mercoledì 14 gennaio 2015

il Fatto 14.1.15
Il Papa
“Religioni unite contro la violenza”


“Per il bene della pace, non si deve permettere che le credenze religiose vengano abusate per la causa della violenza o della guerra”. Così Papa Francesco durante l’incontro interreligioso a Colombo in Sri Lanka, dove si trova in viaggio apostolico: “Dobbiamo essere chiari e non equivoci – ha aggiunto – nell’invitare le nostre comunità a vivere pienamente i precetti di pace e convivenza presenti in ciascuna religione e denunciare gli atti di violenza quando vengono commessi”. Francesco ha incontrato rappresentanti delle tradizioni maggiormente presenti nel paese asiatico, divenute: “Non si deve permettere che le credenze religiose vengano abusate per la causa della violenza o della guerra”. Nel suo primo giorno Francesco ha incontrato i rappresentanti delle religioni presenti nell’isola: buddisti (70%), induisti (12,6) musulmani (9,7) e cristiani (7,2). Giuovedì Bergoglio proseguirà il suo viaggio in Asia e visiterà le Filippine, paese schiacciante maggioranza cattolica.

Repubblica 14.1.15
Pillola dei 5 giorni senza ricetta
I medici cattolici: aborto mascherato
Bruxelles: non occorre la prescrizione. Secondo la Ue la pillola potrà essere venduta senza prescrizione medica
In Italia l’ultima parola all’Aifa. Anche i farmacisti verso l’obiezione
di Michele Bocci


ROMA Basterà entrare in farmacia e chiedere, senza avere con sé la ricetta di un medico. Dall’Europa arriva una decisione che potrebbe rivoluzionare la contraccezione di emergenza anche in Italia. Sempre che non si trovi il modo per aggirare la disposizione di Ema, l’agenzia del farmaco europea, e della Ue, in base alla quale per acquistare la pillola dei 5 giorni dopo (EllaOne è il nome commerciale, ulipristal acetato il principio attivo) non c’è più bisogno di una prescrizione. E in effetti, a giudicare dalle polemiche già scatenate dal fronte cattolico, è facile prevedere un percorso pieno di spine per il farmaco nel nostro Paese. «È solo un aborto mascherato», dicono medici e farmacisti cattolici italiani, mentre Francia, Inghilterra e Germania si preparano a partire a febbraio.
Ema ha spiegato che la pillola non ha effetti collaterali, se viene presa a gravidanza già iniziata non provoca danni. In Italia, invece, le donne che vogliono assumerla devono fare il test per escludere che siano incinte. Così solo in 20mila l’anno scelgono EllaOne, mentre 320mila prendono la pillola del giorno dopo. Il produttore già sei mesi fa ha chiesto ad Aifa di togliere l’obbligo del test, ma l’agenzia ha risposto che trattandosi di un aspetto eticamente rilevante avrebbe girato tutto al ministero. Quando l’agenzia del farmaco europea ha deciso di non richiedere più la ricetta, l’Italia è stato uno dei pochi Paesi a votare contro, il che fa capire quanto sarà difficile attuare la regola. All’Aifa prendono tempo e annunciano che la questione verrà sottoposta alla commissione tecnica. «È anche ipotizzabile la richiesta al ministro della Salute di un approfondimento in seno al Consiglio superiore di sanità». C’è da aspettarsi un lungo periodo di riflessione, come sempre quando gli organi tecnici devono prendere decisioni scientifiche che possono avere aspetti etici.
«Non vogliamo che sia sancito il divieto di usare la pillola — dice Filippo Boscia, ginecologo e presidente dell’Associazione medici cattolici — ma definirla un contraccettivo è una bugia. Usarla vuol dire abortire, ma non è questo che mi preoccupa, quanto il fatto che ormai le giovani hanno rapporti a 13-14 anni. Se iniziano così presto a usare farmaci di questo tipo danneggiano il loro sviluppo riproduttivo. Confido che governo e Aifa blocchino tutto». Molto duro Pietro Uroda, dei farmacisti cattolici. «Per quanto ci riguarda questo rimedio non dovrebbe essere messo in commercio perché abortivo. È una vergogna: come la pillola del giorno dopo inter- rompe la possibilità di ospitare nell’utero il concepito. Stiamo facendo una causa legale e, se vanno avanti, diremo ai nostri associati di fare obiezione». Emanuela Lulli, presidente di Scienza e Vita, aggiunge: «È una deresponsabilizzazione enorme per un farmaco importante. In Italia nemmeno un rimedio da 100 milligrammi per il raffreddore viene dato senza prescrizione». Parla di «facilitazione» dell’aborto monsignor Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia accademia per la vita. Sul fronte opposto c’è Emilio Arisi, presidente della Società della contraccezione: «È razionale dare il farmaco senza ricetta, cosa tra l’altro decisa da un ente importante come Ema. Penso alle donne e all’utilità dello strumento. Chi ne ha bisogno oggi lo insegue con una serie di peripezie inutili. Ricordo che stiamo parlando di contraccezione di emergenza».

il Fatto 14.1.15
Tra un imam e un sacerdote non c’è più spazio per gli atei
di Alessandro Robecchi


Gli eventi storici hanno i loro piccoli dettagli. Così vorrei ringraziare il sindaco di Parigi, madame Anne Hidalgo, o chi per lei, per certi cartelli stradali – quelli con gli avvisi di servizio agli automobilisti – scritti nell’ormai irrinunciabile formula del “je suis”. “Je suis”… ebreo, musulmano, cristiano, poliziotto eccetera eccetera e anche, per una volta, “ateo”. Ecco, grazie. Che a ricordare questa minoranza (?) di senzadio per scelta sia la città che ha insegnato il laicismo a tutti mi pare giusto. E un po’ meno giusto mi pare invece la voce degli atei non si senta praticamente mai. Mentre Parigi e la Francia facevano qualcosa di storico, gridando slogan come “Li-berté d’ex-pression”, qui da noi ci beccavamo Salvini in heavy rotation come la canzone regina, per una volta de-felpizzato ma stoico come un fachiro a recitare il repertorio.
Vespa col mitra in mano, ci ha dato qualche soddisfazione, per il resto, dibattito fiacco e molta polvere sull’Islam, soprattutto da destra (i soliti delicati titoli di Libero e il Giornale) e alcuni interessanti interventi su religione e democrazia, religione e gente che ammazza altra gente, religione e crisi economica, religione e fanatismo. In sostanza un enorme, un po’ informe, dibattito sul laicismo senza che mai (o molto raramente) si sentisse pronunciare questa parola e senza che mai qualcuno si alzi a dire che c’è pure il caso che Dio non esista. Si sa che i vegetariani non guardano le vetrine delle macellerie, e così sarà difficile per un ateo comprendere fino in fondo i sottili distinguo e i grandi dogmi delle religioni, delle loro correnti, sfumature, sette, apparati, schegge impazzite, predicatori e propagandisti. Certo è – anche per gli atei – che questa faccenda di Dio ha mille sfaccettature. Lungo le freeway americane è tutto un fiorire di cartelli contro il darwinismo, o un indicare numeri di telefono: “Chiama Gesù, lui ha la risposta”, per non dire degli adesivi sui paraurti tipo: “Gesù ha detto che non devi tamponarmi”. Poi ci sarebbero altri dei, più o meno cattivi, o descritti come molto cattivi da chi agisce in loro nome. Poi ci sarebbe il grande dibattito su Bibbia, Corano e testi sacri: cosa c’è scritto veramente, come va interpretato, come va letto storicamente. Un ateo osserva tutto questo un po’ costernato, da fuori, come assistendo a un folle spettacolo in cui la fede in Dio oscilla da “fammi vincere a bigliardino ” a imbottire i bambini di tritolo, e probabilmente ciò rafforza il suo scetticismo. Quando gli autori di Charlie Hebdo parlano di “Diritto alla blasfemia”, probabilmente intendono questo, e ora che si discetta apertamente di guerre di civiltà e di religioni la cosa ha un suo fondamento. A guardarla bene, la manifestazione di Parigi era questo: una rivendicazione di laicità universale. Cercate di non fare troppi danni con il vostro Dio e soprattutto lasciate in pace noi. Non diverso da quello che scriveva (in tempi non sospetti, cioè quando non gli ammazzavano i redattori a mitragliate) François Cavanna, che di Charlie Hebdo fu il fondatore. Una lunga invettiva verso dogmi, fedi, credenze, pratiche, superstizioni e imposizioni che si concludeva con: “Non rompeteci i coglioni. Fate i vostri salamelecchi nella vostra capanna, chiudete bene la porta e soprattutto non corrompete i nostri ragazzi”. Ecco, un punto di vista fieramente ateo, che nessuno cita nelle profonde elucubrazioni di questi giorni, e che avrebbe, invece, pieno diritto di cittadinanza nel dibattito.

il Fatto 14.1.15
Il giurista Stefano Rodotà
“Le leggi speciali sono inutili. Sui diritti non si tratta”
di Silvia Truzzi


C’è tutto d’indicibile in quello che è accaduto a Parigi: la violenza, la paura, il pericolo, il dolore. Eppure tutto deve restare dicibile. Perché? Stefano Rodotà risponde così: “Per salvare la democrazia non si può perdere la democrazia”. I diritti non sono se non assoluti e sempre garantiti: il problema – e non è questione da poco – sorge quando i diritti sembrano trovarsi in contraddizione, quando affermarne uno (la sicurezza) rischia di negarne un altro (la libertà).
Professore, in questi giorni qualcuno ha sostenuto che la libertà di manifestazione del pensiero ha dei limiti.
E molti altri hanno detto che si devono accettare anche le manifestazioni estreme di libertà di pensiero: è una tesi terribilmente impegnativa, implica un'assoluta coerenza nell'applicazione. Allora vorrei far notare che al corteo di Parigi c'era anche Vicktor Orban, il primo ministro di un Paese - l'Ungheria - che ha represso in modo radicale la libertà di pensiero. E l'Unione europea non ha usato i poteri che le sono attribuiti da Maastricht per intervenire. Voglio dire: non basta affermare il primato delle libertà, bisogna trarne una serie di conseguenze. I diritti non sono a senso unico, secondo le convenienze.
Un limite è costituito dai reati d'opinione: la più recente discussione riguarda il negazionismo.
Molti in Italia - tra storici e giuristi - si sono opposti a che il negazionismo fosse considerato un reato; in altri Paesi è stato previsto come tale. Ho più volte spiegato le ragioni della mia contrarietà. Però è ovvio che se un fatto costituisce reato questo è certamente un limite: se ci sono reati, vanno perseguiti. E dunque se c'è apologia del terrorismo, bisogna procedere di conseguenza. Il diritto alla manifestazione del pensiero però deve essere garantito sempre e nei confronti di tutti, non può essere applicato a intermittenza, con diversi pesi e misure. Sarebbe rischioso, alla luce del conflitto che si è aperto.
Siamo in “guerra”?
E' una parola sbagliata, che conduce direttamente alla tesi dello scontro di civiltà. C'è un problema che riguarda situazioni specifiche: l’orrore di Boko Ha-ram, le aggressioni di al Qaeda, le violenze omicide dell’Isis. Non esiste in astratto una guerra tra democrazia e fondamentalismo. Se si afferma che siamo in guerra, le tutele che riguardano i diritti possono essere messe in discussione. E allora ci troviamo su un terreno scivoloso e pericoloso.
Dopo l'11 settembre presiedeva il gruppo dei garanti per il diritto alla riservatezza della Ue.
Ho negoziato duramente con gli Stati Uniti per impedire che una serie di diritti dei cittadini europei - per esempio quelli riguardanti la raccolta dei dati personali dei passeggeri negli aeroporti - fossero tanto limitati come il governo americano richiedeva. Nel febbraio 2002 l'American civil liberty union mandò una lettera alle istituzioni governative Usa dicendo che non si poteva chiedere ai cittadini europei di adeguarsi alle norme restrittive che l'America voleva imporre. E anzi sosteneva che loro avrebbero dovuto seguire le indicazioni di tutela dei diritti che venivano dall'Europa. La democrazia vince quando si afferma completamente come tale.
"Per salvare la democrazia non dobbiamo perdere la democrazia": il dibattito si è posto negli anni di piombo, quando si scelse la strada delle leggi speciali.
Ai tempi del decreto sul fermo di polizia - uno dei "decreti Cossiga" - ero in Parlamento: votai contro, quando il Pci votò per la fiducia al governo. Riuscimmo a far passare un emendamento che prevedeva per il governo l'obbligo di relazionare sull'efficacia di queste leggi ogni sei mesi. Da quelle relazioni venne fuori che il fermo di polizia non serviva a nulla. Servì, contro i brigatisti, l'isolamento politico, così come fu fondamentale la riorganizzazione delle forze di polizia. La riduzione dei diritti è una risposta facile, che apparentemente rassicura, ma indebolisce la democrazia e non dà strumenti di lotta. Allora come oggi le leggi speciali non servono. Adesso è fondamentale capire se l'organizzazione per il controllo e la prevenzione del terrorismo è adeguata alla situazione. La risposta sembra negativa: è su questo che bisogna agire, ad esempio con un vero coordinemento tra i servizi di sicurezza dei diversi Paesi.
È favorevole alla sospensione di Schengen?
No. E bene ha fatto il ministro Gentiloni a dire subito che non era d'accordo: ora si è aggiunta anche Angela Merkel. L'Europa non può tornare alle divisioni, negando la libertà di circolazione sul territorio. Sarebbe un atto contro la possibilità di rafforzare il patto tra gli Stati. Tra l’altro l'Italia è entrata tardi negli accordi di Schengen perché non aveva una legge sulla privacy. Da questo non si può tornare indietro.
I diritti sono più forti della paura?
Certo. E la tutela dei diritti è l'unico fattore di unificazione dei Paesi e di riconciliazione dei cittadini con le istituzioni. E' molto più facile prospettare misure straordinarie di pubblica sicurezza. Ma è sempre stata una risposta perdente: i diritti non sono in contrasto con l'efficienza organizzativa. E non sono negoziabili.

il Fatto 14.1.15
Il musico ebreo Moni Ovadia
“Giusto non cadere nell’autocensura”
di Tommaso Rodano


“Sono agnostico, ma conosco l’importanza della spiritualità. Capisco la complessità dell’argomento, me per nessun motivo sono disposto ad accettare la censura. Qualsiasi forma di censura”. Moni Ovadia è un artista, attore e drammaturgo. Un “ebreo levantino”, come si definisce lui stesso. Per cultura e formazione personale, è molto sensibile alle conseguenze drammatiche degli attentati di Parigi. “Sono cresciuto nell’adorazione di Wolinski – racconta – e Charlie Hebdo è stato parte della mia formazione artistica”.
Oggi torna in edicola (in Italia con il Fatto Quotidiano). C’è di nuovo l’immagine di Maometto in copertina. È una provocazione o un atto di coerenza e coraggio?
Conosco moltissimi musulmani. Persone colte, intelligenti, laiche. Osservano queste vignette con disincanto, sono in grado di capirne il contesto e il significato. È vero: probabilmente le componenti più ottuse del mondo islamico la vivranno come una provocazione. Ma io credo che la decisione dei giornalisti e vignettisti di Charlie Hebdo meriti rispetto. Oggi non bisogna, malgrado tutto, cadere nella trappola dell’autocensura. Dobbiamo essere in prima fila nel difendere il diritto a esprimersi e, a volte, anche a sbagliare.
Non c’è un limite a questo diritto? Dove finisce la libertà d’espressione e dove inizia il rispetto della sensibilità religiosa?
Credo sia un discorso complesso, che ha bisogno di essere affrontato. Ma con un punto fermo: la satira deve rimanere libera. Chi deve stabilire i suoi limiti? A che scopo? Si correrebbe un rischio troppo grande. Ci sono le leggi: se qualcuno si sente ferito e vuole rivendicare il suo diritto a non essere offeso, ci sono i tribunali. Certo, non lo nascondo: è difficile tracciare i confini della satira. Faccio un ragionamento paradossale: se qualcuno ironizzasse sulla pedofilia, insultandone le vittime? Si difenderebbe ancora il diritto alla libertà d’espressione? È fondamentale che ci sia una discussione civile su questo argomento, serve un approfondimento collettivo. Ma la violenza e il fanatismo non sono accettabili, in nessun caso.
Il fanatismo è un problema del mondo musulmano o è una pianta che sta mettendo radici ovunque?
I fanatici sono dappertutto e non sono diversi gli uni dagli altri. L’islamismo più aperto e pacifico è cresciuto, probabilmente, in Bosnia Erzegovina: Sarajevo è stata una delle città più accoglienti d’Europa. Eppure i bosniaci sono stati trucidati durante le guerre in Jugoslavia. I loro assassini non erano di certo musulmani, ma cristiani. Lo stesso mondo ebraico è pieno di fanatici: ci sono violenti e pistoleri anche in Israele. Ovviamente ci sono somiglianze e differenze nei monoteismi puri, ma come diceva un vecchio e saggio rabbino marocchino, “un buon musulmano e un buon ebreo si assomigliano come due gocce d’acqua”.
Le comunità ebraiche in Francia oggi fanno bene ad avere paura?
La paura è una reazione comprensibile nei soggetti più fragili e in coloro che hanno ancora memoria viva delle violenze passate. Ma questa paura non deve prestarsi a strumentalizzazioni ignobili, come quella del primo ministro israeliano Netanyahu. Cosa ha in mente? Far venire via tutti gli ebrei e trasformare Israele in una sorta di nuovo ghetto super blindato e super armato? Il suo comportamento è iniquo, grave, nefasto. Sembra voler realizzare davvero il disegno storico antisemita nazi-fascista. Per biechi interessi elettorali. Le identità dei popoli non sono oggetto di trattative politiche.
Come si combattono le pulsioni xenofobe scatenate da questa tragedia? Come si evita che si scivoli davvero verso uno scontro di civiltà?
Credo che non esista nessuno scontro di civiltà nei termini in cui lo presentano le destre nazionaliste. È chiaro che ci sono dei conflitti molto complessi, determinati anche, non solo, dalle politiche dell’occidente. Le guerre preventive di Bush jr hanno preso a calci un formicaio di complessità e non c’è dubbio che abbiano dato forza e consapevolezza agli estremisti. Se per rispondere a queste violenze si decide di continuare a coltivare l’ostilità, allora sì che saranno guai. Bisogna cominciare a costruire una cultura di pace. Non è facile. I campioni d’imbecillità che si riempiono la bocca della parola “buonista”, quando si parla di pacifismo, non capiscono nulla. L’impegno per la pace serve a togliere ossigeno alle violenze, non a legittimarle.

La Stampa 14.1.15
Che cosa intendiamo quando si parla di libertà
di Gian Enrico Rusconi


Dopo lo shock delle emozioni, è arrivato il tempo della riflessione, che deve essere altrettanto seria. L’inattesa intensità della riscoperta della parola «libertà» nelle giornate di Parigi deve portare all’altrettanto intensa riscoperta della sua capacità di includere. Non si può essere liberi soltanto «contro». La nostra libertà è tale se riesce a comprendere anche chi in questo momento se la sente buttata in faccia in tono polemico - come forma di accusa.
Non mi riferisco, beninteso, ai criminali, ai terroristi, ai loro sostenitori espliciti o camuffati. Contro di loro la rivendicazione della libertà radicale vale proprio come arma. Ed è un’arma efficace. Mi riferisco ai tantissimi islamici sinceramente convinti che la strada intrapresa, anche in loro nome, dal terrorismo è sbagliata, blasfema, autodistruttiva.
Ma la maggior parte degli islamici è rimasta sostanzialmente ammutolita da quanto è successo. Sorpresa dalla travolgente reazione della nazione francese e dalla solidarietà pubblica mondiale. Certo, molti musulmani sono scesi anch’essi nelle strade a manifestare la loro solidarietà per le vittime. Responsabili religiosi hanno ribadito - ancora una volta - la natura pacifica dell’Islam. Hanno ripetuto l’assoluta necessità del rispetto reciproco delle religioni e delle culture.
Ma molti hanno avuto la sensazione di essere guardati con sospetto, anzi di non essere capiti perché, nonostante tutto, continuano a ritenere che le famose/famigerate vignette di Charlie Hebdo sono inaccettabili.
Sono in gioco i concetti di libertà e laicità che hanno mobilitato gli animi. Si tratta di due parole - chiave della tradizione occidentale, per altro diversamente declinate nelle varie tradizioni storiche nazionali. La laicità è un concetto estraneo all’Islam. Ma in Occidente (cristiano o post-cristiano) ci sono modi differenti di essere laici, in Francia, in Italia, in Germania e negli Stati Uniti. E molti laici - tra l’altro - non hanno nascosto il loro dissenso per il contenuto di alcune vignette. Ma nei giorni passati le differenze sono cadute, sottaciute davanti all’enormità di quanto era accaduto, davanti all’inaccettabile reazione dei terroristi.
Adesso però per andare avanti, se vogliamo riallacciare un dialogo con gli islamici dobbiamo riprenderle, ridiscuterle quelle differenze. Usciamo dalla eccezionalità, pensiamo alla quotidianità dei rapporti.
La laicità è un criterio di convivenza civile che prescinde dalle appartenenze religiose e nel contempo è molto di più della semplice accettazione del pluralismo delle fedi. Rivendica infatti anche il diritto di criticare la religione come tale. Saldandosi con l’idea di libertà di espressione intesa in forme radicali (come nel «giornale irresponsabile» Charlie Hebdo), può dar luogo a situazioni estreme come quella cui abbiamo assistito..
Entriamo così in un terreno minato. Che la libertà di espressione debba darsi dei limiti è una convinzione condivisa, che talvolta giustifica istituzioni di controllo. Non è certo il nostro caso. Qui può intervenire soltanto un autocontrollo per convinzione. Le manifestazioni d’arte e letterarie (soprattutto la satira) hanno sempre camminato sull’orlo di questa situazione. Nel caso di cui stiamo parlando, imboccare ora una sorta di escalation otterrà forse l’effetto sperato di tenere testa ai nemici della libertà e della laicità?
Ferma restando la determinazione a reagire energicamente ad ogni tipo di minaccia, per chi intende convincere gli islamici a rifuggire dai cattivi rappresentanti della loro religione, anzi a isolarli, l’unica strada da percorrere è il confronto, la discussione, il dissenso ragionato. Non ha senso offendere la sensibilità degli islamici o sbattere loro in faccia l’esercizio della «nostra libertà». Così diventa una cattiva libertà.

Corriere 14.1.15

Periferie abbandonate dove nasce il terrore
Il dovere di risanarle
di Sergio Rizzo


Non sappiamo se Parigi sarebbe scampata al massacro. Ma difficilmente i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly ne sarebbero stati i responsabili, se non fossero cresciuti nelle banlieue . Le stragi del 7 gennaio nella redazione di Charlie Hebdo e di due giorni dopo al supermercato ebraico hanno riportato a galla con prepotenza un problema che va perfino oltre quelli, drammatici, dell’integrazione razziale e della tolleranza religiosa. Una faccenda che non riguarda soltanto Parigi ma tutte le metropoli europee, comprese le nostre. E alla quale non si può reagire esclusivamente con le doverose misure di antiterrorismo.
Chi oggi punta il dito verso certe moschee, dovrebbe puntarlo anche in direzione di certe periferie.
Sono quelle le prime polveriere. Dove la bruttezza, l’assenza di servizi, il degrado ambientale e la scarsa presenza dello Stato rappresentano un brodo di coltura ideale per la criminalità, il proselitismo fanatico e il terrorismo. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, a seconda delle situazioni che di volta in volta si determinano.
Le banlieue parigine nelle quali i gendarmi entrano solo con la tenuta antisommossa non sono così diverse dai quartieri delle città italiane off-limits per le volanti della polizia. E se il paragone può sembrare un tantino esagerato, lo è unicamente per le dimensioni di una questione che in Francia ha radici molto più antiche. La miscela esplosiva è la stessa.
Fatti come quelli che hanno consegnato in modo allucinante alle cronache il quartiere romano di Tor Sapienza alludono a scenari preoccupanti anche in casa nostra, e sbaglieremmo a non prenderne coscienza. Adottando una contromisura efficace e radicale su cui molti insistono da anni. Ovvero, la rottamazione e il risanamento delle periferie. Insistono gli urbanisti: Aldo Loris Rossi va predicando sulla necessità di distruggere almeno 45 milioni di vani costruiti dopo il 1945 senza qualità né efficienza energetica, né regole asismiche. Insistono gli architetti: il senatore a vita Renzo Piano parla di «rammendare» le periferie per ricomporre tessuti urbani sfigurati dove vivono, secondo alcune stime, almeno 28 milioni di persone, il 46 per cento della popolazione italiana. Insistono, ora, perfino i costruttori che si rendono conto di quanto sia insensato continuare a consumare inutilmente suolo in un Paese nel quale un bene tanto prezioso sta diventando ormai raro. Ma sono voci nel deserto. Troppo disattenta la politica, troppo concentrata sulle beghe di cortile in vista delle prossime elezioni amministrative o le toppe da mettere qui e là ai conti che perdono pezzi, per guardare oltre una linea dell’orizzonte sempre dannatamente bassa. Tutto finisce così in dichiarazioni di circostanza o in qualche riga affogata in una legge destinata a non produrre effetti.
Eppure basterebbe prendere esempio da ciò che qualche Paese, nel Vecchio continente, sta già facendo. La stessa Francia, dove la consapevolezza del problema si è affermata da tempo, ha avviato un Programme national pour la Rénovation Urbaine che ha l’obiettivo di sradicare il degrado con la ristrutturazione forzosa degli edifici fatiscenti ma anche con la demolizione e la ricostruzione di interi quartieri. Un piano ambizioso che sta dando qualche risultato a Marsiglia, fra tutte le città francesi quella con il più alto tasso di disoccupazione e il più basso livello di reddito procapite con una presenza rilevantissima di comunità magrebine e islamiche. E gli investimenti necessari, che pure modesti non sono, si ripagano con gli interessi in termini di maggiore sicurezza e dunque minori costi sociali, ma anche risparmi energetici considerevoli e rendite fondiarie più elevate che garantiscono l’aumento delle entrate fiscali. Certo, da questo a risolvere il problema delle banlieue la strada è ancora lunga. Neppure ci si può illudere che il risanamento delle periferie sia condizione sufficiente per garantire l’inclusione sociale, la sconfitta della disoccupazione e il miglioramento delle condizioni di vita delle fasce più deboli ed emarginate. Ma necessaria, sì. Qualunque governo dovrebbe prenderne atto e agire di conseguenza: non soltanto a parole, come si è fatto finora.

La Stampa 14.1.15
L’identikit del nuovo presidente
di Luigi La Spina


L’elezione del Presidente della Repubblica, come quella del Papa, è del tutto imprevedibile e, al contrario di un conclave, non è neanche assistita dallo Spirito Santo. È vero che, come una partita di calcio, ci sono i favoriti, ma se, come si diceva una volta, «la palla è rotonda», anche la sfera di cristallo della politica si diverte spesso a smentire i pronostici. Così, è meglio diffidare di chi, alla vigilia, azzarda due o tre nomi «sicuri», come di chi, ai nastri di partenza, suggerisce di puntare su cavalli «sicuramente» vincenti. E neanche una scrupolosa analisi del passato serve a molto, perché non esistono regole per fare un Presidente, nonostante qualcuno si affanni a cercarle e pretenda di averle trovate.
Nonostante l’assenza di ispirazioni divine, in verità, c’è forse una regola che sembra individuabile nella caotica partita che oggi scatta ufficialmente e, se vogliamo continuare nel paragone un po’ blasfemo, potremmo parlare di una provvidenza laica. Quella che, dall’urna presidenziale, fa spuntare un nome corrispondente alle esigenze della storia. Il profilo del Presidente prossimo venturo, perciò, cambia continuamente, di elezione in elezione, approfittando della benemerita vaghezza che la Costituzione disegna per il suo ruolo.
Notai, politici di professione, padri della Patria, economisti con la laurea in lettere classiche e persino costituzionalisti col piccone in mano si sono alternati al Quirinale secondo quello «spirito dei tempi» di hegeliana memoria.
Ecco perché, invece di tuffarsi nella riffa dei nomi, candidati, pseudocandidati, autocandidati, forse sarebbe meglio trovare la bussola presidenziale partendo dalle caratteristiche necessarie, oggi, per poter far fronte ai compiti che, nei prossimi sette anni, dovrà assolvere il nuovo Capo dello Stato.
In una fase di profonda riforma costituzionale come quella che si annuncia, non si può pensare, innanzi tutto, a un Presidente che non abbia una competenza e una esperienza delle regole e delle procedure che stabiliscono i rapporti tra le istituzioni della Repubblica. Un garante, insomma, che i previsti mutamenti di alcuni tra i più importanti organi dello Stato non intacchino i principi sui quali è fondata la nostra Carta fondamentale.
A questa prima necessità se ne collega naturalmente un’altra, quella di una conoscenza del nostro mondo della politica, così peculiare in Italia e tale che un estraneo ai suoi costumi e malcostumi, alle sue abitudini, ai suoi meccanismi, palesi e occulti, farebbe davvero fatica a capire la nostra vita pubblica e a farsi capire dalla nostra politica, cioè a poter incidere con efficacia in una realtà molto complessa.
Le altre qualità che il prossimo Presidente dovrebbe possedere sono più legate, invece, ai cambiamenti che sono avvenuti in questi anni in due sfere più distanti dai palazzi nostrani del potere. Quella dei rapporti internazionali e quella della comunicazione con i cittadini italiani.
È ormai necessario che il capo di una nazione come l’Italia abbia una certa esperienza delle relazioni che avvengono tra i leader del mondo, che sia una personalità conosciuta e apprezzata. Non per una mera questione di prestigio, ma per poter esercitare quella funzione di una rappresentanza istituzionale che, al vertice dello Stato per un lungo periodo, possa costituire garanzia di stabilità, assicurazione di rispetto degli impegni, punto di riferimento per tutti, capi di governo, entità sovrannazionali, politiche ed economiche, ma anche leader religiosi. Infine, che possa pure impersonare quella figura dotata di autorevolezza morale e politica che sostenga l’immagine dell’Italia nel mondo. Un ruolo che Napolitano ha praticato così bene e in tempi così difficili per il nostro Paese in questi anni.
Ultima dote che il prossimo inquilino del Quirinale dovrebbe avere è proprio quella resa necessaria dalla modernità del rapporto tra Capo di Stato e cittadini. Cioè la capacità di istituire con gli italiani un legame di simpatia, spontanea e immediata, la capacità di comunicare con loro in maniera talmente diretta da supplire a quella distanza tra il mondo della politica, delle istituzioni e la sensibilità comune che, come le ultime elezioni dimostrano, si va approfondendo in modo molto preoccupante. Ormai, tocca al Presidente della Repubblica una funzione particolare, che non era affatto richiesta ai Capi di Stato del secolo scorso, quella di rappresentare la nazione soprattutto raccogliendo i sentimenti dei suoi cittadini, le loro speranze, le loro paure, i loro disagi, i loro bisogni di rassicurazione sul futuro. Essere, insomma, il primo difensore civico dei nostri concittadini. Ecco perché non basterà che ispiri fiducia agli oltre mille elettori delle Camere riunite, occorre che sappia ispirare fiducia agli italiani. Di questi tempi, non sarà facile.

La Stampa 14.1.15
La giostra dei candidati improbabili


Come sempre, anche stavolta, si aggirano attorno al Colle due personaggi classici della «commedia» quirinalizia, due idealtipi fissi in ogni campagna presidenziale. Anzitutto, il candidato improbabile, quello che non arriverà mai in cima, ma intanto si fa un «giro» da presidenziabile. In queste ore ne circolano parecchi. E poi c’è l’outsider, che invece è un personaggio più consistente, da tener d’occhio. Per un motivo eloquente: tante volte nella scalata al Colle, alla fine l’ha spuntata proprio il candidato che nessuno si aspettava. Da 50 anni a questa parte è finita quasi sempre così, con l’elezione di un Presidente diverso da quello più quotato alla vigilia.
Nel 1964 il socialdemocratico Giuseppe Saragat; nel 1971 l’ex avvocato napoletano Giovanni Leone; nel 1978 l’ex partigiano, il socialista Sandro Pertini; nel 1992 un notabile democristiano che sembrava uscito di scena, Oscar Luigi Scalfaro; nel 1999, dopo un tentativo D’Alema, i principali partiti convergono sull’ex governatore della Banca d’Italia (e brevemente premier) Carlo Azeglio Ciampi. E ancora, nel 2006, dopo uno stallo iniziale spunta un’altra riserva della Repubblica, alla quale inizialmente non pensava nessuno: Giorgio Napolitano. Tutti outsider diventati Presidenti.
Ma in ogni campagna presidenziale spuntano anche i candidati improbabili, spesso per effetto di carambole imprevedibili, alle quali sono estranei persino gli interessati. Ieri, a Strasburgo, il presidente del Consiglio ha usato al riguardo parole inequivocabili: «Il presidente dovrà avere una grande personalità». Basteranno queste parole per chiudere la simpatica giostra degli inverosimili? Negli ultimi giorni, incoraggiati dalla imprevedibilità di Matteo Renzi, erano avanzati come possibili candidati al Quirinale personaggi rispettati nei rispettivi campi, ma altamente improbabili come futuri presidenti. Come il direttore dell’Istituto Gramsci Giuseppe Vacca, il più ortodosso storico di tradizione comunista. O come Giuseppe Legnini, già parlamentare dei Ds e del Pd, ora vicepresidente del Csm, una fama di galantuomo, con spiccate doti di relazione e di mediazione. Due candidati che hanno preso corpo per effetto di uno dei possibili schemi di gioco di Renzi (l’accordo con la minoranza Pd), ma anche perché al presidente del Consiglio finora non è mancata la capacità di stupire con scelte spiazzanti: Federica Mogherini, prima di diventare ministro degli Esteri, non aveva mai avuto nessun incarico, né come sottosegretario né in Commissioni parlamentari. Da 74 giorni guida la politica estera del vecchio Continente.

La Stampa 14.1.15
Una strategia, due obiettivi e molte ipotesi
di Marcello Sorgi


Dopo le dimissioni di Napolitano, che saranno formalizzate stamane, la corsa al Colle parte da tre nomi, Mattarella, Castagnetti, Veltroni, che corrispondono all’identikit tratteggiato da Renzi, dopo l’intervento conclusivo del semestre di presidenza italiana al Parlamento europeo.
Scoprendo per la prima volta le carte, Renzi ha parlato di un arbitro, politico e autorevole, in grado di garantire prestigio e continuità nel ruolo. Tra le righe, si intuisce che il premier ha due obiettivi precisi: chiudere la partita in tempi brevi, entro la quarta o al massimo la quinta votazione (che richiedono la maggioranza semplice dei Grandi Elettori, 505 voti), e portare al Colle una personalità che non voglia fargli da contrappeso o disseminargli la strada di ostacoli. Con il che, ritiene di aver fatto un passo avanti, rispetto alla sua prima impostazione, che prevedeva un Capo dello Stato renziano.
Mattarella (ex-vicepresidente del consiglio, ministro in vari governi e giudice costituzionale), Castagnetti (ex-segretario del Ppi, vicepresidente della Camera e parlamentare europeo) e Veltroni (ex-vicepresidente del consiglio, ministro della cultura, sindaco di Roma e fondatore del Pd), hanno alcune caratteristiche in comune: sono usciti dal servizio attivo senza essere rottamati, godono di larga stima anche fuori delle file del loro partito, hanno l’esperienza che ci vuole per ricoprire la carica. Questo non vuol dire che la scelta cadrà necessariamente su uno di loro (circolano anche altri nomi, l’elenco è lungo): ma già il fatto di essere considerati esempi di cui discutere è significativo, in una fase come questa, in cui nessuno può dire veramente di tenere sotto controllo i gruppi parlamentari.
Additando Napolitano come esempio di saggezza e di servizio alto alle istituzioni anche per il futuro e collocandosi sulla scia del suo richiamo all’unità, Renzi ha dato il via a una campagna pedagogica che punta a recuperare consensi tra deputati e senatori Democrat, sia per convincerli ad approvare la legge elettorale prima della convocazione delle Camere riunite, sia per trattenerli dal richiamo della foresta delle votazioni segrete, che portarono, meno di due anni fa, agli agguati a Prodi e Marini e al naufragio del Pd.

Corriere 14.1.15
La figura che non vorremmo
L’eredità di Napolitano al Quirinale
di Michele Ainis

qui

Corriere 14.1.15
Quirinale, le cautele di Renzi (ricordando le divisioni del partito)
Il dopo Napolitano e le mosse del premier
di Massimo Franco

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Corriere 14.1.15
Terna di nomi. E cresce l’ipotesi Veltroni
Le opzioni Mattarella, Gentiloni e Fassino. Il premier chiede a Berlusconi di serrare i ranghi Il leader di Forza Italia valuterà la rosa dei candidati con il metro dell’agibilità politica
di Francesco Verderami


ROMA Sul Quirinale è il momento di contarsi per contare. E se Renzi non mette in dubbio la parola di Berlusconi, «ha detto che voterà con noi e io gli credo», vuole capire se ha davvero fondamento l’altra garanzia fornita dal Cavaliere: «A breve incontrerò Fitto e i miei gruppi saranno uniti». La corsa per il Colle inizia ufficialmente oggi, e il premier chiede all’alleato dell’opposizione di stringere i suoi ranghi, «io deve badare a compattare i miei». Si vedrà se il leader del Pd riuscirà ad arrivare puntuale all’appuntamento, «alla quarta votazione avremo il nuovo capo dello Stato», o se la sua scommessa si rivelerà un azzardo. Molto dipenderà dal grado di tenuta del capo dei forzisti ma soprattutto dalla tattica che verrà adottata per evitare le insidie del voto segreto.
Arcore è la Fortezza Bastiani di Berlusconi, che in attesa di sapere cosa disporrà Renzi sul Quirinale si sporge dai camminamenti per scorgere la sagoma di un messaggero: da quel deserto, d’altronde, non arrivano più nemici ma solo un ufficiale di collegamento. È Verdini. È lui che spiega al Cavaliere come comportarsi: «Renzi ti proporrà una serie di candidati e noi potremo scegliere». Il leader di Forza Italia inizia così a sfogliare i petali della rosa, a modo suo: «Avrò l’agibilità, non avrò l’agibilità...». È un chiodo fisso, non smette di parlarne, mentre attorno a lui i fedelissimi sbirciano sui suoi fogli i nomi dei quirinabili: Mattarella, Gentiloni, Fassino.
Il Cavaliere storce il naso. In realtà, in fondo al sentiero che porta alla presidenza della Repubblica, quella terna (forse) nasconde il vero candidato. Confalonieri sostiene che «nella storia del Quirinale sono salite personalità sbiadite, però pensi di eleggere uno sbiadito e poi magari ti ritrovi un Pertini». Il Colle visto da Arcore è un santuario laico da cui Berlusconi si attende il miracolo, e la sua Fortezza Bastiani è un ottimo punto di osservazione per vedere tutti quelli che si agitano con i loro messaggi e le loro telefonate, grazie alle quali l’ex premier può dimenticare l’estrema debolezza politica del momento. Fassino — per accreditarsi — gli ha fatto sapere che da Guardasigilli non ebbe mai alcun atto ostile contro di lui sulla giustizia, «e quanto a standing internazionale sono stato ministro del Commercio estero».
Persino Prodi gli manda a dire. O meglio, alcuni prodiani — non si sa se autorizzati o mossi da iniziativa personale — hanno contattato rappresentanti berlusconiani del mondo dello spettacolo e dell’informazione per affidare un pensiero da consegnare al Cavaliere. Ma il Professore non ha detto a più riprese di non essere «in corsa»? Vero, ma «in corsa» lo potrebbero sospingere gli avversari di Renzi nelle prime tre votazioni, quelle in cui il premier ha dichiarato che «si voterà scheda bianca», quelle in cui il leader del Pd sarà maggiormente vulnerabile. Se il Professore iniziasse a salire nei consensi sarebbe complicato arrestarne poi la marcia.
A meno da non proporre un nome che sia «all’altezza di Prodi e di Marini», come chiede Bersani a mo’ di sfida. E il capo democrat — per parare il colpo e fermare la corsa del fondatore dell’Ulivo — medita di lanciare in pista il primo segretario del Pd, quel Veltroni che — per dirla con autorevoli membri del governo — «più sta fermo più sta dentro i giochi». Se così fosse, gli oppositori interni di Renzi avrebbero difficoltà a respingere la proposta del loro segretario. Se così fosse, altro che terna: vorrebbe dire che Berlusconi qualche garanzia deve averla data sul candidato secco. Proprio Bersani ieri sentiva aria di grande intesa: «Il premier dice che per il capo dello Stato partirà dalla quarta votazione e l’opposizione non protesta?».
Di più. Tra i ranghi forzisti c’è chi sottovoce si mostra disponibile a votare eventualmente Veltroni, accreditando di fatto la tesi che la debolezza politica del Cavaliere lo porterebbe ad accettare anche «un esponente del Pd» pur di stare in gioco. Ma è questo il vero gioco o la soluzione ventilata ieri da Palazzo Chigi è una mossa tattica, fatta nell’urgenza del momento, per stoppare gli oppositori del premier? E l’accordo — semmai fosse stato già chiuso con Berlusconi — comprende anche l’area dei centristi che stanno nel governo? Perché ieri Alfano ha detto no a un candidato al Colle che sia frutto «delle primarie del Pd».
Tra tanti interrogativi, una cosa è certa: Renzi oltre la sesta chiama potrebbe perdere il controllo della situazione in Parlamento, perciò ha bisogno di presentarsi ai blocchi di partenza con un candidato forte. I rischi di un protrarsi della corsa sono stati analizzati a Palazzo Chigi come ad Arcore, dove a Berlusconi è stato prospettato che — in caso di stallo — potrebbe prendere corpo anche la candidatura di Grasso. Raccontano che il Cavaliere abbia avuto un sobbalzo: «Un magistrato anche al Quirinale? Ci manca questo». Fosse per lui, un nome ci sarebbe, uno che gli fa ricordare la sua gioventù politica: «Tra tutti, l’unico è D’Alema ad avere il profilo dell’uomo di Stato. E sarebbe garante degli accordi. Ma purtroppo...». Purtroppo Renzi non lo vuole. E se invece fosse Veltroni?

Repubblica 14.1.15
L’ultimo identikit tracciato dal capo del governo coincide con quello fatto da Bersani
Se i dissidenti saranno più di 200, difficile chiudere al quarto scrutinio Berlusconi è disposto ad aspettare il candidato di Palazzo Chigi
di Stefano Folli


La mossa del premier un “arbitro” sul Colle per blindare i Dem senza franchi tiratori
L’ESPRESSIONE «arbitro» non è delle più felici, volendo definire la figura del presidente della Repubblica in Italia, ma si capisce l’intenzione di Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio forse per la prima volta ha provato a identificare ruolo e funzioni del capo dello Stato che il Parlamento dovrà eleggere nei prossimi giorni.
Il richiamo all’arbitro è improprio, ma il premier intendeva riferirsi a un punto di equilibrio istituzionale, lontano dai giochi di palazzo e in grado di interpretare, riassumendolo in sé, l’interesse generale del paese. Con un po’ di ottimismo si può pensare che Renzi avverta già l’assenza di Giorgio Napolitano dalla scena politica. Sappiamo che questi stamane lascia il Quirinale, ma di fatto già da qualche settimana aveva avviato il suo percorso di allontanamento progressivo dalla scena istituzionale. E c’è da credere che Renzi non abbia parlato a caso. Proprio il dinamismo instancabile ma un po’ irruente del giovane primo ministro, rendeva essenziale la presenza al Quirinale di un uomo di età e di polso, rassicurante e prodigo di consigli.
Ora la ricerca del successore entra nel vivo, ed è possibile che Renzi abbia voluto mandare un segnale preciso. A chi? Soprattutto al suo partito, il Pd, di cui è fondamentale la coesione. Si è scritto più volte che l’accordo con la minoranza interna è importante per il premier; anzi è preliminare alla convergenza con altri gruppi parlamentari, in primo luogo il centrodestra. Finora non c’erano indizi convincenti che Renzi e Bersani avessero avviato una trattativa, ma per la prima volta l’identikit del capo dello Stato tracciato dal presidente del Consiglio sembra coincidere con la figura autorevole e autonoma evocata dall’ex segretario del partito.
Vedremo. Certo è che il momento delle scelte si avvicina e a nessuno conviene agire senza una qualche rete protettiva. L’elezione al quarto scrutinio, data per certa da Renzi con la spavalderia che gli è propria, richiede pur sempre un accordo largo. Cinquecento e cinque voti non sono pochi, anche se non sono i 670 della maggioranza qualificata. Non a caso c’è chi fa il conto dei franchi tiratori, enumerandoli partito per partito. Il che rappresenta un’altra stranezza. Di solito i franchi tiratori sono una sorpresa, per definizione imprevedibile. Il fatto che in questa circostanza si possano contare quasi come una forza politica a sé stante dice molto sul grado di lacerazione dei gruppi parlamentari.
Comunque sia, se i franchi tiratori fossero fra i 200 e i 250 (un numero enorme, ma sulla carta plausibile) ecco che la strategia della quarta votazione sarebbe a rischio. E con essa la possibilità di gestire la partita del Quirinale. Renzi lo sa, conosce la vastità della posta in gioco. Cercare quindi un’intesa con i «bersaniani», ossia con il grosso della minoranza, sarebbe un gesto di saggezza. Berlusconi puó aspettare, considerando che il leader di Forza Italia è più che disposto ad appoggiare l’eventuale candidato del presidente del Consiglio, ossia l’uomo che è e resta il suo vero punto di riferimento.
Nel frasario di Renzi — possiamo interpretare — «arbitro» vuol dire una figura istituzionale con ottima conoscenza dei meccanismi della politica e della macchina dello Stato. Non è ancora abbastanza, ovviamente, per individuare con sicurezza un nome, ma è già sufficiente per escluderne un certo numero. Solo che adesso servono i fatti. Quindici giorni passano in fretta e i gruppi parlamentari devono essere coinvolti nella scelta. Anche se nessuno pensa che sia l’assemblea a decidere. Soprattutto si tratta di non sottovalutare i mille trabocchetti che possono presentarsi quando il voto è segreto.

Repubblica 14.1.15
Italicum, il patto tiene legge in vigore nel 2016 ma è rottura nel Pd sui capilista bloccati
Bersani: “Si parla con Gengis Khan e non con noi” E la Lega presenta 40 mila emendamenti
di Giovanna Casadio


ROMA L’Italicum 2 c’è. È stato riscritto grazie a tre emendamenti e un sub emendamento depositati sul filo, pochi minuti prima delle 20 quando scadeva il termine di presentazione. L’accordone del Pd con Forza Italia regge quasi del tutto. Berlusconi infatti incassa i capilista bloccati, la clausola di garanzia in base alla quale la nuova legge elettorale entrerà in vigore il 1° luglio del 2016, e acconsente a elevare al 40% la soglia per il premio di maggioranza. Mentre i forzisti non firmano la modifica sul premio data alla lista, e non più alla coalizione, e il 3% di soglia d’ingresso. Non sono convinti neppure della norma cosiddetta anti flipper sul meccanismo di attribuzione dei seggi.
Ma si va verso uno scontro durissimo in aula al Senato: la minoranza dem e la Lega sono sulle barricate. Il Carroccio ha preparato 40 mila emendamenti, un record, difficili persino da raccogliere in fascicolo entro domani, quando si dovrebbe cominciare a votare. Nel Pd cresce la tensione fino ad arrivare a un vero e proprio scontro. La sinistra dem non vuole i capilista bloccati ed era convinta che l’avrebbe spuntata. A metà pomeriggio era partito sulle agenzie di stampa un tam tam sulla trattativa in corso dentro il partito. Notizia infondata. A Montecitorio l’ex segretario Pierluigi Bersani accusava: «Che si parli anche con Gengis Khan ma non nel Pd sarebbe singolare. Mi piacerebbe che la stessa disponibilità a discutere con tutti di legge elettorale ci fosse anche per confrontarsi nel partito sull’unico problema che abbiamo posto, quello dei capilista bloccati». E a Palazzo Madama, subito dopo avere letto il testo dei 3 emendamenti, i bersaniani sono sul piede di guerra. Miguel Gotor parla di sconcerto: «Abbiamo scoperto senza che fosse comunicato all’aula, che la scadenza per subemendare gli emendamenti della maggioranza è alle 23. Di notte non si fanno le leggi elettorali, si rubano le pecore. È un comportamento inaudito, irrispettoso dei parlamentari e dei senatori del Pd, irrituale, corsaro». Sono 37 i senatori anti capilista bloccati e che avevano proposto un sistema a percentuali che garantisse il 30% di nominati ma il 70% scelti con le preferenze. La ministra Boschi a nome del governo non ci sta. Il dem Francesco Russo tenta un compromesso, che alla fine naufraga. «Attenzione, questa volta la minoranza resiste e comunque la rottura sarebbe un grave fatto politico. Proviamo ancora ad evitarla». Appelli che ieri cadono nel vuoto. «Renzi ha concesso a tutti quanto era concedibile, a Verdini e a Forza Italia i capilista bloccati, ai peones l’entrata in vigore nel 2016 della nuova legge elettorale, e ha ignorato 40 senatori del suo partito: passiamo dal Porcellum al Porcellinus».
Per Renzi il rischio vero è che salti il timing del voto sulle riforme che il premier vuole avvenga prima dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica. «Lo scontro sull’Italicum potrebbe diventare un casus belli, non proprio un buon viatico per evitare i “franchi tiratori”»: ragionano alcuni dem. Renzi scommette sull’accelerazione. Ma anche a Montecitorio, dove pure ieri la maggioranza ha superato la prova del voto segreto, ci sono venti di guerra. Sel potrebbe chiedere una sospensiva del voto proprio in vista della convocazione delle Camere per eleggere il successore di Napolitano. Bersani avverte che sul Quirinale «bisognerà trovare un nome che giustifichi il fatto che questo stesso Parlamento nel 2013 abbia detto di no a Marini e Prodi. Bisogna trovare qualcuno di almeno comparabile a quelli che hanno segato: questa è la prima sfida». Pippo Civati non vota nulla della riforma costituzionale. Colloqui e riunioni delle minoranze. Nell’incontro del gruppo dem con la ministra Boschi, Rosy Bindi protesta: «Affrontiamo il “come”, la qualità, della riforma che stiamo facendo». Il capogruppo Roberto Speranza incita: «Dobbiamo farcela prima dell’elezione per il Colle».

Repubblica 14.1.15
Il lato oscuro delle primarie aperte a tutti
Quello che è successo in Liguria negli ultimi giorni dimostra che simili consultazioni possono manipolare il voto dei cittadini
di Nadia Urbinati


IL Pd si offre ai riflettori dell’opinione pubblica come un partito aperto agli esiti più diversi e contraddittori. Il caso delle recenti primarie in Liguria genera vero sconcerto.
Prima di tutto perché, secondo testimonianze riportate dai quotidiani, in alcuni seggi si sono visti numerosi immigrati ricevere due euro per votare (tanto per avere il senso di quanto i tempi siano cambiati, quando il Pd istituì le primarie erano i votanti a dare un euro come segno di impegno). Se questi episodi fossero confermati ci troveremmo di fronte a un illecito. Sulla seconda ragione di sconcerto si può invece esprimere un giudizio politico, che vale a confermare quanto abbiamo altre volte scritto in senso critico a proposito dello statuto del Pd che ammette a votare alle sue primarie iscritti e non iscritti.
La candidata Raffaella Paita ha vinto le primarie liguri anche con il voto di simpatizzanti del centrodestra. Nei giorni scorsi, elementi di Forza Italia e del Ncd hanno annunciato pubblicamente il loro appoggio alla candidata che correva contro Sergio Cofferati. Questo è uno degli effetti deleteri delle primarie aperte: il fatto che il Pd possa diventare il partito di tutti. Non solo partito nazionale, come anche desidera il suo segretario, non solo partito che piglia tutto, ma purtroppo anche un partito che può essere preso da chi vuole. Oltretutto, le primarie aperte sono aggravate anche dal fatto che non c’è una legge dello Stato che regoli le primarie e le istituisca per tutti i partiti. Ciò rende la situazione ancora più paradossale e al limite della legittimità: ci sono alcuni elettori (nel caso ligure quelli di centro destra) che hanno un potere doppio rispetto ad altri elettori (quelli del Pd) in quanto possono determinare il risultato in due schieramenti. Ma anche se le primarie fossero regolate da una legge nazionale, il caso di Genova dimostra che quelle aperte possono annullare il diritto di associazione politica. A provarlo sono gli Stati Uniti, il paese che il Pd ha preso a modello per le pri- marie.
Le primarie americane hanno una lunga storia. Vennero istituite nel 1899 con lo scopo benemerito di detronizzare le clientele e la macchina dei partiti ricorrendo al voto di tutto il popolo per ridare credibilità alla politica. Le primarie sono state un vero e proprio processo di sperimentazione, modificate varie volte. Con le riforme del 1968 e del 1972, il Partito Democratico le adottò anche per selezionare i delegati al congresso del partito. Nei propositi dei riformatori, le primarie dovevano essere aperte perché avevano il compito di disincentivare la partigianeria, accusata di essere dannosa per il bene comune. Ancora oggi nei vari stati sono in vigore varie forme di primarie, secondo modelli più partigiani (primarie chiuse) o meno partigiani (primarie aperte).
Le primarie aperte hanno fatto gridare allo scandalo varie volte, per esempio quando si seppe che in quelle democratiche del Massachusetts, nel 1992, Mitt Romney (rivale di Obama nelle ultime elezioni) votò per uno dei candidati e si giustificò così: «Quando non ci sono reali contendenti nel mio partito voto nelle primarie dei democratici per il candidato che per i repubblicani è l’oppositore più debole». Le primarie aperte, dunque, non sempre valgono a disincentivare la partigianeria politica, ma anzi possono diventare un modo subdolo per far vincere i partigiani più accaniti.
Nel 2000 l’ecumenismo delle primarie aperte della California è stato cassato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti con la motivazione secondo cui esse trasformano i partiti al punto che i cittadini non li riconoscono più. Sfumare idee, fini e obiettivi per presentarsi a tutti gli elettori indistintamente significa togliere quei punti di riferimento rispetto ai quali i cittadini possono scegliere un partito invece di un altro. Secondo i giudici americani, inoltre, con le consultazioni aperte i votanti perdono anche il senso della libertà di associazione. Ma oltre a ciò, le primarie aperte possono diventare, come la sentenza californiana suggerisce, una porta spalancata alla manipolazione del voto e alla disintegrazione del partito.

il Fatto 14.1.15
80 euro
Il grande flop certificato pure dal Tesoro
di Stefano Feltri


SE NON CI FOSSE STATO l’eccidio di Parigi, le prime pagine dei giornali in questi giorni sarebbero andate al flop degli 80 euro, ora definitivamente certificato dall’Istat e ammesso dal ministero del Tesoro. Il 9 gennaio l’Istituto di statistica ha pubblicato il documento “Reddito e risparmio delle famiglie e profitti delle società”. La parte importante è questa: tra il secondo e il terzo trimestre 2016 (cioè luglio-settembre confrontato con aprile-giugno) il reddito lordo delle famiglie è aumentato dell’1,8 per cento. Grazie ai prezzi stabili o in calo, il potere d’acquisto (cioè il reddito al netto dell’inflazione) è salito addirittura dell’1,9. Il merito è del bonus da 80 euro che Renzi ha fatto trovare in busta paga ai lavoratori dipendenti a reddito medio-basso da maggio. Di quanto è aumentata la spesa per consumi finali, cioè la cosiddetta “domanda interna”? Zero. Anzi: “0,0”. C’è un piccolo aumento dello 0,4 per cento tra terzo trimestre 2014 e terzo 2013, ma per definire un successo la scelta del governo l’aumento doveva essere rispetto ai mesi precedenti. Qualche settimana fa, in un’intervista al Fatto, lo psicologo Paolo Legrenzi aveva spiegato bene il problema: in questa crisi gli italiani hanno visto ridursi i risparmi (crolli di Borsa), intaccati anche per compensare il calo dei redditi dovuti alla perdita di lavoro, e perfino le case hanno iniziato a scendere di valore. Le ricerche sulla psicologia degli investitori dimostrano che le perdite sono percepite molto più dei guadagni. Appena possibile, gli italiani hanno cercato di ricostruire quel cuscinetto di risparmi che considerano prioritario rispetto all’aumento dei consumi. Il Tesoro, con un comunicato, non solo ammette questo meccanismo, ma specifica che “non sorprende”. Si legge che “il ministro Padoan ha più volte sostenuto che le famiglie tendono a ricostruire lo stock di risparmio intaccato durante la crisi prima di riprendere il livello adeguato di consumi e investimenti”. Ma se Padoan lo sapeva, perché ha avallato una misura che costa 10 miliardi all’anno e il cui unico scopo (a parte far vincere le europee al Pd) è stimolare i consumi interni? L’ex ministro Enrico Giovannini ha spiegato che con la somma spesa per il bonus da 80 euro si sarebbe potuta azzerare la povertà assoluta in Italia (la soglia varia dagli 820 euro per una persona nelle grandi città ai 549 del Sud), cioè permettere un livello di consumi dignitoso a chi oggi non può affrontarlo. Magari l’impatto politico sarebbe stato minore, ma quello economico superiore: i poveri, per definizione, non possono risparmiare. Renzi però ha scelto un’altra strada e Padoan, pur sapendo evidentemente che era sbagliata, ha applicato la scelta.

il Fatto 14.1.15
Raccontano balle
Fisco, il Dl e le bugie di Renzi sull’effetto 32 miliardi grazie al cavillo salva B.


INTERVISTATO su La7, il premier Matteo Renzi ha negato che il contestato decreto fiscale avrebbe causato un buco per l'Erario: “Luigi Di Maio (m5S, ndr) ha detto che entrano 16 miliardi in meno con quella norma (la salva Berlusconi, ndr). Falso. Ne entrano 32 perché raddoppiano le sanzioni”. È vera invece solo la parte finale. La stima, peraltro, non è di Di Maio: è contenuta in un documento dell’Agenzia delle Entrate (rivelato da Libero) inviato al Tesoro. Fonti dell'Agenzia hanno rivelato al Fatto che la cifra si aggira tra i 10-15 miliardi. È l’effetto della cancellazione del raddoppio (da 4 a 8 anni) dei termini per gli accertamenti. La Ragioneria, infatti, l’avrebbe comunque bocciata.

il Fatto 14.1.15
Mamma Renzi e le quote “Chil”: le strane cessioni tra parenti
La società del padre Tiziano passata alla moglie e alle figlie per ottenere la garanzia regionale e dopo pochi mesi trasferita a Genova e venduta
di Davide Vecchi


Una questione di famiglia. Non solo il padre Tiziano, ma anche la madre Laura Bovoli e le sorelle del premier Benedetta e Matilde hanno partecipato alla richiesta di garanzia che ha portato il ministero del Tesoro del governo guidato da Matteo a pagare un mutuo insoluto della società Chil Post, nel frattempo fallita. E proprio grazie al coinvolgimento delle donne di casa la copertura è stata superiore del 20%. Incrociando inoltre la documentazione della Regione relativa alla garanzia con gli atti della Procura di Genova – che ha indagato Tiziano Renzi per bancarotta fraudolenta – si scopre che madre e sorelle del premier lasciano la Chil Post per entrare nella Eventi 6 e con questa ricevere la parte sana della loro ex società, poi trasferita a Genova e ceduta.
ANDIAMO con ordine. Lo Stato nell’ottobre 2014 ha versato 236.803 euro dal fondo centrale di garanzia a Fidi Toscana, la finanziaria controllata dalla Regione creata nel febbraio 2009 per aiutare le aziende. La società di casa Renzi aveva presentato domanda a Fidi come “pmi femminile” ottenendo la copertura dell'80% del mutuo stipulato con il Credito cooperativo di Pontassieve. Il regolamento per accedere alla garanzia, infatti, all'articolo 4 specifica che il beneficio è rilasciato “per un importo massimo garantito non superiore al 60%” del finanziamento “elevabile all'80%” in caso di prestiti a “pmi femminili”. Nel marzo 2009 la Chil Post ha tre soci: Laura Bovoli, Matilde e Benedetta Renzi. A loro, infatti, aveva ceduto le proprie quote Tiziano. Fidi Toscana accoglie la richiesta coprendo l'80% del finanziamento e lo comunica alla banca. Il 22 luglio 2009 l'istituto di credito delibera il mutuo e appena una settimana dopo, il 29 luglio, le tre donne rivendono tutte le loro quote a Tiziano Renzi che ritorna a essere proprietario della società. Una variazione dell'assetto societario che il padre del premier avrebbe dovuto comunicare a Fidi Toscana, come impone l'articolo 19 del regolamento sottoscritto dalla Chil, parte integrante dal decreto 266 del 2009 della Regione. Ma tant'è: la società gode di ottima salute e farà sicuramente fronte al mutuo. E di fatto viene pagato fino al novembre 2011 quando si registra la prima rata insoluta. Ma la società nel frattempo ha subito una vera e propria rivoluzione. L'8 ottobre 2010 cede quella che i magistrati di Genova indicano come “parte sana della società” alla Chil Promozioni Srl (che dal 22 settembre 2011 cambierà nome in Eventi 6) di proprietà di Laura Bovoli, Benedetta e Matilde Renzi. Auto, contratti in essere, il tfr di Matteo: circa due milioni di euro ceduti dietro corrispettivo di 3.878,67 euro. Dopo sei giorni, il 14 ottobre 2010 Tiziano Renzi trasferisce la sede legale della società da Firenze a Genova, cambia lo statuto sociale, cede il ruolo di amministratore e vende la Chil Post, gravata da oltre due milioni di debiti, a Gianfranco Massone. Variazioni che a Fidi Toscana non vengono comunicate. Eppure l'articolo 19 del regolamento impone ai “soggetti finanziatori, per ogni operazione ammessa, di comunicare le informazioni in loro possesso relative: all’assetto proprietario delle pmi; alle garanzie prestate a favore del soggetto finanziatore; alla titolarità del credito a seguito di cessioni”. Mentre le pmi “beneficiarie della garanzia devono comunicare a Fidi ogni fatto ritenuto rilevante inerente all'operazione garantita, ivi comprese le informazioni di cui al presente articolo”. Nonostante il fallimento della società e l'omissione delle comunicazioni, Fidi ha onorato il proprio impegno e ricevuto la contro garanzia da parte del Tesoro.
OGGI la vicenda arriva in aula regionale. Il capogruppo di Fratelli d'Italia, Giovanni Donzelli, ha presentato un'interrogazione alla quale il governatore Enrico Rossi e la sua giunta dovranno dare risposta. “Per molto meno hanno condannato altri per truffa”, dice al Fatto Donzelli. “Finora potevamo considerare questa vicenda politicamente immorale, ma i nuovi documenti dicono chiaramente che l'azienda della famiglia Renzi non ha rispettato le regole previste per la garanzia dell'80% sul debito, che è stata concessa da Fidi perché era un'azienda femminile e toscana. Invece, alla fine, il debito non è stato onorato e la garanzia è stata erogata e garantita nelle scorse settimane dal governo Renzi per un'azienda maschile e ligure. Non bisogna essere un esperto fiscalista per capire che questa vicenda è tutto meno che trasparente”.

Corriere 14.1.15
Tutele crescenti. Chi le ha viste?
di Mario Fezzi

Avvocato giuslavorista

Il primo decreto attuativo della legge delega sul Lavoro viene definito «a tutele crescenti» dallo stesso governo, ma di tutele crescenti in verità non c’è traccia. L’aumentare dell’indennità risarcitoria con il crescere dell’anzianità aziendale non può essere considerato una crescita di tutele, ma solo un aumento proporzionale dell’indennità. Con questo decreto il sistema previsto dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori viene rottamato e ne viene introdotto uno nuovo basato sul pagamento di un’indennità risarcitoria.
La reintegrazione resta solo per i licenziamenti discriminatori (inesistenti nella realtà processuale), per quelli orali e per quelli disciplinari basati su un fatto materiale che venga dimostrato come non accaduto o non determinatosi. Attenzione, però: si esclude che il giudice possa valutare la proporzionalità del fatto disciplinare addebitato. Ciò significa che l’addebito di un fatto vero, ma disciplinarmente irrilevante (portarsi a casa una matita, fare una telefonata personale con l’apparecchio aziendale, utilizzare per 5 minuti il pc aziendale per uso personale, prolungare di poco la pausa pranzo, etc.) se dimostrato vero come fatto storico materiale, impedisce al giudice di valutare la congruità della sanzione rispetto alla mancanza addebitata. In altre parole, il giudice non può dire che non si può licenziare un dipendente solo perché ha fatto una telefonata o ha tardato 5 minuti al rientro dal pranzo. Il giudice, se il fatto risulta vero, deve dichiarare risolto il rapporto di lavoro. Nel caso di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e soggettivo e per giusta causa, se il giudice ritiene che il licenziamento sia illegittimo deve condannare al pagamento di un’indennità pari a due mesi per ogni anno di servizio (con un minimo di 4 e un massimo di 24).
Se il licenziamento è illegittimo per vizi formali (mancanza di motivazione, di contestazione del fatto disciplinare, etc.) il giudice deve condannare a un’indennità tra 2 e 12 mensilità, sempre partendo dalla base di un mese per ogni anno di servizio. Per i licenziamenti collettivi è stato previsto lo stesso regime di quelli per giustificato motivo e per giusta causa. Anche se super illegittimi non danno luogo a reintegrazione ma solo a una indennità , secondo l’anzianità aziendale, tra 4 e 24 mensilità.
Una novità assoluta è poi l’offerta di conciliazione da parte del datore di lavoro. Dopo aver licenziato un dipendente può fargli un’offerta di un’indennità di un mese per ogni anno di anzianità (con un minimo di 2 e un massimo di 18); se il lavoratore accetta e rinunzia ad impugnare il licenziamento, questa indennità è totalmente esente da imposte e da contributi. Il che sembra dare un vantaggio ingiustificato, in danno di coloro che ritengono di voler comunque impugnare il licenziamento, in caso di conclamata illegittimità.
Come detto all’inizio, di tutele crescenti non c’è traccia. Si parlava invece di tutele crescenti per il contratto a tempo indeterminato che per i primi 3 anni prevedeva una indennità in caso di licenziamento illegittimo e a partire dal terzo anno invece doveva prevedere la reintegrazione con l’applicazione integrale dell’art. 18. Questo tipo di tutele crescenti è completamente scomparso.
Per concludere credo si possa dire che questo nuovo sistema non può produrre nuova occupazione. Nuova occupazione potrebbe derivare dall’altra norma della legge di Stabilità 2015 che rende conveniente assumere con contratto a tempo indeterminato a causa dello sgravio contributivo nei primi tre anni.
Ma allora era sufficiente introdurre questo sgravio, lasciando l’art.18 al suo posto. Se poi i nuovi contratti a tempo indeterminato saranno, come è probabile, in numero uguale ai contratti a termine che non verranno rinnovati o costituiti, per la maggior convenienza economica del primo tipo, il sistema si consoliderà a somma zero; e nessuna nuova occupazione risulterà nemmeno da questa operazione.

Repubblica 14.1.15
Camusso: “Renzi tratta i lavoratori come dei nemici”

ROMA Matteo Renzi a Strasburgo cita Dante, ma poi tratta i lavoratori come nemici. È l’accusa al premier del segretario Cgil, Susanna Camusso: «Che associazione c’è tra le parole “fatti non foste a viver come bruti...” e un intervento che è sistematicamente lesivo? Che cosa t’hanno fatto i lavoratori e le lavoratrici di questo Paese. Il cambiamento agitato dal governo è solo svalorizzazione e punibilità dei lavoratori».

Repubblica 14.1.15
Landini: “Bravo Sergio ora fa gli investimenti noi pronti a voltare pagina”
di Paolo Griseri


DETROIT.  Le assunzioni di Melfi «sono un’ottima notizia, la dimostrazione che con gli investimenti e i nuovi prodotti arriva l’occupazione». Dunque ora «proponiamo alla Fiat e agli altri sindacati di voltare pagina. Non ci discriminate e noi rispetteremo il voto dei lavoratori anche se dovessimo andare in minoranza». Il segretario della Fiom, Maurizio Landini, commenta così l’annuncio di mille nuove assunzioni a Melfi.
Landini, diciamolo: questa volta ha avuto ragione Marchionne...
«Bisogna essere molto realisti. Dopo tanti piani disattesi abbiamo avuto finalmente degli investimenti e uno stabilimento si sta avviando alla fine della cassa e all’assunzione di mille lavoratori».
E per voi non è una buona notizia?
«È un’ottima notizia. Diciamo bravissimo a Marchionne, siamo tutti contenti e chiediamo che prosegua su questa strada anche negli altri stabilimenti».
Quando venne annunciata la ristrutturazione di Melfi ci fu una levata di scudi. Non eravate voi che temevate che i nuovi modelli non avrebbero dato lavoro a tutti gli addetti della Punto?
«È vero ma quando i nuovi modelli destinati a sostituire la Punto sono diventati due, il rischio è diminuito. Oggi siamo soddisfatti dell’annuncio perché dimostra quel che abbiamo sempre detto: per far ripartire l’occupazione servono soprattutto gli investimenti».
Ma il Lingotto annuncia il ricorso al Job’s Act per i mille nuovi assunti. Non è quello che voi contestate?
«Marchionne è stato molto chiaro e onesto. Ha detto che lui le persone le avrebbe assunte lo stesso e infatti per il momento le assumerà con il contratto interinale. Gli imprenditori assumono quando hanno bisogno di produrre, non per dimostrare che le nuove regole funzionano».
Certo ma Marchionne ha anche detto che appena possibile utilizzerà a Melfi il contratto a tutele crescenti...
«Lo capisco. Assume le persone con meno diritti di prima ed è ovvio che dal punto di vista dell’impresa quel contratto sia vantaggioso. Noi continueremo a contestare quei contratti in tutte le sedi sindacali politiche e legali perché a nostro avviso contengono norme che riducono le garanzie per chi lavora».
Fim e Uilm dicono che le nuove assunzioni sono anche merito degli accordi aziendali che voi non avete firmato. Come rispondete?
«Se fosse così, che dire negli stabilimenti dove continua la cassa integrazione? Che la cassa è colpa di quegli accordi che loro hanno firmato? Non mi sembra un discorso serio».
Quale sarebbe invece un discorso serio?
«Sarebbe serio se tutti accettassimo di voltare pagina».
La Fiom che cosa è disposta a fare per cambiare pagina?
«Noi abbiamo proposto all’azienda e alle altre organizzazioni di tornare ad eleggere tutti insieme i rappresentanti dei lavoratori in fabbrica. La Fiom è disposta ad accettare le scelte dei delegati e dei lavoratori anche se sarà in minoranza».
Sta dicendo che se perderete un referendum su un accordo firmerete quell’accordo?
«Questo lo abbiamo sempre fatto. Naturalmente quando l’accordo non mette in discussione diritti indisponibili come il diritto di sciopero».
Che cosa chiedete invece all’azienda per voltare pagina?
«Chiediamo che cessi la discriminazione nei nostri confronti. Abbiamo gli stessi diritti degli altri».
È difficile per lei riconoscere che a Melfi Marchionne ha visto giusto?
«Noi abbiamo contestato le scelte aziendali dell’amministratore delegato quando ritenevamo che fossero sbagliate. Io non ho nulla di personale con Marchionne».
Sa che anche Marchionne, lunedì, ha detto di non avere nulla di personale con lei?
«Ci siamo incontrati due volte a Torino in occasione di riunioni pubbliche. Non vedo come potrebbero esserci problemi personali. Il problema è sempre stato solo quello delle strategie dell’azienda. Di quello si discute».

il Fatto 14.1.15
Un programma più di governo che di lotta: cosa vuole Tsipras
Le elezioni del 25 gennaio
Il leader di Syriza promette di rinegoziare il debito pubblico ma anche di rifondare la Grecia con più tasse per dare più diritti e lavoro
di Salvatore Cannavò


Lo strano oggetto che si aggira per l’Europa, una volta si sarebbe detto “spettro”, è in realtà poco conosciuto. Alexis Tsipras è il fantasma seduto ai vertici europei e rappresenta una speranza per una sinistra europea priva di prospettive. Finora, però, il suo programma economico e politico è stato filtrato dal dibattito sull’uscita o meno dall’euro. Oppure dalla tematica del debito che Syriza, la Coalizione di sinistra radicale guidata da Tsipras, chiederà la rinegoziazione.
Con la Commissione europea e il governo tedesco, i colloqui con i dirigenti della sinistra greca sono avviati da tempo. E in quei circoli Syriza ha posto il tema del comprehensive agreement. Così il responsabile economico del partito, Yanis Varoufakis, ha spiegato a Repubblica, “la necessità di un accordo complessivo che risolva la situazione senza drammi”. La linea è improntata al massimo realismo e la fatica più grande Syriza dovrà compierla per convincere la sostenibilità delle proprie richieste sul debito. La proposta è semplice e dirompente allo stesso tempo: rinegoziare il peso di un debito che è arrivato al 175 per cento del Pil e che non è più sostenibile. Il modello evocato è quello della Conferenza di Londra del 1953 con cui i paesi occidentali vennero incontro alla Germania e al suo mostruoso debito estero accumulato con le due guerre. Una parte di quel debito fu condonato e la Grecia, oggi, invoca una misura analoga. Su questo si addensano i maggiori dubbi ma va anche detto che, recentemente, il quotidiano della City, il Financial Times, occupandosi di Tsipras ha preferito appoggiare la battaglia greca “contro l’oligarchia”, cioè contro i potentati economici che controllano il Paese – ad esempio gli armatori navali e i magnati dei media – intravedendo la possibilità di aprire un processo di liberalizzazione.
QUELLO CHE PERÒ È DECISIVO nel programma con cui Tsipras si appresta a guidare il paese, sempre che le elezioni confermino la sua vittoria, è l’inversione di marcia che intende imprimere alla politica greca. Il programma prende il nome dalla città in cui è stato redatto, Salonicco, dove, a detta di Syriza, è stato stipulato il patto con la società greca. Il “contratto di Salonicco” si fonda su “quattro pilastri”: misure per la “crisi umanitaria” greca; per la “ripartenza dell’economia”; un pacchetto di misure per creare e dare dignità al lavoro; diritti di cittadinanza. Si tratta di un programma quantificato alla virgola per quanto riguarda il costo complessivo, 11,3 miliardi di euro, e le coperture indicate.
Il primo pilastro. Le misure per rispondere a quella che è definita una crisi umanitaria sono stimate in 1,88 miliardi. All’interno di questo pacchetto troviamo: la forniture di elettricità gratuita a 300 mila famiglie sotto la soglia di povertà; sovvenzioni alimentari alle stesse famiglie grazie a un intervento congiunto dello Stato e del volontariato per un costo di 756 milioni di euro; cure mediche e farmaceutiche accessibili a tutta la popolazione con un costo di 350 milioni. A seguire ci sono ancora molte misure sociali come la casa assicurata a circa 30 mila famiglie, il pagamento della tredicesima alle pensioni inferiori ai 700 euro mensili, la gratuità dei trasporti pubblici, il ribasso dell’Iva sul gasolio da riscaldamento anche con finalità ecologiche.
IL SECONDO PILASTRO è dedicato all’economia reale. Tassello decisivo per creare sviluppo e, come vedremo nella parte sulle entrate, garantire nuovi introiti fiscali. La prima misura è andare incontro ai contenziosi legali per piccole imprese, redditi modesti e famiglie che non sono in regola con il fisco. Una sorta di sostegno contro l’Equitalia greca. Al secondo punto di questo capitolo c’è la soppressione della nuova imposta sul patrimonio immobiliare (Enfia) che colpisce soprattutto i piccoli patrimoni, da sostituire con una imposta progressiva sui patrimoni immobiliari senza colpire la prima casa. Altre misure fiscali importanti riguardano l’esenzione dei redditi fino a 12 mila euro (costo stimato 1,5 miliardi) ma soprattutto l’ipotesi di cancellare i debiti privati per coloro che si trovano al di sotto della soglia di povertà e di fissare il tetto di un terzo del reddito come soglia per il rimborso di quegli stessi debiti. Il costo stimato è di circa 2 miliardi. Nel programma del secondo pilastro si ritrovano, ancora, l’istituzione di una banca di sviluppo nazionale, l’istituzione del salario minimo e l’aumento del minimo attuale da 586 a 751 euro. Una misura, si legge, che può comportare un aumento del Pil dello 0,5 per cento. L’insieme del secondo pilastro costa 6,5 miliardi di euro.
Al terzo posto c’è il lavoro: la sua creazione e la difesa dei suoi diritti. Si comincia con il ripristino della legislazione abrogata dalla Troika, la centralità dei contratti nazionali, il contrasto ai licenziamenti. Nel programma di Salonicco viene annunciato un grande progetto per la creazione di 300 mila posti di lavoro nel settore pubblico, privato e nell’economia solidale. Il costo di questa misura, per un anno, si aggira intorno ai 3 miliardi. Si passa, poi, ad ampliare il numero dei beneficiari dell’assegno di disoccupazione, oggi riservato solo al 10 per cento dei senza-lavoro.
Il quarto pilastro, la “rifondazione civica dello Stato e delle istituzioni”, punta ad allargare gli spazi di democrazia. Si tratta di riformare i governi locali, rafforzare le istituzioni della democrazia rappresentativa-parlamentare e nuove istituzioni di democrazia diretta. Contemplata anche la riduzione dell’immunità parlamentare e ministeriale. Prevista anche l’istituzione di leggi popolari e del referendum. Misure anche per ampliare le libertà e i diritti di informazione a partire dalla rifondazione della Ert, la tv pubblica soppressa dal governo attuale.
LA COPERTURA ECONOMICA di queste misure è garantita in questo modo: 3 miliardi di euro dalle maggiori entrate prevedibili per le misure di rilancio dell’economia; 3 miliardi dalla lotta all’evasione, la soppressione dei privilegi fiscali, il divieto di trasferire all’estero i capitali, il contrabbando di carburanti, etc; la riallocazione delle risorse dei programmi europei garantirà altri 3 miliardi e lo stesso verrà dalla ricollocazione delle risorse del Fondo di stabilità finanziaria. In totale si tratta di 12 miliardi di euro.
Resta il punto più importante per il resto d’Europa, la rinegoziazione del debito pubblico. Syriza chiede di cancellare una parte dell’ammontare nominale, di istituire una “clausola di crescita” per il rimborso, da collegare così all’andamento dell’economia reale senza schemi rigidi; chiede, poi, una moratoria sugli interessi, un “New Deal” europeo finanziato dalla Banca per gli investimenti, la possibilità per la Bce di comprare i titoli degli Stati membri. Infine, chiede la soppressione del debito “estorto” dalla Germania nazista durante l’occupazione del 1941-44: ammonta a 160 miliardi e non è mai stato cancellato

Corriere 14.1.15
Il 27 gennaio fu l’armata rossa a liberare il lager, in cui morirono anche molti prigionieri sovietici
Settant’anni della liberazione di Auschwitz, Putin non ci sarà
Il presidente russo: agenda piena e nessun invito ufficiale da Varsavia
Ma dietro la decisione, la tensione con la Polonia sulla crisi ucraina
di Alessia Rastelli

qui

il Fatto 14.1.15
Guerre sante
In trincea contro il jihad con le ragazze di Kobane
Attraverso le frontiere della città martire contesa tra l’Isis e i curdi
di Francesca Borri


Suruc, confine turco-siriano. Una voce, a un certo punto, ti dice: Run!, Corri! E tu corri più forte che puoi. Nel buio, nel fango, tra le sterpaglie: cadi, ti rialzi, un faro che ti si accende addosso mentre corri, corri, senti gli spari, l’abbaiare dei cani, e corri, corri, inciampi su un filo spinato, rumore di strappi, di stoffa, di cani, un rivolo di sangue sulla mano, ma corri, nient’altro, corri, corri più forte che puoi. Un aereo scardina l’aria e bombarda. Il lampo illumina un cartello. “Benvenuti a Kobane”.
A Kobane si entra solo così. In piena notte. Clandestini. Perché in realtà questa piccola città a ridosso del confine, 60 mila abitanti, assaltata dai jihadisti dello Stato Islamico lo scorso 16 settembre, è sotto assedio da quattro lati, non tre: la frontiera con la Turchia è chiusa. E la ragione è semplice. Qui siamo solo formalmente nella guerra di Siria. Questa è una guerra nella guerra: è la guerra dei curdi. Che dopo essere stati oppressi a lungo dagli Assad, padre e figlio – vietato anche solo usare nomi curdi – non si sono fidati dei ribelli. I curdi sono musulmani, ma laici. E non sono arabi. E quindi hanno giocato la loro partita: tenendosi fuori dalla guerra, e approfittando del collasso del paese per cominciare a governare in autonomia la loro regione, a nord. E la Turchia, ora, teme che i propri curdi seguano l’esempio dei curdi siriani. Lascia via libera ai ribelli, allora, più a est, nelle province di Hatay e Antep: ma qui ha sigillato la frontiera.
SONO PASSATI i profughi, quasi 130 mila nel solo mese di settembre, più di quelli che l’Unione europea ha accolto nel corso dell’intera guerra: ma non i combattenti, a parte un centinaio di curdi iracheni, e poco altro. Gli altri sgusciano dentro così. Braccati dalla polizia.
Di Kobane, tre mesi dopo, non restano che mozziconi. L’auto che ti recupera procede guardinga, lenta, a fari spenti, il terreno sconnesso appena rischiarato dal cielo stellato. Blindati, tir, muri crollati, spunzoni di ferro ti sfilano accanto sinistri. Non rimane più niente. Da una parete strappata via intravedi un tavolo, un lampadario. All’improvviso, alla tua destra, uno scheletro d’auto si rianima: un faro lampeggia, veloce. Un battito. Un altro, più avanti, lampeggia in risposta. È un codice, segnala il tuo passaggio. Ti sembra deserta, Kobane. E invece sei in una ragnatela di cecchini.
Ma così come l’assedio è su quattro lati, non tre, i curdi ti correggono subito: la resistenza, qui, è iniziata da due anni, non da tre mesi. “E cioè da quando sono comparsi i primi gruppi islamisti, e la rivoluzione in Siria è diventata un’altra storia”, dice Nalin Afrin. Il cui nome, o meglio, pseudonimo, è il nome di un fiore: perché Nalin Afrin è una donna. Ed è il comandante generale. “Perché l’unica cosa che capisci, quando domandi ai ribelli in cosa consiste questa sharia che vogliono instaurare, è che le donne devono coprirsi. E stare a casa”. E quindi le donne, a Kobane, sono tutte al fronte. L’unica differenza, tra uomini e donne, è sotto gli anfibi. Le ragazze hanno le calze colorate. E stanno vincendo: smontando il mito dell’Isis. I curdi controllano l’80 percento della città, ormai, anche se gli scontri a tratti sono intensi.
Dalila ha 20 anni. Sta sul fronte ovest, in un paesaggio da prima guerra mondiale – queste trincee punteggiate di tende, le barriere di terra rinforzate con i sacchi di sabbia e cemento, e ogni pochi metri, come rifugio estremo, delle buche blindate da lamiere: che per la verità somigliano a loculi in attesa del cadavere. Ma Dalila, Zenarin, Gisak sono qui tranquille a fare colazione come fossero in campeggio, un ragazzo affetta cetrioli e formaggio – alle sue spalle, un cecchino. Ogni tanto si sente un’esplosione, alla tua destra si impenna del fumo. Un mortaio. Ma nessuno si scompone. Si meravigliano, piuttosto, che tu non abbia voglia di unirti a loro. “Non stiamo combattendo solo per la nostra libertà”, dice Dalila, “ma per dire al mondo, e a tutto il mondo, non solo quello islamico, che ognuno di noi è parte a pieno titolo della società”. Zenarin, 22 anni, annuisce. “Le musulmane dipendono dall'uomo, ma voi occidentali dipendete dallo sguardo maschile. Vi guardate con uno sguardo che non è il vostro”.
MOLTE SONO cresciute insieme, amiche da sempre, prima di calarsi in trincea per un nuovo turno si abbracciano come a una laurea, un compleanno, un torneo di pallavolo. Tutta Kobane è al fronte. Anche chi è ormai fuoriuso, come Bilal, 19 anni. Ha un braccio fratturato, e un pugnale appeso al collo: l’unica arma che può usare con una mano sola. O come Xelil e Viyane, 45 anni lui, 19 anni lei. Padre e figlia. “Sono orgoglioso di avere trasmesso a Viyane l’importanza di non pensare solo a sé. Di capire che non siamo isole. Perché quello che accade intorno a te, agli altri, influenza la tua vita. All'interno di una Siria islamista, il Kurdistan non sarà mai libero”, dice Xelil. Ma doveste finire prigionieri dell’Isis, chiedo, cosa vi siete promessi? “L’ultimo proiettile, in guerra, è per te stesso”, dice Viyane. “Ci siamo promessi di morire liberi”. I giornalisti stranieri sono tutti curiosi di Arin, la prima che si è lanciata in un attacco suicida, trascinando con sé 27 jihadisti. O Ceylan, che è rimasta senza più munizioni, e appunto, si è lasciata esplodere piuttosto che consegnarsi al nemico. O ancora, Rehana, una delle migliori cecchine, che si dice sia stata decapitata. Ma tra le mille leggende, l’unica certezza è che i curdi non hanno eroi. Domandi quale sia la loro figura di riferimento, e ti raccontano tutti del compagno ucciso spalla a spalla. Che con l’ultimo respiro, ha chiesto loro di continuare a combattere per due.

La Stampa 14.1.15
Quei piccoli assassini allevati in un mondo senza speranze
Dalla Siria alla Nigeria cresce una generazione perduta
di Domenico Quirico


Il bambino è tranquillo, ma di una tranquillità morta. Ascolta la sentenza letta dal giovane miliziano quieto come un cane che attende l’ordine del padrone per mordere. La pistola è un giocattolo, ancora, nella mano abbassata. Quanta vita dimenticata questo giovane assassino in nome del califfo porta già in sé? È come una spugna imbevuta di cose vissute e sofferte, di una prodigalità di dolore e sofferenza, lo sentiamo. Ma quali?
Il ragazzo in divisa, un ceceno, ha una faccia cupa e sabbiosa, una faccia aggrottata e crudele mentre pronuncia a memoria la condanna a morte. Certe fisionomie islamiste hanno crudezze plastiche meravigliose, un loro candore efferato, la crudeltà buia e annoiata della belva. Il bambino avanza e spara. Gli uomini cadono, inspiegabilmente senza sangue.
Crudele e guasto
Improvvisamente nel mio mediocre pensare davanti a quell’orrore è lampeggiata una coscienza, quella della mia, nostra debolezza nei confronti di quel bambino. Crudele e guasto, mi figuravo che è e diventerà: ma quello che mi sconcertava non era tanta la sua immagine di fredda ferocia nell’uccidere, quanto la mansuetudine con cui lo guardavo nel video. Se questo bambino dovesse agire domani come un energumeno fanatizzato che cosa potrà mai vedere in me se non il nemico, il colpevole da eliminare?
La pietà che ho per lui è la massima e più sanguinosa delle offese: che cosa potrò opporre io al suo odio ? Nulla. Egli deriderà la mia mitezza, la debolezza dell’occidentale corrotto e senza dio: come gli hanno insegnato. Quello che c’è in essa di civile di umano, gli sfuggirà e io travolto da lui, sentirò la sua sghignazzante furia di «puro» perdersi lontano, verso altro sangue.
Il totalitarismo islamico ci abitua, giorno dopo giorno, a cose tutte curiosamente deformi, piene come sono di una loro crudeltà fredda, necessaria. Bimbi che uccidono, città bruciate come nell’apocalisse, bambine imbottite di esplosivo. Ma è una necessità oscura di fronte alla quale la ragione abdica, pur intuendola, presa dal senso diaccio di questa notte dell’uomo.
Omicidio sistematizzato
Nel mondo dell’omicidio sistematizzato, qual è il malefico ordine islamico, la paura non ha più valore: che futuro può mai figurarsi questo bambino, e le piccole kamikaze dei Boko Haram, loro che vivono da quando sono nati in tanta tormenta del mondo, in un tempo senza via di uscita? Un futuro che non eccita né curiosità né speranze. Questo congedo dalla speranze è la nota veramente nuova di questi giovani assassini allevati nel jihadismo. Era un tempo, questo, il lato più evidente della vecchiaia. Guardando il giovane assassino che dà il colpo di grazia, noncurante, alle spie russe penso alla felicità dei bambini che non hanno memorie, felicemente desertici: per loro tutto dovrebbe essere, è domani. A un domani nell’infanzia totalitaria non possono pensare tutti presi dalla difficile sepoltura di una parte di se stessi.
Forse il video dell’esecuzione è solo una montatura propagandistica, ci sono particolare che non quadrano. Ma è l’idea di utilizzare il bambino che è tremenda. Perché dimostra che l’abiezione diventa desiderio e destino. C’è nella scena tutto il mondo dell’islamismo radicale, guardatelo e imparate: i suoi codici, le sue parole d’ordine, i territori segreti, l’incubo dei predicatori che ispirano gli animi di adulti e bambini alla follia, la sua manovalanza e i suoi generali.
Vediamo un bambino che uccide e poi, nella sequenza successiva, sorride felice: chi sono questi nuovi indemoniati che ritengono che sia tutto permesso, anche contaminare l’infanzia, non più perché dio non esiste, ma anzi proprio perché dio esiste; e questa esistenza dà loro il diritto di essere fanatici.
L’omicidio perfetto
I bambini assassini con il mitra i mano, schiacciati in uniformi, li abbiamo già visti in bestiari antichi che appartengono anche a noi europei e cristiani: i soldati bambini del lugubre walhalla nazista, i neri angeli-killer di Pol Pot, i lanzichenecchi storditi dalle droghe delle guerre tribali senza pietà dell’Africa. Era il bambino soldato, frutto della disfatta o di una cinica produttività omicida. Ora è qualcosa di diverso. L’esecuzione non è il furore della battaglia; è l’omicidio perfetto.
Mi sono portato dietro dai territori jihadisti come il segno di maggiore orrore non le facce degli assassini adulti, sprofondati nella loro aberrazione, facce da bruti, l’odio sul viso, testa bassa e risate diaboliche o i mezzi sorrisi dei carnefici che attendono, impazienti, la loro ora. Nei miei incubi ci sono i visi delicati, innocenti dei bambini siriani che guardavano sui telefonini, avidamente, sequenze di bestiali linciaggi. E di quelli che, accanto ai fratelli o ai padri, assistevano alle umiliazioni o alle violenze che venivano inflitte all’occidentale, al cristiano. E si vedeva che speravano di esser chiamati a loro volta a parteciparvi, ad aggiungere uno sputo, un calcio, una irrisione. Nelle serre dell’islamismo che si è fatto Stato sta crescendo una giungla maligna.

La Stampa 14.1.15
Siviglia, giù le mani dalla Semana Santa. L’ipotesi di abolirla mette in crisi Podemos
Non un semplice rito religioso. Da tutto il mondo ogni anno arrivano milioni di turisti per assistere a un lungo spettacolo spirituale e folkloristico
di Francesco Olivo

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La Stampa 14.1.15
Iran, la mano del boia non si ferma: ventuno impiccagioni in una settimana
Il 2015 inizia con un record inquietante, e le ong denunciano: con la presidenza di Rohani le esecuzioni non sono diminuite, in compenso si è ridotta la vigilanza internazionale
di Carlo Reschia

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La Stampa TuttoScienze 14.1.15
“Siamo i primi cacciatori spaziali e ora la Nasa e l’Esa ci vogliono”
di Luigi Grassia


È una storia spaziale bellissima, forse non ancora degna di un film come «Interstellar», ma diamo tempo al tempo. Comincia con un bambino che vuole fare l’astronauta. Prosegue con un ragazzo che prova ad avvicinarsi al suo sogno, candidandosi come pilota militare. Ma viene bocciato all’Accademia e perciò si laurea in ingegneria spaziale, sperando che così, bazzicando l’ambiente, l’occasione di fare un giretto lassù possa arrivare, chissà come. Finisce che il ragazzo va a lavorare nella Silicon Valley e al ritorno in Italia crea (con alcuni soci) un’azienda che ripulisce dai detriti le orbite dei satelliti e collabora con la Nasa, con l’Esa e con l’agenzia spaziale russa. Questo significa anche fare tanti soldi, ma l’obiettivo vero e ultimo è sempre quello concepito da bambino.
«Sulla piattaforma»
«Spero di andare in orbita» dice Luca Rossettini, ora trentottenne e contitolare dell’azienda D-Orbit. «Abbiamo già lanciato satelliti con un nostro dispositivo che garantisce il rientro controllato verso la Terra, quando il satellite stesso muore e va alla deriva. E in un futuro prossimo manderemo nello spazio anche delle navette con 30 o 40 dispositivi da collocare sui relitti orbitali per eliminarli e stiamo progettando una piattaforma spaziale per fare da officina. E allora io, che sono il capo dell’impresa, su quella piattaforma spaziale andrò di sicuro!».
E ora approcciamo la questione non da un punto di vista personale, ma da quello generale (universale, addirittura). Lo spazio vicino alla Terra si sta affollando di detriti. Ormai i satelliti vengono lanciati al ritmo di un centinaio all’anno e a fine vita non sempre vengono fatti rientrare per lasciare libere le orbite. Molti appartengono a imprese private e hanno scopi commerciali: così vengono sfruttati fino all’ultimo secondo della loro vita operativa. Se poi non resta neanche più una goccia di carburante per l’ultima manovra, quella del rientro controllato verso la Terra, all’azienda privata può interessare poco.
Non è sempre una questione di menefreghismo o irresponsabilità. In molti casi i satelliti, semplicemente, vanno in tilt, smettono di mandare segnali e diventano incontrollabili. Rossettini cita «il caso di Envisat, un satellite mandato nello spazio dall’Esa per monitorare l’ambiente, grande come un autobus e morto nel 2012. Da allora è un relitto».
L’Universo è così grande che qualche migliaio di satelliti alla deriva possono sembrare insignificanti, ma in realtà le orbite «buone» nei pressi della Terra sono limitate. E i relitti, o i pezzi di metallo che rilasciano, possono colpire le sonde nuove. Anche piccole schegge fanno danni, schizzando come proiettili. Per tornare all’esempio di Envisat, se qualcuno non provvede a riportarlo giù, il satellite lancerà tutt’attorno schegge per decenni e alla fine precipiterà sulla Terra senza che nessuno gli indichi la rotta, come un meteorite.
Ecco: D-Orbit interviene per evitare questo genere di problema. L’azienda produce piccoli motori ausiliari da installare sui satelliti prima del lancio. I motori sono indipendenti dai sistemi del satellite e quindi funzionano anche se la sonda va in avaria. È stato fatto un primo test con un lancio dalla base russa di Yasny. Quel satellite è ancora funzionante in orbita e, quindi, l’apparato della D-Orbit non ha avuto ancora occasione (per adesso) di funzionare. Ma presto si farà un altro esperimento, più completo, con un satellite la cui vita operativa è prevista in soli due mesi: un ciclo di vita così breve permetterà di verificare subito l’efficacia della procedura di rientro della D-Orbit.
Aggancio in orbita
E allora, per l’azienda di Rossettini, arriverà il momento di passare all’incasso, perché le agenzie spaziali internazionali hanno mostrato interesse per i servizi della sua società e perché le regole diventeranno più stringenti, rendendo obbligatorio il rientro controllato.
Quella che Luca Rossettini aspetta con impazienza è comunque la fase successiva, cioè la ricerca attiva e l’aggancio in orbita dei satelliti alla deriva: a quel punto lui andrà nello spazio, proprio come voleva da bambino.

La Stampa TuttoScienze 14.1.15
Mi specchio, dunque sono: parola di macaco reso
Un test cambia il concetto di coscienza. Non è soltanto una prerogativa umana
Un esperimento condotto all’Accademia Cinese delle Scienze
di Nicla Panciera


Riconoscersi nell’immagine riflessa di uno specchio è qualcosa che noi umani, insieme con poche altre specie come le scimmie antropomorfe, facciamo spontaneamente. E anche se il nostro uso quotidiano è pragmatico, lo specchio è simbolicamente evocativo, dal laghetto del mito di Narciso agli specchi incantati della letteratura.
Risale al 1970 l’idea che l’autoriconoscimento sia indice di autocoscienza e, per quanto ancora non ci sia unanimità sul valore del test, gli scienziati continuano a servirsene per indagare le prestazioni di molte specie animali.
Assume, dunque, particolare significato la notizia che anche i macachi reso, finora risultati incapaci di superare il test, sarebbero in grado di farlo, se addestrati. Lo studio, pubblicato su «Current Biology», è stato condotto all’Accademia Cinese delle Scienze. Colpendo la fronte di alcune scimmie sedute davanti allo specchio con un raggio laser lievemente irritante, i ricercatori hanno visto che gli animali imparavano a toccare la luce colorata osservata sul proprio volto riflesso. Non solo. Alcuni di loro hanno spontaneamente usato lo specchio per ispezionare le zone del corpo non visibili altrimenti, come i genitali, esattamente come fanno i bambini e le antropomorfe.
«I reso reagiscono allo specchio con aggressività, perché interpretano uno sguardo fisso come una minaccia. Qui, però, non c’è traccia di queste reazioni e, anzi, mostrano una certa flessibilità e curiosità, entrambi indici di intelligenza», commenta Pier Francesco Ferrari, etologo dell’Università di Parma.
L’importanza dello studio starebbe nell’aver dimostrato il possesso dell’equipaggiamento neurale necessario al superamento del test. «Ciò non dovrebbe stupire. Eppure, a differenza di quanto accade con altri aspetti, genetici o anatomici, la continuità evolutiva delle capacità cognitive ci turba. La coscienza esiste in gradi diversi anche negli altri animali- spiega Ferrari -. Questi eccellono in molte capacità, anche se finora ci siamo accaniti nell’identificarne alcune da usare come Rubicone dell’umana superiorità: si pensi all’empatia o al linguaggio».
In generale - aggiunge - «dovremmo riadattare i paradigmi di ricerca al contesto ecologico e sociale delle specie», adottando una prospettiva diversa. «L’emergere di facoltà dal forte valore adattativo, come dev’essere stata per i nostri antenati la capacità di riflettere su di sé e pianificare il futuro, avviene in risposta a certe pressioni evolutive per cooptazione di aree cerebrali esistenti». Scoprire quali siano quelle dell’autoriconoscimento potrebbe aprire una nuova strada: per esempio investigazioni neurobiologiche per il trattamento di disturbi neurologici, come autismo, schizofrenia e Alzheimer.

La Stampa TuttoScienze 14.1.15
Com’è promettente l’ignoto
La lunga lista di ciò che non si sa
Al Festival delle Scienze di Roma le sfide della ricerca più avanzata
di Caleb Scharf


Quando immaginiamo il frammento di tempo incredibilmente breve in cui gli uomini sono esistiti, in confronto ai miliardi di anni che ci hanno preceduto, ci sentiamo piacevolmente piccoli. E, se consideriamo i miliardi di trilioni di altri mondi che devono esistere nell’Universo, afferriamo per un istante quanto minuscola sia la nostra esistenza. Tuttavia, nulla è paragonabile alla prospettiva - scioccante o eccitante - di pensare a tutto ciò che non sappiamo.
Una pessima idea?
Non sappiamo - spiegherò al Festival delle Scienze di Roma in programma dal 22 al 25 gennaio - perché esista l’Universo: è ingiusto e ci sarebbero fondati motivi per ritenere che sia stato una pessima idea. Potrebbe darsi che scaturisca da un innato, instabile «nulla», incline alla spontanea generazione di materia ed energia. L’Universo, inoltre, potrebbe non essere l’unico, ma parte di un multiverso di oltre 10, elevato alla 10ma, elevato alla 16ma realtà. Aspettiamo ancora la prossima generazione di misurazioni per aiutarci nelle ricerche. E siamo in attesa di teorie che forniscano ipotesi più testabili e non solo eleganza matematica.
Ignoriamo anche di cosa sia fatta gran parte dell’Universo: la materia comune, quella di cui siamo fatti voi e io, i pianeti, le stelle e i panini al formaggio, ammonta a circa il 4,9% della materia e dell’energia totali. La maggior parte della materia è «oscura». Sappiamo che c’è, perché nelle scale cosmiche gli oggetti vi si muovono intorno più velocemente di quanto dovrebbero. Ma la materia oscura non si trasforma mai in stelle o in pianeti e resta in forma di particelle diffuse, invisibili, incredibilmente antisociali.
E, forse, ancora peggiore è l’energia oscura. Qualcosa sta provocando l’accelerazione dell’Universo. Prima non era così. Fino a 5-6 miliardi di anni fa l’espansione seguita al Big Bang era in diminuzione, ma poi qualcosa ha cominciato a contrastarla. Cos’è l’energia oscura? Non lo sappiamo. Abbiamo però molte idee, il che è fantastico: è sempre ottimo avere qualche idea su quel 68,3% di Universo.
Non sappiamo nemmeno se esista la vita al di là della nostra: eccoci qui, esseri senzienti su un pianeta rigoglioso di una vita che per gran parte degli ultimi 4 miliardi di anni ha plasmato e riplasmato l’ambiente. E ora siamo consapevoli che esistono decine di miliardi di altri pianeti, là fuori, molti dei quali potrebbero avere le stesse probabilità di ospitare la vita. Però ancora ignoriamo se siamo soli o meno. Nessun indizio. È alquanto problematico. Non fraintendetemi: è un problema in senso positivo, un problema intrigante, uno dei migliori. Tuttavia continuiamo a brancolare nel nostro splendido isolamento.
Intanto non abbiamo nemmeno capito il mondo quantistico: perché, se è vero che le sue matematiche possono compiere meraviglie, dal descrivere gli atomi fino ai quantum bit, ciò non significa che abbiamo chiuso il caso. Gli aspetti fondamentali della natura quantistica dell’Universo ci procurano grattacapi e controversie.
La nostra stessa biologia, d’altra parte, ci sfugge. Dopotutto, se capissimo ogni dettaglio di come funzioniamo, saremmo capaci di cancellare le malattie e l’invecchiamento. Saremmo anche in grado di modificare i circa 3 miliardi di acidi nucleici nel nostro Dna e realizzare un minimo di ingegneria molecolare. Ma non siamo vicini a niente di tutto questo. Un buon esempio di questa pietosa mancanza di conoscenza? Prendete il microbioma, l’insieme del patrimonio genetico e delle interazioni ambientali di tutti i microrganismi di un ambiente e che può essere un organismo o l’uomo stesso. I nostri 10 trilioni di cellule vengono sfruttati e nutriti da 100 trilioni di cellule microbiche, senza le quali non potremmo vivere. Non siamo che navi da crociera per il più lussuoso dei Club-Med microbiologici e tuttavia non sappiamo che cosa significhi tutto ciò.
Ignoriamo, poi, come la Terra funzioni: nessuno è mai andato più in profondità di alcuni chilometri nella crosta terrestre. Tutto il resto è estrapolazione e interpolazione. E c’è talmente tanta confusione, dopo 4 miliardi e mezzo di anni di geofisica, che alcune delle informazioni più attendibili sulle origini del Pianeta provengono dai meteoriti e dai crateri di altri mondi, il massimo del subappalto. Non siamo neanche sicuri di capire da dove sia arrivata la Luna. Forse è stato un impatto gigantesco, forse no. Per una specie presumibilmente intelligente su un piccolo pianeta roccioso questo è un fallimento di proporzioni quasi epiche.
Le menti aliene
Non possiamo dimostrare o risolvere gran parte delle nostre congetture e dei nostri problemi matematici: affinché la matematica non pensi di fuggire da questo festival dell’ignoranza, ricordiamo che c’è una lunga lista di ipotesi e di problemi insoluti e indimostrati. Non sappiamo, poi, come costruire l’intelligenza artificiale: è un problema che riguarda sia il nostro desiderio di comprendere noi stessi sia le nostre speranze di capire che cosa potrebbe esserci «là fuori», nella vastità del cosmo. L’Universo, forse, è pieno di menti come le nostre o di menti assolutamente aliene? Benché abbiamo fatto notevoli progressi tecnologici, non è affatto chiaro se i programmi di scrittura o i suggerimenti automatici per lo shopping raccolgano informazioni con meccanismi in qualche modo simili a quelli con cui le nostre menti generano le idee.
La conclusione? C’è un’enormità di cose che non sappiamo. Ma la chiave è non abbattersi, perché questa ignoranza è bellissima. È ciò che, in ultima analisi, muove la scienza e che rende l’Universo così maestoso. Che meraviglia!

La Stampa TuttoScienze 14.1.15
Chi era il vero Turing oltre la fiction del cinema?
Intanto Bletchley Park diventa un’attrazione turistica
di Gabriele Beccaria


Finzione e verità si confondono e l’effetto della mostra «The Imitation Game» è un seducente gioco di specchi: a Bletchley Park la realtà è sempre stata un confine sfuocato, manipolato da migliaia di personaggi bizzarri, come militari, matematici, linguisti, criptoanalisti. E adesso uno dei luoghi più segreti della Seconda Guerra Mondiale è diventato un museo e, soprattutto, una meta di massa. Di tanti turisti, improvvisamente colti da attacchi di frenesia.
Sedotti dal film omonimo, affollano «The Imitation Game», l’esposizione che fino al prossimo novembre racconta la storia - tragica e grandiosa - di Alan Turing attraverso il kolossal che l’ha consacrato come una delle icone del XX secolo. Aggirandosi tra i costumi di scena del suo interprete, Benedict Cumberbatch, e le riproduzioni delle macchine «Enigma» e «The Bombe», si scivola rapidamente in una dimensione parallela, in cui è facile vivere i meccanismi dell’identificazione morbosa e dello spettacolo globale.
Accanto, però, ci sono altri luoghi, come la «Hut 6» e la «Hut 8», da poco restaurati, decisamente più sinistri: sono i laboratori dove il passato (quello autentico) non è stato graffiato dallo show e dove aleggia la vera eredità di Turing. Che è più complessa e contraddittoria di quanto il film diretto da Morten Tyldum riesca a suggerire.
Turing, in effetti, rimane un personaggio misterioso. Lo sostiene chi lo conosce meglio di tutti, il suo biografo, il matematico di Oxford Andrew Hodges, che è l’autore di «Alan Turing. Storia di un enigma», edito da Bollati Boringhieri. Proiettato periodicamente sul fronte della notorietà, nel 1952 per l’accusa di omosessualità (che in Gran Bretagna restò illegale fino al 1967) e la condanna alla castrazione chimica, nel 1954 per il suicidio con una mela avvelenata, nel 2009 per le scuse ufficiali a nome della nazione da parte dell’allora premier britannico Gordon Brown e nel 2012 per il centenario della nascita, solo di recente la percezione collettiva su di lui ha iniziato a trasformarsi. «Da zero fino a quella dell’eroe», sostiene lo stesso Hodges, ricostruendo i vagabondaggi di una mente imprevedibile.
Matematico straordinario, il sapere ortodosso considera Turing il padre dei fondamenti teorici che hanno scatenato la rivoluzione dei computer e allo stesso tempo il genio capace di infrangere il codice nazista generato dallo strumento «Enigma», dando un contributo fondamentale alla vittoria degli Alleati nel 1945. Fu lo stesso Winston Churchill a esaltarne i successi, definendoli «il singolo maggiore contributo alla causa della Gran Bretagna». E tuttavia Turing pubblicò pochissimo rispetto all’oceano delle proprie intuizioni e delle proprie scoperte. Nonostante i citatissimi «papers» sulla computabilità del 1936 e sull’intelligenza artificiale del 1950, rinunciò a scrivere l’opera definitiva sulla scienza del computing per lanciarsi, dopo la guerra, in un’altra avventura, altrettanto incompiuta. Quella della biologia matematica che sarebbe sfociata nell’abbozzo di una teoria della morfogenesi.
Visionario, fin troppo, Turing lasciò un’eredità talmente profetica da non essere stata capita. Sarà riscoperta più tardi. Non a caso, quando negli Anni 50 il matematico Max Newman lo commemora a nome della Royal Society, lo descrive come un etereo logico matematico. E lascia a margine il contributo decisivo, quello noto con la formula di «Macchina di Turing», l’apparecchiatura ideale capace di manipolare i dati contenuti su un nastro potenzialmente infinito, secondo un insieme prefissato di regole. Così sconvolgente nelle applicazioni da essere stata a lungo alterata con l’aggiunta di una dieresi sulla «u» di Turing: un’allure teutonica per una teoria destinata a scatenare l’avventura di un’élite di cervelloni.
Saranno loro a edificare la «Cattedrale di Turing», come l’ha definita lo storico George Dyson: l’era digitale nasce ufficialmente negli Usa, a Princeton, nel 1951, quando diventa operativo il calcolatore «Maniac». John Von Neumann è uno degli architetti, tra i pochi capaci di mettere mano alla cattedrale che Turing svuotò di dèi e riempì di numeri, ma che non riuscì mai a godersi.

La Stampa 14.1.15
Giorgio Agosti, l’Italia che avrebbe potuto essere
Il coraggio dei giorni grigi: una biografia del magistrato e intellettuale azionista che fu questore di Torino dopo la Liberazione
di Mirella Serri


«Ma cosa cavolo fa un questore?». Il magistrato Giorgio Agosti scherza, ben consapevole dell’avventura che lo aspetta. Il 28 aprile 1945, quando ancora non sono state deposte le armi, il comandante partigiano nonché giudice del Tribunale di Torino è stato insignito dell’impegnativo ruolo di questore del capoluogo sabaudo. Alto, magro, «tanto esile e nervoso quanto i suoi compagni sono robusti e calmi» - così lo ricorda un amico - nel 1942 è stato uno dei fondatori del Partito d’Azione.
Primula rossa
Dall’8 settembre 1943 il giovane torinese ha abbandonato le aule di tribunale ed è diventato una primula rossa. Braccato dai nazifascisti, sottrae bombe e mitra alla caserma di Torre Pellice, sequestra camion ma si occupa pure di distribuire maglie di lana e volantini di propaganda. Anni dopo ricorderà, con lo humour che lo contraddistingue, di essere stato veramente spericolato quando ha attraversato la sua città in bicicletta con un materasso in bilico sul manubrio. Da un giorno all’altro eccolo passare da latitante a capo delle forze di polizia negli anni più difficili della storia dell’Italia democratica.
Adesso arriva uno splendido ritratto di questo eroe per nulla per caso: Il coraggio dei giorni grigi. Vita di Giorgio Agosti (in libreria domani per Laterza, pp. 264, € 24) di Paolo Borgna, magistrato torinese e biografo di Alessandro Galante Garrone. Questa storia della complicata esistenza di Agosti, molto ben scritta e dettagliata, non si ferma agli anni della Resistenza ma pone anche l’accento sulle sue notevoli capacità di innovare le strutture e gli enti di cui fu responsabile (la Società idroelettrica piemontese e l’Enel di cui fu vicedirettore del compartimento di Torino).
Il disagio di Agosti nei confronti dell’Italia dei gagliardetti prende avvio al prestigioso liceo classico Massimo d’Azeglio: sono gli anni in cui è frequentato, tra gli altri, da Cesare Pavese e Vittorio Foa. Sono nella sua stessa classe Norberto Bobbio e Leone Ginzburg. All’università diventa intimo di Carlo e Alessandro Galante Garrone con cui condivide quello che Borgna definisce «antifascismo di stile», ovvero la scelta di essere dei «bastian contrari»: mentre gli italiani per ordine del despota affollano le spiagge, Agosti e compagni scalano le vette della Val d’Aosta; mentre il regime getta fango sulle democrazie d’Oltralpe, loro studiano le lingue e deridono le parate del Duce-Testa di morto (come Gadda chiamerà Mussolini). Dopo l’armistizio, l’uomo di legge, con Ernesto Rossi, Ginzburg, Foa, Franco Venturi, appena rientrati dal carcere o dal confino, trasforma la casa torinese di Ada Gobetti in via Fabro in una fucina antifascista.
Straordinarie capacità
Destinato dal Comitato di liberazione nazionale alla scomoda poltrona di questore, si troverà a fronteggiare una «situazione terribile di illegalità, di arbitrio, di insofferenza di freni». Ma la controllerà con le sue straordinarie capacità: farà lavorare uno a fianco dell’altro nuove reclute e vecchi funzionari, combattenti che vengono dalla macchia e colleghi che hanno levato con entusiasmo il braccio nel saluto romano e che hanno definito «banditi» i partigiani.
Successi e sconfitte
Numerosi sono i suoi successi, ma arrivano anche le sconfitte. Dal 1947 si accentuano le lotte sociali e lo scontro politico diventa sempre più incandescente con la nascita del neofascismo. Nel febbraio del 1948 il questore decide per l’addio, mentre i suoi uomini vorrebbero trattenerlo. Come medicina per lenire le delusioni vi sarà l’intensa attività culturale dedicata a tenere viva la memoria di Piero Gobetti e il ricordo della lotta di liberazione (dopo la sua scomparsa gli verrà intitolato l’Istituto storico della Resistenza in Piemonte), a cui si accompagnano le numerose battaglie della sua rivista Resistenza.
La passione politica è al centro dei suoi interessi anche quando le sue attese vengono ostacolate proprio da chi occupa scranni in Parlamento. Agosti, che è stato un attivo sostenitore della nazionalizzazione dell’energia elettrica, nel ’63 riflette scoraggiato: «Adesso sono un cittadino di seconda classe come nel ’29, quando mi prendevo le prime legnate dai fascisti». Ha saputo che la Dc non lo vuole nel consiglio di amministrazione dell’ente: è considerato un «rosso».
«Sono amareggiato e non tanto per il mio destino personale», riflette, «quanto per le conclusioni che ne traggo sulla democrazia italiana». Ribadisce comunque la sua autonomia: «Ho bisogno di essere io, di respirare coi miei polmoni, di non chiudermi in nessun convento, di non fare i conti con nessuna restrizione mentale e, se questo diminuirà la mia forza politica, non m’importa». La vita di Agosti ben rappresenta così l’intera vicenda del dopoguerra e la sua ricchezza di energie e di competenze. «È il paradigma», rileva Borgna, «di tutto quello che le istituzioni repubblicane e la nostra pubblica amministrazione avrebbero potuto essere». Un paradigma, avverte il saggista, ancora oggi da tenere a mente.

Corriere 14.1.15
Giudice, partigiano, questore. L’avventura di Giorgio Agosti
di Corrado Stajano


«A sciare in collina con Carlo, Giorgio e Aldo». Tre ragazzi, anzi quattro. Non hanno ancora compiuto vent’anni, Torino è coperta di neve, sono i giorni di Natale del 1929. È un appunto che uno di loro, Alessandro, ha lasciato scritto su un’agendina.
Gli amici sono i fratelli Galante Garrone, Aldo Garosci e Giorgio Agosti. Ne dovevano passare tante nei tormenti del tragico Novecento i quattro che rimarranno insieme per tutta la vita. Esce domani un saggio, Il coraggio dei giorni grigi , che Paolo Borgna ha scritto sulla vita di Giorgio Agosti, uno di quei ragazzi, antifascisti da sempre, che nell’anno della Conciliazione tra lo Stato fascista e la Santa Sede andarono a sciare in collina: lo pubblica l’editore Laterza (pagine 248, e 24).
Magistrato, tra i fondatori del Partito d’Azione, capo partigiano, uomo della Repubblica alla quale dedicò la vita di opere e di studi senza mai chiedere nulla e dalla quale non ebbe nulla, Giorgio Agosti è l’esempio e il modello di quelle non poche energie positive che anche dopo la Seconda guerra mondiale sarebbero state importanti per rendere il Paese veramente libero e giusto, sprecate invece da una società politica incapace di creare una classe dirigente onesta e culturalmente avanzata.
Paolo Borgna, anch’egli magistrato, storico, autore, tra l’altro, di una vita di Alessandro Galante Garrone, Un Paese migliore , racconta nel suo saggio attento e partecipe non soltanto la vicenda umana e politica del suo protagonista, ma riesce a far rivivere la Torino del passato prossimo e remoto, con la sua rete di amicizie e di idee solidali. Un mondo perduto. Rimbalzano tra le pagine i nomi di Leo Valiani, Vittorio Foa, Franco Venturi, Livio Bianco, Carlo Dionisotti, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e di Alessandro Galante Garrone, il grande amico. E anche i nomi degli amici non torinesi, Salvemini, Calamandrei, Ernesto Rossi, Ugo La Malfa, Ferruccio Parri.
Nato nel 1910 in una famiglia agiata della borghesia torinese, il padre medico, la madre studiosa di lingua e di letteratura polacca, Giorgio Agosti — cugino di Aldo Garosci — frequenta il famoso liceo D’Azeglio, culla, allora, di tante intelligenze e poi l’università di via Po dove insegnavano maestri come Luigi Einaudi, Francesco Ruffini, Gioele Solari.
Già nel 1932 Garosci e Franco Venturi sono esuli a Parigi e a Torino è Vittorio Foa il referente di «Giustizia e Libertà», movimento al quale Agosti aderisce fin da giovane. In magistratura dal 1935, qualche anno dopo fa frequenti viaggi in Polonia, la sua seconda patria, in Belgio, in Francia dove diventa il «contatto» con i fuoriusciti, messaggero di documenti antifascisti. Nel 1941 sposa Nini Castellani, milanese colta, sorella di Emilio, valoroso partigiano di Gl anche lui, germanista, traduttore di Brecht e di tanti altri autori soprattutto tedeschi.
La guerra irresponsabile del fascismo lascia tracce profonde con le sue distruzioni nelle città e nei cuori degli uomini mandati a morire in Grecia, in Russia: gli italiani migliori sono costretti a desiderare la sconfitta del loro Paese. La lotta di liberazione è per Agosti il naturale riscatto, l’eredità delle minoranze risorgimentali. Non è un ideologo, Agosti, ma uno storico e lo dimostrano i suoi studi, il carteggio con Livio Bianco, Un’amicizia partigiana , il suo diario, Dopo il tempo del furore , la cura degli Scritti vari di Salvemini e del Diario di Calamandrei.
Il coraggio dei giorni grigi , un bel titolo, affronta soprattutto il dopo della Resistenza, quando Torino, come Genova e Milano viene liberata dai partigiani prima dell’arrivo degli Alleati. Con dei flashback che rimandano al passato di guerra.
Ada Gobetti, la vedova di Piero, va in Tribunale dove il giudice istruttore Agosti rimane fino al dicembre del 1944: «Il suo studio — scriverà — è frequentato press’a poco come la mia casa; e credo che sia anche un magnifico deposito di stampa e magari d’armi. (...) La sua aria leggermente ironica è ottima contro ogni forma di esaltazione».
E quando, nell’aprile del ‘44, gli uomini del Comitato militare di liberazione, arrestati per una spiata nel Duomo di Torino, vengono processati dal Tribunale speciale fascista e già sanno che saranno condannati a morte, fucilati nella schiena, il giudice Agosti va ad abbracciarli platealmente, di là dalle sbarre della gabbia, nell’emozione di chi, nell’aula delle Assise, vuol bene a quegli uomini.
È un uomo coraggioso, Agosti, che detesta la retorica, l’eroismo di maniera, il reducismo. Il borghese di buona famiglia diventato latitante svaligia una caserma della Guardia alla frontiera da dove se ne va carico di armi; fa fuggire prigionieri alleati; diffonde giornali clandestini; recapita la sentenza partigiana di condanna a morte a un noto penalista torinese che la sera prima giocava a poker con il comandante tedesco Alois Schmidt la sorte di ebrei e ostaggi politici prigionieri delle SS.
Ma la sua vera funzione di somma responsabilità è quella di commissario politico delle formazioni di Giustizia e Libertà per il Piemonte. Grande organizzatore, equilibrato, usa il buon senso, sa che cosa significa comandare e farsi ubbidire. È temuto ma è anche amato.
Dopo la Liberazione viene nominato dal Cln questore di Torino. Un lavoro difficile e delicato in un tempo di fuoco. Diventa il custode della legalità: poco prima avallava controvoglia, per stato di necessità, la rapina alle banche e ai beni dei gerarchi. È la parte più interessante e più nuova del libro di Borgna, l’avventura di un questore partigiano. Che il primo giorno trova sul suo tavolo un ordine del questore fascista: «Sparare a vista sul sovversivo Agosti». Ora lavora per smussare le violenze, i rancori e i desideri di vendicare i propri morti.
Non è impresa da poco far convivere i partigiani diventati poliziotti con gli agenti del tempo fascista rimasti negli organici, almeno quelli che non hanno commesso delitti. Occorre pazienza, coraggio, senso di responsabilità per riunire uomini che fino a poco tempo prima potevano essere di qua o di là da un plotone di esecuzione, vittime o carnefici. Sono i tempi dei tribunali di guerra e poi delle Corti d’Assise del popolo. Gli uscieri fanno meccanicamente il saluto romano, i doppiogiochisti si appuntano il distintivo Gl, i partigiani dell’ultima ora abbondano. Agosti fa quel che deve, prima della nomina ha consegnato la sua tessera di partito, ora è soltanto un uomo dello Stato, intransigente e appassionato nello stesso tempo, che non rinuncia ai suoi principi di moralità e crede nella politica pulita. «È l’etica del dovere, la regola del “fai quel che devi”, appresa dall’esempio familiare e dai maestri, che diventa per Giorgio Agosti imperativo morale», scrive Borgna concludendo il suo libro.
Di una cosa era fiero Agosti. Quando, il 14 febbraio 1948, si dimise senza chiasso — non poteva né voleva restar questore nell’Italia di Scelba dove i fascisti erano ritornati dalle loro remote caligini — fu soprattutto lieto del saluto di un maresciallo di polizia: «Signor Questore, a lavorare con lei ho capito cos’è la democrazia».

Corriere 14.1.15
Socialdemocrazia nel dimenticatoio

La parabola del socialismo italiano non ha avuto una conclusione felice. E ancora peggio è andata alla socialdemocrazia: mentre il Psi di Pietro Nenni e Bettino Craxi è un oggetto di studio su cui molti storici si esercitano, il Psdi di Giuseppe Saragat sembra finito nel dimenticatoio. Eppure quel partito ebbe un ruolo notevole nel consolidare l’equilibrio centrista su posizioni riformatrici e poi nel propiziare l’ingresso al governo dei socialisti nei primi anni Sessanta. Di questo secondo argomento si occupa Michele Donno nel libro I socialisti democratici italiani e il centro-sinistra (Rubbettino, pagine 238, € 16), che copre il periodo dall’incontro di Pralognan tra Saragat e Nenni (1956) fino alla vigilia delle elezioni che, nel 1968, decretarono lo scacco del primo centrosinistra e ancor più il fallimento dell’unificazione tra Psi e Psdi nel Psu. Saragat, che nel frattempo, alla fine del 1964, era diventato presidente della Repubblica, sembrava aver realizzato la difficile missione di costruire anche in Italia un’ampia formazione socialista di stampo occidentale. E invece la storia prese un’altra piega, assai sfavorevole non solo per il Psdi, ma anche per il Psi e alla fin fine per l’intera sinistra.

Corriere 14.1.15
Il socialismo arabo. Storia delle sue crisi
risponde Sergio Romano


Sulla base delle mie conoscenze storiche e politiche, il socialismo arabo aveva fino agli ultimi anni frenato i movimenti islamici più violenti. Quali sono i motivi principali che hanno provocato il crollo del socialismo arabo?
Andrea Sillioni

Caro Sillioni,
La storia del socialismo arabo è in buona parte la storia di un partito politico fondato in Siria nel 1940. Si chiama Baath (in arabo risorgimento) e il suo principale fondatore fu un siriano cristiano che aveva fatto i suoi studi a Parigi e, al ritorno in patria, aveva lungamente insegnato nelle scuole medie di quello che era allora un protettorato francese. Alla Sorbona, il giovane Michel Aflaq aveva letto avidamente i classici politici e filosofici dell’Ottocento e del primo Novecento, da Marx a Mazzini, da Nietzsche a Lenin, e aveva fatto il suo apprendistato assistendo ai continui scontri, nel Quartiere Latino, fra i neo-monarchici dell’Action Française, i militanti socialisti e comunisti (allora alleati in un governo di «fronte popolare») e i partigiani delle Leghe dell’estrema destra.
Da quella completa immersione nelle vicende di un luogo particolarmente caldo della vita politica europea, Aflaq aveva tratto gli ingredienti per la costruzione di una forza politica che sarebbe stata contemporaneamente socialista e nazionalista. È probabile che il modello organizzativo, nella sua mente, fosse quello del partito fascista italiano e del partito nazional-socialista tedesco. Il suo nazionalismo non sarebbe stato siriano ma arabo, e il panarabismo sarebbe stato per parecchi anni la principale caratteristica del Baath nelle sue diverse incarnazioni regionali.
Vi fu un momento, nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando il panarabismo del Baath sembrò allearsi con quello del presidente egiziano Nasser per meglio unificare politicamente l’intera regione. Ma né l’Egitto né la Siria erano disposti ad accettare qualsiasi cessione di sovranità. In ultima analisi il Baath mise radici in due Paesi che erano già stati esposti, in epoca coloniale, all’influenza occidentale: la Siria e l’Iraq. In entrambi il partito fu il trampolino di cui due ambiziosi uomini politici provenienti dalle sue fila si servirono per dare la scalata al potere: Hafez al-Assad in Siria e Saddam Hussein in Iraq. Di Saddam, in particolare, Michel Aflaq fu amico e consigliere fino alla morte (non sappiamo se a Bagdad o a Parigi) nel 1989. Oggi il Baath sopravvive, anche se come strumento di potere personale, soltanto in quella parte della Siria che è controllata dal figlio di Hafez, Bashar al-Assad.
La storia del Baath, quindi, è anche la storia della crisi dello Stato arabo. Forse l’aspetto più tragico nelle vicende dell’intero mondo arabo durante gli ultimi decenni è il fallimento o la degenerazione dinastica di quasi tutti i suoi modelli statuali, da quello di Nasser a quelli di Assad, Hussein, Mubarak e delle monarchie del Golfo. Senza uno Stato efficiente e rispettato non può esservi una vera società nazionale. Senza società nazionale e un senso positivo del futuro, la porta è aperta a tutti gli estremismi, soprattutto religiosi.

Corriere 14.1.15
Quell’area archeologica che finirà sotto le ruspe
di Gian Antonio Stella

E gli interessi dei privati? È questo il senso della sentenza del Tar del Lazio che ha annullato il vincolo sia pure tardivo messo nel novembre 2013 dalla Soprintendenza sull’area del cosiddetto «Muro dei Francesi» a Ciampino.
Ricordate? È il luogo dove sorgeva la villa di Marco Valerio Messalla Corvino, vicino a Ottaviano nella battaglia di Azio contro Marco Antonio, console, amico di poeti come Tibullo e Orazio. E dove il Comune di Ciampino, indifferente al valore dei casali antichi e delle strutture barocche e di quel pezzo di agro romano dell’antica tenuta dei principi Colonna, miracolosamente sopravvissuti all’assalto della sgangherata periferia romana, aveva dato il via libera alla costruzione di dieci palazzine popolari per un totale di 55 mila metri quadri. Una pazzia, secondo archeologi e ambientalisti del Movimento Ciampino Bene Comune. Ma una pazzia anche per la Carta Archeologica che considera l’area «ad alto rischio». E una pazzia per il Coreco laziale che propose all’unanimità l’intera zona per una tutela che garantisse «la godibilità del Portale seicentesco e delle Mura dei Francesi» e dell’area «in prevalenza costituita da orti e vigneti con olivi secolari». Ma una pazzia soprattutto alla luce della scoperta («una di quelle che capita una volta nella vita», spiegò un’archeologa) di sette splendide statue d’età augustea complete di due metri che probabilmente ornavano la piscina della villa di Messalla e che lasciano immaginare l’esistenza di chissà quali altri tesori sepolti.     Macché: pesando leggi e leggine, commi e codicilli come se tutto il resto fosse estraneo (per dire: non un accenno alle statue, manco di striscio) i giudici del Tar chiamati a decidere sul ricorso di tre cooperative edilizie, hanno stabilito che quel vincolo non era «rigorosamente motivato e sorretto da un’adeguata istruttoria sia sotto il profilo della connessione funzionale con le esigenze di tutela e valorizzazione dell’immobile direttamente vincolato sia sotto il profilo della comparazione degli interessi coinvolti e della necessaria proporzionalità e ragionevolezza della misura adottata rispetto agli interessi sacrificati». Insomma: «occorreva valutare puntualmente almeno la consistenza sia in termini di metri quadri che di collocazione delle aree tutelate così come individuate nelle proposte alternative, tenuto anche conto della rilevanza dell’interesse di cui erano portatrici le ricorrenti», cioè le coop palazzinare. E se poi le ruspe trovassero altre statue? Boh…

Corriere 14.1.15
Wegner, il Lawrence degli armeni


«Mai come in questi giorni ho sentito vicino a me distinto il frusciare della morte, il suo silenzio, il suo freddo sorriso, e spesso mi chiedo: posso io ancora vivere? Ho ancora il diritto di respirare, di fare progetti per anni futuri così fantasticamente irreali, quando attorno a me c’è un abisso di occhi di morti?»
Era disperato Armin Wegner, quel 29 marzo 1916 in cui scrisse alla madre da Bagdad quella lettera in cui raccontava l’orrore per il genocidio armeno. Il mondo intero gli era caduto addosso. Solo pochi mesi prima, il 2 novembre, «sotto il caldo sole d’autunno» a Istanbul, aveva travolto i genitori con l’incontenibile entusiasmo per l’avventura che sognava di vivere come infermiere tra le truppe germaniche alleate dei turchi contro l’Impero russo. Una eccitazione dannunziana: «Dormirò con i soldati turchi e mi ciberò di rifiuti come un ratto (…). Ho il remo della mia vita in mano».
Era un giovanotto sulla trentina, Armin. Bello, rampollo di una famiglia di rigide tradizioni prussiane, amato dalle donne, fascinoso con quella divisa della Croce Rossa tedesca e la kefiah bianca che gli dava un’aria esotica alla Lawrence d’Arabia. Quella feroce pulizia etnica, compiuta sotto i suoi occhi, lo sconvolse. E lo spinse a diventare, con le sue lettere, le sue denunce, le sue foto sconvolgenti di deportazioni, marce nel deserto, scheletri di bimbi fatti morire di fame sotto le mura di Aleppo, foto proibite «pena la morte», il principale testimone del genocidio.
Rientrato in patria, nel gennaio 1919 pubblicò La via senza ritorno e tentò di scuotere lo stesso presidente Usa Woodrow Wilson scrivendogli sul «Berliner Tageblatt» una possente lettera aperta dove, facendosi intendere pure dai compatrioti tedeschi distratti verso i massacri commessi dall’alleato turco, invocava una patria per quei cristiani sradicati dall’Anatolia «perché a nessun popolo della terra è mai toccata un’ingiustizia quale quella toccata agli Armeni»: «I villaggi furono bruciati, le case saccheggiate, le chiese distrutte o trasformate in moschee, il bestiame rubato; si tolse loro l’asino e il carro, si strappò il pane dalle mani, i bambini dalle braccia, l’oro dai capelli e dalla bocca. Funzionari, ufficiali, soldati e pastori, gareggiando nel loro selvaggio delirio di sangue, trascinavano fuori dalle scuole ragazze orfane per il loro bestiale piacere…». Il tutto senza che l’Europa cristiana, a partire dalla «sua» Germania avesse un sussulto: «Signor presidente, salvi Lei l’onore dell’Europa!»
Era un uomo libero. Così libero, come scrive Anna Maria Samuelli nel libro Armin T. Wegner e gli armeni in Anatolia, 1915 (Guerini e Associati, 1996), che visitando Mosca nel 1927 finì per mettersi contro sia i comunisti, che secondo lui avevano tradito ogni ideale socialista, sia i nazisti, che lo marchiarono come un «intellettuale bolscevico, traditore dei valori nazionali tedeschi».
Libero e tedesco, tedesco e libero. Lo dimostrano una struggente mostra fotografica appena aperta alla Biblioteca Marciana di Venezia, i riconoscimenti ricevuti come «Giusto» da armeni ed ebrei, il libro che uscirà verso la fine di aprile da Mondadori scritto da Gabriele Nissim, lo scrittore presidente di «Gariwo, la foresta dei Giusti», che ricerca in tutto il mondo i Giusti di tutti i genocidi.
Aveva fegato, Armin Wegner. Al punto che, dopo la serrata antiebraica del 1933, osò scrivere una lettera a Hitler, recapitata alla Casa Bruna di Monaco (la ricevuta fu firmata da Martin Bormann) supplicandolo di proteggere la minoranza ebraica: «Se la Germania è diventata grande nel mondo, a ciò hanno contribuito anche gli ebrei». E giù un elenco, che iniziava con Albert Einstein e proseguiva con altri grandi ebrei tedeschi, imprenditori e intellettuali e olimpionici e giuristi e ricordava i dodicimila ebrei morti in guerra: come poteva la Germania «togliere ai loro genitori, figli, fratelli, nipoti, alle loro donne e sorelle ciò che si sono meritati nel corso di generazioni, il diritto a una patria e un focolare?»
Montò il sangue alla testa, ai nazisti, nel leggere quella lettera che pareva irridere al Führer («Lei è mal consigliato!») e già prevedeva tutto: «Con la tenacità che ha permesso a questo popolo di diventare antico, gli ebrei riusciranno a superare anche questo pericolo — ma la vergogna e la sciagura che a causa di ciò si abbatterà sulla Germania non saranno dimenticate per lungo tempo! Infatti, su chi cadrà un giorno lo stesso colpo che ora si vuole assestare agli ebrei se non su noi stessi?»
Conclusione: «Non come amico degli ebrei, ma come amico dei tedeschi, come rampollo di una famiglia prussiana in questi giorni, quando tutti rimangono muti, io non voglio tacere più a lungo di fronte ai pericoli che incombono sulla Germania». Fino all’appello disperato: «Protegga la Germania proteggendo gli ebrei!».
Fu sbattuto in galera, Armin Wegner, per quella lettera straordinaria. Pestato. Frustato a sangue. Torturato. Trasferito in un lager e poi un altro e un altro ancora. Costretto infine ad andarsene in esilio. Inghilterra, Palestina con la prima moglie ebrea Lola Landau e infine a Positano, Stromboli e Roma dove sarebbe morto quasi sconosciuto nel 1978: «La Germania mi ha preso tutto: la mia casa, il mio successo, la mia libertà, il mio lavoro, i miei amici, la mia casa natale e tutto quanto avevo di più caro. In ultimo la Germania mi ha tolto mia moglie; e questo è il paese che io continuo ad amare, nonostante tutto!».
Non tornò più a vivere nella patria che l’aveva tradito, Wegner. Mai più. Neppure dopo il 1965 quando, nel cinquantenario del genocidio armeno, la nuova Germania di Ludwig Erhard e Willy Brandt lo riscoprì e gli tributò una serie di onorificenze. Meno importanti, per lui, di quelle ricevute dagli armeni e dagli ebrei, che riconoscono in lui l’esempio di un uomo che salvò un pezzetto dell’onore tedesco.

Repubblica 14.1.15
“L’intelligenza artificiale può distruggere l’uomo” allarme di 400 scienziati
Manifesto con firme da tutto il mondo dopo l’appello di Hawking “Pericolosa come le armi nucleari: dobbiamo orientarla”
di Enrico Franceschini


LONDRA In principio c’era Hal 9000, il computer di 2001 Odissea nello spazio , il film di Stanley Kubrick in cui una macchina prendeva il controllo di un’astronave e cercava di eliminarne l’equipaggio. Ma da allora la tecnologia ha superato di gran lunga la fantascienza. Il mese scorso Stephen Hawking, l’astrofisico autore della teoria sul Big Bang e sui buchi neri, ha dichiarato che l’intelligenza artificiale potrebbe portare alla scomparsa della razza umana. In agosto un altro eminente scienziato, Elon Musk, l’imprenditore dell’high tech che dirige la Tesla Motors e il progetto SpaceX, ha ammonito che l’AI (acronimo di artificial intelligence) è «potenzialmente più pericolosa delle armi nucleari». Ora un gruppo di 400 autorevoli studiosi di tutto il mondo, tra cui gli stessi Hawking e Musk, firma una lettera aperta affermando che l’umanità deve essere in grado di esaminare una serie di cruciali quesiti prima di sviluppare macchine che, come nella pellicola di Kubrick, potrebbero finire per nuocerci anziché aiutarci a vivere meglio.
«A causa del grande potenziale positivo dell’intelligenza artificiale, è importante che venga analizzato il modo in cui possiamo trarne benefici, evitandone al tempo stesso le potenziali insidie», afferma la lettera, pubblicata sul sito del Future of Life Institute (Istituto per il futuro della vita), un’associazione di ricerca inglese. «I nostri sistemi di intelligenza artificiale dovranno fare quello che noi vogliamo che facciano, non il contrario. Per questo è importante e opportuna un’analisi su come renderli un elemento positivo per l’umanità». Il testo, firmato tra gli altri da Demis Hassabis, fondatore di DeepMind, una compagnia di ricerche sull’intelligenza artificiale altamente segreta, acquistata lo scorso anno da Google per 400 milioni di sterline (circa 500 milioni di euro), è accompagnata da uno studio che pone una serie di domande. È possibile che armamenti automatici possano provocare una guerra accidentale? E come possono tali armi rispettare le leggi sui diritti umani? Come possono i sistemi di interpretazione di dati ottenuti da telecamere di sorveglianza a circuito chiuso, linee telefoniche, email e altre fonti, interagire con il diritto alla privacy? È ammissibile che un’auto senza pilota valuti la piccola probabilità di un incidente a un umano contro la quasi certa probabilità di un incidente senza vittime umane, e decida da sola di conseguenza quale opzione scegliere? E le questioni legali suscitate dall’intelligenza artificiale dovrebbero essere sancite dalle esistenti leggi cibernetiche o affrontate separatamente?
I firmatari non sono conservatori attaccati alla tradizione: al contrario, sono scienziati impegnati nella continua avanzata verso nuove frontiere del progresso tecnico-scientifico. Affer- mano, come osserva la lettera aperta, che esiste oggi «un ampio consenso sul fatto che l’intelligenza artificiale sta facendo continui passi avanti e che il suo effetto sulla società è destinato a crescere». I vantaggi sono enormi, riconoscono gli studiosi. Sistemi in grado di riconoscere e riprodurre la voce umana, classificazione automatica di immagini, veicoli con autopilota, macchine per traduzione simultanea, sono tra i notevoli successi degli ultimi tempi e altri ancora più straordinari si annunciano per il prossimo futuro, sottolinea il Times di Londra, che ha anticipato ieri un estratto del documento. «Tutto quello che abbiamo oggi è il risultato dell’intelligenza umana», avverte tuttavia la lettera. «Non possiamo prevedere cosa accadrà quando l’intelligenza umana sarà moltiplicata alla massima potenza da quella artificiale».

Repubblica 14.1.15
“Ma il nostro non è catastrofismo solo buon senso”
intervista di Silvia Bencivelli


«LA nostra lettera serve a riportare equilibrio A ricordare la necessità di guidare la ricerca ma anche a frenare le posizioni catastrofiste», spiega Francesca Rossi, firma numero cinque dell’appello, professoressa di informatica all’università di Padova, oggi ad Harvard, presidente della Conferenza internazionale per l’intelligenza artificiale e del Comitato per le questioni etiche dell’Associazione per l’avanzamento dell’intelligenza artificiale.
Perché quella lettera era necessaria?
«Perché il dibattito si è polarizzato su posizioni estreme. I catastrofisti conoscono poco la realtà. Ma anche sottovalutare i rischi non ha senso. Diffondendo paure si rischia di tagliare le gambe a una ricerca molto promettente. Ma la ricerca è tanto più promettente quanto più sappiamo indirizzarla».
Si tratta di decidere limiti etici della ricerca informatica.
«Sì, e non è facile. Per esempio, i sistemi di riconoscimento delle facce. Sono utili, ma potrebbero essere usati per la costruzione di armi. Non solo: fa paura sapere che un’arma è controllata da un robot. Ma un ragazzo può essere altrettanto fallibile, senza considerare che lui stesso può essere ucciso. Sono questioni delicate».
I rischi più immediati quali sono?
«I robot sostituiranno tanti lavoratori, dai tassisti ai camerieri. Scompariranno mestieri e ci sarà una grande disparità tra chi farà profitti con le macchine e chi resterà fuori dal sistema economico».

Repubblica 14.1.15
Due libri indagano su come si forma il sapere scientifico
Ecco perché non possiamo non dirci matematici
di Piergiorgio Odifreddi


«IO non ho mai capito niente di matematica». Questa è la frase che un matematico si sente più spesso rivolgere, praticamente da chiunque venga a sapere il mestiere che fa. Eppure, pochi sono così matematicamente analfabeti da non essere in grado di fare correttamente i conti al mercato o in banca. L’ excusatio non petita è dunque, più che altro, un’inconscia presa di distanza da una materia che ci ha fatto penare da bambini, lasciandoci brutti ricordi, e alla quale non vogliamo più dedicare un’attenzione conscia da adulti. Parte della motivazione psicologica di un simile atteggiamento è ormai nota.
Nel suo studio sulle intelligenze multiple, iniziato nel 1983 nel libro Formae mentis ( Feltrinelli, 1987), lo psicologo Howard Gardner di Harvard ha infatti mostrato che l’intelligenza non è un rigido singolare, ma un fluido plurale. Ne esistono diversi tipi, che tutti possediamo in minor o maggior grado: le abilità cinestetiche per muoverci, linguistiche per parlare, musicali per cantare, logico-deduttive per ragionare, eccetera. E i vari tipi di intelligenza maturano in periodi diversi dello sviluppo. Il motivo per cui la matematica è così invisa sembra essere che l’abilità logico-deduttiva da essa richiesta è l’ultima a svilupparsi e matura verso la pubertà. Durante le elementari e le medie, anche per coloro che la sceglieranno come professione, la matematica risulta poco congeniale, e lo sforzo richiesto per apprenderla “contro natura” è superiore alle capacità di dimenticarne il fastidio. Da qui una rimozione che perdura tutta la vita, e fa dire di non aver mai capito nulla di matematica anche coloro che in realtà se la cavano benissimo, almeno con i conti quotidiani.
In Cervelli che contano ( Adelphi), il neuroscienziato Giorgio Vallortigara e la giornalista scientifica Nicla Panciera ci aggiornano sulla ricerca delle basi neurofisiologiche dell’intelligenza matematica. Scopriamo che si sono identificate varie aree del cervello deputate allo scopo: la corteccia temporale inferiore per l’analisi delle forme geometriche, la corteccia parietale posteriore per l’analisi della numerosità aritmetica, e la corteccia prefrontale per la coordinazione logica fra le due analisi.
Per quanto riguarda i conti, sia gli umani che gli animali possiedono neuroni specifici che permettono, da un lato, di confrontare la numerosità di due insiemi di oggetti. E, dall’altro, di compiere su queste numerosità le quattro operazioni elementari: addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione. Si tratta però di un sistema analogico, che fornisce soltanto valutazioni approssimate dei numeri coinvolti, e costituisce un substrato neurofisiologico più alla teoria degli insiemi che all’aritmetica.
Esiste però un secondo sistema, complementare al precedente, che permette di valutare la numerosità di insiemi piccoli. In altre parole, siamo in grado di percepire la differenza tra uno, due, tre, e al massimo quattro oggetti, stimandone il numero in maniera automatica. Questo secondo sistema digitale fornisce un substrato neurofisiologico alla vera e propria aritmetica. E fin qui gli uomini e gli animali, almeno quelli “superiori”, si assomigliano tutti, perché possiedono tutti la stessa predisposizione per un’aritmetica minimale.
Per arrivare a ciò che noi chiamiamo matematica tout court , è però necessario estendere i due sistemi mediante una rappresentazione simbolica in grado di procedere anche a numeri maggiori. Bisogna cioè arrivare al concetto di numero, che per quanto ne sappiamo è tipicamente umano e si forma in un preciso momento dell’evoluzione del bambino. Verso i due anni, infatti, egli identifica l’unità e impara la differenza tra “uno” e “molti”. Circa nove mesi dopo identifica la dualità, e qualche mese dopo la trinità e la quaternità.
È a questo punto che gli umani, sembra diversamente dagli animali, estrapolano dalla successione “uno, due, tre, quattro” il senso della sua costruzione attraverso l’aggiunta di un’unità, in un processo che può continuare indefinitamente. Ma non sappiamo ancora quale ruolo, contingente o necessario, svolga il linguaggio in questa maturazione. Anche perché le aree del cervello deputate alla matematica e al linguaggio sono distinte e separate.
Sia come sia, verso i cinque anni il bambino è in grado di compiere il primo passo di un lungo processo evolutivo che gli permette di sviluppare il senso della matematica, di imparare l’aritmetica e la geometria, e se è fortunato e persistente addirittura di arrivare a Dimostrare l’impossibile , secondo il titolo di un bel libro di Claudio Bartocci (Cortina).
Il matematico genovese corona con quest’opera un’intensa attività divulgativa, che l’ha portato a inaugurare al Palazzo delle Esposizioni di Roma la fortunata mostra «Numeri. Tutto quello che conta da zero a infinito», aperta fino al 31 maggio, e a curarne con Luigi Civalleri l’omonimo catalogo illustrato (Codice). Ma il suo impegno culturale va ben oltre questi miseri cenni, perché la sua voracità intellettuale è proverbiale. Chi ha la fortuna di conoscerlo, infatti, non ha anche quella di potergli citare il titolo di qualche libro che lui non abbia già letto e catalogato negli scaffali della propria Biblioteca di Babele mentale.
Come gli onnivori Borges o Eco, anche Bartocci sembra infatti conoscere tutta la letteratura esistente, e dalle sue scorribande letterarie ha tratto una sorprendente e raffinata antologia di Racconti matematici ( Einaudi, 2006), con trofei che vanno da Omar Khayyam e Lewis Carroll a Julio Cortazar e José Saramago. Ma, a differenza di Borges o Eco, Bartocci sembra conoscere anche tutta la matematica esistente, e ne ha forgiato una bacchetta che gli ha permesso di dirigere la sinfonica quadrilogia La matematica ( Einaudi, 2007-11), con un centinaio di solisti che vanno dallo stesso Eco a un nutrito numero di medaglie Fields e altri menti straordinarie.
Il suo primo libro da autore, Una piramide di problemi ( Cortina, 2012), ci aveva offerto un’intricata e intrigante storia della geometria da Carl Gauss a David Hilbert, basata su una conoscenza approfondita dei testi. Dimostrare l’impossibile è invece di tutt’altro tenore: tanto leggibile, accessibile e destinata a un pubblico colto ma generico, quanto la prima era complessa, impegnativa e riservata agli specialisti.
I brevi testi giornalistici che compongono il nuovo libro si possono leggere indipendentemente, ma sono collegati dai molteplici fili di una fitta trama. Essi spaziano dalle pillole biografiche sui matematici, alle miniature di teoremi e teorie, alle osservazioni filosofiche, alle connessioni tra la matematica e il resto della cultura. Guidato da questo catalogo di un’immaginaria mostra di idee, invece che di numeri, anche il lettore più avvezzo a dire: «Io non ho mai capito niente di matematica» dovrà ricredersi, e ammettere che non solo la capisce, ma ne può apprezzare il pervasivo ruolo nel nostro mondo e nella sua propria vita.

I LIBRI Vallortigara e Panciera, Cervelli che contano (Adelphi, pagg. 191, euro 25). Bartocci, Dimostrare l’impossibile (Cortina, pagg. 200, euro 23)

Repubblica 14.1.15
Chi era la Vannini, la mistica del Seicento che alcuni studiosi associano senza prove ai soggetti femminili di Caravaggio
La vera storia di Caterina prostituta e santa
di Adriano Sofri


LA VENERABILE Caterina Vannini, la “santa” della contrada senese della Tartuca, fu suora delle Convertite, dopo esser stata meretrice a Roma. Il suo nome va insieme a quello di Federico Borromeo, con cui ebbe un febbrile carteggio. Il cardinale ne scrisse la “Vita”, pubblicata nel 1618 (lei era morta il 30 luglio del 1606). Descrisse le sue fattezze: «Ella per donna fu di statura grande; e svelta della persona; di membri dilicati, e di color bianco e vivace. Il viso non era grande, e il sembiante fu giovenile ancora nell’età matura; la fronte monda, e i capelli perfettamente negri; le ciglia e gli occhi parimenti neri...
Il naso non fu proffilato, ma leggiermente depresso. Ebbe piccola bocca; né le labbra erano sottili, né molto rubiconde. Nelle guance appariva sempre alquanto di rossore; ed alcuni nei sparsi nel viso…». Correggendo il testo per la ristampa, Federico decise di cassare le righe sul “sembiante”, preoccupato di averla ritratta troppo “secondo il senso”. La famosa predilezione del Borromeo per le monache, e più particolare per Caterina senese, appartiene a un tempo di superstizioni, feticismi e morbosità. Le quali, come avvertì Manzoni, non possono per intero giustificarsi con l’epoca, e agli stessi protagonisti apparvero non di rado compromettenti. Federico si preoccupava che le sue lettere cadessero sotto occhi estranei. Quelle di Caterina lasciano intuire perché i processi di beatificazione di ambedue, il gran cardinale e la sua “piccinina”, si siano insabbiati. Federico aveva saputo di lei nel 1601, mentre era in viaggio e in pericolo di vita, dal pittore Francesco Vanni, e ritenne di doverle la guarigione. L’avrebbe incontrata solo due volte, nel 1604 e nel 1605.
Tolta la vita matura, di Caterina si sa pochissimo. La si volle poi, infondatamente, di nobili natali, di gran bellezza – che poté esser vero – e di una carriera brillante di cortigiana, intrapresa undicenne, fino al bando di Gregorio XIII che volle sbarazzare Roma dalle meretrici alla vigilia del giubileo del 1575. In realtà la data di nascita che il Borromeo accoglie, il 1562, va retrocessa al 1558, sicché alla vicenda romana sarebbe arrivata quindicenne. Il successo mondano non dovette essere smagliante, e almeno non ce n’è traccia.
Ho trovato a Roma due verbali del marzo 1574, in cui gli indagati sono il «Magnificus Dominus Fortunatus de Flaminiis», e suo figlio. A domanda, il primo risponde: «Sì che alli giorni passati ci è stata una certa Caterina Senese /…/ po esser stata con me da un mese et mezzo in circa in due mesi/…/ Io li ho dato licentia / l’ho mandata via/ perché non mi piaceva il suo vivere et perché anchora è una poltrona / puttana/ che si faceva chiavare da questo et da quello /…/ Io non ho voluto mai cognoscer carnalmente la detta Cat. a nemmeno la ho mai ricercata che dovessi dormire con me nemmeno ho mai auto fantasia di farli tal cosa che si lei vuol dire tal cosa se ne mente per la gola come puttana poltrona che lei è … et mi meraviglio che io son vecchio di 68 anni et mi confesso et comunico ogni settimana… et si dice che io l’habbia date le bastonate dice mille bugie …. Io non ho fatto tal cosa quale voi me dite di haverli stracciata la cinta et di volerla sforzare…». Che cosa dica il figlio potete immaginarlo: «La è una puttana che faceva venire li bertoni / puttanieri/ per farsi chiavare in casa… Signorno che io non ho mai chiavato detta Cat. a…». Che la Caterina denunciante sia la Nostra, è impossibile dire.
Tornata a Siena, Caterina si impone una vita di penitente ed è accolta fra le Convertite. Finché l’avvento di Federico – è storpia, digiuna, non si lava «i piedi mai, né altra parte del corpo», si flagella… – inaugura una corrispondenza tipica e sconvolgente. È il gioco delle parti fra l’uomo dotto, committente di confessioni intime e reportage soprannaturali, e la (santa) donna dedita a un’effusione amorosa. Lui esige che lei «dica tutto». In cambio delle porzioni di aldilà che lei concede alla sua “curiosità”, le distanze di sicurezza si bruciano. «Quando io vi scrivo non posso trovare la via di fenire; sì bene non fenisco mai e mai fenisco perché Iddio è senza mai fine, e così ha da esser el mio amarvi…». I lettori, maschi finora, hanno trovato le lettere miserelle, o peggio. Hanno ragione quanto alle “visioni”. Hanno torto quanto alla passione: «Perché il grande Iddio mi conosce furicosa hami troncato l’ali»; «Sono come lo sparviere che vive di cori / cuori/»; «Quel che scrivo mi esce dalle viscere del core». La scrittura bruciante di lei fa da materia grezza per quella spenta di lui, che tuttavia raschia e custodisce la polvere assorbente delle sue lettere. Lei ama, lui prende appunti.
Il 24 ottobre Dario Pappalardo ha presentato qui un quadro che Mina Gregori ritiene l’originale Maddalena in estasi del Caravaggio. Confermandone l’opinione, Bert Treffers (nell’intervista uscita su Repubblica uscita il 2 dicembre) ha collegato la versione ritrovata alla Vannini. La connessione era già stata segnalata con forza da Maurizio Calvesi. I portamenti e le visioni di Caterina avrebbero fornito, per il tramite di Federico Borromeo, un modello alla pittura di Caravaggio. In particolare, alla Madonna della Morte della Vergine ( oggi al Louvre), fin nel dettaglio più “scandaloso”, il ventre enfiato, che riprodurrebbe l’idropisia della Vannini. Anche la Maddalena seduta vi richiamerebbe l’abitudine di Caterina a star «su una bassa e piccola seggiola». Ma un’altra Maddalena di Caravaggio, quella della Galleria Doria Pamphili, era già seduta su una seggiola bassa, ed era stata dipinta almeno cinque o sei anni prima che il Borromeo sentisse parlare di lei. Al di là delle date, è difficile riscontrare nelle fattezze delle rosse Maddalene caravaggesche, fedeli a se stesse, un rimando a Caterina. Calvesi ipotizza che Caravaggio l’avesse “conosciuta” attraverso il ritratto che ne fece nel 1606 il Vanni, su commissione del Borromeo: lo stesso Vanni peraltro dipinge la sua Maddalena secondo tradizione, capelli d’oro e veste rossa. Il Borromeo teneva bensì a farsi descrivere nei dettagli dalle sue monache quello che vedevano (lui le chiama estasi, io li chiamo sogni, lui visioni, io pensieri, diceva Caterina). A una di loro manderà un ritratto della Maddalena, «fu fatto dalla serva di Dio /Caterina Vannini/ con occasione di una visione che ella ebbe o vero a lei parve di vedere». Ma la Maddalena descritta nelle “visioni” di Caterina è bionda, vestita di verde, o con un manto turchino… Treffers propone ora di traslocare il richiamo alla Vannini morente di idropisia dalla Vergine alla Maddalena in estasi ritrovata. «Sulla Vergine non sono sicuro… Ma nella Maddalena la pancia gonfia appare di un naturalismo spietato, quasi crudele». In Calvesi la pancia gonfia (che aveva fatto pensare al modello di un’annegata, o all’allusione alla maternità) è attribuita alla Vergine morente, nella Maddalena diventerebbe l’attributo di un’estasi. Occorre affidarsi a chi ha visto il quadro, dato che la fotografia non dirime i dubbi sul ventre enfiato. Che Caravaggio si ispirasse a lei, e anche solo ne fosse informato, sembra azzardato e oltretutto gratuito.
Intanto la Controriforma impone che alle monache sia proibito ricevere e inviare lettere, e Federico esclama: «Benedetti quei chiostri nei cui parlatori i ragni possono stendere tranquillamente le loro tele fra le grate!». Caterina gli aveva scritto: «Aspetto in breve di rivederla a questa gratina che ogni ora mi par millanni».