domenica 18 gennaio 2015

La Stampa 18.1.15
Cofferati
Verso una piattaforma dei delusi del Pd
di Jacopo Iacoboni

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Corriere 18.1.15
«Inaccettabili silenzi, non posso restare» L’addio di Cofferati scopre a sinistra il Pd
Liguria, l’ex Cgil contesta il verdetto sulle primarie
I civatiani scaricano Paita: avanti da soli
di Francesco Alberti


«Lascio il Pd, me ne vado io da solo, non fonderò un altro partito». Quasi tredici anni dopo l’oceanica adunata al Circo Massimo contro la riforma berlusconiana dell’articolo 18, l’ex leader della Cgil, Sergio Cofferati, 66 anni, l’uomo che in quel marzo del 2002 aveva in tasca la schedina vincente per salire sul trono degli allora Ds (e invece finì a fare il sindaco di Bologna, alimentando uno dei tanti misteri della politica), ha ieri abbandonato il Pd, di cui è stato uno dei 45 fondatori, lasciandosi dietro una lunga scia di accuse sul modo in cui sono state gestite le primarie liguri per la scelta del candidato alle prossime Regionali, vinte dalla renziana Raffaella Paita, ma avvelenate da una serie di irregolarità che hanno spinto i garanti ad annullare il voto in 13 seggi e la Procura di Savona ad aprire un fascicolo contro ignoti.
Anche se dal Circo Massimo è trascorso qualche secolo, politicamente parlando, è chiaro che l’uscita di un personaggio con la storia di Cofferati, attuale europarlamentare (carica dalla quale ha già detto che non si dimetterà: e anche su questo non mancano polemiche), è destinata ad agitare le già turbolente acque del Pd e dintorni, offrendo alla minoranza interna il destro per rimarcare le critiche al corso renziano e alla sinistra radicale di Sinistra e libertà e di Rifondazione comunista la speranza (per ora in divenire) di poter costruire qualcosa attorno a un’eventuale leadership del Cinese.
Non a caso, gli uomini del segretario-premier hanno reagito ai più alti livelli: «La scelta di Cofferati, in questo momento di sfide nazionali, rischia di danneggiare il Pd — ha detto il vicesegretario Lorenzo Guerini —, un atto che ritengo inspiegabile, ci ripensi». È uno strappo che viene da lontano. Le primarie liguri hanno fatto da detonatore a un disagio politico di cui il Cinese da tempo non faceva mistero. Lontano da Renzi e dalla sua concezione del partito, su sponde addirittura opposte sulla riforma del lavoro, l’ex leader Cgil ha deciso di tagliare anche l’ultimo ponte quando si è reso conto che i vertici democratici avevano una gran fretta di archiviare la pratica ligure e i suoi pasticci: «Renzi — ha affermato l’europarlamentare — non ha avuto neanche il garbo di aspettare la conclusione dei lavori dei garanti per proclamare la vittoria di Paita».
È una questione «etica» ciò che il Cinese imputa ai capi del Pd. È «l’inaccettabile silenzio» di fronte alle presunte irregolarità della consultazione di domenica scorsa e al tentativo di drogare il voto per indirizzare la futura giunta regionale verso un accordo con la destra. Cofferati ha denunciato «inquinamenti causati dalla partecipazione di decine di immigrati (dirà la magistratura se pagati o meno da qualcuno, ndr ) e infiltrazioni da parte di fascisti non pentiti per condizionare l’esito finale a favore di un determinato modello politico (le larghe intese, ndr )». Operazione quest’ultima che avrebbe avuto come madrina la ministra Roberta Pinotti: «È venuta a Genova a sostenere Paita e a teorizzare l’opportunità di un governo del centrodestra senza essere smentita». Andrà fino in fondo il Cinese: «Porterò le carte in Procura, per molto meno le primarie di Napoli (2011, ndr ) sono state annullate».
L’onda d’urto dell’addio di Cofferati al Pd si è subito sentita a Roma. Sel, con il coordinatore Nicola Fratoianni, ha già pronta una sorta di comitato d’accoglienza: «Non intendiamo tirarlo per la giacca, ma, se Sergio vorrà, saremo entusiasti di portare avanti la sua candidatura come governatore della Liguria». Interlocutoria la risposta del Cinese: «Alle elezioni manca tanto…». Gongola anche il Prc con il segretario Paolo Ferrero: «La scelta di Cofferati evidenzia la frattura che c’è tra il Pd e il movimento dei lavoratori, è un fatto politico».
In agitazione anche la sinistra interna dem. Se Matteo Renzi incontrerà Federico Berruti (suo fedelissimo che correva con Cofferati) per recuperare almeno lui, i civatiani della Liguria hanno deciso che non sosterranno Raffaella Paita ma un’altra candidatura. E Pippo Civati ha criticato il modo in cui i vertici hanno gestito il caso: «Renzi ha minimizzato in direzione. E poi ci si chiede come mai succedono casi come Mafia Capitale, ma le domande arrivano sempre dopo». E sul suo blog ha scritto: «Il Pd imbarca con orgoglio la destra e perde molti elettori, tra cui Cofferati». All’attacco anche Gianni Cuperlo: «L’uscita di Sergio è una ferita, nella sua denuncia non c’è solo il malcostume ma la mutazione d’identità del Pd». La pensa diversamente una «non renziana» come Sandra Zampa, vicepresidente pd: «Cofferati mi ha confermato le ottime ragioni per non sostenerlo».

Corriere 18.1.15
L’attesa per le mosse degli altri delusi: poi valuterò
di Erika Dellacasa


L’uomo del Circo Massimo e la tentazione di fare il padre nobile di una forza alternativa
GENOVA Un passo alla volta. Cofferati lascia il Pd e frena sulle mosse successive ma solo perché i tempi li vuole dettare lui. È finita la conferenza stampa e preme per tornare a casa dal figlio, a chi lo incalza ripete di essersene andato «da solo» e che tale resterà. Anche se c’è già tutto un ribollire a sinistra, Sel, civatiani, tutti delusi di queste primarie e del Pd.
Cofferati pattina sulle domande da politico: «Diventare il punto di riferimento di una formazione nuova? Oggi questa formazione non c’è e io non promuovo né fondo niente. Ma quando e se ci saranno fatti concreti, li esaminerò, li valuterò e deciderò». È già un mezzo sì all’ipotesi di fare da padre nobile. Che si candidi contro Paita sembra però improbabile anche se un «no» netto non è arrivato.
Sornionamente, il Cinese seduto su un divano del Carlo Felice — lui che è un appassionato di lirica ha alle spalle un manifesto della Vedova allegra — sottolinea che «il tempo da qui a maggio è ancora lungo». E spiega che attraverso un’associazione culturale («siamo in un teatro, no?») dirà la sua, non solo sulle Regionali: «La mia critica e il mio impegno vanno ben oltre maggio, come diceva sempre Ingrao, se lo ricorda? Allora si coniò il termine benoltrismo . Ecco, è così per me. Vado ben oltre e parlo di ben altro che del qui e ora e di un pugno di voti. Me ne vado ma non scappo. La politica continua». È stata una giornata convulsa, dal Pd hanno provato a trattenerlo. Per ore si è impegnato il segretario regionale Giovanni Lunardon, che aveva apertamente appoggiato l’ex sindacalista alle primarie («Ho tentato di fermarlo fino allo stremo», si rammarica). Poi si è mossa Roma: «Mi hanno chiamato dalla segreteria nazionale — dice Cofferati —. Non Renzi. Alla fine i dirigenti si sono mossi. E hanno offerto: parliamone. Ma di cosa? Dopo tanto assordante silenzio. Solo perché hanno letto sui giornali che me ne andavo e il problema non poteva più essere ignorato. Troppo tardi e per i motivi sbagliati».
Ora che ha provocato reazioni a valanga, si sente come l’autolesionista Tafazzi, evocato da Renzi? «No», risponde seccamente. Il governatore Burlando invece è preoccupatissimo: «Ma Cofferati vuol farci perdere?». Certo, che Paita vinca a Cofferati non sta bene. Il resto è futuro incerto. Eppure il Cinese è calmo, sorridente, raccoglie gli applausi dei supporter più convinti, il deputato Luca Pastorino che avrebbe voluto uscire subito dal Pd, l’ex sindacalista e membro della direzione nazionale Andrea Ranieri che ha perorato la causa nel silenzio di Roma. «Andarsene non è stato facile», dice Cofferati e ricorda: «Sono entrato nel Pci nel ‘73, sono stato fra i 45 fondatori del Pd. È una vita. Nel 2002 dicevano che stavo per fondare un partito, era una bufala, di partiti ce n’è fin troppi. Ma questo cambio di pelle non lo posso accettare, io a votare con i fascisti non ci vado. E poi mi sono rotto una spalla, mi fa un male del diavolo, non dormo, sto sveglio tutta la notte a pensare e forse divento anche un po’ cattivo. L’altra notte ho pensato a lungo e la conclusione l’avete sentita». Poi si apparta con Ferruccio Sansa, giornalista del Fatto e, anche, possibile candidato di quella magmatica formazione che si sta delineando nelle frenetiche riunioni di questi giorni.

Repubblica 18.1.15
Nichi Vendola
In Liguria hanno costruito accordi con Scajola e la destra. I dem si sono rotti
Quanto accaduto è un segnale per noi: si apre un’altra fase
“Adesso Sergio venga con noi insieme rifaremo un nuovo soggetto”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Se Cofferati fosse disponibile, attorno a lui si può ricostruire un centrosinistra vero in grado di vincere in Liguria. Paita si prenda per intero la responsabilità di avere snaturato e ucciso il centrosinistra». Per Nichi Vendola, il leader di Sel, siamo a un passaggio politico chiave, in cui «il Pd ha cominciato a rompersi».
Vendola, sapeva che Sergio Cofferati stava per lasciare il Pd?
«Non sono sorpreso da questa scelta. Percepisco il turbamento e il dolore con cui Sergio dà l’addio al suo partito, dopo avere guardato negli occhi questa nuova creatura che è il Pd di Renzi».
E cos’è il Pd renziano, secondo lei?
«Un esorcismo di ciò che è sinistra. Sinistra c’è se c’è limpidezza, chiarezza programmatica, se attorno a un programma di governo si costruisce un blocco sociale e un sistema di alleanze che rendano credibile anche quel programma. Quanto è successo nel Pd ligure, e anche sta accadendo nelle altri parti d’Italia per le regionali, è costruire alleanze che sono una Arca di Noè del trasformismo. In Liguria l’antagonista di Cofferati alle primarie, Raffaella Paita - con l’imprimatur autorevole di Roberta Pinotti e Claudio Burlando - ha costruito accordi neppure segreti con gli uomini di Scajola e con pezzi della destra compromessi anche dal punto di vista morale».
Chiederà a Cofferati di candidarsi con una lista della sinistra e di Sel?
«Se fosse disponibile, per noi è non solo una bandiera, ma resta un punto di riferimento per vincere e governare fuori dalle alleanze scellerate e nel segno della discontinuità. È incredibile la sottovalutazione che il Pd nazionale ha fatto della vicenda ligure».
Nascerà un nuovo movimento della sinistra in vista delle politiche?
«Quanto accaduto in Liguria, è un segnale per tutta Italia. Si apre un’altra fase».
Avete definitivamente deciso di non allearvi con il Pd in Liguria?
«Sarà impossibile per noi sostenere l’ammucchiata che si raccoglie attorno alla Paita».
Ma se Paita facesse un passo indietro sarebbe possibile ancora l’alleanza del centrosinistra?
«Di passi indietro ne ha fatti già, nel senso che ha abbracciato un brutto passato.
Sel si assume la responsabilità di far perdere il centrosinistra in Liguria?
«La Paita si è già assunta questa responsabilità. Se la prenda per intero» Ma una sinistra di governo è possibile rompendo con il Pd?
«La notizia oggi è che il Pd ha cominciato a rompersi dalla Liguria. Cofferati non è un ragazzo in carriera, è un pezzo della storia, uno dei simboli della sinistra italiana. È brutta inoltre tanta incredibile teppistica maleducazione negli attacchi a Sergio».
Siete accusati di settarismo?
«E perché? Con il cattivo realismo il centrosinistra ha perso tante volte e soprattutto ha perso l’anima. Siamo di fronte a passaggi politici inauditi nella loro gravità. A fine settimana prossima con Human Factor cerchiamo un rilancio forte a sinistra».
Non crede che, se il centrosinistra si spacca, scompare anche la sinistra di governo?
«Così dicevano di Tsipras, mentre il ciclopico Pasok è ora al 4%».
Proporrebbe Cofferati presidente della Repubblica?
«Non gioco al toto nomi per il Quirinale nel teatrino del Palazzo».

La Stampa 18.1.15
Il dissidente Civati: il rischio scissione cresce ogni giorno ma non ci saranno conseguenze per riforme e Quirinale
«Ora il nuovo partito a sinistra è un’ipotesi molto concreta»
«Per quanto mi riguarda, questo non è solo un fatto regionale. Fa parte di una lunga serie di episodi in cui mi sono trovato distante dall’attuale segreteria del Pd»
intervista di Francesca Schianchi


Pippo Civati, molti renziani insistono nel dire che non si va via quando si è sconfitti, bisogna saper perdere…
«E’ una lettura superficiale. Il problema è ben più grosso e liquidarlo in modo così leggero contribuirà a portare persone a non votare più Pd».
Qual è il problema?
«Sull’analisi sono d’accordo con Cofferati. In questi giorni ho anche cercato qualche sponda nazionale nel Pd per una lettura critica e più rispettosa di chi non ha votato la Paita di quanto è successo, ma ho trovato il contrario. C’è un’unica cosa su cui non sono d’accordo con Cofferati».
Che cosa?
«Non è vero che c’è stato silenzio da parte della dirigenza del partito: è stato detto il contrario di quello che ci aspettavamo. Il ministro della Difesa Pinotti ha detto la settimana scorsa che con il Nuovo centrodestra già governiamo, mentre Sel è all’opposizione… Loro vogliono fare il partito se non della Nazione, della Regione, mentre noi vogliamo fare il centrosinistra».
Il problema allora non sono i seggi contestati, ma proprio la linea politica.
«Entrambe le cose. Se annulli tredici seggi non si tratta solo di un problema quantitativo, ma anche qualitativo. E non ho sentito parole di condanna rispetto ai seggi annullati. Ai tempi delle primarie a Napoli ricordo un’intervista di Orlando in cui diceva “abbiamo sentito puzza di bruciato per cui abbiamo annullato”, con questo non dico che bisognasse annullare le primarie anche in Liguria, ma mi aspettavo un atteggiamento più attento».
Cosa si aspetta che faccia ora il segretario Renzi?
«Non lo so. In Direzione ha detto “caso chiuso”: ora chiunque lo riaprirebbe, ma non so se lo farà lui».
Cresce l’ipotesi di una nuova forza a sinistra?
«E’ un capitolo aperto da tempo. La domanda è se riguarda un pezzo di Pd: in Liguria temo sia un’ipotesi molto concreta. Ed è possibile che ci siano sviluppi a livello nazionale. Per capire le conseguenze bisogna aspettare un po’».
Tra le conseguenze potrebbe esserci una sua uscita dal Pd?
«Diciamo che questa vicenda non è un aiuto a saldare i rapporti con la dirigenza del partito».
Ci saranno conseguenze nei rapporti tra minoranza e maggioranza nei prossimi appuntamenti, il voto sulle riforme e sul capo dello Stato?
«Non penso, perché nei giorni scorsi non ho rilevato da parte degli altri della minoranza una grande solidarietà verso Cofferati…».

Corriere 18.1.15
Fassina: io resto ma molti voti andranno via
«Cofferati lo seguiranno in tanti, ma a Renzi non sembra interessare. Io resto, per cambiare rotta», dice Stefano Fassina
«Preferisco combattere dall’interno. E i militanti ora alzino la voce nei circoli»
intervista di Alessandro Capponi


ROMA Non rassegnatevi, ribellatevi; non scappate, alzate la voce. Stefano Fassina per parlare alla base usa altre parole ma il concetto è quello: adesso, dice lui, bisogna rimanere nel Pd e cambiarlo, ma dall’interno. Per farlo c’è un’unica strada: «Voglio dire agli iscritti, ai nostri più impegnati, di farsi sentire: andate nei circoli, nelle sedi del partito, e ovunque, e discutete in modo attivo, alzate la voce, dite chiaramente che questo non è il Pd che immaginammo anni fa, che questo non è il Pd che vogliamo. Dite a tutti, a voce alta, che perdere Sergio Cofferati e prendere l’ex senatore Pdl Franco Orsi, allergico alle celebrazioni della Resistenza, altro non è che una sconfitta storica».
Viceministro dell’Economia nel governo Letta, deputato, membro della direzione nazionale del Pd: le posizioni di Stefano Fassina, in merito alla linea del partito, sono note. Così quando Sergio Cofferati deve ancora ufficializzare la sua uscita dal Pd, lui ha già deciso da che parte stare.
Fassina, cosa ne pensa?
«Penso che venerdì in direzione quanto accaduto in Liguria è stato derubricato a ordinaria amministrazione, che si è gettato discredito morale su Cofferati, e Renzi ha dato l’avallo politico all’operazione: Paita ha vinto cambiando le alleanze, Pinotti ha prospettato la costruzione di un’alleanza nazionale con Ncd dentro. Un ribaltamento delle alleanze, con l’allontanamento del baricentro dalla sinistra. E, quindi, bisogna fare attenzione: non è un problema locale, e la decisione di Cofferati è indice di un malessere profondo e diffuso: Sergio è un esponente di peso al nostro interno e nel sistema politica la sua fuoriuscita può spostare voti».
Gli elettori fuggiranno?
«È già evidente l’abbandono di pezzi rilevanti di elettori. In Emilia-Romagna ne abbiamo persi 700.000, dimezzando il voto delle Europee: l’allontanamento è conclamato, ma evidentemente non interessa al segretario, il quale probabilmente è convinto di poter attrarre i delusi di centrodestra. Il problema è che non lo fa attraendoli sulla nostra piattaforma ma la cambia pur di piacere alla destra. Ciò che sta accadendo in Liguria non è che una conferma che il Pd si sposta sugli interessi più forti del Paese: l’avevamo già capito con la delega al lavoro che non dà nulla ai precari e colpisce gli altri lavoratori, con il decreto fiscale che premia i grandi evasori e colpisce le partite Iva individuali... Di certo, ecco: se continuiamo con la linea di Renzi in direzione è inevitabile che sia destinata ad ampliarsi l’area di chi abbandona il Pd. La scelta che oggi è di Cofferati è stata già fatta da un bel pezzo del nostro popolo, ma credo che a Palazzo Chigi non ne siano dispiaciuti: probabilmente la leggono come la conferma della ricollocazione del Pd verso gli interessi più forti del Paese».
Lei cosa farà?
«Io continuo nel Pd per cercare di correggere la rotta, perché quella di adesso è sbagliata sia per il Pd, sia per i lavoratori, sia per il Paese. Anzi, non solo è sbagliata: fa male sia al Pd sia al governo».
Se la situazione è così negativa come si può pensare di correggere la rotta?
«Secondo me ci sono i margini per cambiare, io spero che nell’appiattimento conformistico del nostro gruppo dirigente ci sia qualche incrinatura».
Cosa serve per correggere la rotta?
«Un impegno coerente al Pd che avevamo immaginato, la stessa coerenza, ad esempio, che hanno avuto i 40 di noi che non hanno votato la delega al Lavoro. E con l’impegno quotidiano dei nostri militanti, segretari di circolo, amministratori».

il Fatto 18.1.15
Caso Primarie Liguria, Cofferati lascia il Pd
“Renzi approva le primarie inquinate dai fascisti”
“Vergognoso silenzio del mio partito su un grande tema etico. È inaccettabile”
I civatiani preparano altra lista
di Ferruccio Sansa


Genova In una situazione come questa, per rispetto ai cittadini, alle mie convinzioni, di fronte a un partito che non dice nulla io non posso più restare”. Sergio Cofferati lascia così il partito che ha fondato, quello venuto su dal Pci, in cui entrò nel 1973. Con un crescendo in cui la sua voce ritrova per un attimo i toni del discorso del Circo Massimo. Appena risuona quella frase (“Io non posso più restare”) scoppia un lungo applauso. La moglie si copre gli occhi per nascondere le lacrime.
NON È SOLTANTO Cofferati che applaudono, non sono soltanto per lui gli occhi lucidi in sala. In tanti a Genova, pensano a se stessi, al Partito che stanno per lasciare. Ma che cosa succederà ora? “Esco dal Pd non per fondare un partito, non per andare in un altro partito. Esco perché non trovo nel Pd rispetto dei valori che mi avevano portato a essere uno dei 45 fondatori”, spiega. Ma il dubbio resta: “Adesso mi occuperò della mia associazione. Ma non me ne vado, io sto qui, un’altra storia si deve scrivere”. Di fatto è la prima pagina di un nuovo schieramento, di una lista civica che raccolga chi esce dal Pd, i civatiani, Sel, Verdi ed elettori Cinque Stelle. Ma presto potrebbero aggiungersi movimenti, esponenti della società civile vicini anche al mondo di don Gallo. Ieri sera è arrivato già il comunicato di Liguria Possibile che fa riferimento a Giuseppe Civati e che in Liguria raccoglie figure di spicco come Andrea Ranieri (membro del direttivo nazionale Pd), il deputato Luca Pastorino e l’europarlamentare Renata Briano: “Non voteremo Paita. Da oggi, lavoriamo alla creazione di una nuova lista di centrosinistra per le regionali, coerente con valori politici ed etici che sono stati violati nelle primarie”. Insomma, contro il Pd. Anche se non c’è ancora un’uscita ufficiale. In attesa che da Roma arrivi magari un’espulsione. Il candidato potrebbe essere Cofferati o una figura della società civile. Il Pd è uscito dal perimetro del centrosinistra, “a questo punto dovremo lavorare per costruire un’alternativa credibile per le regionali”, annuncia Stefano Quaranta, deputato di Sel.
Certo le parole dell’ex leader Cgil sono state pronunciate per andare molto oltre la sala del teatro, per arrivare a Roma. Parole molto più dure nei confronti del Pd di quelle che usa il centrodestra, il supposto avversario politico: “È inaccettabile il silenzio del mio partito su quello che è successo”, esordisce riferendosi ai brogli nelle recenti primarie. Senza giri di parole, punta il dito contro il ministro genovese Roberta Pinotti: “Non mi riferisco al suo sostengo a Paita, ma alla sua affermazione che in Liguria si vuole far nascere un governo dove il centrosinistra si allea con il centrodestra. Quando Napolitano diede l’incarico di formare un governo di larghe intese lo fece perché non c’era una maggioranza per governare. Ma con l’intenzione che appena fatte le riforme si tornasse al voto e alla normalità, con una maggioranza e un’opposizione”. Poi tocca alla segreteria del Pd, a Matteo Renzi: “Questo è un tema politico con un risvolto morale. Io sono un antifascista... è una vergogna che un fascista non pentito voti alle primarie del Pd”. Infine un accenno al portavoce di Raffaella Paita, Simone Regazzoni “che presenta i suoi libri a Casa Pound”, che su Facebook inneggia alla pena di morte per i terroristi, senza che nessuno nel centrosinistra apra bocca: “Il silenzio del mio partito è inaccettabile. Renzi non ha nemmeno aspettato le conclusioni della Commissione dei Garanti sulle primarie per proclamare vincitrice la Paita”.
BASTA: “DA SETTIMANE avevo segnalato le irregolarità al mio partito”. Appena domenica Cofferati aveva detto: “Questa gente (il centrosinistra che governa la regione, ndr) ha il terrore che noi arriviamo ad aprire i cassetti e scopriamo cosa hanno combinato in questi anni”. Basta: “È una decisione molto sofferta. Lascio il partito dove sono entrato ragazzo più di quarant’anni fa, che avevo seguito in tutte le trasformazioni da Pci, a Pds, fino al Pd. Mi stanno a cuore le persone che mi hanno votato. Non devono perdersi d’animo, per questo io non scappo”. Ecco aprirsi lo spiraglio per una lista civica. Che parta dalla Liguria, per lanciare un messaggio a Roma.
Uno strappo che rischia di fare molto male al Pd. Lo avevano capito nei giorni tanti pezzi grossi del partito, a cominciare da Massimo D’Alema, l’ex arcirivale di Cofferati che aveva tentato un incontro in extremis. Poi Lorenzo Guerini, il braccio destro di Renzi che venerdì sera aveva provato a ricucire. Troppo tardi. “Non mi hanno promesso niente, mi hanno chiesto di aspettare”, racconta Cofferati.
La pietra tombale l’ha messa Renzi con quella frase che a Cofferati proprio non deve essere andata giù: “In bocca al lupo a Raffaella Paita. Basta con i Tafazzi”. È stata la goccia che venerdì sera ha fatto rompere gli ultimi indugi: “Sono estenuato e cattivo”, conclude Cofferati indicando il braccio fratturato che lo ha tormentato in queste settimane. Ma il vero dolore che gli ha consumato il viso è un altro.

il Fatto 18.1.15
Garantisti da primarie: senza manette è tutto ok
Al Pd di Renzi non interessa se le consultazioni interne sono truccate
Vige la regola Orfini: “Hai visto? In Piemonte niente condanne”
di Antonello Caporale


“Ho parlato troppo presto? È già uscita la notizia? ”. No, i garanti del Pd non avevano mai comunicato che la candidata ufficiale del partito in Liguria fosse la signora Paita. Anzi avevano appena registrato l’annullamento per brogli di 13 seggi alle primarie appena svoltesi. Bruscolini per Matteo Renzi. Che non essendo Tafazzi, proprio così ha detto, ha avanzato la nomination prima che le verifiche fossero state concluse. E raccomandato l’unità e tanti bei selfie alla candidata vittoriosa. Evviva!
Ammesso che le verifiche fossero state serie le ha fatte passare per fasulle. Come ha trasformato in bugiardo il suo proposito, almeno teoricamente sincero, di risanare il partito, liberarlo dagli impresentabili, restituirgli credibilità e un po’ di onore, qualunque latitudine fosse ad essere teatro di queste scene di malapolitica.
La reazione a Roma dopo l’inchiesta per Mafia Capitale
Altro giorno e altro Matteo. Giovedì sera in televisione Orfini, presidente del Pd rivolto a Marco Travaglio durante Servizio Pubblico: “Ha visto in Piemonte? Tutti assolti”. L’ha pronunciata la parolina magica – assoluzione – con l’aria soddisfatta, con la malizia di chi dice, e adesso tiè. Con l’animo di chi è convinto che se il fatto non costituisce reato smette di essere schifoso, inopportuno o eticamente riprovevole. Semplicemente smette di esistere.
Sono eventi frequenti di un fenomeno conosciuto come scambio di ruolo. Colui che si professa garantista attende come fosse Zeus la mano della Procura e si attiva solo se sente il tintinnìo di manette. È la Procura che timbra il lasciapassare. E la soglia della buona creanza raggiunge quella della cella. Se la sopravanza è illecita. Ma se si ferma a un passo dalle sbarre diviene rispettabile, pulita, dunque potabile.
Infatti il primo Matteo, cioè Renzi, ha nominato un secondo Matteo, cioè Orfini, commissario alla ripulitura del Pd romano solo perché il procuratore della Repubblica gli ha arrestato alcuni amici sostenitori tipo Buzzi, e rinviato a giudizio altri amici, consiglieri comunali di fascia alta. Non si fosse mosso il dottor Pignatone, Orfini sarebbe ancora a giocherellare nel clubbino dei giovani turchi, la grandiosa corrente della sinistra che l’ha visto prima adagiarsi nella poltrona offertagli da Bersani al tempo della sua segreteria e oggi accettare, ma a malincuore!, lo scranno presidenziale del Pd predisposto da Renzi. Un combattente, e si vede.
Questa teoria illustra la prova inconfutabile dell’inesistenza della realtà se non è accompagnata dai Carabinieri. Si deduce che tutti gli intrallazzi e le sporcizie e i traffici di tessere e di circoli di cui lo stesso Orfini dice di dover eliminare da Roma, non essendo fatti penalmente rilevanti, non esistono. Ed è bellissimo, perché effettivamente il mercimonio di tessere sarebbe un atto riprovevole solo se la Suprema Corte fosse chiamata a deliberarlo. E qui di nuovo la conferma di una consapevolezza nuova dei socialisti del terzo millennio: le manette sono il sol dell’avvenire.
Questo è un Paese, pensate un po’, in cui la figlia di Silvio Berlusconi ha dovuto ricordare che la Costituzione impone a chi ha responsabilità di governo di comportarsi con onore, testimoniandolo in ogni atteggiamento sia privato che pubblico. Evidentemente anche questo articolo verrà emendato nella grande riforma costituzionale che dovrà modernizzare le Istituzioni.
Il Pd, oggi retto da garantisti non più ossessionati dalle Procure, avanza placido e tranquillo. In Campania, per esempio, per la terza volta non si potranno svolgere le primarie. C’è mica un problema? I magistrati non hanno mosso un dito e la convinzione comune è che se non si terranno non lo alzeranno in futuro. Infatti silenzio. Chi vorrà, trafficherà al momento opportuno e saranno fatti suoi. Siamo tutti garantisti, e Renzi garantirà presto il nome dell’unico candidato, scelto naturalmente da lui. Sarà Gennaro Migliore. Il nome dice tutto. Più garanzia di così?
Hanno rottamato anche la questione morale
Siamo finalmente alla terza via agognata nel secolo scorso da Enrico Berlinguer. Entri, esci o stai di lato a seconda che la Digos abbia fatto visita in casa. Tutto ciò che non è scritto nel certificato penale non esiste. Non esistono, per fare un ultimissimo esempio, le tangenti dell’Eni, perché Scaroni le avrebbe confessate solo sotto voce a Corrado Passera e lui, altro gran garantista, non ci ha creduto e non ha neanche fiatato.

Repubblica 18.1.15
L’amaca

SE IL centrodestra, mediante primarie, dovesse scegliere tra Hitler e Cicchitto, spererei che vincesse Cicchitto, o perlomeno che non vincesse Hitler. Ma non mi sognerei mai di andare a votare, per una ragione così ovvia che quasi imbarazza doverla ripetere: è intrusivo e sleale andare a decidere cose d’altri in casa d’altri. Allo stesso modo non pretendo di eleggere il presidente del Rotary o di decidere la formazione della Lazio o di partecipare all’assemblea di condominio di via Meucci 46, in conseguenza del fatto che non sono iscritto al Rotary, non sono l’allenatore della Lazio, non abito in via Meucci 46.
Per ragioni poco comprensibili, e comunque mai spiegate, questa banale regola di rispetto è saltata per le primarie del Pd, che in Liguria hanno vissuto l’ennesima pagina opaca (eufemismo). Che Sergio Cofferati parli con l’acredine dello sconfitto non leva una sola virgola alla sensatezza delle cose che ha dichiarato annunciando il suo addio al Pd. La nuova classe dirigente democrat può legittimamente pensare che perdere uno stagionato dirigente della vecchia sinistra (tra l’altro europarlamentare e dunque non sull’orlo della disoccupazione) non sia poi così grave. Ma gravi, molto gravi, sono le accuse e i sospetti che gravano su quelle primarie, e su altre precedenti: non dunque su Cofferati, ma su chi rimane. È sconcertante la sbrigativa disinvoltura con la quale il nuovo Pd parla di se stesso. Non dei suoi avversari: di se stesso.

Corriere 18.1.15
Lo strappo di Cofferati non cambierà la sinistra
di Dario Di Vico


L’uscita di Sergio Cofferati dal Pd è un colpo, più che al partito, alla credibilità dello strumento delle primarie.
Le lunghe file ai gazebo in questi anni avevano fatto sognare quanti nel centrosinistra si sono battuti con caparbietà per tentare di ricucire la cesura tra politica e società e per affidare alla partecipazione popolare la selezione della classe dirigente nazionale e periferica. Purtroppo quasi tutte le ultime edizioni delle primarie in chiave locale hanno visto emergere una forma di caporalato etnico-elettorale che ha alimentato battute sarcastiche e calembour ma che non può che allarmare, anche perché traduce in farsa la grande tragedia contemporanea della difficoltà di integrazione dei migranti. E ciò va detto al di là del riconoscimento delle proporzioni del successo di Raffaella Paita in Liguria. Per il Cinese si tratta di una nuova amarezza che bissa quella che lo ha portato ad abbandonare il municipio di Bologna, lasciandosi dietro una scia di polemiche e veleni che non sono stati ancora riassorbiti.
Ma esaurite le tematiche di giornata, la domanda forse più intrigante è se l’approdo di Cofferati nel campo della sinistra scontenta e radicale sia destinato a cambiare qualcosa in termini di audience e di gerarchia dei potenziali leader. La risposta che viene immediata è che assai difficilmente l’ex leader della Cgil rappresenterà l’Oskar Lafontaine della seconda sinistra. Non esce infatti dal Pd con un bagaglio di idee nuove o con particolari legami sociali tali da rimescolare le carte negli accampamenti civatiani e vendoliani.
In fondo l’unico personaggio che potrebbe far crescere significativamente la sinistra alternativa al Pd resta un sindacalista ancora in pieno servizio come Maurizio Landini, capace di destreggiare con abilità il mezzo televisivo e che ha dietro di sé un’organizzazione come la Fiom, abituata alle incursioni nel campo più strettamente politico. Ma Landini, almeno per ora, pensa alla Cgil, e non a scendere in campo.

il Fatto 18.1.15
Corsi e ricorsi
Il voto in Campania fa 90: la paura
di Vincenzo Iurillo


Napoli Domenica 23 gennaio 2011 a Napoli fa un freddo boia. E va in scena il più grande pasticcio nella storia delle primarie del Pd. Nonostante il tempo inclemente, coi dirigenti democrat che alla vigilia dichiarano che “sarebbe un grande successo arrivare a 30.000 votanti”, sono ben 44.188 gli elettori che affollano i 115 seggi allestiti per la scelta del candidato sindaco del centrosinistra. Vince a sorpresa l’europarlamentare Andrea Cozzolino con 16.358 preferenze (poco più del 37%). Il superfavorito Umberto Ranieri, pupillo di Giorgio Napolitano, sostenuto da Roma e dalla stragrande maggioranza del gruppo dirigente locale, si ferma a 15.137 voti (34,6%). I resti vanno al vendoliano Libero Mancuso e all’ex assessore comunale Nicola Oddati. Determinante è il ‘miracolo a Miano’, il seggio di via Ianfolla nella periferia est di Napoli dove Cozzolino conquista 1067 preferenze, 867 più di Ranieri. In un altro seggio, a Secondigliano, l’ex delfino di Bassolino strappa 604 preferenze, 364 più di Ranieri. Due urne dove si scava il solco della vittoria. Ranieri non ci sta, denuncia brogli, truppe cammellate, infiltrazioni del centrodestra, facce strane ai seggi nei quartieri della malavita organizzata. I suoi sostenitori sottolineano che “al netto del voto di quei rioni, Umberto è di fatto il vincitore”. Come se Secondigliano e Scampia fossero corpi estranei della città, buoni solo per ambientarci i film di camorra. A proposito, Roberto Saviano su Repubblica Tv sostiene che “le primarie andrebbero rifatte”. Certo, il dato dell’affluenza è sospetto. Ci sono seggi dove si sarebbe registrato un voto ogni 40 secondi. Veltroni in tv parla di “file di cinesi”. Ma Cozzolino rivendica la bontà della vittoria, non molla. Pier Luigi Bersani licenzia il segretario napoletano Nicola Tremante, e invia come commissario il responsabile giustizia e legalità Andrea Orlando. Si insedia la commissione di garanzia presieduta da Raffaele Cananzi che inizia a esaminare una pioggia di ricorsi. Non arriverà una sentenza. Non ci sarà una risposta alla domanda: “Furono regolari le primarie a Napoli”? Il 12 febbraio, infatti, Cozzolino fa un passo indietro: “Sono pronto a mettere a disposizione il mio risultato”. Bersani lo ringrazia e seppellisce nella stessa bara l’esito delle primarie e la commissione che avrebbe dovuto decidere se invalidarlo o meno: “Al punto in cui siamo è evidente che non si può delegare a un organismo di garanzia lo scioglimento di un nodo politico”. Primarie annullate, poi la scelta politicamente suicida di candidare un perfetto sconosciuto, il prefetto Mario Morcone. Non arriverà nemmeno al ballottaggio.
Ed eccoci oggi a un nuovo teatrino: primarie sì primarie no per la scelta del candidato Governatore. I contrari citano i fatti napoletani del 2011, sono certi che si ripeterebbero. Fissate per il 14 dicembre 2014, le primarie sono state rinviate prima all’11 gennaio, poi al 1 febbraio. Tre i candidati: di nuovo Cozzolino, il sindaco-sceriffo di Salerno Vincenzo De Luca, il senatore Angelica Saggese. Ce ne sarebbe un quarto in pectore, l’ex vendoliano Gennaro Migliore. C’è chi lo indica come il candidato di superamento delle primarie, ma lui è disposto anche ad affrontarle. Bisognerebbe riaprire i termini. Cambiare le regole a partita in corso. Quella del 2011 fu annullata senza che l’arbitro fischiasse il fuorigioco nell’azione del gol. Forse perché non fu vinta dal candidato dell’establishment.

il Fatto 18.1.15
Il costituzionalista Federico Sorrentino
“Macché manina, la Procura indaghi sul falso salva-Silvio”
Renzi ha fatto un falso in atto pubblico, non basta una censura ci vuole un’inchiesta
di Silvia Truzzi


La legge dovrebbe essere il terreno d’elezione dove la forma è sostanza. Dove la correttezza delle procedure è garanzia, non fatto accessorio. Parliamo della delega fiscale approvata alla vigilia di Natale, testo a cui successivamente una “manina” - si è scoperto, per stessa ammissione dell’interessato, che era quella del premier - ha poi aggiunto di soppiatto un articolo (il 19 bis, che stabiliva la depenalizzazione di evasione e frode fiscale al di sotto della soglia del 3% dell’imponibile). E qualche giorno prima, il 21 dicembre, in occasione del voto sulla legge di Stabilità, i senatori si ritrovarono ad approvare un testo sbagliato, incompleto e che non avevano letto. Due situazioni molto diverse, che hanno in comune una faciloneria inaccettabile. “Questo modo di fare è molto preoccupante”, spiega Federico Sorrentino, costituzionalista, ex professore della Sapienza oggi in pensione.
Professore che cosa la preoccupa?
C’è un’allarmante disinvoltura, che non è solo degli ultimi mesi, per la quale il Consiglio dei ministri delibera un provvedimento e solo dopo qualche giorno il testo viene confezionato. Molte volte non viene nemmeno riportato in Consiglio dei ministri. Ci sono stati decreti legge pubblicati anche dieci giorni dopo la delibera, perché il testo non era stato definito. Molte volte passano intervalli imbarazzanti tra la data in cui il Consiglio dei ministri risulta aver approvato in linea di massima un certo provvedimento e la data in cui il provvedimento (magari un decreto urgente) viene pubblicato.
E il caso dell’articolo 19 bis. Si va ben oltre l’irregolarità: siamo di fronte a un reato?
A me era sfuggito che l’articolo 19 bis era stato inserito dopo la delibera del Consiglio dei ministri. Tra l’altro la sostanza di quel nuovo articolo non è cosa banale, è una scelta che ha un rilievo politico significativo. Doveva essere perlomeno riportato in Consiglio dei ministri, affinché il Governo nella sua collegialità ne assumesse la responsabilità. È certo che siamo al di là di una leggerezza. Siamo di fronte a un falso in atto pubblico. Che per un premier, un ministro o comunque un funzionario pubblico è particolarmente grave.
Alessandro Pace auspicava su questo giornale, ieri, una mozione di censura a Renzi perché non si ripetesse una cosa del genere.
Forse occorre essere più rigidi: non basta una mozione di censura se, come penso, si tratta di un reato commesso nell’esercizio delle funzioni del ministro o del presidente del Consiglio. Occorre che di esso si occupi il Tribunale dei ministri. È un fatto di una gravità straordinaria, passato sotto silenzio. O meglio: è stato coperto da risolini, da battute, da manine. Invece è una cosa estremamente seria.
Il falso in atto pubblico è procedibile d’ufficio.
Ovviamente. A questo punto la Procura di Roma – di fronte al Presidente del Consiglio che ammette di aver messo lui la “manina” – dovrebbe trasmettere la cosiddetta notitia criminis al competente Tribunale dei ministri. L’obbligatorietà dell’ azione penale impone che, a seguito delle dichiarazioni del presidente del Consiglio, che ha ammesso il fatto, si proceda alle necessarie indagini.
Dicono: le riforme che rafforzano l’esecutivo servono per migliorare l’efficienza.
Vogliamo scherzare? Quando si è voluto, nel nostro Paese, le leggi si sono approvate in tre giorni (legge di Stabilità del 2012). In realtà si vogliono rimuovere i controlli sull’operato del governo, eliminando o snaturando il Senato e approvando una nuova legge elettorale ipermaggioritaria e, per giunta, da parte di un parlamento, come quello attuale, che con l’annullamento della legge elettorale (porcellum) ha perduto ogni legittimità e che in nessun modo può dirsi che rappresenti il popolo italiano.
La questione formale in questi casi è più che mai sostanziale.
Se si pensa che, secondo insinuazioni per niente inverosimili, l’articolo 19 bis sarebbe la conseguenza di accordi opachi tra leader di diversi partiti, la questione diventa alquanto preoccupante.

il Fatto 18.1.15
La denuncia
Il professor Pace e le regole saltate a Palazzo Chigi


ERA STATO il professor Alessandro Pace, giurista di fama, a chiarire ieri al Fatto Quotidiano che la “manina” del governo sulla depenalizzazione dell’evasione e della frode fiscale sotto il 3% dell’imponibile non poteva essere classificata come una guasconata del giovane premier. È infatti configurabile come reato. Perché? “Perché il presidente Renzi, pur ricoprendo la massima carica politica del nostro ordinamento costituzionale, ha usato un sotterfugio per far sì che una sua volizione ‘individuale’ assumesse le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti”. Negli Stati Uniti, lo facesse Obama, rischierebbe l’impeachment.

il Fatto 18.1.15
Etruria, esuberi nella banca di papà Boschi


BANCA ETRURIA è un importante istituto toscano di recente citato dalle cronache per due ragioni: l’inchiesta giudiziaria che ha decapitato i precedenti vertici e il fatto che il vicepresidente sia, da maggio 2014, Pier Luigi Boschi, papà di Maria Elena, ministro delle riforme del governo Renzi. In banca lavora anche il fratello del ministro, Emanuele. Ieri il sindacato Fiba Cisl ha lanciato l’allarme sulla “trattativa per la procedura di riorganizzazione della Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio" dove si rischiano 410 esuberi, in pratica 1 lavoratore su 4. “La banca - dice la Fiba Cisl - propone un riassetto organizzativo che prevede tagli di personale e riduzione di filiali, nell’ottica di riduzione strutturale del costo del lavoro, la motivazione sarebbe rendere la Banca più appetibile a possibili acquirenti”. E il governo Renzi martedì dovrebbe annunciare una radicale riforma delle banche popolari, cioè quelle in cui si vota in assemblea con la regola “una testa un voto” invece che, come accade nelle società normali, con voti proporzionali alla quota di azioni detenuta.

il Fatto 18.1.15
Renzismi
Manca il Capo dello Stato Qualcuno se ne è accorto?
di Furio Colombo


Ma come fanno i deputati, come fanno i senatori, a restare lì dentro a far finta di lavorare, mentre un caos di fili annodati l’uno nell’altro, che sarebbero le riforme da fare subito, si accatasta qui dentro come in una fabbrica assediata?
Non so chi ha avuto questa vertigine. Ma qualcuno ha deciso, in un momento di estrema confusione, in cui manca il capo dello Stato, di fare finta di niente e come direbbero ufficiali severi e patriottici sotto un bombardamento, l’importante è che nessuno lasci il suo posto.
Sapete a che cosa si lavora? Alla Camera per completare l’abolizione del Senato. Al Senato per avere la legge elettorale per eleggere la Camera (unica parte del Parlamento che sopravvive). Come ricorderete, il Paese continua a non avere una legge elettorale da quando la Corte Costituzionale ha dichiarato inaccettabile quella a liste blindate che il governo di Berlusconi, all’improvviso e senza ragione, aveva fatto calare sull’Italia coloniale che governava con la rigorosa fedeltà dei media e con la complicità di un’opposizione silente o assente. Ma il Senato non può fare la legge elettorale finché non sa se e fino a quando il Senato continuerà a esistere. E la Camera non può continuare a votare finché non c’è un presidente della Repubblica che possa firmare la legge.
È in corso, vi sarete accorti, una gara furiosa e appassionata di una sola persona con se stessa. Si tratta del presidente del Consiglio Renzi che voleva un cronoprogramma, senza badare al contenuto delle materie che via via avrebbero dovuto passare sulla sua catena di montaggio. Nel frattempo vuole essere l’arbitro assoluto (insieme a Berlusconi, strettamente legato da un patto che non conosciamo) della selezione, poi della scelta, poi della strategia, poi della votazione, magari con un tuono di ovazioni, per il presidente che non c’è. Nel frattempo, naturalmente, ciascuno dei mille deputati, senatori e votanti aggiunti in rappresentanza – come si usa dire – del potere locale, stanno facendo, quasi ognuno, la stessa cosa: si candidano o partecipano a gruppi, alcuni da dopo lavoro, altri accanitamente militanti, per l’elezione di qualcuno.
NEL FRATTEMPO le reti televisive fanno lotterie e distribuiscono ai partecipanti dei loro talk show biglietti per votare i nomi preferiti. I giornali pubblicano, uno dopo l’altro, vite e curricula, ipotesi e sceneggiature di possibili esisti. Poiché c’è spazio e tempo, di alcuni presidenti inventati ci si trattiene a dire che cosa farà in Europa, come affronterà le fabbriche chiuse, e persino in che rapporti è o sarebbe con Obama e la Bce. Ma il presidente non c’è, e i deputati e senatori che lo devono eleggere, lavorano o fanno finta di lavorare ad altro. Fanno finta perché niente può andare avanti. Bisognerebbe almeno tenere conto delle due ipotesi fondamentali: eleggere un presidente che sia un nulla e che non conti nulla. È il sogno di Renzi ma non è detto che tutti i sogni si avverino, persino per lui. Oppure, per qualche errore che può sempre succedere, il presidente è qualcuno, che vuol sapere che cosa si sta votando e perché, e in quale ordine e con quale urgenza, anche solo come cortese informazione.
C’è qualcosa di folle nel concepire l’idea che voi lavorate a riforme costituzionali e a una legge chiave come quella elettorale, da cui dipende la qualità della vita democratica del Paese, e io intanto penso, per conto mio, a giudizio mio e del mio socio (e non disturbatemi) a trovare la persona adatta per le cerimonie. Ma c’è un altro fatto che è impossibile non considerare. Statisticamente, è più probabile che sia un deputato o un senatore, a essere eletto presidente della Repubblica piuttosto che qualcuna o qualcuno esterno alla vita politica.
È naturale che tutti si sentano parte, alcuni apertamente in corsa. Tutti, comunque, hanno una ragione per volere il tempo di partecipare alla più importante discussione politica italiana ogni sette anni (in questo caso, nove, ma proprio a causa di una cattiva legge elettorale che non produce maggioranze e che adesso bisognerebbe ritoccare in fretta e furia prima del voto presidenziale).
In altre parole il progetto sembra essere di far trovare il grosso del lavoro già fatto alla brava persona che sarà mandata al Quirinale, con lo svelto voto di una mezza giornata, in modo che debba dedicarsi alle sue cerimonie senza pensieri sproporzionatamente pesanti e senza mettere becco in questioni già decise.
MI RENDO conto che sto dicendo le stesse cose che ha detto in aula il capogruppo di Forza Italia Brunetta. Evidentemente il travolgente impulso di Renzi di fare in fretta, non importa se male, non importa che cosa, sta accostando allarme e proteste di chi vede, anche da punti di vista immensamente diversi, lo stesso innegabile pericolo. Come se non bastasse grava (a scapito persino di Brunetta) il patto del Nazareno, che è saldo, segreto e inviolabile. E certamente ha nella elezione del capo dello Stato, il suo punto più importante.
Non c’è bisogno di immaginare che sia una associazione per scopi indicibili. Ma è segreta, “tiene” (ci assicurano ogni volta o la Boschi o Verdini) e ci annuncia che le decisioni sono già prese. Sarebbe un caos, se il patto dovesse fallire. Sarebbe un caos se la pallina (secondo decisioni che non conosciamo con persone che, purtroppo, conosciamo) andasse in buca. Qualcuno vede il lieto fine?

Corriere 18.1.15
Il sondaggio
Passo indietro del Pd: perde 6 punti, scende a 34,8%
La Lega a un passo da Forza Italia
Il centrodestra se fosse unito, varrebbe 36,3% contro il 38,6 del centrosinistra
Nel Pd perde forza la connotazione «acchiappatutto»
M5S stabili al 20%
di Nando Pagnoncelli

qui

La Stampa 18.1.15
Salendo al Colle
Le vere trattative e quelle finte
di Marcello Sorgi


Anche stavolta, come nella controversa Prima Repubblica, fino al momento dell’elezione del nuovo Capo dello Stato, i principali leader resteranno nell’ombra e continueranno a dipanare le trattative in luoghi appartati. Fisiologico che sia così, accade anche in Paesi con democrazie più consolidate, se non fosse che stavolta a infiorettare il tutto, è stata immaginata anche una foglia di fico.
Due giorni fa, nel corso della Direzione del Pd, il segretario-premier Matteo Renzi ha annunciato che le trattative per il nuovo Capo dello Stato saranno affidate ad una delegazione formata dal presidente del partito, Matteo Orfini, al vicesegretario Lorenzo Guerini, ai capigruppo di Camera e Senato, Roberto Speranza e Luigi Zanda. In altre parole Renzi non parteciperà agli incontri con gli altri partiti. Facile immaginare che anche Forza Italia, Ncd, Cinque Stelle mettano in campo analoghe formazioni, prive dei rispettivi leader.
Ma si può immaginare che personalità «bulimiche» come Renzi, Berlusconi e Grillo si isolino nelle loro stanze, affidando la trattativa ai propri vice? Certo, gli incontri tra i partiti non saranno privi di frammenti importanti e infatti sia il premier che il Cavaliere si affideranno a personaggi politicamente attrezzati, ma il grosso lo gestiranno in prima persona. Per una ragione in più: Renzi, Berlusconi e Grillo non essendo parlamentari, non potranno avere il «polso», il contatto «fisico» con i grandi elettori e quindi, ancor di più saranno indotti a seguire le votazioni in prima persona, minuto per minuto.
La centralizzazione delle trattative non è l’unica continuità con la tradizione. Due giorni fa Renzi ha ufficializzato l’iter di consultazione che sarà seguito in questa vicenda presidenziale e dunque è ormai ufficiale che ha deciso di scartare la procedura più democratica, le primarie interne, votazioni segrete tra candidati contrapposti. Un sistema che fu adottato per la prima volta dalla Dc negli Anni Sessanta, dal leader di allora, Aldo Moro. E poi la procedura si ripetè altre due volte. In questa occasione le minoranze interne - bersaniani, dalemiani, civatiani - non le hanno proposte, Renzi non ha avuto difficoltà a glissare. Entrambi gli schieramenti interni al Pd hanno preferito vedersela in una trattativa fra capi, piuttosto che affidare la scelta del candidato del partito al voto segreto. E così l’unica vera novità di questa fase preliminare rispetto al passato è l’attenzione spasmodica da parte dei mass-media.

Corriere 18.1.15
Il profilo del nuovo presidente
di Sabino Cassese

qui

il Fatto 18.1.15
Italicum, sinistra Pd: “I capilista bloccati li togliamo e basta”


RIPARTE la corsa dell’Italicum in Senato e riparte pure la “fronda democratica”. Stavolta la materia del contendere sulla legge elettorale riguarda i capilista bloccati: in sostanza le preferenze valgono solo per il secondo eletto in ogni circoscrizione, mentre il nome numero uno continuerà a essere scelto a Roma. “Quella dei capilista bloccati è una questione dirimente per la democrazia”, dice Miguel Gotor, bersaniano e esponente della sinistra Pd: “Per questo 30 senatori Pd hanno firmato emendamenti per ridurre la quota di nominati. Non arretreremo di un millimetro e voteremo le nostre proposte di modifica: nel momento in cui siamo impegnati a riformare il Senato, mantenendo una sola Camera politica che ha il rapporto fiduciario con il governo, è inaccettabile una legge elettorale che preveda che la Camera sia composta da un 60% di nominati”.

il Fatto 18.1.15
I “drogati” di Internet si curano nei lager
In Cina i campi di lavoro per la rieducazione dei forzati da web-dipendenza
Spesso sono i genitori a portare i figli nei centri-prigione. per cure lunghe mesi
di Carlo Antonio Biscotto


In Cina ci sono 632 milioni di utenti di Internet e, stando a quanto riferiscono le autorità, 24 milioni sono giovani dipendenti da questa droga virtuale. Come vengono disintossicati? In campi di tipo militare ai quali vengono affidati dai genitori disperati. Come sono gestiti questi campi di rieducazione e come ci vivono i ragazzi, lo ha raccontato Zigor Aldama in un bel reportage pubblicato dal Daily Telegraph.
Al giovane Chen Fei, ad esempio, i genitori avevano promesso una vacanza a Pechino dopo la fine dell’anno scolastico. Ma gli è bastato uno sguardo per capire che non si trattava di una vacanza. In una specie di casermone a Daxing, un quartiere operaio nella periferia sud di Pechino, che un tempo ospitava un istituto tecnologico, coabitano una settantina di adolescenti che indossano uniformi di foggia militare.
In un’altra ala dell’edificio, la mamma di Chen piange mentre spiega a uno psichiatra per quale ragione hanno fatto un viaggio di oltre 900 chilometri: “La dipendenza di nostro figlio da Internet sta distruggendo la famiglia”, dice. “Ha cominciato un paio di anni fa frequentando gli Internet Point, ma non abbiamo dato peso alla cosa. Andava bene a scuola e pensavamo che questo svago servisse a rilassarlo. Ma il tempo passato dinanzi al computer aumentava di giorno in giorno tanto che ha cominciato a soffrirne il suo rendimento scolastico. Poi circa sei mesi fa ha perso completamente il controllo e ha trascorso oltre 20 ore dinanzi al computer senza dormire e senza mangiare. Sembrava impazzito”. Chen Fei dovrà rimanere nel centro dai 3 ai 6 mesi e dovrà seguire il programma terapeutico messo a punto da Tao Ran, psichiatra e colonnello dell’esercito, che combina la disciplina militare con le normali procedure di disintossicazione. Durante la permanenza nel centro Chen non potrà avere accesso ad alcun dispositivo elettronico e non potrà avere contatti con l’esterno.
“LA DIPENDENZA da Internet provoca nel cervello alterazioni simili a quelle che si riscontrano negli eroinomani”, spiega il dottor Tao. “Ma per certi aspetti è persino più pericolosa in quanto distrugge le relazioni umane e causa disordini alimentari, problemi alla vista e alla schiena”. Inoltre, sempre secondo Tao, il 90% dei pazienti soffre di depressione e il 58% ha aggredito i genitori. “Il 67% della delinquenza giovanile è causata dalla dipendenza da Internet. Questi particolari tossicodipendenti idolatrano la mafia e non sono più in grado di distinguere tra realtà e finzione”, aggiunge Tao.
Ma i metodi militari di Tao Ran sono anche oggetto di critiche. Il dottor Tao Hongkai, docente universitario, si è messo alla testa di un movimento per la chiusura del centro di Daxing e il medico neozelandese Trent Bax ha scritto la tesi per il dottorato su Daxing e ritiene che i metodi di Tao Ran siano una forma dissimulata di tortura. Entrambi contestano l’affermazione secondo cui la dipendenza da Internet si possa equiparare alla tossicodipendenza da sostanze stupefacenti e la considerano, piuttosto, una forma di devianza sociale e non una patologia clinica.
Ma come è la giornata tipo nel centro di Daxing? Sveglia alle 6 e 30 e appello con un altoparlante che urla i nomi di tutti i pazienti. Finito l’appello, 20 minuti per lavarsi poi inizia l’addestramento militare affidato a un ex soldato: “Quando arrivano sono arroganti, ma in condizioni fisiche pietose. Non riescono né a correre né a fare dei semplici piegamenti”, spiega l’istruttore Ma Liqiang. L’esercizio fisico serve a rimetterli in forma, ma anche a insegnare il rispetto e l’obbedienza. “All’inizio è dura, ma dopo pochi mesi i risultati si vedono”, aggiunge Ma. Il dottor Tao Ran si augura che il metodo da lui messo a punto divenga la cura standard per i dipendenti da Internet. Sostiene che dal 2008, il 75% dei ragazzi passati nel centro sono stati recuperati a una vita normale. Un dato straordinario, ma difficile da verificare. Tuttavia in Cina ci sono già 300 cliniche che utilizzano – in tutto o in parte – il metodo basato sulla disciplina militare. Il vangelo di Tao è stato pubblicato in 22 lingue. “È iniziato tutto nel 2003 con l’epidemia di Sars. I ragazzi erano costretti a stare a casa per paura del contagio e, in assenza di un efficace controllo da parte dei genitori, hanno preso l’abitudine di passare ore su Internet”, dice Tao. “Ho cominciato a curare questi adolescenti con le terapie convenzionali e il risultato è stato fallimentare. Poi nel 2007 mi è stato permesso di ricoverare gli studenti in un ospedale militare e le cose sono migliorate immediatamente tanto che l’anno seguente abbiamo iniziato a coinvolgere le famiglie”.
Un mese di terapia costa 9.300 yuan (circa 1.300 euro, ndr) cui bisogna aggiungere le spese per il cibo, gli esami clinici e i farmaci. Per molte famiglie è un sacrificio economico notevole, ma necessario. Il metro per valutare la guarigione? “Semplice”, risponde Tao. “Considero un ragazzo guarito se a sei mesi dalla fine della permanenza nel centro, riesce a usare Internet per meno di 6 ore al giorno”.

La Stampa 18.1.15
L’Unesco ha dichiarato il 2015 l’anno della luce
L’informazione corre su una ragnatela scintillante
Un lungo viaggio attraverso la luminosità: dal microscopio alle stelle
di Piero Bianucci


Le parole che state leggendo hanno percorso migliaia di chilometri sotto forma di impulsi di luce imprigionati in sottili fili di vetro. Il pianeta intero è avvolto in una ragnatela di questi fili che chiamiamo Internet. Gli impulsi corrispondono a due soli segni: 0 e 1, l’alfabeto digitale. Parole, musica, fotografie, filmati, finanza, giornali, programmi radio e tv, sms, twitter, tutto oggi è scritto con questo semplice codice di minuscoli lampi e scavalca montagne e oceani correndo a 200 mila chilometri al secondo.
Nel 1870 il fisico irlandese John Tyndall dimostrò con uno zampillo luminoso che un raggio di luce poteva essere incanalato nel percorso di un getto d’acqua. Fu quella la prima fibra ottica, poco pratica perché allo stato liquido, ma carica di promesse all’epoca insospettabili. In attesa di meglio, la scoperta fu applicata a giochi d’acqua nelle fontane di epoca vittoriana. Amico di Faraday, un ex rilegatore di libri autodidatta, pioniere nello studio dei fenomeni elettrici, Tyndall fu anche il primo scienziato a dimostrare sperimentalmente l’effetto serra. Due contributi che sarebbero stati compresi nella loro importanza solo un secolo dopo.
La prima applicazione delle fibre ottiche arriva nel 1956 in un gastroscopio: servì ai medici per guardare dentro lo stomaco dei pazienti. Nello 1965 Charles Kao, premio Nobel per la fisica nel 2009 (meglio tardi che mai), perfezionò le fibre ottiche e suggerì la loro applicazione nelle telecomunicazioni. I tempi non erano maturi: Laser e Led – tecnologie necessarie per ottenere impulsi luminosi brevi, puri e potenti – erano ai loro inizi, l’optoelettronica quasi non esisteva, le fibre erano ancora troppo poco trasparenti e flessibili, non si sapeva come saldarle e come piegarle in curve strette. Così trovarono applicazione in lampade che ebbero una effimera fortuna, zampilli di luce sotto vetro che nei salotti degli Anni 60 e 70 imitavano i getti di acqua luminosi di Tyndall.
Le fibre ottiche sono fatte di vetro o di polimeri plastici tirati in filamenti dal diametro di un capello (125 millesimi di millimetro). Nella sezione di questi esili cavi trasparenti l’indice di rifrazione varia dal centro alla periferia in modo tale che la luce venga deviata e trattenuta dentro la fibra anziché sfuggire dalla «buccia» del filamento. La luce che percorre una fibra ottica subisce quindi continue riflessioni che la mantengono incanalata, con perdite minime, su percorsi che possono essere lunghissimi. La luce utilizzata non è quella visibile ma appartiene a particolari bande dell’infrarosso, con lunghezze d’onda comprese tra 850 e 1550 milionesimi di millimetro. I nostri occhi non percepiscono questo genere di luce ma certi serpenti, insetti e altri animali che hanno occhi sensibili all’infrarosso potrebbero vederla.
Scavalcare l’Oceano Atlantico senza amplificazioni intermedie è alla portata di questa tecnologia. A questo punto «basta» avere una sorgente di luce pura e rapidamente pulsata (appunto i Laser o i Led) come trasmettitore, la fibra ottica come mezzo trasmissivo e un sensore di luce al punto di arrivo, e il gioco è fatto: abbiamo un sistema di telecomunicazione su fibra ottica. E poiché la quantità di informazioni caricabile su un’onda elettromagnetica aumenta al diminuire della lunghezza delle onde utilizzate, o se volete all’aumentare della frequenza, e gli impulsi luminosi durano miliardesimi di secondo, la luce può veicolare una quantità di dati enormemente maggiore delle onde radio, microonde incluse. Su una singola fibra, per intenderci, può viaggiare l’intero traffico telefonico tra due continenti. Il primo cavo ottico transatlantico entrò in servizio nel 1988. I cristalli fotonici segnarono nel 1996 un ulteriore miglioramento delle fibre e da allora i progressi non si sono mai fermati.
Trattandosi di cosa nuova e costosa, furono i militari americani i primi utilizzatori della comunicazione su fibra ottica. Incominciò la Marina statunitense sulla nave ammiraglia della Sesta Flotta, seguì nel 1976 l’Aeronautica militare cablando i propri aerei. La trasmissione di un segnale televisivo su fibra era già stato esibito nel 1971 alla regina Elisabetta d’Inghilterra, nel 1980 toccò al popolo in occasione delle Olimpiadi invernali di Lake Placid (Usa). Da allora la tv su fibra non ha fatto che crescere, e ancora più la trasmissione dati. Senza le autostrade ottiche non esisterebbe Internet, non esisterebbe questo mondo, questa società. La tecnologia è cultura, costume, politica.

Il Sole Domenica 18.1.15
Fiat lux
Dio? È soprattutto luce
2015, anno della luce promosso dall'Unesco
Domani a Parigi, tra i relatori, ci sarà il cardinale Ravasi. Un brano in anteprima
di Gianfranco Ravasi
s.j.

In tutte le civiltà la luce passa da fenomeno fisico ad archetipo simbolico, dotato di uno sterminato spettro di iridescenze metaforiche, soprattutto di qualità religiosa. La connessione primaria è di natura cosmologica: l'ingresso della luce segna l'incipit assoluto del creato nel suo essere ed esistere. Emblematico è l'avvio stesso della Bibbia, che è pur sempre il «grande codice» della cultura occidentale: Wayy'omer 'elohîm: Yehî 'ôr. Wayyehî 'ôr, «Dio disse: "Sia la luce!" e la luce fu!» (Genesi 1,3). Un evento sonoro divino, una sorta di Big bang trascendente, genera un'epifania luminosa: si squarcia, così, il silenzio e la tenebra del nulla per far sbocciare la creazione.
Anche nell'antica cultura egizia l'irradiarsi della luce accompagna la prima alba cosmica, segnata da una grande ninfea che esce dalle acque primordiali generando il sole. Sarà soprattutto questo astro a diventare il cuore stesso della teologia dell'Egitto faraonico, in particolare con le divinità solari Amon e Aton. Quest'ultimo dio, con Amenofis IV-Akhnaton (XIV sec. a. C.), diventerà il centro di una specie di riforma monoteistica, cantata dallo stesso faraone in uno splendido Inno ad Aton, il disco solare: tale riforma, però, passerà come una meteora di breve durata nel cielo del tradizionale politeismo solare egizio.
Similmente l'arcaica teologia indiana dei Rig-Veda considerava la divinità creatrice Prajapati come un suono primordiale che esplodeva in una miriade di luci, di creature, di armonie. Non per nulla, in un altro movimento religioso originatosi in quella stessa terra, il suo grande fondatore assumerà il titolo sacrale di Buddha, che significa appunto «l'Illuminato». E, per giungere in epoche storiche più vicine a noi, anche l'Islam sceglierà la luce come simbolo teologico, tant'è vero che un'intera "sura" del Corano, la XXIV, sarà intitolata An-nûr, «la Luce». Al suo interno un versetto sarà destinato a un enorme successo e a un'intensa esegesi allegorica nella tradizione "sufi" (in particolare col pensatore mistico al-Ghazali nell'XI-XII sec.).
È il verso 35 che suona così: «Dio è luce in cielo e sulla terra. La sua luce è come quella di una lampada collocata in una nicchia. La lampada è rinchiusa in un cristallo, è come una stella dallo splendore abbagliante ed è accesa dall'olio di un ulivo benedetto … Luce su luce è Dio. Egli guida chi ama verso la sua luce». Si potrebbe continuare a lungo in questa esemplificazione passando attraverso le molteplici espressioni culturali e religiose di Oriente e di Occidente che adottano come cardine teologico un dato che è alla radice della comune esperienza esistenziale umana. La vita, infatti, è un «venire alla luce» (come in molte lingue è definita la nascita), ed è un vivere alla luce del sole o guidati nella notte dalla luce della luna e delle stelle.
Dati anche i limiti della nostra analisi, noi ora ci accontenteremo di due sole osservazioni essenziali, destinate soltanto a far intuire la complessità dell'elaborazione simbolica edificata su questa realtà cosmica. Da un lato approfondiremo la qualità "teo-logica" della luce per cui essa è un'analogia per parlare di Dio; dall'altro lato, esamineremo la dialettica luce-tenebre nel suo valore morale e spirituale. Avremo come punto di riferimento esemplificativo la Bibbia che ha generato per la cultura occidentale un "lessico" ideologico e iconografico fondamentale. Essa può offrirci un paradigma sistematico esemplare generale, dotato di una coerenza interna significativa. Le Scritture ebraico-cristiane sono state, per altro, un rimando culturale capitale per interi secoli, come riconosceva un testimone ineccepibile e alternativo come il filosofo Friederich Nietzsche: «Tra ciò che noi proviamo alla lettura di Pindaro o di Petrarca e a quella dei Salmi biblici c'è la stessa differenza tra la terra straniera e la patria» («materiali preparatori» per Aurora).
A differenza di altre civiltà che, in modo semplificato, identificano la luce (soprattutto solare), con la stessa divinità, la Bibbia introduce una distinzione significativa: la luce non è Dio, ma Dio è luce. Si esclude, perciò, un aspetto realistico panteistico, e si introduce una prospettiva simbolica che conserva la trascendenza, pur affermando una presenza della divinità nella luce che rimane, però, «opera delle sue mani». Si devono intendere così le affermazioni che costellano gli scritti neotestamentari attribuiti all'evangelista Giovanni. In essi si dichiara: ho Theòs phôs estín, «Dio è luce» (1Giovanni 1,8). Cristo stesso si auto presenta così: egô eímì to phôs tou kósmou, «io sono la luce del mondo» (Giovanni 8,12). In questa linea va quel capolavoro letterario e teologico che è l'inno che apre il Vangelo di Giovanni ove il Lógos, il Verbo-Cristo, è presentato come «luce vera che illumina ogni uomo» (1,9).
Quest'ultima espressione è significativa. La luce viene assunta come simbolo della rivelazione di Dio e della sua presenza nella storia. Da un lato, Dio è trascendente e ciò viene espresso dal fatto che la luce è esterna a noi, ci precede, ci eccede, ci supera. Dio, però, è anche presente e attivo nella creazione e nella storia umana, mostrandosi immanente, e questo è illustrato dal fatto che la luce ci avvolge, ci specifica, ci riscalda, ci pervade. Per questo anche il fedele diventa luminoso: si pensi al volto di Mosè irradiato di luce, dopo essere stato in dialogo con Dio sulla vetta del Sinai (Esodo 34,33-35). Anche il fedele giusto diventa sorgente di luce, una volta che si è lasciato avvolgere dalla luce divina, come afferma Gesù nel suo celebre «discorso della Montagna»: «Voi siete la luce del mondo … Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini» (Matteo 5,14.16).
Sempre in questa linea, se la tradizione pitagorica immaginava che le anime dei giusti defunti si trasformassero nelle stelle della Via lattea, il libro biblico di Daniele assume forse questa intuizione ma la libera dal suo realismo immanentista trasformandola in una metafora etico-escatologica: «I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (12,3). E nel cristianesimo romano dei primi secoli – dopo che si era scelta la data del 25 dicembre per il Natale di Cristo (quella data era la festa pagana del dio Sole, nel solstizio d'inverno che segnava l'inizio dell'ascesa della luce, prima umiliata dall'oscurità invernale) – si inizierà nelle iscrizioni sepolcrali a definire il cristiano là sepolto come eliópais, «figlio del Sole». La luce che irradiava Cristo-Sole era, così, destinata ad avvolgere anche il cristiano.
Anzi, nella successiva tradizione cristiana, si stabilirà una sorta di sistema solare teologico: Cristo è il sole; la Chiesa è la luna, che brilla di luce riflessa; i cristiani sono astri, non dotati però di luce propria ma illuminati dalla luce suprema celeste. Che si tratti di una visione squisitamente simbolica destinata a esaltare la rivelazione e la comunione tra la trascendenza divina e la realtà storica umana appare evidente in un passo sorprendente ma coerente dell'ultimo libro biblico, l'Apocalisse, ove nella descrizione della città ideale del futuro escatologico perfetto, la Gerusalemme nuova e celeste, si proclama: «Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà» (22,5). La comunione dell'umanità con Dio sarà allora piena e ogni simbolo decadrà per lasciare spazio alla verità dell'incontro diretto.

Corriere 18.1.15
Il falso Caravaggio è vero
Nessun risarcimento all’erede della tela «I bari»
Scambiata per una copia fu battuta all’asta per 55 mila euro da Sotheby’s: vale 13 milioni
di Fabio Cavalera


LONDRA Vedersi sfilare dieci milioni di sterline, vale a dire quei 13 milioni di euro che vale l’olio su tela del Caravaggio dal titolo «I bari», è un brutto colpo. Ma il discendente di uno stimato chirurgo della Royal Navy, Lancelot William Thwaytes, un po’ se l’è andata a cercare. Quando hai in mano qualcosa che sospetti possa essere un tesoro sarebbe meglio ascoltare non dieci ma cento, e forse più, esperti prima di metterlo all’asta. Rientrarne poi in possesso è impossibile. Ed è pure impossibile, ciò hanno stabilito i giudici dell’Alta corte londinese, chiedere i danni a chi non è stato in grado di attribuire il capolavoro al suo grande, unico e vero maestro, Michelangelo Merisi.
È un mezzo giallo. O una beffa catastrofica (per chi esce a pezzi dalla causa), con tanti protagonisti e con tanti critici ed esperti d’arte messi di mezzo. E ruota attorno al quadro di 94 centimetri per 131 che il Caravaggio dipinse nel 1594. Si pensava, fino a qualche tempo fa, che l’originale fosse in Texas al Kimbell Art Museum. Invece in Inghilterra al Museo dell’Ordine di San Giovanni, nella zona di Clerkenwell (gioiellino fuori dai circuiti turistici) ecco che compare, lasciatovi dal collezionista e storico Denis Mahon, lo splendido dipinto.
E pensare che oltre mezzo secolo fa, nel 1962, la famiglia di Lancelot William Thwaytes l’aveva acquistato per 140 sterline: solo una crosta, bella ma uno scarto di magazzino. Come tale trattato fino al 2006 quando il suo legittimo proprietario, per l’appunto Mr. Lancelot, lo porta alla casa d’aste Sotheby’s.
Che non sia proprio un’opera da buttare via è chiaro da subito. Sotheby’s chiede il conforto di stimati professori.
S’interpellano la biografa del Caravaggio, Helen Langdon, poi lo storico dell’arte americano Richard Spear. E il verdetto è che si tratta di una copia attribuibile alla scuola del Caravaggio ma non al Caravaggio stesso. Così la tela va all’asta. E con un risultato da non disprezzare visto che la si batte per 42 mila sterline (oggi 55 mila euro).
Ma chi si aggiudica il quadro? Nominalmente è una signora, Orietta Adam. Dietro, però, il suggeritore e finanziatore è un uomo, Denis Mahon, che è fra i massimi collezionisti e storici dell’arte, specie del barocco. Ha collaborato con molti musei italiani. È proprietario di capolavori del Rinascimento. È lui che versa le 42 mila sterline e fa ripulire la tela. Ed è lui che toglie ogni dubbio: altro che copia, quelli sono «I bari» del Caravaggio. Valore dieci milioni di sterline, 13 milioni di euro.
Fulmine a ciel sereno per l’erede della «crosta», Mr. Lancelot William Thwaytes, che pensava di avere concluso un discreto affare con le 42 mila sterline. Che sia un Caravaggio non c’è dubbio (lo confermeranno anche Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani ed ex ministro dei Beni culturali, e Mina Gregori, accademica dei Lincei, la più importante studiosa del Caravaggio).
Al povero e sprovveduto Lancelot non resta che una strada: la causa a Sotheby’s per «negligenza» nella valutazione dell’opera.
Via impervia. Da capire, perché conservare un tesoro (senza comunque sapere di averlo) e svenderlo, è pur sempre un dispiacere. Ma la riparazione tardiva risulta impraticabile.
L’Alta corte di Londra dà ragione alla casa d’aste: era pressoché impossibile identificare l’autore. Il quadro, prima dell’acquisto, era in condizioni tali da nascondere i particolari per l’attribuzione. Merito del fiuto e della competenza di David Mahon che l’ha riportato agli antichi splendori consentendo dunque la scoperta.
Peccato che David Mahon sia nel frattempo morto centenario. Ha lasciato la sua raccolta di 56 capolavori ai musei inglesi e «I bari» in esposizione all’Ordine di San Giovanni in Clerkenwell. A mister Lancelot non resta che una visita (che è gratuita) per andare ad ammirarlo. Meditando se proporre appello o darsi per sconfitto.

Corriere 18.1.15
Nel mistero di Giuda (e di Gesù) la tragedia di un’amicizia sfregiata
di Claudi Magris


Tra i personaggi che ricorrono e riappaiono nei secoli quasi in ogni letteratura, sfuggendo di mano agli autori che li hanno creati o meglio trascendendo ogni loro precisa origine e identità — Ulisse, Antigone, Faust, Don Giovanni, Elettra e molti altri — c’è pure Giuda, anche se in questo caso il testo e l’autore che gli hanno dato vita, i Vangeli, hanno un’autorità particolare. Non è un caso che siano da poco usciti due altri possenti romanzi su Giuda, di Amos Oz e di Luca Doninelli, che cercano di interpretare, capire, indagare, far vivere il suo destino e il suo significato.
Nessuna lettura — né quelle pervase dalla fede cristiana più ortodossa né quelle più lontane da quest’ ultima — si è arrestata alla semplificazione del mero traditore mosso soltanto da basse passioni, invidia, gelosia o avidità. Le interpretazioni sono numerose: Giuda deluso perché si attendeva il Messia liberatore politico del suo popolo, Giuda autentico redentore perché, se quest’ultimo è venuto a prendere su di sé i peccati del mondo, egli, a differenza di Cristo che li assume solo simbolicamente, li prende davvero su di sé ovvero li compie, liberando in certo modo gli altri e pagando per la colpa un prezzo più atroce, perché più disperato e indegno, di quello di Cristo. Tesi che affascinava Borges. C’è anche un apocrifo Vangelo di Giuda , ricorda Gustavo Zagrebelsky nel suo saggio che, scrive Gabriella Caramore presentandolo, indaga nelle ragioni di Giuda tutte le ombre del cuore umano, la sua capacità di bene e di male, la libertà della creatura rispetto ai disegni del Creatore.
Il romanzo di Doninelli si addentra, con sobria e appassionata potenza espressiva, in un dramma apparentemente meno eclatante, ma misterioso e inquietante come ogni fondamentale relazione umana. Il suo racconto è la storia di un’amicizia, un’amicizia tragicamente mancata. In questo senso, il racconto, nella sua brevità ed essenzialità, è un originale testo sull’amicizia, questo rapporto e questo sentimento tante volte indagati — con acutezza, con nobile retorica o con sofisticata socio-psicologia. Rapporto sempre complesso, come ogni relazione essenziale umana; diverso ma non meno importante, nell’esistenza, dell’amore e della famiglia. La prima lettera che, tanti anni fa, mi scrisse Isaac Bashevis Singer si concludeva con gli affettuosi saluti «a Lei, alla Sua famiglia e ai Suoi amici», che evidentemente e giustamente il grande scrittore considerava essenziali realtà della mia vita. Non mi sono stupito di ricevere, quando ho perso qualche amico carissimo, lettere di condoglianza, in genere banalmente riservate a congiunti, parenti ed affini.
Pure l’amicizia, come l’amore, ha i suoi drammi, le sue gioie e le sue ferite. Amicizia terribilmente fallita tra Gesù e Giuda, nel libro di Doninelli, ma non estinta neppure dal tradimento e dalla morte. Ha avuto amici, Gesù? «Voi siete miei amici, se fate quello che io vi comando», dice Gesù nell’ultimo incontro con i discepoli, quando Giuda se ne è già andato, a tradirlo, ed egli è «molto turbato». Ma ci può essere il comando, nell’amicizia? Certo, in ogni momento di un rapporto c’è uno dei due che è più nel vero, che capisce meglio dell’altro le cose di quell’istante e quindi guida o almeno indica la rotta, ma in un’amicizia, paritetica per definizione, questo ruolo di comando o meglio di pilota passa di continuo dall’uno all’altro. Poteva Gesù, fra i suoi discepoli, avere veri amici? Di alcuni di loro ne sappiamo di meno, di altri — Pietro semplice impulsivo e generoso, Giovanni geniale e abissalmente profondo, Matteo prototipo per eccellenza dell’apostolo e del narratore testimone — di più.
Non è vero, come ha detto una volta Nietzsche nel suo contraddittorio odio-amore per il cristianesimo, che Gesù, per essere veramente capito, avrebbe avuto bisogno di un Dostoevskij tra i suoi discepoli, unico capace di raccontare veramente la sua vita. Gli apostoli lo hanno capito a fondo, ognuno a suo modo, e hanno narrato la sua vita con ineguagliabile forza e verità. Ma è difficile pensare a qualcuno di loro come a un amico — nel senso più autentico del termine — di Gesù. Neppure Giovanni lo è. Quei discepoli sono qualcosa d’altro, di più alto e importante dell’amicizia, ma nessuno di essi è «un amico».
Solo Giuda — come ha intuito Doninelli, estraendo dal suo cupo destino tale possibile verità — appare potenzialmente capace di un rapporto diverso con Gesù, a suo modo paritetico, almeno sul piano umano. Un rapporto di amicizia — sfigurata dal tradimento e dalla colpa, ma non cancellata, perché inestricabilmente radicata nel cuore. Amicizia che può degenerare ma non svanire (non a caso il titolo del libro parla di una strada che non deve finire mai), così come Caino può diventare l’assassino di Abele ma non può smettere di essere suo fratello.

Corriere 18.1.15
Rosenberg, l’antisemita. Affascinato da Spinoza
risponde Sergio Romano


La Convenzione europea per i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali recita: «La pena di morte è abolita. Nessuno può essere condannato a tale pena né giustiziato». Il ripristino della pena di morte non è quindi materia opinabile. Nel 1946 non si aveva l’identica opinione se 12 individui appartenuti al Terzo Reich non si giovarono al processo di Norimberga di questo principio, oltre, successivamente, ai medici che avevano operato nell’Action T4. Ho letto che per quanto riguarda Jodl dell’Okw (comando delle Forze armate) vi è stato qualche ripensamento postumo, ma nessuno per Alfred Rosenberg. Non credo che la sua condanna, con sentenza di colpevolezza per tutti e quattro i capi d’imputazione, si debba alla la sua ultima nomina politica (ministro dei territori occupati), bensì al suo pensiero. Può essere condannato a morte un uomo solo per il suo pensiero, ancorché aberrante?
Abelardo Ignoti

Caro Ignoti,
L’avvocato difensore di Rosenberg al processo di Norimberga sostenne che al suo cliente non potevano essere imputati crimini di guerra e contro l’umanità. Fu tra i primi iscritti al partito nazista e fu sempre, sin dagli anni della scuola, un accanito antisemita. Il suo rapporto con Hitler era stato particolarmente stretto. Il fondatore del partito nazista lo stimava per le sue capacità intellettuali, volle che dirigesse per molti anni il maggiore giornale nazista ( Völkischer Beobachter ), ne fece il responsabile del partito per l’indottrinamento ideologico e spirituale, gli affidò il compito di dirigere un Einsatzstab (una taskforce, come si direbbe in inglese) intitolato al suo nome e incaricato di confiscare il patrimonio artistico, anche ebraico, che sarebbe stato assegnato al Museo Hitler di Linz, dopo la sua costruzione, e a un altro museo sulle etnie disperse e scomparse, da costruirsi dopo la vittoria. Ma non aveva partecipato, secondo il suo difensore, agli atti sanguinari e alle violazioni del diritto internazionale che erano attribuiti agli altri imputati di Norimberga.
La condanna a morte fu dovuta a due ragioni. In primo luogo, come lei ricorda, Rosenberg fu nominato ministro dei territori occupati dopo l’invasione dell’Unione Sovietica e venne considerato obiettivamente responsabile della caccia all’ebreo e al bolscevico, dei massacri, del lavoro forzato e della pulizia etnica. In secondo luogo fu deciso che Rosenberg apparteneva, come quasi tutti gli altri imputati, alla «società criminale» che aveva strettamente collaborato al disegno di Hitler. È questo probabilmente uno degli aspetti più discutibili, sotto il profilo giuridico, del processo di Norimberga.
Se Rosenberg continua a incuriosirla, caro Ignoti, le consiglio la lettura di un curioso romanzo, Il problema Spinoza , scritto da uno psichiatra americano, Irvin D. Yalom, e pubblicato dall’editore Neri Pozza nel 2012. Il libro è dedicato al grande filosofo olandese di origine portoghese, ma descrive, in parallelo, la vita di Rosenberg dall’adolescenza nel Baltico sino alla sua carriera nella Germania nazista. Fu in un liceo di Riga, capitale della Lettonia, che il giovane Rosenberg, già ferocemente antisemita, fu affascinato dal pensiero di Spinoza. Questa fascinazione lo accompagnò e lo turbò durante tutta la sua vita. Poteva un antisemita essere attratto da un grande pensatore ebraico, da un filosofo che era sempre ebreo, ai suoi occhi, nonostante fosse stato scomunicato dalla comunità israelita di Amsterdam?
Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale e la Germania occupò i Paesi Bassi, Rosenberg si valse dei suoi poteri per impadronirsi della biblioteca di Spinoza, custodita nella casa dell’Aja in cui il filosofo era morto. I libri sono andati dispersi, ma nella casa museo, riaperta dopo la guerra, sono stati sostituiti da altre edizioni delle stesse opere.

Il Sole Domenica 18.1.15
Claude Lanzmann
I panni dell'ultimo degli ingiusti
di Sergio Luzzatto


Dove collocarlo, verso l'alto o verso il basso, nella «vasta fascia di coscienze grigie che sta fra i grandi del male e le vittime pure»? «È difficile dire: lui solo lo potrebbe chiarire se potesse parlare davanti a noi, magari mentendo, come forse sempre mentiva; ci aiuterebbe a comprenderlo, come ogni imputato aiuta il suo giudice, e lo aiuta anche se non vuole, anche se mente, perché la capacità dell'uomo di recitare una parte non è illimitata».
Così scriveva Primo Levi – sulla «Stampa» del 20 novembre 1977 – a proposito di Chaim Rumkowski. Il più equivoco fra gli ebrei d'Europa coinvolti e travolti dalla Soluzione finale. Il presidente del Consiglio degli Anziani di Lodz, che dal 1939 al '44 resse il ghetto della città polacca quale improbabile «Re dei Giudei» prima di finire a sua volta gasato ad Auschwitz, come i miserevoli suoi sudditi. Colui di cui Levi avrebbe fatto, ne I sommersi e i salvati, l'incarnazione stessa della «zona grigia». Ma c'era qualcosa che Levi, interrogandosi su Rumkowski nel 1977, non poteva sapere e forse neppure immaginare. Che appena due anni prima, nel 1975, l'equivoco presidente di un altro ghetto ebraico, quello boemo di Theresienstadt, aveva effettivamente parlato.
Il rabbino Benjamin Murmelstein, già enfant prodige della comunità israelitica di Vienna, era l'unico fra i decani dei ghetti d'Europa che fosse sopravvissuto alla Shoah. Processato dalle autorità cecoslovacche all'indomani della Liberazione, assolto nel 1946, si era stabilito a Roma con moglie e figlio. Entro la sorda ostilità della comunità ebraica locale, si era rifatto una piccola vita non più da guida spirituale, ma da commerciante di mobili. E nel 1975 un Murmelstein ormai settantenne era stato lungamente intervistato da un giovanile cinquantenne parigino, un giornalista arrivato a Roma dritto dritto dalle redazioni buone della Rive gauche: Claude Lanzmann, che iniziava allora a preparare il suo epocale documentario del 1985, Shoah. Senonché si è dovuto attendere altri quarant'anni o quasi perché le parole di Benjamin Murmelstein diventassero infine ascoltabili; perché questo superstite Re dei Giudei potesse infine (secondo la formulazione di Primo Levi) «chiarire» parlando «davanti a noi», «magari mentendo, come forse sempre mentiva». Si è dovuto attendere il documentario di Lanzmann uscito in Francia nel 2013, Le dernier des injustes, di cui Skira pubblica ora – primo editore al mondo – il testo integrale.
L'ultimo degli ingiusti suona come una provocazione fin dal titolo. Ed è Murmelstein stesso a definirsi così, rovesciando il titolo di un romanzo di André Schwarz-Bart, L'ultimo dei giusti. È Murmelstein che decide di interpretare davanti alla cinepresa di Lanzmann un ruolo faustiano e mefistofelico insieme: quello del l'ebreo che ha venduto l'anima ai nazisti per scoprire il modo di salvare gli ebrei, oltreché per salvare se medesimo. Senz'altro contraddittorio che qualche blanda replica dell'intervistatore (diversamente che nel coro di testimonianze raccolte in Shoah, questa tragedia è un monologo), l'intervistato si lancia in un'apologia che non lascia spazio al minimo dubbio né alla minima autocritica.
Secondo Murmelstein, Murmelstein ha avuto sempre ragione. L'ha avuta fin dagli anni di Vienna, 1938-41, quando da dirigente della comunità israelitica è stato il principale collaboratore di Adolf Eichmann nell'organizzare l'emigrazione di decine di migliaia di ebrei (tra cui Sigmund Freud) verso l'Inghilterra o altrove, comunque fuori dal Terzo Reich. E ancora Murmelstein ha avuto ragione – assicura Murmelstein – negli anni di Theresienstadt, 1943-1945, quando prima da dirigente poi da presidente degli Anziani ha gestito con mano di ferro il ghetto-modello di Boemia, un'anticamera di Auschwitz spacciata dai nazisti come buen ritiro per ebrei della terza età.
Il suo scopo era quello, semplicemente, di far durare le cose il più possibile: fino all'inevitabile sconfitta di Hitler e al sospirato arrivo dei liberatori. A costo di allestire insieme con le SS, periodicamente, convogli di deportati verso i lager della vicina Polonia. A costo di organizzare un «abbellimento» del ghetto per gettare fumo negli occhi ai delegati della Croce Rossa internazionale. A costo di assistere i nazisti nella produzione di un film di propaganda sulla vita libera e serena dei morituri (il film che W.G. Sebald porrà al centro, oltre mezzo secolo dopo, della memorabile sua discesa agli inferi del Novecento, Austerlitz).
Alle orecchie di Claude Lanzmann, già nel 1975 gli argomenti di Benjamin Murmelstein riuscirono talmente persuasivi da meritare all'ex decano di Theresienstadt – è la scena finale dell'Ultimo degli ingiusti – un abbraccio sotto l'Arco di Tito. Decenni più tardi, per riabilitare Murmelstein agli occhi della posterità Lanzmann ha scelto di costruire un documentario che per molti aspetti, dall'uso di immagini d'archivio all'onnipresenza del regista sullo schermo, fino al tono generale del film, meno scabro che polemico, appare l'opposto di Shoah. E oggi, nella pagina da lui premessa al libro di Skira, Lanzmann sceglie di attaccare frontalmente gli ebrei italiani detrattori di Murmelstein, denunciando senza mezzi termini «la stupidità delle accuse dei suoi correligionari». «Questa vergognosa idiozia toccò il suo apice quando, alla morte di Murmelstein nel 1989, il rabbino capo di Roma Elio Toaff rifiutò di dargli sepoltura nel cuore del cimitero ebraico della Città Eterna, relegandolo al limitare delle tombe come si faceva un tempo con i suicidi».
L'adesione di Lanzmann alle ragioni di Murmelstein è così piena e totale che anche le sparate più grosse dell'ex decano di Theresienstadt restano qui non contraddette, invendicate. Come quando Murmelstein arriva a sostenere che nulla si potesse sapere nel ghetto boemo, neppure alla fine, sul funzionamento di Auschwitz quale campo di sterminio. Né Lanzmann si preoccupa di ricordare, nella loro asciutta eloquenza, i numeri finali di Theresienstadt. Trentatremila ebrei morti di privazioni all'interno del ghetto (tra loro, Dolfi Freud: sorella di quel Sigmund beffardamente evocato da Murmelstein nella scena finale); ottantottomila deportati ad Auschwitz o nei lager dei dintorni (fra loro Paula e Marie, altre sorelle di Freud). Altrettante vittime per le quali il Murmelstein del 1975, parlando con Lanzmann dalla terrazza di un albergo sui tetti di Roma, non ha una singola parola di pietà.
Eppure, bisogna oggi riconoscere come e quanto il Claude Lanzmann del 1975 – nel momento in cui abbracciava le ragioni, e perfino le spalle di Benjamin Murmelstein – fosse in anticipo sui tempi della storia. Bisogna riconoscere come fosse sensibile e quanto fosse lucido nel rigettare una rappresentazione storica che si era imposta in Occidente a partire dal 1963, dopo il famoso reportage di Hannah Arendt dalla Gerusalemme del processo Eichmann: la rappresentazione dei decani dei Consigli degli Anziani quali figure fondamentalmente grette, per non dire totalmente abiette. Pavidi collaboratori, per non dire cinici complici della Soluzione finale.
Oggi, la storiografia più avvertita è lungi dal tratteggiare in maniera simile figure come quelle di Benjamin Murmelstein o di Chaim Rumkowski. In effetti, i migliori storici della Shoah sottoscriverebbero oggi un'affermazione particolarmente icastica, fra le molte che Murmelstein stesso consegnò a Lanzmann durante l'intervista romana del 1975: nei ghetti della Soluzione finale, quello dei decani «era potere senza potere». Unicamente nella fantasia retrospettiva di Arendt, reporter di lusso a Gerusalemme, i presidenti degli Anziani avrebbero potuto, attraverso una scelta categorica di non collaborazione, promuovere nei ghetti un movimento di resistenza. Wishful thinking di filosofi, non di storici.
Del resto, la migliore storiografia insiste oggi sul fatto che almeno alcuni tra i decani, per quanto discutibili nella loro personale interpretazione del ruolo di Re dei Giudei (a Theresienstadt il soprannome di Murmelstein era Murmelschwein, il porco), ebbero una reale efficacia nel rallentare la macchina nazista dello sterminio. Accettando di giocare sino in fondo il gioco delle SS, uomini come Rumkowski a Lodz, come Murmelstein a Vienna e poi a Theresienstadt, contribuirono a salvare un numero imprecisato e imprecisabile di vite umane.
Sicché anche Primo Levi – che pure aveva, della Shoah, un'esperienza tanto più diretta e profonda rispetto a Hannah Arendt – ha usato forse (per una volta) le parole sbagliate quando nel 1977, a proposito di Chaim Rumkowski, ha scritto di un «imputato» posto davanti al suo «giudice». Due anni prima, Benjamin Murmelstein gli aveva già risposto (senza saperlo) da par suo: «Un decano degli ebrei può essere condannato. Anzi, deve essere condannato. Ma non può essere giudicato, perché nessuno può mettersi nei suoi panni».
Claude Lanzmann, L'ultimo degli ingiusti, Skira, Milano, pagg. 138, € 15,00

Corriere La Lettura 18.1.15
L’invenzione memoria
Dopo la scomparsa degli ultimi protagonisti la letteratura aiuta la ricostruzione della storia
di Emanuele Trevi


«S para nelle tenebre, e anni dopo sono le tenebre a sparare di rimando». Con questa inedita metafora bellica, che evoca le trincee o i cecchini appostati tra le rovine delle città distrutte, Katja Petrowskaja, l’autrice di Forse Esther , ha offerto una perfetta rappresentazione del suo metodo di indagine storica. Nata a Kiev nel 1970, Katja Petrowskaja vive a Berlino, e ha scritto in tedesco un’appassionante cronaca familiare, che è anche un romanzo di formazione e un superbo esercizio di stile. La sua è stata una famiglia di ebrei con una particolare vocazione: l’insegnamento ai sordomuti.
Quello della scrittrice è un metodo di ricerca totale, che si avvale degli strumenti più classici (letture, interviste, sopralluoghi) come delle sorprese elargite da internet («il muro del pianto dei non credenti»). Ma il tono fondamentalmente concitato del suo libro esprime una forma di urgenza che possiamo ben comprendere. Katja Petrowskaja scrive prima che sia troppo tardi, prima che da quel buio che interroga non giunga più nemmeno un colpo di rimando.
Il fatto è che il cosiddetto «secolo breve», con tutti i suoi inauditi orrori e i suoi luminosi esempi di grandezza umana, sta perdendo uno a uno i testimoni diretti, coloro che «hanno visto con i propri occhi». In teoria, non c’è nulla di nuovo sotto il sole: ogni epoca della storia umana ha attraversato questa mutazione della memoria collettiva. Sarà venuto il giorno in cui l’ultimo soldato delle guerre puniche, un vecchio centurione carico di ricordi e di ferite, avrà chiuso per sempre gli occhi stanchi del mondo. In questi casi, è come se nella continuità del tempo si aprisse un crepaccio. Si potrebbe dire che l’evento, proprio per non perdere la sua realtà, stabilisce un diverso genere di relazione con la memoria.
Appena prima che il crepaccio diventi una voragine, la testimonianza cede la staffetta all’immaginazione. È abbastanza intuitivo che un processo così delicato non possa mai filare del tutto liscio. Ma nella storia umana non era mai accaduto che la ricerca di una verità condivisa fosse concepita e praticata in modo così drammatico. Dal genocidio degli armeni alla guerra civile spagnola, dall’assassinio di Kennedy al crollo dell’impero sovietico, non c’è documento così solido e incontrovertibile da non poter essere investito dall’ombra del dubbio. Una volta si diceva che la storia la scrivono i vincitori: era una triste massima, ma almeno corrispondeva a un principio razionale. Oggi si potrebbe dire che i più accaniti nel conquistare il privilegio di scrivere la storia siano i negatori.
Proprio mentre la tecnologia consentiva un’inaudita moltiplicazione delle prove, esse hanno finito per diventare il maggiore alimento del dubbio. Non è stato il primo e non sarà l’ultimo il caso di quella ricca letteratura demenziale impegnata a svelare che l’11 settembre 2001 le Torri gemelle crollarono a causa di un complotto della Cia, o di qualche associazione segreta ebraica...
È questo il senso dell’incubo raccontato da Primo Levi nel suo ultimo libro: l’atroce destino di chi scampa ad Auschwitz per rendersi conto, col passare del tempo, che più nessuno crede a ciò che ha visto.
Strano a dirsi, ma le tecniche della letteratura, unite al talento dei singoli, hanno un grande ruolo sia, come è facilmente intuibile, nel campo dell’immaginazione, sia in quello della testimonianza. La letteratura non «abbellisce» inutilmente i discorsi umani, ma ne sperimenta in direzioni inaudite l’efficacia storica, il carattere esemplare, la memorabilità. Inoltre, il suo punto di vista è sempre quello del singolo (solo la cattiva letteratura, cioè la propaganda, fa leva su un «noi» del tutto fittizio). La verità alla quale aspira è quella che può essere ottenuta, al termine di cammini che sono spesso lungi e tortuosi, dall’individuo, sempre in lotta contro il tempo e i limiti del suo talento.
È per questo motivo che i libri di Primo Levi risulteranno sempre non certo più «veri» degli atti del processo di Norimberga, ma sicuramente più «credibili». È la loro implicita debolezza a farne la forza. Affidandosi alla concretezza del destino personale, che è irripetibile e diverso da ogni altro, anche ciò che ormai credevamo risaputo in ogni minimo dettaglio si mostra visibile da prospettive che non sospettavamo.
Da questo punto di vista, avrebbe meritato una maggiore attenzione la traduzione italiana di un libro di Marcel Cohen intitolato La scena interiore , apparso da Gallimard nel 2013. Non si tratta solo della bellezza e dell’originalità dello stile e della struttura, che ne fanno un gioiello della prosa francese contemporanea, come è stato osservato da molti recensori in patria. Un incredibile concorso di circostanze ha fatto sì che Cohen incarnasse successivamente il ruolo di testimone diretto e quello di chi, scrutando la propria stessa vita dalla distanza siderale creata dal tempo, è costretto a indagare sul passato interrogando indizi talmente esili da sfiorare l’insignificanza assoluta.
Siamo a Parigi nel 1943: lo stesso cupo scenario mirabilmente evocato da Patrick Modiano in Dora Bruder , il suo romanzo più bello. Per tutti gli ebrei che non hanno potuto abbandonarla in tempo, la città si è trasformata in una trappola. La Gestapo, con la complicità attiva del regime di Vichy e della sua polizia, pattuglia ogni quartiere, ogni strada, ogni palazzo. Basta la soffiata di un vicino di casa per finire su un convoglio destinato ad Auschwitz. Ci sono addirittura dei giornali infami, come il «Je suis partout» di Robert Brasillach, che in un’apposita rubrica rivelano indirizzi e nascondigli. I Cohen vivono la vita grama e terrorizzata di chi, per uscire di casa, deve mostrare la stella gialla cucita bene in vista sui vestiti. Sefarditi, abili commercianti, devoti ma non bigotti, vengono da Istanbul. Il più anziano in famiglia è il nonno paterno di Marcel, Mercado Cohen, rispettato come un rabbino per la sua saggezza e la profonda conoscenza del Talmud. Nel 1943 ha settantanove anni. I suoi figli cercano di convincerlo ad abbandonare la sua poltrona nell’appartamento di boulevard de Courcelles, per sfuggire ai rastrellamenti. Lui risponde che «solo i ladri e gli assassini pensano a nascondersi». Ma sembra una disputa abbastanza accademica, perché per i Cohen un posto per nascondersi non esiste.
Al capo opposto dell’anagrafe familiare c’è Monique, la sorellina minore di Marcel, nata il 14 maggio 1943 e partita per Auschwitz con il convoglio del successivo 17 dicembre. Marcel, che è nato nel 1937 e nel 1943 era un bambino di cinque anni, è l’unico scampato dei Cohen, grazie a uno di quei casi fortuiti che possono diventare l’imperscrutabile sostanza di un intero destino. La mattina in cui la sua famiglia venne catturata, era uscito con la bambinaia, che lo aveva portato a giocare al Parc Monceau, a poche decine di metri da casa.
L’uomo che a settantaquattro anni ha deciso di erigere un monumento alla sua famiglia sparita nel nulla, ha vissuto intensamente la sua vita, diventando un critico d’arte, un inviato, un romanziere. Il suo stile scarno, ancorato ai dati di fatto, non importa quanto minimi, non è semplicemente una scelta letteraria fra le tante possibili, dettata dal gusto personale. Rappresenta in maniera perfetta l’assoluta scarsità dei materiali che gli hanno permesso di affrontare la sua impresa.
Nel testo, l’alternanza di corsivo e tondo rende evidente la duplice natura del suo punto di vista: da un lato quello del testimone diretto che raccoglie con fatica dal fondo di se stesso ricordi ormai lontanissimi, e dall’altro quello dell’archeologo che si interroga sul significato di un piccolo numero di sparsi frammenti scampati alla distruzione. Si tratta di una manciata di foto, o di un portauovo di legno con la vernice scrostata, di un vecchio violino senza corde, o ancora di una retina per capelli, di un portacenere di legno scolpito a forma di orso...
Che siano esistiti per i Cohen giorni normali e addirittura felici, solo quegli oggetti umili e levigati dal tempo possono dimostrarlo. Sono l’alfabeto di un linguaggio di «fatti» che lo scrittore tenta di far parlare limitando al massimo l’intervento personale. Si tratta, ovviamente, di un’impresa impossibile, perché non c’è linguaggio che possa parlare da sé, senza un soggetto vivo che lo manovri e, per quante cautele possa impiegare, finisca per deformarlo.
Come ammoniva Nabokov nel suo stupendo saggio su Gogol’, in realtà «i nudi fatti non esistono allo stato di natura», e la peggiore condizione in cui possa trovarsi uno scrittore è proprio quella di perdere «il dono di immaginare i fatti». Ma sono convinto che la struggente, indimenticabile bellezza del libro di Cohen consista proprio nel trarre il maggior partito artistico dalla contraddizione dei propositi e dei risultati. Una vera conoscenza è solo quella che accetta di caricarsi sulle sue spalle «l’ignoranza, l’inconsistenza e i vuoti» che paradossalmente la rendono possibile. La scena interiore è una grande lezione di stile, e dunque una lezione morale capace, tra tante inutili prediche, di convincere i suoi lettori.

Corriere La Lettura 18.1.15
Ogni notte riplasmiamo i ricordi da trattenere
di Edoardo Boncivelli


La memoria è una facoltà straordinaria, forse la più fantastica che possediamo, al pari del linguaggio e della coscienza, ma ne sappiamo assai poco. Sappiamo che i nostri ricordi vengono acquisiti attraverso un organo specifico, l’ippocampo, e poi, se tutto va bene, fissati in qualche parte della corteccia cerebrale (ma ignoriamo dove). Anzi, non sappiamo nemmeno come sono scritti i ricordi, cioè conservati in maniera stabile o quasi stabile. Uno dei grandi compiti che i neuroscienziati dovranno affrontare nel prossimo futuro è proprio quello di determinare dove e come sono scritti i nostri ricordi, che prenderanno probabilmente la forma di tracce mentali custodite in un certo numero di cellule nervose, o forse un po’ in tutte.
Quello che abbiamo appreso di recente, però, è che queste tracce nervose non rimangono lì inerti e fisse, ma vengono sistemate e riorganizzate di continuo. Tale fatto può stupire perché il modo che a noi sembrerebbe migliore per conservare intatti i ricordi è quello di non toccarli proprio. Ma non è così. Per conservarli nella maniera più efficace sembra necessario modellarli e rimodellarli in continuazione, diciamo a intervalli regolari, anche perché di ricordi se ne accumulano sempre di nuovi e occorre «spostare» i vecchi per lasciar posto ai nuovi senza perdere né questi né quelli. Che cosa ciò voglia dire è perfino difficile da immaginare, ma le osservazioni sperimentali ci dicono che è così e che il processo in questione non si arresta mai.
Da ragazzo ho imparato per esempio il teorema di Pitagora e me lo ricordo, anche se passo lunghi periodi di tempo senza farne uso, senza rinfrescarne il ricordo. Ma nel frattempo ho imparato tante altre cose, tante altre nozioni e memorie di eventi che mi sono accaduti. È concepibile quindi che l’immagine interiore del teorema di Pitagora che avevo allora sia diversa da quella che ho oggi e che entrambe siano diverse da quella che potevo avere quando mi sono laureato, tanto per dirne una. Ho imparato per esempio nel frattempo che non tutta la geometria è euclidea, pertinente cioè a uno spazio privo di curvatura. Esistono le geometrie non euclidee, a curvatura positiva o negativa, e per quelle il teorema di Pitagora prende forme ben diverse. Anche se non faccio il matematico e non so dire che forma prenda, ho acquisito comunque una nuova consapevolezza e per me il significato del teorema non può essere stato sempre lo stesso nel tempo. Per non parlare di cose che ho appreso di recente, come l’espansione dell’universo o l’esistenza della materia oscura.
Se i ricordi fossero taccuini conservati in un armadio o anche solo file elettronici conservati nella memoria di un hardware, con il passare degli anni l’armadio o la memoria dell’hardware dovrebbero essere sempre più grandi e a un certo momento raggiungere limiti invalicabili, tuttavia sappiamo che non è così. Posso sempre acquisire nuove nozioni o il ricordo di nuovi fatti senza per questo perdere il teorema di Pitagora né il ricordo della mia cresima.
Non riesco proprio a immaginare come questo sia possibile, ma arrivo a capire come il lavoro implicato in quest’opera sia titanico e allo stesso tempo della massima precisione. Un po’ accade tutte le notti. Il sonno è necessario — senza si muore — ed è necessario in particolare per l’acquisizione e la conservazione dei ricordi. Durante la notte il nostro cervello riesamina tutto quello che abbiamo imparato o percepito durante il giorno, vengono eliminati probabilmente un sacco di dettagli «inutili» — ma che cosa è inutile in biologia? — e quello che resta viene preparato per l’immagazzinamento. Per ottenere questo occorrerà fare un po’ di posto per il nuovo senza perdere il vecchio e, soprattutto, senza perdere le connessioni, logiche e meno logiche, fra le varie nozioni e i vari vissuti. Questo misteriosissimo lavorìo crea nuovi ricordi e conserva i vecchi, ma soprattutto trasforma le percezioni di ogni tipo in ricordi veri e propri. È concepibile che ciascuno abbia un po’ il suo stile. Noi siamo i nostri ricordi e in primo luogo il tipo di criterio utilizzato per far prendere forma di ricordo alle nostre percezioni.

Corriere La Lettura 18.1.15
C’era una volta un altro Medio Oriente
Il viaggio di Gertrude Bell prima della fine
di Lorenzo Cremonesi


C’era una volta, in verità non troppi anni fa, un Medio Oriente con pochi confini e spazi immensi da esplorare, abitati da una pletora di minoranze etniche e religiose non per forza sempre in lotta tra loro. Un Medio Oriente dove l’integralismo islamico tutto sommato coesisteva con la grande varietà delle confessioni cristiane, con gli yazidi «adoratori del diavolo», con i drusi delle montagne, con l’isolazionismo autoreferenziale curdo e quello più cosmopolita degli ebrei, con il decadente lassismo emanato da Costantinopoli. Intendiamoci, non che mancassero periodiche ondate di violenza intollerante, non che le popolazioni non temessero i ricorrenti pogrom wahabiti contro le altre religioni, o semplicemente contro i musulmani meno integralisti. Gli odi tribali, le bande di ladri, gli omicidi impuniti tra le forre rocciose e le dune del deserto erano all’ordine del giorno e costituivano incognite onnipresenti per il viaggiatore straniero. Eppure, a leggere il diario del Viaggio in Siria (edizioni Polaris) compiuto da Gertrude Bell tra i primi di febbraio e metà aprile del 1905, viene una grande nostalgia per quel Medio Oriente non ancora diviso dalle frontiere tracciate da inglesi e francesi con la fine della Prima guerra mondiale.
Soltanto dopo poche pagine, superata la descrizione dei pellegrini russi a Gerusalemme, la discesa per Gerico e la risalita delle colline giordane, ci si rende conto che la narrazione si concentra su quegli stessi luoghi che sono oggi al cuore del regno del terrore imposto dal «Califfato» jihadista assieme alla repressione sanguinaria voluta dalla dittatura di Bashar Assad. È allora che la nostalgia diventa quasi rimpianto per il pur corrotto, farraginoso e nepotista sistema di equilibri e compromessi amministrativi che per cinque secoli garantì la sopravvivenza dell’Impero ottomano. L’aspetto paradossale sta nel fatto che la Bell diventerà pochi anni dopo uno dei personaggi chiave della politica estera britannica nella regione e di fatto lavorerà proprio per affossarne l’antico ordine.
Ha 37 anni quando comincia il suo viaggio. Come T. E. Lawrence, è affascinata dal Medio Oriente. I due hanno tanto in comune: entrambi laureati a Oxford, archeologi appassionati, grandi viaggiatori, quindi scrittori, diplomatici e spie al servizio di Londra. Sarà lei a spingere con determinata vitalità il Foreign Office a creare gli Stati di Giordania e Iraq. I suoi rapporti personali con i maggiori capi tribali a nord di Damasco sino ad Aleppo e il confine con l’odierna Turchia l’aiuteranno a perorare la causa del dissolvimento dell’Impero, che pure lei stessa aveva difeso solo poco prima. «Ho vissuto in Siria abbastanza a lungo da capire che il governo turco è ben lontano dall’essere una forma ideale di amministrazione, ma ho anche visto abbastanza delle turbolenze in cui si muove per capirne le difficoltà di gestione», scrive nell’introduzione. Ma mancano dieci anni allo scoppio della Grande guerra, quando Londra vedeva ancora la «Sublime Porta» come garanzia di stabilità e una barriera contro le aspirazioni russe. Sarà poi la scelta di campo filo-tedesca voluta dal Sultano a rivoluzionare l’intera prospettiva.
I suoi suggerimenti pratici per chiunque voglia viaggiare in quelle terre appaiono davvero cancellati dagli avvenimenti degli ultimi anni. Lei parla di un Medio Oriente «tollerante», autentico, pronto ad ascoltare e convivere con la «grande diversità» delle «caste, sette e tribù che hanno frammentato la società di un numero infinito di gruppi». E soprattutto ben disposto verso lo straniero: «Le sue informazioni saranno ascoltate con interesse, le sue opinioni con attenzione». Con il consiglio per tutti, specie per le viaggiatrici donne, di «portare rispetto alle altrui leggi, così sarà trattato con maggior rispetto se si atterrà rigorosamente alla propria». Non manca il riferimento specifico alla sua esperienza personale: «Nel caso di una donna, questa regola è di primaria importanza, poiché una donna non si può mai camuffare totalmente». Certo tutto ciò fa a pugni con la vicenda delle donne yazidi e curde ridotte alla condizione di schiave sessuali in agosto e vendute sui mercati di Mosul e Raqqa. Non trova riscontro con le esperienze dei cristiani della piana di Ninive costretti a pagare l’antica tassa islamica, minacciati di morte, oppure fuggiti derubati di tutto nelle regioni curde.
L’ospitalità che lei incontra sul cammino è sempre proverbiale. In suo onore si uccidono i migliori animali per la cena, anche tra le tribù più povere nel deserto presso Palmira o tra le montagne di Jebel Drus. Come donna ha però anche il privilegio di incontrare le mogli, ragazze e figlie dei personaggi che la ospitano nell’intimo della casa, dove uno straniero maschio non potrebbe mai arrivare. Registra paziente le regole dei matrimoni, il potere delle nuove mogli vergini su quello delle vecchie, che però hanno dato figli al marito. Quasi ovunque incontra fiorenti comunità cristiane. Praticamente in tutte le decine di villaggi e accampamenti minori che trova nelle sue peregrinazioni alla ricerca dei siti archeologici più remoti ha modo di parlare con i cristiani locali. E quasi nessuno le dice di essere perseguitato. Piuttosto sono i continui riferimenti alle faide tra drusi e musulmani a ricordare che comunque la violenza cova anche nella pace apparente del deserto fiorito grazie alle piogge invernali.
A Damasco torna a registrare la profonda frammentazione sociale. In questo caso le sue note sono molto attuali: aiutano a capire lo scontro tra sciiti e sunniti, le radici della guerra civile. «Non esiste una nazione degli arabi; la terra siriana è abitata da razze parlanti l’arabo tutte pronte a saltarsi addosso a vicenda», scrive. Interessante la visita a «Krak dei Cavalieri», il più bel castello crociato nella regione. Il suo interno era allora interamente abitato da un villaggio. Le immagini e i racconti riferiti alla tappe di Jebel Zawyia, la fascia collinare tra Hama e Aleppo, ci ricordano la bellezza affascinante degli antichi villaggi creati alle origini del cristianesimo. Case spaziose di pietra, basiliche bizantine, teatri, tombe reali e di arcivescovi: le sue foto di un secolo fa riprendono fedelmente le strutture che oggi sono ancora in piedi, ma vengono progressivamente demolite dalla furia cieca della guerra in corso.

Corriere La Lettura 18.1.15
La regina del deserto diretta da Werner Herzog


Tra i film più attesi dell’anno, Queen of the Desert racconta la vicenda biografica della viaggiatrice, esploratrice e archeologa britannica Gertrude Bell (1868-1926). Sorta di Lawrence d’Arabia al femminile, Bell parlava sei lingue compresi arabo e persiano: svolse anche un ruolo politico-diplomatico e di agente segreto durante la Prima guerra mondiale, tenendo contatti con i Paesi arabi. La pellicola, di cui non c’è ancora una data di uscita , segna il ritorno alla narrazione cinematografica, dopo sei anni, di uno dei grandi maestri europei, Werner Herzog (72 anni; tra i suoi film Fitzcarraldo e Nosferatu, il principe della notte ). Il film scritto e diretto da Herzog, che dal 2009 aveva firmato solo documentari, è stato girato in Marocco. Il ruolo dell’avventuriera è affidato a Nicole Kidman, nel cast anche James Franco e Robert Pattinson.

Corriere La Lettura 18.1.15
A Waterloo calò il sipario
L’ultimo azzardo di un Napoleone senza speranza
di Vittorio Criscuolo


Quando il 7 marzo 1815 fu recapitato a Vienna al ministro degli Esteri austriaco Metternich il dispaccio che annunciava la fuga di Napoleone dall’isola d’Elba, un moto di sconcerto e di timore attraversò le delegazioni diplomatiche di tutti gli Stati europei riunite per decidere il nuovo assetto del continente. Ma la risposta delle quattro potenze che avevano guidato la coalizione — Austria, Prussia, Russia e Gran Bretagna — non si fece attendere: il 13 marzo, con una decisione senza precedenti, dichiararono che Napoleone come perturbatore della pace del mondo si era posto fuori delle leggi civili e sociali e il 25 rinnovarono il patto di alleanza dell’anno precedente.
Il 9 giugno fu firmato a Vienna l’atto finale del congresso che ridisegnava la carta politica dell’Europa. Invano quindi il fuggiasco dall’Elba, una volta ripreso il potere a Parigi, proclamò di rinunziare alle conquiste e di voler mantenere la pace: tutti i suoi tentativi di stabilire un contatto con i nemici, e soprattutto con Vienna, dove si trovavano la seconda moglie Maria Luisa e il figlio, furono respinti. Né si può pensare che egli si facesse al riguardo troppe illusioni: mirava a guadagnare tempo, ma sapeva bene che il suo destino si sarebbe giocato ancora una volta sul campo di battaglia.
All’interno la posizione di Napoleone era tutt’altro che solida: erano con lui le classi popolari, ma fra i notabili, nella borghesia, negli stessi comandi militari si annidavano sospetto e scetticismo, prodromi del tradimento. Insomma l’entusiasmo della prima ora andò rapidamente scemando, e a poco valsero le riforme costituzionali con le quali volle dare un volto liberale al regime. L’antico rivoluzionario Fouché, richiamato al ministero di Polizia, comprese che Napoleone, tornato «despota, desideroso di conquiste e pazzo come e più di prima», entro pochi mesi sarebbe caduto e cominciò a lavorare per il ritorno dei Borbone. L’imperatore scoprì casualmente le trattative segrete da lui avviate con Metternich, ma alla vigilia della campagna militare non ritenne opportuno far arrestare il traditore; dopo Waterloo Fouché si sarebbe imposto come il principale regista della seconda restaurazione borbonica.
Anche dal punto di vista militare la situazione era difficile. L’imperatore provò a rilanciare la produzione bellica e a riorganizzare l’armata, ma il tempo mancava: bisognava portarsi al più presto sulla linea del Reno prima che arrivassero gli eserciti austriaco e russo, ancora lontani, e infliggere subito un colpo al nemico, per rianimare lo spirito della nazione e per insinuare il germe della divisione fra gli alleati. Nei pressi della frontiera stazionavano due eserciti nemici: il corpo di occupazione del Belgio, circa 90 mila uomini per più di un terzo britannici e per il resto olandesi e di vari Stati tedeschi, comandati dal duca di Wellington, e l’esercito prussiano, 120 mila soldati agli ordini del settantaduenne feldmaresciallo Blücher. Napoleone mise insieme un esercito di circa 125 mila uomini, formato peraltro da esperti veterani e ben munito di artiglieria (ovviamente, da una parte e dall’altra, non tutti gli effettivi iniziali combatterono poi a Waterloo). Disponendo di forze inferiori, Bonaparte, secondo uno schema classico della sua strategia, pensava di impedire la riunione dei due eserciti nemici per batterli separatamente. La mattina del 15 giugno le sue truppe varcavano il fiume Sambre a Charleroi e sboccavano nella pianura belga.
Il primo attacco fu rivolto contro i prussiani, che il giorno 16 a Ligny furono battuti e costretti a ritirarsi, ma non annientati. Napoleone diede ordine al maresciallo Grouchy di inseguire con 30 mila uomini i prussiani, convinto che questi si sarebbero ritirati verso nord. L’esito non risolutivo della battaglia di Ligny e la decisione di Blücher di piegare invece verso ovest, a non grande distanza dal campo della battaglia, sarebbero risultati decisivi. Nel contempo Wellington, dopo i primi scontri con i francesi e avendo saputo della ritirata prussiana, decise a sua volta di ripiegare, preparandosi a una battaglia difensiva. Le sue truppe si attestarono su un’altura lungo un fronte di soli 4 chilometri, davanti al villaggio di Waterloo e alla foresta di Soignes; la destra e il centro erano ben muniti perché potevano disporre rispettivamente del castello di Hougoumont e di una fattoria circondata da mura, ottimi capisaldi difensivi, mentre più fragile ed esposta era l’ala sinistra; ma da quella parte Wellington attendeva l’arrivo dei prussiani, confermatogli da un messaggio giunto all’alba del 17, nel quale Blücher lo avvertiva che una parte delle sue truppe si sarebbe sganciata dall’inseguimento di Grouchy per unirsi all’alleato. Molte testimonianze hanno tramandato l’immagine di un Napoleone sicuro della vittoria, ma non è possibile sapere quanto questo ottimismo fosse di facciata; in ogni caso fino al pomeriggio del 18 non diede credito al pericolo prussiano.
Subentrò a questo punto un’altra variabile fondamentale, la pioggia caduta per tutto il giorno 17 che, rendendo impraticabile il terreno, ostacolò gli spostamenti dell’artiglieria e delle truppe, e provocò un ritardo fatale nell’attacco, che scattò solo nella tarda mattinata di domenica 18 giugno.
I primi assalti francesi si infransero contro le posizioni fortificate tenute dagli inglesi, a sinistra il castello e al centro la fattoria. Su quest’ultimo punto, di fronte al quale aveva sistemato la grande batteria di artiglieria, Napoleone concentrò ben presto i suoi sforzi per sfondare le linee nemiche, ma gli assalti della fanteria furono ripetutamente respinti. Nel frattempo venne a sapere, grazie all’intercettazione di un messaggio nemico, che una parte dell’armata di Blücher si apprestava a raggiungere il campo di battaglia, ma sperava ancora nell’arrivo di Grouchy. A dire il vero questi nella tarda mattinata, quando il rombo dell’artiglieria indicò che la battaglia era iniziata, fu esortato da alcuni ufficiali a interrompere l’inseguimento e a dirigersi verso Waterloo, ma non se la sentì di trasgredire agli ordini ricevuti. In ogni caso Napoleone si rese conto che il tempo era contro di lui: occorreva a ogni costo sfondare al centro. La cavalleria caricò ripetutamente la fanteria inglese, disposta in quadrati secondo una tattica sperimentata da Wellington in Spagna. Queste celebri cariche furono guidate dal maresciallo Ney che, dopo avere aderito alla restaurazione nel 1814, si era poi rifiutato di fermare il fuggiasco dall’Elba: al ritorno dei Borbone avrebbe pagato questa scelta con la fucilazione. Dopo immani sforzi verso le 18 la fattoria, posta strategicamente al centro del fronte, fu finalmente presa. Ma, avendo dovuto spostare parte della fanteria per fronteggiare i primi contingenti prussiani arrivati nel pomeriggio, Napoleone non disponeva più delle riserve necessarie per sfruttare fino in fondo il successo.
Alle 19 fu lanciato l’estremo tentativo, la carica dei corpi scelti della vecchia guardia, ma ormai i prussiani irrompevano in forze sul campo di battaglia e non potevano più essere trattenuti sul fianco destro. Fu questo il segnale della disfatta: la guardia indietreggiò e l’intera armata si sbandò, e ben presto la ritirata si trasformò in rotta. Tornato a Parigi il 21, Napoleone decise il 22 di abdicare. Quattro mesi dopo, il 17 ottobre, giungeva a Sant’Elena.
Inevitabilmente la sconfitta di Waterloo è stata considerata come la fine di un’epoca, e si è caricata di un forte valore simbolico, anche grazie alle suggestioni della letteratura, da Stendhal a Victor Hugo. Una bibliografia sterminata ha ripercorso le fasi della battaglia, cercando di chiarire i presunti segreti ed enigmi della giornata. Ma il giudizio storico deve ridimensionare l’importanza dell’evento. Intanto la potenza militare francese non ne uscì annientata: Napoleone abdicò perché prese atto della situazione politica determinatasi dopo la sconfitta. D’altra parte anche una vittoria francese non sarebbe stata decisiva: la coalizione poteva schierare gli eserciti austriaco e russo, già in marcia, ed era sostenuta dallo strapotere economico e finanziario della Gran Bretagna, padrona dei mari. Ma a parte gli aspetti militari, bisogna considerare che nel 1814 l’Europa delle nazionalità e della nuova generazione romantica era insorta contro il predominio napoleonico, ed anche la Francia aveva ormai voltato le spalle a un uomo che non poteva garantire l’ordine e la pace. L’ultimo volo dell’Aquila aggiunse ai libri di storia una pagina avvincente e drammatica, ma fu fin dall’inizio un’avventura senza speranza.

Repubblica 18.1.15
L’età dell’interruzione
Immersi nei social network connessi con ogni device travolti dalle informazioni viviamo mettendo il pausa di continuo ciò che stiamo facendo, riducendo la nostra attenzione a pura percezione Ecco come le nostre vite sono diventate un eterno intervallo tra gli intervalli
di Maurizio Ferraris


Siamo in una situazione che è di fatto quella militarizzata della mobilitazione totale, siamo sottoposti a un senso di costante inadeguatezza e frustrazione, viviamo l’opposto speculare della condizione di pienezza e di realizzazione che si accompagna di solito al portare a termine un progetto
UN RECENTISSIMO studio della University of Southern California ha stabilito che viviamo nella “età della interruzione”: siamo perennemente connessi a molteplici apparati, e di fatto la nostra attività prevalente consiste nell’interrompere quello che stavamo facendo per incominciare a fare qualcos’altro, interrompendoci di lì a pochissimo e così via all’infinito. Una situazione inconcepibile pochi decenni fa. Nel giro di un secolo abbiamo avuto almeno tre età, diverse tra loro non meno che il neolitico e l’età del bronzo. Sino a metà del Novecento siamo stati nel pieno dell’età della produzione: si fabbricavano artefatti, quelli su cui, per esempio, si è costruito il “miracolo italiano”. La produzione avveniva in tempi scanditi e in spazi ben delimitati: otto ore, e poi finisce il turno, non si può esercitare ininterrottamente una funzione che richiede energia fisica e la disponibilità di grossi apparati meccanici concentrati nelle fabbriche. Poi siamo passati all’età della comunicazione: si trasmettono notizie, i tempi sono meno scanditi, e gli spazi anche. È l’epoca (1980) in cui Gillo Dorfles pubblica L’intervallo perduto : il nostro mondo, che è fatto di interruzioni e di spazi vuoti, si riorganizza nella forma di un continuum, e vien meno l’interruzione, la separazione tra un evento e l’altro.
Da quando il web e i suoi dispositivi hanno fatto irruzione capillarmente nella nostra vita, siamo entrati in una terza età, appunto “l’età dell’interruzione” oppure “della registrazione”: come nell’epoca della produzione si fabbrica, come in quella della informazione si trasmette, ma quello che viene fabbricato e trasmesso è un documento registrato, destinato a rimanere lì dove si trova e inoltre a circolare per un tempo e uno spazio indefinito sul web. Mi spiego: ogni utente è al tempo stesso un produttore di informazioni, postate sui social network. Al tempo stesso, ogni contatto sul web produce automaticamente informazioni e documenti sugli utenti. Si crea una situazione di indistinzione tra sociale e mediale (la vita sociale è quella che ha luogo sul web) e tra privato e lavorativo (gli stessi dispositivi servono per il lavoro così come per la gestione della vita privata e per l’intrattenimento).
Qui, piuttosto che con una perdita dell’intervallo, abbiamo a che fare con una interruzione universale. In una situazione che è di fatto quella militarizzata della mobilitazione totale, siamo sottoposti non a un flusso di informazioni (che poteva anche essere seguito con una attenzione distratta), ma appunto con un flusso di documenti, vincolanti perché scritti (scripta manent) e individualizzati, cioè rivolti solo a noi, che ci spingono all’azione (minimalmente, alla reazione: il messaggio richiede risposta, e nel farlo genera responsabilità). Il che genera un senso di costante inadeguatezza e frustrazione, ossia l’inverso speculare della condizione di pienezza e di realizzazione che si accompagna al portare a termine un progetto o un oggetto.
Siamo perennemente in difetto e, nel lungo termine, questa situazione diviene strutturale. Sicuramente, chi ha inventato il web ha pensato a un veicolo di conoscenza più che a una catena di trasmissione di ordini e di azioni, proprio come chi ha inventato il telefonino non avrebbe mai previsto che si sarebbe trasformato in un archivio e in un terminale di una catena militarizzata.
Si tratta allora di mettere a fuoco la sindrome. Il moltiplicarsi delle interruzioni che ha luogo in un archivio infinito non ci porta, come ingenuamente si potrebbe credere, nel cuore dell’attualità, ma in una ucronia in cui tutto è contemporaneo di tutto. Più che il mondo in diretta, quello che ci si fa avanti attraverso il web è una montagna di giornali vecchi che circondano il giornale di oggi ponendo il quesito: qual è l’attualità? Dove siamo, oggi? Che cosa è successo? Sappiamo quando è iniziata e quando è finita la Seconda guerra mondiale, ma il confuso conflitto senza nome in corso almeno dall’11 settembre non sembra avere eventi o evoluzioni, è un continuum di cui non si riescono a prevedere gli sviluppi né meno che mai a trovare una identità.
Senza nulla togliere ai meriti e alle risorse del web, che appaiono irrinunciabili, anzi, proprio per dare senso e scansione alla ricchezza del continuum, i giornali, l’università, e anche quella istituzione in profonda trasformazione che è la televisione, possono giocare un ruolo essenziale. Difficile ricorrere ai giornali per le minute informazioni sul tempo, sul corso del dollaro, sui cinema e sui treni: i flussi sono gestiti benissimo dal web. Ma cosa siano gli oggetti, gli eventi, e la stessa nozione di attualità, quello può dircelo solo la prima pagina del giornale. E che cosa sia vero è tradizionalmente garantito dalla scienza e dalla cultura che trova nelle università e nel sistema editoriale il suo tradizionale punto di forza. Infine, che qualcosa sia “pubblico”, cattolico in senso etimologico, è stato garantito da quel tubo catodico, oggi scomparso come apparato tecnico ma che rimane il vessillo della televisione rivolta a tutti.
Senza una notizia che resti immutata per 24 ore, e su cui si possa riflettere, senza una comunicazione di cui si può avere la ragionevole certezza che raggiungerà quasi tutta l’opinione pubblica, senza la possibilità di comprovare l’attendibilità delle informazioni diviene difficile dar senso alla nozione di “informazione”, “attualità” e “opinione pubblica”. Per quanto la struttura del giornalismo, dell’editoria, dell’università e della televisioni richiedano di essere ripensate, a causa degli evidenti arcaismi che presentano di fronte alle nuove tecnologie, resta che questo ripensamento e rilancio è indispensabile e imprescindibile, pena il venir meno di quei valori (opinione pubblica, attualità, sapere) che stanno al centro del progetto della modernità. Non è escluso che questa possibilità non si realizzi, e che ci si ritrovi (non troppo diversamente dalle società tradizionali che hanno preceduto la modernità) in un eterno presente scandito dalle stagioni (per quanto a loro volta indifferenziate nel continuum del riscaldamento globale). Ma è certo che, se ciò avvenisse, sarebbe molto difficile non parlare di un danno culturale e politico, e non credo di dire niente di originale nel ricordare che il carattere fondamentale della nostra epoca, cioè l’anacronismo (chi si sarebbe immaginato la rinascita di un Califfato, sia pure su web?) non sia estraneo a questa scomparsa delle scansioni, a questa inflazione di interruzioni e di frustrazioni che generano come contrappeso la nostalgia dell’arcaico in un mondo islamico che non è meno tecnologizzato di quello occidentale.

Repubblica 18.1.15
Il grande flusso che confonde il pensiero critico
di Paolo Legrenzi


NELLA prima metà del secolo scorso, scrittori come Aldous Huxley (Il nuovo mondo, 1932) o George Orwell (1984, 1948), avevano immaginato il mondo del futuro. Il futuro è diventato presente, ma è tutt’altra cosa. Nei mondi di Huxley e Orwell le informazioni provenivano da un’unica fonte, un governo totalitario che ritroviamo in film come Fahrenheit 451 di Truffaut (1966) o Blade Runner di Ridley Scott (1982). In questi film un comando centrale serve per lavare il cervello e creare una finta tranquillità un po’ beota.
Dov’è oggi questa tranquillità uniforme? Nei paesi occidentali avanzati, i più sono continuamente bombardati da un flusso continuo di messaggi e, a loro volta, interrompono gli altri. Un incubo? Non proprio. Quando siamo sconnessi e lasciati in pace, proviamo spesso un senso di abbandono, una solitudine non sempre piacevole. La rete che ci avvolge è unica, come i dittatori fantascientifici di un secolo fa, ma non produce un ordine totalitario. Ciascuno pesca le informazioni che più gli garbano, e scambia le informazioni più disparate. Si entra nella vita altrui e si è penetrati o intrattenuti dagli altri. Sul più bello, siamo interrotti da messaggi frequenti e sovrabbondanti. La bussola per navigare in questo mare magnum è impazzita e produce effetti in modi disordinati e casuali.
Un semplice esempio, giusto per dare un’idea. Ponete di avere queste tre informazioni: A — Tizio sta con Caia B — Caia è sposata C — Caia ha un figlio Se la sequenza arrivasse a tutti nell’ordine A-B-C, avreste una mini-storia. Le informazioni piombano invece inaspettate, come frammenti di proiettili in un bombardamento casuale. Siamo noi a dover mettere insieme i pezzi: Caia sta con Tizio, si è sposata, e ha avuto un figlio. Oppure: Caia ha avuto un figlio, si è sposata e sta con Tizio. E così via. Caia è un po’ diversa per ciascuno di noi, e Caie diverse possono convivere in noi. L’abbiamo catalogata tra le persone sposate o tra le mamme? Oppure tra le mamme poi sposate? O tra le mamme con un partner nuovo?
Noi non sappiamo sempre come ripeschiamo questi frammenti dalla memoria perché vanno a finire in tanti cassetti mentali che funzionano come compartimenti stagni. Non stupitevi se una persona vi dice che non tutti i musulmani sono terroristi, ma che tutti i terroristi sono musulmani. Questa persona può ben sapere che recentemente ci sono stati atti di terrorismo commessi da nonmusulmani, per esempio da fanatici che si dicono neo-nazisti o anarchici. E tuttavia questi spezzoni di conoscenze stanno in un altro cassetto mentale, senza mettere in crisi l’affermazione sui terroristi/musulmani e sui musulmani/terroristi. Quello che una volta si chiamava pensiero critico, o semplice riflessione ragionevole, oggi funziona male, e sembra talvolta affievolirsi, se non svanire.
L’evoluzione della nostra specie non ci ha costruito per ragionare in ambienti invasivi e intermittenti, saltabeccando qua e là. I nostri antenati dovevano reagire a informazioni sui pericoli provenienti da un ambiente ostile. Ci serviva un’attenzione concentrata che agisse rapida ed era inutile una grande memoria di lavoro. La memoria di lavoro è un filtro di piccole dimensioni per cui passano tutte le informazioni prima di essere incapsulate in un cassetto di quell’armadio che è il magazzino permanente della memoria. Se una persona vi dice un numero nuovo di telefono, dovete ripeterlo fino a quando lo depositate in una memoria artificiale esterna, un pezzo di carta o un computer. Questo filtro immodificabile che sta tra noi e il mondo funziona come un imbuto strettissimo. Se ci interrompono, dobbiamo smettere di stare attenti a quello che stiamo facendo, e concentrarci per un attimo sulla nuova informazione. Siamo dentro una melassa che cattura l’attenzione per attimi, e tuttavia ci trattiene e ci intrattiene. Spesso, se viene a mancare, sentiamo di galleggiare nel vuoto, fuori dalla grande rete dove sta l’azione e la vita. Forse in questo gli scrittori di fantascienza di un secolo fa avevano visto giusto. Il nuovo mondo ci rende un po’ beoti ma contenti, e i pochi che vengono raramente interrotti, e si concentrano, sono quelli che finiscono per cambiare il mondo.

Repubblica 18.1.15
Viaggio dall’io al noi per diventare umani
Massimo Ammaniti indaga i meccanismi della convivenza che comprendono anche empatia, convenienza, istinto di imitazione
di Roberto Esposito


SECONDO Freud, gli istinti individuali si contrappongono alle esigenze sociali, cosicché solo sacrificando il principio del piacere a quello di realtà gli uomini possono dare luogo alla convivenza. Ma se le cose stanno così, se è vero, come ha affermato Sartre, che “l’inferno sono gli altri”, dove si origina l’interdipendenza umana che ha consentito il formarsi della civiltà? Se non vogliamo rispondere a tale domanda con la fantasiosa teoria hobbesiana del patto sociale, siamo costretti ad ipotizzare, accanto a quello egoistico, un altro istinto, altrettanto intenso, di empatia verso gli altri. È questo il presupposto da cui prende le mosse Massimo Ammaniti nel suo ultimo libro, edito dal Mulino, Noi. Perché due è meglio di uno .
Naturalmente la spinta alla cooperazione nasce anche dalla coscienza razionale che conviene collaborare in un ambiente esposto a pericoli di ogni tipo. Ma essa affonda, prima ancora, in un corredo biologico innato, radicato a livello cerebrale, sul quale solo più tardi agisce l’influenza ambientale, prima della famiglia e poi del contesto sociale. Ciò vale sia sul piano filo- genetico che su quello ontogenetico: le fasi di crescita dell’individuo – dal momento del concepimento in poi – corrispondono, per grandi linee, allo sviluppo della specie umana nel suo complesso. Lungo il filo di questo parallelo, Ammaniti racconta il passaggio, tutt’altro che lineare, che porta dall’io al noi. Lo fa con una scrittura sciolta e vivace, che alterna esempi tratti dalla pratica analitica a riferimenti di carattere generale attinti da autori classici e contemporanei che vanno da Freud a Melanie Klein, da Bion a Donald Winnicott. Decisivo è il ruolo formativo assunto, sul piano individuale come su quello collettivo, dal fenomeno dell’imitazione – su cui si sono soffermati, con intenti differenti, Tarde, Adorno e Girard. Di esso Ammaniti mette in luce, più che possibili esiti negativi come l’invidia, gli elementi positivi della sintonia e della partecipazione. Si diventa uomo imitando altri uomini. Imitare qualcuno significa condividerne gli stati emotivi, immedesimarsi con essi, attivare comportamenti sociali. Un ruolo importante in tale dinamica è costituito dallo sguardo. Esso è tipico della nostra specie. Se si oscilla col capo di fronte ad un primate, questo tende a seguire il movimento della testa, mentre un bambino, già a dodici mesi, è in grado di osservare quello degli occhi. Guardarsi negli occhi determina una risonanza emotiva che, precedendo la relazione verbale, anticipa l’apprendimento mentale. Come ha provato la recente scoperta dei “neuroni specchio”, questi si attivano non soltanto quando viene effettuata un’azione motoria come afferrare un oggetto, ma anche quando si osserva un altro fare lo stesso movimento. Si tratta di uno dei transiti più originari tra il mondo dell’io e quello del noi.
NOI. PERCHÉ DUE SONO MEGLIO DI UNO di Massimo Ammaniti, IL MULINO, PAGG . 137 EURO 12

Repubblica 18.1.15
La carica degli inediti da Arthur Schnitzler a Elias Canetti
di Simonetta Fiori


TRE quadernetti di diario, annotati con una calligrafia precisa. Per la figlia Rosa ritrovarli dopo tanti anni è stata un’emozione forte. Nessuno in famiglia sapeva di quel diario redatto da Antonio Giolitti nell’ultimo anno di guerra, tra il 1944 e il 1945, quando la frattura a una gamba lo costrinse a sospendere la sua vita da partigiano. Mesi di solitudine vissuti ad Aix-les-Bains, lunghe giornate trascorse nel dialogo a distanza con la moglie Elena, rimasta in Italia, e attraverso di lei con se stesso. Il taccuino inedito di Antonio Giolitti è stato consegnato a Carmine Donzelli, che lo pubblicherà a breve con una introduzione di Mariuccia Salvati. «Pagine sorprendenti», dice l’editore, «che mostrano un intellettuale riluttante alla guerra, ma consapevole della necessità di scendere in campo e combattere». Un documento sulla «condizione umana» del partigiano, che non è uno «spirito guerriero» né insegue il mito dell’eroe, ma riflette sul conflitto come occasione per costruire una nuova élite dirigente. Il diario è anche un’autobiografia intellettuale, punteggiata dalle letture predilette, dall’amatissima Anna Karenina a Dante, da Racine a Camus, da Flaubert ai pensatori francesi. «Guerra e letteratura», sintetizza la figlia Rosa, che confessa di essere stata conquistata da questo gioco di specchi tra l’attualità tragica di quegli anni e i capolavori della narrativa.
***
Siamo ancora in guerra, ma questa volta in Inghilterra. Sotto le bombe si incontrano due esuli d’eccezione, tra cui nascono «il riso e la meraviglia» dell’amore. Un sentimento forse più forte nella donna, Marie-Louise Motesiczky, pittrice di aristocratica famiglia che avrebbe atteso Elias per tutta la vita. E invece Canetti dopo la morte della moglie Veza le avrebbe preferito una dama assai più giovane. Ma tutto questo non è ancora scritto negli aforismi canettiani scaturiti dall’incontro romantico con Marie-Louise che Adelphi propone in febbraio come inediti. Vi sono presenti tutti i grandi temi dello scrittore: il tempo, il linguaggio, la morte, l’utopia, la guerra. Nel volume sono anche le foto, le opere di lei e la riproduzione del manoscritto originale. Se non nella vita, l’unione resta nella pagina scritta.
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Anche Guanda ha in serbo un inedito d’eccezione. Il romanzo di Schnitzler è rimasto sepolto per svariati decenni negli archivi di Cambridge, fino a quando l’ha pubblicato la scorsa primavera la viennese Paul Zsolnay Verlag. Una fama tardiva è il profetico titolo del racconto dimenticato. Anche al patetico protagonista della storia, il signor Eduard Saxberger, è riservato un riconoscimento postumo. Borghese abitudinario e aspirante artista, si illude in vecchiaia di ricevere il riconoscimento tanto agognato, ma la delusione sarà atroce. «Un libro molto arguto», dice Luigi Brioschi, direttore editoriale di Guanda. Ma come spiegarne la tardiva fama? «Non è molto chiaro. Il romanzo risale al 1894, lo scrittore era agli inizi della carriera: probabilmente ritenne inopportuno dare alle stampe il ritratto satirico del suo mondo letterario». La prudenza non è mai troppa.

Repubblica 18.1.15
Wenders fotografo in viaggio nel West
di Chiara Gatti


VARESE L‘AMERICA dei grandi spazi, delle pianure verdi, della Frontiera e delle Rocky Mountains. L’America delle corriere d’alluminio, dei cimiteri indiani, degli empori di provincia e delle ghost town, le città fantasma del Colorado o dell’Arizona. È l’America di Wim Wenders. Silenziosa, immobile, sconfinata. Come le sue fotografie, vaste nei panorami e nella dimensione delle stampe, immense ma rigorosamente analogiche, che lui tiene a distinguere dalle sue tecniche di cineasta, dal digitale e dal 3D, «perché dietro l’obiettivo – dice – sono un uomo diverso e ciò che vedete è quello che è».
Il regista tedesco è infatti, lontano dal set, un fotografo nomade e solitario. Che ha attraversato più volte, fra gli anni Settanta e il 2003, in un road movie privato, coast to coast, gli orizzonti piatti degli States, assorbendone il respiro profondo. E lo racconta oggi in 34 scatti esposti nelle sale neoclassiche di Villa Panza a Varese, la casa-museo donata al Fai dal conte Giuseppe Panza di Biumo, collezionista d’arte contemporanea americana. Fra gli stucchi settecenteschi, le sue immagini dialogano a meraviglia con le opere ambientali di Turrell, i neon di Flavin, i monocromi di Simpson. Curato da Anna Bernardini (fino al 29 marzo) il percorso è un viaggio nel West che ha il ritmo lento del cinema di Wenders. Il consiglio, però, è di non cercare scatti che ricordino le inquadrature dei suoi film, di Paris, Texas o The Million Dollar Hotel ; piuttosto, un modo di guardare l’America che cita la pittura lucida di Hopper, ma è frutto dello stupore tutto europeo di fronte alla mole degli spazi e alla sospensione surreale della vita. I più hopperiani sono Nighthawks e Woman in the window , con le loro figure ferme nell’attesa. I più intensi, quelli dedicati alle luci terse del Montana e del New Mexico.
La mostra termina nelle scuderie: qui il tuffo nell’America assonnata delle praterie s’interrompe bruscamente con un ritorno alla realtà, nelle foto rubate, a due mesi dall’attentato, dentro il cantiere di Ground Zero. Uno stormo di ruspe si muove fra i vapori delle macerie. Sono cinque scatti strazianti, dove il tempo è raggelato. Un fermo immagine che, all’indomani dalla strage di Parigi, mette i brividi e scuote le coscienze.

Repubblica 18.1.15
Julia Dobrovolskaja
“Stalin ci impose la felicità forzosa, da bambina ero costretta a ridere”
La guerra civile spagnola, i pettegolezzi su Hemingway
il ritorno da eroina nell’Urss, poi l’arresto e la condanna, fino all’arrivo in Italia
la vita della linguista russa, quasi un secolo di storia
colloquio con Antonio Gnoli


Il Kgb
Mi trascinarono fuori e fui sbattuta in cella di smistamento. Non sapevano di cosa accusarmi. Alla fine dissero: alto tradimento

Renato Guttuso
Quando veniva a Mosca si affidava a me per tutto
Poi quando scelsi di trasferirmi qui non volle più vedermi
Per lui ero una traditrice

TORNANDO in treno da Milano verso Roma ripensavo agli occhi di Julia Dobrovolskaja. Per tutto il tempo del nostro incontro - nella piccola casa di 37 metri quadri, non distante da Porta Romana - Julia non si era mai tolta gli occhiali spessi e scuri. Mi veniva in mente un velo nero sul resto del mondo, squarciato da una voce lieve e tagliente. Un confine tra ciò che Julia aveva dentro e quello che c’è fuori. E ho pensato alla frase con cui ci siamo congedati, quasi ridendo: «Non so se le donano quegli occhiali, cosa nascondono?», le ho domandato. «Certi occhi sono la routine dell’anima, più che lo specchio», mi ha risposto sfiorando lieve il tavolo lindo con la mano. Piccola ed energica, Julia sprizza un senso di esplicita fierezza. Ha appena vinto il Pen Club per la sua attività di traduttrice e le è stato concesso il vitalizio della “Legge Bacchelli” per i suoi meriti culturali.
Nei suoi quasi 98 anni di vita vissuta (è nata a Novgorod nel 1917 alla vigilia della rivoluzione d’ottobre) non c’è nulla di antico. Ha un modo originale di sentirsi superstite. Quello che Julia trasmette è il bisogno di superare anche le prove più terribili senza cedere al timore di non farcela. Le parole esibiscono una tranquilla spregiudicatezza: «Non mi fraintenda. Le nostre vite non possono fare a meno di una dose di illusione. Vede questo bicchiere d’acqua? Posso pensare che sia vodka. Posso perfino farglielo credere. Ma l’acqua resterà acqua. E non c’è miracolo che possa trasformarla. Ecco. Posso farle credere che la mia vita era vodka. Ma non è vero. Qualche volta è stata vodka. Qualche altra acqua».
Non sempre siamo quello che gli altri pensano di noi.
«Mi hanno spesso attribuito una storia con Ernest Hemingway ma non è vera».
Si racconta che lei fosse il personaggio femminile di Per chi suona la campana.
«La leggenda fu messa in giro dal mio amico Marcello Venturi. Si ostinò a credere che la figura di Maria fossi io. È veaver ro che durante la guerra civile feci da interprete per un generale. Ma quando giunsi in Spagna Hemingway era già partito. La donna di cui si invaghì era Martha Gellhorn. Allora avevo vent’anni: belloccia, con i capelli color del grano e piena di ideali».
Com’era finita nella guerra civile spagnola?
«C’era bisogno di interpreti. Partii nel 1938, insieme a una dozzina di ragazzi. Venivamo tutti dall’università, chi da Leningrado, come me, chi da Mosca. Non conoscevo lo spagnolo. Lo imparai in 40 giorni. Da Parigi arrivai a Portbou e poi con una corriera giunsi a Barcellona. Ero stanchissima. Ma anche entusiasta. Forgiata dalla fede nell’internazionalismo proletario. Ero lì per una causa giusta. Ci misero in un albergo che prima della guerra era un postribolo. Le pareti affrescate di nudi ammiccanti tremavano sotto il rombo minaccioso degli aerei».
Come si svolgeva la vita in quel momento?
«La città era stata bombardata. Macerie e disperazione ovunque. Per risollevarci il morale una sera ci invitarono al compleanno di Dolores Ibárruri, la “Pasionaria”. Un’oratrice incredibile. Le sue parole ci riempirono di orgoglio. Poi si fece silenzio. Il capo della rappresentanza commerciale, che ci ospitava, chiese a me, la più giovane, di fare il brindisi. Dissi, in uno spagnolo maldestro, qualche frase alla compagna Dolores. Mi si avvicinò – bella e imponente – si tolse il foulard e abbracciandomi me lo legò al collo. In quel momento pensai che avremmo vinto la guerra».
Quanto durò l’illusione?
«Poco. Cominciai a vedere cose che non funzionavano. Soprusi. Violenze. Morte. Compagni che eliminavano compagni. Soprattutto se anarchici o socialisti. Ero stordita e incredula. Non potevo credere che il compagno Stalin fosse all’origine di quelle atrocità. Fu un anno molto difficile quello che trascorsi in Spagna. Perdemmo la guerra, ma se l’avessimo vinta non so cosa ne sarebbe stato di noi».
Cosa glielo fa pensare?
«Basta leggere Orwell. Comprese perfettamente, dopo
partecipato alle vicende spagnole, cosa sarebbe accaduto se a prevalere fosse stato Stalin».
Lei tornò in Unione Sovietica?
«Tornai da eroina. Sentivo l’ammirazione con cui ci guardavano mentre passeggiavamo sulla Prospettiva Nevskij. Finii l’università. Anche lì il clima era di entusiasmo. Dopotutto avevamo combattuto il male. C’era un solo professore che mi metteva in guardia da tutto questo: Vladimir Propp».
Il grande studioso del folclore?
«Proprio lui. Inviso al regime, l’università lo aveva emarginato spogliandolo delle sue straordinarie competenze. Pochi conoscevano i suoi meravigliosi lavori sulla fiaba. Che, tra l’altro, sarebbero giunti in Occidente solo alla fine degli anni Cinquanta. Insegnò filologia germanica, ma di fatto fu ridotto a lettore di tedesco. Divenni amica di quest’uomo che, con pizzetto e baffi, sembrava un piccolo Don Chisciotte. Prezioso il suo insegnamento. Devo a lui il metodo con cui avrei scritto anni dopo il manuale di italiano per i russi».
In seguito vide più Propp?
«Vladimir ebbe varie vicissitudini. Mi scrisse qualche volta e risposi alle sue lettere. Il tono era sempre di curiosità mista ad affetto. Ma le nostre vite non si incrociarono. Mi trasferii a Mosca. Nel 1942 entrai all’agenzia Tass. Leggevo in cinque lingue i giornali stranieri, selezionando le notizie politiche per i giornalisti. La vita era dura. Ricordo che gli sforzi sovietici si concentravano nella raccolta delle patate. Tutti dovevano partecipare, anche coloro che svolgevano lavoro intellettuale. Gli unici esentati erano i membri della nomenklatura».
Come si svolgeva la vita quotidiana a Mosca?
«C’era la guerra, c’erano state le deportazioni collettive. Un clima di sospetti pesava sulla città. Sapevamo poco o nulla di quello che stava accadendo. Tra le numerose cose che Stalin aveva imposto c’era anche la felicità forzosa. Ricordo che da bambina eravamo costretti a ridere, a mostrare una spensieratezza che nessuno possedeva realmente. Ma così andavano le cose. In un crescendo di fame e di morte. Chi poteva, come me che lavoravo alla Tass, godeva ancora di piccoli privilegi».
Di che natura?
«Avevamo una tessera che ci consentiva di pranzare in un ristorante di via Gorkij. E poi, ogni tanto, ci davano dei buoni per accedere alla sauna pubblica. A quel tempo ero riuscita ad ottenere da una vedova una stanza del suo alloggio. Piccola e spartana, la stanza aveva la finestra che si affacciava sul museo Puskin. Vedevo certe domeniche le fila della gente. Era una consolazione sapere che l’arte aveva ancora un posto nel cuore dei russi. Poi una notte bussarono alla porta».
Chi bussò?
«La polizia segreta. Fui trascinata fuori e sbattuta in una cella di smistamento. La lampada emanava una luce accecante. Una donna in divisa chiese le mie generalità. Dissi che ero cittadina sovietica. Che lavoravo alla Tass. Mi ordinò di togliermi le scarpe. Misurarono la mia altezza. Mi fotografarono. Fu una giornata da incubo. Non sapevo perché ero lì. Fu il mio debutto alla Lubjanka».
Il quartiere generale del Kgb.
«Il luogo degli orrori e degli interrogatori senza ritorno. Quante persone innocenti erano passate di lì? Quante vittime erano state terrorizzate e annullate?».
Di cosa l’accusavano?
«Qui è l’incredibile. Non lo sapevano neanche loro. Ma il codice penale aveva introdotto una legge per cui bastava essere nelle condizioni di poter compiere un crimine per essere accusati di quel crimine. L’istruttoria durò sei mesi. Alla fine l’accusa fu di alto tradimento. Senza altra specifica. La pena era 15 anni in un carcere durissimo».
Che lei scontò?
«Solo in minima parte. Per fortuna. Il mio fidanzato, ma allora solo un innamorato, era tra i dirigenti dell’industria ottica. Con un telefono speciale riuscì a parlare con Berija. Il quale si mostrò tutt’altro che comprensivo. Commentò la perorazione di Alexander Dobrovolsky con una frase di rara ottusità: “Se abbiamo sbagliato qualche volta in passato non vuol dire che accada ancora, il colpevole è sempre colpevole”, disse come se avesse scoperto la verità assoluta».
 Come reagì il suo innamorato?
«Mi propose di sposarlo. Gli dissi: “Sasha, tu non sai in quali pasticci ti stai mettendo. Lascia stare”. Non volevo coinvolgerlo. Alla fine il giudice istruttore, una vera carogna, percepì che dall’alto qualcuno si era interessato a me. Bastò questo perché si creasse un clima meno ostile. Del resto, non sapevano su quali fatti precisi incriminarmi. Venni condannata a 3 anni. Ne scontai solo uno lavorando in una fabbrica metallurgica non distante da Mosca. Poi arrivò nel 1945 l’amnistia. Il sistema di terrore cominciò
ad attenuarsi».
Rientrò nella vita normale?
«Più o meno. Anche se quella macchia restava. Anche dopo la morte di Stalin, dopo la nostra riabilitazione, circolava su di noi un senso di non detto, di non dichiarato. Ad ogni modo sposai Sasha e furono 15 anni bellissimi. Poi l’inferno».
Cosa accadde?
«Sasha cominciò a sviluppare una gelosia morbosa. Mi pedinava, mi tormentava, mi sfiniva con i suoi interrogatori. Era diventato un altro uomo. Alla fine divorziammo. Avevo il mio lavoro, di insegnante di italiano e di traduttrice. Furono nove anni intensi. Felici, se si può dire. Segnati anche da un certo benessere. Poi cadde Krusciov. Era il 1965. Cominciò il grande gelo ideologico».
Visti i contatti e il lavoro svolto non aveva una maggiore libertà?
«Ero stata vicina a molti scrittori e artisti. Limitatamente a certe esigenze potevo perfino viaggiare. Ma la stretta ci fu. Il controllo veniva esercitato quotidianamente. Non è vero che eravamo una società immobile. Stavamo velocemente tornando indietro».
Tra gli scrittori italiani chi frequentava?
«Moravia, Parise, Ripellino. Ero diventata molto amica di Paolo Grassi. Ma due persone furono in particolare presenti. Una mi avrebbe deluso molto, l’altra l’avrei rimpianta a lungo».
Chi?
«Renato Guttuso che ogni volta che veniva a Mosca si affidava a me per ogni cosa. Quando finalmente scelsi l’Italia come la mia nuova patria, Renato non volle più vedermi. Non so cosa gli scattò nella testa. Per lui ero una traditrice. Mi cancellò. L’altra persona era Gianni Rodari. Incredibilmente famoso in Unione Sovietica. Tradussi Grammatica della fantasia . Diventammo molto amici. Il governo sovietico invitò Gianni a trascorrere un periodo in Urss. Visitarla con l’impegno che quel soggiorno sarebbe diventato un libro».
Rodari accettò?
«Con entusiasmo. Cercai in tutti i modi di dissuaderlo. Lo implorai – seduti su di una panchina non distante dal Bolshoi – di lasciar perdere. Gli dissi che erano solo menzogne quelle che avrebbe raccolto. Non volle darmi ascolto. Cominciò il suo viaggio nel Caucaso con l’entusiasmo di un bambino che andava alle giostre. Partì d’estate. Tornò nel dicembre del 1979. Mi telefonò. Chiese di vedermi subito. Stavo lavorando a un seminario con un gruppo di giovani traduttori. Arrivò trafelato. Stanco. Irriconoscibile. Non vi racconterò una favola, disse. Ma quello che ho visto e che non mi è piaciuto di questo paese. Parlò ininterrottamente per tre ore».
Che uomo aveva di fronte?
«Una persona sconvolta. Vomitò il disagio e l’angoscia che lo tormentava. Si lamentò per il freddo. Aveva una brutta cera. Tornò in Italia dove sarebbe morto qualche mese dopo».
Lei quando ha deciso di vivere in Italia?
«Nel 1982. Fu la prova generale della propria morte».
In che senso?
«Non portavo nulla con me. Lasciavo a Mosca tutto il mio mondo: i libri, gli amici, la professione, la casa, gli affetti. Era un salto nel buio. Non può immaginare come sia difficile rinascere».
Ce l’ha fatta.
«Posso dire di sì. Questi trent’anni sono stati intensi. Ho scritto molto. Ho insegnato all’Università. Alla Ca’ Foscari. Ho sposato un amico gay, una persona straordinaria e generosa, e sono diventata cittadina italiana. Non ho vissuto da dissidente. Ma con la mia capacità di resistenza passiva sono restata una persona integra. Vorrei avere più forza. Ma l’età avanza. Vorrei avere più fede. Mi fu rubata da uno Stato autoritario. Vorrei avere ancora un futuro. Ma so che ne resta poco. Ma abbastanza per ringraziare le tante persone per bene che mi hanno aiutata».

Il Sole Domenica 18.1.15
Joseph Conrad
L'ombra della giovinezza
di Luigi Sampietro


Ormai sessantenne – nel 1917 –, a trent'anni di distanza dagli avvenimenti in larga parte autobiografici a cui si riferisce, Joseph Conrad pubblica La linea d'ombra, un breve romanzo che ha come sottotitolo: Una confessione. Ambientato nei mari del sud-est asiatico, racconta la storia del suo primo incarico (1888) come capitano di vascello ed è un libro sul quale si è detto e scritto tanto che non è possibile pensarlo se non nel pantheon dei capolavori della letteratura mondiale.
Ma La linea d'ombra è un romanzo sui generis. Esotico sulla carta (geografica), è il resoconto di un viaggio che si svolge in una sorta di immobile presente in cui la linea dell'orizzonte è la breve soglia delle murate della nave o addirittura delle paratie sottocoperta, dove uno dopo l'altro gli uomini dell'equipaggio sono vittime delle febbri tropicali. E se in una lettera all'amico R. B. Cunnninghame Graham (1897), Conrad definisce l'universo come «una cosa infame», insensibile e indistruttibile, senza cuore e senza occhi, ovvero come un'enorme macchina che ha tragicamente creato se stessa senza alcuna direzione o preveggenza, è significativo che, nell'esprimere questa intuitiva certezza, lo stesso Conrad ne parli come di una verità – una e immortale – che si cela dietro la forza da cui è sprigionato il tutto. Fin qui l'uomo Conrad.
Ma l'artista Conrad è uno scrittore introspettivo, e non è attraverso il ragionamento che perviene alla rappresentazione della realtà. La sostanza della quale, nel dominio della sua immaginazione, non è quasi mai da intendersi come un oggetto a sé stante, bensì come un «oggetto percepito», cioè imbozzolato nelle sensazioni e nelle congetture del soggetto che la osserva. Il vascello che fa rotta tra Singapore e Bangkok, diretto in Australia, immobile per diciotto giorni in un mare sulla cui superficie non ci sono tracce del passato e non si discerne alcuna topografia, diventa l'asse di un percorso circolare che riporta il protagonista, anche in senso metaforico, al punto d'inizio; ma la cui intelligenza è come se scendesse sul fondo di se stessa, nel buio della propria anima, per risalirvi, battezzata dal terrore e dalla tempesta, per tornare alla vita ritemprata dopo una malattia. Si tratta, all'inizio del racconto, di un male di vivere molto vicino all'accidia e alla noia: a uno scoramento e a una sorta di inerzia senza motivo, accompagnata dall'illusione di una esistenza lontano da ogni cimento, che domina il protagonista e che è stata altrimenti, e da altri, chiamata senilità. La via d'uscita, quasi per caso – parola chiave di Conrad –, è legata alla soddisfatta ambizione del protagonista di sentirsi importante a bordo di una nave propria e nell'ambito di una onorevole tradizione marinaresca. E risponde, questa aspirazione, a un richiamo assoluto. Sicché, così come Conrad fa dire al narratore che «c'è qualcosa di sgradevole nel concetto di ricompensa», è simbolicamente sul mare, al comando di un veliero e non di un banale piroscafo, che, potendo dare prova del proprio coraggio e senso di responsabilità il protagonista obbedisce a un destino per il quale nell'ultimo capitolo chiama, un po' a sorpresa, «gentile ed energica Provvidenza»; ma è soprattutto grazie all'aiuto decisivo di un marinaio che si chiama Ransome ("riscatto") che il giovane capitano riesce a vincere la superstizione che soggioga chi su quella nave bella e "maledetta" aveva già navigato.
Mentre rileggevo La linea d'ombra nell'ottima edizione curata da Simone Barillari, ricca di puntuali note e informazioni che ragguagliano il lettore attraverso l'utilizzo della più recente bibliografia, mi è sembrato di rivedere me stesso quando ho avuto tra le mani questo libro la prima volta e ho confrontato il convincimento che ne devo averne tratto con l'immagine di un Conrad quasi vecchio che si rivede in uno specchio magico nel fiore degli anni. Ho pensato che non deve essere stata solo la nostalgia a guidarne lo sguardo e la mano. Perché La linea d'ombra non è solo la storia del passaggio dalla giovinezza alla maturità, ma è la sintesi di un messaggio che riguarda tutti, in ogni età e il mare è un luogo in cui, al comando ciascuno del proprio vascello, hanno significato valori e virtù a cui «l'infame macchina dell'universo» si mostra indifferente.

Joseph Conrad, Linea d'ombra, traduzione e cura di S. Barillari, Feltrinelli, Milano, pagg. 182, € 6,00;

Il Sole 18.1.15
Festival delle scienze
La competenza morale
Ci sono sei condizioni affinché un essere umano sia ritenuto responsabile delle sue azioni. Sono esclusi bambini e dementi
di Daniel C. Dennett


Il tradizionale tema del libero arbitrio ha visto sovrapporsi molti livelli di controversia e confusione su tematiche che non meritano più di essere al centro dell'attenzione: Il libero arbitrio è compatibile con la prescienza di Dio?
La fisica quantistica può costituire un'importante fonte di libertà (assenza di causalità) per le azioni umane?
Il libero arbitrio richiede il dualismo (perché se «me l'ha fatto fare il mio cervello» allora non ne sono responsabile)?
Invece di impiegare tempo e fatica per smantellare, ancora una volta, le concezioni errate racchiuse in queste domande, propongo di lavorare all'incontrario, da quella che presumibilmente è la conclusione finale auspicabile: l'azione umana moralmente responsabile.
Cosa, dunque è necessario affinché un essere umano sia ritenuto moralmente responsabile per le sue azioni? La risposta, da decifrare e analizzare, è: competenza morale. Se un essere umano non fosse moralmente competente sarebbe ridicolo considerarlo responsabile. Ecco perché non riteniamo responsabili delle loro azioni i bambini piccoli o gli adulti mentalmente disabili. Ed è anche il motivo per cui non condanniamo per omicidio un leone o un orso se uccide un essere umano, anche deliberatamente. Non ci si può aspettare altro da loro.
Un agente moralmente competente:
1) È ben informato
2) Ha desideri abbastanza ben organizzati
3) È motivato da ragioni
4) Non è controllato da un altro agente
5) È punibile
6) «Avrebbe potuto fare altrimenti»
Ciascuna di queste sei condizioni richiede ulteriori spiegazioni ma molte di esse sono ovvie, come dovrebbero essere. (Se il libero arbitrio fosse una condizione imperscrutabile per l'uomo, al punto da non poter mai dire, per certo, se qualcuno lo possiede, sarebbe difficile capire perché ci interessa così tanto avere libero arbitrio).
1) La totale ignoranza delle regolarità causali, dei bisogni e delle emozioni umane, delle leggi e dei costumi di un luogo, escludono una persona dal libero arbitrio poiché, in quanto agente, il proprio comportamento non potrebbe essere guidato in modo affidabile. Inoltre – elemento spesso sottovalutato – un agente moralmente responsabile si fa un dovere di conservare e aggiornare la propria conoscenza del mondo. L'ignoranza negligente non è ammissibile.
2) Da una persona preda di fobie e dipendenze non ci si può aspettare che regoli il proprio comportamento in base agli interessi degli altri, ricoprendo un ruolo appropriato. Ci si aspetta che gli attori morali siano partecipanti affidabili nella società, sensibili al mutare delle condizioni e capaci di modificare il loro comportamento in base a tali cambiamenti.
3) L'etimologia della parola «responsabile» è fondamentale. Dobbiamo essere in grado di comunicare ragioni a un agente moralmente competente con l'aspettativa che la sua attività non sia destinata al fallimento. È necessario che gli agenti moralmente competenti sappiano rispondere appropriatamente alle ragioni offerte, distinguere le ragioni buone da quelle insensate, le minacce dalle offerte, le promesse dalle previsioni, e siano capaci di rispondere in modo sensato alle domande sul perché stanno facendo ciò che stanno facendo.
4) Parte dei doveri di un agente morale è quello di vigilare sulla possibilità che il proprio autocontrollo sia usurpato o manipolato da parte di un altro agente, e di mettere in atto le necessarie contromisure per preservare l'autonomia nonostante tali strategie.
5) Un agente moralmente competente deve avere interesse nel salvaguardare la propria libertà dalla punizione. Ad esempio, le promesse da parte di qualcuno che non avrebbe nulla d'importante da perdere non mantenendole, non sono atti verbali credibili.
6) Questa nota condizione non significa che la libertà prescinda da ogni influenza causale. Significa soltanto che l'agente deve avere una struttura di controllo che, in risposta a specifiche circostanze, consenta di seguire più di una strada. In ingegneria si parla di gradi di libertà: per esempio un braccio robotico con tre gradi di libertà può muoversi su-giù, sinistra-destra, avanti-indietro. In un caso si muove in avanti e a sinistra ma avrebbe potuto muoversi verso destra, oppure su o giù – se così «deciso», in base alle circostanze del momento. Un braccio robotico con un unico grado di libertà (diciamo su-giù) non avrebbe potuto fare altrimenti che muoversi su o giù. Questi gradi di libertà sono basati sull'indeterminismo, naturalmente. E questo è il tipo più importante di libertà per la responsabilità morale, ferme restando le altre condizioni.
C'è una settima o ottava condizione per la competenza morale? Forse, ma in tal caso deve essere introdotta e difesa. Ovvero, avremmo bisogno di sapere perché quella sia una condizione che sarebbe saggio includere nella competenza morale. Così facendo possiamo mantenerci focalizzati su ciò che conta: non curiosità metafisiche ma doti pratiche di autocontrollo.

Il Sole Domenica 18.1.15
Il mistero del tempo
Il segreto è nel cervello
Il senso del tempo, secondo le neuroscienze che lo studiano da circa tre decenni, è prodotto da meccanismi nervosi emersi per selezione naturale
di Arnaldo Benini


Si rimane colpiti, ha scritto con ironia lo psicologo americano Herbert Nichols alla fine del XIX secolo (Amer. J. of Psychology 3, pagg. 453-529, 1891), dalla grande varietà delle spiegazioni di filosofi e psicologi per tentare di venire a capo del mistero del tempo. Il tempo è stato considerato come atto della mente, della ragione, della percezione, dell'intuizione, dei sensi, della memoria, della volontà, e di tutte le loro combinazioni e interferenze. È ritenuto un senso generale che accompagna ogni contenuto mentale allo stesso modo del dolore e del piacere. È considerato però anche come senso a sé, separato, speciale, disparato. È stato spiegato come se fosse «una sequela luminosa» o una fila di «blocchi allineati di presente specioso» o una «appercezione». È stato dichiarato a priori, innato, intuitivo, empirico, meccanico. Il tempo, motteggia Nichols, è stato dedotto dall'interno e dall'esterno, dal cielo e dalla terra, e da diverse altre cose difficili da immaginare. Leggendaria la disputa fra Isaac Newton, per il quale il tempo esiste ed è assoluto, vero e matematico e fluisce senza relazione con quel che avviene nell'universo, e Gottfried Wilhelm Leibniz, per il quale il tempo «an sich», in sé, non esiste, essendo solo un rapporto fra eventi. Finalmente due autorità culturali estranee alle secolari diatribe, il fisico teorico Albert Einstein e il matematico Hermann Minkowski, all'inizio del XX secolo ritennero il tempo la quarta dimensione, a lungo cercata, dello spazio. Nello spaziotempo (con il quale la mente non riesce a familiarizzare) non ci sono direzioni del tempo, e quindi non c'è presente, e se non c'è presente non c'è nemmeno il tempo. Il cosmo quantico è, senza tempo. La costante t del tempo è scomparsa dalle equazioni fisiche. Il sociologo Norbert Elias si chiedeva come si possa misurare una cosa che non è percepita dagli organi di senso. «Chi ha mai visto un'ora?», si chiedeva. La fisica sostiene che il tempo è un'illusione. Che cos'è allora il senso che di esso abbiamo? È possibile che un'illusione, cioè un evento senza contenuto reale, regoli l'esistenza non solo nostra ma di tutto il mondo animale? La biologia ha dimostrato che nessun animale, neanche il più semplice, potrebbe sopravvivere senza i meccanismi dell'orientamento temporale, le cui origini si rintracciano in sistemi nervosi di pochi neuroni. Se fosse veramente solo un'illusione, occorrerebbe spiegare perché esso sia sentito (non percepito, perché non esiste organo periferico o centrale di percezione del tempo) come una dimensione fondamentale, una categoria, come si dice, nella quale, a differenza dallo spaziotempo, la mente, e verosimilmente il resto della natura animale, si trovano a loro agio.
Ci troviamo a nostro agio nel tempo così come lo viviamo perché esso, secondo le neuroscienze cognitive, che da circa tre decenni lo studiano come evento biologico del cervello, è prodotto da meccanismi nervosi emersi per selezione naturale in quanto congruenti con le necessità elementari dell'esistenza. Per la varietà dei suoi aspetti, il senso del tempo è complesso: si tratta di durate e intervalli, eventi reali, attese, immagini, suoni, pensieri, fantasie e stati d'animo, connessi alla memoria, all'affettività e alla razionalità più rigorosa e più astratta, come la matematica. La visualizzazione del funzionamento del cervello con immagini e derivazioni elettriche ha mostrato che il senso del tempo è collegato ad aree corticali pre-frontali, specie quella destra, alla parte inferiore dei lobi parietali, al cervelletto, alla parte anteriore della corteccia cingolata e all'insula d'entrambi gli emisferi, ai gangli della base. Queste aree sono collegate ai centri della memoria, all'ippocampo e al sistema limbico dell'affettività. Questi, a sua volta, è regolato prevalentemente dall'emisfero cerebrale destro, mentre la parte razionale del senso del tempo sarebbe regolata da quello sinistro. Queste aree, estese a gran parte del cervello, trasmettono ai meccanismi nervosi della coscienza il senso del tempo. Il cervello non ha bisogno di vedere un'ora, perché è lui che la crea. L'esperienza di ammalati con distorsione o perdita del senso del tempo per lesioni del cervello conferma l'origine nervosa della categoria del tempo. Essa, nonostante il funerale che le ha fatto la fisica teorica, è reale, come è reale la coscienza di cui è parte essenziale. La concezione del tempo come meccanismo del cervello, e non come percezione dal mondo esterno, è corroborata da studi ed esperimenti iniziati decenni fa e intensificati negli ultimi anni, con risultati e dati verificabili. Qui ci soffermiamo, riassumendo una vasta e attendibile letteratura scientifica, su un aspetto curioso ed esemplare della fenomenologia del senso del tempo. Indagini condotte per anni in diversi centri in tutto il mondo mostrano che circa il 70% degli esseri umani e quasi tutti coloro che hanno un impegno costante (di regola professionale) a un'ora del primo mattino, quindi con motivazione rilevante ad alzarsi presto, si svegliano dopo un sonno, indisturbato e senza farmaci, spontaneamente, senza sveglia e senza stimolo a urinare, con uno scarto medio rispetto all'ora prestabilita da 15 a 4 minuti prima del termine e di circa 10 minuti dopo. Il 29% si sveglia circa 10 minuti prima che suoni la sveglia, e il 23% non la usa mai. L'autorisveglio all'ora voluta, anche nel mezzo della notte, è la regola e non l'eccezione. L'accuratezza nel valutare il fluire del tempo durante il sonno è simile a quando si è svegli. I meccanismi del senso del tempo lo trasmettono alla coscienza anche nello stato d'incoscienza del sonno: il senso del passare del tempo è attivo nel sonno, pur rimanendo incosciente fino al momento della sveglia spontanea. L'autorisveglio dipende dal livello d'attivazione corticale dei meccanismi della volontà, che ricevono l'informazione da quelli del tempo. L'autorisveglio non è sorprendente, se si pensa che l'umanità, fino a poco più di un secolo fa, non aveva a disposizione le sveglie. L'autorisveglio era la regola, tranne per i pochi che potevano servirsi dell'autorisveglio di qualcun altro. La selezione naturale avrebbe favorito lo sviluppo dei meccanismi dell'autorisveglio, senza i quali sarebbero forse prevalsi i dormiglioni e gli scansafatiche. Il vantaggio dei solerti mattinieri è riassunto nell'antico e saggio ammonimento che chi dorme non piglia pesci. Un'altra spinta evolutiva potrebbe essere stata la protezione della durata del sonno. Ulteriore conferma che il senso del tempo è attivo durante il sonno è la capacità di molte persone che sono svegliate di valutare con uno scarto sotto i 15-20 minuti che ora sia. La valutazione è più accurata dopo un sonno prolungato e se il risveglio forzato è prossimo a quello prestabilito. Le lesioni del cervello alterano i meccanismi del senso del tempo anche durante il sonno. Il primo sintomo di un tumore maligno del lobo frontale destro in un meccanico di 60 anni fu il risveglio, poco prima di mezzanotte, con la convinzione che fosse mattina e che fosse l'ora d'andare al lavoro. La moglie riuscì a tenerlo in casa. Si riaddormentò e al mattino era convinto che fosse sera. Non distingueva un'ora da molte ore e l'informazione «fra un'ora dobbiamo essere nel tal posto» non aveva alcun senso. Cinque anni dopo un ictus cerebrale destro un paziente si riprese dalla paralisi della parte sinistra al punto da poter guidare automobile e motocicletta. Da allora è torturato dal disturbo del senso del tempo, che si manifesta da sveglio con l'impossibilità di sentire la differenza fra un'ora o mezz'ora e nel sonno per l'autorisveglio alle 4 del mattino pur sapendo d'aver un appuntamento alle 8.
Le neuroscienze cognitive sembrano avviate sulla strada per avvicinarci al mistero del tempo. Apparenti bizzarrie come il senso del tempo durante lo stato d'incoscienza del sonno, e la sua distorsione per lesioni del cervello ne confermano la realtà. Esso esiste come meccanismo nervoso, cioè elettrochimico, selezionato nel corso dell'evoluzione per dar ordine agli eventi della vita. Può essere paragonato al linguaggio: entrambi prodotti con meccanismi nervosi complessi e fragili da diverse aree cerebrali, collegate con altre di entrambi gli emisferi.

Il Sole Domenica 18.1.15
Scienza & fede
Disaccordo, ma con razionalità
di Nicla Vassallo

Il professor Andrew Steane si occupa di Quantum Computing, insegna presso il Dipartimento di fisica dell'Università di Oxford, è stato insignito, in giovane età della Maxwell Medal e del Premio dell'Istituto di fisica, nella sua attività divulgativa si concentra sulle interazioni positive tra scienza e fede cristiana. Benché, quando ci si abbandona ai luoghi comuni, sia facile cadere nel capriccio di guardare allo scienziato come a una versione contemporanea di qualche anticristo, Steane non si attesta l'unico a tentare di chiarire il ruolo della scienza nella religione, e lo fa, in modo egregio, nel suo Faithful to Science, approfondendo temi quali quello dei rapporti tra scienza e fede, della natura fisica, dell'origine del cosmo, oltre che dell'origine degli esseri umani. Si diceva che Steane non è l'unico.
Basti, per esempio, ricordare tra i tanti, un nome di rilievo, quale John Barrow, della vicina Cambridge, a cui la Royal Society nel 2008 ha assegnato il Premio Faraday, Barrow che scrive in Perché il mondo è matematico? (Laterza 1992): «In effetti, se l'intero universo materiale può essere descritto dalla matematica, deve esistere una logica immateriale più vasta dell'universo materiale... Convinzioni di questo tipo sembrano implicare che Dio sia un matematico».
Scontato: data la sua onniscienza, Dio si "incarna" anche in un matematico. Ma non devono essere qui le esemplificazioni di alcuni scienziati a sorprenderci, quanto piuttosto il fatto che parecchi scienziati di spicco, scienziati che praticano le scienze "dure" (fisica, chimica, biologia, non antropologia, etnologia, psicologia) cerchino di comprendere, per ragioni varie e distinte, il ruolo che la fede in Dio gioca nell'esistenza di chi nutre tale fede, nel rispetto della scienza, senza con ciò giungere a compromessi tra fede e scienza, per superare i conflitti tra esse, nel tentativo di stabilire al contempo quanto la scienza riesca a garantirci la nostra umanità. Per esempio, nel volume di Andrew Steane mi pare chiara la tesi stando a cui la scienza incappi in problemi quando sminuisce alcune nostre attitudini, per esempio al ragionamento, alla fiducia, all'amore. In effetti, la scienza, se non attraverso derive scientiste e alcuni estremismi neopositivisti, lo hai mai sul serio preteso e motivato senza obiezioni né contraddizioni. Andrew Steane non si propone – sarebbe altrimenti folle – di sostenere che la scienza risulta incapace di spiegarci il nostro mondo, ma piuttosto che da sola non potrebbe soddisfarci e, di conseguenza, le sue spiegazioni vanno a integrarsi con altre spiegazioni, di matrice religiosa nel presente caso.
A mio avviso, oltre la differenza tra conoscenza religiosa, mira facile per lo scettico, e conoscenza scientifica, mira invece difficile per lo scettico, e oltre la complessità del rapporto tra fede e ragione, occorre tuttavia non dimenticare, insieme a Jonathan Kvanvig, come lui stesso precisa nell'introduzione del suo ottimo e specialistico Rationality & Reflection: How to Think About What to Think, che la perplessità rimane caratteristica degli esseri umani dotati di capacità mentali, perplessità che deve riguardare il nostro quotidiano, ma che deve accompagnarci anche quando speculiamo sulla natura del cosmo. La perplessità non viene coltivata da tutti, e, in effetti, i dogmatici categorici non mancano: eppure il dogmatismo non rappresenta il miglior modo per conferire un senso a noi stessi e a quanto ci circonda. Per di più non si dà un solo modo per conferire senso, bensì un modo descrittivo (come di fatto conferiamo senso), un modo normativo (come lo dovremmo fare), un modo valutativo (in relazione al bene e al male).
La perplessità si allea con un buon concetto di razionalità. Così, in tutto ciò, è rilevante, come chiarisce Kvanvig, disporre di un concetto in cui la razionalità non possa venire attribuita a tutti, per esempio a ogni tipo di animale non umano. La teoria della razionalità rimane una teoria che determina come dobbiamo pensare, teoria che tuttavia salvaguarda una certa eterogeneità circa quanto si attesta ragionevole pensare, e teoria, al contempo, che decreta il limite in cui risulta accettabile il disaccordo tra esseri umani razionali. A questo punto non ci può sfuggire il disaccordo, almeno nel presente contesto, non tanto tra credenti, agnostici e atei, ma tra chi rintraccia con ragione interazioni positive tra scienza e fede cristiana (o altri tipi di fedi) e chi invece nega con ragione la possibilità di tali interazioni. In tutto ciò, il ruolo di un certo grado di razionalità condivisa, razionalità che per sua stessa natura si oppone all'ignoranza come a fondamentalismi e a tradizionalismi, non deve venir affatto sottovalutato.
www.niclavassallo.net

Jonathan L. Kvanvig, Rationality & Reflection: How to Think About What to Think, Oxford University Press, Oxford, pagg. 208, £ 35,00
Andrew Steane, Faithful to Science: The Role of Science in Religion, Oxford University Press, Oxford, pagg. 272, £ 19,99

Repubblica 18.1.15
Il pugno di Francesco e la lezione di Voltaire
di Eugenio Scalfari

qui