lunedì 19 gennaio 2015

Repubblica 19.1.15
Il Cinese: “È un partito alla frutta il modello Renzi compra i voti”
“Vogliono esportare in Liguria il modello nazionale renziano delle larghe intese con il centrodestra comprando i voti”
“Non mi dimetto da Strasburgo perché quei 120 mila voti sono miei. All’Europarlamento per scelta personale”
Intervista di Umberto Rosso a Sergio Cofferati


ROMA Onorevole Cofferati, si è così polemicamente dimesso dal Pd in realtà perché ha perso le primarie in Liguria, come l’accusano i vertici del suo ormai ex partito?
«Vedo che Renzi va in televisione a darmi dell’ipocrita, che i vicesegretari bollano come inspiegabile e ingiustificato il mio addio al Pd. Solo insulti e offese. Se un partito, invece di chiedersi le ragioni delle dimissioni di uno dei suoi fondatori, reagisce così, siamo alle frutta. Anzi, ormai al digestivo».
Ha denunciato irregolarità e brogli nelle primarie a favore della sua concorrente Raffaella Paita. Perché solo a fine gara, non prima?
«Ma io per un mese e mezzo ho informato la Serracchiani e Guerini, i due vice di Renzi, dello scempio che si stava consumando in Liguria, dei rischi di inquinamento del voto, della partecipazione organizzata del centrodestra con l’Ncd e anche Forza Italia alle nostre consultazioni per votare e far votare la Paita, con la partecipazione attiva di certi fascistoni mai pentiti, e la presenza perfino di personaggi in odor di mafia ai gazebo e ai seggi».
E dal vertice del Pd, di fronte ad uno scenario simile, davvero non hanno fatto una piega?
«Mai. Nessuna risposta. Così i pericoli che temevo, si sono puntualmente avverati. Il risultato in tredici seggi, dove per una manciata di euro sono stati convogliate file di poveri stranieri, è stato annullato dalla commissione di garanzia. Sta indagando la procura di Savona e forse anche quella di Genova si muoverà. Ed è scesa in campo anche la Dda, la direzione distrettuale antimafia».
Tutto organizzato contro di lei? Da chi e perché?
«Era stata pianificata una vittoria a tavolino, con l’appoggio del centrodestra. Alcuni suoi esponenti, come il segretario regionale Ncd Saso, l’ex senatore forzista Orsi, il fascista Minasso, lo avevano pubblicamente dichiarato. Quando io ho dato la mia disponibilità e sono entrato in campo, ho scompaginato i loro disegni. E l’organigramma di potere era già pronto».
Vuol dire che avrebbe vinto, senza le irregolarità che ora denuncia?
«Non lo so. Io ho preso circa 24 mila voti. Chi ha vinto, circa 28 mila. Però nel 2011 a Napoli per irregolarità denunciate in tre seggi, dico tre, Bersani annullò le primarie. Perché a Genova deve essere diverso che a Napoli?».
Cos’è, una conventio ad excludendum contro Cofferati pilotata dalla segreteria nazionale?
«Da quella ligure, di sicuro. La segreteria nazionale è stata, diciamo, assente, distratta, lontana. Salvo negli ultimi giorni, quando è piombata il ministro Pinotti a sostenere la Paita e una formula politica per la regione che mai si era discussa qui, e che io mai avrei appoggiato: le larghe intese con il centrodestra, l’esportazione anche in Liguria del modello nazionale renziano».
Però questa è appunto una linea politica, che si può o meno condividere, che c’entra con i brogli?
«Certo, ma per imporre, realizzare questo modello politico si è fatto ricorso in modo spregiudicato al sostegno del centrodestra nelle primarie del nostro partito. E anche all’inquinamento con voti comprati. Sta tutta qui la ragione delle mie dimissioni, la ferita politica che si è aperta nel Pd, e non solo in Liguria. Sono stati cancellati i valori stessi su cui è nato il Partito democratico. E io che ne sono stato uno dei 45 fondatori, e non c’era certo Renzi, me ne vado con dolore. Sono stati ormai distrutti i principii e gli strumenti per la loro affermazione, e cioè proprio le primarie. E non parliamo del rispetto personale: ogni giorno della campagna sono stato insultato, in particolare dal sindaco di La Spezia».
Lei lascia il Pd ma non il seggio a Strasburgo dove è stato eletto proprio con i voti del partito. Non dovrebbe farlo?
«Alle elezioni europee, dove molti fanno finta di dimenticare che si vota con le preferenze, sono stato rieletto con 120 mila voti. Alcuni hanno segnato il mio nome perché era nella lista nella Pd. Molti altri perché hanno scelto Cofferati e di conseguenza la lista del partito».
I voti per l’europarlamento sono soprattutto “suoi” e non del Pd?
«Credo proprio di sì. Ma si chiede solo a Cofferati di lasciare il seggio, mentre in altri casi non c’è problema. Non si chiedono dimissioni da deputato, che ne so, per Gennaro Migliore eletto con Sel ma passato al Pd».
Eppure quando era sindaco di Bologna giurava che mai avrebbe lasciato la città per un seggio a Strasburgo.
«Ma quella fu una scelta personale. Volevo stare con la mia famiglia a Genova. L’allora segretario del Pd Franceschini mi offrì con insistenza l’eurocandidatura. Mi resi conto che, da Strasburgo, nei week end sarebbe stato più facile stare a Genova con i miei. E dissi di sì».

La Stampa 19.1.15
Le due spine di Renzi: opa-Cofferati a sinistra e calo di voti a destra
Sceso al 34% nei sondaggi, e Fassina lo avvisa che la minoranza farà le barricate sul Quirinale
di Fabio Martini

qui

Repubblica 19.1.15
Il caso Cofferati divide il Pd
La minoranza Dem attacca “Peserà anche sul Quirinale”
I renziani preferiscono abbassare i toni
Civati pronto a una lista di sinistra con Sel
Il governatore Rossi: “L’ex Cgil sbaglia”
di T. Ci.


ROMA. La scossa provocata dall’addio di Sergio Cofferati scuote il Pd ligure e arriva fino a largo del Nazareno. La minoranza dem minaccia ritorsioni nel voto per il Quirinale, mentre in Liguria le Regionali rischiano di trasformarsi in uno scontro fratricida tra democratici e civatiani. Nel partito, intanto, finisce sul banco degli imputati lo strumento delle primarie: «Questo voto le uccide definitivamente - avverte Cesare Damiano - Si prevedano per legge o con un albo certificato degli elettori del Pd». A scatenare la rissa ci pensa Stefano Fassina. «Il caso Cofferati e quello del decreto fiscale non aiutano a costruire un clima positivo per il voto sul Colle - mette in chiaro l’oppositore del premier - Il modo sbrigativo, offensivo per la dignità di Cofferati con cui la sua scelta è stata trattata, pesa notevolmente sul Quirinale». Pippo Civati, poi, compie un altro passo verso lo strappo: «Cosa deve succedere ancora per aprire nel Pd una riflessione? Se è diventato un partito di centrodestra, sarebbe importante che Renzi lo dicesse per primo». Il deputato valuta l’addio e nel frattempo promuove una “scissione ligure” contro la candidata renziana Raffaella Paita, studiando assieme a Sel una lista alternativa. Magari tenuta a battesimo proprio da Cofferati, pronto ad aggregare la galassia che si muove alla sinistra di Renzi.
I renziani preferiscono mantenere i toni bassi, ma si levano comunque voci critiche verso l’ex segretario della Cgil. «Capisco la sua denuncia rileva il governatore toscano Enrico Rossi - ma Sergio sbaglia ad abbandonare il partito. Le battaglie si fanno dentro, altrimenti per coerenza dovrebbe dare le dimissioni da eurodeputato». Il senatore Andrea Marcucci, invece, mette nel mirino Fassina: «Quando si dice la responsabilità...», ironizza.

il Fatto 19.1.15
Rischio scissione
Il Pd è pronto a epurare chi sta con Cofferati
Effetto Cofferati: il Pd vuole espellere i dissidenti
I primi da cacciare sarebbero i civatiani
Fassina: “Conseguenze sul voto per il Colle”
di Lorenzo Tosa


Genova Oggi no. Domani sicuramente. Sergio Cofferati attende le motivazioni con le quali la Commissione di garanzia del Pd ha cancellato il risultato di 13 seggi alle Primarie liguri del centrosinistra. Dopodiché è pronto a trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica, per fare luce sugli eventuali aspetti penali degli inquinamenti del voto avvenuti domenica 11 gennaio in tutta la Liguria.
A DUE GIORNI dalle clamorose dimissioni pubbliche dal Pd, l’ex segretario Cgil è combattivo. E risponde indirettamente a Debora Serracchiani, vicesegretario del Partito democratico, secondo la quale “non si resta in un partito solo se si vince”. “Mi aspettavo reazioni come queste – commenta Cofferati, che rincara la dose rispetto a sabato – La realtà è che esco fuori perché non posso accettare la cancellazione dei valori di questo partito e il massacro che è stato fatto nei confronti delle Primarie, snaturate da poveri stranieri in massa e dalla destra fascista”. Ma quella di Cofferati potrebbe essere solo la miccia che darà il via a un esodo di massa dal partito. L’addio dell’europarlamentare ha provocato una reazione a catena nella corrente ligure a sinistra di Renzi. I primi a fare le valigie potrebbero essere i civatiani di “Liguria Possibile”, che attendono solo l’espulsione da Roma, dopo il ritiro del sostegno a Raffaella Paita e l’annuncio della creazione di una nuova lista di centrosinistra in vista delle Regionali di maggio. Lo ha confermato anche il leader di Liguria Possibile, il deputato Luca Pastorino: “La nostra regione è la fotografia di un Pd ormai spaccato a metà. Non ci riconosciamo più in un partito che si prepara a cambiare 40 articoli della Costituzione e che continua a sottovalutare quello che è accaduto alle ultime Primarie. Intanto andiamo avanti sulla nostra linea e aspettiamo una risposta da Roma”.
Intanto, nella giornata di ieri, il vicesegretario nazionale Pd Lorenzo Guerini ha provato a fare il pompiere, telefonando personalmente a Pastorino per far tornare sui loro passi i dissidenti. “Con il solito tono superficiale, mi ha invitato a riconsiderare le mie posizioni – rivela Pastorino – Ma io sono anche il sindaco di un piccolo paese, e da qui le cose le vedo molto bene”.
Le parole di Pastorino sintetizzano un mal di pancia sempre più diffuso tra i civatiani liguri, tra cui compaiono anche Andrea Ranieri (membro del direttivo nazionale Pd) e l’europarlamentare Renata Briano, ex assessore all’Ambiente della Regione Liguria, dirottata a Bruxelles nel maggio scorso anche per presunte frizioni con il governatore Burlando. La stessa Briano che Raffaella Paita (candidata uscita vincitrice dalle primarie) ha preso di mira indirettamente con ripetute esternazioni.
PER LORO e per un’altra decina di civatiani è pronta ad arrivare una raffica di espulsioni. E Civati? “Sa benissimo quello che è accaduto in Liguria e segue attentamente l’evolversi della situazione, – fanno sapere da Liguria Possibile – Prima di fare una mossa, attenderà almeno l’elezione del Presidente della Repubblica”. E proprio sul tema Quirinale ieri è intervenuto Stefano Fassina, altro esponente della minoranza dem: “Il modo sbrigativo, offensivo per la dignità di Cofferati con cui la sua scelta è stata trattata – dichiara a Rainews24 – peserà notevolmente sul voto per il Quirinale. Bisogna individuare innanzitutto i criteri della scelta, prima del nome. Dobbiamo costruire le condizioni per andare oltre il patto del Nazareno, per il massimo coinvolgimento possibile delle forze di opposizione” .
IN ATTESA DEI VERDETTI della Procura e della Dda sull’esito delle Primarie, sono cominciate le prove per una grande coalizione di sinistra che andrebbe dai civatiani a Sel (“siamo pronti a discuterne” ha fatto sapere Angelo Chiaramonte, coordinatore regionale di Sel). Con l’incognita Movimento 5 Stelle, dove è in atto una faida interna sulla scelta del candidato da proporre.
Paolo Putti, capogruppo M5S in Comune, ha aperto a un “volto fuori dal nostro recinto”, ma i duri e puri del movimento chiudono le porte a qualsiasi tipo di compromesso sulle alleanze e sui nomi. Un post sul sito di Beppe Grillo ha liquidato la questione: il candidato si sceglie con le solite regole, niente “salvatori della patria”. E sarà uno del Movimento. Neanche a parlarne di una coalizione.
L’altro rebus è legato alle prossime mosse di Sergio Cofferati, che qualcuno vede come possibile “padre nobile” di una coalizione in chiave elettorale. Per ora il “Cinese” conferma la volontà di dedicarsi solo alla sua fondazione. Ma lascia aperto qualche spiraglio: “È una fondazione culturale, ma si occuperà anche di politica”.

Corriere 19.1.15
Landini candida Cofferati
«Può diventare lo Tsipras italiano»
Il segretario della Fiom: «Dobbiamo andare oltre gli schemi classici. Le primarie pd dovevano aiutare la partecipazione. Ora per vincerle si fanno votare lobby e fascisti»
intervista di Fabrizio Roncone

qui


Corriere 19.1.15
Dopo l’addio dell’ex sindacalista al Pd
Quirinale, Fassina: «Il caso Cofferati peserà notevolmente sul voto»
L'esponente pd: «La vicenda Cofferati e quella del decreto fiscale «non aiutano a costruire un clima positivo»

qui

Corriere 19.1.15
«Te ne vai? Lascia il seggio!»
L’ipocrisia ciclica dei partiti che bocciano il trasformismo soltanto quando non conviene
di Massimo Rebotti


Le reazioni più dure all’uscita di Sergio Cofferati dal Pd — «Sei stato eletto con i nostri voti, quindi dovresti lasciare il seggio all’Europarlamento» — si sono sentite in tante altre occasioni. Lo dicono sempre i Cinquestelle, per esempio, quando qualcuno dei loro sceglie di andarsene (aggiungendoci una buona dose di insulti). Lo ha detto Silvio Berlusconi e l’esempio più recente sono i parlamentari di Ncd («votati dai nostri elettori, ora tengono in piedi un altro governo: non c’è più democrazia»).
   Apparentemente il discorso del partito che si sente «tradito» sembra logico: al deputato che sbatte la porta viene chiesto di essere «coerente» e liberare il posto. In favore, si presume, di chi si dimostrerà più fedele. Eppure questa richiesta, più che un ragionamento fondato, è un tic, una sorta di riflesso condizionato. E non è un buon segnale democratico.
  Il parlamentare, pur eletto in un partito,
è un individuo, può cambiare idea e non sentirsi più a proprio agio nel gruppo in cui ha militato fino al giorno prima. Non per questo deve lasciare il seggio (articolo 67 della Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»). Ciononostante le argomentazioni di chi chiede «coerenza» e «dimissioni» restano in voga, favorite dai clamorosi episodi di trasformismo di questi anni: cambi di casacca decisi non in virtù di valutazioni ponderate ma di rapidi opportunismi (il senatore Scilipoti, suo malgrado, è diventato un’icona).
   Sul tema tuttavia l’ipocrisia dei partiti è grande: il Pd che oggi censura Cofferati in questi mesi ha accolto con entusiasmo i deputati che lasciavano Sel o il M5S per passare con Renzi. Ma lo stesso si può dire per tutti gli altri partiti: quando il flusso di parlamentari è «in entrata» è la democrazia che trionfa, quando è «in uscita» si grida al tradimento.

Corriere 19.1.15
Colle, la sinistra pd fa pesare il caso Cofferati
Sfogo dell’ex cgil: Renzi mi insulta. Fassina: liquidandolo così ci saranno pesanti ripercussioni sul Quirinale
In Liguria Sel e civatiani si mobilitano per un nome anti Paita
Passo avanti di Freccero: «Sono interessato»
di Erika Dellacasa


GENOVA Il giorno dopo lo strappo di Sergio Cofferati, dopo l’annuncio della sua uscita dal Pd, dopo gli applausi e le critiche, le accuse di voler sabotare le elezioni regionali, le riunioni di Sel e i dubbi dei civatiani, il caso deborda come un fiume in piena dai confini della Liguria. Pesano le parole di Renzi che ha definito Cofferati «poco credibile», riducendo il suo gesto alla stizza per aver perso le primarie contro Raffaella Paita. E per la minoranza Pd il «non finisce qui» rimbalza a Roma.
«Il modo sbrigativo, offensivo con cui è stata trattata la scelta di Cofferati — ha detto ieri Stefano Fassina — peserà notevolmente sul voto per il Quirinale». Replica il senatore pd Andrea Marcucci: «Fassina? Quando si dice la responsabilità...». La maggior parte dei renziani però preferisce non commentare. ««Renzi invece di rispondermi sul merito mi ha insultato» ha invece detto ieri Cofferati che ha passato la giornata in famiglia prima di partire per Strasburgo.
È possibile che all’ex leader della Cgil arrivi a breve una proposta di candidatura da parte del movimento che si sta organizzando in alternativa a Raffaella Paita, candidata ufficiale del centrosinstra, ma è quasi un passaggio formale, un segno di rispetto: Cofferati ben difficilmente accetterà.
E fra le forze a sinistra è iniziata la ricerca del candidato. «Non mi piace il totonomi — dice Stefano Quaranta, deputato di Sel — perché proprio averne fatto una questione di persone e non di programmi ha generato questo mostro di primarie andate a male. Cerchiamo di individuare obiettivi comuni, poi il nome condiviso lo troveremo». Gli fa eco l’eurodeputato Renata Briano: i civatiani liguri hanno già annunciato che non voteranno Paita e lavorano a una lista civica, ma restano dentro al Pd: «Certo — dice Briano — nel Pd siamo a casa nostra».
Ma i nomi girano già. C’è ad esempio quello di Carlo Freccero. Il guru dei mass media dice di essere «risalito in superficie dall’abisso della Rai» e pronto a nuove esperienze. E il pensiero va a Sergio Cofferati: «Anche lui si è liberato. È un momento di grandi cambiamenti». Freccero sente di avere l’energia necessaria («me ne accorgo da come scrivo, come penso, come parlo») e volentieri la metterebbe a disposizione dei progetti che ribollono a sinistra, rivitalizzati dall’uscita choc dell’europarlamentare. «Una cosa grave — dice Freccero — e posso immaginare quanto sia costata. Ma quando un ministro come Roberta Pinotti parla di un’alleanza con il centrodestra di Alfano come cosa acquisita vuol dire che non c’è più il centrosinistra e si è creata la nuova Dc».
Freccero è interessato ad avere un ruolo? «Prima di parlare di me aspettiamo di vedere cosa decide di fare Cofferati. Però sono interessato in primis come cittadino a quel che si sta muovendo a sinistra. Perché, infatti, deve esserci una certa sinistra in tutta Europa, in Spagna, in Grecia, in Germania, mentre in Italia si fa ancora così fatica? Siamo in un buon momento. Le cose devono cambiare, stanno cambiando».
Tra i papabili torna il nome del giornalista del Fatto Ferruccio Sansa che si schermisce («Mi piace troppo il lavoro che faccio, poi nessuno mi ha chiesto niente»), ma che potrebbe attirare voti dal M5S. Esponenti del Movimento sono interessati dall’avventura che si sta organizzando a sinistra per le Regionali, Beppe Grillo è pronto a fulminarli e ha già dato uno stop ma l’elettorato, si sa, va dove vuole. Circola infine anche il nome del magistrato Anna Canepa, toga antimafia e segretario di Md.

Corriere 19.1.15
Renzi preoccupato per le tensioni. Ma non dà spazio alla minoranza
I timori per l’uso strumentale dello strappo di Cofferati e gli effetti sui cittadini
di Maria Teresa Meli


ROMA Non sono giorni facili, questi, per Matteo Renzi. La partita del Quirinale, già di per sé delicatissima, si gioca in contemporanea con quella dell’Italicum. Il premier continua a rassicurare i suoi: «Vedrete, riusciremo a fare la riforma elettorale lo stesso».
Ma la minoranza pd non sembra intenzionata a spianare la strada al presidente del Consiglio, che oggi dovrebbe incontrare i senatori del suo partito. Eppure l’inquilino di palazzo Chigi non è disposto ad avviare una nuova trattativa sulla riforma: «Vale il testo della Direzione» dice. E ai fedelissimi anticipa: «Non farò nessuna nuova apertura».
Come se non bastasse, l’uscita di Sergio Cofferati ha riacceso il dibattito interno e moltiplicato le voci di una possibile scissione, complicando ulteriormente le cose a Renzi. Il premier non ritiene che l’ex segretario della Cgil abbia il carisma per diventare il leader incontrastato di una nuova formazione di sinistra. Tanto più che dall’adunata del Circo Massimo è passato tanto di quel tempo e che, suscitando un vespaio di polemiche e prese in giro sui social network, Cofferati se ne è andato subito dopo aver perso le primarie. Cosa, quest’ultima, che non è piaciuta affatto a Renzi: «Se si fa politica bisogna saper accettare anche le sconfitte», ha spiegato ai suoi. Senza sapere che lo stesso ex leader sindacale aveva pronunciato parole analoghe nel 2009, dopo le primarie in cui perse la sfida per la segreteria regionale della Liguria: «Quando si fa politica bisogna accettare di vincere e perdere».
« Evidentemente — commenta qualche parlamentare pd — da allora Cofferati ha cambiato idea. Del resto, non era sempre Sergio che nel 2011 dopo le contestate primarie di Napoli, poi annullate, a proposito delle file dei cinesi ai seggi, diceva: non capisco perché non dovrebbero votare?».
Comunque non è del l’appeal elettorale di Cofferati che Renzi ha paura, ma della «campagna» che viene fatta cavalcando questo strappo in un passaggio così delicato, anche da parte di esponenti della minoranza del partito. «Le elezioni del presidente della Repubblica sono imminenti, la gente si allontanerà ancora di più dalla politica se allestiamo questi brutti spettacoli e questo non è un bene per il Paese. Dovremmo essere tutti più responsabili e non pensare alle beghe di partito», spiega il presidente del Consiglio.
Già, in questi ultimi giorni Renzi in più occasioni ha rivolto agli esponenti del Partito democratico un appello al «senso di responsabilità», soprattutto nella speranza di trovare una soluzione il più unitaria possibile sul Quirinale. «Io — ha ricordato il premier ai fedelissimi — sono rimasto nel Pd, anche quando tutti dicevano che volevo farmi una mia forza politica perché contestavo molte scelte di Bersani». Come a dire, rivolto anche quanti sembrano avere un piede al Nazareno e l’altro fuori: chi ha veramente a cuore il Partito democratico combatte da dentro, non se ne va sbattendo la porta. Ed è esattamente quello che stanno contestando in queste ore a Cofferati alcuni suoi sostenitori delle primarie, come il vice sindaco di Savona. Per cercare di ridimensionare il caso ed evitare che abbia contraccolpi sull’elettorato e sui militanti, il premier pare quindi voler richiamare tutti non solo alla responsabilità, ma anche al senso di «appartenenza alla comunità del Pd».
Nonostante Renzi sia determinato ad andare avanti le polemiche di questi giorni avvelenano l’atmosfera in cui si gioca la partita del Quirinale. È vero che Silvio Berlusconi è venuto incontro al premier censurando Renato Brunetta (delle invettive anti-renziane del capogruppo di Forza Italia il presidente del Consiglio e il leader di Fi avevano parlato al telefono nei giorni scorsi), ma questo non basta. Anche perché aprire la partita con i grillini è ormai difficile.
Renzi teme perciò che l’ex Cavaliere non riesca più a tenere i suoi. «Sono molto divisi», spiega il premier ai compagni di partito a lui più vicini. Il che, ovviamente, non è un bene, per lui in questo momento. Proprio per questo deve riuscire a ricompattare quasi tutto il Pd almeno sul Quirinale. Come? «Magari con una sorpresa», risponde lui enigmatico a chi glielo chiede.

La Stampa 19.1.15
Orfini: non sono normali primarie col centrodestra
“Però Cofferati sbaglia ad andarsene”
intervista di Francesca Schianchi


«Credo che Cofferati abbia sbagliato e spero che, ripensandoci a freddo, possa tornare sui suoi passi. Ci sono stati comportamenti inaccettabili nelle primarie e alcuni seggi sono stati annullati: ma arrivare a lasciare il Pd mi sembra una scelta incomprensibile».
Presidente Orfini, il voto ligure ha ucciso le primarie, come dice il suo collega Damiano?
«Noi alle primarie non vogliamo rinunciare, ma hanno bisogno di manutenzione. Che a primarie del centrosinistra partecipino politici di centrodestra non è normale».
E’ quello che lamenta Cofferati.
«Infatti credo si debbano dare risposte politiche alle questioni che pone. Sul tema della coalizione, le primarie non hanno deciso nulla. Io penso che il Pd debba presentarsi alle Regionali con una coalizione di centrosinistra».
Renzi ha sottovalutato la vicenda?
«Nessuno l’ha sottovalutata. Dobbiamo imparare a vivere meglio le tensioni delle primarie, e recuperare la consapevolezza di essere una comunità. Sono certo che la Paita lavorerà per questo».
Anche secondo lei, come per molti renziani, Cofferati non sa perdere?
«Ripeto: penso abbia sbagliato. Ma alcune risposte sono assurde: qualcuno gli chiede di dimettersi dall’Europarlamento, mi sembra un argomento da grillini, noi siamo quelli che sanno che si agisce senza vincolo di mandato. Il tema è dare risposte politiche ai temi che Cofferati ha posto».
Secondo Guerini, con la sua decisione può danneggiare il Pd…
«Stiamo vivendo una fase delicata della vita politica, è certo che strappi e rotture non fanno bene al Pd, né al Paese».
Civati parla di Pd di centrodestra.
«Una totale cretinata: in tutta Europa, il Pd è visto come paladino di chi mette in discussione le politiche di destra che hanno governato in questi anni. Solo chi ha necessità di mantenere un briciolo di spazio nel sistema politico può raccontare il Pd così. Stupisce che possa farlo qualcuno da dentro il partito».
E’ alto il rischio scissione?
«Penso di no, il Pd ha dimostrato in questi anni di saper discutere e rimanere unito».
Non teme che queste tensioni incidano sul voto sul capo dello Stato?
«Se si pensasse di scaricare le tensioni interne al Pd sulle istituzioni si disonorerebbe la storia della sinistra italiana».
Fassina però dice che il caso Cofferati avrà un peso notevole.
«Se ha questa preoccupazione, sono certo che lavorerà per evitare il rischio».
Sul presidente della Repubblica, Alfano chiede un nome di centrodestra.
«Non è il modo corretto di iniziare una discussione. Cercheremo di coinvolgere tutti, ma non accetteremo si parta da veti e preclusioni».

La Stampa 19.1.15
L’ora dei falsi dossier e dei veleni
di Marcello Sorgi


Nel Transatlantico di Montecitorio, tradizionale crocevia di chiacchiere e di trame, da qualche giorno proliferano i capannelli “monoteistici”, quelli nei quali si ritrovano i deputati “fedeli” ad un unico candidato Presidente ed è proprio da questi crocchi che talora partono tam-tam avvelenati contro i concorrenti. L’espressione più usata è: «Sì, ma...». Padoan? «Sì, ma il decreto fiscale...». Veltroni? «Sì, ma Odevaine...». Mattarella? «Sì, ma all’estero chi lo conosce?». Un brodo di coltura nel quale cuociono malignità di ogni tipo, lasciate correre al solo scopo di screditare, con l’idea che qualcosa resterà. Roba che ogni tanto finisce, con grande rilievo, sui giornali: in una stagione di anti-politica “vanno” molto gli anatemi anti-casta, anche se talora attingono a notizie false. Come nel caso di due ex presidenti del Consiglio e dell’attuale ministro della Difesa.
Giuliano Amato, ad esempio, si trascina da anni la nomea di cumulatore di pensioni e la diceria è ricominciata a circolare nei giorni scorsi. Ma da oltre un anno, da quando è giudice della Corte Costituzionale, Amato percepisce unicamente lo stipendio della Consulta, senza cumuli, né con la pensione, né con altro: da anni l’ex presidente del Consiglio gira il suo vitalizio da ex parlamentare ad un istituto di beneficienza, mentre per quanto riguarda la pensione, subito dopo la nomina alla Corte Costituzionale ha fatto domanda di auto-sospensione all’Inps e vi ha rinunciato.
Anche Romano Prodi è periodicamente preso di mira, nonostante il Professore abbia detto, senza se e senza ma, di non essere interessato al Quirinale, anzi di essere amareggiato per essere coinvolto una volta ancora nel consueto tritacarne. Nei giorni scorsi è stato pubblicato, con grande rilievo da un giornale di centrodestra, che il monte-pensioni del Professore ammonterebbe a 15 mila euro al mese. In realtà la cifra denunciata (e cumulata in conseguenza di attività a suo tempo svolte) si riferiva al lordo e dunque corrispondeva al doppio di quanto effettivamente percepito. Anche il ministro della Difesa Roberta Pinotti è stata messa nel mirino “politico-mediatico” perché, di ritorno da un vertice Nato in Galles, era rientrata a Genova a bordo di un volo militare. L’accusa iniziale, dei Cinque Stelle e poi ripresa da un quotidiano, era quella di aver utilizzato un “volo di Stato” per uso privato. Quattro entità si sono occupate del caso (Procura Militare, di Roma, Tribunale dei ministri, Corte dei Conti) e per tutte e quattro il “non luogo a procedere” è stato inequivocabile.

il Fatto 19.1.15
Toto-Colle
Nazareni e “napolitani” vanno dritti su Amato
di Fabrizio d’Esposito


Sibila, festante e perfido, un colonnello renzusconiano di Forza Italia: “Alla fine abbiamo costretto Berlusconi a scegliere, a uscire dall’ambiguità. La raccolta delle firme procede benissimo siamo già oltre il cinquanta per cento nei gruppi. Siamo maggioranza, adesso Fitto la finirà di strumentalizzare il Nazareno e di dire che sono tutti contro il patto con il premier”.
La prova di forza del documento “renziano”
Il Fato della politica ha voluto che proprio nel primo anniversario del matrimonio Nazareno (ieri, domenica 18 gennaio), Matteo Renzi pretendesse e ottenesse un’inconfutabile prova d’amore e di fedeltà da Silvio Berlusconi. Non solo il folto scalpo di Renato Brunetta, antirenziano all’ennesima potenza. Ma soprattutto un documento imposto da Denis Verdini, alfiere azzurro del renzusconismo, per fare quella conta tra deputati e senatori che sinora era sempre mancata. A dirla tutta, in passato l’atto di rottura dei documenti era sempre stato a carico delle minoranze berlusconiane poi diventate scissioniste (dai finiani agli alfaniani). Adesso, invece, l’onere della prova è stato ribaltato. E il testo steso da Paolo Romani, capogruppo al Senato, soddisfa le condizioni di Renzi per accontentare il Condannato sulla scelta del successore di Giorgio Napolitano, tra dieci giorni esatti.
Il messaggio ad Hammamet ”Riforme merito di Bettino”
Tutto era cominciato un paio di giorni fa, quando l’energico capogruppo dei deputati forzisti, Renato Brunetta, si è scagliato con forza contro il premier e il governo, ribadendo il congelamento delle riforme (compreso l’Italicum) in vista delle urne quirinalizie. Uno scontro violento, con tanto di insulti reciproci tra Brunetta e Renzi. Ed è stato a quel punto che l’ala renzusconiana di FI guidata da Verdini, sollecitata dal premier in persona, è andata al redde rationem, obbligando Berlusconi a scegliere una volta per sempre. In molti, infatti, sospettavano il solito gioco delle parti dell’ex Cavaliere, abituato a manovrare falchi (in questo caso Brunetta) e colombe (lo stesso Verdini). Ma il Pregiudicato, per accontentare lo Spregiudicato, ha addirittura sconfessato pubblicamente Brunetta e ieri, in un messaggio inviato ad Hammamet e indirizzato a Stefania Craxi, figlia di Bettino, ha confermato la linee delle colombe nazarene: “Le riforme, dopo anni di tentativi infruttuosi, sono finalmente avviate”.
Quel filo socialista che porta al Dottor Sottile
Nella lettera alla Craxi, Berlusconi intesta il processo riformatore anche al leader socialista morto in Tunisia da latitante per la giustizia, o in esilio per i suoi amici garantisti. Ed “esilio” è anche la parola usata dal Condannato che si rammarica di non poter partecipare oggi, ad Hammamet, alla cerimonia per i quindici anni dalla morte di Bettino Craxi, per “i noti problemi”. Scrive B. : “Il tuo papà è stato per me un amico leale e sincero al quale mi univa un affetto profondo, è stato un uomo più avanti del suo tempo. Le sue idee, la sua capacità di cogliere e di anticipare con lucidità i temi ancora oggi attuali della politica italiana lo tendono tuttora protagonista a pieno titolo delle vicende dei nostri giorni. La sua morte in esilio è una delle pagine più vergognose della nostra storia”. E il filo unico che lega all’attualità l’amicizia tra Craxi e Berlusconi oggi si chiama Giuliano Amato, ex braccio destro del leader socialista. Nonostante le polemiche “amiche” sulla pavidità e l’opportunismo del Dottor Sottile, “parcheggiato” da Napolitano alla Corte Costituzionale per il momento, le quotazioni di Amato nella corsa per il Colle rimangono alte. Per un semplice motivo: Renzi ha abbandonato l’idea di un presidente-cameriere ed è stato costretto a trattare su una figura “autorevole” e in grado di telefonare e parlare con tutti i leader internazionali. In realtà i profili in questa direzione sono due. Oltre Amato, c’è Romano Prodi. Ma il Professore è escluso dalla clausola del patto del Nazareno: “Mai Prodi al Quirinale”.
Il povero Cassese fa outing per “Giuliano”
Il profilo di Amato emerge ancora una volta dalle righe dell’ennesimo editoriale del Corriere della Sera, in prima fila nella lobby amatiana. Dell’articolo domenicale a colpire è soprattutto la firma, quella del giurista, già consigliere di Ciampi, Sabino Cassese. Proprio Cassese, alla vigilia di Natale, avevavergatounpezzoche di fatto era un’autocandidatura per il Colle. Ma nell’editoriale di ieri si parla esplicitamente di un presidente che deve essere scelto tra quegli aspiranti che sono stati a capo del governo o di un’assemblea parlamentare. Per il povero Cassese è stata una forte delusione tirarsi fuori dalla corsa. Sui divanetti del Transatlantico, la scorsa settimana, tenevano banco i racconti sulle cene esclusive che lo stesso Cassese ha organizzato a casa sua per promuoversi.

Repubblica 19.1.15
Renzi-Bersani, patto a due per scegliere il candidato già fissato un incontro
La sfida Amato-Mattarella
Il capo del governo: “Se ho l’appoggio di Pierluigi, il Pd è unito”
L’ex leader: “Ma non voglio essere manipolato, riparto da Prodi”
di Goffredo De Marchis


ROMA Renzi cerca Bersani e Bersani cerca Renzi. «L’incontro si farà. Magari poco prima del 29», dicono gli amici emiliani dell’ex segretario. «I contatti ci sono — racconta il premier ai suoi collaboratori —, ho mandato da lui una serie di ambasciatori. Sono pronto a vederlo ». Secondo Renzi il vertice con Bersani sarà decisivo nella partita del Quirinale almeno quanto quello con Silvio Berlusconi.
Il faccia a faccia, pur con tutte le diffidenze e i sospetti che hanno segnato i rapporti tra i due dalle primarie del 2012, andrà in scena, in maniera riservata. «Spero che ci sia, ma non voglio essere manipolato», ripete l’ex segretario. Per questo ha dichiarato solennemente qual è il suo candidato preferito per il Colle. «Romano Prodi. Io riparto da lì», ha detto. Ha messo le mani avanti, ha impedito che Palazzo Chigi potesse attribuirgli altre scelte. Quel nome lo ripeterà anche quando con il Rottamatore si guarderanno negli occhi. Per Renzi è fondamentale la sponda dell’ex leader del Pd. «Se ho l’appoggio di Bersani, tengo unito il partito anche col voto segreto». Dipende dal candidato, ma il premier è convinto di poterlo condividere insieme con «Pierluigi» e con Berlusconi. Non Prodi, per via del veto di Arcore. «Mattarella e Amato però erano nella rosa della Ditta nel 2013», ricorda Renzi parlando con i collaboratori. Eppoi ci sono altri papabili ex Ds perché «non so se quella parte del Pd accetterebbe un nome fuori dal suo perimetro, se è in grado di votarlo in maniera compatta», è il cruccio dell’ex sindaco di Firenze. In pista c’è Anna Finocchiaro, gradita anche ai leghisti e a Forza Italia. C’è il fondatore del Pd Walter Veltroni. C’è lo stesso Bersani, con la prospettiva di sancire definitivamente la pace nel Partito democratico. Quest’ultima carta, però, sembra la meno probabile: troppo coinvolto nell’attività politica, troppo presente nel dibattito quotidiano. Regola che vale anche per gli altri ex segretari di partito.
Per questo nel faccia a faccia auspicato da entrambe le parti si ripartirà da Mattarella e Amato. Due nomi sui quali, al di là della battaglia per Prodi, Pd e Fi potrebbero intercettare i voti di Nichi Vendola. Soprattutto il secondo, agli occhi della sinistra alternativa, ha nel curriculum la battaglia per i diritti civili condotta sul filo del laicismo. «Se Matteo pensa di schiacciarmi nel recinto della Ditta nella scelta del futuro capo dello Stato si sbaglia di grosso — è la posizione di Bersani — . Io non ragiono così quando si prende una decisione del genere. Il mio identikit non è una bandiera. Dev’essere una personalità autorevole e autonoma ». Ecco un esempio della difficoltà di dialogo tra i due. Bersani teme che sul faccia a faccia Renzi organizzi il suo spin, interpreti a modo suo il pensiero di altri. Il premier invece guarda con una certa ansia alle mosse dei bersaniani al Senato sulla legge elettorale. I trenta dissidenti sono quasi tutti dell’a- rea che fa capo all’ex leader. A cominciare da Miguel Gotor. «Se non si corregge la norma sui capilista dando spazio alle preferenze, l’Italicum non lo voto. Non possiamo — spiega il senatore — dare a Berlusconi ben due diritti di veto. Renzi se lo voterà con Verdini, passerà lo stesso, ma io rimango fermo sul no». Nelle prossime ore, è evidente, il premier si aspetta un segnale da Bersani che possa ridurre i numeri della “fronda” proprio com’è successo sul Jobs Act. Ma finora non è arrivato alcun segnale. A questo silenzio si aggiunge la minaccia di Stefano Fassina, altro amico di Bersani, che lega lo strappo di Cofferati alla sfida per il Colle. «Peserà sul voto, non c’è dubbio », avverte l’ex viceministro. Le trappole sono potenzialmente tante. È il motivo per cui un’intesa blindata con Bersani serve in particolare a Renzi. I bersaniani doc, come Roberto Speranza, respingono per esempio qualsiasi collegamento tra il caso Cofferati e la partita che inizia il 29. Lo stesso fa Gotor pur criticando la «politica renziana dello struzzo». Riccardo Nencini invece ricorda che il voto per il Quirinale si è sempre trasformato in prove generali per nuove formazioni politiche. «Le minoranze dei grandi partiti hanno approfittato fin dagli anni Cinquanta dell’elezione del Capo dello Stato per battere un colpo. La rottura di Cofferati é solo l’ultimo caso fra i tanti preparatori di questo tentativo», dice il segretario del Psi. «Tutto lascia pensare che anche stavolta il voto diventerà una prova del budino per l’organizzazione di un partito della sinistra radicale italiana». Per fermare questa impresa, Nencini tifa per Giuliano Amato e secondo i suoi calcoli tra autonomisti e socialisti in Parlamento il Dottor Sottile può contare su 31 voti sicuri. Ricomincerà quindi questa settimana il gioco del peso delle correnti e delle cene segrete per studiare le strategie. Oggi gli occhi sono puntati sulla riunione dei deputati dalemiani dell’associazione Italianieuropei, convocata, precisa l’ex premier, per fare il punto sulle risorse della Fondazione e sulla struttura organizzativa.

Repubblica 19.1.15
Se l’Italicum venisse insabbiato, i riflessi si allungherebbero sulla corsa al Colle
Riforma elettorale e Quirinale in quindici giorni il premier si gioca tutto
I dissidenti sulle riforme sono pronti a vendicarsi con il voto segreto
La sinistra potrebbe optare per Cofferati per il dopo Napolitano
di Stefano Folli


I QUINDICI giorni che possono cambiare il sistema politico. E di conseguenza determinare il destino di Matteo Renzi come “uomo nuovo” della scena pubblica, protagonista e principale beneficiario del riassetto dei poteri. Sono le due settimane che cominciano oggi e in cui si decide la legge elettorale al Senato e il nome del presidente della Repubblica nel Parlamento riunito in seduta congiunta.
L’intreccio fra i due eventi è intuitivo, ma forse non è stato ancora pienamente soppesato. Renzi gioca la carta della riforma elettorale adesso — pur rinviandone la validità, almeno sulla carta, all’estate 2016 — per valutare i rapporti di forza nel centrosinistra e anche all’interno del recinto che si chiama “patto del Nazareno”. La determinazione è evidente, così come la volontà di non fare sconti a chi storce il naso di fronte ad alcuni aspetti chiave della riforma, in primo luogo i capilista bloccati. Da domani si andrà a una prova di forza, sullo sfondo di un gioco di emendamenti e sub-emendamenti in grado di avere due sbocchi.
Il primo è un rinvio della legge a dopo le elezioni presidenziali, ma Renzi tiene troppo ad affermare qui e subito il punto politico e non intende concedere altro tempo ai dubbiosi. Il secondo è un’accelerazione che non esclude forzature procedurali. In tal caso avremo un certo numero di distinguo e anche voti contrari alla luce del sole. Come è noto gli avversari della riforma non mancano nel Pd, ma ce ne sono anche in Forza Italia e fra i centristi. Molti di loro verranno allo scoperto.
La domanda è: quanti sono? E ancora: sommando i dissidenti dei tre maggiori gruppi, è possibile che la legge sia affossata a Palazzo Madama contro tutte le previsioni? Oppure dobbiamo attenderci un mero colpo di coda da parte di chi ha poco da perdere perché consapevole di non essere più ricandidabile?
Il premier ritiene da tempo che la frangia del «no» farà pochi danni. La considera come la fisiologica manifestazione di un’area minoritaria e non se ne cura.
Ma è davvero così? Il quesito non è irrilevante. Certo, se la legge fosse insabbiata, i riflessi sarebbero clamorosi e finirebbero per allungarsi sull’elezione del capo dello Stato. Sarebbe strano il contrario. Del resto, in questi giorni qualsiasi novità politica sembra dover influenzare la scelta dei «grandi elettori». Tuttavia il caso Cofferati, dopo le bizzarre primarie della Liguria, avrà comunque un esito circoscritto: l’ex segretario generale della Cgil che ha lasciato il Pd potrà diventare un candidato «di bandiera» al Quirinale per i gruppi della sinistra anti-Renzi, ma non cambia le carte del gioco. La riforma elettorale invece è un vero scoglio e non solo per l’ipotesi una bocciatura. Anche nel caso in cui la tenacia di Renzi e dei suoi collaboratori, a cominciare dal capogruppo Zanda, ottenesse di far approvare la legge, sarà necessario fare il conto dei caduti e dei feriti sul campo. Un numero considerevole di dissidenti sarebbe un brutto segnale in vista del Quirinale. I franchi tiratori si sentirebbero incoraggiati, dal momento che il voto segreto è sempre una tentazione irresistibile per chi ha qualche malumore da esprimere. E di malumori ce ne sono parecchi, fra Pd e centrodestra.
In fondo la strategia della quarta votazione (far emergere un candidato forte solo quando il quorum si abbassa a 505 voti, la maggioranza assoluta) ha una sua logica. Si stringe un accordo allargato, in grado di abbracciare il fronte berlusconiano e i centristi di Alfano, ma lo si mette alla prova del voto solo quando la soglia scende e il partito dei franchi tiratori può essere sfidato con speranza di successo. Come strategia, non offre una sensazione di forza e sicurezza. Ma potrebbe funzionare, specie se il nome del prescelto avrà un profilo autorevole e non apparirà un semplice emissario del potere politico. Fino ad allora, però, guai a sottovalutare il movimento degli scontenti. Che sulla legge elettorale avrà la prima occasione per rivelarsi.

Corriere 19.1.15
Il leader del Carroccio: io comunista
Poi propone di tassare le prostitute


Sostiene il leader della Lega che frutterebbe almeno 2 miliardi, soldi utili per le casse dello Stato. Matteo Salvini propone di tassare le prostitute «come avviene in tutti i Paesi civili d’Europa». Il segretario del Carroccio, è stato intervistato alla trasmissione della Rai Che tempo che fa . «Mi sento più di sinistra io di Renzi che preferisce frequentare i banchieri — ha sostenuto — io sono un comunista alla vecchia maniera». Sulle alleanze con il centrodestra nessuna indicazione per ora: «Io guardo avanti, Berlusconi ha fatto tantissimo, però andiamo avanti: parlo a quei milioni di italiani che aspettano un progetto concreto nuovo e penso di poterglielo offrire».

il Fatto 19.1.15
Servizietto pubblico
Il Fatto non esiste: Je suis Fabiofaziò


Sabato sera a Che tempo che fa su Raitre Fabio Fazio ha mostrato con un certo piglio il numero speciale di Charlie Hebdo stampato dopo la strage. Aveva l’aria di essere andato di persona a Parigi ad acquistare la sua copia, mentre è più probabile che quella esibita fosse una delle 600mila diffuse in questi giorni con il Fatto Quotidiano. E in esclusiva, cosicché senza l’iniziativa del Fatto i lettori italiani per sfogliare Charlie sarebbero dovuti andare in Francia invece che all’edicola sotto casa. Ma questo in tv Fazio non lo ha detto. Come mai? Facciamo delle ipotesi. Il Fatto gli sta antipatico. Non voleva dispiacere a Repubblica e al Corriere della Sera di cui Che tempo che fa è la succursale televisiva. Glielo ha proibito il suo agente. Non sa fare il suo lavoro visto che ha omesso di dare una notizia. È una persona scorretta. Oppure, probabilmente, tutte queste cose insieme. Naturalmente che Fazio lavori per la Rai, che dovrebbe essere il servizio pubblico pagato con il canone e non la sua bottega personale, è un particolare secondario.

Repubblica 19.1.15
Milano, prete pedofilo al convegno anti gay
Imbarazzo all’evento in difesa della famiglia: alle spalle di Maroni e Formigoni spunta Mauro Inzoli, detto don Mercedes
Polemica sul religioso, amante delle auto di lusso, condannato dal Vaticano a ritirarsi a vita privata per abusi
di Matteo Pucciarelli


MILANO È seduto in seconda fila, sorridente. Dietro al presidente Roberto Maroni e al suo predecessore Roberto Formigoni, di cui per lungo tempo è stato confessore. Al discusso convegno di sabato in difesa della famiglia “tradizionale” c’era anche don Mauro Inzoli, il prete pedofilo costretto dallo stesso Vaticano a ritirarsi a vita privata. Con parole peraltro durissime, firmate nel giugno scorso dalla Congregazione per la dottrina della fede: «Inzoli non potrà assumere ruoli di responsabilità e operare in enti a scopo educativo. Non potrà dimorare nella Diocesi di Crema, entrarvi e svolgere in essa qualsiasi atto ministeriale. Dovrà inoltre intraprendere, per almeno cinque anni, un’adeguata psicoterapia». Sembra quasi la legge del contrappasso: una delle associazioni che aveva organizzato il forum (Obiettivo Chaire) è nata proprio per curare i gay («Diamo aiuto a quello che ce lo chiedono, non è un obbligo», è il loro refrain), quando invece una persona da curare con “adeguata psicoterapia” era proprio lì davanti.
La sua presenza al forum sembrava essere passata inosservata. Inzoli, già fondatore del Banco Alimentare e soprannominato “don Mercedes” per il suo tenore di vita, era l’animatore della onlus “Fraternità”. Nel 2010 si comincia a parlare della sua pedofilia, il caso diventa oggetto di indagine all’interno della Chiesa e alla fine arriva la lettera del vescovo di Crema Oscar Cantoni: «In considerazione della gravità dei comportamenti e del conseguente scandalo, provocato da abusi su minori, don Inzoli è invitato a una vita di preghiera e di umile riservatezza, come segni di conversione e di penitenza. Gli è inoltre prescritto di sottostare ad alcune restrizioni, la cui inosservanza comporterà la dimissione dallo stato clericale ».
Un anno fa il senatore lombardo di Sel Franco Bordo presenta un esposto in Procura contro don Inzoli e viene aperta un’inchiesta, con il magistrato Roberto Di Martino che chiede una rogatoria al Vaticano. È stato Bordo ad accorgersi di lui, dalla foto di un giornale che ritraeva la platea dell’auditorium Testori: «Un bel quadretto, non c’è che dire — dice — la Regione a braccetto con il prete pedofilo è la ciliegina sulla torta di un convegno che, nonostante le rassicurazioni, nei fatti si è dimostrato essere omofobo ».
Il direttore di Tempi Luigi Amicone, moderatore del convegno, spiega di non essersi accorto di don Inzoli. «È un libero cittadino e non mi risulta che abbia restrizioni alla circolazione da parte della giustizia italiana. Ma — aggiunge — se come lui sa benissimo ha un problema molto serio aperto con la Chiesa, mi pare che non ci volesse un genio per capire che se si voleva ferire la giornata di sabato, quello era il modo: presentarsi nelle prime file». Mentre un altro dei relatori, l’ex deputato del Pd Mario Adinolfi, contrattacca: «La pedofilia mi fa schifo. Detto questo, chiederei un minimo di equanimità al prossimo congresso dei radicali con Mambro e Fioravanti. Tranquilli, nel loro caso non dovete fare neanche la fatica di fare lo screening di ogni singola faccia del pubblico. Loro parlano dal palco».
Negli ambienti della Regione il passaparola sull’apparizione in platea di don Inzoli è stato velocissimo, e improvvisamente la sua presenza è stata ridotta a una sfilza di «non saprei » e «non lo conosco bene». L’incontro “Difendere la famiglia per difendere la comunità” aveva scatenato un putiferio prima e durante. “Prima” perché c’era il logo di Expo sulla locandina, con il ministro Maurizio Martina e l’ad della società dell’esposizione Giuseppe Sala che ne avevano richiesto (inutilmente) la rimozione al Pirellone; “durante” perché a un ragazzo di 22 anni era stata tolta parola, con lui ricoperto di insulti («merda», «finocchio») e portato via di peso, solo perché aveva chiesto ai presenti se erano sicuri che i loro figli fossero eterosessuali. Mancava il “dopo”: eccolo servito.

il Fatto 19.1.15
Don Mauro Inzoli, ex tesoriere di CL
Condannato dal Vaticano per abusi su minori al Convegno sulla Famiglia

DAVVERO un bel quadretto a difesa #famiglia, don Inzoli condannato dal Vaticano per abusi su minori”. È il testo di un tweet pubblicato sul profilo ufficiale di Sinistra Ecologia e Libertà, che allega una foto tratta dal Corriere della Sera, scattata durante il “Convegno sulla famiglia” tenutosi a Milano sabato, che ritrae – alle spalle del presidente della Lombardia Roberto Maroni, del suo predecessore Roberto Formigoni, del presidente del Consiglio regionale Cattaneo e dell’assessore alla cultura Cappellini – don Mauro Inzoli, ex tesoriere di Cl, soprannominato “don Mercedes” per la sua passione per la bella vita. Inzoli, indagato per casi di abusi su minori, è stato condannato dalla Congregazione per la dottrina della fede a una “pena medicinale perpetua”. “In considerazione della gravità dei comportamenti e del conseguente scandalo, provocato da abusi su minori, – si legge nel decreto – don Inzoli è invitato a una vita di preghiera e di umile riservatezza, come segni di conversione e di penitenza. Non potrà celebrare l’Eucaristia e gli altri sacramenti, né predicare”. Nulla però, a quanto pare, gli vieta di partecipare a convegni in difesa della “famiglia tradizionale”.

Corriere 19.1.15
Per tutelare i bambini non cattolici. non è l’unico caso: «anche altre segnalazioni»
La scuola cancella l’ora di religione
La diocesi: «È un errore»
La scelta del preside all’istituto svizzero di via Bossi, a Monterosso
di Vittorio Ravazzini

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Corriere 19.1.15
Consiglieri, commessi e segretari
Ecco il Parlamento dei parenti
La burocrazia più ricca di intrecci familiari d’Italia? È quella delle Camere. Legami L’ex tesoriere della Margherita Lusi aveva il fratello in Senato e il cognato alla Camera
di Sergio Rizzo

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Repubblica 19.1.15
La crisi raddoppia il patrimonio alle dieci famiglie dei Paperoni ora più ricche di 20 milioni di italiani
A partire dal 2008 drastico allargamento delle distanze sociali
Tra gli abbienti sale il ceto produttivo, giù quello delle rendite
di Federico Fubini


ROMA Mentre crollava Lehman Brothers, falliva la Grecia, l’America eleggeva il primo presidente nero, l’ultimo governo di Silvio Berlusconi scivolava via, mentre la Cina cresceva del 60% e Apple diventava la società di maggior valore al mondo, in Italia si consumava un evento storico. In sordina, però. Magari tutti erano troppo presi a seguire gli altri eventi, quelli che hanno segnato le prime pagine dal 2008 in poi, per accorgersene. Eppure non era invisibile, perché è stato uno spettacolare doppiaggio a grande velocità.
E’ andata così. Nel 2008 la ricchezza netta accumulata del 30% più povero degli italiani, poco più di 18 milioni di persone, era pari al doppio del patrimonio complessivo delle dieci famiglie più ricche del Paese. I 18,1 milioni di italiani più poveri in termini patrimoniali avevano, messi insieme, 114 miliardi di euro fra immobili, denaro liquido e risparmi investiti. Le dieci famiglie più ricche invece arrivavano a un totale di 58 miliardi di euro. In altri termini persone come Leonardo Del Vecchio, i Ferrero, i Berlusconi, Giorgio Armani o Francesco Gaetano Caltagirone, anche coalizzandosi, arrivavano a valere più o meno la metà di un gruppo di 18 milioni di persone che, in media, potevano contare su un patrimonio di 6.300 euro ciascuno.
Cinque anni dopo, e siamo nel 2013, sorpasso e doppiaggio sono già consumati: le dieci famiglie con i maggiori patrimoni ora sono diventate più ricche di quanto lo sia nel complesso il 30% degli italiani (e residenti stranieri) più poveri. Quelle grandi famiglie a questo punto detengono nel complesso 98 miliardi di euro. Per loro un balzo in avanti patrimoniale di quasi il 70%, compiuto mentre l’economia italiana balzava all’indietro di circa il 12%. I 18 milioni di italiani al fondo delle classifiche della ricchezza sono scesi invece a 96 miliardi: una scivolata in termini reali (cioè tenuto conto dell’erosione del potere d’acquisto dovuta all’inflazione) di poco superiore al 20%.
Quanto poi a quelli che in base ai patrimoni sono gli ultimi dodici milioni di abitanti, il 20% più povero della popolazione del Paese, lo squilibrio è ancora più marcato: nel 2013 le 10 famiglie più ricche d’Italia hanno risorse patrimoniali sei volte superiori alle loro.
Sono questi i risultati più sorprendenti di un approfondimento che Repubblica ha svolto sui patrimoni degli italiani durante gli anni della crisi. L’analisi si basa sui dati pubblicati dalla Banca d’Italia relativi alla ricchezza netta nel Paese e la sua suddivisione fra strati sociali. Per le famiglie con i dieci maggiori patrimoni, una lista che negli anni è cambiata, le informazioni sono tratte dalla classifica annuale dei più ricchi stilata dalla rivista Forbes . Inevitabilmente né l’una né l’altra serie di dati è perfetta, molte informazioni sui patrimoni non sono pubbliche e restano soggette a stime più o meno accurate. Ma le tendenze emergono con prepotenza e raccontano due storie di segno diverso. La prima non è a lieto fine: dal 2008 l’Italia ha subito un colossale abbattimento di ricchezza che si è scaricato con forza verso la parte bassa della scala sociale, mentre al vertice tutto si svolgeva in modo opposto. Lassù il ritmo dell’accumulazione di patrimoni personali accelerava come forse mai negli ultimi decenni. La seconda storia invece fa intravedere un po’ di luce in fondo al tunnel, perché la lista dei super-ricchi è cambiata in modo tale da alimentare qualche speranza sulle capacità del Paese di produrre in futuro più innovazione, lavoro e reddito e meno rendite più o meno parassitarie.
Sicuramente il punto di partenza di questi anni non è incoraggiante. Calcolata in euro del 2013, la ricchezza netta totale degli italiani crolla di 814 miliardi negli ultimi cinque anni (quelli per i quali sono disponibili i dati, fino appunto al 2013). Sparisce nella voragine della recessione quasi un decimo di patrimonio netto delle persone che vivono in questo Paese. Circa due terzi di questa erosione si spiega con il calo del valore delle case, mentre il resto è dovuto a perdite finanziarie o al ricorso di certe famiglie ai risparmi per sostenere le spese quotidiane.
Per la parte della ricchezza in mano ai ceti meno ricchi, “Repubblica” assume che la loro quota nel 2013 sul totale del patrimonio degli italiani sia rimasta invariata rispetto al 2010: è ad allora che risalgono gli ultimi dati disponibili. In realtà questa è una stima ottimistica, perché la tendenza alla diminuzione della quota di patrimonio dei più poveri è evidente dagli anni precedenti. Nel 2000 per esempio il 40% più povero della popolazione residente in Italia, 24 milioni di persone, aveva patrimoni pari al 4,8% della ricchezza netta totale del Paese. Dieci anni dopo quella quota era già scesa al 4,2%.
Anche così, il calo dei patrimoni della “seconda” metà d’Italia, l’Italia meno ricca, è superiore alla media del Paese. Chi è già povero si impoverisce più in fretta. Nel 2013 quei 30 milioni di italiani avevano nel complesso 829 miliardi (mentre gli altri 30 controllavano gli altri 8500). Nel 2008 però quegli stessi 30 milioni di persone avevano (in euro 2013) per l’esattezza 935 miliardi. Dunque la “seconda” metà del Paese durante la Grande Recessione è andata giù dell’11,3% in termini patrimoniali. La prima metà invece, i 30 milioni di italiani più ricchi, è scesa dell’8,2%. Gli uni non solo erano molto più poveri degli altri prima della crisi: si sono impoveriti di più durante.
Tutt’altro Paese invece per le prime dieci famiglie. La loro ricchezza netta sale di oltre il 60% in termini reali fra il 2008 e il 2013 e la loro quota sul patrimonio totale degli italiani aumenta. Cambia però anche un altro dettaglio: la loro composizione. I più ricchi del 2013 non sono gli stessi del 2008 o del 2004 e per certi aspetti formano una lista più interessante. Ora nel gruppo si trovano famiglie meno dedite alle rendite di posizione, alla speculazione pura o al rapporto con la politica per fare affari. Adesso dominano i primi posti imprenditori più impegnati nella creazione di valore, lavoro e manufatti innovativi che interessano al resto del mondo. Negli anni, escono dalla graduatoria di Forbes o scivolano in basso i capitalisti italiani che basano i loro affari su concessioni pubbliche o investimenti immobiliari e finanziari. Emblematica - non isolata - la vicenda dei Berlusconi, che negli ultimi cinque anni perdono 3,2 miliardi di patrimonio e scivolano dal primo posto del 2004, al terzo del 2008, al sesto del 2013. Sale in fretta invece il patrimonio di produttori industriali dediti all’export. Succede nell’alimentare (i Ferrero o i Perfetti), nella moda e lusso (Del Vecchio di Luxottica, Giorgio Armani, Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, Renzo Rosso), nella farmaceutica e nell’industria ad alto contenuto tecnologico (Stefano Pessina o i Rocca di Techint). Escono dalla top ten invece investitori finanziari-immobiliari come Caltagirone o chi in passato ha puntato troppo sulle banche.
Questa diversa qualità del capitale vincente è un passo avanti di un’Italia sempre più piena di squilibri. È un Paese che forse però si sta liberando, nel dolore, di alcuni dei peggiori vizi del suo capitalismo. Meglio, quanto a questo, della Gran Bretagna, dove Oxfam ha condotto un’inchiesta di cui questa di Repubblica è la replica per l’Italia. Lì i più ricchi, sempre più ricchi, restano gli eredi della vecchia nobiltà proprietaria di decine di ettari di palazzi a Londra come il duca di Westminster o i Cardogan, o imprenditori indiani come gli Hinduja o i Reuben. Se risolverà il problema della povertà, e uscirà dalla crisi, forse è l’Italia fra le due a potersi ritrovare con una marcia in più.

Corriere 19.1.15
Nel 2016 l’1% della popolazione sarà più ricco del resto del mondo
L’analisi-denuncia presentata da Oxfam (confederazione di 17 Ong che combattono la povertà in più di 100 Paesi) a Davos in Svizzera

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La Stampa 19.1.15
Il leader del Pasok e vice-premier
“Tsipras è come Harry Potter ma se vince ci coalizziamo”
Venizelos: “Il rischio Grexit non esiste. Nessuno può cacciarci dall’Euro”
La Grecia vota il 25 Manca una settimana al voto e il risultato appare quanto mai incerto
intervista onia Mastrobuoni


Vicepremier Evangelos Venizelos, se Tsipras vincesse le elezioni, accettereste un’alleanza con lui?
«C’è bisogno di un governo di unità nazionale con tutte le forze democratiche, se possibile progressiste, che credano nel futuro della Grecia nell’euro. Non siamo il passepartout di chiunque. Abbiamo portato il peso e sofferto danni enormi per governare la crisi. Appoggeremo il prossimo governo se non crea rischi per il futuro della Grecia e dell’Unione europea e se segue l’unica strategia plausibile, un piano di uscita dalla crisi, in collaborazione con i nostri partner. Chi vincerà domenica dovrà allearsi ed evitare nuove elezioni: quelle sarebbero un disastro».
Chiedereste anche di rinegoziare il debito? Tsipras è il favorito e alcuni politici e banchieri centrali cominciano a dire che se ne può discutere.
«L’eurogruppo si è già impegnato a discutere come ridurre il debito, se la Grecia completa il programma. Ero ministro delle Finanze ed ebbi un ruolo di primo piano nel 2012, quando negoziammo il taglio della quota in mano ai privati, ben 180 miliardi di euro, l’80 per cento del prodotto interno lordo! Il più grande taglio del debito della storia. Abbiamo raggiunto gli obiettivi decisi dall’eurogruppo; ora dobbiamo andare avanti. Estendere i tempi di rimborso, abbassare gli interessi e fare altri interventi tecnici che rappresentano un taglio del debito. Tecnicamente, il debito è sostenibile, paghiamo il 40 per cento in meno di interessi rispetto al 2010. Il punto di dissenso con Syriza è questo: loro sostengono che la Grecia non sarà mai in grado di ripagare tutto il debito. Ma qual è il Paese che ripaga il suo debito? Ciò che lo rende sostenibile è che se ne onorino le scadenze. Nel caso della Grecia, solo il 10 per cento, circa 35 miliardi di euro, è in mano a speculatori. Il 90 per cento è in mano a Stati o istituzioni, al sicuro».
Perché Syriza è riuscito ad attirare così tanti voti del Pasok?
«Dal ritorno della Grecia alla democrazia, nel 1974, il Pasok ha governato per metà del tempo, contribuendo enormemente alla modernizzazione del Paese. Molti cittadini associano al Pasok il costante miglioramento delle proprie condizioni di vita ma non hanno riflettuto sui problemi economici emersi nel frattempo. Quando è esplosa la crisi, nel 2010, Pasok aveva appena preso in mano il governo da Nea Demokratia, dopo 5 anni di governo disastroso. Non capimmo l’enormità dei rischi che stavamo per affrontare. Per la prima volta dovemmo imporre tagli delle pensioni e degli stipendi, cancellazione dei benefici, eccetera. Poi arrivò il primo piano di salvataggio. Gli elettori non ce l’hanno perdonato. Nella testa delle persone è stato esso a creare la crisi e non viceversa. Il nostro più grande errore è stato voler affrontare quella situazione da soli, senza coinvolgere il maggiore partito d’opposizione, Nea Demokratia, responsabile di tutto ciò che era successo. Ci prendemmo l’onere dei sacrifici. E il partito estremista Syriza, con il suo 4 per cento, accolse la rabbia degli elettori. Tsipras promise il paradiso in terra senza sacrifici, un recupero della prosperità in modo magico, come se fosse Harry Potter. In più, la sua carta vincente è non aver mai governato e non essere “responsabile” della crisi. Ma è associabile alle cause che portarono ad essa».
Cosa pensa del nuovo partito di Papandreou? L’ex premier sostiene che Pasok è diventato “parte del sistema” ma sembra prendere voti dal suo partito.
«Solo il Pasok entrerà nel prossimo Parlamento. Il tentativo di sabotaggio è fallito. I greci hanno una buona memoria. Ricordano esattamente chi ha fatto che cosa negli ultimi cinque anni».
Pensa che ci sia un rischio “Grexit”? Alcuni politici affermano che non è più una minaccia, per l’area euro.
«Non esiste il Grexit. Nessuno può cacciare un Paese dall’eurozona. E’ molto irritante leggere scenari del genere sulla stampa straniera o nelle dichiarazioni di politici europei. Danneggia non solo la Grecia, ma l’euro. Questa spudorata mancanza di responsabilità deve finire ora. L’unico pericolo in Grecia è che qualcuno si comporti in maniera irresponsabile e commetta errori che ci lascino senza un soldo mentre siamo nell’euro. Essere nell’euro, senza un euro: quello sarebbe il disastro e potrebbe costringere un governo irresponsabile a considerare soluzioni disperate. Non ci voglio neanche pensare».

La Stampa 19.1.15
Obama chiederà più tasse a ricchi per ridurre quelle della classe media
Fonti vicine all’amministrazione: la proposta annunciata al discorso sullo Stato dell’Unione

qui

Corriere 19.1.15
Effetto Piketty e lotta alla povertà Ora anche la destra si converte
di M. Ga.


NEW YORK Hillary Clinton, che si prepara a scendere in campo per le presidenziali 2016 ma tace da più di un mese, rompe il silenzio con un tweet nel quale invita il Congresso a concentrarsi sulla creazione di posti di lavoro e sull’aumento dei redditi delle famiglie del ceto medio. Ma anche la destra, benché critica rispetto alle politiche sociali di Obama, riscopre la centralità della lotta alla povertà e la necessità di sostenere la «middle class». Jeb Bush è già intervenuto più volte pubblicamente su questi temi e nei giorni scorsi è uscito allo scoperto anche Mitt Romney con un comizio nel quale ha sparato a zero su Obama: il presidente, accusato fino a ieri dalla destra di essere «socialista», ora viene messo sul banco degli imputati perché, dice l’ex governatore del Massachusetts, «negli anni della sua presidenza i ricchi sono diventati più ricchi. Le diseguaglianze nella distribuzione dei redditi sono peggiorate: in America non ci sono mai stati tanti poveri come oggi».
Romney non dice il falso: le statistiche dicono che il reddito del 10% di americani più ricchi dal 2010 al 2013 è ulteriormente cresciuto del 9%, mentre quello del 20% dei cittadini che si collocano a metà nella scala dei redditi è calato del 4,6%. Con una perdita di valore patrimoniale (soprattutto per la crisi del mercato della casa) ancora maggiore (meno 19%). La consapevolezza delle distorsioni nella distribuzione del reddito sta crescendo da tempo negli Usa come in Europa grazie alla moltiplicazione delle analisi economiche che mettono in luce il fenomeno e al successo di libri come l’ormai celebre saggio di Thomas Piketty, «Il capitale nel XXI secolo».
Certo, è curioso che oggi a provare ad alzare il vessillo della lotta alla povertà sia anche il partito che si è sempre opposto a ogni proposta obamiana di redistribuzione del reddito. Ma è anche politicamente comprensibile, visto che il lavoro e le diseguaglianze saranno comunque al centro della campagna elettorale: i repubblicani cercano quindi di aggiustare il tiro, sostenendo di aver osteggiato una politica di assistenza e tasse più alte che avrebbero penalizzato la crescita. Oggi, però, la Casa Bianca non è sotto accusa per il mancato sviluppo, visto che il Pil sale, ma proprio per non aver corretto con interventi sociali la crescente divergenza dei redditi imposta dalle forze del mercato (globalizzazione e tecnologia). In una logica elettorale ci sta anche il tentativo dei repubblicani di accusare Obama per non essere riuscito a ridurre il «gap» (oggi più della metà dei ragazzi che frequentano le scuole pubbliche hanno diritto al pasto gratis perché vengono da famiglie povere), cercando di far dimenticare i loro veti a ogni misura di redistribuzione del reddito. E’, però, sicuramente singolare che ad alzare i toni più di chiunque altro sulla questione della povertà sia quello stesso Romney protagonista, nella campagna del 2012, di un clamoroso autogol elettorale: trattò il 47% di americani più poveri da soggetti passivi (se non parassiti) sempre alla ricerca di sussidi, aggiungendo che «il mio compito non è quello di occuparmi di questa gente».

il Fatto 19.1.15
Qui Birmania
Quei fanatici di Buddha uccidono i musulmani
di Roberta Zunini


Il mondo si è abituato a un’immagine dolce e mite del buddismo. Le parole sagge che invitano alla tolleranza pronunciate dal Dalai Lama, i suoi gesti pacati, il suo sorriso risuonano dentro di noi ogni volta che pronunciamo la parola “buddismo”. Che non è una religione per come la intendiamo, cioè non vi è un Dio esterno al quale rivolgersi, da supplicare, ma lo è nel senso etimologico del termine - dal latino religo - ovvero riunirsi sotto lo stesso culto. Nel buddismo l’esistenza di un Dio fuori da noi non è prevista ma ognuno di noi possiede la cosiddetta buddità. Il problema è illuminarla, permetterle di manifestarsi. È il mistico, il divino che ogni essere umano ha in sé. Ma la buddità che emerge dal monaco buddista birmano Ashin Wirathu, diventato una sorta di rock star con migliaia di followers su twitter e centinaia di migliaia di devoti che arrivano da tutte le parti del paese per assistere ai suoi lunghissimi sermoni in un tempio di Mandalay, non è fondata sulla tolleranza, sull'immedesimazione nel prossimo come si pensa debba essere quella “allenata” di un addetto a questo culto. Lui, alzando un lembo della tonaca arancione che avvolge il corpo nudo e glabro, risponde con tono risoluto e senza l’ombra di un sorriso a coloro che lo accusano di fomentare l'odio sociale: "Si può essere pieno di bontà e di amore, ma non si può dormire accanto a un cane pazzo". Il cane pazzo è il musulmano, chi si professa devoto ad Allah, indipendentemente dal fatto che sia osservante, indipendentemente che sia un semplice fedele o un integralista islamico o, peggio, un terrorista islamico. Le sue prediche, che secondo le Organizzazioni non governative e la stampa internazionale, incitano all'odio e alla violenza nei confronti dei musulmani che vivono nel Paese, compresi i Rohingya, un gruppo di circa un milione di musulmani apolidi migrati dal Bangladesh. Sono diventati sempre più rabbiosi negli ultimi due anni. Una delle ragioni è la crescita, seppure molto contenuta dei musulmani in termini demografici, l’altra è l’abdicazione della giunta militare a favore di una “democratura” che avrebbe potuto riconoscere nuovi diritti. Secondo i nazionalisti birmani, compreso il movimento nazional-buddista “696” fondato da Wirathu, i musulmani, tutti, in blocco, dovrebbero essere cacciati dalla Birmania. Da due anni però Wirathu non solo si oppone alla diffusione dell’islam nel suo paese multietnico ma non multireligioso, dato che quasi il 90% della popolazione è di fede buddista, ma fomenta la violenza contro i musulmani. L’anno scorso il viso tondo con la testa rasata di Wirathu si è persino guadagnato la copertina di Time e il titolo: “Il volto buddista del terrore”.
I SUOI DISCORSI che durano interi pomeriggi sono preceduti da un rito di espiazione per le azioni tracotanti commesse poi, sempre più frequentemente iniziano con questa frase: “Io li definisco degli attaccabrighe, dei facinorosi, perché sono facinorosi" ( i musulmai, ndr) e finiscono così: “Sono orgoglioso di essere chiamato un buddista radicale”. Non deve procacciarsi il cibo Wirathu, per lui lo hanno già fatto i giovani monaci che, scalzi e in fila, ogni mattina vanno a raccogliere le offerte. Da qualche tempo però i cittadini più facoltosi che apprezzano la sua “crociata” devolvono ingenti somme al suo movimento. Non godono della stessa generosità i musulmani che vivono nella periferia di Mandalay, la seconda città del paese, ma soprattutto i Rohingya che languono senza lavoro e cibo in remoti campi profughi, che in realtà non sono altro che distese di stracci e teli di plastica dell’Onu a forma di tende. Tante anche in riva al mare, Perché loro vengono dal mare, sono abituati a stare in mare più che in terra dove non sembrano essere i benvenuti. L’anno scorso i sermoni del quarantottenne Wirathu hanno iniziato a tradirsi in azioni. Anzi in scontri violenti. Birmani nazionalisti seguaci di Wirathu hanno incendiato le case dei musulmani, brandito machete e coltelli. I linciaggi buddisti hanno ucciso più di 200 musulmani e costretto più di 150.000 a fuggire dalle loro case.
Quello che era iniziato due anni fa ai margini della società birmana è cresciuto fino a diventare un movimento nazionale la cui agenda include ora anche il boicottaggio di prodotti realizzati da musulmani. Dentro e fuori la Birmania. I monasteri buddisti associati al movimento “696” hanno aperto anche centri comunitari per 60.000 bambini buddisti.
L’odio sparso a piene parole da Wirathu ha iniziato a infastidire i cittadini dei paesi islamici confinanti e vicini, innescando una spirale di violenza che finora non è ancora diventata eclatante ai nostri occhi distanti. Nel mese di maggio del 2013, le autorità indonesiane avrebbero sventato quello che è stato definito un complotto per bombardare l'ambasciata birmana a Jakarta in rappresaglia per gli attacchi contro i musulmani. Oggi Wirathu fa comodo alle autorità birmane che lo definiscono un patriota ma c’è stato un tempo in cui le stesse autorità, che ancora vestivano la divisa, lo arrestarono e tennero in carcere per ben otto anni per incitamento all'odio. Nel 2011 venne scarcerato. In un recente discorso, ha descritto il massacro di studenti e abitanti musulmani della città di Meiktila come una dimostrazione di forza: “Se siamo deboli la nostra terra diventerà islamica”. Eppure il Buddismo sembra avere un posto sicuro in Myanmar. Nove persone su 10 sono buddisti, come lo sono quasi tutti gli uomini d’affari più richi, il governo, l'esercito e la polizia. Le stime della minoranza musulmana vanno dal 4 all’ 8 per cento su circa 55 milioni di birmani.
Ma Ashin Wirathu, dice il buddismo è sotto assedio da parte dei musulmani che stanno avendo più figli dei buddisti e stanno comprando terreni. In realtà attinge a rancori storici che risalgono all'epoca del colonialismo britannico in cui gli indiani, molti dei quali musulmani, vennero mandati in Birmania come funzionari e soldati.
Il Dalai Lama, dopo i disordini di marzo dell'anno scorso, ha detto che l'uccisione in nome della religione è "impensabile" e ha esortato i buddisti del Myanmar a contemplare il volto del Buddha per orientarsi e non quello di Wirathu.
Phra Paisal Visalo, studioso e monaco buddista cittadino della vicina Thailandia, spiega che il concetto di “noi e loro”, promosso dai monaci radicali del movimento birmano, come un'eresia per il buddismo. Per tutte le correnti buddiste. Ma ha lamentato che la sua critica e quella di altri leader buddisti di fuori del paese hanno avuto "un impatto minimo. “Wirathu invece ha iniziato a far proseliti anche all’estero. Soprattutto in Sri Lanka, altro paese storicamente tormentato da conflitti etnici. Anche nella “pacificata” isola sotto la punta meridionale dell'India, per anni dilaniata da una guerra civile tra gli induisti dell'etnia minoritaria Tamil e la maggioranza buddista, i monaci che sostengono il partito nazional-buddista - appena dimessosi dalla coalizione di governo perché è stata rifiutata la loro proposta di inserire nella Costituzione un articolo che consacra il Buddismo a religione di Stato - hanno stretto un'alleanza con il movimento “696” e Wirathu è stato accolto nell’isola come un vero e proprio leader politico. Anche nella solare costa occidentale dello Sri Lanka ci sono stati di recente scontri tra i buddisti-nazionalisti e i cittadini musulani, anche lì esigua minoranza come i cristiani, anch'essi presi di mira. Il partito nazionalista e i monaci non hanno gradito per nulla la recente visita di Papa Francesco e hanno fatto di tutto per boicottarla.
TRA I PIÙ CONTRARIATI dagli episodi di violenza e dalla retorica di Wirathu, ci sono alcuni dei leader della Rivoluzione zafferano del 2007, una rivolta pacifica guidata dai monaci buddisti contro il regime militare birmano. I seguaci del Buddismo non appartengono tutti alla stessa scuola. “Non ci aspettavamo questa violenza quando abbiamo cantato per la pace e la riconciliazione nel 2007”, ha detto il lama del monastero di Pauk Jadi, Ashin Nyana Nika durante una riunione sponsorizzato da gruppi musulmani per discutere la questione. (Ashin è il titolo onorifico per i monaci birmani). Ashin Sanda Wara, il capo di una scuola monastica a Yangoon, dice che i monaci del paese sono divisi quasi equamente tra moderati ed estremisti. La colonna sonora del movimento di Ashin Wirathu ha come protagonisti “quelli che vivono nel nostro paese, bevono la nostra acqua e invece di ringraziarci si dimostrano”.
Il ritornello promette: "Costruiremo un recinto con le nostre ossa, se necessario," corre ritornello della canzone.

il Fatto 19.1.15
Guerre di religione
La pacifica India divisa da integralismi di ogni fede
di R. Z.


In India, dopo la nascita del Pakistan, vive ancora la terza comunità islamica del mondo: 180 milioni di persone su un totale di 1miliardo e 200 mila abitanti. La maggior parte dei quali di fede induista. Con l'elezione lo scorso anno di Narendra Modi, leader del partito nazional-induista Bharatiya Janata Party (BJP), a primo ministro, dopo la vittoria del suo partito alle elezioni parlamentari, la cospicua minoranza musulmana si sente ancora più in pericolo. Gli scontri tra integralisti islamici e integralisti induisti sono frequenti e sanguinosi. C'è un'organizzazione estremista induista che più di altre fomenta la violenza interreligiosa ma finora non aveva potuto esprimersi pubblicamente. Ma le cose stanno cambiando. Il canale televisivo indiano pubblico Doordarshan due mesi e mezzo fa ha trasmesso in diretta un programma che si potrebbe definire eufemisticamente “insolito”: il discorso annuale di Mohan Bhagwat, il leader del movimento nazionalista-induista
Rashtriya Swayamsevak Sangh. Si tratta di un'organizzazione induista intollerante e violenta, una sorta di braccio armato del Bharatiya Janata Party (BJP). Bhagwat ha parlato, tra le altre cose, del glorioso passato dei re indiani induisti e ha sostenuto le iniziative del governo.
È STATA la prima volta nella storia dell'India indipendente in cui la sorgente ideologica del BJP ha ottenuto un vero e proprio spazio sui media statali, per non dire una consacrazione. Alquanto pericolosa. Soprattutto nei confronti della minoranza più popolosa del subcontinente. Considerato che il premier Modi fu a lungo un membro a temo pieno dell'organizzazione, la trasmissione ha sollevato le critiche dei partiti di opposizione, tra cui quello del Congresso di Sonia Ghandi. Ma anche il partito comunista che governa lo Stato del Kerala ha criticato la decisione, accusando il governo di essere telecomandato dalla controversa organizzazione.
Fondata nel 1925, l'RSS (noto anche come Sangh) è stata bandita per ben tre volte dopo l'indipendenza dell'India. Il primo divieto è stato emesso dopo l'assassinio del Mahatma Gandhi nel 1948, dato che l'organizzazione era stata accusata di aver complottato per istigare l'assassinio dell' icona nazionale. In seguito il Sangh fu scagionato ma ci vollero anni prima che si scrollasse di dosso questa infamante etichetta. Il gruppo venne nuovamente messo sotto accusa nel 1975, quando l'allora primo ministro Indira Gandhi fece arrestare l'intera leadership dell'opposizione. Ma l'RSS trovò la forza di usare a proprio favore l'interdizione allo scopo di costruire alleanze con le forze anti-Congresso e diffondere la sua influenza politica.
Alla fine del 1980, attraverso i suoi affiliati, ha lanciato un movimento di massa per costruire un tempio indù dove sorgeva la moschea medioevale della città di Ayodhya, nel nord del paese. La moschea venne demolita nel dicembre 1992 dai sostenitori di gruppi radicali indù, tra cui il RSS. Il gruppo allora fu bandito per la terza volta, ma i giudici hanno annullato la sentenza.
I critici, tuttavia, dicono che l'organizzazione continua a essere un movimento settario violento e criminale che crede nella "supremazia indù" e "predica odio" contro i musulmani e le minoranze cristiane. Vestiti in pantaloncini kaki e camicie bianche, i quadri della RSS quadri si riuniscono regolarmente in piccoli gruppi nei parchi per cantare canzoni patriottiche e parlare del glorioso passato hinduista del subcontinente. Talvolta però si incontrano per pianificare e quindi attuare attacchi contro i musulmani che vivono nel paese, la seconda realtà confessionale della federazione indiana. Questi gruppi sono chiamati shakha e sono la spina dorsale dell'organizzazione. Il Sangh sostiene di avere shakhas in 50.000 villaggi e città in tutto il paese, ma di non tenere un registro dei membri.
Secondo il sito web RSS, "solo i maschi indù" possono unirsi all'organizzazione. Per le donne, vi è un'organizzazione separata chiamata Rashtra Sevika Samiti (Comitato nazionale delle donne dei volontari).
LA POLEMICA intorno al discorso televisivo di Bhagwat ha scatenato un ampio dibattito sul rapporto tra il governo e l'RSS. Saranno i Sangh in grado di costringere il governo a seguire la propria agenda? Oppure, sarà un "leader forte" come il premier Modi a costringere l'RSS a seguire l'agenda? Oppure assistiamo a un lavoro congiunto con la finalità di stabilire l'Hindutva ( “l'induità”, ndr) come l'ideologia politica che fonda l'India moderna?
Alcuni commentatori hanno anche sollevato la questione del perché a un organismo non eletto, al di fuori del sistema democratico multipartitico, dovrebbe essere consentito di influenzare il processo decisionale del governo. Finora Modi non ha rilasciato alcun commentato. L'analista politico Neeraja Chaudhary dice che l'RSS ha mostrato grande pragmatismo sostenendo Modi come primo ministro candidato del BJP nelle elezioni del 2014, oltre a dirigenti come l'ex vice premier LK Advani.

il Fatto 19.1.15
Il ricordo di Primo Levi illumina il Giorno della memoria
a cura di Silvano Rubino


Il 27 gennaio prossimo si celebra, come ogni anno, il Giorno della memoria, che quest’anno cade a 70 anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz. E come ogni anno attorno a quella data in tutta Italia è un fiorire di eventi. Ce n’è uno in particolare che costituisce un evento nell’evento perché è dedicato all’uomo che, più di ogni altro, ha contribuito alla diffusione della conoscenza del campo di sterminio, Primo Levi. Una strenua chiarezza-I mondi di Primo Levi è il titolo di una grande mostra nella sua Torino, a Palazzo Madama, che, ovviamente, focalizza l’attenzione sul ruolo di testimonianza che Levi diede alla sua attività letteraria, da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati, ma dà spazio anche ai tanti altri aspetti della sua personalità multiforme: la sua attività di chimico, illustrata per mezzo di strumenti d’epoca concessi dal Museo dell’Università di Torino; le sue prove di scultore in filo di rame proposte per la prima volta al pubblico; le idee sulla scrittura espresse direttamente attraverso la sua voce in numerose interviste spesso inedite. Il tutto attraverso illustrazioni, video-istallazioni, oggetti d’epoca, sculture, audiovisivi, pannelli esplicativi, esperienze di realtà aumentata, con un occhio di riguardo soprattutto per gli studenti (21 gennaio-6 aprile, www.primolevi.it  ). A un’altra testimone fondamentale dell’orrore nazista è dedicata una mostra, Domani scriverai ancora…Sulle tracce di Anne Frank, ospitata nel Museo Ebraico (23 gennaio-19 marzo) di Genova, città che offre un ricco calendario di iniziative, tra cui la Lettura pubblica integrale de Il fumo di Birkenau di Liana Millu a Palazzo Ducale, dall’alba al tramonto del 25 gennaio e una mostra di arte contemporanea a tema nelle Prigioni della Torre Grimaldina dello stesso Palazzo (www.comune.genova.it ).

Repubblica 19.1.15
Bentornato Monsieur Voltaire
Il “Trattato sulla tolleranza” è di nuovo bestseller in Francia
Mentre il mondo s’interroga sull’esercizio di una virtù che accoglie tutto, tranne l’intolleranza
Dopo la strage di Parigi si sente il bisogno di ripartire dai classici dell’Illuminismo
Tutti i paradossi di un principio che appare al tempo stesso necessario e impossibile
di Michela Marezano


«LA tolleranza è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana. Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all’errore. Non resta dunque che perdonarci vicendevolmente le nostre follie». Era il 1763 quando Voltaire, nel Trattato sulla tolleranza, non solo condannava ogni forma di fanatismo, ma invitava anche a riflettere sull’inadeguatezza del proprio linguaggio, sull’insensatezza delle proprie opinioni, sull’imperfezione delle proprie leggi. Non solo spiegava che l’intolleranza è madre di ogni ipocrisia e di ogni ribellione, ma spingeva anche i francesi a considerare tutti gli uomini come fratelli.
«Come? Mio fratelli il turco? Mio fratello il cinese? L’ebreo? Il siamese? Sì, senza dubbio. Non siamo tutti figli delle stesso padre e creature dello stesso Dio?».
Un elogio della tolleranza, quindi. Senza alcuna riserva. Il che forse spiega perché, dopo i fatti tragici che hanno dilaniato la Francia, questo Trattato si ritrovi oggi in vetta alle classifiche dei libri più venduti. È come se sembrasse inevitabile ripartire da lì per interrogarsi sui pilastri della democrazia e della libertà. Non è d’altronde in nome della tolleranza che nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 viene per la prima volta proclamato il diritto di ogni essere umano alla libertà di opinione e di espressione? Non è la tolleranza che rende possibile dialogo e confronto? Non è lei, e solo lei, che permette a chi non la pensa nello stesso modo, ha abitudini diverse, crede in Dio oppure è ateo, di vivere insieme, accettarsi, rispettarsi, riconoscersi?
Leggere o rileggere il Trattato sulla tolleranza , in fondo, è un modo per riappropriarsi delle proprie radici. Scritto da Voltaire all’epoca dell’ affaire Calas – quando un protestante era stato condannato a morte dopo essere stato ingiustamente accusato di aver ucciso il figlio convertitosi al cattolicesimo, mentre di fatto il ragazzo si era suicidato – il Trattato affronta il tema del fanatismo attraverso il prisma della carità e dell’indulgenza. A differenza di Locke che nella Lettera sulla tolleranza ( 1689) si concentra principalmente sulla questione politica del rapporto tra Stato e Chiesa, Voltaire fa non solo l’elogio della ragione, ma anche della dolcezza: la tolleranza è una virtù che porta a rispettare l’altro e le sue differenze; è quel valore che deve spingere chi «accende un cero in pieno giorno per celebrare Dio» a sopportare «coloro che si accontentano della luce del sole». Ma che vuol dire, oggi, tollerare? Si può veramente tollerare tutto, anche l’intolleranza, in nome della tolleranza?
Per il filosofo anglosassone Bernard Williams, la tolleranza è al tempo stesso «necessaria» e «impossibile». È necessario tollerarsi a vicenda se si vuole organizzare il vivere-insieme quando si hanno opinioni morali, politiche e religiose differenti. Ma è anche impossibile essere fino in fondo tolleranti con gli altri – come ammette chiunque sia del tutto sincero con se stesso – quando gli altri proclamano idee e valori che ci risultano intollerabili, quando difendono idee che riteniamo sbagliate, quando esprimono opinioni che consideriamo infondate. Siamo tutti pronti a scendere in strada per difendere la tolleranza, ma come reagiamo poi quando qualcuno ci offende veramente? La tolleranza che si invoca, purtroppo, è quasi sempre la tolleranza altrui, quella che gli altri dovrebbero avere nei nostri confronti più che quella che dovremmo noi avere nei loro.
Non è d’altronde lo stesso Voltaire che, dopo essersi mobilitato per difendere Jean Calas e aver inondato l’Europa di lettere per sensibilizzare i potenti nei confronti di questa famiglia protestante che in privato definiva “imbecille”, a istigare le autorità contro Jean-Jacques Rousseau considerandolo un nemico pubblico perché aveva pubblicato il Contratto sociale in cui celebrava la superiorità dello stato di natura? Non è proprio in Francia, in cui si può ridere di tutto, che si è deciso di non ridere della battuta di Dieudonné quando ha scritto: Je suis Charlie Coulibaly ( uno dei terroristi di Parigi) — battuta certo dissennata, stupida e volgare, ma che resta pur sempre una battuta come lui stesso rivendica, esattamente come quelle pubblicate da Charlie Hebdo ? La tolleranza, diceva Voltaire, è la capacità di sopportare anche ciò che si disapprova. È la voglia di immaginare, come scrive Hannah Arendt, che un’altra persona possa aver ragione. È la possibilità di rimettersi in discussione, anche quando qualcuno deride ciò in cui noi crediamo, che si tratti della caricature di Maometto o di quelle del Papa, di una battuta su nostra madre o sulla madre di un amico. Dietro la tolleranza, per dirla in altre parole, c’è sempre l’accettazione dell’alterità. Anche quando quest’alterità ci disturba, ci provoca, ci destabilizza.
Nessun limite allora? Forse solo l’intolleranza. Visto che tollerare l’intolleranza nel nome della tolleranza equivarrebbe a distruggerla. Tolleranza e intolleranza si elidono reciprocamente. La tolleranza, infatti, permette a tutti di affermare o negare qualcosa, senza imbarazzarsi di fronte alle contraddizioni. Ci può essere chi afferma che «A esiste» e chi, al contrario, nega l’esistenza di A affermando che «A non esiste». L’intolleranza, invece, non sopporta le contraddizioni e ha come solo scopo quello di distruggere. Non si limita a negare, ma cancella, elimina, fa tabula rasa. Ecco perché, se la tolleranza tollerasse l’intolleranza, finirebbe con l’esserne fagocitata. Proprio come la libertà che, come spiega in On liberty John Stuart Mill un secolo dopo la pubblicazione del Trattato sulla tolleranza , «non è più libertà nel momento in cui ci consente di alienare la libertà».
IL LIBRO E L’AUTORE Il Trattato sulla tolleranza è una delle opere più celebri di Voltaire, pubblicata in Francia la prima volta nel 1763 Il filosofo aveva 69 anni

Corriere 19.1.15
Il rischio nascosto nei neo nazionalismi
La crisi ha spalancato la strada a movimenti populisti
di Massimo Nava


«Siamo in guerra» si dice nell’Europa sconvolta dal terrorismo. Che sia slogan, scelta politica, reazione emotiva o tutte queste cose poco importa. Conta l’adesione delle opinioni pubbliche all’idea che non si tratti solo di orrendi attentati, bensì di una dichiarazione di guerra al cuore delle nostre società. In guerra, come ricorda Canetti, «le religioni nazionali si acutizzano in modo particolare», anche se non si sa bene di che pasta sia fatta questa «religione» nazionale: un misto di lingua, storia, identità, confini, valori condivisi, ma non più determinati da razza, origini etniche, pratiche religiose.
In tempi di prosperità, l’Europa ha felicemente convissuto con l’indeterminatezza delle identità nazionali, coltivando il progetto dell’integrazione politica, oltre che monetaria. E la consapevolezza delle tragedie provocate dai nazionalismi nel corso dell’ultimo secolo ha favorito il riconoscimento di un’identità sovranazionale.
La crisi economica, le reazioni miopi delle classi dirigenti, l’immigrazione incontrollata, l’allargamento improvvisato hanno spianato la strada a movimenti xenofobi, populisti, antieuropei, che un po’ dovunque hanno complicato la vita dei governi e il processo di adesione al progetto europeo. Lo «straniero» visto come concorrente o come nemico è diventato un luogo comune costruito non solo su pregiudizi, ma anche sulla percezione che troppe situazioni stiano sfuggendo di mano.
Il primo campanello d’allarme è stato la bocciatura francese del trattato costituzionale. Il secondo, ancora in Francia, è stato la rivolta delle periferie che ha evidenziato il potenziale eversivo di masse di giovani poco integrati, immigrati di seconda e terza generazione, ma di nazionalità francese, disoccupati come milioni di giovani europei.
Da allora, sono rintoccati molti altri campanelli, ma sono spesso prevalsi egoismi nazionali, miopi calcoli contabili, inconsistenza sulla scena internazionale, sterili opposizioni fra Nord e Sud d’Europa.
Il terrorismo ha stravolto le questioni sul tappeto. Gli argomenti del facile populismo trovano oggi dignità nella riscoperta del nazionalismo, inteso come identità, valori, luogo di nascita, religione.
Anche sotto questo profilo, la Francia ha preparato il terreno. Chirac fece votare una legge sui principi della laicità, che si tradussero in un divieto di veli e simboli religiosi. Sarkozy lanciò un dibattito sull’identità nazionale che di fatto si concentrò sul rapporto con una religione, l’Islam. Da Hollande è giunto un solenne richiamo ai valori della République : solidarietà, integrazione, libertà di espressione. Ma la loro traduzione suona nel senso che se i «valori sono minacciati» c’è qualcuno che li minaccia e contro il quale occorre sollevarsi, combattere.
L’«alternativa» nazionale, la paura di perdita d’identità, della «sottomissione all’Islam», dell’«aggressione esterna» — prerogative del populismo — sono entrate nel linguaggio comune, nei media, nei programmi dei partiti, nell’editoria di successo, come dimostra il caso Houellebecq. Anche il dibattito su Schengen risente della preoccupazione di difendere confini nazionali rispetto all’ideale della libera circolazione.
Di questo passo, l’Europa rischia di perdere ancora il treno della Storia. La riscoperta dei nazionalismi allarga il solco tra Nord e Sud, accentua le forze centrifughe, dà dignità di proposta politica al populismo. Poco o nulla di ciò che potrebbe salvarci — difesa europea, integrazione politica, ricerca, investimenti — viene seriamente portato avanti. «Siamo in guerra», ma disarmati agitiamo le bandiere di un altro secolo.

Repubblica 19.1.15
L’inutile fatica di migliorare il passato invece del futuro
di Gabriele Romagnoli


IL DECLINISMO è un’ideologia diffusa, una delle ultime. Contrariamente a quel che pensano i suoi detrattori, pur avendo a che fare con la nostalgia e la presbiopia, non è una malattia senile: può colpire a qualunque stadio della vita, giacché anche un trentenne può convincersi che l’età dell’oro sia già trascorsa, il grande avvenire dietro le spalle, oggi sia peggiore di ieri e non meglio di domani. Non si tratta di pessimismo: quello richiede argomenti, analisi, proiezioni. È piuttosto una sensazione che si consolida attraverso un borbottio di massa, priva di logica al punto da generare l’affermazione: stavamo meglio quando stavamo peggio. Un’illusione, neppure ottica, proveniente da un’occhiata distratta nel retrovisore: guarda che cosa ci lasciamo oltre la curva. Che cosa? Mah, da qua non si vede più, e comunque era splendido. Più che di sfiducia nel futuro, si tratta di fiducia ex post nel passato: per dare un senso a quel che è stato, giustificare un percorso, una speranza sfiorita. C’è chi rivaluta storicamente la lira (moneta con cui facevamo i pezzenti in tutta Europa), chi rimpiange la coppa dei campioni (sbagliavi la prima con l’Anderlecht ed eri fuori) e perfino chi, alla vigilia della battaglia per il Quirinale, invoca i soavi democristiani (ma te lo ricordi bene Cossiga?).
Quando vivevo al Cairo e ne constatavo quotidianamente l’inarrestabile decadenza, capitava di parlare con qualcuno del luogo che scuoteva la testa: «Eh, avresti dovuto vederla vent’anni fa». Poi dicevi a un altro: «Certo che oggi la città è malmessa, ma vent’anni fa doveva essere diversa...». E quello: «Vent’anni fa era così, identica. Trent’anni fa sì che era un’altra storia!». Di lì ancora indietro, a balzi di decenni, fino a una gloria supposta, le cui testimonianze non risiedevano in memoria alcuna, ma in papiri tarlati dal tempo.
Nel testo della canzone Sunscreen (in origine un discorso per una cerimonia di laurea) si sostiene: «Accetta alcune verità indiscutibili: i prezzi aumenteranno, i politici faranno i donnaioli, anche tu invecchierai. E quando accadrà ti convincerai che quand’eri giovane i prezzi fossero ragionevoli, i politici integerrimi e i giovani rispettassero i vecchi». Il declinismo non è altro che un ritornello, la strofa centrale di un tormentone estivo, di quelli che ripetono all’infinito una serie di luoghi comuni divenuti incontestabili per pigrizia mentale condivisa: il primo amore è indimenticabile, la gioventù è la parte più felice della vita e non ci sono più gli attori di una volta. Il tempo che passa offende il nostro corpo costringendoci a tagliandi, riparazioni, sostituzioni. Anche la nostra mente riallinea, reinterpreta, resetta. Il malessere individuale diventa universale. Allo stato del fegato si fa corrispondere quello dell’Occidente: vent’anni fa bevevamo allegramente e la libertà non era minacciata. Davvero? Beh, no: vent’anni fa era uguale, ma trent’anni fa, allora sì che era diverso. I prezzi non sono mai stati bassi, i politici (con rare eccezioni) mai integerrimi, c’è sempre stato qualcuno che voleva prendersi la libertà altrui, in nome e per conto di qualche idea più o meno bizzarra o profana e al varco del tempo sono sempre state in agguato cirrosi e altri inconvenienti. Eppure tre quarti di noi sono declinisti ortodossi: sicuri che ci sia stato un meglio. È una forma di resa, totale e deleteria. Un’anestesia generalizzata a cui sono stati sottoposti per ipnosi, battage propagandistico, cattive letture. È davvero tremendo smettere di darsi da fare per migliorare il futuro e impegnarsi per migliorare il passato.

Berlinguer? Che persona splendida
Papa Wojtyla, uomo magnetico, un angelo
il Fatto 19.1.15
Assunta Almirante racconta i retroscena della sua vita
“90 anni tra fascisti, Wojtyla e Berlinguer”
intervista di Alessandro Ferrucci


Donna Assunta Almirante compie novant’anni. E ripercorre la sua vita accanto al marito Giorgio, l’uomo che da Salò passò all’Msi. Un racconto che va dal fascismo a Berlinguer, da Giovanni Paolo II ad Andreotti. Da Gianfranco Fini a Gianni Alemanno.

La data è segreta, ma nel 2015 la vedova Almirante fa 90 anni Con lei percorriamo gli Anni di Piombo (“mi telefonavano per dirmi ‘Giorgio è morto’”) e i rapporti con i potenti di allora, con un giudizio su quelli di oggi

La sintesi è dietro una mozzarella, una mozzarella come gentile omaggio. A volte “non so neanche chi le porta”. In altri casi il presente diventa della frutta, o “del pesce fresco”, un libro da autografare, una stretta di mano. L’indirizzo di Assunta Almirante non è difficile da trovare, è sempre lo stesso da quasi sessant’anni, al centro dei Parioli, quartiere storico della destra, alta borghesia, dove un cameriere in casa fisso, un’entrata di servizio, non è un’anomalia. Vedova dello storico leader missino, è la prosecuzione immaginaria del suo verbo, idolatrata e ricercata, temuta da molti big della destra, a partire da Fini (“è un pigro”), e anche del Pd (“mi hanno chiamato alcuni uomini di Renzi per capire il motivo dei miei attacchi al loro leader”). Qualche audace rivela: quest’anno compie 90 anni. Impossibile ottenere una conferma ufficiale, guai a domandarlo all’interessata se non si vuole solleticare il suo carattere deciso, molto franco, con successiva risposta piccata; i parenti stretti alzano le spalle, sorridono e a bassa voce si lasciano sfuggire: “La data di nascita è un mistero”. Anche Wikipedia è in difficoltà, segna un generico 1925, del giorno preciso non v’è traccia. Ci accoglie in salotto, passo svelto nonostante una frattura al piede, capelli perfetti, ovunque ritratti del suo Giorgio, lo studio dove un tempo la politica era attiva, è ancora intatto.
Questo salotto quante ne ha vissute?
Uhhhh, l’ira di Dio! Le mura potrebbero raccontare molto...
A partire dalle riunioni politiche.
Eccome, però mica solo missini e post missini, i democristiani erano di casa, in particolare quando gli serviva qualcosa da sistemare, o per ottenere i voti.
Quindi bussavano...
Sempre, li ho visti tutti, democristiani e non.
Chi le è rimasto maggiormente impresso?
Craxi...
Per forza, vi ha ufficialmente sdoganato.
Ma no! Tutta una messa in scena, il processo era partito da molto prima, con i Dc, appunto. La parte ufficiale è stata gestita da attori di primissimo livello.
Torniamo a Craxi, lo ha conosciuto bene?
È venuto anche a pranzo. Bella testa, aveva grandi capacità politiche. Mica come quelli di ora.
Lei non è renziana...
Per carità! E l’ho detto in televisione, quando ho dichiarato che Renzi lo vedo meglio a Cinecittà. Sa cosa ha fatto il premier?
Non l'avrà presa benissimo...
Mi ha fatto chiamare da uno dei suoi per rendere conto delle mie dichiarazioni.
E lei?
Ho ribadito la mia idea: che sono tutte persone senza preparazione e cultura, uno così giovane non può avere l’esperienza per prendere certe decisioni.
Le piaceva Berlinguer?
Che persona splendida. Si vedevano con Giorgio, specialmente nei momenti più bui e pericolosi.
Solo loro due?
Sì, in segreto andavano fuori Roma con due macchine diverse, accompagnati dagli autisti. Scendevano dall’auto e restavano soli per cercare di capire come muoversi.
Quante volte è accaduto?
Abbastanza, non so dirle quante.
Ha visto il film di Veltroni dedicato a Berlinguer?
Non mi è piaciuto, si è soffermato troppo sulla parte finale, quella drammatica prima della morte, e ha tralasciato la chiave politica. Ci sono rimasta male, non meritava questo trattamento. Però Veltroni non lo vedrei male al Quirinale.
Nel film c'è la scena di suo marito ai funerali del leader Pci.
Una giornata drammatica, per la paura ho chiamato anche il ministero dell’Interno.
Le va di ricostruire quella mattina?
Giorgio non mi disse nulla, come niente fosse si veste, aspetta Magliaro (suo capo ufficio stampa) ed esce. Il bello è che neanche Magliaro era informato, così si fa lasciare vicino a Botteghe Oscure: ‘Ho un impegno, tu vattene al partito, ti raggiungo dopo'.
E
Non si fida, lo segue, e quando lo vede dirigersi alla camera ardente, mi chiama; disperata telefono agli Interni.
Al ritorno cosa le disse Almirante?
Che era certo della reazione positiva dei comunisti. Berlinguer era una persona perbene, anche sua figlia Bianca lo è.
Lei ha avuto una bella vita?
Bella e tormentata. Non sa quante telefonate anonime ho ricevuto, tipo: ‘Corra, hanno ammazzato di botte suo marito’, o ‘suo marito è morto’. Tutte false, ovvio, ma quanta paura.
E lei come si comportava?
(Ride e mima il gesto della cornetta) Subito una telefonata al ministero.
È mai realmente accaduto qualcosa?
No, sempre grande rispetto.
Ma vista la situazione degli anni Settanta, la mattina prima di uscire, ha mai detto a suo marito “stai attento”?
Per carità! Se mi azzardavo si infastidiva.
L'anno scorso sono stati cento anni dalla nascita di Almirante.
Non sa quante manifestazioni, ho girato tutta l’Italia, sempre il pienone, anche dentro i teatri, dalla Sicilia a Trieste, per non parlare di Napoli...
Le hanno mai chiesto di scendere in politica?
Molte volte, ma non è il mio ruolo.
Nessuno tiene unita la destra.
Lo so, questo è il punto.
Giorgia Meloni.
La situazione è troppo pesante per affidarsi a una ragazza con poca esperienza. Allora sarebbe stato meglio Ignazio La Russa, ma non ha avuto coraggio, si è ritirato da una potenziale leadership per evitare una brutta figura. E gliel’ho detto.
Non l'avrà presa bene.
Ha tirato fuori la sua risatina (e qui donna Assunta imita benissimo La Russa).
Con Fini non è mai stata molto tenera.
Mi ha chiamato dopo il furto al cimitero del busto di mio marito, mi ha offerto un aiuto economico per ripristinarlo.
Ha ringraziato e rifiutato.
Certo, ho ancora tutte le forze fisiche ed economiche per gestire le situazioni. Però questa volta l’ho realizzato di marmo, non in bronzo, altrimenti lo rubano di nuovo.
Altre volte lo ha insultato.
Fini è stata una delusione troppo forte, anche quando Giorgio era vivo. Non ha il temperamento, per essere leader bisogna essere innanzitutto coraggiosi, e poi costanti nel lavoro. Lui è un signorino, è uno pigro. Non è un lavoratore.
Alemanno?
Non si è mai impegnato, pure da Sindaco non ha convinto. Ora poi c’è la questione Mafia-Capitale, vedremo.
Lei ha dichiarato di non essere “mai stata fascista né missina”.
Vero, non ho mai abbracciato in toto la loro cultura. Ho solo amato fino in fondo il concetto di “patria”, mi sento italiana e calabrese. Questa idea l’ho portata in giro per il mondo.
Ha viaggiato molto?
Ovunque e con Giorgio, da New York al medioriente.
Chi l'ha colpita?
Beh, lo Scià di Persia. Una volta ci ha invitato a pranzo, io ero seduta alla sua destra, un uomo colto e molto emancipato. Ma a un certo punto è arrivata una ragazza per leggere le nostre mani e a Giorgio ha predetto: ‘Tra qualche anno subirà un’operazione grave, durante la quale rischierà di morire’.
Un pranzo allegro...
Quando ci è stata tradotta la frase, in automatico ho fatto le corna e ripetutamente. Mi ero dimenticata del contesto, poi ho dovuto spiegare il gesto.
Le vostre vacanze?
Spesso a Sabaudia, lì avevo un’azienda agricola, Giorgio mi chiamava ‘l’agraria’.
Colpo di fulmine?
Da parte sua, sì. Per me no.
Il vostro primo incontro?
Giorgio era stato invitato in Calabria da un mio parente, ancora non lo conoscevo, ma accompagno dei miei amici per ascoltare questa giovane promessa politica. Tutti ad ascoltarlo, affascinati, io mi rompevo un po’, così tolgo dal cappellino uno spillo e inizio a infastidire quelli davanti. E lui, dal balcone dove parlava, se ne accorge, e alla fine mi fa: ‘Mi ha preso in giro, disturbava’
E lei?
Gli ho risposto che erano miei amici, ma lui non contento ha insistito ‘mi ha distratto’, ah sì? Peggio per lei.
Caratterino, il suo.
Poi con l’autista l’ho portato in aeroporto, e in seguito ci siamo rivisti a Roma per un favore a nome di un’amica.
La prima impressione su Almirante?
Vestiva malissimo, da vergognarsi, con la camicia alla Robespierre, i sandali e le unghie di fuori.
Lei lo ha portato sulla rotta del “doppiopetto”.
Un lavorone, ci ho pensato sempre io, ma era necessario stargli dietro. E poi era distratto, a volte tornava a casa con scarpe non sue perché in treno se le toglieva e poi si rinfilava quelle del vicino.
Si divertiva di queste distrazioni?
Insomma, più che altro mi schifavo.
Lei era la ricca dei due...
Non mi sono mai lasciata mantenere, ho sempre lavorato, a ognuno il suo conto. Quando l’ho conosciuto lui non aveva la macchina io già possedevo la 130.
Lo seguiva spesso nei suoi viaggi di lavoro?
Specialmente quando ho capito che non stava più bene.
Per curarlo o per goderselo?
Tutti e due, Giorgio era molto trasandato e molto impegnato, lo obbligavo a farsi il bagno la sera, poi lo lavorava in pigiama, altrimenti la mattina lo avrebbe saltato per la fretta.
Ha mai legato con le mogli degli altri leader?
Le altre donne non erano interessate alla politica, erano più simili alla signora Andreotti, persone casalinghe.
Lei e Almirante siete stati rivoluzionari nei costumi, coppia non sposata e con figli negli anni Cinquanta: a casa come la presero?
Non mi hanno mai detto nulla, mi hanno sempre rispettato.
Tutti d'accordo?
No, non lo era nessuno, però non mi hanno mai contrastato, la mia era una famiglia moderna, avevo già casa mia a Roma, frequentavo stilisti, il teatro dell’Opera, viaggiavo.
Si ricorda la sera del successo elettorale del 1972, l’8,7% alla Camera, il 9,2% al Senato?
Memorabile, ma ancora meglio fu la vittoria in Sicilia. Però in quella occasione ho provato un po’ di paura.
Come mai?
Per andare da un comizio a un altro, certe volte lo bendavano, per non farlo vedere agli altri. Lui lasciava fare, io turbata e incredula.
Qual è stato uno degli incontri più importanti della sua vita?
Credo quello con Papa Wojtyla, uomo magnetico, un angelo. Il consigliere di mio marito era padre Spiazza, molto amico di Karol, con lui aveva condiviso le tragedie del comunismo, e del comunismo non voleva parlare.
Wojtila, al contrario, ne parlava, eccome.
La prima volta che gli hanno presentato tutti i parlamentari, al momento di salutare mio marito ha allargato le mani e poi ha detto ‘lo conosciamo, lo conosciamo’. Poi gli ha parlato vicino all’orecchio.
E cosa gli disse?
È un segreto che mi porto da anni.
Ci dica almeno il senso.
Di continuare a contrastare il comunismo.
E vero che ancora le arrivano i regali?
Tantissimi! E quando esco per Roma non sa le persone che mi fermano per una foto, una stretta di mano, la mia ex collaboratrice si innervosiva e io le dicevo ‘ma che sei scema? ’
Dei politici di oggi chi le piace?
Ma li ha visti? Sono imbarazzanti, se penso a quei tempi...

il Fatto 19.1.15
Il ragazzo di Salò e quel sì segreto al divorzio


LO SCORSO 27 giugno 2014, la diaspora missina finita in mille frange a causa dell’esplosione del berlusconismo, ha festeggiato il centenario della nascita di Giorgio Almirante, fondatore e leader del Movimento sociale italiano. Nella sua Autobiografia di un fucilatore (Edizioni Il Borghese, 1974) si presenta così, in terza persona: “Dopo l’otto settembre 1943 aderì alla Rsi e divenne capo di gabinetto, a Salò, del ministro della Cultura Popolare, Mezzasoma. Dall’aprile del 1945 al settembre del 1946 fu latitante, per sfuggire alle persecuzioni del regime dei Cln; e per vivere fece il rappresentante e il venditore ambulante”.
Da giovane Giorgio Almirante fu attore, come il papà e gli zii, ma la dittatura di Mussolini lo trasformò in un fascista convinto, prima giornalista poi politico. La parabola repubblicana di Almirante coincide con quella del Msi. Il suo motto era “Non restaurare, non rinnegare”. Dalla camicia nera al doppiopetto borghese. Tenuti ufficialmente fuori dal cosidetto arco costituzionale, i voti parlamentari del Msi spesso tornarono utili alla destra democristiana, da Scelba ad Andreotti. E fu proprio Andreotti che poi accompagnò la scissione di Democrazia Nazionale, in funzione governativa, degli anni Settanta (e che si avvalse anche di un contributo finanziario dell’allora giovane Silvio Berlusconi). Carismatico e dall’oratoria fluente, Almirante fece una volta ostruzionismo alla Camera parlando per dieci ore a braccio, senza mai fermarsi, nemmeno per andare a fare la pipì. Fu soprannominato “vescica di ferro”. Negli anni di piombo, tentò di arginare il fenomeno terroristico dei “camerati che sbagliano” e per questo incontrò segretamente il segretario del Pci Enrico Berlinguer. Fece campagna contro il divorzio ma nel segreto dell’urna votò a favore per sposare donn’Assunta. Fu lui a scegliere Gianfranco Fini come delfino ed erede cui affidare il partito. Fini, una volta chiamato al compito, tratteggiò “il fascismo del duemila”. Nel 1984, fu storica la sua visita a Botteghe Oscure per la morte di Berlinguer. Quattro anni più tardi fu lui ad andarsene per sempre.

Repubblica 19.1.15
Viktoria ricorda
Mullova e la forza di Abbado “Un maestro generoso la musica era la sua parola”
La grande violinista in tour nel nostro paese con la pianista Labèque
Un anno fa la scomparsa del direttore d’orchestra, padre di suo figlio
di Leonetta Bentivoglio


Claudio non “spiegava” i compositori, non teorizzava mai era concreto e intuitivo come me
Ho esteso il mio repertorio a Miles Davis ma senza rinunciare alla classica e alla romantica

ROMA. SPICCA in primo piano sull’elegante sito di Viktoria Mullova l’immagine di una donna seria e bellissima, uno sguardo pieno d’ombre, da indecifrabile diva moderna. A fianco è posta la foto di una bimba dall’aria cupa che suona un violino quasi più grande di lei. Sono i ritratti di Viktoria adesso e in un lontano ieri, a quattro anni, quando studiava musica nella sua Russia. E dal volto della Mullova in versione adulta affiora la stessa indole riottosa di quella minuta e arrabbiata enfant prodige.
Parliamo di una delle più geniali e acclamate violiniste emerse a fine Novecento. Nata a Mosca nel 1959, con il passare del tempo Viktoria è divenuta ancora più maliarda, come una delle modelle over 50 che oggi si vedono sulle riviste femminili più raffinate. Senz’averla logorata, la sua vita clamorosa e intrepida (nei primi anni Ottanta fuggì dall’Urss in modo drammatico e spettacolare) le ha dato un ulteriore guizzo magico e un eclettismo che le consente di dominare un’incredibile ampiezza di repertorio. Oggi fronteggia, con la medesima souplesse, musica barocca e sperimentale, romantica e world fusion. Stupisce l’intesa che questa fuoriclasse, riservata e chiusa fino alla durezza, ha stabilito con Katia Labèque, showoman travolgente al pianoforte, estroversa e impulsiva. Negli ultimi anni Viktoria e Katia si sono esibite spesso insieme, nel segno di una complementarietà «fondata sulla comune predilezione per la ricerca del nuovo», racconta Mullova, attesa in concerto con la pianista francese domani a Milano (per la Società del Quartetto). Il tour parte da Genova oggi e tocca anche Mantova (22), Firenze (24), Trieste (26), Vicenza (27) e Torino (28). «Ci piace, con Katia, avventurarci su strade inesplorate», spiega la violinista. «Siamo interpreti diverse ma con obiettivi analoghi, come la poliedricità e l’interesse per le operazioni trasversali. Oltre a Mozart, Schumann e Ravel, nel programma che portiamo in Italia figurano autori originali del nostro tempo quali Arvo Pärt e il giapponese Toru Takemitsu, la cui mirabile dimensione armonica attinge da Debussy». Nella data del concerto milanese cadrà un anno esatto dalla morte di Claudio Abbado, padre del 24enne Misha, uno dei tre figli di Viktoria. L’indimenticabile direttore d’orchestra italiano visse e lavorò a lungo con l’affascinante moscovita.
Signora Mullova, può rievocare Abbado?
«Era uno straordinario e generoso musicista: mi ha insegnato molto. Musicalmente, assai più che con le parole, comunicava tramite la sua energia e il suo carisma».
Aveva infatti fama di uomo poco loquace, anche durante le prove.
«La verità è che Claudio poteva parlare molto di musica. Ricordo certi suoi catturanti dialoghi con Maurizio Pollini sulla maniera in cui affrontare i tempi di alcuni brani. Però Abbado non “spiegava” i compositori. Non teorizzava mai. Non era astratto. Era concreto e intuitivo. Come me».
Vostro figlio ha ereditato la musicalità dei genitori?
«Fa musica con grande talento e ha un gruppo jazz dove suona il basso».
Lei vive da tempo a Londra con suo marito, il violoncellista Matthew Barley, col quale realizza programmi jazz e folk. Dai Berliner Philharmoniker e Alban Berg è passata a Miles Davis e ai Weather Reports. Metamorfosi sconvolgente… «Più che trasformarmi ho esteso il mio viaggio. Resta sempre forte e irrinunciabile la mia relazione con la musica classica e romantica. Quest’anno, fra l’altro, suonerò tanto Sibelius e Shostakovich, e sarò in tournée con l’orchestra The Age of Enlightenment eseguendo il Concerto per violino di Brahms».
Prosegue la sua collaborazione con Barley?
«Certo. Dopo il successo di Peasant Girl, un progetto che indagava gli intrecci profondi tra musica gipsy, classica e jazz, ora è andato in porto Stradivarius in Rio, ispirato dal mio amore per la musica e le canzoni brasiliane, con pezzi di Antonio Carlos Jobin, Caetano Veloso e Claudio Nucci. Abbiamo registrato un disco a Rio e ci attende un tour che include Milano il 15 marzo».
Tra i suoi due pregiatissimi strumenti settecenteschi, uno Stradivarius “Jules Falk” e un Guadagnini, qual è il preferito?
«Suono il Guardagnini, con corde di budello, per Bach, Vivaldi, Mozart e Beethoven, mentre per la musica a loro successiva scelgo lo Stradivarius, con cui ho forse sviluppato un rapporto più intenso, dato che siamo inseparabili dall’85».

Corriere 19.1.15
Opaco nel disegno e nel colore, quel Caravaggio è davvero un falso
di Vittorio Sgarbi


Caro direttore,
c’è una verità dei tribunali, e c’è una verità dell’arte.
La notizia uscita ieri sul «Corriere», «Il falso Caravaggio è vero», si riferisce all’esito di un processo per ottenere una congrua reintegrazione economica dopo un’incauta vendita. Insomma: «nessun risarcimento all’erede della tela “I bari”. Scambiato per una copia, fu battuto all’asta per 55 mila euro da Sotheby’s: vale 13 milioni». E chi l’ha detto? Il proprietario, l’acquirente, lo studioso Denis Mahon, esperto di pittura italiana del Seicento. Quante intuizioni ebbe! E oggi un omaggio alla sua impresa di conoscitore è nella mostra a palazzo Barberini a Roma, «Da Guercino a Caravaggio», i due autori a cui dedicò i suoi quasi sempre fruttuosi sforzi. Fu lui ad acquistare nel 2006 da Sotheby’s a Londra la versione dei «Bari», oggetto del contenzioso giudiziario. La verità artistica non coincide con quella giudiziaria. Gli studiosi, che videro il dipinto, lo giudicarono, com’è, una replica. E come tale fu venduto al prezzo giusto. La suggestione del critico e il potere del mercato, nonostante l’evidenza dell’opera, fecero il resto, fino a diventare una verità legalizzata. Nessuna opera può essere considerata di sicura attribuzione se non ha raggiunto l’unanimità critica. E non è questo il caso. Soprattutto in considerazione dell’indebolimento delle facoltà critiche di Denis Mahon nei suoi tardi anni, con numerosi incidenti e riconoscimenti equivoci, tra i quali si distingue quello del supposto «San Pietro» di Caravaggio, di proprietà del faccendiere Giancarlo Parretti, e anche di alcuni Guercino promossi, con il benestare del critico inglese, da tale Jadranka Bentini. L’occhio di Denis si era appannato. E, considerando assai improbabile che Caravaggio abbia eseguito due dipinti pressoché identici, il confronto con l’originale dei «Bari», commissionato dal cardinal Del Monte, proveniente dalla Collezione Barberini Colonna di Sciarra (oggi al Kimbell Art Museum di Fort Worth), è impietoso. Quanto il Caravaggio autentico è tagliente, rigoroso, nitido, tanto quello di Denis Mahon appare molle, gommoso, opaco nel disegno e nel colore. Nessun danno reale per l’ex proprietario, giacché il dipinto non vale più delle 42 mila sterline che è stato pagato. L’equivoco è ancora più evidente se si pensa che la fotografia pubblicata sul Corriere della Sera non è quella del quadro di cui si parla, ma quella dell’originale di Fort Worth, com’è evidente dalla diversa cornice e dallo spazio molto più stretto nella parte superiore. Pubblicando oggi la versione di Denis Mahon si avvertiranno le differenze, e sarà facile ristabilire la verità. D’altra parte il dipinto di Mahon non può essere detto «falso», ma semplicemente una replica più tarda, non autografa, di un altro pittore del Seicento. Diverso è l’esito giudiziario di un’analogo caso, relativo a un importante dipinto scoperto da un valoroso studioso, e autentico. Nel 1948 Andrea Busiri Vici vide, presso un mercante a Roma, una tavola con una poeticissima «Caccia in valle», e la riconobbe come un’opera di Vittore Carpaccio, più tardi riconosciuta parte superiore delle «Due cortigiane» del pittore al Museo Correr. La pagò 80 mila lire. L’antiquario, rivendicando la propria ignoranza davanti al sapere di Busiri Vici, aprì un contenzioso e ottenne un risarcimento di 2 milioni di lire, non pochi per l’epoca. In questo caso la verità giudiziaria diede ragione all’«ingenuo» venditore e, benché il quadro sia assolutamente autentico, la Sovrintendenza non lo riconobbe e ne autorizzò l’esportazione in Svizzera. Ora il dipinto è legittimamente esposto al Museo Getty di Malibu. Oggi assistiamo a un paradosso opposto. Come scrive Fabio Cavalera sul Corriere: «L’Alta Corte di Londra dà ragione alla casa d’aste. Era pressoché impossibile identificare l’autore. Il quadro prima dell’acquisto era in condizioni tali da nascondere i particolari per l’attribuzione. Merito del fiuto e della competenza di Denis Mahon che l’ha riportato agli antichi splendori consentendo dunque la scoperta». Peccato che non lo sia. Vedi come tutto è relativo!
Vittorio Sgarbi