sabato 17 gennaio 2015


il Fatto 17.1.15
Rodotà in cima dopo 57.882 clic


IL PROFESSORE Stefano Rodotà è di gran lunga in testa alla consultazione online lanciata dal Fatto Quotidiano. Ha doppiato il secondo in classifica, l’ex magistrato Ferdinando Imposimato e stacca di circa 13 mila voti il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky. Nell’ultima giornata l’unico balzo in avanti l’ha fatto Giancarlo Magalli. Il popolare conduttore televisivo è sostenuto da un ironico gruppo Facebook “Magalli al Quirinale” (che conta circa 11 mila iscritti) e da un hashtag su Twitter #magallialquirinale che ha fatto irruzione anche nel nostro sondaggio. Su Facebook e Twitter è anche molto attivo Fulvio Abbate (undicesimo) con lo slogan “Veltroni non passerà. Fulvio Abbate Presidente” e “Ficarazzi Capitale”. Il primo turno si chiude domenica sera. Dal prossimo martedì partirà poi il ballottaggio tra quelli che sono stati maggiormente votati. Per adesso le singole preferenze conteggiate sono state 57.882.

Il Sole 17.11.15
La tradizione ex Pci e la corsa al Colle
La direzione del Pd di ieri non ha toccato uno dei punti dirimenti nella scelta per il Colle: le tradizioni politiche del partito. E in particolare dell’ex Pci.
di Lina Palmerini


E invece la riflessione che spesso circola tra la minoranza è il rischio che tra i vertici delle istituzioni potrebbe non esserci più alcun rappresentante di quella storia.
Ieri Matteo Renzi ha illustrato un metodo per il coinvolgimento di tutto il partito nella scelta delle candidature per il Colle ma poi il dibattito ha visto gli esponenti della minoranza concentrarsi su due aspetti che apparentemente nulla avevano a che fare con il capo dello Stato: le primarie in Ligura e il decreto fiscale con l’errore del Governo sulla depenalizzazione delle frodi. Su quest’ultimo punto la polemica c’era già stata ma a colpire di più è stato lo strascico di divisioni ancora vive sulle primarie liguri che hanno segnalato tutto il malumore della minoranza Pd. Un malumore che è soprattutto la preoccupazione nel vedere lentamente ritirarsi - fino al rischio di “estinzione” - un’area politica, quella che ha visto la sconfitta di Sergio Cofferati contro Raffaella Paita, con 4mila voti di scarto. Dunque la storia nuova renziana che fagocita la tradizione, la marginalizza, attraverso le primarie ma anche attraverso una legge elettorale con i capilista bloccati.
Quei malumori usciti allo scoperto ieri sono sembrati il primo vero segno di tensione sul Quirinale: la preoccupazione, appunto, di non avere più nessuno tra i vertici del potere politico-istituzionale che appartenga a quella storia di sinistra che va dal Pci e arriva al Pd. Oggi al Senato c’è Pietro Grasso, alla Camera Laura Boldrini, a Palazzo Chigi Matteo Renzi e a capo del partito di nuovo Renzi, che non è di quella storia. Finora Giorgio Napolitano ha dato la rappresentanza più alta, primo presidente a provenire dal partito comunista, ma ora? C’è il rischio che questa area non abbia più una sponda politico-istituzionale e si assottigli fino a sparire. Questa è la domanda che tormenta le correnti di sinistra alla vigilia dello scontro sul Quirinale.
“Figli di un dio minore”, definì Massimo D’Alema gli ex comunisti nel ’98, proprio prima di entrare a Palazzo Chigi. E adesso si torna a quel malessere con l’aggravante che si è rimasti alle divisioni del passato se perfino la minoranza è divisa in due o tre parti. E quindi se da un lato c’è la preoccupazione legittima che al Colle salga una personalità vicina a Renzi - popolare e cattolica - è anche vero che quel mondo ex comunista è ancora dilaniato dalle lotte dei decenni scorsi. Non si riconoscono nell’area che esprime Renzi ma non si riconoscono neppure - in modo unitario - nella figura di uno degli ex leader di quella tradizione fino al Pd. Con un paradosso ora perfettamente visibile: che la sinistra ha sempre rivendicato l’avversione per l’uomo forte ma è poi vissuta di forti personalità sempre in guerra tra loro. È questa l’impasse che vive la minoranza Pd e anche quella parte che è confluita nella maggioranza renziana: voler esprimere un “proprio” candidato ma non essere nelle condizioni di farlo. Non riuscire - almeno finora - a trovare una figura di riconciliazione dopo una lunga storia di scontri e vendette.
Ed è con questa frustrazione che potrebbe fare i conti Renzi. Una frustrazione che facilmente può trasformarsi nella manovra puramente distruttiva di franchi tiratori che non potendo imporre il proprio candidato impallinano gli altri. Alla fine tutto l’ex Pci, minoranza e maggioranza Pd, si trova dinanzi al suo dilemma di sempre. Quello delle sue divisioni.

La Stampa 17.11.15
Matteo incassa l’ok di Bersani
“Faremo quel che dirà lui”
L’ex segretario pronto a votare anche Amato o Mattarella
di Carlo Bertini


Matteo Renzi rassicura la minoranza interna con due mosse: in pubblico chiama tutti alla battaglia promettendo una cogestione della scelta passo dopo passo; e in privato lascia che i suoi facciano trapelare che in pole position vi siano i nomi di Giuliano Amato e Sergio Mattarella: che per motivi diversi potrebbero compattare gran parte del Pd, dai democristiani ai bersanian-dalemiani. Mattarella poi, stando ai rumors di Palazzo, sarebbe in grado pure di strappare il consenso di una sinistra (anche tra i 5stelle) che vedrebbe in lui una sorta di argine al patto del Nazareno, visto i suoi trascorsi di ministro Dc dimissionario contro la legge Mammì sulle Tv. Insomma, la prima mossa del leader di coinvolgere tutti fino alla fine del percorso piace ai «compagni», che vogliono contare in questa partita. E che per questo apprezzano pure l’avvertimento tra le righe lanciato da Renzi a Berlusconi: tradotto da un renziano doc è «facci capire chi comanda in Forza Italia, se tu o Brunetta, che altrimenti saremo in grado di eleggercelo da soli, il capo dello Stato, noi del Pd insieme ai centristi della maggioranza».
Lo dimostra il fatto che Pierluigi Bersani è pronto a votare sia Mattarella che Amato, due nomi che erano nella prima terna (il terzo era Marini) che due anni fa propose a Silvio Berlusconi. «Io sono coerente e non cambio mica idea», ammette l’ex segretario seduto su un divano alla Camera. «Certo io ci sono caduto l’altra volta su Prodi e mi è difficile non votarlo alla prima, alla terza o alla settima votazione che sia».
Ma quando gli si chiede se davvero sia disposto a tradire l’indicazione del partito con l’operazione di votare Prodi e non scheda bianca ai primi tre scrutini, l’ex leader si fa serio. «No alla fine si farà quel che dice Renzi, e io non la vedo così drammatica come si pensa, stavolta è diverso da due anni fa. E inoltre i candidati che girano non sono così divisivi...».
Bersani è ben informato, se non altro per averne parlato con Renzi due giorni fa. Accanto a lui siede Davide Zoggia, che in Direzione tende la mano, «ora partiamo dal Pd e offriamo un profilo in cui tutti noi ci riconosciamo e che possa fare da sintesi». Dopo la Direzione, a microfoni spenti i colonnelli di Bersani dicono che «Amato però rischia di spaccare il Pd, Mattarella meno». E non credono che Renzi abbia già chiuso un accordo con Berlusconi, «lo si vede dall’atteggiamento dei gruppi parlamentari di Forza Italia che frenano le riforme». Il premier infatti ancora deve capire che intenzioni abbia il Cavaliere. «Vedremo che succede la prossima settimana alla Camera, tutti i gruppi hanno chiesto di sospendere i lavori e il più accanito è Brunetta», fanno notare i renziani.
Berlusconi non ha ancora detto sì al nome di Mattarella, mentre Amato, che a Renzi non dispiace, «presenta qualche criticità in più perché sarebbe poco compreso dall’opinione pubblica, per via del suo passato troppo vicino a Craxi», ammettono gli uomini del premier. Il quale, a sentir cosa dicono quelli a lui più vicini, vedrebbe bene pure Fassino, gradito agli ex Ds e pare non sgradito neanche a Berlusconi. Ma che la partita sia solo all’inizio, lo prova tutto questo inseguirsi di voci, comprese quelle che danno i centristi di Alfano in gran fermento insieme ai fittiani sul nome di Pierferdinando Casini.

La Stampa 17.1.15
La tattica del dialogo
di Marcello Sorgi


Alla prima direzione del Pd convocata dopo le dimissioni di Napolitano, per discutere la successione al Quirinale, Renzi s’è presentato con un insolito (per lui) atteggiamento dialogante con la minoranza, proteso verso un accordo unitario. Nella consapevolezza che l’elezione del Presidente dipende in gran parte dal suo partito, e il peso di un nuovo fallimento, come quello del 2013, lo riguarderebbe in pieno.
Renzi ha proposto una sorta di convocazione permanente della direzione, la formazione di una delegazione composta da vicesegretari, capigruppo e presidente del Pd, chiamata a trattare con tutti gli altri partiti e a concludere accordi con chi ci sta, M5s incluso, e senza privilegi per nessuno, Berlusconi compreso. Massimo di informazioni condivise per tutto il percorso e poi, alla vigilia della convocazione delle Camere riunite, assemblea dei grandi elettori per scegliere il nome da proporre e la tattica per farlo eleggere, se alla prima votazione o dalla quarta in poi. Di fronte a un’impostazione così aperta, la minoranza non ha potuto che consentire, anche se controllerà che le promesse siano mantenute.
La sensazione, dopo l’irrigidimento dì giovedì e dopo la richiesta di posticipare a dopo le votazioni per il Capo dello Stato l’approvazione della legge elettorale e il voto sulla riforma del Senato (che il premier, al contrario, intende ottenere anche con sedute parlamentari notturne), è che Renzi voglia capire cosa sta succedendo al centrodestra. Senza escludere, patto del Nazareno o no, che Berlusconi alla fine non voti il candidato Presidente proposto dal centrosinistra, né più né meno come fece nel 2006, quando, dopo molte indecisioni, ritirò l’appoggio promesso a D’Alema e si rifiutò di sostenere Napolitano, che la prima volta fu eletto con i soli voti del centrosinistra e qualche aiuto di singoli.
L’ex-Cavaliere in realtà deciderà solo all’ultimo, valutando il nome o i nomi che gli saranno proposti. Ma chi pensava che avrebbe votato qualsiasi nome, pur di non restare isolato, comincia a ricredersi. Perché Berlusconi avrebbe indubbie convenienze a non rispettare il patto con Renzi: con un’unica mossa riunificherebbe il suo partito e tutto o quasi il centrodestra: c’è da vedere infatti cosa farebbero Alfano e Area Popolare se Forza Italia e Lega si schierassero per il no al candidato del Pd. Alla vigilia del voto per le regionali (e chissà se solo di quello) non sarebbe facile per i centristi votare per un candidato del centrosinistra, mentre il resto della destra si ricompatta all’opposizione. Meglio, per ora, stare alla finestra, in attesa di vedere cosa la corsa al Colle smuoverà nel Pd e fino a che punto Berlusconi resisterà sul suo Aventino.

Corriere 17.11.15
La prima sfida è arrivare al 29 gennaio con il Pd unito
di Massimo Franco


L’ applauso che ieri Matteo Renzi ha sollecitato alla direzione del Pd per un «minorenne» per il Quirinale, Nico Stumpo, è significativo. «Almeno tu non hai cinquant’anni», lo ha benedetto scherzosamente. È evidente che il segretario-premier sente la pressione della filiera dei candidati interni. E per quanto sostenga che il loro numero «non è un problema», si rende conto di doverne scontentare la quasi totalità. Anche per questo ribadisce che la questione del capo dello Stato sarà discussa col partito e gli alleati di governo. E annuncia che la designazione avverrà solo ventiquattro ore prima dell’inizio delle votazioni a Camere riunite, il 29 gennaio.Dire che se si ripeterà la situazione del 2013, quando non si riuscì ad eleggere un nuovo capo dello Stato, il Pd sarà additato come colpevole, è un appello-monito all’unità. E tradisce il timore che prevalga la voglia di sabotare la strategia renziana. Non a caso, l’intervento che il presidente del Consiglio ha fatto ieri è stato rivolto all’interno. Per definire il Pd «forza tranquilla»; per rivendicare soluzioni che dovrebbero avere tacitato la minoranza, soprattutto sulla legge elettorale; insomma, per far capire che riterrebbe incomprensibile una fronda sull’Italicum, «difficilmente migliorabile», nel Pd.È sempre più evidente che la priorità di Renzi nei prossimi giorni sarà di garantirsi la compattezza del proprio partito. Senza quella, risulterà più difficile piegare le resistenze di una Forza Italia in ebollizione; ed eleggere il presidente della Repubblica che vuole. E infatti, alcuni dei nomi emersi nelle ultime ore in mezzo a molti altri segnalano questo: l’intenzione di rassicurare gli avversari interni. Sono alcuni esponenti storici del Pd quelli da convincere: molto più dei Civati, dei Cuperlo e dei Fassina. Il «via libera» all’accordo con Fi non può non passare per il «placet» di quanti, dentro e fuori dal Parlamento, possono influire sui gruppi parlamentari.D’altronde, prima ancora della presidenza della Repubblica, nei prossimi dieci giorni sarà necessaria una marcia a tappe forzate per approvare legge elettorale e riforma del Senato. L’ostruzionismo strisciante minacciato da Fi, dalla Lega e dal M5S di Beppe Grillo può saldarsi con i malumori della minoranza del Pd. «Sarebbe allucinante bloccare il percorso di riforme per l’elezione del capo dello Stato. Abbiamo scelto il metodo del dialogo e sono convinto che il Pd non fallirà», ammonisce il premier. Ma occorreranno sedute notturne e una presenza senza distrazioni. L’incastro risulta complicato dall’ombra persistente del patto del Nazareno tra Renzi e Silvio Berlusconi. È riemersa anche ieri in alcuni interventi in direzione. Il pasticcio del decreto fiscale presentato e ritirato dal governo perché depenalizzerebbe uno dei reati per i quali è stato condannato il capo di FI, aleggia. Renzi ha ribadito la volontà di correggerlo solo dopo il 20 febbraio. Questo ripropone le domande sul perché voglia aspettare tanto. Gli oppositori del Movimento 5 Stelle continuano ad accusarlo di voler scambiare i voti berlusconiani sul capo dello Stato con una sorta di «grazia» surrettizia concessa da palazzo Chigi. Ma l’ombra del nulla di fatto della primavera del 2013, per Renzi, è più imbarazzante, per il Pd. Evocandola, Renzi confida di far passare in secondo piano il resto .

Corriere 17.11.15
Il sì dei dem al documento pro-Syriza

La Grecia e il partito della sinistra Syriza sono stati al centro di un ordine del giorno (approvato) alla direzione del Pd di ieri. Il testo, primo firmatario l’esponente della minoranza interna Stefano Fassina, chiede al Partito socialista europeo di aprire un confronto col partito guidato da Alexis Tsipras, favorito secondo i sondaggi alle Politiche del 25 gennaio. Nella mozione c’è poi un aspetto che impegna direttamente il Pd a chiedere al governo di Matteo Renzi di intervenire per evitare che nelle prossime elezioni ci siano «ingerenze» di altri Stati e «istituzioni europee e internazionali». Più si avvicina il momento del voto più aumentano le prese di posizione di esponenti della sinistra a sostegno della corsa di Syriza: ieri alla Camera è stata presentata la campagna «Cambia la Grecia cambia l’Europa» a favore — hanno spiegato i firmatari — «della libera scelta del popolo greco». Sono finora circa 1.400 le persone che hanno sottoscritto l’appello (nella foto Inside da destra Pippo Civati, deputato del Pd, e Nichi Vendola, presidente di Sel. Alle loro spalle il pd Stefano Fassina).

il Fatto 17.1.15
Viva Tsipras, dall’Italia parte la brigata Kalimera
Da Vendola a Civati, da Ferrero a Fassina: tutti in gita politica in Grecia per le elezioni in arrivo
Sognando di portare in Italia il successo di Syriza
Esperimento bis. Dopo le faide dentro la lista per le europee, tutte le componenti della sinistra radicale provano a ricompattarsi sempre in salsa ellenica
di Salvatore Cannavò


L’allegra brigata ha deciso di chiamarsi Kalimera. In greco significa “buongiorno” e il 25 gennaio, data delle elezioni che, secondo tutti i pronostici, vedranno Alexis Tsipras e la sua sinistra radicale al governo della Grecia, dovrebbe essere un buongiorno per tutti, in Grecia e in Europa. E così, i partiti della sinistra italiana, le associazioni, i singoli che si sono riconosciuti, alle scorse europee, nella “lista Tsipras”, hanno deciso di intraprendere un viaggio organizzato. Come spiega Raffaella Bolini, dell'Arci, tra le promotrici dell’iniziativa, alla conferenza stampa di presentazione, “pensavamo di essere una trentina e invece abbiamo già superato i 200”.
L’ALLEGRA BRIGATA è pronta a partire, quindi. Non siamo al racconto di Nanni Moretti nel film Bianca: “A un certo punto decidemmo di andare tutti in Portogallo – racconta il professore Michele Apicella – non ricordo perché, ah sì, per andare a vedere un colonnello. Si chiamava Otelo de Carvalho”. Era il 1974 e la rivoluzione era quella dei Garofani. Frotte di giovani italiani si recarono a Lisbona per sentirla da vicino. Lo faranno ancora con la Cina, affascinati da Mao e dal suo “sparate sul quartiere generale” tornando in Italia muniti del libretto rosso. Oggi, più sobriamente e con meno tumulti, si va ad Atene perché, come dice Luciana Castellina, “madre nobile” del viaggio, “si va a vedere una sinistra che vince”.
Tsipras, dunque, è il nuovo faro che illumina la via. “Faremo come in Russia”, si diceva a inizio del ‘900 sull’onda della rivoluzione d’Ottobre. Ora si punta a fare come in Grecia. L’allegra brigata è in effetti una coalizione multiforme, quasi poco assortita. Nella presentazione che si è svolta ieri alla Camera dei deputati, con la ritualità degli interventi uno dopo l’altro, si sono alternati Nichi Vendola e Paolo Ferrero, Pippo Civati e Antonio Ingroia, l’eurodeputata del Prc, eletta con la lista Tsipras, Eleonora Forenza ma anche il dissidente Pd Stefano Fassina. A tenerli insieme, per ora, c’è solo un viaggio e un’attrazione convinta per l’esperimento di Syriza in Grecia, “l’alternativa di governo” secondo Vendola o “la sinistra di governo” per Civati. La sua vittoria “rafforzerà i lavoratori” spiega Ferrero mentre Fassina vede nel 25 gennaio una “prova di democrazia contro le ingerenze europee”.
FIN QUI TUTTI D’ACCORDO. Ma la domanda che corre nella sala, e nelle attese di molte persone è sempre la stessa: riusciranno tutte queste componenti, personalità, rivoli di sinistra sparsa qua e là a dare corpo a una proposta politica in grado di stare nella battaglia italiana? ”. Di questo si discuterà nel fine settimana a Bologna dove la lista Tsipras si è data appuntamento per decidere cosa fare in futuro. Aprire a un processo costituente di una sinistra democratica oppure divenire un altro partitino della sinistra?
IL DIBATTITO PROSEGUIRÀ la prossima settimana, a Milano, dove Sel organizza la sua Human Factor, un dibattito a più voci che si pone il problema di un’altra sinistra. Fin qui le intenzioni. Poi, però, ci sono i problemi. Cosa farà la sinistra Pd insofferente a Renzi dipende, dicono in molti, da come si svolgerà la battaglia del Quirinale. Più a sinistra si scontano i rapporti mai appianati tra Sel e Rifondazione, figli della stessa storia politica eppure cugini arrabbiati gli uni con gli altri.
Meno esplicitato ma visibile, c’è un problema generazione, “una seconda fila di trenta-quarantenni che vorrebbe prendere in mano le sorti della sinistra” come dice uno dei partecipanti”. I partecipanti arriveranno in Grecia il 22 gennaio e poi, il 25 attenderanno i risultati. Quando torneranno dovranno dimostrare di essere davvero in grado di “fare come in Grecia”.

il Fatto 17.1.15
Il costituzionalista Alessandro Pace
“La manina di Renzi salva-B. è un reato di falso”
intervista di Silvia Truzzi


La gelida manina era quella del premier. Lo ha detto lui, in favore di telecamere, dopo che si erano fatti altri nomi, da quello del ministro Pier Carlo Padoan a quello del vice Luigi Casero. Ma la paternità di quell’articolo della delega fiscale che stabiliva la depenalizzazione di evasione e frode fiscale al di sotto della soglia del 3 per cento dell’imponibile (facendo una “cortesia” a Berlusconi e alle grandi banche) è più che sospetta. Lo spiega Alessandro Pace, professore emerito di diritto costituzionale alla Sapienza, che vede nell’inserimento di soppiatto dell’art. 19 bis nel testo (approvato dal Consiglio dei ministri il 24 dicembre) non uno sbaglio, ma un reato. Precisamente un falso materiale in atto pubblico, anzi un tentativo di falso, perché la norma è stata ritirata dopo che il Fatto aveva denunciato la cosa durante le vacanze di Natale. Intanto si affaccia un’altra grana, un altro falso (in bilancio), contenuto nel ddl anticorruzione. Aumentano le pene, ma resta intatta la norma berlusconiana che svuota il reato e non punisce chi falsifica il bilancio in misura inferiore del 5 per cento dell’utile d’impresa, o nella misura dell’1 per cento del patrimonio netto.
Professore, perché l’inserimento di soppiatto dell’art. 19 bis nella delega fiscale costituisce un reato?
Perché il presidente Renzi, pur ricoprendo la massima carica politica del nostro ordinamento costituzionale, ha usato un sotterfugio per far sì che una sua volizione “individuale” assumesse le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti.
Nel 2011 Berlusconi aveva fatto la stessa cosa nel decreto legge sulla manovra finanziaria, con il famoso comma pro-Fininvest, introdotto all’insaputa del ministro del Tesoro.
Esatto. Mentre Renzi, all’insaputa dei suoi ministri, ha tentato di contrabbandare un aiutino a Berlusconi per garantirsene l’appoggio nell’elezione del presidente della Repubblica e nelle riforme, Berlusconi, nel 2011, tentò, all’insaputa di Giulio Tremonti e dei ministri leghisti, di infilare, in un decreto sulla manovra finanziaria, una norma a suo beneficio personale consistente nel ritardare di 5 o 6 anni il pagamento del debito della Fininvest alla Cir. Scrissi a tal proposito un articolo su Repubblica per denunciare la gravità del fatto ma non si mosse foglia…
Lei ha invocato una commissione d’inchiesta, dicendo che se non si farà luce, la responsabilità politica e giuridica ricadrà interamente su Renzi. Eppure sembra che nemmeno voglia riferire alle Camere.
Esatto, io suggerii l’istituzione di una commissione ministeriale d’inchiesta quando ancora Renzi si proclamava innocente. Ritenevo infatti doverosa l’individuazione della “manina” e che si ponesse fine all’indecoroso balletto dei possibili responsabili del fatto (il ministro Padoan, il viceministro Casero, la responsabile degli Affari legislativi Manzione ecc.). Quando apparve il mio commento, l’8 gennaio, ebbi la sorpresa di leggere in altri articoli che Renzi aveva tranquillamente ammesso di esser stato lui l’autore dell’art. 19 bis della delega fiscale. Lo ha poi ribadito la sera del giorno dopo nell’ intervista di Lilli Gruber a Otto e mezzo. Né Renzi né la Gruber accennarono alla manina, con il che, agli occhi dei telespettatori, sembrò che tutto fosse rientrato nella normalità. Il che non è affatto vero: si tratta di una gravissima violazione delle nostre istituzioni democratiche secondo le quali la formazione delle decisioni legislative dovrebbe avvenire nel dibattito e nella trasparenza. Infatti se il presidente Renzi ha usato un tale sotterfugio, ciò lo si può spiegare o perché voleva che l’aiutino a Berlusconi venisse conosciuto il più tardi possibile oppure perché considera i suoi ministri e le sue ministre succubi alle sue decisioni, e quindi fargliele formalmente approvare o meno, il risultato sarebbe lo stesso. Il che non è meno grave e solleva ulteriori perplessità sulle finalità delle riforme costituzionali che Renzi ha in mente.
Lei ha scritto che “negli Stati Uniti sarebbe stato addirittura chiesto l’impeachment del Presidente Obama”. Pensa che Renzi dovrebbe dimettersi?
Renzi è nato a Firenze mentre Obama è nato negli Stati Uniti, dove il retaggio del puritanesimo è ancora vivo. Non si dimentichi a tal riguardo che, per gli americani, la menzogna costituisce il più grave reato che un presidente della Repubblica possa compiere. Si pensi al caso Clinton-Lewinski. Le dimissioni di Renzi sono l’ultima cosa al mondo che augurerei all’Italia in questo momento. Riterrei invece necessario un dibattito dinanzi a una delle Camere, magari a seguito di una mozione di censura, non di sfiducia, perché porcherie del genere non abbiano più a ripetersi.
Il Parlamento è ormai totalmente svuotato della sua principale funzione, quella legislativa. Da tempo legiferano i governi, o per delega o con i decreti: una grave alterazione del principio di separazione dei poteri.
Purtroppo è così. Ma quel che è peggio è che se dovessero essere approvati sia l’Italicum che la riforma costituzionale, lo svuotamento della funzione legislativa del Parlamento, che ora è patologico, diverrebbe fisiologico.

il Fatto 17.1.15
Turboriforme
Il falso in bilancio ora è impossibile
di Bruno Tinti

magistrato

Ma perché nessuno glielo dice Renzi che il suo ministro della Giustizia di Giustizia non capisce niente? Ha senso assumersi orgogliosamente la paternità degli inciuci? Per di più affrontando con superba faciloneria questioni tecni che di cui sfuggono signifi cato e conseguenze. Prendiamo l’ultima schifezza, il falso in bilancio rive duto, corretto e rimasto tale quale. Orlando e Renzi lo sanno cosa sono le soglie di punibilità e a che servono Evidentemente no, però – se hanno pazienza – leggendo qui lo possono capire. Queste soglie nascono nel 1982, con i reati tributari: so no talmente tanti che è im possibile celebrare tutti i pro cessi. Attenzione, tutti i pro cessi per i reati che si sco prono; che sono una piccola parte (il 10%) di quelli che si commettono. Sicché si deci de di alleggerire lo strumento penale: sarà utilizzato solo per le evasioni più rilevanti quelle al di sopra di una certa “soglia” (fissa, uguale per tut ti, non percentuale) ; per quelle più piccole, sotto la “soglia”, se ne occuper l’Agenzia delle Entrate che oltre a riscuotere le imposte dovute, irrogherà sanzioni amministrative, le multe. Il sistema dunque sanziona tutta l’evasione fiscale (sco perta): parte con la Giustizia penale e parte con quella am ministrativa. Ma le “soglie fantasiosamente immaginate dall’avv. Ghedini in Tribuna le a Milano, mentre difende va B. imputato di falso in bi lancio, respinte con perdite perché non previste dalla leg ge, quindi introdotte con leg ge dallo stesso B., oggi ripro poste dal duo dinamico, sem plicemente depenalizzano questo reato. In altre parole se la posta falsificata è infe riore al 5% del risultato di esercizio, o all’1% del patri monio netto, il bilancio è fal so sì; ma è un falso lecito; nes suna sanzione, penale o am ministrativa è prevista.
LA COSA più assurda è che tanto più è ricco il falsifica tore, tanto più è elevato il fal so; ma, purché inferiore alle soglie, non costituisce reato Invece un piccolo falsificato re, che però superi le soglie lui sì che può essere condan nato. Orlando e Renzi non lo sanno (ma Renzi dovrebbe, laureato in Legge, ha studiato Diritto penale) ma stanno ap plicando a rovescio una vi tuperata teoria giuridica na zista: la colpa d’autore (Tater schuld). Secondo questa teo ria ciò che merita punizione non è tanto il delitto ma il modo di essere di chi lo ha commesso: si punisce qual cuno perché è molto cattivo indipendentemente dalla gravità del reato. Ovviamente è un’aberrazione: la legge punisce il reato in funzione della sua gravità; e prevede una pena variabile tra un minimo e un massimo; entro questi limiti si tiene conto della personalità del reo e si determina la misura della pena, più o meno alta. Con le soglie previste da Orlando (e prima ancora e non a caso da B) succede che, quanto più è ricca una persona, tanto meno è meritevole di pena. Sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere.
La riforma copia carbone ha mantenuto la procedibilità a querela: vuol dire che non si può procedere (tranne si tratti di società quotate) anche per un falso gravissimo, se i soci della società o i creditori non sporgono querela.
I SOCI: avete mai visto un ladro che si autodenuncia? I soci che non fanno parte del Consiglio di Amministrazione e che nulla sanno della gestione della società; e i creditori: come fanno a sapere che il bilancio è falso? Magari lo scoprono dopo un anno o due: con una prescrizione di 7 anni e mezzo, meglio che risparmino i soldi dell’avvocato, non ce la faranno mai.
Soprattutto il falso in bilancio riformato (!) mantiene la natura (inventata da Ghedini, lui sa benissimo ciò che fa) di reato di danno: occorre, perché sia reato, che il falso abbia cagionato un danno ai soci o ai creditori. Che siano danneggiati i soci che lo hanno fatto è da escludere: il falso gli serviva per procurarsi un vantaggio: ottenere finanziamenti, distribuire dividendi, pagare meno imposte. Restano i soci eventualmente fregati e i creditori. Ma siamo sempre lì: chi glielo dice che il bilancio è falso? E quando se ne accorgono?
Insomma: avrà qualche significato il fatto che, dal 2000 (legge Ghedini/B), di processi per falso in bilancio non se ne sono fatti più? Questa è la non contestabile dimostrazione che una legge del genere di fatto lo depenalizza.
E, TANTO per concludere con un’ovvietà: il falso in bilancio è la mamma di tutti i reati contro l’economia. Procura i soldi “neri” per pagare la corruzione e il voto di scambio; e senza di lui non si può commettere evasione fiscale. Stando così le cose, le vanterie di Orlando (l’avevamo previsto proprio così, siamo noi che lo vogliamo così) equivalgono a spararsi in un piede. Se proprio devi fare le porcate, falle di nascosto e spera che non ti scoprano. Ma forse hanno ragione loro. Forse alla gggente di tutto ciò non gliene importa nulla: sperano solo che, un giorno, un bel falso in bilancio capiti di farlo anche a loro.

il Fatto 17.1.15
Il papà di Renzi ora rischia anche la truffa
Dopo l’inchiesta che lo vede indagato per bancarotta, avviate nuove indagini sul mutuo insoluto pagato dallo Stato
di Davide Vecchi


Dal papà all’amico. La vicenda del mutuo insoluto della società Chil Post di Tiziano Renzi, rimborsato dallo Stato attraverso presunti illeciti compiuti dal padre del premier, ora coinvolge direttamente la banca che ha ricevuto il versamento. Gli accertamenti degli inquirenti della Procura di Genova, che hanno indagato il padre del premier per bancarotta fraudolenta per il fallimento della Chil Post, e quelli dei dirigenti della finanziaria della Regione Toscana si concentrano sul credito cooperativo di Pontassieve. I primi stanno valutando il possibile reato di truffa ai danni dello Stato, i secondi per approfondire eventuali omissioni e individuare quindi dei possibili responsabili da cui farsi eventualmente rimborsare il danno per i 263 mila euro elargiti da Fidi Toscana, la controllata dalla Regione.
DOPO L’INTERVENTO di due giorni fa del governatore Enrico Rossi, che ha annunciato al Fatto la volontà di approfondire se ci sono state delle responsabilità da parte dei familiari del premier annunciando le necessarie denuncie agli organi competenti, Fidi Toscana ieri ha avanzato richiesta formale alla banca di Pontassieve a fornire l’intera documentazione relativa al mutuo concesso alla Chil Post. La finanziaria controllata per il 49% dalla Regione, infatti, potrebbe rivalersi sull’istituto di credito: secondo il regolamento sottoscritto al momento della richiesta di garanzia avanzata dalla madre del premier, Laura Bo-voli, e dalle sorelle Benedetta e Matilde, la banca era obbligata a comunicare ogni variazione societaria, così come le titolari. Ma a Fidi Toscana, confermano al Fatto i vertici, il credito di Pontassieve ha comunicato solamente il cambio di nome di società da Chil a Chil Post. Non una riga sulla cessione di beni e servizi per due milioni di euro, quella che i pm di Genova ritengono la parte sana della società, né del cambio di sede e di proprietà. Informazioni fondamentali che, stando a quanto ammette Fidi Toscana, sono state trasmesse solo dopo la dichiarazione di fallimento nel 2011. A guidare la banca oggi è Matteo Spanò, un fedelissimo del Presidente del Consiglio dai tempi della Provincia di Firenze.
Cresciuti insieme negli scout, fin dai lupetti, Spanò guida anche il Museo dei Ragazzi controllato da Palazzo Vecchio, nominato per espresso desiderio di Renzi. Che lo aveva già insediato a capo della Florence Multimedia, società creata ad hoc nel 2004 dal non ancora rottamatore ma giovane presidente della Provincia e poi finita all’attenzione della Corte dei Conti per 9,2 milioni di euro spesi tra il 2006 e il 2009. Tra cui ci sono fatture pagate alla Dotmedia, impresa privata di Spanò. Alla Dotmedia, società che fino al 2012 è stata tra i fornitori del Comune di Firenze, sono finite anche alcune commesse dirette affidate dal Museo dei Ragazzi. Presieduto, come detto, sempre da Spanò. Un dato: Dotmedia è passata da 9 mila euro di fatturazione del 2008 ai 401 mila del 2011. Socio di Spanò era Andrea Conticini allo stesso tempo socio della Eventi 6, la società della famiglia Renzi: amministrata dalle sorelle Matilde e Benedetta, che ne detengono il 36 per cento ciascuna, insieme alla madre, Laura Bovoli, che ha l’8 per cento. Il restante 20 per cento era in mano a Conticini, marito di Matilde. Spanò dunque, è per Renzi un uomo di fiducia e di famiglia.
LA EVENTI 6 però è anche la società a cui la Chil Post cede la parte sana prima di fallire. E su questa si è concentrata l’inchiesta degli inquirenti liguri. Magistrati che, a quanto si apprende, nei mesi scorsi erano già arrivati a individuare il giro di fondi ricevuti da Fidi Toscana e hanno già acquisito la documentazione necessaria attraverso gli uomini della Guardia di Finanza che sequestrarono il materiale presso gli uffici dell’istituto di credito lo scorso settembre. L’ipotesi investigativa a carico di Tiziano Renzi è quella della truffa ai danni dello Stato.

La Stampa 17.1.15
Caos primarie in Liguria. E Cofferati durissimo ora può strappare
Annullati 4mila voti, per Renzi tutto ok: “In bocca al lupo a Paita”
Il Cinese: “Non finisce qui. La mia avversaria potrei querelarla”
Orfini: enorme problema politico
di Jacopo Iacoboni

qui

La Stampa 17.1.15
Le primarie hanno perso credibilità
di Federico Geremicca


Le primarie del Pd ligure sarebbero dunque regolari. Meglio: più o meno regolari. Questa è la decisione dei garanti (chiamiamoli pure i giudici) del Partito democratico ligure. Più o meno regolari, dicevamo, perché qualche broglio c’è stato: ma non di dimensioni tali da imporre l’annullamento della competizione (come chiesto da Sergio Cofferati, il contendente sconfitto). Un equilibrismo sufficientemente ipocrita da ricordare – e nemmeno da tanto lontano – il famoso «sì, è incinta: ma solo un po»...
Le famigerate primarie napoletane (anche lì cinesi ed etnie varie in fila per votare candidati sconosciuti in cambio di promesse o addirittura quattrini) furono azzerate per molto meno.
Come se irregolarità e brogli aumentassero di gravità a seconda della latitudine... A Napoli poi finì con la vittoria e l’elezione di De Magistris, a Genova vedremo. Ma le primarie, così fortemente volute dai democratici, vanno confermandosi un boomerang micidiale: quelle emiliane, sulle quali si abbatterono gli avvisi di garanzia per due dei candidati in campo (Richetti e Bonaccini) fecero da preludio ad una così bassa partecipazione al voto che non sembrava addirittura possibile si trattasse della civile, «rossa» e impegnata Emilia Romagna.
Ieri, tra un passaggio e l’altro del suo intervento in direzione, Matteo Renzi ha detto che bisogna ragionare attorno all’uso di questo strumento: strutturarlo e dargli regole che lo mettano al riparo, insomma, da inquinamenti che solo per carità di patria qualcuno ancora definisce «incidenti di percorso». Effettivamente: sarebbe l’ora. Si faccia una legge e si fissino le regole indispensabili a renderle uno strumento credibile agli occhi dei cittadini e di chi intenda ricorrervi (magari senza provare a inventare la solita «via italiana», ma attingendo a esperienze già ben collaudate).
In un clima così pesantemente avvelenato – e ormai quasi più all’interno dei partiti che tra gli elettori... – certi giochini diventano, per altro, oltremodo rischiosi: è rischioso, per esempio, continuare a presentare le primarie come strumento di democrazia e selezione delle candidature e della classe dirigente, quando tale selezione troppo spesso si rivela il prodotto di irregolarità, quando non peggio. Ne va, ormai, della credibilità del Pd e del suo leader. Matteo Renzi ha fatto delle primarie il suo miglior cavallo di battaglia, e grazie a esse ora prova a «cambiar verso» all’Italia. Lavoro difficile. Magari è più semplice provare a «cambiar verso» alle primarie. Nei ritagli di tempo, ci provi: renderebbe un servizio non solo al suo partito, ma anche alla traballante democrazia italiana.

il Fatto 17.1.15
La Paita incoronata
Liguria, il Pd ignora i brogli Cofferati pronto allo strappo: “Mi candido”
Genova: “Cofferati dirà addio al Pd, ma correrà lo stesso”
Il premier, nonostante mafiosi e cinesi, ha decretato lka vittoria della Paita
di Ferruccio Sansa


Genova Sergio Cofferati lascerà il Pd”. Parola di uno dei suoi amici più cari, uno che lo ha seguito in tante battaglie, fino alle contestate primarie liguri. Ormai è deciso? “Stanotte (ieri per chi legge, ndr) potrebbero chiarmarlo Renzi, Bersani o Napolitano. Ma non vedo margini”. Ipotesi che sembrano confermate dalle parole di Luca Pastorino, deputato genovese vicinissimo a Cofferati: “Non è solo la questione etica del voto inquinato. Oggi abbiamo avuto la prova definitiva della metamorfosi del Pd in partito di larghe intese. Abbiamo sentito cosa ha detto Renzi. Io sono pronto a tentare una nuova esperienza di sinistra”. Fuori dal Pd. Cofferati, oltre a dimettersi, sarebbe pronto a lanciare una lista per le regionali liguri, magari con un candidato nuovo.
SI GIOCA TUTTO in queste ore, ma la strada ieri sera sembrava imboccata. Inutile il tentativo di mediazione di Lorenzo Guerini. Il Pd potrebbe perdere l’uomo che portò due milioni di persone al Circo Massimo.
Ieri la direzione nazionale ha messo il sigillo sull’esito delle primarie di domenica scorsa in Liguria: vince Raffaella Paita e perde Sergio Cofferati. Con tanto di benedizione di Matteo Renzi: “In bocca al lupo a Paita, la commissione di garanzia ha verificato i risultati ed è la vincitrice delle primarie. Il Pd non solo è l’unico che fa le Primarie, ma ha anche una commissione di garanzia che risponde e verifica. Con Paita ora ci deve essere tutto il partito per vincere la sfida del prossimo maggio”.
Difficile sapere se il premier-segretario non fosse a conoscenza delle intenzioni di Cofferati o se abbia deciso di ignorarle.
Ieri la commissione dei garanti ha dato il suo responso definitivo, provando a dare un colpo al cerchio e uno alla botte: annullato il voto in 13 seggi, cancellati 3.661 voti (2.204 per Paita e 1.457 per Cofferati). Il divario tra i due si riduce così a tremila preferenze, ma Paita vince comunque. Tante ombre, però, restano: “Nei seggi contestati hanno cancellato tutti i voti, quelli sospetti e quelli validi. Questo ci ha penalizzato ulteriormente, perché spesso le contestazioni riguardavano Paita”, sostiene Andrea Ranieri, da sempre vicino a Cofferati. Ancora: nessuno nel Pd ha sollevato la questione che Fernanda Contri, presidente dei Garanti, ha ottenuto incarichi dal Porto di Genova guidato da Luigi Merlo, marito di Paita. Fino al nodo più spinoso: tra i seggi annullati non risultano, per dire, quelli di Albenga e Genova Certosa. Del primo si sta occupando la procura di Savona (cui si è rivolto anche il segretario provinciale Pd). Ad Albenga Paita ha sfiorato il 90%, con oltre mille voti di scarto su 1.500. Un bottino che, se cancellato, avrebbe ridotto di molto il divario. Secondo gli stessi dirigenti Pd, avrebbero pesato moltissimo gli elettori di centrodestra portati al seggio da Roberto Shneck, ex vice-sindaco di Forza Italia e sostenitore di Paita. Shneck, che viene dato tra i papabili nella futura squadra della governatrice in pectore, sarebbe stato in grado di convogliare fino a 600 preferenze nella sola Albenga. Senza contare i comuni vicini.
C’è poi il caso di Certosa. Nel quartiere della periferia di Genova, secondo il presidente di seggio, sarebbero arrivati decine di anziani (tutti siciliani) che nemmeno sapevano per cosa erano chiamati a votare. Dell’accaduto si sono interessati lo Sco dei carabinieri, la Digos e la Direzione Distrettuale Antimafia. Gli investigatori - che da anni indagano su infiltrazioni mafiose a Certosa - si sono presentati nella sede del Pd per chiedere l’elenco dei votanti.
Ma Renzi tira dritto e aggiunge: “Dov’è successo un casino, ci sono stati problemi, abbiamo trovato una soluzione. Ora per cortesia” bisogna “smetterla” di “fare i ‘tafazzi’”. Quanto, però, le acque siano agitate nel Pd lo si è visto ieri durante la direzione nazionale. Nonostante il sostegno a spada tratta di Paita da parte del ministro Roberta Pi-notti e l’autodifesa della candidata: “Le primarie sono state importanti e con un’alta partecipazione” e sono avvenute “in un contesto di assoluta correttezza. Il risultato è stato sancito da una commissione di garanzia”, assicura Paita.
MA LE VOCI critiche sono molte: “Questa storia non può essere archiviata facendo le congratulazioni alla vincitrice... ci sono state irregolarità in 13 seggi e la magistratura indaga in due seggi: è un problema più rilevante di quello emerso a Napoli”, ha avvertito Stefano Fassina della minoranza Pd. Ranieri aggiunge: “A Napoli le primarie erano state annullate per irregolarità molto minori di quelle liguri. Paita non può essere candidata dopo quello che è successo. Stiamo attenti perché così perderemo metà dei nostri elettori”. Ma il Pd prima di tutto rischia di perdere Sergio Cofferati.

Corriere 17.1.15
La mossa di Migliore e quei gazebo appesi al groviglio campano


Primarie - La serie. Chi volesse far concorrenza a Gomorra in tv con un giallo d’autore ha già il copione scritto. Invece di recidere il nodo gordiano di quelle Campane, infatti, il Pd è finito in uno «gliommero» gaddiano, in un groviglio inestricabile, in un pasticcio assoluto. L’ultimo atto? Gennaro Migliore, ex delfino di Vendola passato dal pessimismocosmico di Sel all’ottimismo strategicodi Renzi, è pronto a candidarsi per le Regionali. E se per fare questo deve sottoporsi al rito delle primarie, che si facciano! «Io non ho paura» dice, pur sapendo di dover fare i conti con due campioni del consenso: l’ex bassoliniano Andrea Cozzolino, più volte assessore regionale e ora deputato europeo e Vincenzo De Luca, sindaco di Salernoda una vita e, nel frattempo, anche viceministro nel governo Letta. Marinviate già due volte, e ora fissate peril primo giorno di febbraio, non è dettoche le primarie campane si facciano davvero. Lo scontro è bipolare: da unaparte i renziani, che non le vogliono; dall’altro gli eterni rivali: Cozzolino e De Luca, divisi su tutto, ma uniti dalla vogliadi vedere di quante truppe sia capace Migliore. Guarda caso, però, proprioora i microalleati del Pd chiedono altro tempo per nuove candidature; e poici sono da considerare le elezioni per il presidente della Repubblica: impossibile sovrapporle alle primarie. Dunque? Che dubbio c’è: nuovo rinvio e lo spettacolo continua.
Ma lo «gliommero» è logico prima ancora che politico. Se Cozzolino è «indigesto», perché il Pd lo ha presentato alle Europee?
E se De Luca è un ostacolo all’innovazione, come mai è sempre in prima fila? Eppoi: i renziani di Migliore fanno sapere che mai e poi mai accetteranno voti di destra: il riferimento è a Vincenzo D’Anna, vicino a Cosentino, l’ex berlusconiano ora sotto processo, che ha raccontato di essersi incontrato sia con Cozzolino sia con De Luca. Eppure, i renziani sono quelli che in Liguria hanno invece accettato i voti degli scajoliani a Raffaella Paita. La cui vittoria, dopo le accuse di brogli lanciate da Cofferati, è stata decretata annullando solo 13 seggi. A Napoli, nel 2011, quando ad accusare fu invece Umberto Ranieri, l’annullamento non fu parziale ma totale. Trovare un bandolo?
È una parola.

il Fatto 17.1.15
Anpi, nuovo appello contro Italicum e riforme

L’ANPI (l’associazione nazionale dei partigiani d’Italia) ribadisce il proprio appello a parlamentari, a partiti e cittadini affinchè non proseguano sul piano inclinato dell’Italicum e delle riforme, attualmente all’attenzione delle Camere.
“Una legge elettorale che consente di formare una Camera con quasi i due terzi di ‘nominati’, non restituisce la parola ai cittadini, né garantisce la rappresentanza piena cui hanno diritto per norme costituzionali”.
“Quanto al Senato, l’esercizio della sovranità popolare presuppone una vera rappresentanza dei cittadini fondata su una vera elettività”. “Ai partiti - concludono -compete di adottare misure idonee a rafforzare la democrazia, la rappresentanza e la partecipazione anziché ridurne gli spazi. Ai cittadini compete di uscire dal rassegnato silenzio, dal conformismo, dalla indifferenza e far sentire la propria voce“.

La Stampa 17.1.15
La corte penale dell’Aja apre indagine preliminare su eventuali crimini di guerra d’Israele in Palestina
L’ira del ministro degli Esteri Liberman: «Una decisione scandalosa»

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il Fatto 17.1.15
Crimini di guerra: indagine Onu su Israele e Palestina
La Corte penale internazionale dell’Aja apre un fascicolo
La Palestina punta a ottenere il deferimento di Israele per l’offensiva a Gaza della scorsa estate
Lira di Liebermann
di Giampiero Gramaglia


La Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja ha avviato un’indagine preliminare sulla “situazione” in Palestina: obiettivo, verificare se vi siano stati commessi “crimini di guerra”, da parte delle forze armate israeliane o di fazioni armate palestinesi. L’esame potrebbe sfociare in un’inchiesta su larga scala. Il procuratore capo della Cpi Fatou Bensouda, una giurista del Gambia, 54 anni, in carica dal 2012, ha annunciato, in una nota, che condurrà la sua indagine in “piena indipendenza e con imparzialità”. La Bensouda si rende ben conto che, con la sua iniziativa, la Corte diventa protagonista del conflitto politicamente più delicato che abbia mai affrontato: le reazioni israeliane e palestinesi non si sono fatte attendere. L’avvio dell’indagine segue di pochi giorni l’ammissione della Palestina alla Cpi. L’Autorità nazionale palestinese aveva presentato domanda di adesione il 31 dicembre, subito dopo che, il 30, una risoluzione che chiedeva la fine dell’occupazione israeliana in Cisgiordania entro tre anni non era stata approvata dal Consiglio di Sicurezza Onu, ottenendo solo 8 voti favorevoli – ce ne vogliono 9–, con 5 astensioni e i no di Usa – comunque determinante, per il diritto di veto – e Australia.
IL 7 GENNAIO, il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon aveva indicato che l’Anp diventerà membro della Corte il 1° aprile, riconoscendone la giurisdizione da luglio scorso, cioè da prima dell’ultima cruenta offensiva israeliana nella Striscia di Gaza.
I palestinesi puntano a ottenere il deferimento d’Israele alla Cpi per i crimini commessi la scorsa estate: un altro tassello di una strategia studiata per esercitare pressioni sullo Stato ebraico e uscire dall'impasse nei negoziati di pace. Anche se nessuno sull’illude che qualcosa possa muoversi, prima delle elezioni politiche israeliane. Israele ha immediatamente bollato come “scandalosa” l’iniziativa della Bensouda: l’unico scopo sarebbe quello di “tentare di danneggiare il diritto di Israele di difendersi dal terrorismo”, sostiene il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, per il quale la decisione è “unicamente motivata da considerazioni politiche anti-israeliane”.
Il ministro degli Esteri palestinese Riad Malki ha invece commentato con favore l’annuncio, dicendo che l’Autorità presterà la sua collaborazione. Ieri, l’Onu ha pubblicato dati agghiaccianti sulla situazione nel Territori, dove, 5 mesi dopo, “il cessate-il-fuoco tra Israele e Palestina resta pericolosamente fragile e la violenza continua in Cisgiordania e a Gerusalemme Est”. Nel 2014, i palestinesi uccisi nei Territori dalle forze di sicurezza israeliane sono stati 54 e 5.800 i feriti – il bilancio più tragico dal 2005 – senza contare, ovviamente, le vittime dell’offensiva di Gaza, dove la situazione starebbe di nuovo deteriorandosi. Nello stesso periodo, gli attacchi palestinesi hanno provocato 15 vittime israeliane e circa 270 feriti. Se l’indagine preliminare sfociasse in un’inchiesta, Israele potrebbe essere accusato di crimini di guerra e pure gli insediamenti israeliani in territorio palestinese potrebbero essere messi in discussione. Stessa sorte potrebbe toccare ad Hamas, per il lancio di migliaia di razzi su aree residenziali.

La Stampa 17.1.15
Israele, i laburisti sentono profumo di vittoria
Il fronte di centrosinistra, formato dai laburisti di Isaac Herzog e dal partito ’Hatnua’ di Tizpi Livni, in testa ai sondaggi che indicano una crescente attenzione per i temi sociali ed economici
di Maurizio Molinari

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La Stampa 17.1.15
Marò, il governo indiano giudica “inopportuna la risoluzione della Ue”
Polemiche sulla decisione del Parlamento europeo che auspica che il giudizio su Latorre e Girone sia affidato alla giurisdizione italiana o tramite un arbitrato internazionale

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il Fatto 17.1.15
Fine mandato
La felicità al potere secondo Pepe
di José “Pepe” Mujica


Il movimento sindacale, le idee socialiste, anarchiche e comuniste, ancor più tutte le idee di progresso, hanno le loro radici in Europa. È nel vostro continente che sono nati i primi grandi movimenti popolari, i principali propositi di cambiamento sociale. Per questo motivo continua a sembrarmi curioso che un militante sociale di un piccolo Paese sudamericano susciti tanta attenzione, fino a diventare il protagonista del libro di una importante casa editrice, Eir, che raccoglie la tradizione della sinistra del passato e vanta fra i suoi autori prestigiosi nomi della sinistra del presente.
Forse il motivo si può trovare nella realtà attuale dell’America Latina, nei cambiamenti sociali che hanno portato al governo molti movimenti di sinistra (...) È però legittimo domandarsi se non ci sia dell’altro. Perché quel movimento operaio e della sinistra europea, che è stato per tanti anni all'avanguardia, guarda ora con tanta attenzione ai passi difficili e spesso contraddittori che noi latino-americani facciamo, in cerca del nostro progresso sociale e di una vita più degna e solidale per la nostra gente? Sarà solo per la ricchezza che trovate da queste parti, o non sarà forse per una certa perdita di punti di riferimento nelle vostre proprie ricerche? Perché diventa un personaggio interessante uno come me, che non è altro che un vecchio militante, che ha commesso molti errori e patito molte sconfitte, al di là di quello che è sempre stato l’obiettivo principale: conquistare una vita migliore per i suoi compatrioti? Perché suscita tanta attenzione il fatto che qualcuno difenda la politica come una passione superiore e pretenda che i governanti diano ai loro popoli un esempio di vita sobria e vicina a quella della maggioranza?
Perché fa scalpore che qualcuno lanci l’allarme contro il crescente discredito che, per mancanza di questo esempio, i politici e la politica stanno soffrendo in molti Paesi? Perché sorprende che un Presidente allerti il mondo contro la folle corsa al consumo sfrenato e contro lo spreco, la crisi di governo globale, le gravi minacce all'ambiente, la debolezza delle politiche nell’affrontare la fame e la miseria che ancora patiscono milioni di esseri umani?
In realtà credo che tutto questo susciti attenzione non tanto per il merito di chi propone questi temi, quanto per l’assenza di altre idee, di altre proposte e di altri esempi.
Già da molti anni, ormai, noi che cerchiamo ispirazione per la nostra azione sociale e politica, che vorremmo nutrirci dell'esperienza di coloro che sono già passati per i nostri drammi, non troviamo in Europa quel che sempre vi avevamo trovato in passato.
TALVOLTA rattrista sentir parlare persone destinate ad altissime responsabilità, che rappresentano Paesi con una profonda tradizione culturale, e verificare una totale mancanza di idee, di lungimiranza, di capacità di comprendere pienamente il mondo in cui vivono, a volte dotate persino di una dubbia caratura morale.
La sinistra, il movimento popolare, gli intellettuali europei, hanno un enorme debito pendente nei confronti dei militanti di tutto il mondo. In quale altro luogo esiste tanta intelligenza accumulata, a livello d'economia, di ricerca sociologica, di politica e di movimenti sociali, come in Europa? Quali altri Paesi possono essere laboratori migliori per avanzare nella generazione di altre forme di produzione, di altre forme di convivenza che superino lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo? Quali altri Paesi possono essere migliori di quelli in cui lo sviluppo economico e sociale ha raggiunto livelli tanto alti come nella maggior parte dei Paesi d’Europa? Noi stiamo provando a fare la nostra parte, cerchiamo il nostro cammino, a volte centriamo il bersaglio, altre volte commettiamo errori, ma abbiamo bisogno delle vostre idee, del vostro impegno, del vostro desiderio di cambiare le condizioni materiali e ideali di vita di questa umanità.
Non potete rifuggire questo impegno, dovete assumere la sfida, pensare, lottare, provare e anche sbagliarvi, ma con lo sguardo rivolto a migliorare la vita dei vostri popoli, a superare questo sistema e questo modello di società, che deve essere cambiato prima che conduca tutti alla catastrofe.

Corriere 17.1.15
Si decide sui matrimoni gay

Sarà la Corte Suprema degli Stati Uniti a decidere se le coppie omosessuali potranno sposarsi negli Usa. Dalla decisione storica, che sarà annunciata entro fine giugno, dipenderà se sarà abolito il divieto di nozze gay ancora in vigore in 14 Stati americani. Due i quesiti: se permettere alle coppie dello stesso sesso di sposarsi e se riconoscere i matrimoni gay contratti in altri Stati.

Corriere 17.1.15
17 gennaio 1945: l’Armata Rossa libera la capitale polacca
Varsavia, 70 anni fa la liberazione dall’occupazione nazista
Le foto

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il Fatto 17.1.15
Rivelazioni
Il Dottor Zivago, la guerra della Cia a colpi di romanzo
di Nanni Delbecchi


Non c’è capolavoro della letteratura del Novecento più avventuroso del Dottor Zivago, non solo per quanto narrato da Boris Pasternak, ma anche per il modo in cui quelle pagine arrivarono tra le mani dei lettori occidentali, un intrigo che sembra uscito piuttosto da un romanzo di Le Carrè. Dopo la pubblicazione del libro The Zivago affair di Petra Couvée e Peter Finn avvenuta l’anno scorso negli Stati Uniti, ora la Cia ha messo a disposizione i documenti che permettono di ricostruire nel dettaglio l’operazione di propaganda indiretta di cui fu artefice.
Siamo nel pieno della Guerra fredda, quando Giangiacomo Feltrinelli a dispetto delle sue simpatie comuniste sfida le ire del Partito comunista sovietico e pubblica Zivago in prima edizione mondiale nel novembre 1957. La denuncia di un regime capace di purgare perfino i sentimenti fu un successo immediato, travolgente e per certi versi scioccante.
ZIVAGO era (e rimane) la più perfetta antitesi della retorica imposta dal realismo socialista, e soprattutto lo è in forma struggente, la prova che la nemica mortale di ogni ideologia è la poesia. Raramente letteratura e politica si erano fuse una all’insaputa dell’altra, quasi in reciproco dispregio; e tutto questo non sfuggì alla Cia.
Bisognava fare il possibile per sostenere la candidatura al Nobel di questo autore straordinario ma censurato e costretto all’isolamento nel suo Paese, e l’occasione si presentò con l’Expo di Bruxelles del 1958, uno dei rari eventi ai quali aveva l’opportunità di essere presente un gran numero di cittadini sovietici.
La Cia fece stampare in gran segreto la prima edizione russa del romanzo con l’intento di farle avere ai 15 mila visitatori attesi dall’Unione Sovietica; e siccome distribuirle attraverso il padiglione americano sarebbe stato un affronto troppo plateale, chiese aiuto al Vaticano che consentì di distribuire il Dottor Zivago ai russi cristiani che avrebbero frequentato il suo padiglione alla fiera mondiale.
IN POCHE ore le copie erano andate a ruba, e a quel punto le stampe clandestine si moltiplicarono: l'editore olandese Mouton pubblicò 10 mila copie dell’edizione russa che raggiunsero le principali città europee con invii mirati a quanti stavano per recarsi in Unione Sovietica. Come noto, lo zampino della Cia fu decisivo anche nell’assegnazione a Pasternak del Premio Nobel proprio in quel 1958. Il regolamento dell’Accademia Svedese imponeva che le opere del vincitore fossero pubblicate nella lingua materna dell'autore, e a questo scopo un gruppo di agenti riuscì a intercettare un manoscritto originale in lingua russa che poi, fotografato pagina per pagina, fu pubblicato su carta, intestazione e con le tecniche tipografiche tipiche delle edizioni russe. Pasternak non poté andare a Stoccolma a ritirare il Nobel, consapevole che non gli sarebbe più consentito di tornare in patria, ma il suo unico romanzo entrò nella leggenda; e come se non bastasse, il Dottor Zivago si era dimostrato meglio di James Bond.

il Fatto 17.1.15
Guercino e l’intelligenza del collezionista Mahon
La mostra sul Seicento italiano allestita a Palazzo Barberini
Un omaggio agli artisti, ma anche a chi ci aveva visto giusto
di Claudia Colasanti


Dietro le quinte di uno sfoggio ineguagliabile di opere del Seicento italiano, sobriamente allestito a Palazzo Barberini – una parata di capolavori che lascia senza fiato – si rivela la presenza silenziosa ma sostanziale di un altro sorprendente protagonista: il collezionista e storico dell’arte britannico Sir Denis Mahon. Quasi una mostra dentro la mostra, che svela, a tre anni dalla sua scomparsa, il profilo lungimirante dell’artefice altruista di una grande possibilità (anche concreta) di visione, da lui donata nei decenni del Novecento, oltre che all’estero (26 opere attualmente alla National Gallery di Londra), alle nostre più importanti realtà museali (sette dipinti alla Pinacoteca Nazionale di Bologna).
“MAHON aveva occhio, viveva con capolavori e soprattutto amava l’arte”, la sua “insolita” competenza storica, insieme all’intuito, lo condusse a collezionare artisti per tre secoli trascurati dal mercato e dalla critica.
Prima del 1950, in generale tutta l’arte barocca poteva essere acquistata a prezzi competitivi e ciò alimentò la sua abilità critica e la sua passione di mecenate. Mahon fu tra i primi a divulgare la potenzialità di questa pittura scura ma potente, comprendendo che l’arte sacra del Seicento italiano era frutto di maestri in grado di oltrepassare le mode, come avvenne per Caravaggio e poi per Guercino, i Carracci e Guido Reni. Questa è infatti la mostra della sua vita, quella che lui stesso aveva ideato scegliendo ognuno dei quaranta strepitosi dipinti per celebrare il suo centesimo compleanno.
Curata da Mina Gregori, massima esperta di Caravaggio, Anna Coliva, direttrice della Galleria Borghese e da Serjei Androsov dell’Hermitage Museum, la mostra appare elaborata a ritroso – partendo da Guercino e concludendo con Caravaggio – perchè fu proprio Francesco Barbieri, detto il Guercino, l’artista più amato e studiato da Mahon. Ben quattorci i dipinti esposti, tra i quali spicca “La Madonna del Passero” del 1615: da un fondale scuro emerge la delicatezza del gesto e la vibrazione inaspettata del sottile filo che unisce il volatile alla mano del piccolo Gesù. Oltre a due bei ritratti di Bernardino Spada, c’è la “Sibilla Persica” (1647), dipinta nei prolifici anni postcaravaggeschi, che aggiunge alla posa malinconica della giovane donna la cura elaboratissima del panneggio.
I Guido Reni, nelle sale successive, evidenziano ancora di più la coerenza dello sguardo di colui che li ha scelti: dall’estatica bellezza del “Cristo coronato di spine” (1635) e del “San Pietro penitente”, fino all’immenso “Atalanta e Ippomene” del 1622 (proveniente da Capodimonte), una sintesi della possibilità di mescolare sagome danzanti emerse dal buio su piani incrociati, ritraendone il colore vivo della pelle.
VERSO la fine del percorso, cinque tele di Caravaggio: non poche, considerando la sua esigua produzione. La mostra ha ospitato, fino ai primi di dicembre, anche “Il suonatore di liuto”, tra le sue opere più celebri, rientrato all’Hermitage di San Pietroburgo. Gli organizzatori auspicavano – vanamente – potesse essere sostituito dal “San Giovanni Battista” dei Musei Capitolini, riconosciuto come autentico – quasi casualmente, dietro la scrivania del Sindaco di Roma – sempre dal lungimirante Denis Mahon. Infine troviamo anche “Giuditta e Oloferne” (1599), annoverato tra le opere prioritarie di Caravaggio che, oltre alla sconcertante costruzione psicologica comprende due fra i più bei ritratti della storia dell’arte: i visi dall’espressione corrucciata e sconvolta della giovane Giuditta e dell’anziana ancella Abra.

il Fatto 17.1.15
Il quadro mancante
Il Caravaggio negato dal Campidoglio
di Marco Lillo


Il sindaco Ignazio Marino dovrebbe trovare il modo di saldare un debito di riconoscenza della città di Roma con Sir Denis Mahon, un ricco studioso inglese scomparso dopo aver compiuto i cento anni nel 2011, protagonista di una mostra molto bella, “Da Guercino a Caravaggio” ancora per poche settimane visitabile a Palazzo Barberini a Roma. Il debito sorge negli Anni Cinquanta quando Mahon si trova a Roma in uno dei suoi frequenti viaggi in Italia e scopre affisso alla parete dello studio del sindaco della Capitale il “San Giovanni Battista” di Caravaggio.
La storia di quel dipinto è così spiegata da Anna Coliva nel catalogo della mostra: “Per Caravaggio Mahon riuscì a dare un contributo imprescindibile grazie alla clamorosa scoperta dell’originale di San Giovanni Battista nello studio del sindaco di Roma. Erano gli anni cinquanta e sino a quel momento il dipinto, ora ai musei capitolini, era considerato la copia di quello posseduto dalla Collezione Doria”. Molti musei nel mondo sono debitori in qualche modo verso Mahon perché li ha convinti a comprare Caravaggio, Guercino o Reni quando l’arte italiana del Seicento era negletta.
PUR DI NON LASCIARE le opere in mano a chi non le sapeva apprezzare, quando non riusciva a trovare un museo pronto a tirare fuori i soldi, Mahon comprava in prima persona. Così portò a segno affari eccellenti e creò una raccolta di un centinaio di opere, la più ricca collezione privata esistente sul seicento italiano. Il suo scopo però non è mai stata la speculazione bensì la diffusione dell’arte. Così rese la sua collezione accessibile al pubblico e festeggiò i suoi 80 anni donando molti capolavori della Scuola Emiliana del ‘600, (compresa “La Madonna del passero” di Guercino) alla Pinacoteca di Bologna.
Il museo Hermitage di San Pietroburgo, per riconoscenza a Mahon, quando si è visto chiedere dal realizzatore della mostra l’ingegnere Roberto Celli (un amico di Mahon, già manager di grandi imprese pubbliche e private che da tempo si dedica anche alla valorizzazione del patrimonio artistico e che ha investito del suo per onorare la memoria dell’amico mecenate) “Il suonatore di liuto”, uno dei dipinti più belli di Caravaggio, lo ha concesso gratuitamente per l’esposizione a Palazzo Barberini. Il Comune di Roma invece ha detto no. Così “Il suonatore di liuto” ha percorso senza battere ciglio, nonostante i rapporti complicati con la Russia di Putin, i tremila chilometri che separano l’Hermitage da Palazzo Barberini mentre il Comune di Roma non ha permesso al suo San Giovanni Battista di fare i tre chilometri che separano il museo dal Campidoglio. Da qualche settimana, come era negli accordi, però “Il Suonatore di liuto” è tornato all’Hermitage e sulla parete più importante della mostra c’è un buco che non fa onore alla città. Il sindaco Marino non porta la responsabilità di questa scelta e probabilmente non ne sa nulla.
PERÒ è ancora in tempo per rendere omaggio a uno straniero che ha insegnato ai romani a vedere la propria Grande bellezza. Per dimostrare che in Campidoglio non pensano solo a dare appalti sulla raccolta dei rifiuti alle coop amiche dei politici, Ignazio Marino dovrebbe prendere personalmente quella tela e portarla lontano da chi è riuscito a impoverire Roma rubando persino sui campi rom. Sarebbe il modo migliore per rendere il giusto tributo a uno straniero che invece è riuscito ad aumentare la ricchezza della Capitale puntando sulla sua bellezza.

Corriere 17.1.15
E la poesia creò la donna. L’epos dell’amore tra i ricordi
di Evgenij Evtushenko


S ergej Ejzenštejn, autore della famosa Corazzata Potëmkin , descriveva la produzione di un film come la composizione di molti fiammiferi in un albero vivente. Il poema di Sebastiano Grasso assomiglia ad una sua personale «montagna incantata», fatta di tanti sassolini. L’arte contemporanea pullula di clown abili nei giochi di prestigio con ciottoli simili, ma pochi tentano, audacemente, di farne una montagna che possa essere scalata e permetta di dominare, dall’alto, il panorama.
I versi di Grasso sono un poema-tentativo di riportare in vita frammenti lirici legati all’amore, custoditi nella cineteca della memoria, forse già logori nel disperato tentativo di essere dimenticati. È un tentativo di ricostruire, incollare singoli frammenti poetici, quasi da diario, che costituiscono un insieme unico, indissolubile: l’epos dell’amore.
Ma che cosa ha voluto ricostruire Grasso nella sua opera? Il ritratto dell’amata, come ha già fatto Rembrandt con Saskia, quando l’ha dipinta mentre, girata, guarda le generazioni future, compresi noi, assieme al calice di vino in cui — come è possibile percepire con un nuovo sguardo — ballano persino le allegre bollicine dorate? Già, o forse no, perché questo è un ritratto così impercettibilmente variegato e spirituale che a volte sembra essere la somma di tanti volti femminili, una dedica alla Donna con lettera maiuscola, sintesi delle molte donne da lui incontrate durante la sua vita intensa.
Un simile ritratto impersonale, però, non sottovaluta nessuna di queste, ognuna di esse avrebbe potuto essere per il poeta un lungo e complicatissimo romanzo d’amore, oppure semplicemente un’immagine indimenticabile, colta in strada, intravista dal finestrino del treno o della propria auto; un’immagine che persiste nella memoria e ritorna nei sogni. E come i sogni, le donne entrano dalla porta di Grasso senza bisogno di chiavi («Il tuo corpo / appariva sulla porta ma in casa entrava prima / un sorriso e gli occhi di fiamma», aveva scritto nel precedente libro, Tu, in agguato sotto le palpebre , del quale questo non è altro che la continuazione)...
Pochi poeti oggi scrivono della passione con passione, come fa Grasso, rischiando di essere perfidamente tacciati di magniloquenza medievale o accusati di essere all’antica. La magniloquenza, non si sa perché, è considerata di cattivo gusto, e talvolta a ragione; ma simili rimproveri, in altri casi, sono semplicemente generati dall’invidia nei confronti di un altro sentimento che i critici non sono capaci di provare. Osservate in che modo splendido Grasso rischia di essere incompreso, e a me piace molto e glielo invidio pure, in senso buono naturalmente: «Con l’amore non si scherza, diceva De Musset. / Il tuo corpo si flette come i rami al passaggio / d’una bufera e i fianchi paiono declivi valtellinesi. / Il suono ingigantisce e turba; collo e seni / si confondono con colline e orizzonti. Gesti, / piroette e il corpo s’avvita come un uccello / a caduta libera assassinato da una doppietta. / Amore e orgoglio scanditi da un’arpa; / e tu diventi Isadora Duncan o Carla Fracci» ( Declivi valtellinesi ), scriveva in Tu, in agguato sotto le palpebre . Ed ora: «Devasta il silenzio questo frinire cadenzato / di cicale nel boschetto. Sotto la panchina / di assi inchiodate, resti sovrapposti / della tela d’un ragno vengono interrati / dal tuo sandalo. Tu non rispondi; qualcosa / muore ogni giorno, foglie e petali riassorbiti / dal suolo prolungano di qualche ora / lo stesso colore. D’un tratto, le tue mani / invadono il cielo per fermare un acquazzone / che fa impazzire i tuoi seni sotto la camicetta / bianca: ridiventano di carne e di vetro» ( Qualcosa muore )...
Viviamo tutti momenti simili, ma la vita sa essere sia crudele sia, inaspettatamente, misericordiosa. La sua ferocia si manifesta quando l’amore improvvisamente ci abbandona, e si trasforma in straziante nostalgia. È qualcosa che può accadere anche quando la nostra vita, esternamente, sembra essere felice, ma è importante che l’animo non perda per sempre il gran talento di amare. Soltanto allora la vita potrà riacquisire la sua grazia.
Per quanto riguarda il tramonto, invece, replicherò a Sebastiano Grasso citando i miei versi: «C’è la forza eterna dell’alba, in te, nobile tramonto». Anche Pasternak, durante il suo cosiddetto tramonto della vita ebbe il dono dell’amore e scrisse: «Tu ti spogli del vestito, / come il bosco si spoglia delle foglie».
Dear Sebastiano, i nostri, quelli che sembravano giorni perduti, come tu scrivi, «in cerca / delle tue braccia che segnano un addio» ( Il suono della domenica ), non sono perduti, se non li abbiamo ancora dimenticati e continuiamo ad amare, anche se l’amore è più lungo degli incontri e persino della vita. I segreti che una volta «si scioglievano sotto le coperte» ( L’assedio è finito ) non scompaiono se la memoria del nostro corpo e della nostra anima li ha incisi per sempre, e se le mani ancora reggono la penna, perché non trascriverli in versi, con lo stesso pudore del grande amore, che non ha mai soggezioni, che non è mai volgare nell’approccio, né nelle parole, né negli sguardi? (…).
Oggi, chissà perché, la solitudine viene spesso cantata dai poeti più dell’amore, che poi è la sua medicina più efficace. Il fatto più strano è che esistono anche poeti i quali, a giudicare dai loro versi, non hanno mai amato ed è poco probabile che ameranno mai, poiché il luccicante manto chitinoso del loro corpo e dei loro versi non ha la stessa temperatura umana.
Per fortuna Sebastiano Grasso non appartiene a questo gruppo di poeti e il suo rapporto con il termometro è sempre stato e sarà sempre a rischio d’esplosione. Ma per Sua Maestà la Donna si può avere anche un termometro di scorta.

Corriere 17.1.15
Convegno del Codec a Roma
I dati della Shoah Una rivoluzione in formato digitale
di Antonio Carioti


Nacque nel 1955 a Venezia per raccogliere materiale sulle persecuzioni antisemite e il contributo degli ebrei alla Resistenza. Compie quindi sessant’anni il Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec), che nel 1960 si trasferì a Milano e dal 1986 ha assunto la veste giuridica di fondazione. La ricorrenza, che coincide con il settantesimo della Liberazione, vedrà il presidente del Cdec Giorgio Sacerdoti e la responsabile delle ricerche scientifiche, Liliana Picciotto, impegnati ai primi di febbraio negli Stati Uniti per presentare le attività in corso e i nuovi progetti, che proiettano questa istituzione all’avanguardia nel campo della condivisione dei dati sulla storia recente.
In particolare il Cdec è il primo istituto ebraico d’Europa ad aver adottato la tecnologia Linked open data (Lod), che apre prospettive inedite all’impegno che Liliana Picciotto definisce «la battaglia contro la dispersione delle fonti». In sostanza si tratta di una modalità di pubblicazione dei dati che amplifica e potenzia le opportunità di accesso alle informazioni e ai documenti presenti sul web, e che, consentendo il riutilizzo delle risorse, consente a studiosi e utenti della Rete di sviluppare nuove ricerche e applicazioni.
I Lod sono utilizzati da Google, per esempio, allo scopo di rendere le ricerche sempre più mirate e precise, o da Facebook per creare le relazioni fra amici. Ma sono anche quelli che hanno permesso alla Bibliothèque National de France di integrare i cataloghi bibliografici, degli archivi e le risorse digitali. In tutti e tre questi casi il collegamento dei dati non è più su base ipertestuale, bensì imperniato su una rete di parole-chiave che fungono da anello di giuntura fra gli elementi del web.
Il Cdec ha adottato questa tecnologia per un progetto che prevede innanzitutto l’integrazione delle proprie banche dati e la pubblicazione online di descrizioni inventariali e documenti digitali, a cominciare da quelli sul genocidio degli ebrei. Nella prima fase, l’anello di giuntura sono stati i nomi delle vittime della Shoah in Italia. «Grazie ai Linked open data — spiega Laura Brazzo, responsabile dell’Archivio storico del Cdec e di questo progetto — abbiamo potuto compiere il fondamentale passaggio dal concetto di “nome” a quello di “persona”, e all’univocità che il concetto di persona racchiude in sé. Ad ogni persona (ogni vittima della persecuzione e deportazione dall’Italia nel periodo 1943-45) sono stati associati i dati che la identificano e la rendono unica: nome, cognome, luogo di nascita, genitori… E ciascuno di essi è come se fosse stato dotato di un codice fiscale che ne garantisce l’inequivocabilità. Per esempio, esiste soltanto una città di Roma con certe coordinate geografiche. Ebbene, la città di Roma è stata dotata di un codice di identificazione che ci permette di riconoscerla sempre come tale, indipendentemente dal contesto o dalla funzione per cui è stata utilizzata».
Il passo successivo è stato collegare le «persone» ai documenti: fotografie, inventari digitalizzati, videointerviste, documenti digitali. In questo modo con un’unica interrogazione si può sapere in quanti e quali documenti sono presenti informazioni su una certa persona.
Le varie fasi del progetto verranno illustrate nel corso del workshop internazionale «Linked Open Data & the Jewish Cultural Heritage» che si terrà a Roma, presso la Camera dei deputati, il 20 gennaio: un incontro che il Cdec ha organizzato insieme al suo partner per le nuove tecnologie, Regesta.exe, che ha realizzato l’intero lavoro di trasformazione dei dati, e all’Istituto di informatica e telematica del Cnr. Nel corso dell’incontro verrà presentata anche l’anteprima del nuovo portale web, Cdec Digital Library, dal quale saranno accessibili non solo le descrizioni della biblioteca e degli archivi del Cdec, ma anche collezioni di documenti appositamente digitalizzati.

il Fatto 17.1.15
La ristampa
Campana, come nel 1914

Canti orfici, di Dino Campana,  Cronopio edizioni
RACCOLTA poetica tra le più sconvolgenti del ‘900, i Canti Orfici di Dino Campana rimasero a lungo perduti nella loro versione autografa. Usciti nel 1914, furono ritrovati solamente nel 1971. Cronopio pubblica ora questa edizione preziosa: una stampa anastatica e fedele della edizione del 1914, arricchita dalla introduzione e dalle note bio-bibliografiche di Gabriel Cacho Millet, uno dei massimi studiosi di Campana. C’è anche un cd nel quale Claudio Morganti “suona e canta” l’opera. Campana riteneva il libro “la sola giustificazione della mia esistenza (...) ho bisogno di essere stampato; per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato”. La bellezza struggente, e non di rado straziante, della prosa e dei versi c’è ancora tutta.
Andrea Scanzi

La Stampa 17.1.15
Il pene dei giovani più corto di 2 cm rispetto ai nonni
L’argomento impazza in Gran Bretagna dopo la pubblicazione di un articolo scientifico sul Telegraph. L’organo sessuale maschile si starebbe riducendo a causa di diabete, assunzione di sostanze chimiche negli alimenti moderni e prolungamento della vita media

qui

giovedì 15 gennaio 2015

Corriere 15.1.15
«L’azienda di Tiziano Renzi? Se necessario agiremo»
Finanziamenti alla società del padre del premier, interviene Rossi: ma no a strumentalizzazioni
di Marco Gasperetti


FIRENZE Una società che cambia proprietari, pur rimanendo in famiglia, chiede un finanziamento con coperture e garanzie offerte dalla finanziaria della Regione Toscana e poi si trasferisce a Genova. E che in poco tempo cambia «genere»: da maschile diventa femminile per poi tornare ancora una volta maschile. Sembrano tutto sommato inezie amministrative e invece questi cambi e trasferimenti repentini, insieme alla divisione dell’azienda in due rami (buono e cattivo), avrebbero un valore monetario non proprio irrilevante (da 60 mila a 263 mila euro) e potrebbero aver violato le regole di Fidi Toscana che garantisce con soldi pubblici le imprese in difficoltà in cerca di finanziamenti. Se poi alla vicenda si aggiungono i nomi di Tiziano Renzi, delle figlie Matilde e Benedetta e della moglie Laura Bovoli, rispettivamente padre, sorelle e madre del premier, e che la Regione Toscana ammette qualche presunta irregolarità sulle procedure, ecco che tutto diventa un nuovo caso. Tanto da far intervenire il presidente della Toscana, Enrico Rossi: «Se ci saranno da prendere provvedimenti li prenderemo senza scadere nella strumentalizzazione politica, che mi sembra piuttosto montata» ha detto il governatore.
Si parla ancora di Chil Post, la società fallita di Tiziano Renzi sulla quale indaga per bancarotta fraudolenta la Procura di Genova. Non c’è un nuovo sviluppo giudiziario, bensì l’apertura di un filone politico-amministrativo, innescato da un’interrogazione del consigliere regionale di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli; questi ha sollevato dubbi sulla concessione di un fido da 437 mila euro garantito alla Chil e solo in parte restituiti; la risposta dell’assessore regionale alle Attività produttive, Gianfranco Simoncini, sembra in parte dare ragione a Donzelli.
«Il passaggio da società maschile a femminile sembra un escamotage per prendere più soldi — sottolinea il consigliere di Fdi —. Le regole di Fidi Toscana prevedono infatti un’erogazione del 60% a copertura di prestiti di aziende maschili e dell’80% per quelle femminili. Tiziano Renzi ha deciso di cedere l’azienda a moglie e figlie che, dopo aver ottenuto i soldi, l’hanno passata ancora al padre e marito. E tutto questo senza informare, come da regolamento, Fidi Toscana». Nella risposta all’interrogazione la Regione, ha ammesso che effettivamente «le informazioni non sono state comunicate» e ha invitato «gli organi di Fidi a compiere ogni verifica». Donzelli ha chiesto di recuperare eventuali soldi incassati dalla famiglia Renzi irregolarmente.
Di opposto parere Federico Bagattini, legale di Tiziano Renzi: «L’operazione è stata del tutto regolare tanto da non costituire un profilo di addebito mosso dalla Procura di Genova. Noi ci confrontiamo da una parte con i magistrati di Genova e dall’altra con il giudice civile e penale in caso di affermazione non vere e lesive della reputazione del nostro cliente».

il Fatto 15.1.15
La Regione ammette. Papà Renzi in un mare di guai
“Finanziamenti ottenuti in modo irregolare”
“La Chil Post ha omesso comunicazioni perdendo diritto al finanziamento”
Rossi: “Pronti a denunciare, a prescindere dal nome”: papà Renzi in un mare di guai
di Davide Vecchi


La società della famiglia Renzi non avrebbe dovuto usufruire del fondo di garanzia del ministero dell’Economia. Non solo: se avesse rispettato le clausole sottoscritte con Fidi Toscana avrebbe perso il beneficio e sarebbe stata costretta a pagare il doppio dell’agevolazione richiesta. Sarà ora Fidi Toscana, finanziaria controllata dalla Regione, a doversi rivalere del danno subito. Chil Post però è nel frattempo fallita e la banca a cui è stato pagato il mutuo insoluto, il credito cooperativo di Pontassieve, è guidata da un fedelissimo del premier: Matteo Spanò. Così, la vicenda che coinvolge genitori e sorelle del premier, diventa anche politica: Enrico Rossi, governatore della Toscana riconfermato appena due giorni fa, candidato del Pd alle prossime Regionali, interverrà contro la famiglia del premier (e segretario del partito) e contro la banca di un suo storico braccio destro sin dai tempi della provincia di Firenze?
Trucchi per 263mila euro, rischia di sganciare il doppio
“Se ci sono gli estremi denunceremo certamente, a prescindere dal nome e cognome”, ha garantito ieri Rossi contattato dal Fatto. “Del resto lo abbiamo già fatto e mi sembra che sinora come ente abbiamo fornito una ricostruzione chiara, completa e trasparente dell’accaduto contribuendo a far emergere i fatti”, ha aggiunto. E in effetti la conferma della mancanza dei requisiti da parte della Chil Post a godere del fondo di garanzia è arrivata ieri in aula dall'assessore al lavoro, Gianfranco Simoncini, rispondendo a un’interrogazione presentata dal capogruppo di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli. La società di casa Renzi “non ha comunicato le variazioni relative all’assetto societario”, ha scandito Simoncini, come invece era obbligata a fare. E ha spiegato: “Nel caso in cui dalle verifiche effettuate (...) risultino non rispettate le finalità previste dal regolamento, l’agevolazione è revocata e l’impresa è tenuta a corrispondere un importo pari a due volte l’agevolazione ricevuta”.
E di variazioni da comunicare la Chil Post ne aveva parecchie. La richiesta è stata formulata come società femminile: in quel momento, infatti, titolari risultavano essere Laura Bovoli insieme con Matilde e Benedetta Renzi, rispettivamente madre e sorelle del premier. Ma una settimana dopo aver ricevuto la delibera del mutuo la proprietà torna totalmente a Tiziano Renzi. Le tre donne, nel frattempo, risultano titolari di un’altra società: la Chil Distribuzioni che poi cambierà nome in Eventi
Siamo nel luglio 2009. Dopo poco più di un anno la Chil Post cede un intero ramo di servizi del valore di circa 2 milioni di euro alla Eventi 6 per poco più di 3.000 euro. Infine Tiziano Renzi trasferisce la sede della Chil Post da Firenze a Genova, la cede a Gianfranco Massone gravata da quasi 2 milioni di debiti. Massone dichiarerà poi il fallimento. Il padre del premier è indagato dalla procura ligure per bancarotta fraudolenta e secondo i magistrati la cessione di servizi da Chil Post a Eventi 6 sarebbe stata fatta esclusivamente per mettere in salvo dai creditori la parte sana dell'azienda. Tra i debiti lasciati a fallire figura anche il mutuo concesso dal Credito Cooperativo di Pontassieve di 496.717,65 euro. Una cifra sostanziosa, concessa con un mutuo chirografario: senza accensione di ipoteche, quindi, ma solo basato sulle garanzie. Ma coperto invece da Fidi Toscana che il 31 luglio 2014 versa infatti alla banca 263.114,70 euro e viene contro garantito nell’ottobre successivo dal ministero del Tesoro per 236.803,23. Fidi Toscana dunque onora l’impegno preso con Chil Post ma, come confermato dall'assessore Simoncini, la società aveva perso i requisiti. I vertici di Fidi, il presidente Silvano Bettini e il vice direttore Gabriella Gori, non hanno voluto commentare l'accaduto.
Il favore per l’azienda ”al femminile”
Netto invece il giudizio di Donzelli: “Il padre di Renzi ha ottenuto fondi pubblici attraverso delle irregolarità”. Secondo l’esponente Fdi “il regolamento per avere la garanzia di Fidi Toscana al finanziamento, prevede, tra l’altro, che un’azienda abbia sede in Toscana e che comunichi se vi sono cambi di assetto societario”. Inoltre, aggiunge, “la Chil ottenne una garanzia dell’80%, invece del 60% ordinario, perché beneficiò di alcune misure dato che si trattava di un’azienda al femminile”, in mano alle donne di casa Renzi. E conclude: “C'è chi per molto meno è stato condannato per truffa”. Ora “aspettiamo le decisioni di Fidi e vedremo come si comporta Rossi, ma vigileremo affinché non spunti nessuna manina a nascondere l’accaduto”.

Corriere 15.1.15
Inchiesta sulle primarie ad Albenga E in un seggio arriva l’Anticrimine
I garanti pd prendono tempo. Minacce a un collaboratore di Cofferati
di Erika Dellacasa


Genova Ancora fumata nera della commissione di garanzia per le primarie del centrosinistra in Liguria. Ieri i garanti si sono riuniti per esaminare 28 casi segnalati come irregolarità ai seggi e hanno aggiornato la seduta a domani «in mancanza di alcuni documenti richiesti e attesa la necessità di approfondimenti». A sottoporre ai garanti i casi sospetti e la presenza di flussi anomali di immigrati ai seggi sono i supporter di Sergio Cofferati, sconfitto dall’assessore regionale Raffaella Paita con 4.000 voti di distacco (29 mila a 25 mila). Mentre dal Pd nazionale arriva la richiesta, più o meno esplicita, di chiudere alla svelta la partita, a Genova la tensione è alle stelle.
Ad aumentarla è arrivata la decisione della procura di Savona di aprire un fascicolo sulle primarie, relativo, sembra, al voto di circa 200 immigrati maghrebini nel seggio di Albenga. Il sospetto è che siano stati «ingaggiati» e abbiano anche ricevuto due o più euro per votare. E, se non bastasse, è filtrata ieri la notizia che il presidente del seggio genovese di Certosa — dove ha votato un alto numero di cittadini originari di Riesi, nella provincia di Caltanissetta — ha ricevuto la richiesta di investigatori impegnati nel campo della criminalità organizzata di visionare le liste dei votanti. Gli investigatori hanno posto alcune domande generali sulle modalità di voto e non ci sarebbe stata nessuna acquisizione di documenti — tutto quindi rientrerebbe in quella che si può definire un’attività informativa — ma il presidente del seggio ha preferito informare dell’accaduto la segreteria del Pd. In questo clima sempre più rovente il rinvio della proclamazione ufficiale di Raffaella Paita quale vincitrice delle primarie e candidata ufficiale del centrosinistra per la presidenza della Regione sta facendo saltare i nervi ai suoi sostenitori. «Il comitato è inadempiente — ha attaccato ieri Arcangelo Merella, membro dello staff elettorale che ha convalidato la votazione di domenica scorsa — le regole dicono che la segreteria politica doveva dichiarare la vittoria di Raffaella Paita subito, al massimo entro le otto di mattina del giorno successivo. Non c’è nessuna necessità di aspettare il responso dei garanti, i ricorsi eventualmente si fanno dopo ma il risultato del voto non può essere messo in discussione». Sembra che il comitato elettorale abbia anche valutato l’ipotesi di scrivere una lettera al comitato politico. La sensazione è che tutto ciò alla fine non faccia altro che avvelenare il clima intorno alla proclamazione di Paita.
Intanto si deve registrare un episodio sgradevole, il collaboratore di Cofferati Andrea Contini ha ricevuto minacce di morte (vergate sulle cartoline elettorali dell’ex sindacalista e infilate nella buca delle lettere) e ha fatto denuncia alla Digos. «Credo — commenta Contini con filosofia — che qui qualcuno abbia perso la bussola. Ho ricevuto minacce in più fasi, le ultime sabato e ho fatto denuncia lunedì. Se avessi voluto strumentalizzare lo avrei detto prima. Ma credo veramente che ci si debba fermare» .

il Fatto 15.1.15
Liguria
Primarie del Pd, la guerra finisce in Procura: 25 casi di voto sospetto
Obiettivo Albenga, dove la vincitrice Paita è arrivata al  90% dei consensi
di Ferruccio Sansa


Genova Le aule della politica o quelle del palazzo di Giustizia? Difficile dire dove finiranno le primarie liguri del Pd. Soprattutto adesso che le carte con le presunte violazioni sono finite anche sulla scrivania dei pm di Savona.
Raffaella Paita, candidata renzian-burlandiana ha ottenuto 28.973 voti contro i 24.916 di Sergio Cofferati. Già i vincitori annunciano brindisi, festeggiamenti. Lanciano messaggi distensivi per cercare di risanare la ferita profondissima aperta in questi mesi di sfida al calor bianco.
Ma la guerra - è la parola giusta - di posizione sarà ancora lunga. L’ultimo scontro rischia di consumarsi addirittura in tribunale. La Procura di Savona infatti ha acquisito carte relative allo svolgimento delle primarie. I verbali messi insieme dagli stessi dirigenti del Partito Democratico - soprattutto cofferatiani - ma anche articoli di giornale, filmati visibili su internet.
UN FASCICOLO non sarebbe stato ancora aperto formalmente, ma gli inquirenti hanno già ipotizzato una violazione di legge. Si tratta, come ha scritto Il Secolo XIX, del testo unico che detta le regole per la composizione e le elezioni degli organi delle amministrazioni. All’articolo 86 si prevede che venga punito chi, pagando o promettendo utilità, cerchi di garantirsi “la firma per una dichiarazione di presentazione di candidatura”. Un’ipotesi ancora a carico di ignoti e comunque tutta da verificare. Le primarie, infatti, non sono consultazioni pubbliche, ma di organismi privati. I partiti. Anche se, fa notare qualcuno in Procura, all’epoca le primarie non esistevano.
I casi da esaminare sono in tutto circa 25. Ma ad attirare i magistrati sarebbero soprattutto quelli avvenuti ad Albenga, Pietra Ligure, Cisano sul Neva e Santo Stefano al Mare (quest’ultimo, però, già in provincia di Imperia). Nei seggi di questi comuni la percentuale di voti ottenuti da Raffaella Paita è stata bulgara: quasi il 90 per cento ad Albenga. Ben 1300 voti su 1500, uno scarto di oltre mille voti che pesa tantissimo sul risultato finale.
DI QUI L’ACCUSA di infiltrazioni. Non si parla tanto di cinesi e marocchini; ad Albenga comunque hanno votato 147 immigrati, il 10 per cento del totale, mentre in altri seggi del savonese sono arrivati al 30 per cento del totale. I principali indiziati della vittoria paitiana sono gli scajoliani che nel Ponente ligure hanno sempre dominato. Albenga in particolare è stata sempre considerata la cerniera tra destra e sinistra ligure. Un punto di incontro per politica e affari. Magari conditi con rapporti scomodi. “In passato abbiamo fotografato esponenti del centrosinistra albenganese durante incontri con noti pregiudicati per reati gravissimi”, racconta Christian Abbondanza (Casa della Legalità) che ha fornito le foto agli inquirenti. Aggiunge: “Ai festeggiamenti per la vittoria di Paita le fotografie su Facebook ritraggono parlamentari del Pd ed ex fedelissimi di Alberto Teardo, il craxiano che comandava la politica ligure negli anni Ottanta prima di essere travolto dalle inchieste”, assicura ancora il presidente della Casa della Legalità. Niente di illegale, certo, ma ad Albenga è esplosa la polemica anche su questo. Ma non c’è soltanto l’aspetto penale. C’è anche il Collegio dei Garanti del Partito Democratico. Un organo presieduto, si è detto, da Fernanda Contri. L’ex giudice costituzionale che ha ottenuto incarichi di prestigio dall’Autorità Portuale guidata da Luigi Merlo, marito di Paita. Ma che è anche testimone di nozze di Cofferati. Una incompatibilità a testa, palla al centro.
IL RESPONSO del collegio è atteso per domani. Proprio mentre si riunirà la direzione nazionale del partito. Sarà un giorno decisivo per la disputa sulle primarie. E quindi per il destino della Liguria. Cofferati dichiara: “Su quanto è avvenuto ho diritto di avere un giudizio del partito”. Difficilmente il leader rientrerà nei ranghi. Potrebbe decidere di correre da solo o di organizzare un nuovo schieramento politico. Sarebbe un caso clamoroso.
Insomma, le primarie Pd si sono risolte nell’esatto contrario di una prova di forza. Di unità. Ma gli avversari non stanno certo meglio. Il Movimento Cinque Stelle anche qui è sull’orlo della spaccatura. Paolo Putti, capogruppo M5S in consiglio comunale, aveva lanciato un appello: “Abbiamo un’occasione straordinaria per vincere e salvare la nostra terra. È come se avessimo vinto la lotteria, non possiamo buttare il biglietto nel cesso”, era stato il suo grido di allarme. Poi la proposta di cercare i candidati alla presidenza della Regione anche tra persone esterne al Movimento. Di coinvolgere non solo i militanti in una prima scelta.
Beppe Grillo e il suo staff hanno bocciato senza appello: “Non ci sono altre regole o salvatori della patria o nomi noti per vincere”. Discorso chiuso.

La Stampa 15.1.15
Effetto Corazziere
di Massimo Gramellini


La vulgata più diffusa sostiene che il successore di Napolitano non dovrà piacere a tutti gli italiani ma a uno soltanto, Matteo Renzi. Al quale piacciono moltissimo gli italiani che non fanno ombra a lui. Una suora di clausura ultrà della Fiorentina o un eremita con trascorsi nei boyscout sarebbero perfetti. Ma poiché la politica è l’arte del compromesso, il giovane premier potrebbe farsi andare bene anche un notabile di seconda fila, purché sprovvisto di profilo Twitter, rigorosamente allergico alle telecamere e disposto a limitare il suo raggio d’azione al taglio silenzioso dei nastri e alla firma notarile dei decreti.
Chi impresta a Renzi un disegno simile sottovaluta però il cosiddetto Effetto Corazziere. Prendete l’essere più anonimo della Terra, uno a cui lo specchio del bagno chiede di continuo «non ti vedo, dove sei?», e mettete ai suoi lati due corazzieri. Al primo scatto di speroni il nostro uomo avvertirà un brivido lungo la schiena. Al secondo, un lieve senso di vertigini. Al terzo impugnerà un microfono di passaggio per lanciare un severo monito. È da quando esiste la Repubblica che le cose funzionano così e non risulta che la natura umana sia mutata nel frattempo. Tanto varrebbe, allora, provare a rovesciare lo schema e spedire al Quirinale una soubrette della politica, un ego ipertrofico al quale i corazzieri diano persino un po’ fastidio. Peccato che Renzi non abbia ancora l’età, altrimenti il candidato ideale sarebbe lui. 

La Stampa 15.1.15
Un metodo che va cambiato
di Marcello Sorgi


Le dimissioni di Giorgio Napolitano dalla Presidenza della Repubblica, e la lunga vigilia che precederà le votazioni per scegliere il suo successore, potrebbero essere l’occasione per riflettere, oltre che sul ruolo del Capo dello Stato, sul metodo davvero arcaico con cui lo si elegge in Italia.
In nessun Paese del mondo la più alta carica istituzionale viene assegnata così. Perfino in Vaticano, dove la scelta del Papa è affidata allo Spirito Santo, i cardinali, prima di riunirsi in Conclave e lasciarsi illuminare, affrontano nelle Congregazioni giorni e giorni di discussioni sul presente e sul futuro della Chiesa, ricavandone il programma e le candidature più adatte a proseguire l’opera di Pietro.
E per fare un altro esempio, anche in Germania, dove il Presidente della Repubblica ha funzioni assai più simboliche e di rappresentanza del nostro, l’elezione viene preceduta da un dibattito parlamentare. Da noi invece, niente di tutto questo.
La corsa al Colle è rimasta quel rodeo che in quasi settant’anni di Repubblica ha visto gli avvicendamenti consumarsi in un clima di agguato e di tradimenti, con candidati designati attirati in trappole sanguinarie e Presidenti eletti usciti dal cilindro come conigli, senza alcuna preparazione, confronto, programmi e sul filo di emergenze e incertezze destinate a riflettersi sui settennati.
Con le sole eccezioni di Cossiga (1985) e Ciampi (1999), eletti al primo scrutinio grazie a un solido e trasparente accordo politico, è sempre andata così. Dai giorni eroici dell’elezione dell’Assemblea Costituente (1946) e della democrazia fragile, uscita dalla guerra e dal fascismo, fino a oggi. Nel frattempo, tutto è cambiato: le classi dirigenti che vivevano nel chiuso dei palazzi, e parlavano al popolo raramente e con linguaggio incomprensibile, sono state sostituite dalle nuove generazioni che vivono di propaganda e soggiornano negli studi televisivi quotidianamente ore e ore, sottoponendosi senza timore ai numeri spietati delle percentuali di gradimento Auditel e ai “mi piace” e “non mi piace” che la gente gli assegna su Internet e sui social forum.
Domanda inevitabile e legittima: a questo punto, in una cornice così radicalmente mutata, è mai possibile continuare a eleggere il Presidente della Repubblica come dieci, venti o cinquanta anni fa? Il metodo della convocazione delle Camere riunite e dell’elezione da parte dei Grandi Elettori, nelle prime tre votazioni con la maggioranza qualificata dei due terzi (672 voti), e nelle successive con quella semplice (505), era stato pensato per impedire che il Capo dello Stato potesse essere eletto da un solo partito, benché maggioritario, e favorire al contrario l’accordo tra maggioranza e opposizione, in modo che il Presidente rispondesse a un più largo arco di forze politiche e perdesse, dal momento dell’elezione, la sua natura di parte. Non a caso i primi a ricoprire la più alta responsabilità solevano rinunciare platealmente, prima di insediarsi, alla loro tessera di appartenenza.
Ma un metodo siffatto, salvo le due citate eccezioni, non ha mai funzionato. E non perché fossero carenti i canali di comunicazione tra i partiti; tutt’altro. Le designazioni, a cui si è puntualmente arrivati dopo consultazioni nascoste e accordi segreti, sono state sistematicamente capovolte dal gioco delle correnti e dei franchi tiratori: al posto di Sforza usciva Einaudi (1948); a quello di Fanfani, Gronchi (1955); invece di Leone, Saragat (1964); e poi lo stesso Leone in luogo di Moro (1971). Così continuando fino a La Malfa e Pertini (1978), a Forlani e Andreotti battuti da Scalfaro (1992), e D’Alema da Napolitano (2006), e alla doppia trombatura di Marini e Prodi che due anni fa ha paralizzato le Camere riunite e portato al bis di Re Giorgio.
Se per ipotesi si facesse un sondaggio, anche solo riservato a professori e studenti di storia contemporanea, per capire quanti sono in grado di illustrare le ragioni che di volta in volta hanno portato all’elezione di un Presidente, c’è da scommettere che la maggioranza degli intervistati non sarebbe in grado di rispondere, e gran parte degli altri darebbe risposte sbagliate. Per la ragione semplice che vere risposte non ne esistono, l’elezione di uno o dell’altro è avvenuta molto spesso per caso, per emergenza o per disperazione, nessuno dei prescelti se l’aspettava o aveva un programma da esporre, come quella volta, il 24 dicembre 1971, che Leone fu incoronato al ventitreesimo scrutinio, alla vigilia di Natale, perché i Grandi Elettori erano stanchi e volevano andarsene a casa e passarsi le Feste tranquilli.
Poi, certo, ogni Presidente ha legittimato se stesso e s’è guadagnato il giudizio della storia nel corso del proprio settennato. Ma per ogni eletto, ci sono grappoli di Grandi Trombati, candidati degnissimi finiti fuori strada anche solo perché era stato fatto il loro nome prima del tempo, persone per bene di cui è stata scoperchiata la carriera, la privacy, la vita familiare, inutilmente e implacabilmente, senza cioè che potesse servire in un senso o nell’altro, per includerli o escluderli dalla gara, da cui alla fine sono usciti comunque senza ragioni. Anche adesso, si dice che Giuliano Amato, il grande costituzionalista, due volte premier, pluriministro, giàpresidente dell’Antitrust, vicepresidente della Convenzione per la Costituzione europea e adesso giudice costituzionale, vale a dire uno degli uomini più qualificati per la successione a Napolitano, sarebbe bruciato solo perché Berlusconi ne ha fatto il nome e perché percepisce da anni una super pensione, legata ai numerosi e delicati incarichi ricoperti nella sua lunga vita professionale e politica, ma da anni destinata ad atti di beneficenza. Allo stesso modo, ieri Napolitano aveva appena firmato la lettera di dimissioni e i capigruppo del Movimento 5 stelle già gli chiedevano di rinunciare alla nomina a senatore a vita di diritto, ancorchè prevista espressamente dalla Costituzione.
Agguati, complotti, pugnalate, promesse mancate, trappoloni nascosti sotto cumuli di frasche, avversari giurati che si scoprono amici al solo scopo di far saltare ogni possibile intesa, in due parole repertorio di un’altra epoca, oggi completamente fuori dal tempo e fuori dal mondo, da qualsiasi parte si guardi: e tuttavia, la strada per l’elezione del Presidente della Repubblica, in Italia, è fatta ancora di questi mattoni. Non è detto che come in Francia o in America il Capo dello Stato debba essere per forza eletto direttamente dal popolo. Ma almeno, questa sia l’ultima volta che viene votato in un Parlamento ridotto al rango di un mercato delle vacche, di una sala da gioco, o di un suk.

La Stampa 15.1.15
Le correnti riconquistano il campo
di Fabio Martini


Non appena «Re Giorgio» ha lasciato il palazzo, sono tornati i «feudatari». Una «consecutio» forse soltanto temporale, resta il fatto che nella corsa al Colle in poche ore hanno riconquistato il campo gruppi e gruppetti dei vari partiti, quelle che un tempo si chiamavano le correnti. Due sere fa nel ristorante «Scusate il ritardo», nomen omen, si sono visti una cinquantina di parlamentari di area ex popolare ed ex Dc ora nel Pd, guidati da due ex andreottiani, Beppe Fioroni e Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd. Obiettivo: sostenere la candidatura dei due amici in corsa per il Quirinale: Sergio Mattarella e Pier Luigi Castagnetti. Per lunedì si vocifera di una riunione con Massimo D’Alema presso la Fondazione ItalianiEuropei; i «giovani turchi» di Matteo Orfini e di Andrea Orlando si sono già incontrati per un giro di orizzonte. Riunioni che possono apparire «antiche» ma sono fisiologiche in un partito fortemente accentrato e nel quale c’è una tendenza a ricompattarsi per aree, in vista di una partita sempre molto complessa come quella del Quirinale. «Antico» è invece il serpeggiare, dentro il partito di maggioranza relativa, di una linea divisoria che sembrava superata: laici e cattolici, «democristiani» e «comunisti». Nella memoria delle due fazioni, un luogo comune del passato: al Quirinale c’è quasi sempre stata un’alternanza tra laici e cattolici. Un luogo comune consolidato ma infondato: nel 1955 diventa Capo dello Stato il dc Giovanni Gronchi (succedendo al liberale Luigi Einaudi) ma il suo successore è ancora un cattolico: Antonio Segni. Al quale succede il socialdemocratico Giuseppe Saragat e da quel momento l’alternanza regge con Leone, Pertini, Cossiga. Ma dal 1992 salta tutto: dopo Cossiga, un altro cattolico (Scalfaro) e da allora tre presidenti laici: Ciampi e due volte Napolitano. Che è anche un ex comunista. Ma pure quel muro è saltato? Tra i più accreditati candidati al Quirinale, diversi ex militanti del Pci - Fassino, Veltroni, Finocchiaro - tutti in corsa senza che nessuno gli «rimproveri» il loro passato.
Non appena «Re Giorgio» ha lasciato il palazzo, sono tornati i «feudatari». Una «consecutio» forse soltanto temporale, resta il fatto che nella corsa al Colle in poche ore hanno riconquistato il campo gruppi e gruppetti dei vari partiti, quelle che un tempo si chiamavano le correnti. Due sere fa nel ristorante «Scusate il ritardo», nomen omen, si sono visti una cinquantina di parlamentari di area ex popolare ed ex Dc ora nel Pd, guidati da due ex andreottiani, Beppe Fioroni e Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd. Obiettivo: sostenere la candidatura dei due amici in corsa per il Quirinale: Sergio Mattarella e Pier Luigi Castagnetti. Per lunedì si vocifera di una riunione con Massimo D’Alema presso la Fondazione ItalianiEuropei; i «giovani turchi» di Matteo Orfini e di Andrea Orlando si sono già incontrati per un giro di orizzonte. Riunioni che possono apparire «antiche» ma sono fisiologiche in un partito fortemente accentrato e nel quale c’è una tendenza a ricompattarsi per aree, in vista di una partita sempre molto complessa come quella del Quirinale. «Antico» è invece il serpeggiare, dentro il partito di maggioranza relativa, di una linea divisoria che sembrava superata: laici e cattolici, «democristiani» e «comunisti». Nella memoria delle due fazioni, un luogo comune del passato: al Quirinale c’è quasi sempre stata un’alternanza tra laici e cattolici. Un luogo comune consolidato ma infondato: nel 1955 diventa Capo dello Stato il dc Giovanni Gronchi (succedendo al liberale Luigi Einaudi) ma il suo successore è ancora un cattolico: Antonio Segni. Al quale succede il socialdemocratico Giuseppe Saragat e da quel momento l’alternanza regge con Leone, Pertini, Cossiga. Ma dal 1992 salta tutto: dopo Cossiga, un altro cattolico (Scalfaro) e da allora tre presidenti laici: Ciampi e due volte Napolitano. Che è anche un ex comunista. Ma pure quel muro è saltato? Tra i più accreditati candidati al Quirinale, diversi ex militanti del Pci - Fassino, Veltroni, Finocchiaro - tutti in corsa senza che nessuno gli «rimproveri» il loro passato.

Corriere 15.1.15
Il riformismo della volontà
di Paolo Franchi


Al contrario di quello che si scrive, in politica non esistono eredità. Dunque, nemmeno la presidenza di Giorgio Napolitano, pure tanto significativa, ne lascia una così chiara da vincolare il suo successore.
Quel riformismo della volontà e il baricentro spostato sul Colle
Con l’inconcludenza dei partiti l’interventismo si è trasformato da strappo in dovere
SEGUE DALLA PRIMA Fatto salvo (e non è davvero poco) l’impegno paziente e indefesso per sostenere in tempi calamitosi l’unità nazionale e la stabilità politica e per tenere aperta nonostante tutto la via delle riforme che il vecchio presidente ha esercitato giorno dopo giorno, e che è forse la cifra più vera di questi nove, difficilissimi anni.
È appena il caso di ricordare che in primo luogo per questo Napolitano, uno degli ultimi grandi esponenti della storia migliore della cosiddetta Prima Repubblica, è stato ferocemente contestato prima da destra, poi da sinistra, infine da destra e sinistra insieme, e a queste contestazioni ha sempre tenuto botta, amareggiato certo, ma senza indietreggiare. Anche per questo, caro presidente emerito, chapeau .
L’eredità è però un’altra cosa. Lasciamo pure da parte la storia, ormai remota, del primo former communist , seppur riformista e socialdemocratico, al Quirinale. Restiamo alla presidenza.«È venuto il tempo della maturità della democrazia dell’alternanza anche in Italia», aveva scandito Napolitano il 15 maggio del 2006 nel discorso di insediamento, assicurando che avrebbe fatto di tutto, ma sempre nei limiti delle sue prerogative, perché si ponesse mano alle riforme necessarie a transitare dal bipolarismo selvatico a un bipolarismo di stampo, si diceva allora, europeo. Ma sul finire del settennato prese pubblicamente atto che le sue si erano rivelate «aspettative troppo fiduciose o avanzate»: nemmeno dopo la nascita del governo Monti, una creatura sua, le forze politiche che pure lo sostenevano in Parlamento avevano avuto un soprassalto riformatore, quella che si stava concludendo era, per le riforme (a cominciare da quella elettorale), un’altra «legislatura perduta», gli elettori avrebbero di certo presentato il conto. Quanto salato fosse lo si seppe subito.
L’Italia che andava ancora a votare, non si lasciava più leggere con gli occhiali del bipolarismo: era divisa in partes tres, e la terza parte (presidiata da Beppe Grillo) non aveva alcuna intenzione di allearsi con la prima, il Pd di Pier Luigi Bersani, per dare un governo al Paese. Per Napolitano, che a una democrazia dell’alternanza finalmente matura aveva creduto davvero, magari per un ottimismo della volontà una volta tanto più forte del pessimismo della ragione, era una sconfitta. Ma fu in questo inedito contesto che le faide interne al Pd resero impossibile l’elezione del nuovo capo dello Stato; e i leader delle principali forze politiche, Bersani in testa, si recarono con il cappello in mano al Quirinale per chiedergli di restare al suo posto, sapendo che non avrebbe potuto dire di no.
In un Paese che sembrava ingovernabile vennero due governi, prima uno di unità nazionale in versione ridotta, guidato da Enrico Letta, poi, dopo la defezione di Silvio Berlusconi, uno di unità nazionale in versione bonsai, guidato da Matteo Renzi. Il quale però, se vive anche grazie all’apporto della pattuglia di Angelino Alfano, si fa forte di un’intesa con l’ex Cavaliere in disarmo, il patto del Nazareno, apertamente contestata, oltre che dai Cinque Stelle, da settori importanti del Pd e di Forza Italia. Di questa anomala intesa non si conoscono gli esatti contorni. Ma si sa che regge, e che la sua prova del fuoco sarà l’elezione del nuovo capo dello Stato.
In poche parole. Prima e dopo la rielezione Napolitano ha esercitato le prerogative presidenziali in una sorta di terra di nessuno: non più la Seconda Repubblica rivelatasi (brutto aggettivo per un riformista) irriformabile, non ancora, o solo virtualmente, la Terza, sempre che una Terza ci sia. Se non si parte da qui, le stesse dispute sui pretesi straripamenti di Napolitano sono vacue. Presidenti «notai» negli ultimi cinquant’anni non se ne sono visti. Da Giovanni Gronchi (1955) in giù i predecessori di Napolitano (con la parziale eccezione, forse, di Giovanni Leone e di Carlo Azeglio Ciampi) sono stati tutti interventisti, eccome, spesso dietro le quinte, talvolta in forme clamorose, in un caso almeno avventuroso a dir poco (quello di Antonio Segni, che nell’estate 1964 ricevette al Quirinale il comandante dell’Arma dei Carabinieri De Lorenzo, artefice del progetto golpista passato alla storia come «Piano Solo»).
Intervenivano però (per condizionarlo e magari per stravolgerlo) dentro un quadro di riferimento relativamente certo: i partiti con le loro strategie, le classi dirigenti, gli apparati nevralgici dello Stato. Tutto questo a Napolitano non è toccato in sorte: nella sua stagione, il baricentro di una politica sempre più inconcludente si è spostato sul Quirinale, creando così le condizioni per trasformare l’«interventismo» presidenziale, da strappo alla regola qual era, in una sorta di dovere di garanzia democratica e nazionale nei confronti degli italiani e dei partner internazionali dell’Italia.
Si può dissentire da questo o quell’atto di Napolitano, si capisce, ma non prescindere da questo dato di fatto né sottacere che a questa necessità Napolitano ha fatto fronte, oltre che con una sapienza politica e istituzionale ignota ai più, con un fortissimo senso di responsabilità verso il Paese. A proposito di eredità, però, è difficile credere che il vecchio presidente pensi di trasmettere un simile «dovere», come un lascito, a chi verrà al suo posto. Non lo hanno sottolineato in molti. Ma, nel suo ultimo messaggio di Capodanno, ha voluto spiegare agli italiani perché anche le sue dimissioni rientrino nel quadro di un «ritorno alla normalità costituzionale» di una Repubblica parlamentare. Il che, di questi tempi, non è purtroppo una certezza .
Paolo Franchi

Corriere 15.1.15
Il premier cerca di esorcizzare lo spettro di un Pd lacerato
di Massimo Franco


Matteo Renzi conta sullo spauracchio della primavera del 2013. Sa che allora un Pd quasi vincente alle elezioni politiche, non riuscì a trovare un nuovo capo dello Stato. E spera che quella vicenda, dalla quale il partito emerse lacerato dai personalismi e dalle candidature «bruciate» nel segreto dell’urna, sia un monito per i parlamentari; che li spinga a dare un segnale di unità da spendere soprattutto con l’opinione pubblica e il proprio elettorato. Ma il passaggio dalla delegittimazione ad una rilegittimazione non è scontato. Molto dipenderà da come il Pd arriverà alla vigilia del pomeriggio del 29 gennaio, quando si comincerà a votare. Le incognite si chiamano soprattutto riforme.
Sia quella elettorale che del Senato appaiono in salita. Eppure, Renzi è convinto di strappare l’approvazione di entrambe per la fine del mese. Il segnale è il «no» che ieri i gruppi di maggioranza e FI hanno risposto alla richiesta delle opposizioni di bloccare tutto fino alla scelta del presidente della Repubblica. È vero che al Senato sono planati alcune decine di migliaia di emendamenti. Eppure, l’iniziativa della Lega è considerata tattica. E si dà per probabile che alla fine le modifiche possano essere ritirate o aggirate. Il problema, di nuovo, è il Pd. Renzi dovrà trovare un compromesso sull’ Italicum con la minoranza, che non vuole troppi candidati «nominati» dal segretario.
Solo così può esorcizzare il fantasma del 2013; e sperare di ottenere l’elezione di un «suo» capo dello Stato alla quarta votazione, quando basterà la maggioranza assoluta dei voti e non più quella di due terzi. A piazza del Nazareno, sede del partito, concedono che solo un rapporto più disteso con gli avversari interni può facilitare una soluzione rapida. Altrimenti, le manovre delle tribù dei tanti candidati democratici potrebbero trascinare il nulla di fatto per giorni: col rischio di regalare al movimento di Beppe Grillo un ruolo perfino maggiore di quello del 2013, quando riuscì a incunearsi nelle liti della sinistra con la candidatura del professor Stefano Rodotà.
Renzi confida non tanto nella lealtà ma nella debolezza del centrodestra. La voce grossa fatta ieri da Silvio Berlusconi per arringare le sue truppe a Roma, convince fino ad un certo punto. Attaccare il governo e rispolverare lo spettro dei comunisti; o peggio dichiararsi forza risolutamente all’opposizione, suona più come un tentativo di placare i malumori della base di FI che come un annuncio di guerra al premier. La realtà è che Berlusconi ha margini ridotti di trattativa con l’attuale Pd. E l’asse istituzionale cementato dal patto del Nazareno lo vede in posizione subalterna. Appoggiare un capo dello Stato espresso da Renzi è una strada obbligata per non diventare marginale.
Il problema sarà la marcia di avvicinamento al 29 gennaio: un percorso nel quale il metodo viene presentato come il passepartout per superare le resistenze soprattutto dentro il Pd. La Lega dice di temere che il Quirinale «sia merce di scambio tra Renzi e Berlusconi». E con Movimento 5 Stelle e Sel bolla la fretta di dire «sì» all’ Italicum come l’ennesimo indizio di una gran voglia di elezioni anticipate. Ma la clausola che non prevede l’entrata in vigore della riforma prima del luglio del 2016 sembra rinviare qualunque desiderio di urne di almeno un anno e mezzo. Sempre che la successione a Giorgio Napolitano non diventi un incubo. Ma lo diventerebbe per tutti.

Corriere 15.1.15
La rete del premier che mantiene i contatti con tutti i candidati
di Francesco Verderami


ROMA Terrà fede al soprannome che gli hanno affibbiato in Consiglio dei ministri, perciò prima di lanciare un nome per il Colle Renzi «last minute» aspetterà fino all’ultimo, fino all’ultimo studierà i candidati e i sondaggi che sul loro conto ha commissionato. E siccome dai dati demoscopici emerge che nessun politico spicca oggi negli indici di gradimento, non ha definitivamente accantonato l’idea della sorpresa.
Ma di questo il premier tace con i quirinabili, a cui dice o fa dire cose che non spengono le loro speranze. Per Amato ha avuto parole commendevoli, a Del Rio ha spiegato che «tu saresti il mio ideale», a Casini non ha opposto veti all’ipotesi di un esponente dell’area moderata al Quirinale. Tranne Cantone — a cui ieri ha cancellato ogni aspirazione sostenendo in pubblico che «lui ha già tanto da fare all’Autorità anticorruzione» — il leader del Pd fa sentire tutti in corsa. Se i candidati di Renzi si costituissero in Associazione, capirebbero che a ognuno di loro è stata detta sostanzialmente la stessa cosa.
Sarà per via della sua indole o per la difficoltà politica di comporre al momento l’intricata faccenda, in ogni caso il premier sta alimentando le ambizioni di quanti vorrebbero succedere a Napolitano. E li tiene stretti a sé, grazie a un network di fedelissimi che risponde solo a lui e che ha il compito di monitorare i quirinabili e riferirgli ogni dettaglio delle loro conversazioni.
Così a Delrio è stato assegnato il «fronte emiliano», dove sono di stanza Prodi e Castagnetti. Alla Boschi sono toccate la Severino e la Finocchiaro. La Madia è stata facilitata, visto che parla ogni giorno con il figlio di Mattarella, capo legislativo del suo dicastero. Nessuno si risparmia. Persino il sindaco di Firenze è coinvolto da Renzi nella «rete»: è Nardella infatti a tenere in via riservata i rapporti con Amato.
Agli ex segretari del partito ci pensa invece il premier, conscio che «tutti i miei predecessori si sentono candidati in pectore per il Quirinale». E con loro Renzi parla, più di frequente manda sms di lusinga o di rassicurazione. Ma tra questi c’è chi ricorda com’era rassicurante il messaggio inviato dal segretario del Pd a D’Alema quando era in ballo per una nomina in Europa: è un messaggio che l’ex premier ha tenuto nella memoria del telefonino e che ogni tanto mostra ai suoi interlocutori per metterli sull’avviso.
In fondo però Renzi va capito. Deve gestire il passaggio più delicato della sua giovane carriera politica, con avversari interni ed esterni al suo partito che — a scrutinio segreto — vorrebbero riservargli il trattamento della rottamazione. Il premier però è convinto di partire nella corsa al Colle da una posizione di forza, e da lì poter mediare: «Nessuno — spiega — potrà fare un presidente della Repubblica contro di me, anche se io dovrò farlo insieme agli altri».
Gli «altri» sono Berlusconi, l’Area popolare di Alfano e la minoranza democratica. E pur di tenere dentro l’accordo il Cavaliere, mette in conto di perdere un pezzo del suo stesso partito. Il problema è di non perdere tanti pezzi del Pd e soprattutto di non ritrovarsi con una Forza Italia a pezzi. Questo è il maggior rischio, evidenziato ieri nell’Aula della Camera e riassunto in un tweet dal renziano Giachetti: «Dal dibattito sulle riforme si deduce che a giorni cadrà la giunta Maroni e che ad ore i fittiani usciranno da Forza Italia».
Nonostante Berlusconi faccia sfoggio dei «nostri 150 grandi elettori» per dire che «al Quirinale non voteremo un capo dello Stato come gli ultimi tre», lo spettacolo offerto a Montecitorio non è stato un bel segnale per il premier alla vigilia della partita per il Quirinale. E come non bastasse, in vista delle prime tre votazioni — le più insidiose per Renzi — i dirigenti del Pd hanno segnalato a palazzo Chigi movimenti di truppe Cinquestelle, pronte a votare Prodi per tentare di sabotare il patto del Nazareno. Come ammette il vice segretario del Pd Guerini, il passaggio in cui è prevista la maggioranza dei due terzi dei grandi elettori, «sarà delicato».
Ecco spiegato l’ endorsement per Veltroni, che di fatto viene contrapposto al fondatore dell’Ulivo. Guerini confuta la tesi, spiegando che «comunque un candidato forte si misura poi alla prova del consenso». Insomma, è solo l’inizio della sfida, non è pensabile sia già scritta la fine. Perciò al momento tutti nutrono speranze. Grasso, per esempio, agli occhi di Renzi si gioca la partita della vita con il «canguro», l’arma usata per eliminare gli emendamenti di massa presentati dalle opposizioni per fare ostruzionismo. E il presidente del Senato — pur da supplente di Napolitano — tiene la regia dell’Aula di palazzo Madama dov’è in gioco l’approvazione dell’Italicum prima delle votazioni per il Colle.
Nell’attesa tutti si apprestano a manovre di posizionamento. Anche quello che un tempo fu il centrodestra — cioè i gruppi di Forza Italia e di Area popolare — dovrà decidere: marcerà in ordine sparso verso l’intesa con il premier o darà vita a un preventivo patto di consultazione? Alfano, puntando per il Colle su una personalità «garante di tutti e con sensibilità cattolica» si schiera per Casini. E Berlusconi?

il Fatto 15.1.15
Il successore si decide a cena
Renzi insiste: elezione al quarto scrutinio e percorso condiviso
I cattolici con Fioroni e Guerini si vedono al Pantheon
I dissidenti interni fanno un incontro dopo l’altro
di Wanda Marra


“Grazie Presidente”. Sono le 11 e 05 quando Matteo Renzi lancia l’hashtag su Twitter. È l’ora della gratitudine e del rimpianto. E del tentativo di serrare i ranghi del Pd, con la segreteria convocata all’alba. “Il nome ce l’abbiamo in mente”, conclude la giornata il premier da Daria Bignardi alle “Invasioni barbariche”. Ma è soprattutto il momento delle grandi manovre. Laura Boldrini, leggendo in Aula la lettera di dimissioni di Napolitano, piange. Ecco la scena. Ma intanto, il retro-palco va avanti da settimane. Basta osservare il fuggi fuggi da Montecitorio, quando l’Aula si interrompe per la capigruppo. Convocata d’urgenza perché l’opposizione vorrebbe interrompere i lavori in attesa del nuovo voto sul Colle: un modo per non consegnare in bianco a Renzi né riforme, né, tanto meno, la legge elettorale e il via libera al voto, se lo vuole.
TUTTI CORRONO a fare incontri, riunioni, vertici. A due, a tre, a dieci. “Sono serena. Non c’è motivo di non andare avanti sulle riforme”, sorride, luminosa, Maria Elena Boschi. E in effetti il Parlamento non si ferma. Ma il grande gioco delle trattative è appena iniziato.
La vigilia della sera dell’addio, martedì, si consuma tra cene e incontri. La minoranza dem in Commissione Affari Costituzionali, con Pier Luigi Bersani, Alfredo Dattorre, Gianni Cuperlo, Rosy Bindi, Enzo Lattuca, si riunisce a Montecitorio. Un gruppetto si allunga a cena, capeggiato da Andrea Giorgis, l’uomo che ha in mano il dossier riforme. Si cerca un modo per far passare qualche modifica, una strategia per pesare nel grande gioco del Quirinale. Si sussurrano sorprese, sgambetti in arrivo già da domani. A fine serata, il gruppetto si imbatte in uno più folto, al Pantheon, che sta uscendo dal ristorante “Scusate il ritardo”. Una sessantina, soprattutto di cattolici, capeggiati da Lorenzo Guerini e Beppe Fioroni. Passa Matteo Richetti. Ampia rappresentanza dei fioroniani, da Simone Valente a Gero Grassi, da Giampiero Bocci a Massimo Fiorio. Ma ci sono anche renziani come Stefano Collina e Alfredo Bazoli. I veleni e i sospetti si sprecano: Fioroni in questa fase ha tutto l’interesse a cercare di contare, ragionano in Transatlantico. E per farlo, il modo migliore è far fallire il gioco renziano, che vuole un candidato eletto al quarto scrutinio. E allora, a che gioco si sta prestando il vicesegretario Pd, Guerini? Le interpretazioni divergono, tra i renziani ortodossi che colgono un tentativo da parte sua di capeggiare una corrente neo-democristiana o post democristiana. E altri, altrettanto renziani, che lo vogliono in missione per conto del premier, per cercare di controllare il composito gruppetto. Dalla serata escono tre nomi: Sergio Mattarella, che in questi giorni è in pole position in tutte le quotazioni, Walter Veltroni e Pierluigi Castagnetti. “Matteo vuole uno che non gli faccia ombra. Punto”, è il commento più gettonato in Transatlantico. Dunque, il candidato “ideale” rimarrebbe Mattarella o Castagnetti, che può vantare un’amicizia di ferro con il premier. Veltroni, però, potrebbe essere più votato nel Pd. Le cene non finiscono qui: zona Pantheon, dopo una riunione ufficiale, vanno a cena pure alcuni dei Giovani Turchi. Ma la linea è chiara: “Condivisione del metodo e della figura proposti da Renzi”. A cena si incontra pure un gruppetto di lettiani, capeggiati da Francesco Russo e Paola De Micheli. I civatiani sono corteggiati da tutte le correnti. I voti dissidenti pesano. Tra le grandi manovre che avanzano, si segnala l’attivismo di Giuliano Ferrara in favore di Pier Luigi Bersani. Tra i silenti, ricorre il nome di Dario Franceschini e quello di Giuliano Amato. In molti, invocano l’outsider. Ieri Renzi è a presentare un libro con Raffaele Cantone, che ricopre questa casella: “Ha molte cose da fare... Non si farà rovinare la vita”, commenta il premier a domanda specifica.
È BERSANI a metà del pomeriggio di ieri a giocare la prima carta della minoranza ex ditta: “Se c’è la volontà di arrivare a una intesa con tutti, che sia con tutti, perché aspettare la quarta votazione? ”. Un modo per dire: se davvero Renzi vuole condividere la scelta con noi, e non con Berlusconi, allora voti da subito. Renzi, infatti, ha intenzione di far votare nei primi tre scrutini scheda bianca. E allora, c’è anche la strategia della minoranza che si va delineando: indicare alle prime votazioni Romano Prodi, per costringere Renzi a convergere su quello. Il Professore sarebbe l’unico davvero in grado di svolgere il suo ruolo in autonomia, si ragiona. E quindi di contrastare il premier, che molti vedono sempre più come un uomo solo al comando. Non a caso arriva pronta la risposta, affidata a Andrea Marcucci, renzianissimo senatore: “Bersani propone di votare il Presidente della Repubblica dal primo scrutinio. Visti i precedenti, questa volta meglio prediligere ascolto, sicurezza e coesione vera”. Il ragionamento che Renzi fa con i suoi suonano più o meno così: “Se metti un candidato forte al primo colpo, è ovvio che lo vai a bruciare. ”. E se fosse così, la coda della minaccia, non ci sarebbe altra alternativa che il voto anticipato. Già le elezioni: la capigruppo ha deciso che le riforme costituzionali alla Camera vanno avanti comunque. In Senato, il voto sull’Italicum è stato rimandato a lunedì: la trattativa è a tutto campo. Con il Parlamento che resiste a votare una legge che consegnerebbe l’arma elettorale al premier.
Renzi, comunque, insiste sulla strategia illustrata in segreteria la mattina: “Lavoreremo come un partito tradizionale. Un partito solido. E dunque, dopo la segreteria, faremo la direzione, poi i gruppi per arrivare a un percorso condiviso”. Ma quello che appare chiaro è che se il premier riesce a incassare un nome al primo colpo, potrebbe spuntarla. Altrimenti, le bande saranno in azione.

Repubblica 15.1.15
Il retroscena
Fitto, D’Alema e gli ex dc le correnti si pesano a cena
Nel Pd 50 anti-premier
di Francesco Bei e Goffredo De Marchis


ROMA Ieri sera la cena di Raffaele Fitto con i suoi parlamentari. Lunedì a porte chiuse Massimo D’Alema riunisce i fedelissimi alla fondazione Italianieuropei. Gli ex democristiani del Pd si sono già contati martedì sera vicino al Pantheon con qualche ora di anticipo sulle dimissioni di Giorgio Napolitano. Erano 57. «Ma ne mancavano 4 o 5», aggiunge Beppe Fioroni. Come dire: non facciamo nomi ma siamo una sessantina abbondante, Renzi dovrà fare i conti anche con noi. È un calendario dell’avvento molto particolare. La data finale non è quella di Natale ma il giorno della prima seduta per l’elezione del capo dello Stato, il 29 gennaio. È il calendario delle cene, degli incontri segreti, delle riunioni di corrente. Per contare di più al momento della scelta, per sedersi al tavolo di chi decide un protagonista assoluto della politica. Per ben 7 anni.
Luca Lotti, per aggiornare il pallottoliere dei grandi elettori ed evitare i rischi del voto segreto, deve monitorare anche questi appuntamenti. Sapere chi c’era e chi non c’era, quanti erano i partecipanti e quanti i curiosi, quale indirizzo è stato deciso. Per fare il punto, due giorni fa, Lotti ha organizzato a sua volta una cena. Numeri piccoli: erano lui, il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini e il braccio destro di Franceschini Ettore Rosato. La corrente del ministro della Cultura (che da qualche giorno nella sede del dicastero organizza incontri con vista Quirinale) vanta un buon numero di parlamentari, conosce bene i meccanismi che regolano i gruppi del Pd e gli equilibri per piazzare il nome giusto. Renzi ha affidato a questo terzetto un mandato preciso: lavorare sull’ascolto dei grandi elettori, «stavolta non si scherza, non possiamo sbagliare». Lotti ha tirato fuori la sua lista, l’hanno guardata assieme. La conclusione: si calcolano 50 dem sicuramente pronti ad andare contro il governo e contro il premier, 20 in bilico ma recuperabili.
La verità però è che neanche le correnti scoprono le carte sui candidati. Esattamente come fa Renzi. Lasciano che trapeli il peso delle rispettive truppe, ma non avanzano proposte. «Non ci impicchiamo per avere un cattolico », dice per esempio Fioroni. «Basta che sia autorevole». E condiviso dal gruppetto degli ex Popolari, questo il sottinteso. Loro spingono per un cattolico come Sergio Mattarella. Senza dirlo però.
Tra i renziani pesa anche l’incognita dell’atteggiamento che terranno i bersaniani. Tolti i “turchi”, che si sono riuniti martedì sera al ristorante davanti al teatro Quirino (con il ministro Orlando) e di nuovo ieri sera, i seguaci dell’ex segretario Pd si vedranno oggi in vista della direzione. Cesare Damiano, esponente dell’ala più dialogante, invita il premier a non forzare: «Se si dimostra flessibilità su alcuni temi, come i capilista bloccati nella legge elettorale, qual- che ritocco alla riforma costituzionale, alcune cose ancora aperte sul Jobs Act — riflette Damiano in Transatlantico — allora anche sul Quirinale Renzi potrà correre su un tappeto rosso. Se invece ci si irrigidisce...». Di sicuro peserà anche la partita della legge elettorale, dove lo scontro è a livelli preoccupanti. Miguel Gotor già preannuncia un voto contrario all’Italicum se resteranno i cento capolista bloccati voluti da Berlusconi. E sulle sue posizioni sono attestati 40 senatori, tanto che senza il soccorso azzurro difficilmente la legge elettorale vedrà la luce.
Anche Berlusconi ha iniziato a muovere le sue pedine. Ieri sera a palazzo Grazioli una prima riunione dedicata proprio al Quirinale ha visto insieme, allo stesso tavolo, sia i forzisti che Gal e i popolari di Mario Mauro. «La prima mossa la deve fare Renzi — spiega Mauro uscendo dal vertice — ma abbiamo deciso di coordinarci per mettere tutto il nostro peso sulla stessa mattonella». Renzi aspetta. La riunione dei dalemiani è un passaggio di svolta. Si capirà quante truppe ha ancora l’ex premier in Parlamento. Il coordinamento dei dissidenti Francesco Boccia, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina e Pippo Civati è sempre attivo. E oggi Angelino Alfano batterà un colpo riunendo Ncd, Udc sotto la sigla Area popolare. Se Renzi vuole arrivare al traguardo deve fare i conti anche con loro.

Repubblica 15.1.15
Quel palazzo troppo vuoto e la scommessa del premier
Renzi ostenta una placida sicurezza ma è come se volesse dare coraggio a se stesso e all’opinione pubblica
di Stefano Folli


L’USCITA di scena di Giorgio Napolitano è percepita da molti, anche dai suoi critici, come un fatto storico. Non tanto perché priva di precedenti (c’è l’eccezione di Cossiga che si dimise qualche settimana prima della scadenza). Quanto perché l’immagine dell’anziano signore che con molto decoro, sotto braccio alla moglie, lascia per sempre il Quirinale, porta con sé vari interrogativi.
Uno resterà senza risposta: non sapremo mai se nella decisione del capo dello Stato di ritirarsi abbiano contato solo l’età e i malanni, ovvero anche l’amara constatazione che la classe politica nel suo insieme non riesce ad affrancarsi dai suoi vizi di fondo. In ogni caso, anche quelli che dicono «meno male che se n’è andato » gli rendono omaggio in modo indiretto: riconoscono cioè che in tempi recenti nessuno come Napolitano, a parte il Renzi degli ultimi mesi, ha inciso così tanto nel dibattito pubblico e lo ha condizionato con la sua personalità. Il che accentua il vuoto del Quirinale: fino a che punto il venir meno di una figura autorevole e centrale determinerà uno squilibrio?
Secondo punto. I critici insistono sul «fallimento » del secondo mandato, per dire che è stato un errore di Napolitano accettare la rielezione. E si stabilisce un confronto fra il tono duro, perentorio del famoso discorso della reinvestitura davanti al Parlamento e il magro bilancio odierno per quanto riguarda le riforme approvate e il rinnovamento istituzionale avviato. In realtà, se si vuole usare il termine fallimento, esso non riguarda il presidente, che si è speso senza risparmio per favorire il processo riformatore, bensì il sistema politico nel suo complesso. Un sistema che nel 2013 aveva confessato la sua impotenza ad eleggere un altro capo dello Stato e si era rivolto a Napolitano per aggirare il disastro. Da allora quel sistema ha dato solo fragili segni di novità: c’è il dinamismo volitivo di Renzi, ma anche nel suo caso mancano risultati degni di nota. Il conservatorismo autoreferenziale della classe politica non si è modificato di molto e fra pochi giorni si tornerà a votare per il presidente della Repubblica senza nemmeno avere alle spalle la possibilità di ricorrere di nuovo a Napolitano.
L’intreccio fra la scadenza del Quirinale e la riforma elettorale, che sarebbe stato opportuno evitare, è invece sul tavolo. Quanti nel Pd si battono a suon di emendamenti in Senato contro le liste bloccate e di conseguenza contro l’altissimo tasso di «nominati» che entreranno in un Parlamento peraltro monocamerale (dopo la trasformazione del Senato) sono gli stessi chiamati a votare a giorni per il capo dello Stato. Come non vedere quale groviglio di frustrazioni e desiderio di vendetta si è creato nella pancia del partito, almeno fra coloro che non hanno nulla da perdere perché sanno di non essere comunque ricandidabili?
È in questo clima che Renzi ostenta la più placida sicurezza, convinto — come è noto — che il presidente della Repubblica sarà eletto alla quarta votazione. È come se volesse dare coraggio soprattutto a se stesso e in secondo luogo all’opinione pubblica che lo festeggia in giro per l’Italia. Senza contare, tuttavia, che i battimani non bastano a nascondere gli indici dei sondaggi, per la prima volta in declino. Quanto ai candidati alla successione quirinalizia, non è facile individuare un nuovo Napolitano, ma ancora più difficile e rischioso è rinunciare in partenza al nuovo Napolitano.
Negli ultimi giorni Renzi ha accentuato la spinta psicologica a favore della quarta votazione, dopo che nelle prime tre il Pd voterà scheda bianca (chissà se questo punto è concordato con Berlusconi, il che porterebbe a un’invasione di schede bianche: sarebbe la prova, al di là di tante parole, che il fatidico «patto» esiste e si manifesta nei passaggi topici). Ma in tutti i casi occorre arrivare all’appuntamento con un concorrente che non coalizzi troppi franchi tiratori contro. I quindiciventi nomi che si leggono sui giornali come candidati vanno anche bene sotto il profilo istituzionale, ma sono la prova che per adesso nessuno ha le idee chiare. Nemmeno quei candidati che esagerano nella campagna elettorale personale.

Corriere 15.1.15
«Pronti a non votarlo» La minoranza dem fa muro sull’Italicum
No alle opposizioni sul rinvio a dopo l’elezione per il Colle
di Dino Martirano


ROMA Aula quasi vuota al Senato — presidiata solo da un gruppetto di grillini, dalla minoranza del Pd, dalla presidente Anna Finocchiaro, dal leghista Roberto Calderoli e da un’attentissima Maria Elena Boschi, inamovibile dal banco del governo insieme al sottosegretario Luciano Pizzetti — in attesa che da martedì inizi la raffica di votazioni sui 40 mila e rotti emendamenti della legge elettorale. L’obiettivo del governo è quello di chiudere ben prima del 29 gennaio, giorno in cui i senatori si trasferiranno alla Camera per eleggere il capo dello Stato e il capogruppo del Pd, Luigi Zanda, non sembra poi così spaventato dal numero spropositato di emendamenti prodotto da Calderoli: «Ce la faremo, magari per la fine della prossima settimana lavorando anche di sabato e di domenica».
È saltata però la riunione di oggi in cui il segretario Matteo Renzi avrebbe dovuto domare la minoranza del Pd che al Senato sta preparando un documento politico da giocare se le richieste per limitare il numero dei deputati nominati non dovessero essere accolte. Avverte il bersaniano Miguel Gotor: «Ce la mettiamo tutta ma se il segretario non ci ascolta vuol dire che alla fine non voteremo l’Italicum. Non dico che voteremo contro. Però...».
L’ostacolo «quantitativo» rappresentato da Calderoli, dunque, sembra aggirabile con la tecnica del «canguro» (gli emendamenti seriali cadrebbero uno dopo l’altro) o magari perché l’esponente del Carroccio potrebbe fare forse parziale marcia indietro. Più delicato per il governo il problema «qualitativo» degli emendamenti presentati dalla minoranza del Pd che ha già schierato in aula una batteria di interventi di avvertimento ipercritici sull’Italicum; Massimo Mucchetti, Vannino Chiti, Miguel Gotor, Maurizio Migliavacca, Federico Fornaro e altri ancora hanno puntato sull’effetto di sistema che avranno la legge elettorale e la riforma del bicameralismo. Mucchetti ha spiegato che siamo davanti a «una politica del carciofo, a una mutazione genetica della forma di governo». Migliavacca ha insistito sul ripristino di un legame forte che ormai si è rotto tra eletti ed elettori: «E questo non si ottiene certo con l’aumento dei deputati nominati e non scelti dai cittadini».
È dunque in preparazione un documento politico firmato da una trentina di senatori dem da sottoporre a Renzi nella riunione del chiarimento slittata a lunedì. Ma l’aria di rivolta non è poi così scontata. Pippo Civati va teorizzando che anche i bersaniani ora si stanno placando sulle riforme perché c’è una non tanto remota possibilità che pure l’ex segretario entri in gioco per il Quirinale.
Segnali non amichevoli nei confronti del governo arrivano poi anche dalla minoranza di FI: i fittiani (40 parlamentari) minacciano di non seguire le indicazioni di voto di Berlusconi: alla Camera — dove continua la lenta marcia della riforma costituzionale che deve affrontare ancora più di mille votazioni — Maurizio Bianconi ha addirittura chiesto «una commissione di inchiesta sul patto del Nazareno». Al Senato gli azzurri Bonfrisco e Minzolini si sono accodati a Sel, Lega e M5S per chiedere la sospensione dei voti sulle riforme in attesta che si elegga il capo dello Stato. Stessa richiesta alla Camera. A tutti, però, le presidenti Laura Boldrini e Valeria Fedeli (che da ieri sostituisce Grasso) hanno detto no.

il Fatto 15.1.15
Al Senato torna un Salva B. La manina è del governo
Un emendamento dell’esecutivo al Ddl anticorruzione ripropone il testo che azzera il falso in bilancio per i grandi gruppi col trucco delle soglie
di Gianluca Roselli


Ormai Silvio Berlusconi l’anti-renziano non riesce a farlo nemmeno davanti ai suoi. Così, nel giorno in cui si è dimesso Napolitano e si sono ufficialmente aperti i giochi per la sua successione, l’ex Cavaliere si limita a chiedere che il prossimo capo dello Stato “sia un garante di tutti e non un presidente di parte”. Insomma, linea molto soft. L’ex Cavaliere sa bene che la partita è delicatissima e anche una parola fuori posto può rovinare il lavoro di mesi. Quindi sceglie la linea della prudenza. Siamo a Roma, all’auditorium del Divino Amore, di fianco al santuario dove i romani vanno a chiedere le grazie. “Oggi Silvio viene a chiedere la grazia per un capo dello Stato non comunista”, scherza un militante. L’occasione della sua prima uscita pubblica del 2015 è la kermesse dei club azzurri di Marcello Fiori. Manifestazione cui ha dato una grossa mano anche Renato Brunetta. Tanto che qualcuno parla già di un asse Brunetta-Fiori contro quello composto da Denis Verdini e Gianni Letta. Un asse anti-renziano contro i due che più, in questi mesi, hanno sposato all’interno del partito azzurro la linea più filo governativa. E proprio Verdini e Letta hanno tentato fino all’ultimo di convincere Berlusconi a non partecipare. Per paura che l’ex Cavaliere potesse dire una parola fuori posto sul Quirinale, ma anche per non dare soddisfazioni agli anti renziani. A Montecitorio, per esempio, chiedendo ai fedelissimi di Verdini della manifestazione, si riceveva come risposta una faccia schifata.
La kermesse, dunque, è servita soprattutto come prova di forza interna. Duemila persone e 25 pullman, provenienti dalle province del centro sud, non sono semplicissimi da far arrivare a Roma in un mercoledì feriale. “Siamo qui per fare buona politica. I club sono una palestra da cui deve nascere la nuova classe dirigente di Forza Italia”, afferma Fiori dal palco, sottolineando come la manifestazione “non sia costata nemmeno un euro” alle casse ormai esangui del partito.
BERLUSCONI – la cui giornata era iniziata male con la decisione della Cassazione di negargli la possibilità di espatriare -, invece, esordisce con una battuta che la dice lunga sul suo anti-renzismo. “Entrando qui tutti mi hanno chiesto di fare un selfie. Ma guardare che io non sono Renzi…”. Il comizio scivola via su un copione già visto, quello di rilanciare Forza Italia con i club per ridare fiato al centrodestra e vincere le prossime elezioni. “Il patto del Nazareno ci costa molto in termini di voti, ma nonostante questo gli ultimi sondaggi che ho visto ci danno a poco meno di cinque punti dal centrosinistra”, sostiene l’ex premier. La platea vuole il sangue e lui glielo dà senza troppa convinzione. “Questo governo è un fallimento totale, gli 80 euro li hanno dati aumentando le tasse sulla casa e sui depositi bancari del ceto medio, il job act non serve a nulla e non ha prodotto nemmeno un posto di lavoro in più”, attacca Berlusconi. Ergo “noi dobbiamo tornare al più presto alla guida del Paese, possiamo riuscirci puntando sul 50 per cento degli italiani schifati dalla politica”. Poi Marcello Fiori fa sfilare sul palco quattro personaggi, tra cui la signora Jolanda, 92 anni e 580 euro mensili di pensione, con figlio disoccupato a carico. Ed ecco il colpo studiato ad arte, con Berlusconi che si alza in piedi e le annuncia un suo personale regalo di 20 mila euro. Telefona anche Brunetta. “Sono qui alla Camera a votare, ma col cuore sono lì con voi”. In Senato, nel frattempo, i grillini denunciano un altro colpetto in favore dell’ex Cav. Un emendamento dell’esecutivo al ddl anticorruzione in discussione a Palazzo Madama, infatti, ha letteralmente riproposto lo stesso testo voluto dal governo berlusconiano nel 2003. Con la non punibilità sotto il 5% dell’utile e dell’1% del patrimonio netto. Legge che qualche anno fa salvò l’allora premier nel processo Sme. Dopo che l’esecutivo ha manifestato la volontà di cambiare la legge sul falso in bilancio, e soprattutto dopo lo scandalo sulla norma salva-Berlusconi infilata nella delega fiscale alla vigilia di Natale, un’altra “manina” sembra essere entrata in azione.

Corriere 15.1.15
La chiarezza che manca sul pasticcio del 3%
di Stefano Passigli


Caro direttore, per meglio valutare la decisione del governo di depenalizzare qualsiasi evasione fiscale che resti nei limiti del 3% del reddito imponibile è opportuno considerare innanzitutto due aspetti.
In primo luogo, occorre ricordare che la normativa vigente già configura l’esistenza di un reato solo se le imposte evase superano i 50 mila euro. La non rilevanza penale di evasioni fino al 3% dell’imponibile potrebbe invece coprire redditi ben più elevati dell’attuale soglia di 1.667.000 euro ed evasioni ben superiori a 50 mila euro. Depenalizzare in questo modo l’evasione non avrebbe l’effetto di tutelare chi fosse involontariamente caduto in errori o di rendere più «umano» il Fisco nei confronti dei piccoli evasori, ma quello di impedire il ricorso alla sanzione penale in molti casi di evasione da parte di contribuenti con redditi anche elevati o di ingenti violazioni Iva da parte delle imprese. Una decisione che va in direzione opposta a quella adottata dal Fisco degli Usa o dei maggiori Paesi europei.
L’obiettivo del governo di rendere più agile il rapporto tra cittadini e Fisco è giusto, ma la misura adottata è inadeguata. Non deve dunque sorprendere che sia il presidente della Commissione cui il governo aveva affidato la formulazione dei provvedimenti attuativi della delega (il professor Gallo, già presidente della Corte costituzionale e ministro delle Finanze del governo Ciampi), sia i dirigenti del ministero direttamente competente in materia, abbiano dichiarato di non essere stati all’origine del provvedimento.
Una misura errata può essere introdotta in un provvedimento normativo per errore. E non mancano gli esempi in proposito. Ma nel caso in questione è difficile crederlo. La massima parte dei cittadini ignora che in base ai regolamenti vigenti le riunioni del Consiglio dei ministri sono precedute da un pre Consiglio ove i vari uffici legislativi dei ministeri esaminano, sotto la supervisione del sottosegretario alla presidenza del Consiglio e del capo del dipartimento Affari giuridici e legislativi, i provvedimenti all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri. I partecipanti rappresentano il meglio dell’esperienza e della cultura giuridica presenti nella nostra Pubblica amministrazione, e provengono in larga parte dal Consiglio di Stato o dalla Corte dei conti. È impensabile che essi possano non aver compreso il reale portato dell’art. 19 bis del Decreto se il testo della misura fosse stato effettivamente sottoposto al loro esame.
Purtroppo, troppo spesso anche il Consiglio dei ministri approva solo le linee generali di provvedimenti ancora in fieri , che vengono poi formulati puntualmente in un secondo tempo. È presumibile che questo sia ciò che è avvenuto. Ma se così è, è opportuno che il presidente Renzi non si limiti ad annunciare che la misura sarà rivista e che nel frattempo non entrerà in vigore, ma assicuri che essa verrà ritirata o radicalmente modificata. È insomma necessario e politicamente auspicabile — specie alla vigilia delle delicate scadenze istituzionali e legislative che attendono le Camere — che l’errore venga non solo riconosciuto ma eliminato, e che non si cerchi di difendere la misura con argomenti speciosi, come qualcuno ha tentato di fare danneggiando il governo anziché aiutarlo. Non si deve essere più realisti del re; e il re, nella persona del capo del governo, si è già pronunciato indicando che gli effetti negativi saranno rimossi.
I problemi del sistema fiscale italiano non si risolvono varando misure errate che possono tradursi in un vantaggio per i grandi evasori, ma rendendo più equa la distribuzione del carico fiscale. Deve essere quest’ultimo il vero obiettivo dell’attuazione della delega. Università di Firenze

il Fatto 15.1.15
“Marchionne bravo? Mai detto, servono i fatti”
Maurizio Landini dice di apprezzare le assunzioni alla Fca di Melfi ma chiede di finirla con le discriminazioni ai suoi delegati
di Salvatore Cannavò


Nessun cambiamento nella Fiom, nessuna apertura a Marchionne. Apprezziamo le nuove assunzioni ma Fca deve finirla con le discriminazioni e l’apartheid in fabbrica”. Maurizio Landini ha appena concluso un impegnativo convegno alla Camera dei Deputati in cui si è discusso soprattutto di politica industriale e di ripartenza dell’economia. Con Il Fatto, però, accetta di tornare sulla vicenda Fiat.
L’ALTRO IERI, Sergio Marchionne ha annunciato l’assunzione di 1500 lavoratori allo stabilimento di Melfi e questo ha dato il via libera alla soddisfazione della Fiat, oggi Fca, e dei sindacati firmatari degli accordi tanto contestati negli scorsi anni. Anche il premier Matteo Renzi ha espresso il suo compiacimento intestando le assunzioni alle nuove norme sul lavoro. La Fiom si è pronunciata positivamente sulla decisione della Fca “apprezzando” l’annuncio di assunzioni. E ieri, lo stesso Maurizio Landini, intervistato da Repubblica è stato dipinto come un nuovo fan dell’ad della Fiat-Chrysler: “Bravo Sergio ora fa gli investimenti, noi pronti a voltare pagina”, il titolo del quotidiano di largo Fochetti. Un entusiasmo che ha indotto Anna Maria Furlan, segretario della Cisl, a parlare di “conversione tardiva” da parte del leader metalmeccanico. “Io quel ‘bravo’ non l’ho mai pronunciato” dice invece Landini e, aggiunge, “quando ho dato quell’intervista non sapevo quello che è successo ieri sera (l’altra sera, ndr.) a Melfi”. Il segretario della Fiom si riferisce alla sigla finale dell’intesa che non ha visto la firma dei metalmeccanici Cgil. “Il fatto è che le assunzioni certe, per ora, sono 300 con contratti interinali fino a luglio. A questi si aggiungono 100 trasferimenti. Poi, si dovrà verificare l’effettivo andamento della Renegade, la vettura prodotta nello stabilimento lucano. “Non solo, in cambio la Fiat ha ottenuto tre sabati lavoratori e, soprattutto, la soppressione della mensa che verrà monetizzata”. Si lavorerà di più, dunque, mentre degli accordi già sottoscritti in altri stabilimenti “si prendono le parti peggiori”.
Non c’è dunque nessuna nuova fase nelle relazioni tra Fiom e Fca. “Avendo apprezzato le assunzioni, dice Landini, noi auspichiamo che sia Marchionne a voler aprire nuove relazioni. Si cominci a finirla con le discriminazioni, con il vero apartheid nei nostri confronti, andando alla rielezione delle Rsu in tutti gli stabilimenti”. La proposta della Fiom continua a essere questa.
ANCHE SULLE ASSUNZIONI il segretario dei metalmeccanici non fa sconti: “Ricordiamo che dal 2008 negli stabilimenti del gruppo si sono persi 5500 posti di lavoro e che dunque oggi assistiamo solo a una prima, e parziale, inversione di tendenza”. Quello che Landini vuole precisare ancora è che “a generare occupazione sono gli investimenti, non certo le forme dei contratti”. E sono proprio gli investimenti che non sono ancora chiari in altri stabilimenti, Mirafiori per tutti. “A Cassino si farà l’Alfa ma nella fabbrica torinese è stato annunciato solo un ‘nuovo modello’ senza ancora specificare quale. E a Pomigliano, la metà dei lavoratori è ancora fuori dalla fabbrica. Noi siamo qui ma Marchionne deve dare segnali concreti. ”

il Fatto 15.1.15
Marchionne, assumesi operai
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, c’è poco da scherzare, i numeri sono numeri: 1500 operai assunti a Melfi, almeno 350 tra Pomigliano e Cassino. Si può ancora dire che la Fiat se n’è andata dall’Italia?
Elena

PRIMA DI TUTTO compiacimento. È vero, i numeri sono numeri e questi, persino nel baratro italiano, sono numeri importanti. E così come è naturale che – nei brutti momenti – licenziamenti facciano temere altri licenziamenti, allo stesso modo è spontaneo aspettarsi che questo buon annuncio sia soltanto un primo annuncio. Però è bene ricordare che non stiamo parlando della Fiat, ma di filiali (che si chiamano ancora Fiat) di una società americana denominata FCA (Fiat-Chrysler Automobiles), che ha sede industriale a Detroit, sede legale in Olanda, sede fiscale in Inghilterra. Non c’è ragione di fare il pessimista nel giorno di un evento finalmente confortante. Però vedete benissimo alcuni tratti di questo evento, che può essere utile elencare senza togliere nulla alla festa. 1) L’iniziativa viene fatta apparire subito come una risposta a Renzi e alla sua legge sul lavoro che non ha ancora i regolamenti attuativi e perciò esiste politicamente ma non legalmente. Si direbbe che risponde al disegno organizzato di un dialogo a distanza (dopo la visita di Renzi a Detroit) in cui uno (Renzi) ha approvato ufficialmente, con la sua visita, il trasferimento della ex Fiat negli Usa e in altri luoghi in cui sia conveniente per le tasse (perdute per sempre dall'Italia) di quella che è stata la massima azienda italiana. E, l’altro (Renzi) ringrazia, facendo notare che finalmente in Italia può assumere grazie al suo Jobs Act. Come avrà fatto Agnelli ad avere tutti quegli operai senza Renzi, e senza abbandonare Torino, resta un mistero. 2) La voce del padrone (che è una buona voce, qui citata senza sarcasmo, perché annuncia lavoro) viene da lontano, la sentite? I due leader della FCA, Marchionne ed Elkann, parlano da Detroit, e sulla base dei buoni risultati ottenuti dalla Chrysler, negli Stati Uniti. Solo così possono offrire concessioni all’Italia. L’Italia, con i suoi celebri e storici stabilimenti, appare come una colonia che, se fila dritto, avrà i suoi vantaggi. E infatti Renzi, il governatore, poche ore dopo risponde ai due sovrani dell’auto, un tempo italiana, con un messaggio che dice “Grazie”. Significa: “Ho domato la ribellione, e adesso merito e ottengo sostegno”. 3) Come si vede il meccanismo, che bisogna per forza apprezzare nell’immediato, lascia le mani libere alla proprietà lontana: sia usando finalmente come strumento la flessibilità tanto invocata dai tempi della Thatcher e di Reagan, e che finalmente ha raggiunto il lavoro italiano; sia come capacità di decidere senza dover rispondere a un intero Paese, quel Paese che, nei momenti difficili, ha dato più di un sostegno alla Fiat, e lo ha fatto per la ben nota ragione della identificazione fra il Paese Italia e la sua massima impresa. Ora la situazione è un po’ diversa. Ci sono colonie, ritenute leali e trattate bene dalla potenza lontana. Speriamo che sia così anche in futuro. Ma le bandiere sventolano altrove.

Corriere 15.1.15
Le giunte calabresi sciolte (per mancanza di donne)


Sembra una questione di numeri e invece si tratta di sostanza. Dice la legge Delrio: nei Comuni con più di 3.000 residenti non si può nominare una giunta che non contenga almeno il 40% di presenze femminili. Rappresentanza da garantire anche nei Comuni più piccoli ma senza un obbligo percentuale preciso. Peccato che spesso, un po’ ovunque, i sindaci facciano finta di niente e tirino dritti verso giunte squilibrate, diciamo così, se non completamente maschili. «La formuletta per spiegare di aver violato la legge di solito è: le ho cercate ma non le ho trovate» sintetizza Stella Ciarletta, consigliera regionale di parità in Calabria. Che aggiunge: «Stavolta gli è andata male». È «andata male» ai Comuni di Rombiolo, nel Vibonese, e a Montalto Uffugo, Torano Castello e Vaccarizzo Albanese, nel Cosentino. Perché il Tar Calabria, con le sue prime sentenze del 2015, ha deciso di azzerare le quattro giunte per la mancata osservanza delle norme sulle pari opportunità. Non c’è stata nessuna adeguata istruttoria per dimostrare che non è stato possibile trovare donne alle quali affidare gli assessorati, dicono in sostanza i giudici. Dove per «adeguata istruttoria» si intende non il semplice rifiuto di questa o quella cittadina alla quale era stato proposto l’incarico. Istruttoria: cioè ricerca seria e approfondita, anche fuori dalla lista degli eletti e, se proprio è necessario, perfino fuori dai confini comunali, sempre nel rispetto degli orientamenti politici. Soltanto dopo tutti questi tentativi andati a vuoto si può rinunciare alla presenza femminile. Le sentenze del Tar calabrese sono una buona notizia. Ma come sempre ce n’è anche una cattiva. Su 149 Comuni che hanno votato per le amministrative ce ne sono più o meno la metà, quasi tutti sotto i 3.000 abitanti, che hanno giunte di soli uomini. «La verità?» chiede la consigliera Ciarletta. «Non avevamo soldi per portare tutti al Tar».

Corriere 15.1.15
Facciamo troppa retorica sulla scuola digitale
E intanto i bambini non sanno più scrivere
di Giovanni Belardelli


È consentito nutrire qualche dubbio sulla «scuola 2.0»? Non, ovviamente, sulla necessità che gli istituti scolastici siano forniti di computer e connessioni Internet veloci (cosa che spesso, soprattutto al Sud, non avviene), ma sul fatto che l’insegnamento sia interamente digitalizzato, nei materiali impiegati come nei metodi della didattica. I dubbi sono autorizzati da un esperimento che nel corso dell’anno passato ha interessato due scuole elementari romane. In esse si è dato agli alunni dalla III alla V classe il compito di scrivere ogni giorno poche righe (da 4 a 6) in corsivo; i componimenti sono poi stati analizzati sotto il profilo dei contenuti, della calligrafia, della sintassi ecc.     
   L’iniziativa partiva dalla constatazione che la generazione dei nativi digitali sta perdendo la capacità di scrivere in corsivo, a favore dell’uso della tastiera o — per chi ancora sa usare quell’oggetto in via di estinzione che è la penna — dello stampatello. Il punto rilevante è, come ha osservato uno dei responsabili del progetto, Benedetto Vertecchi, che alla crescente difficoltà di scrivere a mano e alla parallela diffusione dei mezzi digitali corrispondono «una diminuzione della memoria, della capacità di orientamento spaziale e una meno precisa percezione delle relazioni temporali». Corrispondono, insomma, significative alterazioni nell’apprendimento.
  Ben venga allora una dotazione minimamente adeguata delle scuole nel campo degli strumenti digitali. Ma il nostro sistema di istruzione dovrebbe avere anche un compito che nessun altro oggi è in grado di svolgere adeguatamente: preservare non solo abilità a rischio di estinzione come la scrittura a mano, ma le specifiche capacità percettive e di organizzazione del pensiero che a quelle abilità sono connesse. Per fare ciò occorrerebbe però che, al ministero dell’Istruzione o a Palazzo Chigi, si fosse consapevoli del problema e si andasse oltre la facile retorica sulla «scuola 2.0».

La Stampa 15.1.15
Tra islamismo e populismo
di Giovanni Orsina


La grande nuvola di polvere emotiva sollevata dall’attentato di mercoledì scorso si sta via via posando, com’è naturale che sia, e sempre di più emergono le divisioni politiche e culturali non soltanto su come si debba reagire, ma – prima ancora – su quale interpretazione debba darsi agli eventi. Già la manifestazione parigina di domenica da un lato ha chiamato i francesi all’unità nazionale, dall’altro ha tagliato fuori il Front National, oggi primo partito dell’Esagono. Ma anche Renzi, nel discorso che ha pronunciato l’altroieri a Strasburgo per chiudere il semestre italiano, non ha mancato di prendere le distanze dalle forze politiche che, a suo dire, sfruttano la paura a fini elettorali.
La strage di Charlie Hebdo sta insomma contribuendo a far emergere uno schema che con ogni probabilità è destinato a durare: la minaccia islamista da un lato, i partiti della destra populista dall’altro, tutti gli altri nel mezzo. Un assetto «tripolare» al quale non siamo più abituati, ma che in realtà richiama molto da vicino – per la disposizione degli attori sul palcoscenico, certamente non per la loro personalità – le circostanze della Guerra Fredda. Fino a che punto, ci si chiedeva negli Anni Cinquanta, è possibile affidarsi ai neofascisti per arginare i comunisti? Fino a che punto è opportuno agitare la minaccia comunista, se poi ad avvantaggiarsene sarà la destra estrema? È uno schema, questo «tripolare», sul quale vale la pena soffermarsi. Con una riflessione anch’essa tripartita.
La «tripolarità», innanzitutto, è un frutto inevitabile di quello che potremmo chiamare l’«ossimoro dell’Occidente». Ovvero la natura contraddittoria di un’identità occidentale strutturalmente ambigua. Chiusa per un verso, poiché scaturisce da un gruppo ben preciso di popoli, che abitano determinate terre e condividono una determinata storia – genti bianche e cristiane, esposte ai venti delle grandi rivoluzioni seicentesche e settecentesche. Aperta per un altro, visto che nutre ambizioni universalistiche e non soltanto tollera, ma sollecita la diversità. Non è un caso allora se, come si diceva prima accennando alla Guerra Fredda, l’Occidente sta ripercorrendo sentieri che ha battuto già così tante volte in passato. Perché questi sono i sentieri di chi è destinato a stare nel mezzo fra i fondamentalismi altrui e i propri – di chi sta ancorato a radici che continuamente mettono in discussione se stesse.
Poiché l’ossimoro occidentale è fragile – questa la seconda riflessione –, è non soltanto opportuno ma indispensabile, tanto più di fronte a eventi come quelli francesi, pretendere dai partiti della destra più radicale che chiariscano le proprie posizioni. Fino a che punto intendono «chiudere» l’identità dell’Occidente? E ci danno garanzie di non volerla chiudere fino a soffocarla, visto che quell’identità non può vivere altro che aperta? Il Front National di Marine Le Pen sembra aver capito quanto sia importante dare risposte chiare a queste domande: è da qualche tempo ormai che si è posto il problema di ripensare la propria posizione rispetto alla tradizione repubblicana francese – e sta cercando di farlo anche ricostruendosi un rapporto con la memoria del Generale De Gaulle.
Al di qua delle Alpi, invece, la Lega per il momento pare ferma all’iperattivismo televisivo di Matteo Salvini. A meno che non si voglia prendere come indicazione d’una scelta ideologica l’intervista che lo stesso Salvini ha rilasciato qualche tempo fa sulla Corea del Nord – non proprio un bastione dell’identità occidentale – lodando a gran voce il paese felice dove i bambini giocano in strada e non coi videogames. E ignorando o fingendo di ignorare che vent’anni fa i genitori di quei bambini, di fronte a un’agghiacciante carestia «politica», strappavano le cortecce dagli alberi per farci il brodo – oppure, peggio ancora, pativano in campi di lavoro nei quali, se si sopravviveva, era perché nella propria baracca ci si era ingegnati ad allevare ratti.
C’è infine una terza riflessione da fare. L’attacco islamista all’ossimoro occidentale non interroga soltanto le destre più radicali, ma anche le forze politiche e culturali più moderate. Pone loro due problemi, in particolare. Il primo: prendere voti alimentando paure è operazione pericolosa e meschina; ma lo è anche prenderli alimentando la paura di chi alimenta paure. Detto più chiaramente: costruire la destra populista come nemico assoluto, anche al di là di quel che essa è, può essere elettoralmente utile, tanto più in un momento in cui scarseggiano i sogni da vendere; ma nel lungo periodo potrebbe dimostrarsi una scelta poco saggia – avvantaggiare da un lato, paradossalmente, proprio la destra; e dall’altro aprire spazi al fondamentalismo islamico. Il secondo problema è che, per sopravvivere restando tale, l’identità aperta dell’Occidente deve «chiudersi» almeno in una certa misura – sui principi di fondo, sulla dignità, sui diritti. Il fragile ossimoro occidentale non potrà sopravvivere se su quei valori le culture politiche di governo saranno timide e reticenti, e non saranno ferme con chi li aggredisce nei fatti o rifiuta di accettarli a parole. Dall’interno, ma anche dal di fuori dell’Occidente.

Corriere 15.1.15
Kenan Malik
«I giovani islamici sono in crisi. E la jihad dà loro un senso d’identità»
intervista di Massimo Gaggi


DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK «Quello che sta accadendo ci disorienta, ma bisogna stare attenti a non sbagliare analisi: l’islamismo radicale non è un movimento religioso ma è il modo in cui alcuni gruppi esprimono la loro barbarica rabbia politica utilizzando a questo fine una certa interpretazione della religione. I giovani jihadisti crescono estraniati dalla società nelle nazioni europee nei quali sono emigrati i loro genitori. Ma la stessa cosa avviene anche nelle comunità dei Paesi musulmani. Molti detestano costumi e tradizioni delle loro famiglie: il motivo per cui si sentono disconnessi tanto dalle società occidentali quanto dalle comunità musulmane e abbracciano l’islamismo radicale non è religioso. Ha più a che fare con la loro crisi di identità. La jihad dà loro un senso di appartenenza, una nuova identità: si riconoscono in obiettivi comuni spaventosamente chiari».
Kenan Malik è un intellettuale molto particolare. Neurobiologo e psicologo indiano trapiantato in Gran Bretagna, ha insegnato storia della scienza e filosofia della biologia a Cambridge e Oxford, ma anche in varie università europee, da Oslo a quella europea di Firenze.
I suoi studi su multiculturalismo, pluralismo e razza lo hanno portato a pubblicare diversi libri di successo come Uomini, bestie e zombie e Dalla Fatwa alla Jihad , un saggio sulle conseguenze del caso Salman Rushdie. E anche ad allontanarsi dalla sinistra europea marxista nella quale aveva militato per molti anni. Oggi lo si può definire un difensore dei valori dell’illuminismo che rifiuta il multiculturalismo ma è anche deciso a respingere ogni tentazione xenofoba.
Quali errori attribuisce alla sinistra europea?
«Da un lato una sua ampia parte ha abbracciato il multiculturalismo e il relativismo finendo per considerare razzista l’universalismo: lo ha accusato di imporre anche agli altri popoli le idee euro-americane della razionalità e della oggettività. In questo modo la sinistra ha rinunciato al suo impulso progressista nel nome del rispetto e della tolleranza. Poi c’è una sezione della sinistra, pensatori come Martin Amis o Bernard-Henry Lévy, che sono rimasti legati ai valori dell’illuminismo ma li hanno usati in modo tribale: non valori universali sui quali costruire una vera politica progressista, ma un mito che serve a definire l’Occidente. In questo modo l’illuminismo diventa un’arma nella battaglia tra le civiltà anziché essere lo strumento che definisce valori e attitudini necessarie per far avanzare diritti politici e progresso sociale».
Lei quindi crede che stiamo andando verso uno «scontro di civiltà», secondo il celebre monito di Samuel Huntington?
«No, quella nozione la consideravo falsa vent’anni fa, quando il saggio fu pubblicato, e la considero falsa oggi. Questo non è uno scontro di civiltà tra Occidente e Islam ma un conflitto di valori sia all’interno dell’Occidente che nelle società islamiche. Valori chiave dell’Occidente come uguaglianza, democrazia e secolarismo sono contestati anche da molti non musulmani nelle nostre società, soprattutto in Europa. Basti pensare che in Francia rischia di arrivare al ballottaggio delle presidenziali una Marine Le Pen che di certo non incarna quei valori. I figli delle ex colonie nati in Francia vengono considerati tutti “africani” e “musulmani” anche se la maggioranza di quella comunità è più secolare, meno religiosa della vecchia Francia. Conosco gente venuta dal Bangladesh e dal Marocco più illuminista di chi ha genitori europei».
Dunque metterla in termini di scontro di civiltà è addirittura pericoloso?
«Esaspera l’aspetto religioso mentre il vero problema è quello dell’identità e il rifiuto della modernità. Se fossero nati 30 anni fa, i movimenti radicali islamici sarebbero stati certamente più secolari e si sarebbero espressi attraverso campagne e organizzazioni politiche, non con l’azione di cellule tribali, come vediamo oggi. Il problema è il cambiamento della natura delle rivolte: quelle anti-imperialiste della seconda metà del Novecento erano comunque basate sui valori dell’illuminismo europeo. I loro leader combattevano le potenze coloniali ma volevano modernizzare gli altri Paesi non occidentali, portare libertà, industrie, sviluppo economico. I vecchi movimenti rivoluzionari volevano godere dei frutti del progresso come gli europei, non contestavano il metodo scientifico né l’esistenza di valori universali. Quella dei radicali di oggi è, invece, una rivolta nichilista contro progresso e globalizzazione. Come ho scritto l’altro giorno sul New York Times , abbiamo vissuto l’orrore dei 148 bimbi massacrati dai talebani in una scuola pakistana come lo choc improvviso di un atto “disumano e medievale”. Ma quell’atto non è improvviso: negli ultimi cinque anni i talebani hanno attaccato nello stesso modo, anche se con bilanci non così tragici, ben mille scuole pakistane».

Corriere 15.1.15
Padre Pizzaballa, il Custode di Terrasanta
«Non esiste lo scontro di civiltà Questa è una guerra interna all’Islam»
intervista di Marco Garzonio


«Gli atti di terrorismo che insanguinano il Medio Oriente e l’Europa non sono frutto di uno scontro di civiltà. Questa è innanzitutto una guerra interna all’Islam. È inoltre la risposta sbagliata e drammatica di una parte dell’Islam alla modernità, ai problemi economici, morali, culturali che lo sviluppo pone. Nel mondo musulmano questa riflessione non è ancora stata fatta». Parla padre Pierbattista Pizzaballa, 50 anni ad aprile, il francescano Custode di Terra Santa da undici, cioè l’erede della capacità di incontro instaurata dal Santo di Assisi con il Saladino: l’altra faccia rispetto alle Crociate.
Netanyahu e Abu Mazen in prima fila nella marcia di Parigi. Una circostanza dettata da un evento particolare o l’indizio di un cambiamento nei rapporti tra Israele e i Palestinesi?
«Non mi sembra che spirino venti di cambiamento. La forza degli eventi li ha obbligati ad essere a Parigi. Ma le relazioni tra Israele e palestinesi non sono cambiate, purtroppo. Le elezioni che ci saranno tra un paio di mesi impongono un’attesa. Si capirà dopo».
Hamas ha condannato gli attacchi terroristici in Francia: una presa di distanza dopo il plauso all’assassinio di 4 rabbini in sinagoga?
«È una presa di posizione curiosa. Solo il tempo dirà se è mutata la strategia o se è stato un episodio. Resto un po’ freddo. Spesso in Medio Oriente ci sono due facce: una politica interna e la necessità di guadagnarsi credito internazionale».
Gli attacchi di Parigi cambieranno il modo di pensare occidentale verso i conflitti che insanguinano il Medio Oriente?
«Non sono i primi attacchi terroristici di matrice islamica in Europa. Si pensi a Madrid, a Londra, nella stessa Francia. La novità è l’impatto sull’opinione pubblica. Si stanno determinando le condizioni perché l’Europa compia un’opera di chiarimento su alcune parole lasciate nell’ambiguità. La parola integrazione. Cosa significa? Ci sono valori al centro della convivenza. I diritti fondamentali della persona: libertà di coscienza, uguaglianza uomo-donna, dignità e ruolo della donna, libertà di cultura, di espressione, legislazione sul lavoro, distinzione tra politica e religione e così via. Chi viene in Europa non può metterli in discussione. L’Europa deve chiarire la propria identità, sapendo che per poter integrare devi definire con chiarezza i punti fermi irrinunciabili».
Diceva Martini che ci sarà pace nel mondo quando ci sarà pace a Gerusalemme. Solo un paradosso?
«Gerusalemme ha un valore simbolico altissimo e, insieme, una rete di relazioni e interdipendenze molto strette col mondo. Le tensioni qui sono espressione di quelle mondiali. E viceversa. Se qui si dialoga si può riverberare sul pianeta una capacità di incontro».
Nella mobilitazione di Parigi c’è solo l’Europa dei Lumi che difende la libertà di manifestare le proprie idee, o anche l’Europa che si ispira al solidarismo cristiano dei grandi leader nel dopoguerra?
«L’Europa di oggi è diversa dai momenti che l’han vista nascere. Non so quanto il solidarismo di ispirazione cristiana animi oggi il Vecchio Continente. Basta guardare a come si è affrontato il tema dell’immigrazione, i salvataggi in mare e le politiche collegate. Certo, ciò che è accaduto a Parigi ha mosso nuove dinamiche, a partire dalla necessità di coordinarsi per rispondere al terrorismo».
Quindi si è messo in moto solo un meccanismo che garantisca l’ordine pubblico?
«Questa è una parte. C’è un’Europa che non fa notizia e lavora per l’integrazione, una rete di movimenti, volontari, iniziative. Guardiamo a tale Europa, che conta più di quanto non si creda».
Lei è a contatto con i cristiani di tutte le confessioni in Israele, Egitto, Siria, Giordania, Iraq, Libano. Che situazioni incontra?
«Sono Paesi diversissimi tra loro. Israele non è come la Siria e l’Iraq. L’Egitto, oggi più tranquillo, offre aspetti e dinamiche interessanti e vivaci. Penso all’importante discorso del presidente Sisi dell’università Al Azhar. In generale vedo una debolezza istituzionale diffusa. Certo, incontro situazioni umane drammatiche, ma scopro anche tanta solidarietà, oltre a un’umanità negativa. Sono stato ad Aleppo. È una città da due anni sotto assedio. C’è rimasto chi non sa dove andare. Non c’è acqua e la concessione di un po’ di elettricità dipende dai ribelli. Eppure, imam e parroco si aiutano. I gesuiti distribuiscono 10 mila pasti al giorno e giovani volontari, cristiani e musulmani, li portano a chi ha bisogno. Ci sono tante realtà di cui i media non parlano. Sono il contraltare al fanatismo e alle decapitazioni».
Molti cristiani affermano che stavano meglio sotto Saddam e Mubarak, che godevano di maggior libertà e protezione: ha fondamento tale giudizio?
«Si trattava di regimi dittatoriali, che non sarò io certo a difendere. Ma ad essi sono subentrate dittature peggiori, a cominciare dal fondamentalismo».
Che cosa dell’Isis attrae i giovani europei?
«Non so spiegarmi come il fanatismo possa attrarre. Molti parlano di giovani disperati che vengono dalle periferie dove non c’è nulla. Ma poi vedi che accorrono anche persone istruite e ti chiedi se non vi sia un problema di formazione, l’incapacità di abituare fin dalla scuola i giovani a pensare, confrontarsi, problematizzare. L’Europa e soprattutto il Medio Oriente devono affrontare il tema dell’educazione».
In Medio Oriente, tra la gente, non si avvertono reazioni di tipo umano a torture ed esecuzioni?
«Sì, una reazione c’è, ma negli incontri personali. Mi aspettavo più fermezza da parte dei media in Medio Oriente. Forse qualcosa si muove. Penso alla reazione agli attentati di Parigi e al mondo che li esprime da parte di Al Azhar, l’università religiosa del Cairo, riferimento importante per l’Islam».
Il Papa è stato il primo ad evocare l’immagine di «terza guerra mondiale». Quali elementi hanno suggerito al Pontefice quell’intuizione?
«Il Papa ha uno sguardo d’assieme sulla realtà mondiale che pochi altri possono avere. Ha colto il cambiamento epocale e, in esso, la violenza che lo abita come nocciolo. Il fanatismo, il dire io sono nel giusto; o diventi come noi, o devi sparire. Poi, a seconda delle situazioni, si avrà in Medio Oriente l’Isis e in Africa Boko Haram. È un ritorno al punto più buio di secoli passati».
Il Papa ha invitato alla preghiera comune in Vaticano ebrei, cristiani, musulmani. Dicono che lei sia stato regista. Possono fare qualcosa per la pace le tre religioni del Libro?
«Possono fare tantissimo. Ma parliamo di religiosi, non di religioni, parola astratta. I religiosi all’interno dei loro mondi devono aver chiaro il ruolo dell’esperienza religiosa, le relazioni con Dio e tra questi e l’uomo e tra gli uomini, evitando assolutizzazioni che portano ai fanatismi. In questo contesto è soprattutto l’Islam che ha un grosso lavoro da fare in proposito. L’immagine di religiosi che dialogano tra loro è essenziale oggi. Non possiamo restare solo con l’immagine che ci trasmettono i fondamentalismi».
L’Europa deve ora a fare i conti con la deriva antisemita. La comunità ebraica francese si è dimezzata, le comunità cristiane del Medio Oriente emigrano. In alcuni Paesi d’Europa i musulmani raggiungono la metà della popolazione. Che cosa sta accadendo?
«Occorre guardare al mondo in trasformazione e a questi spostamenti senza spaventarsi. Finisce un’epoca, non il mondo. Le discriminazioni contro le minoranze sono la cartina di tornasole della nostra cecità e delle nostre paure. Credevamo che l’antisemitismo fosse finito dopo le efferatezze del nazismo e abbiamo allentato l’attenzione. Purtroppo c’è ancora il pregiudizio antiebraico e va combattuto. Bisogna distinguere aspetto politico e religioso. Si può non condividere la politica dello Stato di Israele, ma tale valutazione non può assumere connotazioni antiebraiche o diventare il pretesto per alimentare forme di antisemitismo».
C’è un Islam moderato o parlarne esorcizza la paura?
«Islam moderato è un’espressione molto europea. Risponde ai nostri bisogni di semplificazione. Dobbiamo imparare a conoscere meglio l’Islam, che è una realtà molto complessa. In quella galassia non tutto è fanatismo, non tutto è Isis: per carità. Certo, ci vuole un grande sforzo da parte dell’Occidente».
Cosa non ha capito l’Occidente delle Primavere Arabe?
«L’Occidente non ha compreso molto la complessità del Medio Oriente. Prima l’ha visto sotto il profilo dell’occupazione coloniale. Poi per soddisfare i propri bisogni economici ed energetici. Risultato? In Iraq e Libia si son fatti errori. Si volevano fermare dei dittatori, con i quali s’erano avuti rapporti di convenienza? Ci poteva stare, ma le iniziative si prendono se si ha in mente cosa può accadere. Le primavere arabe hanno espresso un cambiamento, ma quando s’è trattato di definire il dopo movimenti spontanei sono stati sequestrati dai fanatismi. I cambiamenti non sono finiti, ci aspetta un periodo di trasformazioni. Per esempio l’Isis non proseguirà nel tempo. Dobbiamo sapere che non si può puntare alla situazione precedente, che non ci saranno un Iraq o una Siria stati nazionali come in passato».
Il leader della Lega afferma che milioni di musulmani son pronti a ucciderci e fa breccia in molte periferie...
«Non dobbiamo rispondere a chiusure con altre chiusure. Il fanatismo si ferma con la prevenzione, combattendo l’ignoranza. I fanatici ci vogliono contro per giustificare i loro attacchi».
Padre Pizzaballa, lei è ottimista?
«Nel breve no. Sul lungo periodo sì. C’è una guerra in corso, ma le guerre finiscono. E allora c’è solo da ricostruire. Oggi magari non si intravvede una soluzione politica, ma non è finita la missione del Cristianesimo in Medio Oriente. Molto è distrutto, il seme è rimasto. Quello di Gesù, figlio dell’uomo».

Corriere 15.1.15
Libertà d’espressione. Sì, ma con giudizio
risponde Sergio Romano


Il massacro compiuto a Parigi — assurdo, inconcepibile, da condannare senza nessuna esitazione — ci tocca così profondamente
da far sì che i sentimenti abbiano facilmente il sopravvento sulla ragione. È ovvio che non c’è nessuna scusa per chi all’offesa reagisce con terribile inaudita violenza, ma perché non si vuole prendere atto della realtà? Che oggi esistano persone disposte a uccidere in nome di Allah, come una volta i cristiani uccidevano in nome di Dio, è una certezza, un fatto. Ora, ammesso che la libertà di burlarsi di Gesù o di Dio, di Maometto o di Allah sia cosa giusta, buona e ragionevole, se non è necessario perché devo esercitare tale libertà, sapendo così di mettere a repentaglio non solo la mia vita, ma anche quella dei miei familiari, degli amici, dei concittadini? Ha senso se — ripeto — non è necessario? In questo caso l’esercizio della libertà deve tener conto della responsabilità e della razionalità. E dettati dal sentimento
e non dalla ragione sono tanti titoli di
giornali analoghi al seguente: «Questo è l’Islam». No: questo è il fanatismo di alcuni islamici.
Miriam Della Croce

Cara signora Della Croce,
Le reazioni delle opinioni pubbliche e dei governi democratici all’attentato contro la redazione di un giornale satirico francese hanno dato l’impressione che l’Occidente consideri la libertà d’espressione alla stregua di un valore assoluto e intoccabile, da difendere sempre e comunque, indipendentemente da ogni altra considerazione. Non è vero, naturalmente. Non vi è Paese, fra quelli rappresentati in prima fila alla grande manifestazione di Parigi, che non abbia leggi in cui vengono fissati confini e paletti. Il Paese vittima dell’attentato, la Francia dei diritti dell’uomo e del cittadino, proibisce la pubblicazione delle opinioni di Adolf Hitler ( Mein Kampf ) e quelle del misterioso falsario che denunciò, in un libello dei primi del Novecento, l’«assalto ebraico al potere mondiale» ( I protocolli dei savi di Sion ).
Nel sistema legale francese la negazione del genocidio armeno e del genocidio ebraico non sono opinioni, ma reati. Un uomo politico francese di origine comunista, ma convertito all’Islam, Roger Garaudy, è stato condannato da un tribunale francese nel febbraio 1998 per avere scritto un libro ( I miti fondatori della politica israeliana ) in cui affermava che il genocidio ebraico è soltanto una fabbricazione sionista. Un altro tribunale francese, nel 1995, ha condannato, sia pure a una pena simbolica, Bernard Lewis, uno dei maggiori studiosi del Medio Oriente, per avere espresso qualche dubbio sull’opportunità di definire «genocidio» quello degli armeni durante la Prima guerra mondiale. Sempre in Francia ieri è stato rinviato a giudizio per «apologia di terrorismo» un comico francese originario del Camerun, Dieudonné M’bala M’bala, colpevole di avere accoppiato il nome del giornale satirico con quello di uno degli attentatori («Je suis Charlie Coulibaly»).
In altre parole, cara Signora, la libertà di espressione è totale per quelle idee e opinioni che riflettono il pensiero dominante di una società nazionale in un determinato momento storico, più limitata quando offende lo stesso pensiero dominante. Se le vignette di Charlie Hebdo avessero preso di mira gli ebrei, le reazioni sarebbero state alquanto diverse. È comprensibile. Noi non possiamo dimenticare quali orribili conseguenze l’antisemitismo abbia avuto per la sorte di 6 milioni di persone. Ma non dovremmo dimenticare che anche le società musulmane hanno le loro memorie.

Repubblica 15.1.15
Agamben: “Non siamo in guerra con una religione”
intervista di I. V.


GIORGIO Agamben, filosofo, studioso del potere, docente a Parigi, cosa pensa dei fatti francesi? Siamo davvero in guerra come sostengono molti?
«Mantenere la lucidità davanti a un delitto così atroce è difficile, ma non per questo meno necessario. Dunque mi sembra irresponsabile che alcuni abbiano potuto parlare apertamente di guerra. “Guerra” significa un conflitto fra Stati o potenze che si possono identificare e chiamare per nome, il che in questo caso, come in ogni atto di terrorismo, è ovviamente impossibile. Proprio noi in Italia — dove dopo decenni non conosciamo ancora chi siano i mandanti dell’attentato di piazza Fontana — dovremmo essere i primi a saperlo. Ed è proprio questo equivoco tra terrorismo e guerra che ha permesso a Bush dopo l’11 settembre di scatenare quella guerra contro l’Iraq che è costata la vita a decine di migliaia di persone e senza la quale forse non avremmo avuto la strage che la Francia sta oggi piangendo».
Eppure molti pensano che per l’Occidente il conflitto con l’Islam sia inevitabile.
«Invece io penso che sia non meno irresponsabile e odioso identificare genericamente nell’Islam il mandante e il nemico da combattere. Quelli che lo hanno fatto sono senza accorgersene solidali con coloro che vorrebbero condannare. Mi sembra che la manifestazione di domenica mostri che è possibile una reazione ferma e politicamente consapevole, ma che non cade in questi errori. Tanto più che occorre non dimenticare che in un atto di terrorismo, in cui a volte servizi segreti e fanatismo lavorano insieme, è sempre difficile accertare con chiarezza i responsabili ultimi».
Sta dicendo che c’è qualcosa che è stato tenuto nascosto?
«Non sono tra quelli che vedono ovunque possibili complotti, ma la versione dei fatti che è stata riferita presenta delle oscurità e delle incongruenze. E temo che ora diventi sempre più difficile accertare le responsabilità ».
Ma ci sono le telefonate registrate dalla tv francese e i video di rivendicazione che sembrano spiegare tutto in maniera inequivocabile.
«Si parla molto di libertà di stampa ma dovremmo parlare anche delle conseguenze che questo crimine avrà sulla nostra vita quotidiana e sulle libertà politiche, su cui, col pretesto del tutto illusorio di difenderci dal terrorismo, pesa già una legislazione più restrittiva di quella che vigeva sotto il fascismo. Anche perché dopo l’11 settembre in molti paesi, fra cui la Francia, i delitti di terrorismo sono stati sottratti alla magistratura ordinaria. Inoltre come si è potuto vedere in Francia con l’affare Tarnac e in Italia col processo No-Tav, il rischio è che ogni dissenso politico radicale possa essere classificato come terrorismo. Non tutti sanno che il Tulps, il Testo unico sulla pubblica sicurezza emanato sotto il fascismo, è per l’essenziale ancora in vigore, ma che le leggi contro il terrorismo, dagli anni di piombo a oggi, hanno sensibilmente diminuito e diminuiranno sempre più le garanzie che ancora conteneva ».
Ma se la società civile è così vulnerabile, a maggior ragione abbiamo bisogno di leggi che governino la nostra sicurezza.
«La sorveglianza quasi senza limiti che, grazie anche ai dispositivi digitali, vengono esercitate in nome della sicurezza sui cittadini sono incompatibili con una vera democrazia. Da questo punto di vista oggi senza accorgersene stiamo scivolando in quello che i politologi americani chiamano Security State, cioè in uno Stato in cui una vera esistenza politica è semplicemente impossibile. Di qui il progressivo declino della partecipazione alla vita politica che caratterizza le società postindustriali. Temo che, dopo quello che è successo a Parigi, questa situazione peggiorerà ulteriormente ». ( i. v.)

il Fatto 15.1.15
Non è un paese per violini
Dopo l’Orchestra del Lazio, la Sinfonica di Roma, il Regio di Parma e la Mozart di Bologna, chiude anche Lecce
di Elisabetta Ambrosi


L’ultimo allarme viene da Lecce. Salvo miracoli, infatti, l’Orchestra Sinfonica di Lecce – che da quarant’anni eseguiva dal vivo opera lirica, musica sinfonica, classica e contemporanea, balletto, jazz – sarà posta in liquidazione fin da questo mese. Tutto azzerato da un equivoco palleggio tra Provincia Comune di Lecce e Regione Puglia su a chi spetti finanziarla. Il contributo statale di circa 500 mila euro, che coprirebbe solo una parte dei costi resta, ma viene meno quello di un milione e mezzo, decisivo, della Provincia che non ha più competenza sulla cultura per la legge Del Rio. “Le lettere di licenziamento per i 33 orchestrali sono già partite e se per il 31 gennaio non avviene il miracolo dell’autofinanziamento per il 2015, niente orchestra dal vivo per tutto il Salento”, spiega Marcello Panni che dell’Orchestra Tito Schipa è stato Direttore artistico e musicale per quattro anni. “Per una città come Lecce che ha conteso fino all’ultimo il posto di capitale della cultura 2019 a Matera, non mi pare il massimo. Nonostante le belle parole di amministratori volenterosi se si deve tagliare un servizio pubblico si taglia l’orchestra provinciale-comunale-regionale. E stiamo parlando di musicisti di un’orchestra che hanno dovuto studiare dieci anni almeno il loro strumento e partecipare a concorsi molto selettivi. Potranno essere sindacalizzati e litigiosi come li descrive Fellini ma non sono quei nullafacenti dipinti da certi articoli di giornale”.
IL CASO di Lecce, purtroppo, è solo l’ultimo. Mentre in Austria c’è un’orchestra ogni 180 mila persone contro una per 1.800.000 in Italia, e in Germania le orchestre sono oltre novanta, da noi invece, a parte le costose Fondazioni Liriche, le orchestre sinfoniche indipendenti con una programmazione stabile in Italia e finanziate da fondi pubblici ormai si contano sulle dita di una mano. Solo negli ultimi due anni, nell’indifferenza generale, ne sono state chiuse quattro: la Regionale del Lazio, l’Orchestra Sinfonica di Roma, quella del Teatro Regio di Parma e l’Orchestra Mozart di Bologna fondata da Claudio Abbado. Intere regioni ne sono prive (ad esempio la Campania, la Calabria, l’Umbria), mentre delle quattro orchestre Rai di Roma, Milano, Torino, Napoli – considerate dal servizio pubblico fuori tempo e improduttive – oggi resta solo quella di Torino. E un altro SOS arriva anche dall’Orchestra Verdi di Milano, diretta da Luigi Corbani, che in questi giorni sta diffondendo un appello a tutte le forze politiche e civili: “È dal 1993 che la Verdi soffre per l’esiguità delle sovvenzioni pubbliche, molto inferiori a quanto erogato per altre attività con minore partecipazione di pubblico, tuttavia questa situazione di grave difficoltà economica non ha fermato la programmazione artistica che conta circa 400 eventi l’anno”, si legge nell’appello.
Eppure, come ha segnalato un’inchiesta uscita a dicembre sulla rivista Classic Voice, rispetto ai musicisti delle fondazioni liriche, quelli delle orchestre sinfoniche lavorano di più – 216 giorni contro 165 – e guadagnano di meno: 36.932 euro, ad esempio, lo stipendio lordo annuo medio delle prime parti alla Tito Schipa di Lecce, contro gli 85.430 di Santa Cecilia a Roma.
I finanziamenti pubblici in totale sono più bassi (15,5 milioni per Santa Cecilia contro, ad esempio, 2.126.000 dei Pomeriggi Musicali di Milano, 570.000 di Bari, 1.750.000 di San Remo a Genova), nonostante il pubblico sia più numeroso: 14.706 i concerti classici nel 2013 contro le 3.579 aperture di sipario delle Fondazioni Liriche, 3.095.852 spettatori contro 2.046.505. Molto più basso, inoltre, il numero di tecnici e amministrativi rispetto ai musicisti (Orchestra sinfonica Siciliana a parte, commissariata da più di un anno).
“GIUSTO e sacrosanto sovvenzionare le Fondazioni e le orchestre liriche, ma lo Stato che fa di fronte alla scomparsa delle orchestre sinfoniche? continua Marcello Panni. “Chiedo al ministro Franceschini, sempre attento a tutelare un un cinema, un teatro, un rudere, un museo: non è forse un’orchestra un organismo vivo da tutelare come un bene culturale raro e imperdibile? Una volta distrutto, come i Budda Afgani, chi lo ricostruirà? Lo Stato deve mantenere in vita le orchestre necessarie perché la conoscenza della musica sinfonica dal vivo possa diffondersi nelle scuole e nel pubblico senza privarne della possibilità intere regioni. O le nuove generazioni saranno condannate ad ascoltare Beethoven e Brahms, Verdi e Puccini solo su Youtube, Ipod, streaming e altri futuri gadget elettronici”.

Corriere 15.1.15
Perché i detenuti non lavorano?
Anche se un detenuto volesse riverniciare gratis il muro del carcere non può farlo . Se il detenuto lavora la legge impone di pagargli lo stipendio, solo che non ce n’è per tutti.
di Milena Gabanelli. Video di Claudia Di Pasquale

qui

il Fatto 15.1.15
La replica del premier israeliano

Dopo le parole del presidente turco, che si era chiesto come Netanyahu “osasse” partecipare alla marcia di Parigi senza “rendere conto dei massacri a Gaza”, arriva la replica del premier israeliano. "Non ho sentito i leader mondiali condannare le parole del presidente turco Erdogan”. Ansa

Corriere 15.1.15
Il Giappone mostra i muscoli
Budget record per la Difesa contro le provocazioni cinesi
di Guido Santevecchi


PECHINO È un bilancio dai molti primati quello approvato ieri dal nuovo governo di Tokyo per il 2015: oltre 96 trilioni di yen, 696 miliardi di euro. E il capitolo per la spesa militare sale a 36 miliardi di euro, il record nella storia del Giappone dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Per il terzo anno consecutivo il premier Shinzo Abe, che a dicembre ha vinto le elezioni anticipate, ha aumentato il budget della difesa, questa volta del 2% rispetto al 2014.
«Una necessità legata al cambiamento di situazione intorno a noi», ha detto il ministro della Difesa Nakatani riferendosi alla contesa con la Cina per le isole Senkaku (che Pechino chiama Diaoyu e rivendica).
Nakatani, nominato a dicembre, ha spiegato nei giorni scorsi che navi cinesi continuano a violare le acque territoriali giapponesi intorno alle isole, che in più occasioni le unità della Marina cinese hanno attivato i radar con procedure provocatorie e gli aerei da caccia hanno volato «a distanza ravvicinata e anormale da apparecchi giapponesi». Per questo alle forze armate di Tokyo serve un deterrente credibile, ha concluso il ministro, ex militare di carriera.
I 36 miliardi di euro messi a bilancio quest’anno fanno parte di un programma per dare all’esercito di Tokyo 20 aerei da pattugliamento antisommergibile P-1, tre droni Global Hawk prodotti dalla Northrup Grumman, cinque apparecchi V-22 Osprey e sei caccia F-35 stealth. La Marina avrà due cacciatorpediniere con sistema radar Aegis e 30 mezzi per operazioni anfibie che equipaggeranno una nuova unità modellata sul corpo dei Marines americani: un apparato bellico studiato per tenere testa alla Cina.
Shinzo Abe, impegnato nel tentativo di recuperare un dialogo con il presidente cinese Xi Jinping dopo quasi due anni di rottura, spiega il bilancio con un’espressione più cauta: «Pacifismo attivo».
Assicura di non avere intenzione di tornare al passato militarista, di non voler stravolgere la Costituzione pacifista (che fu imposta dagli americani alla fine della guerra mondiale); spiega che il nuovo Giappone dev’essere in grado di combattere al fianco degli alleati in caso di una crisi, che potrebbe essere innescata per esempio da un attacco nordcoreano nella regione.
Le parole di Nakatani hanno provocato la replica cinese: «Il ministro giapponese inventa la “minaccia cinese” per i suoi scopi». È un fatto comunque che il bilancio militare della Cina l’anno scorso è aumentato del 12 per cento, salendo a 132 miliardi di dollari, tre volte quello giapponese.
Con questi presupposti il 15 agosto si celebra il 70° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale nel Pacifico. Le relazioni del Giappone con Cina e Sud Corea sono ancora avvelenate dal risentimento per l’aggressione giapponese e Pechino continua ad esigere scuse e pentimento dal governo di Tokyo.
In realtà, diversi primi ministri nipponici si sono espressi: nel 1991 Miyazawa chiese perdono «per l’insopportabile tormento» inflitto dall’esercito imperiale ai Paesi vicini; nel 1995 Murayama confermò «profondo rimorso»; nel 2001 Koizumi depose una corona di fiori in Sud Corea.
Shinzo Abe nel 2013 è andato allo Yasukuni, il sacrario dove con milioni di caduti giapponesi sono onorati anche 14 generali e politici condannati per crimini di guerra, riaprendo la ferita. Ha anche detto che non ripudierà le dichiarazioni dei suoi predecessori.
Abe non si inginocchierà con gli occhi bassi come fece nel 1970 il tedesco Willy Brandt al ghetto di Varsavia, ma il suo discorso il 15 agosto potrebbe essere un punto di svolta, se anche la Cina saprà perdonare il passato.
@guidosant

Corriere 15.1.15
La Shoah nelle immagini di Hitchcock
Scoperto un anno fa, restaurato, emerge dagli archivi il filmato girato dal grande regista
di Paolo Mereghetti


L’idea era quella di fare un documentario «didattico» che ricordasse ai tedeschi quello che volevano non vedere: gli orrori compiuti nei campi di concentramento. Un film «politico», come si sarebbe detto oggi. Ma eravamo nel 1945, la guerra era finita da pochissimo e l’alleato sovietico stava già diventando il nemico numero uno dell’Occidente: non si poteva caricare sulle spalle della Germania, almeno quella alleata di americani ed europei, un ulteriore senso di colpa. E così, nonostante a firmare quel documentario fosse stato chiamato Alfred Hitchcock, che vi aveva lavorato per sei settimane, tra giugno e luglio del 1945, il progetto era stato accantonato sine die e German Concentration Camps Factual Survey («Un’indagine fattuale sui campi di concentramento tedeschi», questo il titolo di lavorazione) fu archiviato insieme ai materiali ancora non montati nei depositi dell’Imperial War Museum di Londra, sotto la sigla F3080.
Alcune di quelle immagini erano poi state mostrate, oltre a quelle girate da altri registi che avevano accompagnato la marcia degli Alleati, come gli americani George Stevens e Samuel Fuller, ma le scene che Hitchcock aveva montato sono rimaste nascoste per settant’anni, finché André Singer — già produttore di Werner Herzog e regista in proprio — non ha ottenuto il permesso di lavorare sui materiali «F3080». Ne è uscito un documentario sconvolgente, che per la prima volta mostra il lavoro fatto da Hitch, accompagnato dalla voce narrante di Helena Bonham Carter e intitolato Night Will Fall («La notte scenderà», citazione dalla serie Doctor Who : «Demons run when a good man goes to war / Night will fall and drown the sun / When a good man goes to war»).
È andato in onda sulla rete franco-tedesca Arte martedì 13 (col titolo Images de la libération des camps ) e verrà programmato dall’inglese Channel 4 sabato 24 febbraio. Augurandoci che presto arrivi anche in Italia. Che cosa si vede nel documentario? Le immagini, in gran parte inedite, della liberazione di undici campi, tra cui di Bergen-Belsen, Dachau, Buchenwald, Ebensee, Mauthausen, Majdanek, filmate da quattro operatori militari: gli inglesi Mike Lewis e William Lawrie, l’americano Arthur Mainzen e il sovietico Aleksandr Vorontsos, intervistati da Singer insieme ad altri testimoni, sopravvissuti ai campi, e al pubblico ministero che parlò per l’accusa al processo di Norimberga. Sfortunatamente non esistono riprese dell’incontro, avvenuto all’inizio degli anni Settanta, tra Hitchcock e il fondatore della Cinémathèque française Henri Langlois, che però nelle sue memorie riporta quello che gli aveva confidato il regista: «Alla fine della guerra, ho fatto un film che doveva mostrare la realtà dei fatti avvenuti nei campi di concentramento nazisti. Atroce. Era ancora più atroce del peggior film d’orrore. Nessuno lo ha voluto vedere. Ma quel film non mi ha più abbandonato».
Come mai proprio Hitchcock, che lavorava stabilmente a Hollywood dove aveva appena terminato Prigionieri dell’oceano e Io ti salverò era stato coinvolto in quel progetto? Il merito è tutto di Sidney Bernstein, co-fondatore nel 1925 della London Film Society, dove aveva stretto amicizia con il giovane Hitchcock, «infaticabile antifascista e militante contro l’antisionismo», collaboratore negli anni Trenta del ministero dell’Informazione e poi, nel 1954, tra i fondatori di Grenada Television. Quando all’inizio del 1945 i primi campi sono liberati e le prime atroci immagini vengono inviate a Londra, Bernstein convince la Divisione guerra psicologica del Quartier generale delle forze di spedizione alleate a produrre un film «destinato in maniera specifica ai tedeschi, che fosse la prova inattaccabile delle loro atrocità». E Hitchcock accetta la proposta dell’amico, pronto a sobbarcarsi un viaggio in nave dagli Usa in Inghilterra dormendo — ha raccontato — «in un dormitorio con altre trenta persone».
Segno che il lavoro lo interessava e infatti appena arrivato a Londra si mette al lavoro, insieme allo scrittore inglese Richard Crossman (che scrisse un primo trattamento) e al corrispondente di guerra australiano Colin Wills (che invece stese una vera e propria sceneggiatura). Hitchcock da parte sua dedicò quasi tutto il suo tempo a guardare i materiali che arrivavano dall’Europa, insieme al montatore Peter Tanner. Il regista, forte della sua esperienza cinematografica, cercava soprattutto le riprese in continuo, le panoramiche, «perché nessuno potesse dire che quelle immagini erano state manipolate per falsificare la realtà». Un compito non facilissimo, visti i brevi caricatori delle cineprese 16mm in dotazione all’esercito, ma nel film di Singer ci sono molti esempi di quello che Hitchcock aveva selezionato e affidato a un primo montaggio. Sono immagini strazianti, difficili da sostenere anche a settant’anni di distanza. E più ancora dei volti dei morti, scavati dalle piaghe e dalla fame o maciullati dagli aguzzini, sconvolgono le scene in cui i soldati tedeschi prigionieri sono costretti a caricare i corpi dei morti, li trascinano e li gettano nelle fosse comuni, come se si trattasse di manichini, perché i rischi delle epidemie (soprattutto tifo) rischiavano di propagarsi e non lasciavano spazio né tempo nemmeno per un po’ di pietà.
Poi, nell’agosto del ’45, le convenienze della politica fermarono il lavoro, Hitchcock tornò a Hollywood per girare Notorius - L’amante perduta e il materiale girato e in parte montato finì in uno scatolone dell’Imperial War Museum. È riemerso settant’anni dopo, con tutta la sua forza di sconvolgente testimonianza, a confermare quello che Bernstein andava continuamente ripetendo ai suoi collaboratori: «Un giorno capirete che tutto questo valeva la pena».

La Stampa 15.1.15
E Laura rispose a Petrarca. Con quattro secoli di ritardo
Ritorna il poema della letterata settecentesca Pellegra Bongiovanni che ribatte con piglio moderno verso su verso al posto dell'amata
di Mario Baudino


«Voi, ch’ascoltate in rime sparse il suono/ di quei sospiri, ond’io nudriva il core», esordiva Petrarca nell’immortale «romanzo» del suo innamoramento. A distanza di qualche secolo, Laura rispose. E lo fece punto per punto, verso per verso, usando molto spesso le stesse parole e sempre le stesse rime. «Nell’ascoltar di quelle rime il suono,/ Che fuor mandasti dall’acceso core,/... Meco dentro di me così ragiono/ Perché incolpar mi vuoi del tuo dolore?». Non è che fosse bisbetica, e nemmeno seccata. Però grazie a un raffinato congegno letterario passò da donna angelicata ed eterea, muto e inconsapevole emblema, a donna in carne ed ossa, capace di innamorarsi a sua volta senza tuttavia dimenticare la propria condizione, letteraria e non.
Donna sposata
Laura de Noves era in fin dei conti sposata (con Hugo de Sade, antenato del Divin Marchese), mentre Petrarca era notoriamente celibe. Ma anche Pellegra Bongiovanni, l’autrice settecentesca che le diede voce, aveva un marito, e dunque poteva capire meglio di altri quanto il gioco fosse stato, in origine, fortemente squilibrato. Il suo canzoniere parallelo, «Riposte a nome di Madonna Laura alle rime di messer Francesco Petrarca in vita della medesima», pubblicato nel 1762, viene ora riproposto (Antenore editore) in un’edizione a cura di Tatiana Crivelli e Roberto Fedi, dopo un lungo oblio.
Pellegra Bongiovanni, nata a Palermo a inizio Settecento e morta a Roma nel 1770, figlia di un pittore, fu un personaggio di grande spicco nella società del suo tempo, soprattutto a Roma dove si trasferì ben presto.
Cancellata dai romantici
Fece parte dell’Accademia dell’Arcadia, fu lodata come pittrice e come musicista, oltre che come scrittrice. La radicale svalutazione dei petrarchisti e degli arcadi ad opera della critica romantica fece sì che ben presto scomparisse dalle storie della letteratura e quindi dal «canone», ridotta a qualche citazione qua e là, piuttosto svagata e blandamente maschilista. Ma Pellegra era una scrittrice vera, una che sapeva benissimo quel che faceva.
Nell’introduzione al suo libro ironizza sui rifacimenti troppo spirituali dell’opera petrarchesca, per esempio la riscrittura del «Canzoniere» e dei «Trionfi» a opera di Stefano Colonna (nel 1552), che fece sì parlare Laura ma le diede «il pregio» di farlo «come una Vergine Claustrale, che tutto rivolge alla divozione». La tradizione con cui si misura la Bongiovanni è ricca di apologie, imitazioni d’ogni genere, scritture parodiche o burlesche, e anche la pratica di usare le stesse rime è diffusa. Ma le sue «Risposte» partono da un’idea radicalmente nuova: sonetti e ballate vengono riletti come fossero lettere, e dunque si tratta di ricambiare, puntualmente, componimento per componimento, con la tecnica che la poetessa definisce «dello stretto rispondere». A giro di posta.
Questa Laura settecentesca non manca di senso critico. Tutto sommato, l’attenzione del Petrarca la preoccupa. Nella prima risposta, infatti, è garbatamente spaventata dall’idea che si stia inaugurando un intero canzoniere. Se Petrarca annunciandolo scrive di aver finalmente capito «Che quanto piace al mondo, è breve sogno», lei non può che ricordargli più saggiamente, «E Amor conosco, e veggio chiaramente/ Che non è dolce, o solo è dolce in sogno». Un invito alla calma, che non può essere evidentemente raccolto. Al cuore non si comanda, e Laura, poco alla volta, cede. Si lascerà dunque adorare, senza rinunciare però a ricordare al suo poeta quanti privilegi gli siano toccati in sorte.
Sonno e tormento
«Solo e pensoso i più deserti campi/ vo misurando a passi tardi e lenti» piange il Petrarca, perseguitato dai tormenti d’amore. «Almen tu puoi per solitari campi/ Portare umidi gli occhj, e i passi lenti» gli risponde Laura. E dunque beato te, visto che io non posso nemmeno nascondermi: «Mentre eco ti fanno, ed antri, e monti e piagge/ Ai carmi tuoi sparsi di amare tempre;/ Io riso, e non pietà desto in altrui», considerato che il vulgo, che pure prova amore, se la ride beato, e dunque, i miei lamenti, io li devo nascondere. Laura ora resiste, ora cede: la sua è una strategia amorosa, che pur restando su un piano squisitamente platonico ha le grazie e le malizie del Settecento.
Petrarca è tormentato, non riesce a dormire, le notti sono piene d’angoscia: «Il sonno è ’n bando; e del riposo è nulla» scrive nel sonetto 223. E lei si prende finalmente una piccola rivincita: «Esco dal sonno, e quei che il cor m’inalba,/ Quei, che con gli occhi gli occhi mi trastulla,/ Vien dolce a serenar l’anima mia». Il suo amore, questo la Bongiovanni non lo dice, ma certo lo lascia intendere, è più vero, più autentico, femminile. Del resto, è o non è la figlia di un secolo galante?

Corriere 15.1.15
Povera e nuda vai filosofia in televisione
di Raffaele La Capria


Succede anche questo, che quelli che hanno un posto in televisione, presentatori, conduttori, giornalisti eccetera, usino la televisione come se fosse di loro proprietà, come un podio da cui parlano al popolo diffondendo le proprie opinioni. Non capiscono, fanno finta di non capire, che la televisione non è cosa loro, e dunque non possono usarla, sfruttandone il potere, per propri fini e per il loro molto personale interesse. Per esempio accade che molti di questi personaggi scrivano libri letterariamente di nessuna importanza, saggi di attualità, di costume, politica, romanzi, che data la notorietà televisiva degli autori invadono le librerie, i giornali, il mercato, e tutto questo è normale, niente di male, tranne forse che la letteratura che vale passa in second’ordine. E accade anche che Tizio promuova in trasmissione uno di questi libri di un suo collega televisivo, e che il collega in un’altra trasmissione promuova il libro di Tizio, e questo non va bene. Insomma un circolo vizioso con questo di negativo: che dei veri libri e dei veri scrittori non si parla quasi mai. E oltre a ciò nei programmi più seguiti vengono chiamati e vengono promossi sempre i già promossi, i già famosi e mai quelli da promuovere. Ma questo è cosa nota, fa parte del costume nazionale accorrere in soccorso del vincitore.
Si è mai sentito nominare un vero scrittore o un vero critico in una trasmissione, con la stessa insistenza e la stessa premurosa attenzione riservata al collega che occupa un posto in televisione? La cosa non mi meraviglia, la cultura è da tempo che latita dal nostro Paese, non sanno cosa sia i politici e, tranne rare eccezioni, non ne parlano mai col tono giusto, altre sono le cose che a loro interessano. Non ci sono grandi riviste, veri punti di incontro, una società che la tenga nella giusta considerazione. Solo i cosiddetti eventi, come lo Strega e simili, manifestazioni più mondane che culturali, più spesso «assessorili», per promuovere il turismo. E, sia detto per inciso, i premi sono raramente in danaro, sempre targhe targhette medaglie e medagliette, mai pecunia, sicché lo scrittore, quando è premiato, è solo usato.
Devo continuare? Quando si leggono i giornali la cultura bisogna cercarla in un angolino, dopo le straripanti pagine dedicate alla cucina, alla moda, alla salute. La cultura è considerata secondaria. Prima, non molto tempo fa, c’era la terza pagina, Montale, Piovene, Moravia, Buzzati, Parise scrivevano elzeviri creativi, non articoli di informazione come oggi si fa per inseguire gli «eventi» e l’attualità. Come conseguenza di tutta questa situazione, anche la vita di chi deve guadagnarsela scrivendo libri o articoli è diventata grama. Lo dico in nome di tanti miei amici e lo dico anche per esperienza personale.
Ma anche i nostri intellettuali, i rappresentanti della cultura che conta, avrebbero molte cose da rimproverarsi. I più bravi si sono rinchiusi nel loro recinto esclusivamente letterario, con polemichette esclusivamente letterarie, e spendono la loro intelligenza in quel recinto; altri meno bravi scrivono in un loro gergo intellettualistico che credono alto e invece è solo poco comunicativo; altri ancora, soprattutto i più giovani, sono eccessivamente competitivi e hanno come unica ambizione il successo. Pochi hanno un loro mondo poetico da esprimere, uno stile riconoscibile ed originale. Moravia, Pasolini, Calvino, Parise scrivevano in una lingua chiara e comprensibile, e spesso si sporcavano le mani, non erano «arroccati» e insieme smaniosi di successo mediatico. Insomma oggi anche gli intellettuali di questo tipo sono responsabili della situazione che si è creata e sono un esempio della scarsa sorveglianza critica che a tutti loro ha concesso un lasciapassare. Nel Paese che più deve alla cultura perché la cultura è alla base della sua identità, della sua lingua, dell’unica storia di cui non debba vergognarsi, sembra strano che la cultura sia trascurata fino a questo punto.

Corriere 15.1.15
Le ceneri di Abbado in Engadina
L’ultimo viaggio sulle montagne
di Paolo Di Stefano


Lo raccontano come un sabato di luce bellissima, quell’1 novembre in cui i quattro figli di Claudio Abbado, Daniele, Alessandra, Sebastian e Misha, hanno posato l’urna con le ceneri di papà dentro un muretto di sasso che cinge il piccolo cimitero di Crasta. Poco più di due mesi fa. C’erano anche i tre nipoti, Tommaso, Francesca e Gigi. Una cerimonia molto ristretta per onorare il proposito di far tornare il grande direttore nei luoghi che amava di più, a duemila metri, poco distante da Sils Maria, in Engadina, dove da anni trascorreva le sue settimane di riposo e di contemplazione, di passeggiate tra larici e marmotte. A volte di studio: qui, nell’estate 2003, ha portato le partiture di Wagner e Debussy, le musiche d’esordio con l’Orchestra di Lucerna.
Il libro di Giuseppina Manin, in libreria da oggi ( Nel giardino della musica , Guanda), che racconta la vita e l’arte di Abbado, si chiude con il racconto di quella mattina. Tre quarti d’ora per raggiungere da Sils, a piedi o in carrozza, la chiesetta quattrocentesca di Crasta, dove spesso Abbado «entrava per ammirare l’abside affrescata con una teoria di angeli e santi coloratissimi», scrive Manin, «al centro una Vergine con il capo avvolto in un velo bianco, in alto un Cristo dentro una mandorla». Sono i luoghi che ispirarono Segantini, gli stessi frequentati da Nietzsche, da Hesse, da Marcuse. «Una volta arrivati alla piccola cappella bianca, il visitatore passa attraverso un recinto verde. Un po’ giardino un po’ camposanto. Poche tombe, semplici e commoventi come si usa in montagna. Intorno i prati, le montagne solenni, qualche mucca pigra che pascola beata. Un bel posto per riposare. Da vivi e anche da morti». Una lapide nuda, con nome e cognome, gli anni di nascita e di morte (1933-2014) incisi in basso a sinistra, quasi invisibili. Un rametto di abete, una caramella, alcune pigne, nient’altro. Quella mattina tre musicisti, amici di Claudio, hanno suonato musiche di Bach e di Schubert. Non ci tengono a far sapere i loro nomi.
Era l’ampia Val Fex, dominata dal massiccio del Bernina e dai ghiacciai, il suo paesaggio del cuore, che d’estate alternava con il mare di Alghero e con il suo giardino «magico», curato amorevolmente. Qui, a 1.950 metri, qualcuno lo ricorda passeggiare, gracile e distinto, in solitudine. Pranzava alla Pensiun Crasta, una casa antica proprietà del falegname che aveva costruito i primi sci della zona. Tetto spiovente e cornici decorate alle finestre. All’interno, grandi credenze di legno chiaro. Un’idea di semplicità svizzera, familiare, le tovaglie bianche e i fiori al centro.
La sua prima moglie, Giovanna Cavazzoni, il giorno della morte, 20 gennaio dell’anno scorso, ha ricordato che da giovane Claudio amava sfidare la montagna, appassionato com’era di altissime cime. Le gite, le escursioni, lei scalatrice precoce, lui alpinista, ma sciatore un po’ tardivo e subito spericolato: «La sfida era uno dei suoi modi di affrontare la vita, a quel tempo le guide alpine erano pochissime e in certe ore, attraversare da soli i ghiacciai era sconsigliato, ma lui non si fermava, era attratto da tutto ciò che era difficile, improbabile, pericoloso, e a volte voleva fare proprio lui, un po’ presuntuosamente, il capocordata». Non bastò a terrorizzarlo, un mezzogiorno di tanti anni fa, il boato di un ghiacciaio che si era staccato dall’alto e che veniva giù come una bomba: «Rimase tranquillo, abbiamo riattraversato la valle non appena il masso era precipitato. Aveva un coraggio che lo spingeva al di là del buonsenso, un amore fisico per la montagna che non lo tratteneva dal mettere a repentaglio il proprio corpo».
Con l’avanzare dell’età, Abbado ha scelto Fex per passeggiare tranquillamente nei boschi, e per meditare fuori dal gorgo della celebrità. Non più le Alpi della giovinezza da conquistarsi con le proprie gambe sulle rocce e sui ghiacciai, non più la Valle d’Aosta, i 3.500 metri sopra Cervinia. Adesso, un’altitudine rispettabile ma vissuta senza il furore di chi vuole scalare. Negli ultimi vent’anni Abbado divideva i momenti liberi tra la Sardegna e l’Engadina. Ha goduto di queste montagne anche nell’ultima estate, prima di ritirarsi ad Alghero per affrontare la malattia, in autunno. «Qui le cime sono così vicine...», disse Abbado, «Ti entrano in camera dalla finestra. Qui i pensieri si allargano, come lo sguardo sul paesaggio. Il tempo si dilata. Tutto è così semplice e maestoso in montagna. Gli alberi svettano più alti, la loro chioma si fa più scura, le loro voci più sommesse e misteriose».
Milano, nel frattempo, ricorda Giuseppina Manin, gli ha dedicato una lapide al Famedio, lo spazio del Monumentale riservato alle più celebri personalità cittadine. Le ceneri di Abbado sono state sparse in parte nel mare sardo, il resto è custodito in un muretto della Val Fex, dove il «tempo si dilata» .

Repubblica 15.1.15
Donne malvagie e crudeli
Un desiderio di assoluto che diventa ossessione
di Massimo Recalcati


COSA può rendere una donna malvagia e crudele? Può esistere una risposta sufficientemente sensata a questa domanda? L’ideologia patriarcale che oggi sta esalando i suoi ultimi e, talvolta, disperati respiri, voleva ridurre l’essere della donna a quello della madre. Era solo la figura della madre a sancire una versione benefica, positiva, salutare, generativa della femminilità. La donna, invece, separata dalla funzione materna, si prestava ad incarnare i fantasmi più maligni: cattiveria, peccaminosità, lussuria, inaffidabilità, stregoneria, crudeltà. Mentre la donna realizzata nella madre riusciva a emendare gli aspetti inquietanti della femminilità, la donna che rifiutava di appiattirsi sulla sola maternità e di rinunciare alla propria libertà portava con sé lo stigma di una anarchia pericolosa e antisociale che doveva essere redenta con gli strumenti della morale pedagogica o della psichiatria. Insomma nella prospettiva dell’ideologia patriarcale alla nostra domanda (cosa rende una donna malvagia e crudele?) seguiva una risposta sicura: il suo non accesso alla maternità come forma di realizzazione benefica della femminilità.
Questa versione schizoide e manichea della femminilità (madre uguale bene, donna uguale male) è stata giustamente criticata e superata.
Come possiamo oggi, sulle ceneri dell’ideologia patriarcale, rispondere alla nostra domanda? La premessa è doverosa: nel mondo psichico le generalizzazioni non sono mai appropriate. Eppure, per provare a rispondere, non possiamo non partire dalla considerazione che il mondo psichico di una donna è decisamente più esposto a una dimensione labirintica che non sembra affatto riguardare l’uomo. Basta solo considerare come ancora oggi siano sempre le donne (furono le prime isteriche a portare Freud verso la psicoanalisi) ad affollare in stragrande maggioranza gli studi degli psicoanalisti, segno, a mio giudizio, non tanto della presenza in esse di maggiori turbe psicogene, ma della esistenza di una vita psichica assai più stratificata e complessa di quella maschile. Per un uomo la ricerca della propria identità passa solitamente attraverso la condivisione di tratti identificatori comuni che lo rendono membro di quel gruppo, di quella famiglia, identificato, senza grandi scarti, al proprio status sociale o ruolo professionale. Diversamente una donna esige di essere riconosciuta nella sua particolarità più propria al di là dei gruppi, delle famiglie o dei ruoli che la identificano socialmente e professionalmente. È un grande tema della psicoanalisi, ma anche della filosofia politica se si pensa, per fare un solo esempio, alle considerazioni sviluppate da Hanna Arendt intorno all’opposizione tra l’universale (maschile) e la molteplicità singolare (femminile).
L’importanza assoluta che assume nel mondo psichico femminile l’esperienza del sentirsi riconosciute nella propria irripetibile singolarità, una per una, le porta a vivere tutte le passioni con una dedizione e una cura assolute, ma, al tempo stesso, con una sorta di dismisura, di intemperanza e di eccesso sregolato rispetto alla moderazione aristotelica che può caratterizzare invece (nel bene e nel male) la normalità fallica. Nell’amore, in particolare, essa può prendere le forme dell’esigenza di un possesso assoluto dell’oggetto, di una impossibilità a tollerarne l’assenza, la mancanza, la distanza. Come accade alla protagonista inquietante del celebre film L’impero dei sensi ( 1976) di Nagisa Oshima, la quale evira il proprio partner per impossessarsi realmente del suo organo, per averlo tutto per sé. Ma come può accadere anche — seppure in una direzione totalmente opposta — in alcune grandi mistiche che riescono a trasformare proprio questa assenza dell’amato (Dio) in un modo assoluto e vitalissimo della presenza. Se l’amore è per molte donne la via privilegiata per trovare una propria identità non si deve trascurare il fatto che la perdita dell’amore può trascinare con sé, in modo catastrofico, quella stessa identità. Spesso allora la crudeltà di certe donne può essere un’alternativa rabbiosa alla depressione che scaturisce proprio da questa perdita di identità vissuta come irreversibile e impossibile da elaborare psichicamente.