sono arrivate segnalazioni che parlano di persone che avrebbero guidato al voto alcuni stranieri extracomunitari. Mi sono stati riferiti anche scambi di denaro e foto scattate nei seggi: se è vero, siamo al voto di scambio, roba da codice penale…». Rosy Guarnieri, leghista che qui ha fatto il sindaco fino a 6 mesi fa, conferma e rilancia: «Marocchini, cingalesi e indiani, tantissimi… Mi hanno avvertito, sono andata e ho visto in piazza Trinchieri alcune persone che rimborsavano i 2 euro del voto ad alcuni stranieri. C’è stato anche un momento di agitazione quando dal seggio è uscito un sostenitore di Cofferati, gridando: “Adesso basta, sennò ci mettiamo anche noi a distribuire soldi”».
È caccia a «manine» e «gran burattinai» il giorno dopo ad Albenga. A sentire gli analisti locali, il fronte pro Paita è un ginepraio di interessi nel quale figurano segmenti del Pd ferocemente anticofferatiani e pezzi di centrodestra legati all’ex plenipotenziario di Forza Italia, Claudio Scajola, in disgrazia, ma ancora capace di farsi sentire da Levante a Ponente. È stato un suo uomo, Franco Orsi, sindaco di Albissola ed ex senatore, ad infiammare queste primarie schierandosi apertamente per Paita e scatenando la reazione del Cinese e della sinistra dem contro le «incursioni della Destra». Fioccano in queste ore le segnalazioni di noti esponenti del centrodestra visti ai seggi pd pagare i 2 euro e votare. Scenari che Lella, come chiamano la vincitrice da queste parti, rigetta infastidita: «I miei voti? Nei giorni dell’alluvione c’ero io in queste terre, con il fango alle ginocchia: non ho visto Cofferati… Mi ha aiutato il sindaco, Giorgio Cangiano, che sul territorio è fortissimo». Fede pd, fresco di nomina, Cangiano è ritenuto l’uomo forte di Albenga assieme al cugino e parlamentare dem, Franco Vazio, con il quale divide lo studio da avvocato. «Il boom di votanti — spiega il primo cittadino — nasce dal fatto che qui il Pd è tutto per Raffaella…». Anche marocchini e cingalesi? «Beh, tutta questa ressa io non l’ho vista. E poi è bello se gli immigrati partecipano». Con lui, Alessandro Andreis, segretario del Pd cittadino e suo assessore: «C’è gente che parla per sentito dire. La quota degli stranieri al voto qui è stata del 10%…». Almeno 150 voti.
È un fiume in piena il giallo di Albenga. Raccontano di calciatori sedicenni portati al seggio assieme alle famiglie per votare Paita. Lo denuncia Eraldo Ciangherotti, capogruppo di Forza Italia: «Questi giovani atleti, in quanto minorenni, non potranno votare per le Regionali: ma a chi li ha portati al seggio interessavano solo le primarie». Circola un nome: Roberto Schneck, 44 anni, architetto, una carriera in FI (ex assessore in Provincia), quindi l’addio a Berlusconi e un presente da indipendente. Da vicepresidente della società Albenga Calcio, su di lui si appuntano i sospetti di aver arruolato calciatori in erba alla causa del Pd. Al telefono si fa di nebbia. Ma c’è chi giura che, in caso di vittoria alle Regionali di Lella Paita, risponderà al volo all’offerta di entrare in giunta .

Corriere 13.1.15
Voto «cammellato» primarie al tramonto
di Antonio Polito


La storia delle primarie regionali del Pd sembrava destinata a fermarsi a Eboli, e invece è finita a La Spezia. C’è infatti un punto oltre il quale il simbolo della riconquistata freschezza giovanile e democratica del Pd si trasforma nello specchio di Dorian Gray.
Lo specchio delle primarie all’improvviso restituisce l’immagine, piena di rughe e anche un po’ ripugnante, della politica più vecchia e decrepita: quella dei capibastone, delle correnti, dei brogli e dei sospetti.
Questo limite è stato varcato domenica in Liguria, dove la vincitrice Raffaella Paita, «quarantenne renziana che promette anni rock», come la descrivono le cronache del nuovismo, viene accusata dall’attempato, grigio e antirenziano Sergio Cofferati di aver vinto anche grazie a numerose irregolarità: roba da Procura a suo dire, contro le quali ha presentato ricorso. Come al solito, il sospetto si appunta sul voto «cammellato»: non perché troppo multietnico (sarebbe paradossale prendersela con i numerosi elettori cinesi per non aver votato il «cinese»; né di questi tempi si può criticare l’entusiasmo democratico di marocchini e rom, pure loro accorsi alle urne in numero abnorme); ma perché suscettibile di essere stato organizzato e fors’anche retribuito.
In più, in Liguria è di nuovo esplosa la polemica che fu al centro dello scontro tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi nelle primarie per la scelta del segretario: gli elettori di centrodestra, e addirittura i sindaci e i dirigenti del centrodestra, possono partecipare alla scelta del candidato del Pd? Sì per la vincitrice, che ha ricevuto il sostegno esplicito di pezzi di Forza Italia ormai orfani di padrini; no per lo sfidante Cofferati, perché avrebbero «inquinato» il voto.
Ora la gatta da pelare è direttamente sul tavolo di Renzi: la commissione di garanzia dovrà decidere se annullare o confermare un risultato così contestato. Ma non è l’unica grana. Un’altra, potenzialmente più grossa, sta scoppiando in Campania. Dove, a dire il vero, detengono il copyright delle primarie finite in Procura. Quelle per scegliere il candidato sindaco di Napoli, nel 2011, furono annullate per brogli aprendo la strada al suicidio del Pd e al trionfo di de Magistris: su di esse è aperta un’inchiesta della Procura antimafia, così come per il voto nel salernitano in occasione della vittoria di Renzi nel 2013. Roma vorrebbe evitare ad ogni costo un nuovo armageddon in Campania, anche perché non si fida dei due maggiori concorrenti, Vincenzo De Luca e Andrea Cozzolino, stagionati e discussi dirigenti in prima linea fin dai tempi del Pci, entrambi già candidati cinque anni fa (De Luca è anche in attesa di sentenza per peculato). Ma i plenipotenziari del segretario, che pure hanno imposto già per due volte il rinvio del voto, non sono ancora riusciti a farlo saltare regalando una candidatura octroyée a Gennaro Migliore, transfuga vendoliano. Cosicché se ora le primarie si fanno, Renzi ci fa una brutta figura; e se le impedisce, ce la fa lo stesso.
Una cosa sembra ormai chiara: il sistema delle primarie locali è giunto al capolinea. Per una ragione giuridica e una politica. La prima è che nessuna consultazione può dirsi democratica se prima di iniziare non c’è un elenco di chi ha diritto al voto. Anzi, diventa un raggiro della democrazia, e in quanto tale non è più un affare interno al Pd. Il fatto che in molti casi le primarie siano andate bene (in Veneto e Puglia, per esempio) non assolve il metodo, perché se può fallire anche una sola volta vuol dire che non ci si può mai fidare dei risultati. Sono ormai in molti, anche nel Pd, a dire che senza una legge dello Stato non si possono più fare.
La ragione politica è che lì dove il partito è spaccato in correnti e gruppi di potere le primarie rischiano addirittura di peggiorare le cose, offrendo l’occasione per una lotta nel fango senza esclusione di colpi. Comprare gli elettori non è infatti meglio che comprare le tessere.

Repubblica 13.1.15
Cinesi, marocchini e baby atleti Albenga epicentro dell’autogol
di Massimo Calandri


ALBENGA Un voto per diventare in cambio un calciatore vero: un campione, mica un dilettante. “Quel candidato ha promesso che darà una mano alla squadra. E anche tu avrai la tua occasione. Fidati”. E un altro voto per lavorare nelle serre dei carciofi: “Fai come ti dico, quella persona è dei nostri. Se avremo i finanziamenti europei l’azienda farà più affari: tu guadagnerai bene, il padrone non ti licenzia più”. Primarie del Pd. Albenga, l’alba dell’ultimo autogol della sinistra. Dicono che ci siano stati imbrogli, pasticci. Che si siano venduti le preferenze per questo o quello, che rimborsavano i due euro per accedere al seggio e aggiungevano una piccola mancia: cappuccino e focaccia, buon appetito. Che si siano rivolti ad extracomunitari e minorenni, tanto bastano 16 anni e un documento di identità. Rosy Guarnieri, ex sindaco leghista di Albenga, giura: “Ho le immagini della gente che è stata pagata dopo avere lasciato il seggio. Un piccolo filmato, non si vede molto ma abbastanza. E’ a disposizione dei magistrati, se vogliono”. Sarebbe successo in piazza Trinchieri, vicino all’auditorium San Carlo di via Roma, dove domenica al seggio hanno raccolto 1.590 voti: 1.320 per Paita, 246 per Cofferati, 8 nulli, 4 schede bianche. “Votavano, poi venivano in piazza col certificato. Molti marocchini, qualche ragazzo di qui. Qualcuno gli dava 5 monete da un euro. Per rimborsargli i 2 spesi per votare, e per pagargli la colazione”. Lo raccontano tutti, ma per sentito dire. Come Eraldo Ciangherotti, esponente di Fi e assessore nella precedente giunta albenganese di centro-destra, pronto a fare da sponda. “Via Roma sembrava Marrakesh, il seggio un Centro di identificazione: tutti in colonna ad aspettare il loro turno. Almeno così mi hanno detto”. Anche Paolo Tabita, che per conto della lista Cofferati ha firmato la segnalazione che domenica notte ha fatto evocare l’intervento delle procure, racconta di ‘voci’ su presunte consegne di denaro. E sulle ‘truppe cammellate’ che sarebbero state portate da quelli dell’altra lista. C’è la storia dei ragazzini dell’Albenga Calcio, quelli che vorrebbero diventare tutti dei campioni. Durante la settimana alcuni di loro hanno ricevuto degli sms che suggerivano di presentarsi al seggio e mettere una croce sul candidato ‘giusto’. Il messaggio proveniva da un dirigente della società, che in passato ha fatto politica per Forza Italia ma ha promesso di appoggiare la Paita con una lista civica alle prossime amministrative. “Non c’è niente di male. E poi questo non è mica un voto vero. Sono solo le primarie”, confessa un sedicenne col sorriso timido di chi pensa sia tutto un gioco.
“Quando si era trattato di votare Renzi, ad Albenga si erano presentati in 1.200. Domenica 400 in più. I conti non tornano”, insistono quelli che non ci stanno. Puntano l’indice sugli extracomunitari, in particolare la comunità marocchina. Dicono che la differenza l’avrebbero fatta loro, in cambio di un’assicurazione sul lavoro. Qualcuno fa il nome di Alessandro Andreis, segretario locale del Pd, assessore all’agricoltura e floricoltore. Lui è un paitiano. E dà lavoro a decine di stranieri. Le truppe cammellate, appunto. “Veramente in questo momento i miei dipendenti stranieri sono solo 4. Tre vengono dal Bangladesh. So per certo che uno di loro ha votato perché ero al seggio e l’ho visto arrivare con la moglie: vivono qui da anni, lei gestisce un negozio, sono perfettamente integrati. Mi sembra che abbiano tutti i diritti di partecipare alle primarie, o no?”. Andreis sostiene che gli extracomunitari che hanno partecipato alle primarie di Albenga sarebbero circa 150: non più del 10% dei votanti. Ma lo sa anche lui che c’è qualcosa che non va. “Domani saranno resi pubblici gli elenchi. E sapremo esattamente chi ha votato. Quanti adolescenti, extracomunitari. Tutti i dubbi spariranno”. Rosa Bellantoni era il presidente del seggio: “Davanti a me, non è successo nulla di strano: e non ho notato particolari differenze rispetto alle altre primarie. Qualcuno nelle prossime ore che giudicherà gli esposti. Fino a domani, basta con le dietrologie”. Gli elenchi di chi ha votato sono in uno scatolone custodito nella sede del Pd di Savona, in via Untoria. Gli fa la guardia un vecchio compagno, Gian Carlo Berruti. “La segnalazione sulle presunte irregolarità l’abbiamo girata alla commissione. All’inizio ho pensato: ‘Belin, un altro casino’. Ma poi ho visto che erano solo cose riferite. Però, che tristezza. Io sono uno che viene dal Pci, a queste brutte storie non mi sono ancora abituato”.

Repubblica 13.1.15
Cambiare le regole al voto dei sospetti
di Sebastiano Messina


C’È CHI ha contato i turchi di Imperia e chi ha fotografato i cinesi di La Spezia, chi ha ascoltato i marocchini ad Albenga e chi ha avvistato gli alfaniani a Genova, e vai a sapere quanto hanno pesato queste incursioni sospette sulla vittoria della renziana Raffaella Paita.
MA SULLE primarie del Pd per la presidenza della Regione Liguria pesa l’inaccettabile sospetto che siano state decise da quegli stranieri che nel loro italiano pasticciato chiedevano la scheda per scegliere il successore di Burlando e poi, all’uscita, domandavano ingenuamente dove dovevano andare per ritirare il premio promesso.
È vero: non si raccolgono 29mila voti — quattromila in più di Sergio Cofferati, uno che non ha mai avuto bisogno di stampare volantini per farsi riconoscere dai suoi elettori — portando ai seggi i cinesi con il pulmino. E infatti persino ad Albenga, dove i marocchini reclamavano la ricompensa, non basterebbe annullare il voto di tutti i 147 extracomunitari che hanno votato lì per riequilibrare un risultato davvero senza storia: 1320 voti per la Paita, 246 per Cofferati. Eppure c’è qualcosa che non va, in quelle comitive di cinesi che si so- no presentati al seggio di La Spezia o in quella processione di settanta turchi che andavano a votare a Porto Maurizio.
Così come c’è qualcosa che non va in quel sindaco ex An di Albisola Superiore che ha radunato gli amministratori della Riviera per sostenere la Paita, o in quel capogruppo dell’Ncd che candidamente annuncia che manderà i suoi elettori a votare per la candidata renziana, dando nomi e volti ai sospetti di un inquinamento politico di una consultazione promossa, organizzata e riconosciuta dal Partito democratico.
Cosa c’è che non va? C’è che le primarie, quella festa della democrazia e della partecipazione che abbiamo importato — insieme a tante altre cose — dalla politica americana, rischiano di essere macchiate, snaturate e delegittimate dalle incursioni e dalle scorribande di chi non c’entra nulla né col Pd né con le elezioni italiane, e si presenta al seggio solo per dare un voto venduto davanti alla porta oppure per scegliersi l’avversario preferito. Non è, quella di Genova, una storia nuova. Le primarie per il sindaco di Napoli, quattro anni fa, furono annullate per i troppi so- spetti, e poi si scoprì il tariffario del clan Lo Russo: dalla borsa di pane-latte-carne per un voto singolo ai cinquanta euro per un voto doppio, il primo alle primarie e il secondo alle amministrative. E anche adesso, in Campania, organizzare le primarie è diventato un incubo, visto che dopo aver rinviato la data per due volte stanno cercando di “superarle” con un candidato scelto a Roma.
L’invocazione delle primarie si è tramutata nella paura delle primarie. Ma sarebbe un errore imperdonabile tornare indietro. Senza le primarie, uomini estranei alla nomenklatura di partito non sarebbero diventati sindaci di Milano, di Genova, di Roma o di Cagliari. Senza le primarie, i partiti — non tutti: quelli che le hanno adottate, perché per gli altri non è cambiato nulla — continuerebbero a scegliere i candidati senza tener conto della volontà dei loro militanti, dei loro iscritti, dei loro elettori.
Ma le primarie, per funzionare, hanno bisogno di regole efficaci. La prima regola è che le primarie funzionano quando più persone si battono per una sola candidatura, perché così lo scontro diretto per la maggioranza assoluta fa emergere pregi e difetti di ciascuno. Sono invece un disastro se vengono organizzate per compilare una lista, quando basta un consenso parziale, perché allora si torna alla guerra delle preferenze (e ci sarà un motivo se il candidato più votato d’Italia alle primarie del Pd per il Parlamento, il messinese Francantonio Genovese, è stato anche il primo a finire in galera). La seconda regola è che devono parteciparvi solo i cittadini che siano riconosciuti come elettori di quel partito. Negli Stati Uniti chi voleva scegliere tra Barack Obama e Hillary Clinton doveva essere un “registered democrat”, un elettore democratico regolarmente registrato nelle liste ufficiali. Quanto agli immigrati, nel Paese più multietnico del pianeta, possono votare tutti — cinesi, marocchini, turchi e sudamericani — ma solo dopo essere diventati cittadini americani. La terza regola — la regola delle regole — è che le primarie vanno organizzate non con uno statuto ma con una legge dello Stato. Non giriamoci intorno: se vogliamo le primarie all’americana, dobbiamo adottare anche quelle scomode regole che lì le fanno funzionare. È finito il tempo delle primarie alle vongole.

il Fatto 13.1.15
Foto alle schede, immigrati e denaro: le prove di Cofferati
Nei verbali dei garanti del partito tutti gli episodi, ai cinesi accompagnati ai politici di destra, che possono riaprire la sfida ligure
di Ferruccio Sansa


Genova File di cinesi che votano, amici del Pd che si presentano al seggio con un codazzo di 30 persone, esponenti di centrodestra che chiedono l’elenco dei votanti, seggi chiusi per i troppi flash di macchine fotografiche che ritraggono le schede. Non è il racconto delle elezioni in una repubblica delle banane. Sono episodi riferiti nei verbali presentati ai Garanti del Pd.
Chissà se il voto in massa di cinesi, marocchini e sudamericani ha segnato il destino delle consultazioni che hanno portato alla contestata vittoria di Raffaella Paita. Guardando i risultati ufficiali pare probabile che siano stati decisivi gli scajoliani e gli ex An del Ponente ligure. Due dati: ad Albenga, cittadina del Ponente ligure, si contano 1500 voti in tutto. Di questi ben 1300 (quasi il 90 per cento) vanno a Paita e appena 200 a Cofferati. Percentuali bulgare, si diceva una volta. Da queste parti meglio dire scajoliane. Caso simile a Pietra Ligure: una cittadina che ha regalato a Paita 800 voti di differenza. Messa insieme con Albenga ha pesato nel risultato complessivo quasi quanto Genova (che ha un numero di abitanti superiore di venti volte).
Già, di rappresentanti politici del centrodestra alle urne se ne sono visti molti: a Beverino, è scritto nelle carte destinate alla Commissione dei Garanti, hanno votato consiglieri comunali Ncd. Ai seggi di Albisola si è presentato il sindaco Franco Orsi (già scajoliano doc) con tutta la sua squadra. Anche questo è nelle carte. Infiltrazioni diffuse, massicce. Alla fine forse determinanti.
PIÙ PALESI E MALDESTRI altri casi sempre presenti nei verbali destinati ai Garanti. Episodi al limite del grottesco: a La Spezia, denunciano i rappresentanti del seggio Allende, “di prima mattina si sono presentati gruppi di decine di cinesi. Erano accompagnati da italiani, perché loro non sapevano nemmeno dove mettere la croce”. Ma il troppo stroppia e alla fine le urne sono state momentaneamente chiuse: “Si continuavano a vedere dei flash di macchina fotografica dentro il seggio”.
Cinesi, ma non solo. A Lavagna è stata verbalizzata la frase sfuggita a un’elettrice al momento di pagare i due euro previsti per il voto: “Ma come, mi avete appena pagato per venire a votare e ora mi chiedete già i soldi indietro? ”.
I rappresentanti di seggio di Certosa (periferia di Genova) si lasciano scappare accuse pesantissime: “Il voto qui potrebbe essere stato inquinato dalla malavita”. Raccontano di file di cinesi e marocchini. Walter Re-petti, presidente del seggio, riferisce di gruppi di anziani siciliani: “Li ho visti a metà mattina, saranno stati una quarantina. Non sapevano cosa erano venuti a fare, hanno firmato e poi se ne volevano andare. Gli ho chiesto se non volevano la scheda… ma non sapevano cosa fosse”.
Provincia che vai, polemica che trovi. A Villapiana (Savona) “ci è stato segnalato un rappresentante del Pd locale che come un tour operator accompagnava al seggio interi gruppi di persone”. Ma non solo: “All’uscita ritirava il cedolino per essere certo che la gente avesse votato”. Fino alla provincia della scajolianissima Imperia: a Badalucco – secondo le denunce alla Commissione – un simpatizzante di Cofferati si presenta a votare alle otto del mattino, quando il seggio dovrebbe aprire. Ma scopre che sul registro risultano aver già votato venticinque persone. Fino a Santo Stefano a Mare. Racconta Giuliana D’Antona, rappresentante di seggio: “Si è presentato un tale, che mi è stato detto essere un sostenitore del centrodestra. Voleva, pretendeva gli elenchi dei votanti. Voleva controllare se i suoi amici avevano votato o se l’avevano fregato… ha detto così, giuro, non credevo alle mie orecchie. Mi ha quasi minacciato: ‘Tu quelle cose me le devi dare, capito? ’, ha urlato”. Finirà anche questo nelle carte inviate ai garanti .
Chissà cosa decideranno. A presiedere la Commissione è l’avvocato Fernanda Contri, socialista negli anni d’oro; un passato da giudice costituzionale. Ma anche da presidente onorario di Italbrokers (società a lungo controllata da un gruppo di amici di Massimo D’Alema e Claudio Burlando, massimo sponsor di Paita). Ma soprattutto, Contri ha ottenuto diversi incarichi di prestigio dal Porto di Genova - presieduto da-Luigi Merlo, marito di Paita - e da società da esso controllate. Insomma, non esattamente una persona ostile alla “cupola” di potere genovese, come l’ha definita Cofferati. Un guaio per il Cinese? Forse no, visto che Contri era sua testimone di nozze.

il Fatto 13.1.15
Quanti scheletri nei gazebo
Scandali da Napoli alla Sicilia, inchieste e flop
Ora le primarie fanno psaura ai demoicratici
di Luca De Carolis


Noi siamo quelli delle primarie”. Lo ripete appena può Matteo Renzi, issato alla segreteria del Pd e (di fatto) a Palazzo Chigi da un milione e 900 mila voti nelle consultazioni del dicembre 2013. Eppure l’identità tra gazebo e Democratici sta tramutandosi sempre più in una condanna. Un fardello colmo di veleni e (talvolta) reati, per un partito che in quasi otto anni di vita ha cambiato di continuo leader, alleati e linea, ma non ha mai ammainato la bandiera delle primarie. Tentazione ora sempre più diffusa, nel Pd che non sa (o non vuole) più gestirle. E intanto gli elettori scappano, come raccontano i recenti flop delle primarie in Veneto e in Emilia Romagna.
Ombra Capitale: i rom di Buzzi, i circoli fantasma
Conseguenze e responsabilità penali sono tutte da scrivere, ma Mafia Capitale ha già travolto il Pd romano, portando al commissariamento del partito e seminando tonnellate di sospetti sulle primarie capitoline. Il personaggio centrale è sempre lui, Salvatore Buzzi, l’ex detenuto demiurgo della cooperativa “29 giugno”, in carcere per associazione a delinquere con l’aggravante mafiosa. A suo dire, vicino a tanti dem. Nella rete di interessi di Buzzi c’era anche il campo nomadi di via Candiani, per cui la sua cooperativa nel marzo 2013 ha ottenuto una commessa da 86 mila euro per la bonifica dell’impianto fognario. E proprio da quel campo, secondo quanto denunciò la dirigente dem Cristiana Alicata già nell’aprile 2013, sarebbe partita una lunga fila di rom per andare a votare alle primarie per il candidato sindaco. La renziana Alicata si beccò accusedirazzismo. Un anno e mezzo dopo, provedel collegamento tra Buzzi e i nomadi da urne non ve ne sono. E la dirigente, oggi come allora, non fa nomi: “Non li conosco e non voglio farli, il tema non è individuale”. Ma il cortocircuito tra accuse e carte colpisce. Come quelle intercettazioni in cui Buzzi si vanta della sua influenza sui Democratici. “Sulle Comunali c’avemo una serie di persone che ci stanno a cercà” assicura in una telefonata. Tempo dopo, il (presunto) grande capo Massimo Carminati lo interroga sulle consultazioni del Pd di fine 2013 per la segreteria romana: “Come siete messi per le primarie? ”. E Buzzi replica: “Stiamo a sostenè tutti e due. Avemo dato centoquaranta voti a Giuntella e ottanta a Cosentino (Lionello, poi eletto segretario, ndr). Cosentino è proprio amico nostro”. I due dem citati negano accordi con l’ex detenuto. Ma il Pd romano è comunque terremotato. Il commissario Orfini ha dato ordine di verificare gli iscritti, “nome per nome”. Troppi gli attivisti fantasma reclutati per le primarie, finti come tanti circoli. Lo conferma Roberto Morassut, assessore a Roma con Veltroni: “Tesseramento e primarie sono stati usati per assetti di cordate senza politica, falsando numeri e mercanteggiando le iscrizioni”.
E sotto il Vesuvio esordì l’Asia..
I cinesi accorsi alle urne sono la pietra dello scandalo in Liguria. Ma nel gennaio 2011 ne avvistarono tanti già nelle primarie di Napoli. Le più disastrate della storia dem, tanto da essere annullate. Ufficialmente le aveva vinte l’europarlamentare Andrea Cozzolino, vicino all’ex sindaco Bassolino. Ma fu subito pioggia di ricorsi, innanzitutto dal secondo classificato Umberto Ranieri. Gridò allo scandalo, per l’affluenza record (un voto espresso ogni 29 secondi) e per presunte irregolarità nel quartiere di Secondigliano, ad alta densità camorristica. L’ombra della malavita affiorò, tanto che la Dda aprì un’inchiesta. Prima però fu una guerra di carte bollate e accuse incrociate tra candidati e fazioni. Alla fine da Roma annullarono tutto, calando come commissario cittadino Andrea Orlando. Quattro anni dopo, dovrebbero riprovarci. Ma sotto il Vesuvio le primarie per il candidato sindaco sono state già rinviate due volte. E ora i renziani vogliono cancellarle, candidando direttamente Gennario Migliore. Altri resistono. E sulle barricate c’è anche Cozzolino.
L‘isola dei capibastone: percentuali bulgare e occupazioni
Certo, quelle del 2013 sono state le primarie del Renzi incoronato. Ma in Sicilia non andò liscia per il leader, tanto che nella prima fase (quella per i soli iscritti) perse a sorpresa. Pesò il veto di tanti storici capi del voto. Come Mirello Crisafulli, signore assoluto ad Enna, capace di far vincere Gianni Cuperlo con l’80 per cento. Per l’ira di Davide Faraone, proconsole renziano dell’isola, che nella tornata dell’8 dicembre occupò il seggio cittadino, un bar a fianco della segreteria dem. “Crisafulli gestisce il partito come la repubblica delle banane” tuonò Faraone. Crisafulli rispose minacciando denunce. A Messina invece il gioco lo conduceva il deputato Francantonio Genovese, arrestato mesi dopo per associazione a delinquere. E lì furono ottime notizie per i renziani, con quasi il 70 per cento per il loro Matteo. Ovviamente, arrivarono accuse dai cuperliani contro il voto bulgaro. Ma in politica tutto si può riaggiustare. E nel febbraio 2014 i renziani e Crisafulli hanno eletto d’amore e d’accordo Giuseppe Ra-citi come segretario.

il Fatto 13.1.15
Il politologo Gianfranco Pasquino
“Funzionano, è proprio il Pd che le rovina”
intervista di A. Cap.


Sa quante sono le primarie svolte?
Poche decine, direi.
“Il loro numero è impressionante: tra 620 e 640. E le anomalie riscontrate rappresentano una percentuale modesta del campione”.
La cifra la detta Gianfranco Pasquino, politologo e curatore di una ricerca sugli esiti della selezione della leadership attraverso il voto popolare. Professore, la cifra è enorme ma nella valutazione della vitalità democratica di questo esperimento non si può mettere sullo stesso piano Napoli e Chioggia.
Esistono casi rilevanti, non discuto. Quel che mi preme dire è che le primarie sono una strada sicura per attivare energie nuove, far crescere personalità anche fuori dal partito. La somma degli scandali, chiamiamoli così, non compensa la quantità dei frutti positivi che la selezione attraverso il voto popolare ha comunque offerto.
Eppure le primarie appaiono uno strumento che danneggia il partito, riconducendolo alle etnie, alle ban-
Sono gli stessi dirigenti che le organizzano male. Dove il partito è diviso la conseguenza sarà di una selezione caotica. Ma resta intatta la qualità del tentativo. Le primarie servono se allargano la base dei partecipanti. E nella maggioranza dei casi il risultato è raggiunto.
Anche se si raccolgono gruppi di stranieri e li si conducono ai seggi a mo’ di gregge?
Quello no. È un atto deteriore di populismo, un’interpretazione mediocre della multiculturalità dare a chi non è cittadino italiano la possibilità di votare.
Cofferati lamenta appunto il voto inquinato.
Capiremo tra qualche giorno quanti sono questi casi. Però non dimentichiamoci
che Cofferati era un paracadutato e a qualche ligure magari non è piaciuto che il compagno di Cremona, già sindaco di Bologna, ora europarlamentare, volesse scalare la vetta di Genova.
Se le primarie rappresentano una boccata d’aria pura perchè la condizione del Pd è da catalessi?
Perchè si confonde il partito con le primarie. Io sto difendendo queste ultime, che magari possono essere ancor meglio definite e regolamentate, ma che hanno caretteri di sanità politica. Sul partito cosa vuole che le dica? L’emorragia degli iscritti denota una vita interna asfittica. Del resto abbiamo un premier che è anche segretario di un partito che non gli piace e non gli interessa. Fa di tutto per dimostrarlo e i risultati sono tangibili”.
Il Pd ha stabilizzato le correnti, i cacicchi, aggregando volti misteriosi e a volte pieni di ombre.
È divenuto una piattaforma di promozione sociale ed economica. Difatti la maggioranza dei parlamentari gode di un reddito che mai avrebbe conseguito se avesse condotto una vita al di fuori della politica. È una piattaforma di lancio di personalismi non un luogo dove le idee si forgiano, la discussione divampa dinanzi a ideali contrapposti, a strade diverse da percorrere. La disunità del partito, lo scarsissimo interesse verso la società civile è questione da non sovrapporre all’istituto delle primarie. Le ripeto: sono oltre seicento i casi di verifica del consenso. In seicento città, piccole, medie, grandi, si sono svolte corse elettorali dignitose. In alcuni casi, penso a Cagliari con Zedda, a Milano con Pisapia, sono venuti fuori nomi lontani dal circuito dei maggiorenti. È un bene” .
Però in alcune città nemmeno si può tentare la conta: veda Napoli.
Certo, è così,
E a Genova c’è la nube tossica dei sospetti. A Roma poi devono fare la conta degli iscritti e dividere i falsi dai veri.
Roma è stata sempre detenuta da famiglie politiche. Quelle del Pci dei Bufalini, dei Rodano erano illuminate. Queste sono etnie mercenari”.
Se Roma è così, è ipotizzabile che altrove sia uguale o peggio.
O anche meglio.
Lei è ottimista. Ma il Pd non è in buona salute, e pure Renzi sta declinando nei sondaggi.
Non sono iscritto al partito e non ho votato Renzi. Il quale (prendo a prestito una frase di Lincoln) può ingannare tutti per una volta, qualcuno tutte le volte, ma non tutti per tutte le volte.

il Fatto 13.1.15
Lo scontro aperto
In Campania è tempo di rese dei conti: pescano Migliore per eliminare i ras locali
di Vincenzo Iurillo


Napoli Il caso Liguria potrebbe essere la pietra tombale delle primarie Pd in Campania. Primarie che di rinvio in rinvio sono slittate al 1 febbraio e solo il cielo sa se si svolgeranno. È convinto di no un renziano doc che preferisce l’anonimato: “Renzi le annullerà, non può permettersi un altro scandalo e il rischio che qui ricapitino casini è troppo alto. Fa ancora male il trauma delle primarie 2011 di Napoli vinte da Cozzolino e annullate per i presunti brogli”. Inoltre c’è una novità importante: il fronte antiprimarie, finora acquattato nelle riunioni carbonare, è uscito allo scoperto e ha prodotto un documento e un nome per andare oltre le candidature di Vincenzo De Luca, Andrea Cozzolino e Angelica Saggese. Il nome è quello di Gennaro Migliore, l’ex pupillo napoletano di Bertinotti, carriera rapidissima nelle gerarchie interne del Pd per uno che si è iscritto solo il 22 ottobre 2014. Su Migliore convergono un gruppo di renziani guidati dal senatore Vincenzo Cuomo, dall’ex capogruppo regionale Peppe Russo e dai deputati Simone Valiante, Salvatore Piccolo e Luigi Famiglietti. Nelle ultime ore si sono aggiunti tre parlamentari di peso dell’Area Riformista: Guglielmo Epifani, Umberto Del Basso De Caro e Massimo Paolucci. Russo trova dai fatti genovesi nuovi argomenti per cancellare definitivamente l’appuntamento del 1 febbraio. Riassunte in un tweet sarcastico: “Le primarie: tra selezione politica ed integrazione etnica”.
   POISPIEGA meglio: “La vicenda ligure dimostra che se le primarie non vengono disciplinate e non diventano un elemento costitutivo del Pd, con l’istituzione degli albi degli elettori, saranno esposte sempre a scorribande. In mancanza di una platea di elettori certa, ogni candidato tenderà a ‘costruirsi’ la sua”. Poi quelle ‘platee’ finiscono nei fascicoli giudiziari. Un’inchiesta a Napoli, pm Pierpaolo Filippelli, sulle primarie cittadine 2011 e sulla compravendita di voti della manovalanza camorristica nei quartieri ghetto. Un’altra inchiesta a Salerno, pm Vincenzo Montemurro, sul boom di Renzi nella città del suo sponsor De Luca. Inchieste ancora aperte. Cozzolino e De Luca, è bene chiarirlo, non sono indagati. E di voti ne raccolgono tanti pure nelle elezioni vere: il primo fu il consigliere regionale Ds più votato nel 2005 e poi è stato eletto europarlamentare due volte, il secondo è diventato sindaco di Salerno con il 75% al primo turno. Secondo Cozzolino, se Migliore vuole essere il candidato Governatore della Campania deve passare per le primarie e vincerle: “Sarebbe un suicidio una scelta diversa, evocando preventivamente rischi, come se ci fosse una parte del gruppo dirigente del Pd che sta già lavorando per inquinare le primarie”. Il renziano Tommaso Ederoclite dà una spiegazione solo politica sul no alle primarie tra Cozzolino e De Luca: “Costituirebbero uno scontro tra micronotabili, una conta per regolare questioni rimaste aperte negli ultimi 20 anni”.

La Stampa 13.1.15
Renzi avvia la conta nel Pd per la partita del Quirinale
Vuole l’ok alle riforme per fine gennaio, giovedì vedrà i senatori per stoppare la fronda sull’Italicum. Venerdì riunisce la Direzione
di Carlo Bertini


«L’infedeltà manifesta sulla legge elettorale o sulla riforma del Senato è una spia rossa, detto ciò tutte le chiacchiere di questi giorni sono propedeutiche a bruciare nomi. E qualsiasi nome che possa bruciare il patto del Nazareno non è realistico». Ecco la lente con cui leggere i prossimi avvenimenti fornita da uno dei generali del premier in Parlamento.
Gli «infedeli» nel mirino
È sul voto delle riforme da qui al fischio di inizio della partita del Colle che i renziani metteranno nel mirino gli «infedeli». Quelli che si segnaleranno come sostenitori di emendamenti o trappole nella maratona dei prossimi quindici giorni alla Camera sulla riforma costituzionale e al Senato sulla legge elettorale finiranno nella lista dei potenziali franchi tiratori. Che viene aggiornata da chi di dovere in base a colloqui uno ad uno con i grandi elettori, testati sul metodo di privilegiare il patto del Nazareno come punto di partenza. Anche se i dissidenti alla Civati considerano assurdo pensare che vi siano franchi tiratori a prescindere, perché «se mi propongono il nome giusto io lo voto», da qui in avanti sarà la diffidenza a fare da padrona.
Trappole sventate
«Siamo bloccati qui e sarà lunga molto lunga», racconta uno dei renziani che tiene le fila, «ma la trappola del voto segreto sugli articoli più insidiosi della riforma costituzionale l’abbiamo sventata nonostante la minoranza interna». Nella Giunta del regolamento, malgrado i bersaniani abbiano provato a pronunciarsi a favore, il plenipotenziario di Renzi, David Ermini ha stoppato i giochi sull’articolo più insidioso, quello sui senatori a vita e sulla composizione del nuovo Senato. E la Boldrini ha tenuto il punto, appellandosi alle norme del regolamento. Renzi però è più preoccupato dall’esame che deve superare l’Italia in marzo, «andiamo avanti con le riforme», è il suo refrain e vuole procedere spedito blindando il patto del Nazareno dagli agguati. Ieri è salito al Colle da Napolitano, che lo ha ricevuto dopo aver incontrato la Boschi. La quale ha prospettato al presidente la previsione di un ok alle riforme in campo entro il 26-27 gennaio. E malgrado ufficialmente si è detto che con il premier abbiano parlato della manifestazione di Parigi e del bilancio del semestre Ue che oggi farà Renzi a Strasburgo, è ovvio che sia stato esaminato anche il calendario dei prossimi giorni, che non prevede deroghe rispetto alle intenzioni del capo dello Stato.
Primo febbraio data clou
Le dimissioni di Napolitano sono attese domani e dopo i presidenti delle Camere avranno 15 giorni di tempo per convocare i grandi elettori. Quindi la data prevista per la quarta votazione, quella potenzialmente decisiva è quella del primo febbraio. Giovedì il premier vedrà i senatori Pd sull’Italicum senza voler concedere nulla ai frondisti. «Noi però siamo una quarantina e voteremo gli emendamenti contro i capolista bloccati, per invertire la proporzione con 30% di nominati e 70% di preferenze», annuncia bellicoso il bersaniano Miguel Gotor.

Corriere 13.1.15
Parte la doppia sfida di Renzi
di Maria Teresa Meli


L’ultimo incontro con il capo dello Stato alla vigilia della fine del semestre Ue, oggi a Strasburgo Il premier lo rassicura sulle riforme e prepara il voto per la successione. Con l’incognita Prodi ROMA Matteo Renzi, com’è nel suo stile, non intende perdere tempo e cambiare schema di gioco. Da una decina di giorni il premier sa che Giorgio Napolitano ha fissato (definitivamente e irrevocabilmente) la data delle sue dimissioni per domani e ha preparato il «timing» delle riforme basandosi su questo.
«Il presidente, a cui dobbiamo essere sempre tutti grati va via — spiega — ma con le riforme procederemo in modo regolare. Tutto va avanti come deve, la tabella di marcia non cambia». Del resto, al di là dei tira e molla quotidiani a uso e consumo della stampa, Silvio Berlusconi ha dato a Renzi la «disponibilità» di Forza Italia sui tempi. Per questa ragione, per il premier «non cambia nulla».
L’iter delle riforme è tracciato, come ha spiegato ieri, in un incontro al Quirinale, lo stesso Renzi al capo dello Stato, rassicurandolo. Tanto che a Palazzo Chigi c’è chi punta a convocare il Parlamento per l’elezione del successore di Napolitano con un po’ di anticipo rispetto al termine ultimo. Circola anche una data: quella del 27 gennaio. Ma al momento questa è solo un’ipotesi su cui ragionare ancora.
Nonostante l’ostruzionismo dei grillini alla Camera, Renzi non fa mostra di temere ritardi. Piuttosto, qualche agguato potrebbe esservi al Senato, sull’Italicum, ma nemmeno questa prospettiva sembra preoccuparlo troppo: è convinto che alla fine «i tempi saranno rispettati». Quel che forse ancora Renzi non sa è che a Palazzo Madama la maggioranza per le riforme potrebbe allargarsi di un’unità. Sì, di un’unità, ma più che significativa. Infatti, una volta dismessi i panni del presidente della Repubblica, Napolitano potrebbe partecipare alle votazioni per le riforma della legge elettorale.
Nell’incontro di «commiato» con il capo dello Stato, ieri mattina, il presidente del Consiglio, dopo aver parlato a lungo dei fatti di Parigi, ha anticipato anche le linee del discorso che terrà oggi a Strasburgo, per la chiusura del semestre di presidenza italiana della Ue. Nel suo intervento Renzi riprenderà il tema dell’integrazione europea, già toccato all’Università di Bologna, sabato scorso. E i temi «della cultura e della formazione, come possibile antidoto all’odio e al terrore».
Renzi vorrebbe dedicare un passaggio del suo discorso pure alla questione dell’accordo di Schengen, convinto com’è che «occorra sfidare populismi e strumentalizzazioni».
Come era ovvio, nell’incontro al Quirinale si è finito per parlare anche della successione a Napolitano, una questione che sta a cuore al capo dello Stato, il quale, raccontano nel Transatlantico di Montecitorio, non nasconde una certa preoccupazione per il futuro.
Renzi non ama discutere di questo argomento in pubblico o con i giornalisti. «Abbassiamo l’attenzione sull’elezione del capo dello Stato», è l’ammonimento che ha consegnato ai suoi prima della pausa festiva. Ma, ovviamente, il tema viene toccato in tutti gli incontri che sta facendo in questi giorni. E nei colloqui telefonici.
Per questa ragione continuano a filtrare diversi nomi, come quelli di Sergio Mattarella e Mario Monti, che ieri erano tra i più accreditati.
Il presidente del Consiglio continua a essere «sicuro» di farcela alla quarta votazione. Ha un solo timore: che minoranza pd, grillini, Sel e fittiani si mettano d’accordo per votare Prodi sin dal primo scrutinio. In questo caso, giunti al quarto, per il premier sarebbe difficile non sposare il nome del fondatore dell’Ulivo. Il quale non verrebbe comunque eletto, ma in compenso sulla sua candidatura si infrangerebbero il patto del Nazareno e anche la stabilità della legislatura.

La Stampa 13.1.15
La sinistra Pd e la tentazione dello sgambetto al premier
di Marcello Sorgi


Giorgio Napolitano lascia domani il Quirinale. Oggi sarà il giorno degli ultimi saluti, al personale, ai corazzieri. E ieri è stato quello degli ultimi appuntamenti istituzionali, con il ministro Boschi che lo ha informato sull’iter delle riforme in Parlamento, e con Renzi che gli ha riferito sulla sua missione a Parigi.
Chi ha parlato con il Presidente in questi ultimi giorni lo ha trovato sollevato, dopo la decisione sui modi e sui tempi della sua uscita dal Colle. Anche per questo, non ha trovato ascolto l’ultimo tentativo del premier di convincere Napolitano a ritardare di qualche giorno, al limite di una settimana, le dimissioni, per favorire almeno l’approvazione della legge elettorale prima dell’inizio delle votazioni a Camere riunite per eleggere il nuovo Capo dello Stato. Così domattina il Presidente farà consegnare ai presidenti delle Camere la lettera con cui spiegherà che le sue dimissioni sono un atto volontario e personale, non legato a nessuna delle prossime scadenze politiche, che devono continuare ad avere il loro corso. Subito dopo lascerà il Quirinale, mentre il presidente del Senato Grasso si insedierà a Palazzo Giustiniani per esercitare la supplenza.
Renzi continua a dirsi convinto che alla quarta votazione, prevista per il 31 gennaio o per il primo febbraio, arriverà la fumata bianca, complice un accordo che non dispera di trovare con la parte dialogante della minoranza Pd guidata da Bersani. Ma la lunga vigilia della convocazione dei Grandi Elettori, che comincia domani, rischia di introdurre degli imprevisti nella road map del premier. Non promette niente di buono la discussione quasi contemporanea in Parlamento dei decreti legislativi del Jobs Act, di cui la minoranza vuole approfittare per ottenere un ulteriore ammorbidimento della riforma, e della legge elettorale, su cui pendono ancora migliaia di emendamenti. La tentazione di cogliere l’occasione della corsa al Quirinale per dare una lezione a Renzi e impedirgli di raggiungere i suoi obiettivi è ancora molto forte nelle frange più radicali della sinistra Pd. E spinge, non nel senso della ricerca di un compromesso con il premier, ma al contrario verso l’individuazione di un Presidente che possa fargli da contrappeso. Un obiettivo che può complicare molto la trattativa sui nomi. Giovedì e venerdì Renzi riunisce la direzione e poi i senatori anche per capire che aria tira veramente nel partito che meno di due anni fa affossò, uno dopo l’altro, i suoi due maggiori candidati al Colle.

Repubblica 13.1.15
Sposetti, minoranza Pd
“Il segretario non faccia il furbo niente candidati dell’ultima ora”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Renzi non faccia furbate, perché poi rischia di pagarne le conseguenze. Non pensi di tirare fuori un nome all’ultimo momento come il coniglio dal cappello, perché allora non sarebbe commestibile». È l’avvertimento di Ugo Sposetti, storico tesoriere dei Ds, senatore della sinistra dem.
Sposetti, però a quanto pare Renzi apre alla “ditta”, alla minoranza del partito?
«Bene. Però per scegliere il candidato alla presidenza della Repubblica è giusto che il segretario, pur nella riservatezza degli incontri, mostri anche la massima trasparenza. La trasparenza serve anche a recuperare il consenso dei cittadini».
La sinistra dem farà una rosa di nomi?
«Renzi ha il diritto-dovere in quanto segretario del Pd di dirigere, ascoltando le ragioni della minoranza. Spetta però a lui presentare una candidatura che raccolga il massimo dell’unità. Non è opportuno che la minoranza esprima una rosa di nomi».
Ma lei ce l’ha qualche nome?
«C’è un presidente, fino a prova contraria, non è ora di fare nomi».
Meglio una donna?
«Decide il segretario».
Un cattolico? Qualcuno che venga dai Ds? O un tecnico prestato alla politica?
«Proponga Renzi. Se il Pd ne esce bene, ne esce bene l’Italia. Deve avere certamente prestigio internazionale, avere il massimo consenso da parte delle forze parlamentari. Anche se è evidente che, visto il Patto del Nazareno con Berlusconi sulle riforme, non si può cambiare linea».
Quindi deve trattarsi di una figura che piaccia al centrodestra?
«Sì, e mi pare legittimo».
Crede anche lei come Renzi che il nuovo capo dello Stato si possa eleggere al quarto turno?
«Il presidente del Consiglio ha tutte le condizioni perché questo accada. Parlare del quarto turno del resto è la sicurezza totale. Non so se Renzi pensa di adottare nelle votazioni precedenti la scheda bianca...».
Insomma è ottimista?
«L’ottimismo è un’altra cosa. Penso che, se non sbagli mosse, puoi tirare un buon rigore».
C’è sempre l’incognita dei “franchi tiratori”: lei ha detto che potrebbero crescere, non più i 101 di Prodi ma 202. È una provocazione?
«Ci sono per forza. Il Grande Elettore è solo con la sua convinzione politica, la scheda e la matita. Pensiamo alle lotte interne alla Dc che affossarono Forlani, Fanfani e Andreotti».
Stesso copione nel Pd nel 2013?
«Fu grave la rotta ondeggiante per cui si passò dall’accordo con Berlusconi su Marini a quello con la sinistra su Prodi».

Corriere 13.1.15
In radio la commozione di Bonino «Ho un tumore, devo curarmi»
di Paolo Conti


ROMA Radio Radicale, ore 14.40 di ieri, Emma Bonino parla in diretta. La voce è diversa da quella di sempre, così sferzante e sicura. Stavolta, dopo poche parole già si spezza. Poi, alla fine, i singhiozzi, controllati a fatica: «Recentemente mi sono sottoposta a dei controlli medici di routine che però hanno evidenziato la presenza di un tumore al polmone sinistro. Si tratta di una forma localizzata e ancora asintomatica, ma ciononostante richiederà un trattamento lungo e complesso di chemioterapia che è già iniziato e che durerà almeno sei mesi. Non sono intenzionata a interrompere le mie attività perché da una passione politica non ci si può dimettere, però è chiaro che le mie attività dovranno essere organizzate in base alle esigenze mediche cui è necessario dare in questo momento una priorità assoluta».
Emma Bonino ha raramente parlato di se stessa, della sua vita privata meno che mai. Infatti il racconto è faticoso per una donna da battaglia politica, abituata a mille polemiche nel nome degli ideali. Non a parlare di destini personali. Vengono ancora ricordate, come casi unici, sporadiche interviste in cui raccontò la dolorosa fine del suo lungo rapporto sentimentale con Roberto Cicciomessere quando lui esaurì la sua passione per la politica e, parallelamente, per lei.
Stavolta Emma Bonino sa che la sua decisione di parlare di se stessa, della sua malattia rappresenta una scelta umana e contemporaneamente molto politica, nelle ore in cui il suo nome è una presenza fissa su tutte le liste di possibili candidati al Quirinale. Poi chiede ai media di «rispettare questa situazione, senza mettersi a fare indagini o robe varie» e ringrazia quattro giornalisti (Antonella Rampino, Giovanna Casadio, Stefano Folli, Stella Pende) che le sono stati vicini «nel limite delle loro possibilità». Quindi si rivolge nel modo più intrinsecamente «radicale», per spirito e metodo, «a tutti coloro che in Italia e altrove affrontano questa o altre prove. Vogliamo solamente dire che dobbiamo sforzarci di essere persone e di voler vivere liberi fino alla fine. Insomma, io non sono il mio tumore e voi neppure siete la vostra malattia, dobbiamo solamente pensare che siamo persone che affrontano una sfida che è capitata».
L’ultima richiesta è ai radioascoltatori perché «l’affetto e l’incoraggiamento si trasformino in iscrizioni ai radicali e al Partito Radicale». Nemmeno ora rinuncia all’ironia: sa bene che i radicali «possono essere simpatici o meno, non li avete mai apprezzati moltissimo, ma le battaglie che portiamo avanti magari oggi sembrano marginali ma invece sono fondamentali per la vita di tutti e per la democrazia, in particolare in questo momento così difficile per tutti». Infine il saluto più struggente: «Buon giorno e buon anno a tutti».
Emma Bonino ha scelto la stessa strada percorsa, con gli annunci pubblici del proprio male, da personaggi come il premio Nobel per la Letteratura Nadine Gordimer, dell’ex premier israeliano Ehud Olmert che nel 2007 convocò una conferenza stampa per chiarire che si sarebbe curato ma senza lasciare l’incarico, o della ex campionessa di tennis colombiana Catalina Castano. Tutti personaggi pubblici, esposti, dotati di quel «coraggio» suggerito da papa Francesco a Marco Pannella durante la sua telefonata dell’aprile scorso.
Anche stavolta Emma Bonino ha deciso di governare pienamente la propria vita, sorprendendo gli altri. Il campo d’azione era completamente diver so, ma si ritrova la tempra della donna che, nel giugno 2008, si prese gioco della stampa italiana dichiarandosi, con tanto di intervista, innamorata di un fidanzato segreto «che non è italiano e non è un politico». Pochi giorni dopo svelò la bufala, era un test sulla stampa italiana: «Se parlo del vertice Fao non mi fila nessuno, se m’invento un fidanzato i giornali fanno grandi ragionamenti sociologici, mi telefonano, mi dedicano mezza pagina».
Stavolta è purtroppo un’altra storia, ma la tempra è la stessa. Sono in tanti a farle gli auguri. «#ForzaEmma esempio di politica come passione. Un abbraccio anche da me e da Montecitorio», scrive la presidente della Camera, Laura Boldrini, su Twitter. Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni: «Ministra e donna coraggiosa. Da tutti noi forza Emma». Messaggi e incoraggiamenti anche dall’ex radicale Daniele Capezzone, da tempo Forza Italia, dai deputati del M5S, da Nichi Vendola e da Renata Polverini, da mille altri. Tutti parlano di nuova battaglia. L’augurio generale è di una grande vittoria .

Corriere 13.1.15
Pannella: serve coraggio, come mi disse il Papa
di P. Co.


Il leader dei radicali: con Emma una congiunzione anche in questo, è una sfida ROMA Marco Pannella è appena rientrato a Roma da Parigi, dove ha partecipato all’immensa marcia di domenica. Risponde al telefono con tre o quattro cavernosi colpi di tosse dal suo ufficio di via di Torre Argentina, sede Radicale: «Sì, ho saputo dell’annuncio di Emma alla nostra radio. Non l’ho potuta sentire, ero in viaggio in aereo. Ora i miei colleghi e amici mi stanno raccontando, qui alla sede del partito».
Lui ed Emma Bonino. Un solo impegno di una vita insieme, e ora in parallelo anche nella malattia. Un altro colpo di tosse: «No, le parallele nella mia mente sono due linee destinate a non incontrarsi mai. Semmai, qui è una congiunzione assoluta, perché la situazione è identica…». Pannella non è tipo da tirarsi indietro quando gli chiedi il quadro clinico: «Io di tumori ne ho due. Uno è al fegato che, secondo l’ultima Tac sembra battuto. E poi c’è l’altro cancro, quello uguale a quello di Emma, al polmone. Nove giorni fa mi sono sottoposto a una nuova Tac e tra tre giorni dovrei sapere come stanno le cose».
Un altro colpo di tosse. Ha fumato 100 Celtic al giorno per una vita. Nemmeno il cancro al polmone l’ha fermato. Ha dirottato su 60 toscanelli alla grappa: «Autorevoli specialisti mi hanno avvertito: per carità, nelle sue condizioni non smetta di fumare, potrebbe essere molto peggio. L’ho anche dichiarato e non mi è arrivata nessuna smentita, nemmeno una presa di distanza di un qualsiasi medico». Ha già esposto questa sua tesi. Tanto fumo avrebbe impedito, nella sua lunga vita di uomo che il 2 maggio 2015 supererà la boa degli 85 anni, al proprio corpo di ammalarsi. Una specie di antidoto, e vista l’età raggiunta vai a capire quanto abbia avuto torto e quanto, invece, ragione.
Domanda inevitabile. Con quale animo si continua a lavorare e a vivere con due tumori addosso, e come pensa che potrà farlo Emma Bonino? «Papa Francesco mi ha detto una cosa importante ad aprile, quando mi chiamò al telefono per chiedermi di sospendere lo sciopero della sete per protestare contro le condizioni dei carcerati. Mi assicurò che mi sarebbe stato vicino contro “questa ingiustizia”, disse proprio così…. E poi mi disse: “Ma sia coraggioso, eh!”. Ecco, questo richiamo al coraggio, , questo bisogno di essere coraggiosi, mi sembra molto importante. E credo che valga un po’ per tutti».
Di coraggio ne ha, a giudicare dall’ incapacità di modificare il ritmo della sua vita nonostante la malattia. Anche nella dieta: «Suggerisco a tutti di leggere il testo “Digiuno, autofagia e longevità” di Ulisse Franciosa. Bisogna mettere alla prova il corpo per vivere a lungo. Adesso basta, mi aspetta una riunione. Ma che nessuno dimentichi questa evocazione positiva del coraggio.».

Corriere 13.1.15
I giudici riaprono il giallo della morte di Cucchi: indagare sui carabinieri Le motivazioni della sentenza. I dubbi dei familiari
di Giovanni Bianconi


ROMA Per sperare di trovare qualche responsabilità nella morte di Stefano Cucchi, bisogna ricominciare daccapo. Più precisamente dal momento dell’arresto per qualche dose di droga, una sera di ottobre del 2009, una settimana prima del decesso, perché «non può essere definita una “astratta congettura” l’ipotesi secondo cui l’azione violenta ai danni di Cucchi sarebbe stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia nella fase successiva alla perquisizione domiciliare». Una ipotesi fondata «su concrete circostanze riferite anche da persone sulla cui attendibilità non vi è motivo di dubitare».
Così hanno scritto i giudici della corte d’assise d’appello che lo scorso 31 ottobre hanno assolto tutti gli imputati: le guardie carcerarie accusate delle percosse e i medici del reparto carcerario dell’ospedale Pertini che non avrebbero curato adeguatamente il detenuto. Mettendo la parola fine sulle presunte colpe di chi è stato giudicato finora (salvo il già annunciato ricorso in Cassazione) e scrivendo l’inizio di un nuovo capitolo giudiziario.
Ma non sarà un percorso facile, e l’esito sembra tutt’altro che scontato. La corte ha inviato gli atti alla Procura dando per certo che Stefano Cucchi fu picchiato; le lesioni sul corpo del detenuto, infatti, non potevano essere dovute a una caduta accidentale ma erano «necessariamente legate a percosse, o anche a una semplice spinta che avesse provocato la caduta», come spiega il presidente della corte d’appello Luciano Panzani illustrando le motivazioni della sentenza. Il problema è stabilire chi ha picchiato Cucchi, dopo che la testimonianza del detenuto africano contro gli agenti penitenziari non è stata ritenuta «sufficientemente attendibile».
Resta dunque l’eventualità che siano stati i carabinieri che lo fermarono, prima che — l’indomani — Cucchi venisse portato in tribunale per la convalida del fermo. Questione non emersa nella prima indagine e già riaperta dalla Procura in un fascicolo al momento senza indagati ma che già racchiude diverse testimonianze raccolte dagli inquirenti. «Parlando di “percosse” e non di “lesioni”, la corte ha lasciato aperta la possibilità di una diversa qualificazione giuridica del fatto», spiega l’avvocato Fabio Anselmo, che assiste i familiari di Cucchi e da tempo si batte perché venga contestato il reato di «omicidio preterintenzionale».
Tuttavia, questioni tecniche a parte, le difficoltà di accertare responsabilità a oltre cinque anni dalle botte e dalla morte del detenuto sono evidenti a tutti: giudici che hanno indicato la pista alternativa, inquirenti chiamati a percorrerla, parti civili in attesa di risultati. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, mostra reazioni apparentemente contrastanti. Da un lato, insieme ai genitori, esprime «soddisfazione» per la «grande vittoria» ottenuta con le nuove indagini; dall’altro, sospetta che «punteranno a dimostrare che i pm del primo processo hanno fatto tutto benissimo».
Una sorta di polemica preventiva che riacutizza la spaccatura tra famiglia e Procura, cominciata all’udienza preliminare quando l’avvocato Anselmo parlò di «processo suicidio». Ora i giudici d’appello hanno scritto che nemmeno le cause della morte di Cucchi sono certe: delle quattro ipotesi prospettate non ce n’è una più convincente di altre. Bocciata la condizione di «fame e sete» in cui l’avrebbero lasciato i medici condannati in primo grado e assolti in appello, restano gli errori e le assurdità di una vicenda drammatica, ancora senza spiegazioni. L’ultima, segnalata dalla sentenza depositata ieri, è che non v’è certezza nemmeno sul peso di Stefano al momento dell’arresto: al carcere di Regina Coeli scrissero 50 chili, ma per i giudici fu un errore; sbagliarono pure l’altezza, di almeno 5 centimetri.

Corriere 13.1.15
L’anno con un secondo in più


Gli estimatori delle catastrofi annunciate hanno una nuova data per cui preoccuparsi: il 30 giugno di quest’anno. L’Iers (International Earth Rotation Service), un organismo internazionale con sede a Parigi, ha annunciato nei giorni scorsi che i 70 orologi atomici che in tutto il mondo servono a calcolare il Tempo Universale Coordinato andranno sincronizzati con la rotazione della Terra.
Il 30 giugno verrà quindi aggiunto a quegli orologi un «secondo intercalare» (in inglese Leap Second ): quel giorno durerà quindi 86.401 secondi anziché 86.400. Questa «manutenzione straordinaria» è stata effettuata altre 25 volte dal 1972 ad oggi, nelle due date convenzionali del 30 giugno e del 31 dicembre. Si tratta, in pratica, di sincronizzare la misurazione del tempo data dagli orologi atomici (basata sull’oscillazione di un atomo di cesio) con l’orologio planetario, che si basa invece sulla rotazione della Terra intorno al Sole. Purtroppo la velocità della rotazione non è costante, influenzata com’è dai cambiamenti all’interno del nucleo planetario. La Terra, attualmente, perde due millesimi di secondo al giorno. Gli scienziati calcolano che il «ritardo» del nostro pianeta rispetto agli implacabili orologi atomici potrebbe essere di un’ora ogni mille anni: un ritardo che nessun essere vivente è in grado di percepire e che solo il progresso tecnologico degli ultimi decenni ha reso esattamente calcolabile.
Potrebbe considerarsi una semplice curiosità scientifica, se non fosse per gli effetti potenzialmente rischiosi di questa sincronizzazione, nel nostro presente super informatizzato. L’ultima volta, il 30 giugno 2012, molti computer andarono in tilt, bloccandosi per minuti e a volte addirittura per ore in quel secondo in più che non erano in grado di gestire e che li mandava «in crash», in attesa di ricevere nuove istruzioni. Vi furono allora molte «vittime illustri», tra cui LinkedIn e Mozilla. Il fatto è che sugli orologi atomici e sulla loro precisione si appoggiano i sistemi informatici di aeroporti, borse, agenzie spaziali (per le quali anche un miliardesimo di secondo è rilevante), motori di ricerca e piattaforme di vendita online. Non a caso Google ha cominciato ad aggiungere ai suoi computer ogni giorno una frazione di secondo in più, per arrivare al 30 giugno già sincronizzata.
Non mancano le critiche al metodo del Leap Second aggiunto e ai rischi che comporta. Stati Uniti, Francia, Germania e Italia vorrebbero dismetterlo, mentre la Gran Bretagna è la capofila dei paesi che intendono mantenerlo, forse anche per ragioni di bandiera: il mancato aggiornamento degli orologi atomici e il ritardo che si accumulerebbe renderebbe obsoleto il cosiddetto tempio medio di Greenwich (GMT), adottato nel 1847. Queste critiche sono decisamente poca cosa rispetto a quelle che accompagnarono, nel XVI secolo, la dismissione del calendario giuliano (che accumulava un ritardo di 11 minuti l’anno) e il passaggio al nuovo calendario detto gregoriano.
All’epoca le ragioni per una così drammatica decisione erano eminentemente religiose, legate al calcolo delle date della Pasqua e della Settimana Santa. Già nel 1267 Ruggero Bacone aveva avvertito che a causa delle imprecisioni del calendario giuliano prima o poi si sarebbe finiti per celebrare la Pasqua a Natale. Con la bolla Inter gravissimas del 24 febbraio 1582, papa Gregorio XIII riformò il calendario e decretò, con decisione rivoluzionaria, che il giorno successivo a giovedì 4 ottobre 1582 fosse venerdì 15 ottobre. Il mondo faceva un salto in avanti nel tempo di dieci giorni, recuperando d’un colpo il ritardo accumulato in 1.500 anni. I protestanti ci misero un bel po’ di tempo (più o meno un secolo e mezzo) per adottare il calendario gregoriano. La Russia ortodossa attese fino al 1918, e la Grecia addirittura il 1928.
Nei paesi cattolici vi furono rivolte al grido di «Ridateci i nostri dieci giorni!», mentre i protestanti urlavano «Ridateci i giorni che il papa e il demonio ci hanno rubato!». Tra le voci che giravano c’erano quella che la riforma del calendario avrebbe disorientato gli uccelli migratori, impedito la maturazione dei raccolti e persino causato turbamento nel moto dei corpi celesti. Altro che le paure d’oggi, per un solo secondo. Ma non sottovalutiamo questa frazione di tempo: ogni secondo sulla Terra nascono 4 bambini e 2 blog, muoiono 2 persone e vengono inviati 5700 tweet, mentre nello spazio nascono 3 supernove e 200 nuove stelle.
Quel che è certo è che il 30 giugno 2015, coi suoi 86.401 secondi anziché 86.400, sarà il giorno in cui converrebbe prendere ferie. Ammesso che si sappia cosa farsene, di quel secondo in più. E soprattutto - per parafrasare Woody Allen - sperando che in quel secondo non piova.

il manifesto 13.1.15
Riccardo Lombardi, l’ultimo riformista
Il protagonista di una stagione politica che cercò di trasformare la realtà sociale nazionale, garantendo l’autonomia del socialismo dall’abbraccio dei «cugini del Pci». Un percorso di lettura a partire da un volume di Tommaso Nencioni
di Gianpasquale Santomassimo

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segnalazione di Carlo Patrignani