martedì 20 gennaio 2015

il Fatto 20.1.15
Non solo pugni, il Papa vuole prendere a calci i corrotti
Francesco sempre più esplicito: colpi “dove non batte il sole” a chi li merita
di Carlo Tecce


Dopo il pugno, il calcio. Ma la pedata è per i corrotti. Che papa Francesco fosse loquace, s’era capito. Adesso s’è capito che non usa perifrasi quando è in aereo e chiacchiera con i giornalisti.
NEL VIAGGIO DI ANDATA verso Manila, dove ha celebrato messa davanti a 7 milioni di filippini, Jorge Mario Bergoglio aveva stupito con l’anatema contro quelli che offendono la mamma (cioè le religioni, in riferimento ai disegni di Charlie Hebdo su Maometto ai tragici fatti di Parigi): “Si aspettino un pugno. È normale”. Adesso, cambia destinazione e cambia registro. Ma soltanto sul pugno: “La libertà di espressione deve tener conto della realtà umana e per questo dico che deve essere prudente. Una reazione violenta non è buona, è cattiva sempre. Siamo umani e per questo è necessario essere accorti, proprio per evitare di ricevere una reazione non giusta”.
Ritirato lo sganassone, tenuta ferma la mano (destra) che mimò la botta verso un ignaro collaboratore, l’ormai famoso dottor Alberto Gasbarri, responsabile delle trasferte papali, Francesco fa esordire il calcio. E non per censurare le vignette satiriche, ma per punire i corrotti. E così racconta un aneddoto, che risale ai tempi di Buenos Aires, vent’anni fa: “Io ricordo una volta nell’anno 1994, appena nominato vescovo del quartiere di Flores di Buenos Aires, sono venuti da me due impiegati, due funzionari di un ministero. ‘Ma lei qui ha tanto bisogno, ha tanti poveri, nella Villa Miserias’. ‘Oh sì – dissi – Ma noi possiamo aiutare. Noi abbiamo, se lei vuole, un aiuto di 400 mila pesos’, allora un pesos e un dollaro era uno a uno, 400 mila dollari”. Bergoglio la prende da lontano e poi arriva al punto focale: “E voi potete fare?, chiesi. ‘Sì’. Io ascoltavo perché quanto l’offerta è tanto grande anche il santo sfida. E poi andando avanti ‘e lei per fare questo noi facciamo il deposito e poi lei ci dà la metà a noi’. In quel momento io ho pensato cosa faccio? Li insulto, gli do un calcio dove non batte mai il sole oppure faccio lo scemo. E ho fatto lo scemo. Ho detto: ‘Ma lei sa che con le vicarie non possiamo fare conto, noi dobbiamo fare il deposito in arcivescovado con la ricevuta. E li è tutto’. ‘A non sapevo, piacere’ e se ne sono andati”.
L’EPISODIO SERVE per trarne una lezione, assicura il pontefice: “Io poi ho pensato, se questi due sono atterrati direttamente senza chiedere pista, è un cattivo pensiero, è perché altri hanno accettato. Ma è un cattivo pensiero. La corruzione è facile farla. Ricordiamo questo peccatori sì, corrotti mai. Dobbiamo chiedere perdono, per quei cattolici, quei cristiani che scandalizzano con la loro corruzione, è una piaga della Chiesa. Ma ci sono tanti, tanti santi, tanti santi. Che sono peccatori, ma non corrotti”.
Superato l’incidente del “pugno”, che ha richiesto una meticolosa rettifica della sala stampa vaticano e mezzo mondo l’ha strumentalizzato per giustificare le critiche a Charlie, Francesco è tornato al tema corruzione, che più volte ha affrontato in omelie pubbliche e più volte, in privato, ha utilizzato per disarcionare il vecchio impianto curiale: ormai, oltre le mura leonine, chi comanda è un uomo di Bergoglio. Ci sono pochi superstiti del passato. Al pontefice, queste considerazioni, non erano sufficienti per accompagnare il rientro a Roma. E s’è toccato l’argomento “procreazione”, argomento vasto: “C’è chi crede che per essere buoni cattolici dobbiamo essere come conigli, ma il cristiano non deve fare figli in serie”. Poi Bergoglio ha elogiato la “paternità responsabile” (e che fa, apre al contraccettivo?). Ci sono movimenti nella Chiesa che non la pensano così. È questa il prossimo impegno in agenda?

La Stampa 20.1.15
Papà Coniglio
di Massimo Gramellini


Crescete e moltiplicatevi ma senza esagerare, è la lieta novella annunciata ieri dal Papa Pop. I buoni cattolici, dice Francesco, non devono comportarsi come conigli. E due millenni di storia ecclesiastica e di lenzuola ricamate «non lo fo per piacer mio, ma per dare figli a Dio» sembrerebbero finire in naftalina. Perché il corollario logico del Discorso Del Coniglio non può che essere il riconoscimento del ruolo anticonigliesco della contraccezione. In attesa messianica di un Discorso del Preservativo, dalle prossime performance del Papa Pop si attendono delucidazioni su altri metodi più invasivi, ma meno compromettenti sul piano dell’etica cattolica. La doccia ghiacciata perenne, la tv accesa su una partita di Champions, l’armadio appoggiato alla porta della camera da letto per impedire al partner di entrare. 
Il Discorso del Coniglio segue di pochi giorni il Discorso del Pugno (a chi insulta la mamma) e ha preceduto di pochi minuti il Discorso del Calcio Dove Non Batte Il Sole, che secondo questo Papa Don Camillo andrebbe rifilato ai corrotti. Anch’io, come tutti, vado letteralmente pazzo per il linguaggio disinibito del Pontefice che viene «quasi dalla fine del mondo» e in effetti dice cose quasi dell’altro mondo. E non sarà certo un umile peccatore, e scribacchino per giunta, a fare la predica a un Papa. Da laico affettuoso mi permetto soltanto di chiedergli se non pensa che alla lunga questo suo parlare semplice e pieno di buon senso, mai seguito però da fatti concreti, non rischi di togliergli autorevolezza e credibilità. Facendolo assomigliare, più che a un vecchio prete argentino, a un giovane premier toscano.

Repubblica 20.1.15
Il pastore del popolo
di Vito Mancuso


DOPO il pugno, ora arriva il «calcio dove non batte mai il sole»: decisamente gagliardo il Papa! L’intervista rilasciata nel viaggio di ritorno dalle Filippine tocca temi interessanti.
MA SOPRATTUTTO mostra un Papa dal linguaggio forse ancora più colorito del solito: segno, a mio avviso, di particolare rilassatezza. Papa Francesco appare proprio contento del grande affetto e dell’enorme simpatia che il mondo intero gli manifesta e si lascia andare al cospetto della stampa mondiale come fosse tra amici. Il che sembra proprio la maniera migliore di interpretare il ruolo di per sé così pesante che l’essere Papa comporta, una spontaneità che l’aveva portato il giorno prima, durante la messa più seguita della storia, a tenere a braccio l’omelia davanti ai sette milioni di partecipanti. Quanta differenza rispetto al rigoroso plurale maiestatis che regnava fino a Paolo VI o anche rispetto ai lunghi discorsi letti su fogli accuratamente preparati prima (e spesso da altri) di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i quali anche nelle conferenze stampa mai e poi mai avrebbero potuto usare le popolaresche espressioni di Francesco.
Ma il punto è esattamente questo: il popolo. Ovvero la vicinanza totale che questo pastore straordinario intende mostrargli in continuazione. Se Francesco con il suo linguaggio sta introducendo davvero qualcosa di inedito nella storia pontificia, e direi persino di scandaloso per il sussiegoso protocollo pontificio e per le orecchie dei cattolici tradizionalisti, non è certo per gioco: la scelta di questo linguaggio è diretta espressione del contenuto che Francesco intende dare e sta dando al suo pontificato. Come può parlare del resto un Papa che non vuole macchine di lusso ma utilitarie, che non sta nell’appartamento papale ma nel convitto di Santa Marta, che non indossa croci e anelli d’oro ma semplicemente di ferro, che rinuncia insomma con sistematicità a tutti i segni del potere? Esattamente come parla questo Papa, che fa della vicinanza al popolo la stella polare del suo essere pontefice, e quindi si rallegra di poter riferire che quel giorno a Buenos Aires a quel tipo che tentava di corromperlo lui avrebbe dato più che volentieri «un calcio dove non batte mai il sole».
Possono piacere, o lasciare perplessi, o dispiacere del tutto, questi esempi così fisici e anche un po’ violenti che parlano di pugni e di calci. Personalmente, in un mondo già così intriso di violenza, non posso dire di amarli particolarmente né di ritenerli proprio del tutto opportuni, perché un domani a uno scatto di violenza incontrollata si potrà sempre trovare un appiglio nelle parole papali: «Se persino il papa può dare un pugno o un calcio, figuriamoci io». Né è certo un caso che all’imam radicale Anjem Choudary, lo stesso che assicura che un giorno Roti ma vivrà sotto la legge islamica, l’esempio del pugno sia particolarmente piaciuto. Questo però attiene ai singoli esempi scelti dal Pontefice e alla sensibilità di ciascuno, il punto decisivo consiste invece nel comprendere l’efficacissima denuncia papale contro la mancanza di rispetto della religione altrui e contro la corruzione.
Venendo ai temi dell’intervista di ieri, la questione più scottante è certamente quella della procreazione responsabile. Anche qui il linguaggio papale si segnala per l’espressione colorita quando, a proposito di una donna incinta dell’ottavo figlio averne avuti sette mediante cesareo che lui ebbe a incontrare in una parrocchia, dice: «Alcuni credono, scusatemi la parola, che per essere buoni cattolici dobbiamo essere come i conigli». Forse qualcuno aveva mostrato quella donna al Papa come esempio di maternità generosa e devota, ma la reazione del Papa, come riferisce egli stesso, è stata di ben altro tipo perché l’ha rimproverata così: «Ma lei ne vuole lasciare orfani sette? Ma questo è tentare Dio». Come siamo distanti dall’immagine di madre che si sacrifica totalmente per i figli, arrivando persino a morire per metterli al mondo, tanto cara al cattolicesimo tradizionale! Il Papa dice al contrario che una maternità non controllata e non responsabile equivale a tentare Dio.
Occorre però aggiungere che sul tema specifico della contraccezione, proprio come un abile pugile che oltre a saper dare i pugni li sa anche evitare, il Papa ha schivato abilmente la domanda. Il punto caldo della questione infatti non è il numero dei figli, che il Papa stabilisce canonicamente in tre (probabilmente memore dell’adagio medievale omne trinum est perfectum ), ma come evitare altre procreazioni dopo che il numero tre, o qualunque altro numero una coppia voglia o possa permettersi, sia stato conseguito. Paolo VI aveva stabilito nell’enciclica Humanae vitae del 1968 l’esistenza di un nesso inscindibile ( nexus indissolubilis ) tra unione sessuale e procreazione, dichiarando che ogni singola unione sessuale deve necessariamente essere sempre aperta alla procreazione. Anche l’unione con il legittimo marito di una donna che ha avuto già sette figli?, potremmo chiedere. Anche quella, risponde la dottrina cattolica ufficiale (si legga l’articolo 2366 dell’attuale Catechismo).
Per evitare la procreazione indiscriminata come i conigli, secondo l’esempio scelto dal Papa, o come tante nostre donne delle generazioni precedenti, secondo la memoria di molti, la Chiesa propone i cosiddetdopo “metodi naturali”, ma si tratta di un procedimento che solo poche coppie riescono ad attuare, le statistiche dicono che tra i cattolici praticanti coloro che l’osservano variano dall’8 all’1 per cento. Consapevole di queste cose il cardinal Martini nella sua ultima intervista aveva dichiarato: «Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale: la Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura dei media?» ( Corriere, 1 settembre 2012). E l’anno scorso il cardinal Kasper: «Dobbiamo essere onesti e ammettere che tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso».
Il Papa sa benissimo che questa è la situazione, come lasciano trapelare le sue parole quando dice che nella Chiesa «si cerca»; aggiungendo poi: «E io conosco tante vie di uscita, lecite». Di che cosa si tratterà? Dei soliti metodi naturali? Di qualche particolare escamotage di cui i gesuiti sono sempre provvisti? Sarà uno degli argomenti scottanti del Sinodo del prossimo ottobre, la seconda puntata della grande riflessione sulla famiglia voluta da Francesco. Qui nessuno ovviamente se la potrà cavare con le battute, ma forse un calcio papale a qualche porporato particolarmente testardo potrebbe aiutare.

Corriere 20.1.15
Sul no alla contraccezione Francesco segue Paolo VI
di Luigi Accattoli


Parlando ieri con i giornalisti in aereo, durante il volo che lo riportava da Manila a Roma, papa Bergoglio ha chiarito un poco — ma forse non abbastanza — la sua posizione sulla Humanae Vitae , l’enciclica di Paolo VI, pubblicata nel 1968, che proibiva la contraccezione. Ne aveva già parlato a Manila incontrando le famiglie, i giornalisti hanno rilanciato la questione e lui ha fatto un paio di precisazioni.
Ha detto che «il rifiuto di Paolo VI (dei metodi artificiali di controllo delle nascite: questa era la dizione esatta) non era legato soltanto ai casi personali, e infatti dirà ai confessori di essere comprensivi e misericordiosi; lui guardava al neo-malthusianesimo universale che è in corso e che cercava un controllo della natalità da parte delle potenze: meno dell’uno per cento delle nascite in Italia, lo stesso in Spagna».
Altra precisazione: «Questo (cioè la contrarietà di Paolo VI ai metodi artificiali) non significa che il cristiano deve fare figli in serie. Ho rimproverato una donna che era all’ottava gravidanza e aveva avuto sette parti cesarei: vuole lasciare orfani i suoi figli? Non bisogna tentare Dio». Conclusione: «Ma volevo dire che Paolo VI è stato un profeta». Cioè ha visto in anticipo che l’Occidente avrebbe perseguito un progetto di riduzione delle nascite su scala mondiale: una politica che Francesco attribuisce alle «potenze» e che chiama «neo-malthusianesimo universale».
È abituale che nella Chiesa Cattolica si dica che Paolo VI è stato «profetico» con quell’enciclica. Chi è per la tradizione lo dice con riferimento alla «rivoluzione sessuale» che aveva trovato nella «pillola» un alleato. Chi è per una revisione del severo insegnamento di Paolo VI esalta invece il ruolo di quell’enciclica a difesa dei popoli estranei agli interessi dell’Occidente e convinti di avere nell’alta natalità la loro prima risorsa. Dalle parole di ieri, si direbbe che papa Bergoglio tra le due letture sia più vicino a questa seconda .
www.luigiaccattoli.it

il Fatto 20.1.15
Studio Oxfam
«Ottanta “paperoni” detengono la ricchezza del 50% degli abitanti più poveri. Cinque anni fa erano solo 388».
“Nel 2016 l’1% sarà più ricco del 99%”
Con gli attuali trend, l’anno prossimo si realizzerà lo squilibrio globale
di Caterina Soffici


Londra Poveri sempre più poveri, ricchi sempre più ricchi. Non è una novità, ma di questo passo l’anno prossimo la ricchezza in mano all’1% della popolazione mondiale sarà superiore a quella posseduta dal restante 99%. Lo dice uno studio dell’organizzazione non profit Oxfam, che lancia il siluro alla vigilia della conferenza di Davos, dove i ricchi e i manager del mondo si ritraveranno da domani al 24. L’indagine dell’Oxfam è impressionante: dal 2009 al 2014, mentre il mondo intero si impoveriva e lottava contro la crisi, le ricchezze degli “happy few” sono cresciute ancora, passando dal 44 al 48% della ricchezza del pianeta. Entro il 2016, se le stime della charity sono giuste, l’1% dei super ricchi lo diventerà ancora di più e avrà in mano più del 50% delle risorse mondiali. Ma non finisce qui. Lo studio Oxfam è la peggiore (o migliore, a secondo dei punti di vista) fotografia delle distribuzione della ricchezza. Se attualmente i super ricchi posseggono il 48%, il restante 52 è in mano a un altro ristretto gruppo di ricchi (il 20%).
LA PIRAMIDE della disuguaglianza si fa sempre più appuntita e l’80% delle popolazione mondiale possiede solo il 5,5% della ricchezza totale. La direttrice esecutiva dell’Oxfam Winnie Byanyima, uno degli organizzatori dell’annuale World Economic Forum di Davos, userà il consesso per scuotere le coscienze del mondo. Dopo i movimenti di Occupy Wall Street e le marce di protesta del 99% le disuguaglianze sono esplose ulteriormente. Le analisi e le previsioni di Thomas Piketty, l’autore del controverso libro Il capitale nel XXI secolo, su cui tanto si è discusso, sembrano più che confermate. E proprio nel momento in cui Obama lancia la sua campagna per alzare le tasse dei ricchi e nei paesi europei si continua a chiedere il salario minimo, l’Oxfam racconta un altro aspetto della vicenda. Se possibile ancora più inquietante. Perché la ricerca evidenza come la maggiora parte dei soldi dei Paperoni mondiali non sono guadagnati, ma ereditati. “Vogliamo portare il messaggio dai popoli più poveri ai leader economici e politici più potenti. IL messaggio è che far crescere le disuguaglianze è pericoloso. È una cosa pessima per la crescita e pessima per i governi. C’è una concentrazione della ricchezza che cattura il potere e lascia la gente comune senza voce, senza possibilità di qualsiasi cura” ha detto Byanyima in un’intervista al Guardian. “Davvero vogliamo vivere in un mondo dove l’1% possiede la metà della ricchezza? ”. Vedremo la risposta dei poteri forti a Davos.

il Fatto 20.1.15
Banche popolari addio, la Borsa si fida di Renzi
Diventeranno istituti normali: si vota in base al capitale, non alle teste
di Marco Franchi


Piazza Affari abbocca all’amo lanciato dal premier Matteo Renzi sulla riforma delle banche Popolari. Dopo l’annuncio di un generico “provvedimento sul credito” fatto lo scorso 16 gennaio durante la direzione del Pd, ieri Renzi ha specificato nel corso dell’assemblea dei senatori del partito che il governo discuterà le nuove misure già nel Consiglio dei ministri fissato per oggi. In sostanza, si tratterà di abrogare tout court l'articolo 30 del Testo unico bancario che disciplina il governo societario delle banche popolari cancellando così il voto capitario (una testa, un voto) qualunque sia il numero delle azioni possedute e trasformando di fatto questi istituti in società per azioni. In Borsa sono subito scattati gli acquisti sui titoli Bpm, Bper, Banco Popolare e Ubi che hanno tirato la volata con rialzi tra l’8 e il 14 per cento. Gli ordini in acquisto sono comunque piovuti anche sugli altri titoli bancari che potrebbero essere coinvolti in un processo di consolidamento del settore.
La rivoluzione annunciata da Renzi – voluta dalla Banca centrale europea per favorire un consolidamento del sistema bancario che oggi conta in Italia 70 istituti popolari – si trova nella bozza disegno di legge Concorrenza alla voce “Servizi bancari”. Fra i vari articoli se ne trova infatti anche quello relativo alle “norme in materia di banche popolari”, il cui testo è stringatissimo: “L’articolo 30 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993 n. 385 è abrogato. All’articolo 137 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria di cui al dl 24 febbraio 1998 n. 58 il comma 4 è abrogato”. La rivoluzione sta tutta qui, in queste poche righe. Se questa riforma verrà approvata sarà abrogato l'articolo 30 del Testo unico bancario che nei primi due commi prevede che ogni socio abbia un voto, qualunque sia il numero delle azioni possedute; inoltre nessuno, direttamente o indirettamente, può detenere azioni in misura eccedente l’1 per cento del capitale sociale, salva la facoltà statutaria di prevedere limiti più contenuti, comunque non inferiori allo 0,5 per cento.
Il presidente del Consiglio promette il miracolo, presentato come l’ennesima rottamazione dei poteri forti in banca quando in realtà l’input arriva dall’alto del sistema, e incassa il plauso del mercato ma si deve già scontrare con la levata di scudi dei sindacati che temono nuovi tagli ai dipendenti e anche con le barricate alzate dalla politica. Daniele Capezzone, deputato di Forza Italia e presidente della commissione Finanze della Camera, si chiede quali siano i requisiti di necessità, straordinarietà e urgenza per intervenire con un decreto legge, peraltro in una situazione in cui le funzioni di capo dello Stato sono svolte dal presidente del Senato. Dall’altra parte Stefano Fassina, ex responsabile economico del Pd, vede nella riforma “un danno gravissimo all'economia nazionale” e non solo per le banche interessate perché le piccole e medie imprese e le famiglie italiane hanno trovato, negli ultimi anni di crisi, proprio nella banche popolari e nelle banche di credito cooperativo l'unico canale di approvvigionamento di credito ancora attivo”.
Anche per Fassina, sarebbe surreale se una simile riforma venisse proposta per decreto, senza alcuna ragione di urgenza, e in una fase di una supplenza al Quirinale. È dunque probabile che la riforma incontri una forte opposizione in un momento complicato per Renzi che non può forzare la mano in Parlamento nel bel mezzo della partita sul Quirinale.
GLI ANALISTI MOSTRANO intanto un certo scetticismo preventivo sul successo dell'iniziativa, anche perché – scrivono i broker di Equita sim – “negli ultimi quindici anni qualsiasi progetto di modifica della governance delle Popolari, anche non riguardante l'abolizione del voto per testa, è fallito. La conseguenza immediata è tuttavia l'aumento dell'incentivo per le Popolari ad aggregarsi, visto che minacce di modifiche dello status quo potrebbe arrivare anche dalla Bce”. E su Facebook il leader della Lega Matteo Salvini dichiara guerra: “Renzi cerca di mettere le mani anche sulle Banche Popolari, annunciando un decreto e a vantaggio di qualcuno.... Ma noi siamo pronti a salire sulle barricate a difesa dei territori”.

La Stampa 20.1.15
Primarie al veleno. Cofferati: oggi porto le carte in Procura
Prende forma l’Opa per un “Partito della Sinistra”. Ipotesi Anna Canepa in Liguria
di Jacopo Iacoboni


Troppe cose, è evidente, separano Sergio Cofferati da Alexis Tsipras, e l’Italia - per fortuna - non è la Grecia, né economicamente, né (ancora) dal punto di vista dei conflitti sociali. Tuttavia più che chiedersi se l’ex capo della Cgil possa essere - come è convinto Maurizio Landini - «lo Tsipras italiano», la domanda potrebbe esser posta così: davanti all’evoluzione del Renzi di questo ultimo anno, e del suo Pd da partito di centrosinistra a partito di centro che guarda a centrosinistra ma anche un po’ a centrodestra, esiste uno spazio politico per un “Partito della sinistra” in Italia? Chiamiamolo così, meglio che Syriza che, ripetiamolo, poco c’entra.
La domanda è ormai attuale nel momento forse più drammatico della vicenda post-primarie. Ieri sera l’ex capo della Cgil ci ha annunciato in anteprima che «domattina, appena ho fisicamente tra le mani le il verbale del Collegio dei garanti del Pd sulle primarie, presenterò esposto in Procura. Ci sono documentate cose che a me sembrano enormi, gravissimi, degne di attenzione dal punto di vista penale, ma su questo ovviamente sarà la Procura a decidere». Cosa succederebbe se i magistrati, oltre al già totale caos politico, individuassero precisi reati e responsabili?
Renzi minimizza
Il segretario ancora ieri sera minimizzava «hanno tolto un po’ di voti a Cofferati e un po’ di voti alla Paita, abbiamo commissioni e collegi di garanzia...», ma forse non aveva ancora avuto il tempo di leggere il lavoro dei garanti Pd. Di sicuro Cofferati continua la sua battaglia, che ormai è molto più che ligure. Sostiene Massimo Cacciari che «questa vicenda delle primarie liguri è la goccia, uno degli ultimi atti che dimostrano l’assoluta incompatibilità tra il renzismo e l’anima socialdemocratica, ex comunista, ma anche l’anima cattolica, del partito democratico. Sarebbe il caso che loro per primi ne prendessero atto».
Lo spazio politico?
Quando dice “loro”, Cacciari ha in mentre «soprattutto Cuperlo, Civati e Barca: fin tanto che non decidono cosa fare da grandi, le cose restano allo stato embrionale. Molto dunque dipende da questa opposizione interna al Pd, se smettono di tentennare». Lo spazio politico ci sarebbe? Chi sta in mezzo agli universitari, a molti ragazzi di vent’anni, soprattutto nelle città, ha la sensazione che Renzi non piaccia granché, è così per Cacciari? «Penso assolutamente di sì, tra i miei studenti, tra i giovani soprattutto metropolitani, Renzi è visto spesso come una torsione a destra del Pd. Quindi uno spazio politico per un Partito di sinistra ci sarebbe eccome. E secondo me, attenzione, forse converrebbe anche a Renzi, che così potrebbe sedurre l'elettorato moderato, e poi stabilire un rapporto franco con un partito alla sua sinistra. Insieme, potrebbero fare un autentico centrosinistra». Avranno il coraggio, Civati, Cuperlo, Barca?
Chi di sicuro un tempismo eccezionale - se non un coraggio - l’ha avuto è stato Cofferati, e molti non pensavano si sarebbe spinto a tanto. Ieri ha detto: «Non sono uscito dal Pd per fondare un altro partito, né per entrare in una nuova formazione politica, mi limiterò a fare un’associazione culturale, nulla di più». Ma chi forse lo conosce meglio di tutti, e molto ci ha lavorato accanto - un dirigente della sinistra italiana di lungo corso che ci chiede l’anonimato - riflette: «Quando Sergio dice così, è perché pensa che la possibilità esista. Dipende molto da come si “consoliderà” quest’area. Se resta un partito tra Sel, un pezzo ampio di Fiom di Landini, civatiani, e magari schegge di mondo proveniente dal M5s, cioè un’area da 4 per cento, credo di no. Ma se entrasse in campo davvero una parte significativa dell’attuale Pd in sofferenza...». La chiave è lì. E anche, come ci dice Maurizio Landini, «andare oltre la sinistra classica».
Bacino del 10%
Dal punto di vista del «bacino potenziale», Roberto Weber di Ixè lo stima attorno al dieci per cento: «Con il limite però che un leader antico come Cofferati non sarebbe particolarmente attrattivo». Tornate un momento sul detonatore: la Liguria. Cosa succederà alle regionali? La candidatura contro la Paita ci sarà, è sicuro. «Cofferati - ci dice chi sa le cose - diversamente da quanto dice potrebbe anche accettare di candidarsi ma, per come ragiona lui, solo se la destra proponesse un candidato vero. Se proporrà una figurina per aiutare la Paita, Cofferati starà fuori». In quel caso il “Partito della sinistra” ha un sogno: convincere Anna Cànepa, integerrimo magistrato dell’antimafia, ligure (ps. l’antimafia, anche se non lei, sta andando a guardare nelle primarie recenti...), segretario di Magistratura democratica, a candidarsi. Lei finora ha sempre resistito alle avanches, ma stavolta - possiamo dirvelo - non ha sbattuto la porta. Sarebbe un nome alla Cantone.
Nel frattempo Civati annuncia che «se si andrà al voto in primavera, io non mi presenterò col Pd. Non sono mai stato più distante dalla segreteria del Pd». Resta da capire quanta parte di quel Pd - sempre molto bellicoso nelle interviste, leggermente meno negli atti concreti - sia disposto a rischiare qualcosa (partendo dal Quirinale?) per salutare il renzismo, in cui palesemente non crede, se mai ci ha creduto.

La Stampa 20.1.15
Minacce, foto, truppe cammellate, voti pagati, stranieri e interpreti: la Caporetto Pd vista dai verbali
Il verbale del Collegio dei garanti del Pd
di Jacopo Iacoboni

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Corriere 20.1.15
Il voto contestato
Liguria, il pasticcio delle Primarie Pd «Elettori di destra, minacce e soldi»
I verbali del consiglio di garanzia del partito sui seggi annullati. Cofferati va dai pm
di Erika Dellacasa

qui

il Fatto 20.1.15
Verso Tsipras
Rottura ligure, la sinistra cerca l’x factor rosso
di Salvatore Cannavò


Alla suggestione di Maurizio Landini, che lo candida al ruolo di Tsipras italiano, Sergio Cofferati, per ora, risponde di no. Ma la sua uscita dal Pd potrebbe creare più di un sommovimento a sinistra. Non solo nella partita del Quirinale ma anche in quella, ben più prosaica, delle prossime Regionali. La rottura con l’ex segretario della Cgil in Liguria, infatti, sta per produrre una lista alla sinistra del Pd che nel caso non dovesse essere guidata da Cofferati – difficile, se nel ruolo di “testimonianza” – vede circolare nomi come quello di Carlo Freccero, ex dirigente Rai ma anche vivace polemista politico. Quello che però spiega al Fatto il responsabile organizzazione di Sinistra Ecologia e Libertà, Massimiliano Smeriglio, è che a saltare potrebbero essere anche le alleanze di altre corse regionali: “Il centrosinistra fin qui costituito oggi non c’è più. A questo punto vanno ridiscusse tutte le Regioni e anche se noi ci teniamo a costruire percorsi di governo, certamente non lo facciamo a ogni costo”. Le alleanze più a rischio, oltre alla Liguria, sono almeno tre: il Veneto dove il Pd candiderà “Ladylike”, Alesssandra Moretti e la Toscana dove il governatore uscente, Enrico Rossi, si è ormai convertito pienamente al renzismo e la Campania dove i tre candidati del Pd alle primarie – se mai si faranno – e cioè Vincenzo De Luca, Andrea Cozzolino e Gennaro Migliore sono tutti e tre, “per motivi diversi”, indigeribili per Sel e la sinistra che si sta ricomponendo.
LA FRATTURA, quindi, potrebbe essere davvero profonda anche se in ballo ci sono ancora diverse variabili a cominciare dalla partita per il Quirinale e dalla legge elettorale. Tra le variabili politiche, invece, c’è l’andamento dei rapporti a sinistra, i ruoli che si vanno delineando, le relazioni tra le diverse correnti politiche. Un appuntamento di un certo peso si annuncia la “Leopolda rossa” che Sel organizza per il fine settimana a Milano. Si chiamerà Human Factor, definizione a metà tra la provocazione e il vezzo televisivo, ma in ogni caso si annuncia un incontro che permetterà ai vari soggetti di pronunciarsi. Nella giornata conclusiva, domenica, dopo che i mille partecipanti registratisi finora avranno animato laboratori e tavole rotonde, dovrebbero confrontarsi, oltre a Nichi Vendola, la presidente della Camera, Laura Boldrini, Pippo Civati e Stefano Fassina ma anche, così sperano gli organizzatori, Sergio Cofferati. Quest’ultimo ieri, sul Corriere della Sera, ha di fatto candidato il “cinese” a una ruolo di primo piano nella nuova sinistra in formazione ma l’ex segretario della Cgil ha subito ribadito di non aspirare a quel ruolo né di aver voglia di fondare un nuovo partito. “Non dobbiamo necessariamente pensare a un partito”, spiega però Landini, lo stato della sinistra è ben più grave.
Di questa partita si apprestano a far parte anche gli esponenti della sinistra più radicale. All’appuntamento milanese ci saranno infatti anche Marco Revelli e Paolo Ferrero, segretario del Prc, che nell’assemblea dei comitati della lista Tsipras, tenutasi nello scorso fine settimana a Bologna, hanno sostenuto la tesi della maggior unità possibile alla sinistra del Pd contro la linea espressa da Guido Viale e da Barbara Spinelli, propensi a definire, già ora, la lista Tsipras come contenitore autosufficiente sulla base del proprio programma. Assemblea conclusasi senza deliberazioni e quindi, di fatto, in attesa delle mosse che si verificheranno.

il Fatto 20.1.15
Origini tradite Lella Massari, fondatrice
“Primarie Pd, quanta fatica sprecata in accordi con B.”
di Carlo Tecce

Non ha mai depurato il gioviale accento toscano, perché non s’è mai staccata da Siena, dove ha insegnato e dove ha praticato la politica. Il verbo praticare lo suggerisce Lella Massari, che fu arruolata da Romani Prodi nel Comitato dei 45 che assistette al parto democratico, furono i padrini del nascituro Pd. Oggi Massari, che rappresentava la corrente “Ulivo per i cittadini”, si ritiene un’iscritta un po’ scontenta. E il disastro ligure, le primarie contraffatte culminate con l’addio di Sergio Cofferati, non la stupiscono: “Occorre memoria: i problemi di questi giorni sono i problemi di quasi otto anni fa. Il voto interno per scegliere un candidato è uno strumento molto esaltante perché ti avvicina agli elettori, ma nasconde questioni non risolte e trappole infinite”.
Le primarie danno eclatanti segnali di cedimento, vanno eliminate?
Quando le abbiamo pensate, io chiedevo un regolamento più preciso. Forse era esagerato restringere la platea ai tesserati, se non per le nomine dirigenziali, ma esporre la corsa a condizionamenti esterni, ai cacicchi di schieramenti avversari, mi sembra assurdo. Non è semplice controllare, però neanche impossibile. Almeno va fatto un tentativo.
E come?
Io sostenevo che fosse necessario istituire l’Albo delle primarie, un elenco pubblico, dove scrivi, nome per nome, chi sono coloro che hanno partecipato all’indicazione del candidato per il Comune o per la Regione o per la segreteria: una via di mezzo per far conoscere tante persone che sono a metà strada fra un simpatizzante e un militante, ma non possono essere completamente estranee al Pd. Quando spulci la lista e trovi un sindaco di Forza Italia, capisci che qualcosa davvero non funziona. I casi sono tanti, me ne viene in mente uno di qualche anno fa proprio a Siena, per la provincia.
Cosa accadde?
Mi ricordo che le persone, che neppure parlavano italiano, venivano portate ai seggi, trasportate in comitiva. Gli organizzatori prevedevano una ricompensa, aspettavano che mettessero la croce sulla scheda e li accompagnavano a casa. Mi chiedo: perché non si interviene per contrastare episodi del genere, perché non è mai intervenuto nessuno?
Cofferati ha lasciato il partito per questi motivi. Quanti seggi hanno invalidato?
Tredici.
È tanto, è una cosa grossa. Come fai a procedere, a pensare con certezza che il resto fosse regolare? Le primarie sono fragili, si basano sulla fiducia delle persone, a volte bisogna essere diffidenti. Capisco la reazione di Cofferati.
Il Pd ha tradito le intenzioni delle origini?
Non è il partito ideale, non è perfetto. Quando l’abbiamo fatto nascere c’era entusiasmo. Era necessario fare il Pd, e non abbiamo sbagliato. Ripeto: era necessario unire gli ex comunisti e gli ex democristiani. Poi ci siamo dimenticati di una terza componente: l’Ulivo dei cittadini.
Hanno preferito il partito liquido.
Un grave errore, perché senza punti di riferimento sul territorio, senza coinvolgere le persone disinteressate, il Pd è diventato troppo concentrato su se stesso, troppo verticista.
Non dica così. Non è concentrato su se stesso e basta, fa le riforme con Silvio Berlusconi.
Comprendo i progetti di Matteo Renzi, ma questa sua provocazione mi rende nervosa. Non è bello vedere i parlamentari di Forza Italia a braccetto con quelli del mio partito. Non abbiamo lavorato tanto per arrivare a queste scene o per tollerare i patti al buio come quello del Nazareno.

il Fatto 20.1.15
Fascisti con Paita, i tre “neri” anti-Cofferati
Dal senatore che disertò il 25 aprile allo storico negazionista: ecco chi ha fatto il tifo per l’assessore renziano alla proteziuone civile
di Ferruccio Sansa e Lorenzo Tosa


Genova Io sono / un uomo nuovo / talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista”. Che avesse avuto ragione Gaber, quando nel 2001 cantava il ritratto del nuovo conformista? Oppure ha ragione Renzi (“Bisogna andare a prendere uno per uno il voto di quelli di destra”)? In Liguria lo hanno preso talmente sul serio che berlusconiani, alfaniani e post fascisti si sono offerti spontaneamente, sostenendo alla luce del sole la candidata renziana Raffaella Paita alle primarie del centrosinistra. Tra i primi a saltare il fosso, a ottobre, era stato il senatore Franco Orsi, sindaco di Albisola, ex Forza Italia e scajoliano doc. Lo stesso che aveva sostenuto la campagna elettorale di Luigi Grillo (arrestato nell’inchiesta su Expo 2015). Lo stesso Orsi che in passato abbandonò le celebrazioni del 25 aprile durante il discorso di Oscar Luigi Scalfaro. Da allora è cominciata una lunga transumanza da destra a sinistra, con la benedizione dei due Claudio: Burlando e Scajola. E nel comitato pro-Paita è entrato di tutto. Persino uno come Eugenio Minasso (Ncd), l’ormai famoso “fascista non pentito figlio di un fucilatore di partigiani” (Cofferati dixit), in passato fotografato mentre festeggia l’elezione alle regionali 2005 insieme con i membri di famiglie calabresi al centro di inchieste. All’epoca Minasso militava in An. Proprio come Alessio Saso, oggi capogruppo alfaniano in Regione, anche lui folgorato sulla via di Paita. “Alle Primarie sosterremo la candidata che ha presentato il miglior progetto politico” ha detto mesi prima dello scandalo primarie. A nessuno tra i renziani è venuto in mente di rispedire al mittente l’appoggio di un indagato per voto di scambio nell’inchiesta Maglio 3 sulle presunte infiltrazioni mafiose nel ponente ligure. Ma nel curriculum di Saso c’è anche l’inchiesta sulle spese pazze in Regione. A Cogorno (nell’entroterra ligure) un altro alfaniano, il coordinatore provinciale Ncd Gino Garibaldi, ci ha “messo la faccia per Paita”, cavandosela con una scritta sui muri della sua città (“Gino Giuda”).
Lella va avanti per la sua strada e non si imbarazza neppure quando viene fuori che il suo portavoce, Simone Regazzoni, nel dicembre 2013 ha presentato un suo libro nella sede romana di Casa Pound. Emblematico il titolo: Sfortunato il Paese che non ha eroi. Gli echi “fascio cowboy” – questo il nome che si è guadagnato negli ambienti Pd genovesi – si ritrovano nei suoi post su Facebook dove sostiene che i terroristi vanno eliminati, invece che arrestati. Ma il filosofo è in buona compagnia, se persino lo storico Arrigo Petacco – quello che ha negato il coinvolgimento di Mussolini nell’omicidio Matteotti – sbandiera le sue simpatie per Paita, concittadina spezzina.
Nel panthèon dei renziani liguri c’è spazio anche per leghisti come l’ex sindaco di Alassio Roberto Avogadro, o forzisti di provata fede come Roberto Schneck. L’ex vice sindaco di Albenga si è guadagnato il soprannome di “ras dei consensi”. Secondo i bene informati, ci sarebbe lui dietro il clamoroso successo di Paita ad Albenga, dove la delfina di Burlando ha raccolto quasi 1300 preferenze su 1590 totali.
Dalla riviera di Ponente a Genova. Che dire, ad esempio, della giravolta di Pierluigi Vinai, ex vicepresidente della fondazione Carige e vicino alla curia di Bagnasco. Nel 2012 Scajola lo impose come candidato sindaco del Pdl a Genova, nelle elezioni vinte da Marco Doria. Otto mesi fa Vinai annunciava la nascita di Open Liguria, un incubatore di idee che lui stesso definiva “renziano, ma non vicino al Pd”.

Repubblica 20.1.15
L’ex missino Minasso “Sì, ho detto ai miei di sostenere la Paita”
intervista di Ava Zunino


GENOVA Lei è il fascista non pentito additato da Cofferati perché vota alle primarie Pd?
«Penso di essere stato uno dei primi che hanno aderito al Pdl, sono quello che ha fatto l’apertura al Pd: che fascista non pentito sarei?», dice Eugenio Minasso, 55 anni, imperiese, coordinatore ligure di Ncd, ex deputato Pdl. Viene da An e Msi.
Allora fascista pentito.
«Sono stato un missino e da ragazzo nel Fronte della Gioventù, ma non sono mai stato una camicia nera. Non cantavo faccetta nera. Sono amico di tutti ed ho sempre preso i voti di tutti».
Domenica scorsa lei ha votato?
«No, a votare non sono andato e l’avevo detto. Non è andato ai seggi delle Primarie nessun dirigente di Area Popolare, vale a dire di Ncd e dell’Udc».
Ma avete chiesto ai vostri sostenitori di andare e votare la renziana Paita. Quanti pensa che abbiano seguito il consiglio?
«Non so. Penso un buon numero, anche perché le persone di centrodestra vedevano Cofferati come uno che viene da fuori per governare la Liguria. E qui siamo un po’ campanilisti. Non è stato difficile mandare la gente a votare. Paita può piacere o no ma gira tutti i paesi dell’entroterra, la conoscono tutti».
Il vostro obiettivo è l’alleanza con il Pd alle regionali?
«Questa strada con i renziani la faremo non come Ncd ma come Area Popolare, che è già in Parlamento. A marzo ci sarà il congresso per far nascere il partito. Nella direzione nazionale dell’Ncd io sono stato tra i pochi a sostenere la necessità di aprire un tavolo permanente con Renzi».
E perché?
«Perché penso che l’alleanza migliore sia quella sul modello della Germania, dei paesi in cui c’è un partito popolare alleato con un partito socialdemocratico. Secondo me questo è lo schema che oggi è utile in un Paese in crisi come l’Italia. Bisogna unire le due anime moderate del centrodestra e del centrosinistra, togliere i fascisti non pentiti e i comunisti non pentiti, unire i moderati di buonsenso». andava bene è un estraneo, non poteva vincere

Corriere 20.1.15
Botta e risposta a distanza
Renzi e le dimissioni di Cofferati: «Se perdi non vai via da un partito»
Il giorno dopo l’addio di Sergio Cofferati al Pd, arriva il commento del premier: «Se aveva problemi sui valori poteva dirlo mesi prima quando l’ho candidato alle Europee»
di Redazione Online

qui

il Fatto 20.1.15
Regionali campane, è ufficiale: in pista Gennaro Migliore


LE PRIMARIE CAMPANE stanno per arricchirsi di un nuovo contendente. Ieri Gennaro Migliore, già capogruppo di Sel alla Camera, fuoriuscito dal partito di Nichi Vendola per aderire al Pd, ha ufficializzato la propria candidatura per la corsa alla presidenza della Regione Campania con una lettera alla segretaria regionale del Pd. Migliore si è detto pronto a candidarsi sia come "possibile espressione unitaria del Pd campano", sia "eventualmente partecipando alle primarie". La prima ipotesi era stata avanzata dagli esponenti del Pd legati a Matteo Renzi per aggirare una contesa interna al partito sfuggita al controllo del presidente del Consiglio. Alle primarie del Pd, attualmente convocate per il prossimo primo febbraio, ci sono già tre candidati: l’europarlamentare Andrea Cozzolino, il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, e la senatrice Angelica Saggese.

Repubblica 20.1.15
Paura di brogli, liti, valzer di candidati la Campania teme l’effetto Liguria
Si candida anche l’ex Sel Migliore: ora cinque in lizza
di Ottavio Lucarelli


NAPOLI . Primarie rinviate già due volte, candidati che si moltiplicano, insulti. E il rischio di un “effetto Liguria” in Campania. Sulla carta mancano dodici giorni al voto del popolo di centrosinistra per la scelta del candidato che avrà il compito di riconquistare la Regione ma anche il segretario del Pd, la renziana Assunta Tartaglione, ammette che «tutto è possibile». Tutto. Anche un terzo rinvio. Le primarie erano previste il 14 dicembre, poi l’11 gennaio, infine il primo febbraio. E ora si rischia un terzo slittamento perché nelle ultime ore la paura cresce e non nasce solo dal precedente di Napoli di quattro anni fa, con il clamoroso annullamento delle primarie e il commissariamento del partito, ma aumenta per il rischio di un effetto domino dopo il caos in Liguria.
La tensione cresce e nella confusione si moltiplicano i candidati. Ora sono cinque dopo la lettera in cui Gennaro Migliore, deputato ex Sel sbarcato da pochi mesi nel Pd, ha chiesto di porre in extremis all’assemblea regionale dei democratici una doppia ipotesi. Migliore sintetizza nella lettera sia la possibilità che la sua diventi una «candidatura unitaria» sia «eventualmente» di poter partecipare anche lui alle primarie. Il segretario Tartaglione ha girato tutto alla commissione per le primarie ma l’esercito dei candidati è in fermento. Ci sono l’eurodeputato Andrea Cozzolino, protagonista delle primarie annullate quattro anni fa, il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca che aspetta domani mattina la sentenza per la costruzione di un termovalorizzatore, la senatrice Angelica Saggese e il segretario regionale dell’Italia dei valori Nello Di Nardo. E ora Gennaro Migliore, che si annuncia quasi come il salvatore della patria per scongiurare uno spargimento di sangue tra i principali rivali De Luca e Cozzolino. «Ho deciso — scrive l’ex vendoliano nella lettera al segretario — di rispondere positivamente alle sollecitazioni ricevute accogliendo un invito di cui sono onorato».
Ma chi l’ha sollecitato? Nei giorni scorsi è circolata una lettera in suo favore sottoscritta da alcuni esponenti locali e sostenuta dal sottosegretario Umberto Del Basso De Caro. Passano le ore e cresce il caos. La Tartaglione ha annunciato che sul caso Migliore ascolterà gli altri candidati i quali, in campo da oltre due mesi, sembrano infuriati. L’eurodeputato Cozzolino non commenta la candidatura di Migliore e prova a smorzare la tensione sul rischio Liguria: «Non vedo alcun pericolo nelle primarie in Campania. Il confronto tra me e De Luca è un confronto tra due leadership. Due candidature forti, autorevoli e radicate. Se dovessi perdere, anche per un solo voto, accetterò il risultato e sarò al fianco del candidato alla presidenza della Regione. Noi affrontiamo le primarie con questo stile e il segnale che arriva da Napoli è proprio nella direzione di non ripetere gli errori del passato».
Infuriato è il sindaco Vincenzo De Luca, alla vigilia di una giornata importate. È attesa domani la sentenza di una delle vicende giudiziarie che lo vedono coinvolto e che riguarda l’inchiesta sulla costruzione del termovalorizzatore di Salerno. De Luca aspetta e spara a zero sul partito e su Migliore. Per lui non è una novità. Ha attaccato tante volte il Pd, ma ora alza i toni: «Dopo mesi di letargo ora viene fuori un altro, ma per scegliere il segretario nazionale è servito il candidato unitario? No, si sono fatte le primarie. Allora cosa è cambiato? Quante stupidaggini, quanta ipocrisia. Mi sembra un circo equestre. Mi vergogno di quello che sta succedendo nel Pd ed è una buffonata quella che sta proponendo il partito in Campania. Troppo spesso la politica si riduce a cialtroneria e farabuttismo e io provo rabbia. La mia dignità conta più dei partiti e ora è sporcata da queste immagini di cialtroneria». Nel cassetto è già pronto il simbolo della sua lista: “Campania libera”. L’ha già usata per il Comune e potrebbe rispolverarla.

La Stampa 20.1.15
Scontro sulla legge elettorale
Scatta la resa dei conti nel Pd
La minoranza dà battaglia sui listini bloccati, ma Renzi tira dritto La votazione di oggi in Senato sarà la vera prova di forza per il Colle
di Carlo Bertini


La resa dei conti è attesa per oggi, prima con un voto nel gruppo Pd e poi in aula: la miccia è l’Italicum, ma in ballo c’è la tenuta del Pd a dieci giorni dai voti sul Colle. Matteo Renzi oggi vedrà Berlusconi per parlare di Quirinale e nel pomeriggio la prima conta sull’Italicum sarà una prova del nove per entrambi. Il premier è stretto su entrambi i fronti: comincia a fare i conti col pressing della minoranza Pd dove il nome più gettonato (gradito sia a Bersani che a D’Alema) è quello di Giuliano Amato, il preferito dall’ex Cavaliere. A Quinta Colonna traccia un identikit del futuro inquilino del Colle. «Il punto numero uno per la scelta è che sia un arbitro e non giocatore e in quella funzione rappresenti tutti. Deve essere uno che quando c’è uno scontro furibondo tra i partiti svolga il ruolo di arbitro inflessibile. Non uno che sta sette anni a tagliare i nastri». Nomi non ne fa ovviamente, «non lo decido io da solo, toccherà a noi del Pd fare una proposta, perché tocca al partito più grande». Punto.
Il fronte dei bersaniani
Renzi è infuriato con la sinistra Pd. Che a detta dei suoi uomini starebbe orchestrando un «golpe» per sabotare le riforme. «Non è aria di concessioni, si va alla conta. Si farà in modo di non votare quegli emendamenti sulle preferenze facendoli decadere col voto degli altri emendamenti della maggioranza sulla stessa materia. E si vedrà chi si sfila». Loro sono quelli della minoranza bersaniana e a parlare così prima della conferenza stampa di Gotor e compagni, è uno dei senatori più vicini a Renzi. Il quale ieri mattina, ripetendo per tre volte, «io non mi faccio ricattare da nessuno», ricorda le concessioni su soglie e premi di maggioranza; e sgancia un ultimatum di 24 ore ai ribelli, invitandoli a capitolare. «Non si può usare un gruppo minoritario come un partito nel partito», dice a Gotor che lo aveva definito «il mio nemico preferito».
Nel giorno in cui la Camera con 293 sì e 134 no approva il primo articolo della riforma che abolisce il bicameralismo perfetto, Renzi non intende cedere a quelli che battono i pugni contro le liste bloccate per scardinare così il patto del Nazareno. Il premier drammatizza il voto sull’Italicum facendo capire agli astanti che se non passerà tutto è possibile, perfino un precipitare alle urne col Consultellum. «Così mette in conto un acuirsi dei conflitti», scuote il capo un bersaniano.
Contro i nominati
I ribelli del Pd dunque tengono il punto e mostrano i denti di fronte alle telecamere: il loro drappello però perde pezzi, dei 37 firmatari dell’emendamento Gotor, quello contro i nominati che riscrive l’Italicum, una dozzina si sfila. Lo stesso Gotor mette in conto che possano restare in una ventina e che il governo vedrà approvata la riforma elettorale «a maggioranze variabili», senza un pezzo del Pd e con i voti di Berlusconi e Verdini. Il colonnello di Bersani spara a zero: parla di «svendita del Pd a Berlusconi», nomina svariate volte Verdini, avverte che di fronte a «trucchi offensivi» per forzare l’approvazione dell’Italicum, «si aprirebbe un’altra partita». Dice che se resteranno i nominati non voterà la nuova legge elettorale. Ma non si sbilancia, non chiarisce se uscirà dall’aula o se si spingerà a votare contro al momento del voto finale. Bersani a «Otto e mezzo» su La7 alza il tiro e annuncia che non voterà: «I numeri ci sono, se vogliono andare avanti con Forza Italia su una legge che ritengono buona...». E attacca: «Quando mai le legge elettorali le fa il governo? Renzi non parli di ricatti, faremo una Camera con un 60% di nominati e con partiti sotto il 20% di soli nominati. Che democrazia stiamo costruendo? Se Berlusconi li vuole tutti nominati, vorrei che Renzi domani gli dicesse rassegnati».

Corriere 20.1.15
La tattica del premier sul Quirinale per non farsi imporre un nome
Il leader cerca un’intesa ma non vuole mediare con i ribelli

di Maria Teresa Meli

ROMA «Basta ipocrisie, la minoranza non sta ponendo problemi di merito, ma sta facendo un’operazione politica, come altro si può definire l’emendamento Gotor?». Matteo Renzi non ha dubbi: sull’Italicum si sta giocando, dentro il Pd (ma anche fuori), una partita che poco ha a che fare con i contenuti della riforma elettorale. Riguarda invece la vicenda del Quirinale, e non solo quella, perché nel Partito democratico, sostengono i renziani, c’è chi vorrebbe «mettere in minoranza il premier», cavalcando la battaglia dell’Italicum.
La tensione è altissima. E l’incontro della scorsa settimana tra Pier Luigi Bersani e il presidente del Consiglio non è andato affatto bene. L’ex segretario, dopo quel faccia a faccia, ha confessato ai suoi: «Quel colloquio mi ha lasciato interdetto».
Renzi non ha fatto un nome per il Quirinale a Bersani, il quale da parte sua ha aperto all’ipotesi di una candidatura di Giuliano Amato, che, com’è noto, è caldeggiata da Silvio Berlusconi. Insomma, nonostante la scadenza dell’elezione del capo dello Stato sia imminente, tra la minoranza e Renzi non si è addivenuti a un compromesso. E il terreno per trovare questa intesa non sarà certo quello della riforma elettorale, perché, per dirla con il premier, «non ci sono più margini di modifica del testo del disegno di legge». Tant’è vero che il presidente del Consiglio per forzare la mano oggi incontrerà Silvio Berlusconi e Angelino Alfano, con l’obiettivo di chiudere un accordo definitivo con entrambi per far passare l’Italicum a Palazzo Madama nei tempi stabiliti.
Inevitabilmente, si parlerà anche del Quirinale in entrambi gli incontri. L’inquilino di Palazzo Chigi, però, non scoprirà le sue carte nella partita presidenziale. «È ancora troppo presto», spiega ai suoi.
Renzi non intende fare passi falsi e vuole aspettare di comprendere le reali intenzioni altrui e di capire sino a che punto l’alleato Alfano e l’oppositore Berlusconi sono determinati a impuntarsi su un nome.
Gira voce che entrambi, alla fine della festa, puntino su Giuliano Amato, come Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. E nella minoranza più dialogante del Partito democratico si dà per scontato che alla fine Renzi sarà costretto a convergere anche lui su Amato.
Il presidente del Consiglio, però, al momento, non dice né sì né no di fronte alla maggior parte dei nomi che gli vengono fatti. Una cosa è certa: non vuole farsi imporre nessun papabile, non intende finire questa partita quirinalizia con le spalle al muro, costretto a scegliere un nome altrui. «Vedo che ci sono molti professionisti della politica che si sono autocandidati», si limita a dire in questi giorni ai fedelissimi, continuando a tenere ben coperte le sue prossime mosse.
Ora quello che interessa al premier è spingere sulla riforma elettorale. Il nodo della presidenza della Repubblica lo scioglierà solo alla fine, qualche giorno prima della data fissata per le elezioni del successore di Giorgio Napolitano. Adesso Renzi deve «stringere» sull’Italicum. Perciò non vuole assolutamente intavolare nessuna nuova trattativa su quel testo con la minoranza del suo partito. Perché, come spiega un autorevole esponente renziano, «significherebbe riaprire tutta la pratica e a quel punto non ne usciremmo più vivi».
«A questo punto non ci sono più mediazioni possibili, le abbiamo fatte tutte», ha perciò annunciato ieri il presidente del Consiglio ai compagni di partito. Renzi, infatti, non è più disposto a temporeggiare o a farsi «cuocere a fuoco lento». Lo ha spiegato con grande nettezza anche ai suoi, alla vigilia dell’approdo nell’aula del Senato della riforma: «Se c’è qualcuno che vuole tornare al 2013, con una legge elettorale impraticabile e con la confusione massima sull’elezione del capo dello Stato, si accomodi. Noi, però, non ci stiamo, così si va tutti a casa».
Quindi il premier vuole un voto nel gruppo del Partito democratico a Palazzo Madama, all’assemblea prevista per oggi: «Ci vuole chiarezza, niente palude e niente tranelli», ha spiegato l’inquilino di Palazzo Chigi. Già, perché i renziani sono convinti che la minoranza al Senato voglia proprio tendere una trappola al presidente del Consiglio, «saldandosi con una fetta delle opposizioni, con i fittiani, per esempio». «Vogliono far saltare il banco del governo e riprendersi il partito», è l’atto d’accusa dei luogotenenti del premier.
Una manovra, questa, ben più insidiosa della microscissione che viene prospettata da alcuni dopo la decisione di Sergio Cofferati di abbandonare il Pd.

Corriere 20.1.15
Partono le telefonate ai dissidenti E qualcuno inizia a cedere
di Monica Guerzoni


Bersani e la doppia partita della sinistra. I suoi: è lui l’uomo della pacificazione
ROMA Nessuna scissione, il Pd è la sua «casa» e Pier Luigi Bersani non ha traslochi in programma. «Io non me ne vado, magari se ne andranno altri prima di me...» smentisce rotture l’ex segretario e dice di non condividere l’addio di Cofferati perché la «ditta» bisogna cambiarla dall’interno. Una posizione che alcuni renziani sembrano temere più della scissione, vista l’accusa che il premier ha rivolto al bersaniano Miguel Gotor: «Non siete un partito nel partito».
In tv da Lilli Gruber, Bersani ha scandito accenti dialoganti cercando un posto da protagonista nel grande gioco del Quirinale e autorizzando indirettamente i renziani a temere che voglia andarci lui. «Fosse così, non sarei qui a dire quel che penso» ha smentito lui con un sorriso malinconico. Eppure i renziani parlano di «golpe» sulla legge elettorale e sospettano grandi manovre. In Trasatlantico si racconta che l’ala più dura della minoranza sia pronta a «dare un segnale», con una grande assemblea alla luce del sole, per far capire a Renzi che sarebbe un azzardo sottovalutare la forza numerica contraria al patto del Nazareno. I più ottimisti a sinistra contano 160, 180 parlamentari pronti a far pesare la loro forza su input di Bersani, Civati e Cuperlo. E chissà, forse anche di D’Alema, visto l’allarme fatto scattare nella maggioranza dalla riunione nella sede di Italianieuropei: a piazza Farnese sono saliti Fassina, D’Attorre e un bersaniano dialogante come Stumpo. I tre negano che si sia parlato di Quirinale, ma D’Attorre lascia cadere un indizio: «Un governo sordo sulle riforme non è la premessa migliore per votare assieme il capo dello Stato».
La lotta contro i nominati è l’ultima trincea prima della battaglia campale. Dal Nazareno e da Palazzo Chigi ieri sono piovute telefonate a raffica sui cellulari dei senatori bersaniani che hanno firmato l’emendamento Gotor e la fronda si è rapidamente ristretta: da 37 a «una trentina», col rischio che le truppe di opposizione siano decimate fino a 15, 20 unità. Nelle stesse ore Gotor sfidava il premier: «Senza confronto, si apre un’altra partita». Dove l’altra partita è quella del Colle. «Se si incasina tutto il nome è Pier Luigi in una chiave di pacificazione» sussurrano i bersaniani dando voce al sogno proibito della sinistra che fa riferimento all’ex leader. Chiara Geloni assicura che «Bersani non fa baratti, calcoli, né strategie, non dice “o io o nessuno”, ma certo nella vita può succedere di tutto». Persino la prudenza con cui Bersani risponde ad Antonio Polito che lo incalza sul suo destino personale insospettisce i renziani. Uno scambio tra legge elettorale e Colle? «No, non si parli di ricatti — nega macchinazioni Bersani — nessuno è un agit-prop. Nessuno accende micce». Prudenza e carte coperte. Parla di «due o tre nomi» che ha in mente e conferma che il primo è Prodi: «Ma non mi fermerò lì». Nella rosa bersaniana c’è chi mette Mattarella, chi preferisce la Finocchiaro e chi non dimentica Veltroni. Purché sia «il garante delle istituzioni», è il primo requisito indicato da Bersani: «Nessuno pensi che uno come me possa fare il franco tiratore, chi lo dice magari ce l’ha nella testa lui. Ma non si sparga l’impressione che si prepara la minestra di destra e la si fa mangiare a un pezzo del Pd». Ecco, Bersani non voterà un presidente individuato nel chiuso del Patto del Mazareno e pronto, alla bisogna, a sciogliere le Camere su richiesta del premier.
«Serve un presidente autonomo da tutti i poteri dello Stato, in particolare dall’esecutivo», chiarisce Rosy Bindi. E Bersani conta sulle dita di una mano le votazioni che serviranno a sceglierlo, se Renzi non farà scherzi e dialogherà con la minoranza: «Ci siamo sentiti e ci vedremo, non mi ingelosisco se parla con Berlusconi».

Corriere 20.1.15
La resistenza di Gotor: Matteo non può zittirci
Lo storico, uomo forte dell’area ex Ds: chiamarci gufi è propaganda, lui non faccia lo struzzo
intervista di M. Gu.

ROMA «Il canguro di Renzi? Cancellare d’un colpo i nostri emendamenti sarebbe un atto di gravissima irresponsabilità e noi ci sentiremmo con le mani libere. Spero non avvenga...». Stremato dalla maratona oratoria davanti al plotone di telecamere e giornalisti, Miguel Gotor si accascia su un divanetto del salone riservato alla stampa: «Scrivete che sono un bravo ragazzo». Non un leader, perché «non è il mio ruolo». E quando un cronista lo definisce il nuovo D’Alema, l’autore dell’emendamento che fa tremare Palazzo Chigi lascia l’italiano dei professori e passa al romanesco: «Di che stiamo a parla’, avrebbe detto Alberto Sordi?».
Se Bersani nel 2013 avesse vinto, oggi Gotor sarebbe ministro della Cultura. Invece è il senatore che Renzi, arrivando a Palazzo Madama, ha definito «il mio nemico preferito». A lui la definizione è piaciuta, perché la vanità non gli fa difetto e sin da ragazzo è abituato a primeggiare: storico, autore di saggi di successo, cattedra di Storia moderna a Torino, nel 2008 ha vinto il Premio Viareggio con le «Aldo Moro, Lettere dalla prigionia». La passione per gli archivi è ancora intatta, ma adesso la sua battaglia è impedire che la nuova legge elettorale «voluta da Berlusconi e Verdini trasformi il nostro Paese in una democrazia di cooptati». Per impedirlo è pronto a sfidare Renzi e ripete che lui non mollerà: «Se la proporzione tra nominati ed eletti con le preferenze non cambia, io questa legge non la voto».
Guai a chiamarlo gufo, perché è una cosa che non sopporta: «È una parola che fa parte della propaganda, piuttosto il premier non faccia lo struzzo». A chi lo attacca e definisce il suo emendamento «contro Renzi», ribalta il concetto: «Sto facendo il massimo per l’onorabilità del Pd e della sua storia». E se qualcuno spera che la sua sfida sulla legge elettorale si riveli una breccia per la scissione, Gotor risponde come farebbe Bersani: «Civati sbaglia. Io resto nel Pd con due piedi, il cuore e la testa».

Repubblica 20.1.15
Miguel Gotor, minoranza Pd
“Nemico di Matteo? Solo avversario”
di Tommaso Ciriaco


ROMA È il regista dell’operazione “anti-nominati”. Matteo Renzi, sia pure con una battuta, l’ha bollato come suo «nemico». «Ho le spalle larghe, larghe. E poi l’ha detto in modo amichevole - sorride il senatore del Pd Miguel Gotor - In politica non ci sono nemici, solo avversari. Soprattutto se uno è premier, mentre io sono un semplice senatore e ricercatore universitario...». Gotor, comunque, darà battaglia in Aula. «Per quanto mi riguarda, con i capilista bloccati non voterò l’Italicum. Potrei non partecipare al voto».
Quanti senatori hanno sottoscritto l’emendamento?
«Ventotto, ventinove. In tutto siamo una trentina».
E pensa che senza l’ok al suo emendamento anche gli altri non sosterranno l’Italicum a Palazzo Madama?
«Non lo so. Mi aspetto di sì, comunque».
Benzina sul fuoco, a pochi giorni dalla sfida per il Colle.
«Noi teniamo separati i piani e stiamo al merito. Chiediamo solo di prevedere parlamentari scelti direttamente dal popolo, evitando invece che siano nominati da tre o quattro grandi nominatori. In un momento di crisi della democrazia bisogna rispondere con un aumento della partecipazione».
Resta il rischio che queste tensioni si sfoghino sul Quirinale. Per Renzi siete “un partito nel partito”.
«Nessun partito nel partito. È stato Renzi a voler sovrapporre la legge elettorale all’elezione per il Colle. Ora il segretario non si lamenti degli effetti provocati dalle sue scelte politiche. Non glielo aveva ordinato il medico. E poi...».
Dica.
«Penso che la scelta di sovrapporre le due questioni sia stata presa dal premier per condizionare sulla legge elettorale una serie di personalità che aspirano legittimamente a diventare Presidente della Repubblica» .
( t. ci.)

Repubblica 20.1.15
Il premier: “Vogliono pugnalarmi alle spalle ma non ho paura. Se passa la linea Gotor salta tutto”
di Goffredo De Marchis


ROMADice Renzi che la minoranza del Pd «punta a votare una legge elettorale contro di me e contro il partito. Mi vogliono accoltellare, questa è la verità. Ma attenzione: devono prendermi. Se mancano il bersaglio, poi sono loro ad avere un problema». Con i suoi collaboratori il premier commenta un po’ con rabbia e un po’ con preoccupazione il clima da resa dei conti. «È tutto il giorno che litigo con i banchieri democristiani per il decreto sulle popolari, non mi spavento certo di Gotor». Però il rischio che l’Italicum si fermi o addirittura venga modificato facendo saltare il patto del Nazareno alla vigilia del voto per il Quirinale, esiste. «Credo al buonsenso, non andranno fino in fondo. Ma è chiaro che se passano le loro modifiche, io vengo sfregiato. Poi però si va a votare. Anche con il Consultellum».
Sul tavolo quindi c’è la minaccia del voto anticipato. Un’arma spuntata secondo i dissidenti. «Matteo non ci torna più a Palazzo Chigi, con il proporzionale...», pronostica Alfredo D’Attorre. Stefano Fassina e Pippo Civati invece sono convinti che, a prescindere dall’esito della battaglia al Senato, Renzi punti alle urne in primavera. Ed è anche per questo che da tempo si preparano a verificare lo spazio a sinistra. «Le elezioni non le vuole nessuno - spiega Renzi ai suoi interlocutori - e io penso che ce la faremo. Senza strappi. Ma se vogliono la guerra, sono qua». Il premier è convinto di aver concesso tanto ai ribelli, non crede che Pier Luigi Bersani sia davvero in cerca dello scontro finale. Anzi, entrambi si preparano a un faccia a faccia sull’elezione del presidente della Repubblica, forse già oggi, comunque nelle prossime ore. «La minoranza organizza un blitz con Salvini, Minzolini, Grillo e Vendola. Questo è il menù del Senato. Incredibile, no? Ma davvero vogliono questo? Per non votare un accordo con Berlusconi si mettono con quella compagnia, con Formigoni? Vallo a spiegare alle feste dell’Unità». Per i dissidenti, secondo l’ex sindaco, diventerebbe impossibile giustificare la rottura. «Noi abbiamo preso il 40 per cento alle Europee, vinto le primarie con il 65 per cento, questa legge è stata discussa e votata in tutti gli organismi dirigenti. E loro aspettano l’ultimo minuto dell’ultimo giorno utile per accoltellarmi. Roba da matti. I bersaniani non possono essere così avventati. Dovrebbero capire che se loro si alzano dal tavolo, allora sì che Berlusconi conta di più».
Il giorno del blitz è oggi. Ora o mai più. Se gli emendamenti non passano, la legge va in discesa. Palazzo Chigi comunque ha pensato le contromisure. Il senatore Stefano Esposito ha presentato un emendamento, “suggerito” dal premier, che riassume i punti cardine dell’Italicum 2.0 e annulla le altre proposte di modifica. Lì si misureranno le forze. «Hanno avuto un sacco di roba - ricorda Renzi . Il ballottaggio, il premio alla lista, le preferenze. Se il Pd vince avrà solo il 30 per cento di nominati. E vogliono il Consultellum ossia il proporzionale? Così sono loro a determinare l’inciucio permanente con Berlusconi». Hanno «24 ore di tempo per chiarirsi le idee», ricorda il premier. «Io vado avanti e non intendo vivacchiare».
I renziani, con un sorriso, l’unico della giornata, fanno notare che l’emendamento Gotor è il 101, come il numero dei franchi tiratori che affossarono Prodi. Vogliono fare il bis con “Matteo”?, si chiedono. A mezzogiorno Renzi tornerà al Senato per vedere se l’atmosfera è quella del duello o di una tregua. Sembra scocciato per le accuse (ripetute) di intelligenza con il nemico, perché difenderebbe un accordo blindato con Berlusconi dimenticandosi il Pd. «Tratto con Verdini? Sì, esattamente ciò che faceva Migliavacca, il braccio destro di Bersani, la scorsa legislatura. Si vedevano giorno e notte».
La partita è con il Pd, ma contiene in sé le potenzialità di un contagio. I maldipancia dell’Ncd, la fronda di Raffaele Fitto in Forza Italia, l’esplosione del partito azzurro. Si balla davvero, se non si ricuce con la minoranza interna. E in caso di fallimento dell’Italicum, ben prima della minaccia di elezioni anticipate, bisogna votare il nuovo capo dello Stato. A scrutinio segreto. In un clima da caccia alle streghe, da guerriglia nella giungla, non è il massimo. Più volte infatti Renzi con il suo staff usa termini da Vietnam: blitz, imboscata. Non dimenticando i coltelli, più adatti al corpo a corpo. È «amareggiato», dice. Poi, rimostra i muscoli quando spiega di essere concentrato su altri impegni: «Sfido i banchieri con il decreto e giovedì vedo la Merkel a Firenze».
I prossimi passaggi sono decisivi. Per la legislatura, per il governo, per Renzi. Lo sanno gli avversari e lo sa lui. Se il premier li attraversa indenne, ha davanti quasi tutte le porte aperte. Per questo è teso, ma, racconta, non ha «paura». Non capisce come un pezzo del Pd possa mettersi con i suoi nemici giurati. Ieri ha incontrato Matteo Salvini nello studio di Rete4. Il leader leghista ha fatto finta di non vederlo, lui lo ha fermato e, sibilando, gli ha stretto la mano: «L’educazione prima di tutto». Così il premier vive una vigilia di tanti appuntamenti accavallati. Stamattina vede Silvio Berlusconi. Del Cavaliere non è che si fida, «ma so che lui vuole rimanere seduto al tavolo».
Controlla ancora tutti i suoi parlamentari? Verificheranno insieme. Il punto rimane la pattuglia di dissidenti del Pd. Come può incidere la parola di Bersani su di loro. Alla Camera il gruppo di Area riformista guidato da Roberto Speranza considera il compromesso raggiunto buono e votabile. Ma la legge è a Palazzo Madama. Con una maggioranza meno forte. Se non ci sono passi indietro, oggi il Pd si spacca e si conta. Ci saranno vincitori e vinti.

Repubblica 20.1.15
L’intesa che non c’è e la ferita aperta tra i democratici
di Stefano Folli


Così Bersani guida la fronda che vuole imporre a Renzi un compromesso sul Quirinale
TENSIONI e lacerazioni nel Pd al Senato raccontano una storia la cui trama è chiara: non esiste al momento un vero accordo fra il premier Renzi, nonché segretario del partito, e la minoranza vicina a Bersani. Minoranza che non è compatta, anzi è abbastanza frastagliata e non è controllata da un solo capo corrente, fosse anche l’ex segretario che perse la sfida nel 2013. C’è chi risponde a Bersani, chi a D’Alema, qualcuno alla sinistra di Civati. Molti guardano alla Grecia che voterà domenica e dove i sondaggi indicano il successo di Tsipras, il nuovo faro delle sinistre europee.
L’accordo che non c’è dovrebbe riguardare la legge elettorale su cui sta per pronunciarsi il Senato, ma riguarda soprattutto la presidenza della Repubblica. Chi non ha voluto vedere questo nesso, peraltro evidente, ieri ha dovuto ricredersi. È venuto allo scoperto un gruppo di senatori — circa 25 in base agli ultimi calcoli e agli estremi ripensamenti — alcuni dei quali intendono votare contro la riforma di Renzi. Altri non si spingeranno fino al voto contrario, ma preferiranno non partecipare al voto, che è la forma di astensione prevista dal regolamento di Palazzo Madama.
L’operazione mette in grossa difficoltà Renzi. Un’eventuale saldatura fra i dissidenti del Pd, la pattuglia anti-Berlusconi di Forza Italia, guidata da Fitto, e una parte dei centristi di Alfano può determinare l’insabbiamento della riforma. O forse no, perché i numeri antagonisti potrebbero essere insufficienti e Renzi stamane tornerà a battersi davanti al gruppo senatoriale con l’irruenza che gli è propria. Le ferite politiche saranno in ogni caso gravi e peseranno in vista del Quirinale.
Quasi tutto ormai accade in funzione di quella scadenza. Il presidente del Consiglio deve rifare un po’ di conti, anche nell’ipotesi più favorevole: ossia che riesca a evitare il rinvio o l’affossamento della sua legge elettorale. Finora non ha voluto fare l’unica mossa che lo avrebbe tutelato dal rischio di farsi accoltellare: tendere la mano a Bersani e stringere un’intesa con l’uomo che non controlla tutta la minoranza, ma senza dubbio una buona fetta sì. I due si sono visti, hanno parlato, ma a quanto pare non hanno risolto nulla.
Cosa vuole l’ex segretario? Lo ha detto ieri sera in tv: che il nome del candidato alla presidenza sia scelto discutendone nel Pd e poi presentato alle altre forze politiche. Viceversa Bersani teme che sia in atto una manovra renziana per individuare il nome con la «destra», cioè con Berlusconi, e solo in seguito lo si voglia far «digerire» al Partito democratico. L’accusa a Renzi non è nuova, ma è ancora più sferzante del solito. Si vuole, in altre parole, condizionare il premier-segretario e imporgli un compromesso che gli impedisca di uscire dal doppio passaggio (riforma elettorale e Quirinale) come il signore incontrastato della politica italiana.
Il presidente del Consiglio invece vuole avere le mani libere per giocare a tutto campo. Vuole riuscire a imporre un capo dello Stato che riconosca in lui e non in altri il «king maker», ossia la figura dominante a cui deve l’elezione. Di conseguenza ha cercato fino a oggi di procrastinare l’intesa con gli avversari interni. I quali gli fanno la guerra sulla riforma elettorale per costringerlo a venire a patti anche sul Quirinale. Cosa può accadere adesso, mentre il tempo stringe?
Bersani è tornato a chiedergli un accordo preliminare che avrebbe l’effetto di svuotare in parte il «patto del Nazareno». Ma questo patto, ossia la sintonia con Berlusconi, è un’arma a cui Renzi non rinuncerà a cuor leggero per non trovarsi prigioniero proprio della minoranza democratica. Ci sono, è vero, anche i dissidenti grillini, ma rappresentano un’incognita. Nel frattempo il voto alla Camera sulla riforma costituzionale ha dimostrato che il gruppo berlusconiano è spaccato. Quindi si procede a fari spenti verso il 29 gennaio, quando il Parlamento dovrà riunirsi. Oggi vivremo una giornata drammatica, al termine della quale si capirà se Renzi ha qualche carta in mano e come intende giocarla.

Repubblica 20.1.15
Je suis grec
di Alessandra Longo

«O UI , je suis grec»: lo scrive Stefano Fassina, entusiasta conclamato della possibile vittoria di Syriza in Grecia. La riflessione dell’ex viceministro dell’Economia è pubblicata sul sito www.sbilanciamoci. info. Finalmente un partito — dice Fassina — che svela «la natura di classe del conflitto tra creditori e debitori», un partito che «propone una ricetta alternativa e realistica alla svalutazione del lavoro», un partito che sfida «le vecchie destre “hard” e le sinistre “soft” delle “Terze Vie”». Altro che il Pd di Renzi. Tocca alla Grecia di Tsipras «restituire senso alla democrazia» contro «i vertici di enormi concentrazioni di potere finanziario, mediatico e politico». Fassina si fa anche una domanda esistenziale: «Perché votare per una sinistra che, come in Italia, si distingue dalla destra solo per “il maggior senso di responsabilità nazionale” nell’attuazione dell’unica agenda economica ritenuta possibile»?

il Fatto 20.1.15
Amato, De Gennaro e Gallitelli
Santa alleanza per il Colle
Importanti apparati dello Stato hanno già scelto il loro favorito
L’ex poliziotto e il carabiniere diventerebbero collaboratori del Presidente
di Marco Lillo


Il “carabiniere” dovrebbe diventare consigliere della sicurezza mentre il “poliziotto” dovrebbe essere il suo segretario generale. È questo lo scenario delineato, secondo fonti vicine al generale Leonardo Gallitelli e al presidente di Finmeccanica Gianni De Gennaro, se Giuliano Amato riuscisse a diventare presidente. Dietro i due probabili futuri collaboratori ci sono pezzi importanti degli apparati e delle forze di sicurezza più vicine alle alleanze atlantiche, nel segno della continuità.
POTERI che resistono ai ribaltoni e per questo preziosi per chi vuole avere un referente costante nell’instabile Stato italiano. Entrambi sono nati nel sud, entrambi nel 1948. Entrambi hanno segnato la storia del loro rispettivo corpo di appartenenza. Per anni Gianni De Gennaro è stato chiamato “il capo” dagli alti gradi della polizia anche dopo i fatti del G8 e anche dopo il suo passaggio al Dipartimento di Informazione e Sicurezza, l’organismo di vertice dei servizi segreti. Mentre il “Gallo”, come è soprannominato l’ex comandante che per quasi un decennio è stato l’uomo forte dei carabinieri, prima dal 2006 come capo di Stato Maggiore e poi dal 2009 da comandante generale. Fonti vicine ai due sostengono che entrambi avrebbero una sorta di patto tacito con Giuliano Amato. Gallitelli aveva cercato di ottenere la proroga per arrivare a questo passaggio con i galloni di comandante ma ha dovuto lasciare il posto al generale prescelto dal ministro Pinotti: Tullio Del Sette.
L’INCARICO di consigliere è oggi ricoperto dall’ex comandante della guardia di ginanza Rolando Mosca Moschin, 76 anni a marzo. Gallitelli nella sua nuova posizione dovrà gestire la razionalizzazione dell’elefantiaco apparato che si occupa della sicurezza del capo di Stato: 250 corrazzieri per la sicurezza interna più 240 poliziotti e altrettanti carabinieri per la sicurezza esterna del Quirinale, di Castelporziano e di Villa Rosebery, oltre a tutti gli spostamenti del presidente. C’è un apposito ufficio presidenziale della polizia e un apposito reparto dei carabinieri. Con la follia ulteriore di affidare il coordinamento della scorta mista un giorno all’Arma e un giorno alla polizia. Gallitelli avrà il compito di dare un senso, anche economico, a questo apparato. De Gennaro punta invece alla poltrona di segretario generale. Una carica ben retribuita (circa mezzo milione di euro all’anno) che potrebbe assumere anche un’inedita valenza internazionale grazie ai suoi rapporti internazionali. Entrambi porterebbero al Colle il vantaggio di un filo continuo con magistratura, carabinieri, polizia e servizi segreti, non solo italiani. Gallitelli in più vanta un feeling ottimo con Berlusconi che non lo vedrebbe male addirittura come candidato di riserva al posto di presidente della repubblica. Anche se l’uomo di punta del Cavaliere è l’ex braccio destro di Bettino Craxi. L’intesa tra De Gennaro e Amato è cementata dall’asse atlantico. L’ex presidente del Consiglio è stato a lungo il presidente del Centro studi americani (sempre finanziato generosamente dalla Finmeccanica di Guarguaglini) poltrona che ha lasciato, quando è stato nominato giudice costituzionale, proprio a De Gennaro.
L’EX CAPO della Dia e della polizia, dai tempi delle storiche operazioni antimafia Pizza Connection e Iron Tower è considerato una sorta di agente in più degli americani. Rapporti celebrati nel 2006 con la medaglia al merito consegnata alla presenza dei capi dell’Fbi Louis Freeh (dal 1993 al 2001) Robert Mueller (2001-2013) e James Comey, in carica dal 2013. Sottosegretario con delega ai servizi segreti nel governo di Mario Monti, De Gennaro nel luglio del 2013, non a caso, è planato sulla poltrona di presidente di Finmeccanica, società strategica per l’Italia ma anche per gli Usa soprattutto dal 2008 quando ha comprato per 5,2 miliardi di dollari la Drs, un’azienda i cui segreti possono essere portati a conoscenza solo di cittadini americani. Nel curriculum firmato di suo pugno nel luglio 2013 per Finmeccanica, De Gennaro cita solo un politico: Amato, il ministro dell’interno che lo ha scelto nel 2007 come capo di gabinetto del ministero e prima ancora, da premier, come capo della polizia. Ora è giunto il tempo che le strade di Gianni e Giuliano si incrocino ancora. Sul Colle.
LO SCENARIO accreditato dalle fonti vicine ai due uomini dell’ordine pubblico italiano però prevede anche un “piano B”. Se Amato fallisse c’è già pronto un altro candidato che ha un profilo simile. È Piero Grasso. Anche lui amico di De Gennaro (ha un figlio in polizia dai tempi d’oro del “Capo”) e di Gallitelli ma anche delle forze di sicurezza e della magistratura. E anche lui è ben visto da Silvio Berlusconi, come Amato.

Repubblica 20.1.15
Il nuovo inquilino e la casa comune
di Guido Crainz


C’È QUALCOSA che sembra mancare, nel dibattito sul futuro presidente della Repubblica: la piena consapevolezza del ruolo che dovrà svolgere in un quadro costituzionale destinato a mutare, poiché stiamo andando verso un superamento del bicameralismo paritario.
CON questo superamento, connesso ad un sistema elettorale fortemente maggioritario, diventano ancor più importanti le figure e gli organi di garanzia: in primo luogo il capo dello Stato e la Corte costituzionale. Se così è, fra l’altro, appare fondata l’ipotesi di inserire nella riforma costituzionale l’innalzamento del quorum necessario per l’elezione del presidente.
L’alternarsi dei nomi possibili non deve dunque oscurare la vera questione che è in gioco, esattamente come lo è nel dibattito sul bicameralismo: la possibilità stessa di rimodellare la Repubblica. E la assoluta responsabilità che è necessaria nel metter mano alla casa comune. In questo scenario, diverso dal passato, si colloca dunque la discussione sulla qualità e il profilo del futuro presidente, ma si colloca anche — o si do- vrebbe collocare — un mutamento radicale nella mentalità e nei comportamenti dei “grandi elettori”. Senza sciogliere questo nodo affonderebbero anche buone candidature: e il far prevalere logiche di corrente o altri fini, se non ritorsioni, sarebbe un vero attentato alla Costituzione che si pensa di riscrivere.
La partita che si è aperta è indubbiamente difficile, e qualcosa accresce il senso di insicurezza: nella tormentata transizione iniziata nel 1994 sono stati fondamentali tre presidenti che hanno respirato l’aura della fondazione della Repubblica, intrisi della cultura che ha presieduto ad essa. O meglio, delle diverse culture che l’hanno ispirata e ne hanno garantito l’attuazione: la cultura cattolica, quella laica e azionista, e quella comunista (del comunismo italiano, capace di assumere progressivamente la Costituzione come valore primario). Oggi questa preziosa risorsa si è inevitabilmente esaurita, ed è legittimo sentirne la mancanza: tanto più che in settant’anni il ruolo del presidente è indubbiamente mutato. Certo, non ha svolto quasi mai quel ruolo di “notaio” che Luigi Einaudi aveva incarnato e che periodicamente viene invocato: non è stato così, ad esempio, in una gran parte della “prima repubblica” (da Gronchi a Pertini, per tacere di Segni o di Cossiga). Con il suo crollo poi il quadro cambia profondamente e di fronte all’anomalo centrodestra berlusconiano, poco rispettoso e talora estraneo alle regole, è diventato sempre più importante il ruolo di garanzia del presidente. Ben lungi dal poter esser “notarile” esso ha comportato invece un impegno attivo, talora di contrasto a misure illegittime o confliggenti con lo spirito e la lettera della Carta. Sin dall’inizio, sin dalla lettera che Oscar Luigi Scalfaro inviò nel 1994 a Berlusconi, incaricato di formare il suo primo governo: lo impegnava al rispetto della Costituzione e dell’Italia “una e indivisibile”, oltre che delle alleanze internazionali e della “politica di pace”. Lettera senza precedenti, ma resa necessaria dagli umori secessionisti cavalcati allora dalla Lega e dalla richiesta di rompere il trattato di Osimo sul nostro confine orientale avanzata dal Movimento Sociale. E fu provvidenziale anche il veto posto a Cesare Previti come ministro della Giustizia. Era solo l’inizio di una storia ventennale in cui presidenza della Repubblica e Corte costituzionale si sono trovate a fronteggiare le iniziative di Berlusconi che più apertamente stridevano con la Costituzione: del resto la considera scritta da «forze ideologizzate che hanno guardato alla Costituzione russa come a un modello» (parole sue). Non andrebbero mai dimenticati i non lontani tempi delle leggi ad personam sul sistema televisivo e sulla giustizia (sino ai lodi di Schifani e di Alfano), e c’è proprio da sperare che non ritornino. Che non sia necessario porre continui argini ad anomalie e a pretese anticostituzionali ma sia possibile davvero rimodellare le istituzioni della Repubblica. Prendendo avvio dal primo fondamento: il senso di responsabilità istituzionale di coloro che sono chiamati a farlo. Questo Parlamento ha la possibilità di dare al Paese il segno di una svolta, dopo le pessime prove di due anni fa: auguriamoci tutti che ne sia capace.

Repubblica 20.1.15
Raffaele Cantone Il presidente dell’Anticorruzione: “Orlando fa bene a non sottovalutare il fenomeno”
“Positive le decisioni del governo su Expo voto di scambio e autoriciclaggio”
“Non la sconfiggeremo mai davvero del tutto si può solo limitarla”
intervista di Liana Milella


ROMA Un aggettivo per definire la corruzione in Italia? «Stabile e duratura». L’anno in cui non ci sarà più? «Mai. Non riusciremo mai a sconfiggerla del tutto perché nessuno degli Stati moderni ne è indenne». Non è la triste ammissione di una sconfitta? «Assolutamente no, perché l’obiettivo è ridimensionarla nei limiti fisiologici». È questa l’analisi del presidente dell’Authority Anti-corruzione Raffaele Cantone.
Corruzione «intollerabile» dice Orlando. È il solito slogan della politica per coprirsi le spalle?
« Ho letto integralmente il suo intervento. Quella definizione è inserita in un’analisi di contesto che mi pare assolutamente corretta. E comunque la condivido».
Parlare male della corruzione i questi tempi non è un modo per sgravarsi la coscienza?
«È vero il contrario. È coraggioso non sottovalutare il fenomeno. Chi è al governo di solito lo fa, invece quella di Orlando è un’analisi giusta».
Davvero pensa che ci vogliano 10 anni per far calare gli indicatori della corruzione?
«Ho volutamente esagerato. La prevenzione non è un processo i cui risultati si apprezzano subito. La prevenzione non è un arresto. Ci vorranno meno di 10 anni. Ma la politica deve capire che non può usare la logica della trimestrale di cassa... I problemi complessi hanno bisogno di soluzione complesse e di tempi non brevi».
Non le pare che il governo, a parte la sua nomina, sia terribilmente in ritardo nelle misure anti-corruzione? Se ne parla, ci si vanta, ma non si approva nulla...
«Non sono d’accordo. Sono state fatte cose importanti. È stato rafforzato il potere del mio ufficio in modo significativo, sono stati messi in sicurezza i lavori dell’Expo, tant’è che l’Ocse è venuto a Milano e ha apprezzato i nostri controlli e vuole esportarli. Sono stati approvati voto di scambio e autoriciclaggio. È un pezzo di un percorso, ma Renzi ha promesso altri poteri per noi e c’è il pacchetto di Orlando... ».
... non è un pannicello caldo portare da 8 a 10 anni la pena massima della corruzione e lasciare il resto com’è?
«Nella lotta alla corruzione, più che aumentare pene, preferisco approvare il nuovo codice degli appalti. Bisogna smetterla di pensare che i problemi si possano risolvono mettendo mano al diritto penale».
Guardi la prescrizione... siano ai primissimi passi. E già si litiga sulla norma transitoria.
«Questa riforma è ineludibile, quanto meno per i reati di corruzione, perché si tratta di correggere un errore della ex Cirielli che ha ridotto a metà i tempi della prescrizione».
Deve valere o no per i processi in corso?
«La faccenda non mi entusiasma. Sarebbe utile se le nuove regole potessero valere per i processi in corso, ma sarebbe un segnale importante anche se valessero per il futuro».
Falso in bilancio, le soglie, il guazzabuglio sulla delega fiscale. È un grande pasticcio.
«Parliamoci chiaro, una cosa sono i reati tributari, un’altra i falsi in bilancio. Sono due delitti completamente diversi. Nei primi il danneggiato è il fisco, per cui è irrilevante il livello di ricchezza di chi evade ai fini del danno, al massimo potrà essere un’attenuante avere un reddito più alto. Nel falso in bilancio invece il danneggiato è la fede pubblica, l’esatta esposizione della situazione economica di una società. Di conseguenza é chiaro che, entro certi limiti di tolleranza, lo spostamento dal vero può anche essere non punibile. Ma la percentuale non può essere molto elevata e soprattutto non convince che ci sia un pezzo di perseguibilità a querela».
Se la corruzione è «intollerabile» perché premiare chi non paga le tasse?
«Reputo giusto che nei reati tributari ci sia una soglia al di sotto della quale il giudice penale non deve intervenire, non stabilita in percentuale, ma fissa e uguale per tutti i cittadini. Al di sotto il fatto resta sanzionato in via amministrativa».
Gli evasori non meriterebbero di restar fuori dalla vita pubblica? Ma qui si discute di agibilità politica per Berlusconi....
«Bisogna uscire dalla trappola di guardare ogni norma con la lente dell’utilizzabilità per l’ex premier. Ne esistono di non corrette a prescindere da lui. L’evasione fiscale è un reato grave e merita una stigmatizzazione sociale rilevante. È necessario un cambiamento culturale».
Milano e Roma, Expo e Mafia capitale. Chi sta peggio?
«All’Expo si sono verificati fatti molto gravi, ma c’è stata una prevenzione antimafia e anticorruzione che sta funzionando. Mafia capitale ha colto tutti di sorpresa. Se un sistema corruttivo poteva essere immaginato, l’ampiezza accertata e il coinvolgimento della mafia sono un pugno nell’occhio».
È normale che non si commettano reati solo se c’è il commissario?
«Non lo è affatto, ma è il segnale che pezzi delle istituzioni stanno provando a mettere in sicurezza gli appalti. C’è una parte del sistema sana, che vuole essere garantita».

Repubblica 20.1.15
“Corruzione a livelli intollerabili”
L’allarme del Guardasigilli Orlando nella relazione al Parlamento:

“Intreccio con la mafia, effetti devastanti”
“Dopo la riforma pendenze civili scese sotto i 5 milioni, superata l’emergenza carceri”. Ma M5S e Lega attaccano
di Liana Milella

ROMA Corruzione «intollerabile». Il Guardasigilli Andrea Orlando attacca prima che gli contestino ritardi nella lotta alle tangenti. Tra Montecitorio e Palazzo Madama presenta la fotografia della giustizia 2013, vende i successi nel civile (-6,7% nei fascicoli in entrata, lo zoccolo dei 5 milioni pendenti scesi a 4,8), ammette subito il bubbone della corruzione. È indispensabile «un più efficace contrasto a un fenomeno criminale che le inchieste giudiziarie dimostrano aver raggiunto dimensioni intollerabili anche per il suo intreccio con strutture organizzate di tipo mafioso». È la fotografia di Mafia Capitale, quella che assieme ad altre richiederebbe il pugno duro della politica stessa.
Le opposizioni attaccano, M5S e Lega lanciano slogan, ma dagli slogan, anche quelli di Renzi che tanto hanno irritato le toghe, Orlando piglia le distanze perché «semplificano e ideologizzano l’approccio ai problemi».
A chi lo critica chiede collaborazione, per far cadere gli steccati sulla giustizia, ripropone le sue norme sulla corruzione che stanno suscitando polemiche in Parlamento. Rilancia l’aumento di pena per il reato di corruzione (da 8 a 10 anni), si spende sulle confische contro i corrotti, ricorda il sì all’autoriciclaggio, fa promesse sul falso in bilancio. Era punito fino a 2 anni il reato storpiato da Berlusconi nel 2001, salirà fino a 6 il suo, consentendo le intercettazioni. Ma resta, e Orlando lo sa bene, la polemica sulle soglie liberatorie sotto il 5% e soprattutto la perseguibilità a querela. Già da oggi, al Senato, il confronto sarà aspro, anche all’interno della stesso Pd. Tema caldo come la prescrizione e la “tenuità del fatto”, niente carcere sotto i 5 anni, solo per reati di lievissima entità. «Non ha nulla a che vedere con la depenalizzazione» ci tiene a dire Orlando. Che difende le misure sulla responsabilità civile dei giudici, un’ossessione nera per la magistratura, una «giusta tutela per il cittadino» secondo lui.
Una battuta su giustizia e politica: «Per molto tempo, lo scontro aspro ha impedito le riforme necessarie». Per questo la giustizia «è il simbolo di un calvario da tenere il più lontano possibile dalla propria vita e uno dei più grossi macigni sulla via della crescita». Nasce da qui l’impegno sul civile, l’ormai prossima riforma Berruti, promossa dal vicepresidente della commissione Ue Katainen come «esempio perfetto di una riforma che creerà un ambiente più favorevole all’impresa e che attirerà investimenti».
(l. mi.)

Repubblica 20.1.15
 Pisapia e le nozze gay “Renzi non può tacere ritiri la circolare Alfano”
Bruti Liberati: ma per le trascrizioni il sindaco non è indagato E lui: è come se lo fossi, ora il Parlamento si occupi di diritti
di Oriana Liso


MILANO Sabato scorso il sindaco di Milano Giuliano Pisapia aveva rivelato di essere indagato per omissione di atti di ufficio, per non aver ottemperato alla richiesta del prefetto di annullare le trascrizioni dei matrimoni omosessuali celebrati all’estero. Ieri il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati ha smentito: «Pisapia non è indagato, l’inchiesta è a carico di ignoti».
Sindaco Pisapia, perché ha dichiarato di essere indagato se il fascicolo, formalmente appena aperto, è contro ignoti?
«Ma quell’ignoto sono io: per evitare che la responsabilità ricadesse sui funzionari del Comune, ho fatto io in persona le trascrizioni, e naturalmente io so che c’è la mia firma. Ho fatto l’avvocato fino all’altro ieri, quando l’autorità giudiziaria è venuta in Comune ad acquisire gli atti sulle trascrizioni ho capito che esisteva un fascicolo. Poi, sabato, ho ricevuto una diffida dal prefetto ad annullarle “senza ritardo”: in caso contrario, avrebbe provveduto con i suoi uffici alla cancellazione. Se la denuncia era contro ignoti, a quel punto era ora di dire che “l’ignoto era noto”».
Il centrodestra l’attacca: un uomo di legge come lei ha preso un abbaglio, oppure la sua era strategia politica?
«Nessun abbaglio e nessuna strategia: in un procedimento penale, a fronte di una denuncia dettagliata di un presunto reato, c’è anche un indagato. Credo che la denuncia abbia lo scopo di fare pressioni sui sindaci, ma io ritengo le trascrizioni un atto dovuto per legge. È la circolare Alfano che ritengo errata sia giuridicamente che politicamente, non le richieste del prefetto».
Il ministro Alfano ha definito le nozze gay all’estero “turismo matrimoniale” e ha detto che non cambierà la circolare.
«Lo faccia, ma ci saranno altri provvedimenti — come quello della procura di Udine — che andranno in direzione diversa».
Quelle trascrizioni non equiparano del tutto i matrimoni gay celebrati all’estero con gli altri. Il suo è solo un gesto simbolico, quindi?
«Assolutamente no. L’ho fatto “per fine pubblicistico” anche perché far conoscere che un cittadino è sposato, seppur all’estero, è indispensabile. Dopo di che io sono un sindaco, non un legislatore. E da sindaco, oltreché da cittadino, credo sia arrivato il momento che il Parlamento, che è già in gravissimo ritardo, affronti questo tema, come è da tempo avvenuto in tutti i Paesi civili».
Il silenzio maggiore arriva da Matteo Renzi e dal Pd: la sua richiesta è caduta nel vuoto?
«Ho ricevuto moltissimi messaggi di vicinanza, da sindaci, da persone delle istituzioni, dei partiti, compreso il Pd, soprattutto da migliaia di cittadini. Non vivo sulla luna, vedo che il Paese ha tante emergenze, ma le questioni che riguardano i diritti civili non costano nulla e sarebbe ora che il Parlamento le affrontasse. Il ritiro di una circolare può avere tempi brevissimi: proprio quelli che piacciono al presidente del Consiglio».
Si sente un «pirla», come ha definito Roberto Maroni i partecipanti alla manifestazione contro il convegno omofobo in Regione?
«Anche se non ero presente, mi auguro sia una frase dal sen fuggita. Piuttosto, mi ha colpito l’intolleranza rispetto a un ragazzo che poneva un problema. Il mio giudizio sul convegno è noto, ritengo che collegarlo al logo di Expo sia stato profondamente sbagliato e negativo per l’immagine dell’esposizione».
Nessuno ammette di aver invitato don Mauro Inzoli, accusato di pedofilia, a quel convegno.
«Probabilmente Maroni non lo sapeva. Ma sono altrettanto convinto che lo sapesse Roberto Formigoni, che certo lo conosceva, e questo è imbarazzante».
Domenica parteciperà alla kermesse di Sel, Human factor. È quello il suo mondo, non il Pd?
«Le difficoltà sono davanti agli occhi di tutti ma, sarò un illuso, non cambio idea: solo un centrosinistra unito e di governo può davvero cambiare l’Italia in meglio. E spero fortemente che per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica ci sia un’unità, possibilmente anche più ampia. Il che sarà possibile solo se sarà indicata, dal partito di maggioranza in Parlamento, il Pd, una rosa di nomi che ci facciano dire: ecco la persona giusta al posto giusto».

Repubblica 20.1.15
Cosa rischiamo noi benestanti
di Vittorio Sermonti


CARO direttore, guardiamoci negli occhi: siamo i benestanti della terra, e alla nostra benestanza, con una serie di agi di cui ci accorgiamo davvero solo quando si profila il terrore di perderne uno, concorre in modo significativo la libertà di pensare quello che ci pare (che ognuno pensi quello che pare a lui), di dire quello che ci pare e, con qualche modesta limitazione, di fare quello che ci pare. Insomma, la libertà e l’idea stessa di libertà individuale, e quindi di tolleranza per la libertà individuale del prossimo, i Lumi, la democrazia, Max Weber e tutto il resto. Ma al mondo, come peraltro notissimo, c’è anche una sterminata e crescente massa di malestanti, di cui, per inciso, noi benestanti in calo abbiamo maledettamente bisogno per protrarre il nostro benestare: e questi malestanti che, purtroppo, se non crepano a grappoli di pandemie o non si ammazzano meticolosamente fra di loro, magari si stanziano nelle nostre periferie a non morire di fame, e in genere a invidiarci e disprezzarci, costituiscono un parco immane di consumatori potenziali delle nostre tecnologie: per il momento, in modo assolutamente prioritario, delle più accessibili. Cioè delle raffinate tecnologie degli armamenti, e delle incontenibili tecnologie dell’informazione (resi ubiqui dalla ragnatela dello spionaggio e del controspionaggio globale, i malestanti sanno tutto di come stiamo al mondo noi, di cosa ci piace, di cosa ci spaventa, e attivano in rete un proselitismo letale contro le nostre libertà, garantito dalla libertà d’espressione, di qualsiasi espressione). Come nasconderci che, in tutti i casi, si tratta del fall out di tecnologie belliche o parabelliche, inesitabili ai livelli estremi? (difficile azionare bombe all’idrogeno in un supermarket di infedeli, e comunque senza rischiare imponenti ritorsioni). Così l’individualismo radicale di cui noi saremmo portatori sani (?) suppura fra i malestanti della terra, affetti da contagio mediatico, in una frustrazione di identità che tende a compensarsi con i fasti del terrorismo «personalizzato». Se a noi sembra, insieme, ovvio e sacrosanto fruire dei vantaggi della libertà, o semplicemente della vita, a loro (a molti di loro) no, e aspirano all’avvento di una equità planetaria che non è mai esistita e ovviamente non esisterà mai sul pianeta, demandando le proprie rivalse a un Dio vendicatore. Noi benestanti siamo certamente più bravi e buoni, con qualche eccezione inevitabile, essendo in tutti i casi noi e non loro, e questa circostanza (che nell’uso corrente chiama in causa il conflitto di civiltà) è forse l’unica cosa seria e certa in tanto marasma: noi siamo noi, loro sono loro. In tutti i casi, mi par di constatare che al fondamentalismo religioso dei monoteisti, noi benestanti, atei integrali, bestemmiatori euforici, opponiamo in concreto, insieme ai principi della nostra libertà, l’irrefrenabile dinamismo di un fondamentalismo tecnologico altrettanto intollerante, ma molto più fragile e molto più rischioso: Dio, anche volendo, non si vende e non si compra, i kalašnikov sì. È vero: indietro non si torna e, personalmente, tornare indietro mi annoierebbe a morte. Ma visto che le nostre strepitose tecnologie, che esaltano il protagonismo mediatico, sono molto più idonee ai loro scopi che ai nostri, temo che noi benestanti d’Occidente, se non proviamo a mettere in questione gli automatismi ideologici del nostro benestare, chiuderemo presto baracca.

il Fatto 20.1.15
Al Jazeera, Barbara Serra
“Stampa italiana, quanta ipocrisia su Charlie”
di Caterina Soffici


Londra Pubblicare o no le vignette? Dove finisce la libertà di stampa e dove inizia la censura? “Non è vero che Charlie Hebdo è stato vietato ad Al Jazeera. Nessuna censura. Se vogliamo parlare di libertà di stampa non accettiamo certo lezioni dai media italiani. Dopo l’attentato, mentre noi eravamo in onda 24 ore al giorno, la Rai non ha neppure cambiato il palinsesto”.
Barbara Serra, italiana, volto delle news dell’edizione inglese da Londra, spiega cosa è successo ad Al Jazeera, la tv del Qatar, accusata di aver preso posizione contro Charlie (e quindi, implicitamente) di essere anti-occidentale e di strizzare un occhio ai terroristi.
Cominciamo dai fatti: dopo l’attentato di Parigi, una talpa ha passato all’esterno un vivace scambio di email tra giornalisti e membri dello staff di Al Jazeera. Mentre tutti i media occidentali si schieravano con Charlie, divenuto sinonimo di condanna al terrorismo, Salah-Aldeen Khadr, un produttore esecutivo di Londra, scriveva ai colleghi: “Veramente è stato un attacco alla libertà di espressione? Veramente un attacco fatto da due persone contro una rivista controversa è sinonimo di un attacco ai valori europei? O piuttosto lo slogan Io sono Charlie è da condannare perché crea una mentalità del ‘noi e loro’? Si può essere contro il razzismo di Charlie Hebdo e contro chi uccide delle persone” concludeva Khadr. La email ha aperto un dibattito interno, tra occidentali e musulmani, che è stato spiattellato sui giornali inglesi.
La redazione si è davvero spaccata su Chiarlie sì, Charlie no?
Nessun veto. Quella email tra l’altro l’ha scritta un produttore dei documentari, non delle news, quindi non poteva certo essere una direttiva. Era un punto di vista suo e uno spunto di riflessione per tutti. Come facciamo su tutte le notizie. Al Jazeera english ha probabilmente la redazione più varia al mondo per nazionalità e religioni. Questa è la nostra forza. Il dibattito interno riflette il dibattito a livello mondiale.
Quindi niente veti?
Il Corriere della Sera ha titolato: ‘Niente spot per Charlie ad Al Jazeera’. Forse quel giorno c’era un praticante al desk. È una visione provinciale e molto italiana della vicenda.
Puoi spiegare meglio? Non è facile lavorare ad Al Jazeera. Il mondo arabo non è la Svizzera. Ma ti posso garantire che c’è molta più libertà che altrove.
Per esempio? Per esempio Tony Barber sul Financial Times aveva scritto che Charlie aveva peccato di ‘stupidità editoriale’ nell’attaccare i musulmani. Era il suo pensiero. Ma in serata il suo pezzo sul blog è stato corretto e quella frase è sparita. Questa è libertà di espressione o anche lui è vittima di intimidazione? Nessuno però mette una bomba al Financial per aver detto che la redazione di Charlie Hebdo un po’ se l’è andata a cercare.
Vero, ma i giornali occidentali non possono parlare di libertà per pubblicare delle vignette che offendono Maometto. È un’ipocrisia. I giornali italiani hanno pubblicato forse in prima pagina le vignette di Charlie Hebdo con Dio che sodomizza Cristo che sodomizza lo Spirito Santo? Per un musulmano rappresentare il Profeta è sacrilegio, è una cosa che va rispettata.
Rispetto o censura?
Rispetto. In Italia la fanno facile perché non c’è un’audience internazionale, né musulmana. Se Il Fatto pensasse che la metà dei suoi lettori si sentisse insultata da una immagine, la pubblicherebbe?
Credo che Il Fatto pubblicherebbe tutto ciò
che non viola la legge.
Io non sto minimizzando il problema. Da 8 anni, da quando cioè sono ad Al Jazeera, le tensioni tra Occidente e mondo musulmano sono il mio pane quotidiano. Ma non possiamo permetterci di farne un problema di confini nazionali. Chi, come la Lega o Le Pen, dice che la soluzione è chiudere le frontiere non capisce. Non si risolve così il problema, perché è una questione globale.
Quindi?
I media anglosassoni, che hanno un pubblico internazionale, non pubblicano la copertina di Charlie Hebdo. Sul Corriere ho letto che hanno paura. Ma non è vero niente.
Allora perché?
Perché non vogliono fare un favore ai terroristi. La reazione occidentale era prevedibile: altre vignette sul profeta. Così si fa solo il gioco degli imam radicali, che possono andare dai giovani e dire: vedete, non vi rispettano. In Occidente non ci sarà mai posto per voi.
Non pubblicare è una limitazione della libertà di espressione?
Ti immagini se accettiamo lezioni di libertà dagli italiani. I giornalisti di Al Jazeera rischiano ogni giorno la vita nei posti più pericolosi del mondo in nome della libertà di espressione. Tre nostri reporter sono in carcere in Egitto, in nome della libera stampa.
Mettiti nei panni dei vignettisti superstiti di Charlie. Che cosa dovrebbero fare?
Quello che hanno fatto. Loro non possono farsi intimidire. Ma gli altri media non devono cadere nel tranello della radicalizzazione. Non vale la pena. Guarda cosa sta succedendo in Pakistan e in Nigeria, per colpa di quelle vignette.

La Stampa 20.1.15
Israele: “Con l’Europa antisemita, meglio guardare al Sol Levante”
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu accoglie il collega giapponese Shinzo Abe, sottolineando la necessità per l’economia nazionale di guardare verso l’Estremo Oriente
di Maurizio Molinari

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La Stampa 20.1.15
La silenziosa strage degli uiguri in fuga
La vita si fa sempre più difficile per la popolazione turcofona a maggioranza musulmana proveniente dalla regione cinese del Xinjiang. Cercano di raggiungere la Malaysia tramite il Vietnam, ma vengono decimati alle frontiere dagli agenti di Pechino
di Ilaria Maria Sala
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http://www.lastampa.it/2015/01/20/esteri/la-silenziosa-strage-degli-uiguri-in-fuga-SvCYZRmALxgtnPpq0TU5ZI/pagina.html

Corriere 20.1.15
Dateci il film di Hitchcock sulla Shoah
Il documentario, girato e assemblato nel 1945, è rimasto in uno scatolone per decenni
di Antonio Ferrari /agr - Corriere TV
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Corriere 20.1.15
L’ora più buia per i gesuiti
La Compagnia venne soppressa nel 1773 anche per il suo impegno antischiavista
di Paolo Mieli


L a Compagnia di Gesù fu soppressa il 21 luglio del 1773 da papa Clemente XIV, al secolo Lorenzo Ganganelli, con il breve Dominus ac Redemptor . Quando, quattro anni prima, papa Ganganelli era stato eletto, qualcuno volle ricordare che quell’uomo — nato a Sant’Arcangelo di Romagna e appassionato di cavalli — prima di diventare francescano era stato buon amico dei seguaci di Sant’Ignazio. Ma il letterato gesuita Giulio Cesare Cordara — storico ufficiale della Compagnia nonché testimone diretto degli eventi — così ricordò l’atmosfera che avvolse l’ascesa al soglio di Clemente: «Il popolo si rallegrò, la nobiltà si stupì, gli eruditi si astennero dall’esprimere giudizi, i conventuali trionfarono, soltanto i gesuiti si rattristarono sprofondando in un cupo presentimento, perché sapevano che il Papa era totalmente di sentimenti spagnoli». E la Spagna, quegli uomini della Compagnia — fondata nel 1534 da Ignazio di Loyola e riconosciuta nel 1540 da Paolo III con l’intenzione di farne la punta di lancia della lotta contro Lutero — li aveva cacciati già nel 1767 (dopo che lo stesso avevano fatto il Portogallo nel 1759 e la Francia nel 1764). L’Austria si era poi adeguata alla decisione di papa Clemente. Prussia e Russia, no. Lì, soprattutto in Russia, i gesuiti sopravvissero fino al 1814, quando, al tracollo di Napoleone Bonaparte, la Compagnia fu ricostituita ad opera di Pio VII.
Nel frattempo papa Ganganelli era morto un anno dopo la soppressione dell’ordine, nel 1774, e si era sparsa la voce (priva di alcun fondamento) che fosse stato avvelenato da sicari ignaziani. L’ultimo generale dell’ordine, Lorenzo Ricci, morì l’anno successivo, nel 1775, mentre era ancora prigioniero a Castel Sant’Angelo. Il mondo illuminista visse questi eventi come un trionfo della ragione sulla superstizione e sull’oscurantismo, a danno di un ordine che già da tempo era in declino. E come tali quei fatti e queste valutazioni si sono depositati nei testi di storia.
Ma adesso — in un libro che sta per essere pubblicato dal Mulino, I gesuiti — Claudio Ferlan approfondisce le remote cause della decisione di Clemente XIV e giunge alla conclusione che «l’immagine del declino sia piuttosto stata costruita a posteriori, al fine di trovare una spiegazione alla soppressione del 1773». Declino? In Francia, ricorda Ferlan, «i padri della Compagnia avevano ricoperto il ruolo di consiglieri dei re dalla fine del Cinquecento e lo avrebbero mantenuto fino alla dissoluzione». In questo lungo periodo «i loro collegi furono luoghi privilegiati per la formazione di buona parte delle élite nazionali, culturali e politiche». Ad esempio, frequentarono il Collegio Louis-le-Grand Molière, Voltaire, Diderot e Robespierre; in quello di La Flèche studiò Cartesio. Luigi XIV, scrive Ferlan, «aveva riposto una notevole fiducia nei confronti di due ignaziani, François Annat e François de La Chaize, scegliendoli come confessori». Inoltre alcuni professori del Collegio Louis-le-Grand pubblicarono tra il 1701 e il 1762 l’importantissimo mensile «Mémoires pour l’Histoire des Sciences et des Beaux-Arts» (noto come «Journal de Trévoux» dal nome della località della Borgogna in cui aveva sede la sua stamperia), che raggiunse l’obiettivo di mettere a disposizione di chiunque fosse interessato dettagliati commenti sulle principali opere che erano state pubblicate nella prima metà del Settecento .
La verità è che la guerra ai gesuiti era iniziata e si era sviluppata già un secolo prima in un altro continente, l’America Latina. In ragione della loro ostilità alla schiavismo. Come hanno ben documentato Jean Andreau e Raymond Descat in Gli schiavi nel mondo greco e romano (Il Mulino) «è nel corso dell’alto Medioevo che si sono prodotti i cambiamenti più importanti e che si è definitivamente usciti, in Europa occidentale, dalla società schiavista». E la Chiesa, scrive Rodney Stark in A gloria di Dio (Lindau), è stata in prima fila nella battaglia contro la schiavitù. Lo fu ai tempi di Carlo Magno. Nel IX secolo con il vescovo Agobardo di Lione. Nell’XI con Sant’Anselmo. Nel XIII con Tommaso d’Aquino. Nel 1435 con papa Eugenio IV. E lo fu soprattutto quando il tema degli schiavi riemerse nel nostro continente dopo la scoperta dell’America. Il 2 giugno 1537, papa Paolo III emanò la bolla Veritas Ipsa (nota anche come Sublimis Deus ) nella quale minacciò di scomunica coloro che avessero ridotto in schiavitù i nativi. Nel 1639, Urbano VIII con la bolla Commissum nobis avrebbe ribadito le posizioni di Paolo III. La Chiesa riuscì anche a influenzare l’imperatore Carlo V, il quale nel 1542 promulgò le «Leyes Nuevas», che vietavano di ridurre gli indigeni a schiavi nelle regioni spagnole del Nuovo Mondo. In quello stesso periodo, vescovi locali riuscirono a far accettare alla corte spagnola il «Código Negro Español» che mitigava le condizioni dei primi africani trasportati in Brasile dai negrieri. Fu in quell’epoca che i gesuiti iniziarono a costruire i primi insediamenti, le «missioni», per dedicarsi all’evangelizzazione degli indios guaraní. Ma all’inizio del Seicento i coloni bianchi presero a organizzare delle bandeiras , vere e proprie spedizioni per catturare indios da ridurre in schiavitù. Fu in questa fase che alcuni gesuiti con un passato militare (Juan Cardenas, Antonio Bernal, Domingo Torres) aiutarono i guaraní a formare un vero e proprio esercito per resistere alle incursioni dei bandeirantes . L’11 marzo 1641 le due milizie si trovarono di fronte una all’altra nella battaglia del fiume Mbororé e i bandeirantes , in massima parte portoghesi, ebbero la peggio.
A questo punto i gesuiti costruirono sulle missioni qualcosa che assomigliava ad una grande Repubblica cristiana. Tali istituzioni, scrive Ferlan, si localizzarono nella provincia del Paraguay, un territorio molto più vasto di quello occupato dall’omonima repubblica contemporanea, che comprendeva zone appartenenti oggi anche ad Argentina, Brasile e Uruguay. Fu così che nelle città schiaviste in mano ai portoghesi le missioni divennero assai impopolari. «Quando, a Rio de Janeiro, i gesuiti lessero pubblicamente una bolla papale contro la schiavitù», riferisce Stark, «una folla inferocita attaccò il loro collegio e ferì molti sacerdoti… Quando poi un tentativo analogo di pubblicizzare la condanna papale della schiavitù venne fatto a Santos, i gesuiti furono espulsi dal Brasile». Ma procediamo con ordine.
Entra in scena qui Gabriele Malagrida, un gesuita nato a Menaggio sul lago di Como alla fine del Seicento. Nel 1721, Malagrida ottiene di essere inviato come missionario in Sudamerica, nello Stato del Maranhão sotto il controllo della corona portoghese. Qui si batte con decisione contro la schiavitù, si fa una fama immensa e gli vengono addirittura attribuiti miracoli. Nel 1749 il re del Portogallo, Giovanni V, lo vuole a Lisbona perché gli faccia da padre spirituale. Lo ammira, gli è devoto, così come sua moglie, Maria Anna d’Austria. Di lì a poco, però, Giovanni muore (1750) e suo figlio, Giuseppe I, nomina Malagrida consigliere per i possedimenti d’oltremare e lo rispedisce in Brasile. Giuseppe chiama al suo fianco, come primo ministro, Sebastião José de Carvalho, marchese di Pombal. E fu su una nave di Stato che, assieme al fratello del Pombal, nominato governatore del Maranhão, Malagrida fece ritorno in Brasile. Durante il viaggio i due non si piacquero, da quel momento i loro rapporti furono sempre più tesi e tali restarono al tempo del loro soggiorno in terra brasiliana. Nel frattempo il Pombal a Lisbona varava una serie di provvedimenti antigesuitici, «preceduti», scrive Ferlan, «da un’articolata campagna diffamatoria alimentata da libelli accusatori pubblicati e diffusi in buona parte d’Europa proprio con il sostegno del primo ministro portoghese». E quando, nel 1753, Malagrida decide di tornare in Portogallo, l’accoglienza è ben diversa da quella che gli aveva riservato Giovanni V: il gesuita taumaturgo viene esiliato a Setúbal.
Nel 1755, Lisbona è sconvolta da un terremoto: le vittime sono decine di migliaia, la città è distrutta quasi per intero. Fu allora, ha scritto il gesuita Guido Sommavilla in La compagnia di Gesù (Rizzoli), «che quel santuomo di Malagrida, e ci dispiace tanto, sbagliò, dando luogo ad una tipica controversia oscurantistico-illuministica, nientemeno che tra lui e Pombal in persona». Predicò nelle chiese superstiti e nei campi dei rifugiati che il sisma era un castigo di Dio sulla città peccatrice. Gli illuministi lo presero a bersaglio, facendone l’emblema di una Chiesa oscurantista e superstiziosa. Quel mondo illuminista che, ha fatto notare Stark, era stato indifferente alla battaglia antischiavista di Malagrida, e anzi da John Locke a Voltaire, da David Hume a Denis Diderot, aveva accettato la schiavitù, quando non aveva addirittura «investito i propri risparmi nel commercio degli schiavi».
Pombal — che per molti degli illuministi di cui sopra era ora un politico di riferimento — ritenne fosse venuta l’ora di mettere i gesuiti fuori gioco. Li fece indicare come responsabili di un’agitazione di viticoltori ad Oporto. Fece insinuare all’orecchio del Papa che fossero dediti alla «mercatura». Benedetto XIV abboccò all’amo, mandò un visitatore pontificio a compiere indagini e subito dopo morirono all’improvviso sia il Papa che il patriarca di Lisbona. In un attimo si diffuse la voce che entrambi fossero stati «avvelenati dai gesuiti», registra Sommavilla, puntualizzando che si trattava di dicerie senza fondamento. Ma il 3 settembre 1758 accadde qualcosa di decisivo. Quel giorno si registrò un attentato (fallito) a Giuseppe I. Ne nacquero innumerevoli mormorii e, scrive Ferlan, «ci fu con ogni probabilità lo zampino del primo ministro Pombal nel diffondersi in tutta Lisbona della notizia che i gesuiti fossero seriamente coinvolti nel complotto». Molti gesuiti furono tratti in arresto. Tra loro, Malagrida. Che rimase in carcere anche quando molti suoi confratelli furono rimessi in libertà. Ciò che avvenne dopo la scoperta che la congiura era stata organizzata dalla famiglia dei marchesi di Tavora. Malagrida, che all’epoca dei fatti aveva settant’anni, venne addirittura accusato, sottolinea Ferlan, di aver «sedotto l’attempata marchesa di Tavora». E fu mandato al rogo, come eretico e ciarlatano, il 21 settembre 1761.
Nel frattempo, due anni prima, Giuseppe I aveva firmato un decreto di espulsione dei gesuiti dal Portogallo. Così Sommavilla ne ha descritto l’esodo: «I seguaci di Sant’Ignazio furono subito arrestati, imbarcati e gettati sulla spiaggia di Centocelle (Civitavecchia) nello Stato pontificio. La stessa sorte toccherà poi, a ondate, agli altri in tutto l’impero portoghese. Da Macao, India, Africa, Brasile, i gesuiti, portoghesi e non, furono stivati dentro navi, condotti a Lisbona e incarcerati. Durante la navigazione i morti furono almeno un centinaio». Rispetto a quelli che erano stati mandati a Centocelle, molti di loro «ebbero una sorte ben più atroce, quella di marcire (è la parola) nelle carceri di San Giuliano alle foci del Tago o della cittadina di Azeitão, vere camere di tortura». Ancor oggi non si conosce il numero esatto di quanti furono quei sepolti vivi (forse trecento). Si sa unicamente che ne sopravvissero quarantacinque. Solo quarantacinque.
Poi fu la volta della Francia a seguito del «caso Lavallette». Il gesuita Antoine Lavallette, a metà Settecento, si impegnò in affari per risolvere una crisi economica della sua missione. Il generale dell’ordine, Ignazio Visconti, gli impose di cessare quelle attività, ma Lavallette ignorò la disposizione. Non si trattava certo di un comportamento riconducibile al criterio della «obbedienza negoziata», osserva Ferlan, ma di «disobbedienza vera e propria». Finché Lavallette finì in bancarotta, e poco tempo dopo, nel 1762, fu costretto a lasciare la Compagnia. Trascorsero due anni e Luigi XV che, in cambio del ripianamento del debito, avrebbe voluto il riconoscimento dell’indipendenza della Chiesa nazionale, il 26 novembre 1764 abolì l’ordine nel territorio francese. E fu il momento della scelta: gran parte dei gesuiti francesi scelse l’esilio, alcuni abiurarono. Tra loro quel Lavallette che era stato all’origine dell’incidente .
Infine fu la volta della Spagna di Carlo III. Qui il casus belli fu una sommossa popolare contro il ministro riformatore siciliano Leopoldo de Gregorio, marchese di Squillace. Il re affidò al ministro Pedro Rodriguez de Campomanes il compito di indagare sull’origine di quei moti e Campomanes raccolse una serie di «presunte evidenze» che conducevano ai seguaci di Sant’Ignazio. Il 3 aprile del 1767 anche la Spagna espulse i suoi cinquemila gesuiti. Seguita, quello stesso anno, dal Regno di Napoli e, nel successivo, dal Ducato di Parma. Papa Clemente XIII, a cui fu chiesta una bolla di soppressione universale, disse che si sarebbe tagliato una mano piuttosto che concederla. Ma di lì a breve, nel 1773, il suo successore, Clemente XIV, dopo aver tergiversato per quattro anni, acconsentì. Il generale dei gesuiti, Lorenzo Ricci, fu rinchiuso a Castel Sant’Angelo dove morì nel 1775. Non al rogo come Malagrida, ma pur sempre in carcere. E lo schiavismo poté imperversare fino al secolo successivo.

Corriere 20.1.15
Un’istituzione religiosa dotata di prestigio e forte influenza

Sarà disponibile in libreria dal prossimo 12 marzo il saggio di Claudio Ferlan I gesuiti , edito dal Mulino (pagine 210, e 13). Ferlan, nato a Gorizia nel 1972, lavora come ricercatore a Trento presso la Fondazione Bruno Kessler - Istituto storico italo-germanico. Un altro libro importante sulla storia dei gesuiti è La compagnia di Gesù di Guido Sommavilla, pubblicato da Rizzoli nel 1985 con una prefazione del cardinale Carlo Maria Martini. Sul tema del rapporto tra cristianesimo e schiavitù fornisce indicazioni utili il saggio di Jean Andreau e Raymond Descat Gli schiavi nel mondo greco e romano , edito dal Mulino nel 2009 e ristampato nel 2014 (traduzione di Raffaella Biundo, pagine 248, e 13). La questione è trattata anche nel saggio dello studioso americano Rodney Stark A gloria di Dio , pubblicato in Italia nel 2011 dalla casa editrice Lindau di Torino.

Corriere 20.1.15
Franco Purini e il disegno d’architettura

Una mostra al Politecnico di Milano (Sala Nardi, piazza Leonardo Da Vinci, sino al 6 febbraio) celebra l’architetto, storico e docente Franco Purini, uno dei maestri dell’architettura contemporanea, interrogandosi, al contempo, sul ruolo del disegno come attività critica. La serie e il paradigma. Franco Purini e l’arte del disegno presso i moderni , curata da Pier Federico Caliari e Carola Gentilini, è un omaggio e un momento di riflessione. A circa un quarto di secolo dalla rivoluzione digitale (che ha trasformato radicalmente l’architettura) Purini richiama all’importanza del disegno come attività intorno alla quale matura il progetto. Non propone un ritorno all’ordine, bensì di rivedere un processo che ha travolto il progetto spostandolo su un piano comunicativo o di copia-incolla. Una riflessione, questa, cara anche a Vittorio Gregotti.
L’idea della mostra supporta il tentativo di ritornare, parzialmente, a una didattica e a un progetto che non si muovano solo su base digitale. Il titolo, parafrasando Winckelmann, riporta il visitatore in una dimensione tradizionale dell’arte. L’esposizione attinge dall’archivio dell’autore e da una collezione privata. Dal primo provengono i 47 disegni d’invenzione, 14 schizzi su Gibellina, i taccuini e altri lucidi. Dalla seconda, 24 opere riferibili a diverse serie e una miscellanea di disegni a colori. La mostra andrà successivamente alla Casa dell’Architettura di Roma.

Repubblica 20.1.15
“Io e mio padre genio fantastico ma testardo”
Lucy è la figlia del celebre astrofisico, insieme scrivono libri per spiegare ai bambini i misteri dell’universo: “Ecco che cosa significa avere un genitore così speciale”
Hawking
di Guido Andruetto


Gli è piaciuta la pellicola su di lui al cinema, si è commosso, l’attore è straordinario e tutto corrisponde alla realtà, alla nostra vita
Mi ha chiamata Lucy, viene dal latino e significa “luce”, la sua passione per la scienza mi ha segnata fin dalla nascita
IN due occasioni Stephen Hawking ha potuto vedere il film di James Marsh La teoria del tutto, da alcuni giorni nelle sale italiane, che ripercorre la storia d’amore tra l’astrofisico e la moglie Jane Wilde e le tappe della malattia che lo costrinse da giovane sulla sedia a rotelle. La prima a una proiezione privata alla Working Title Films di Londra, da cui Hawking pare sia uscito visibilmente commosso, e poi a dicembre per la premiére all’Odeon Leicester Square, dove i fotografi lo hanno immortalato accanto alla figlia Lucy e a Eddie Redmayne, l’attore inglese che si è aggiudicato un Golden Globe ed è candidato all’Oscar per l’interpretazione di Hawking. «Conoscerlo è stato toccante — ha detto Redmayne — ho scoperto l’arguzia e il senso dell’umorismo di una persona straordinaria, la sua generosità e determinazione». Nonostante la sua esistenza sia stata compromessa dalla sclerosi laterale amiotrofica, il più famoso studioso dell’origine dell’universo e dei buchi neri continua le sue ricerche e, con la figlia, anche l’attività di divulgazione scientifica. «Lavorare con mio padre è fantastico — spiega la Hawking, 44 anni, scrittrice e giornalista, al telefono dalla casa di Londra — anche se talvolta è un po’ testardo e intransigente».
Nel film emerge la grande sofferenza vissuta da suo padre. Che cosa ha provato, da figlia, vedendolo?
«Sono stupefatta da come Redmayne si è calato nella parte, lo sforzo che ha fatto a livello fisico è sbalorditivo. I suoi gesti, i movimenti della faccia, degli occhi, sono identici a quelli di papà. Tutto mi è apparso così vicino al vero, alla nostra vita. Mi ha commosso, per esempio, quando ho rivisto la nostra casa, in cui sono cresciuta. Non c’è una scena o un’inquadratura che non corrisponda alla realtà. È impossibile distinguere tra l’attore e il personaggio che impersona. C’è un’aderenza anche con la personalità di mio padre».
A lui è piaciuto il film?
«Molto, anche se da astrofisico avrebbe preferito che si raccontasse di più delle materie dei suoi studi».
Com’è nata la vostra collaborazione?
«La scintilla è stata la voglia di provare qualcosa di nuovo. Non avevo mai scritto prima di scienza in forma creativa, e papà non aveva mai cercato di organizzare i suoi pensieri su fisica e cosmologia dentro una trama narrativa. Così ci siamo messi a scrivere storie che sono diventate dei libri. Abbiamo incontrato delle difficoltà, era un’esperienza nuova per entrambi ma è stato divertente e gratificante farlo insieme. Oggi i nostri racconti sono pubblicati in più di quaranta lingue ed è in fase di preparazione una versione animata per una serie tv con lo studio d’animazione canadese NerdCorps».
In tutti i vostri bestseller fino a Il codice dell’Universo, in Italia a maggio, avete scelto di spiegare i segreti del cosmo ai più piccoli mescolando scienza e fiction.
«Raccontiamo le avventure di due piccoli eroi, George e Annie, che viaggiano nello spazio alla scoperta del sistema solare. Nel farlo apprendono concetti scientifici anche complessi che serviranno loro per sconfiggere le forze del male e salvare il pianeta Terra».
Com’è stato crescere con un papà astrofisico?
«Ha scelto di chiamarmi Lucy perché il nome proviene dal latino, significa luce, lo studio della luce è uno dei principali interessi dei fisici. Fin dalla nascita sono stata segnata dalla sua passione per la scienza. Da ragazza ero brava in matematica e in scienze ma rimase deluso quando scelsi di non approfondire gli studi in quei campi. Preferii l’arte e la letteratura, ma come vede mi sono servite per spiegare le scoperte di mio padre e dei suoi colleghi ai bambini».
Hawking ha detto «guardate le stelle invece dei vostri piedi». È anche un invito a usare di più la fantasia?
«È una possibile lettura. La fantasia, secondo molti scienziati, rientra nel percorso di scoperta scientifica, è una componente chiave del processo scientifico, soprattutto quando c’è una relazione tra fantasia e informazioni. L’immaginazione, da sola, rimane pura fantasia. Così l’informazione senza immaginazione si compone solamente di dati, ma se le combiniamo insieme si possono fare grandi passi».
Il vostro prossimo libro che uscirà in Inghilterra, George and the Blue Planets , di che cosa tratterà?
«Sarà l’ultimo della serie, con tanta azione. Abbiamo costruito una trama esilarante e imprevedibile dove i nostri eroi vanno alla ricerca della vita nel nostro sistema solare».”

Repubblica 20.1.15
L’antropologo Diamond difende la sua categoria
Perché noi non siamo scienziati di serie B
Il progresso non si ottiene solo con gli esperimenti di laboratorio che tanto piacciono ai chimici
La conoscenza del mondo reale, che è il fine della ricerca, ammette il ricorso ad altri metodi
di Jared Diamond


POVERI studiosi delle scienze sociali! Poveri antropologi, psicologi clinici, economisti, storici, antropogeografi, sociologi ed esperti di scienze politiche: le loro discipline non consentono di effettuare esperimenti controllati e rigorosi, dunque non potranno mai fornire risposte decisive. La scienza non ammette altro metodo fuorché quello sperimentale, che consiste nel manipolare un campione (per esempio versando una sostanza chimica in una provetta) e nel comparare i risultati dell’esperimento con un campione di controllo, del tutto identico ma non modificato.
Certi scienziati, come i chimici o i biologi molecolari, sostengono che gli esperimenti manipolativi controllati siano il marchio di garanzia della vera scienza. Le loro, dicono, sono “scienze dure”: la ricerca nel campo delle scienze sociali è “molle”, dunque difettosa. Grazie alla superiore qualità del metodo sperimentale, le scienze “dure” hanno trovato risposta agli interrogativi più minuziosi [...]. Gli scienziati sociali, invece, non sanno rispondere con certezza neppure alle domande più fondamentali: non sanno dirci, ad esempio, perché certe nazioni siano ricche e altre povere. Se anche loro si decidessero a impiegare il metodo sperimentale, di certo farebbero passi da gigante!
Consideriamo per esempio un problema delle scienze sociali che interessa molto i miei lettori italiani: perché in Italia il Sud è da sempre più povero del Nord? [...] Ho una proposta da farvi: proviamo a immaginare che un abitante della Nebulosa di Andromeda, un essere dai poteri quasi illimitati, addestrato ai metodi della scienza sperimentale presso le migliori università della sua galassia, venga a visitare la Terra. Messo al corrente delle differenze tra il Nord e il Sud dell’Italia, l’ospite extraterrestre appronterebbe lì per lì un protocollo sperimentale utile a identificare le cause del fenomeno. Per misurare l’importanza dei fattori geografici, spargerebbe sulla Sicilia i ricchi suoli alluvionali della valle del Po; rimossa quindi l’isola dalla sua attuale, infelice collocazione, la deporrebbe poco a sud di Genova, appena sotto il limite costiero della prosperosa Italia settentrionale. Per valutare il peso delle eredità sociali del passato, il nostro visitatore riavvolgerebbe il nastro della storia con l’aiuto di una macchina del tempo, cancellando ogni traccia delle dominazioni normanna e borbonica; quindi ucciderebbe tutti i presunti affiliati alla mafia residenti nell’Italia sudorientale (ma non in quella sudoccidentale) e trapianterebbe centomila mafiosi nelle regioni nordorientali del paese, dotandoli di fondi illimitati e affidando loro il compito di propagare la corruzione e il malaffare. L’Italia nordoccidentale, non manipolata dall’esperimento, servirebbe da variabile di controllo per le regioni nordorientali; le regioni sudoccidentali svolgerebbero la stessa funzione nei confronti delle regioni sudorientali, e tutto il Sud dell’Italia continentale servirebbe da controllo per la Sicilia traslocata al Nord. Dopo quarant’anni, il nostro scienziato andromediano tornerebbe sulla Terra per misurare il livello di benessere economico dei suoi campioni da esperimento: confronterebbe la ricollocata Sicilia con la parte continentale dell’Italia meridionale, le regioni del Nordest contaminate dalla mafia con il Nordovest liberato dal contagio, il Sudest “demafiosizzato” con il Sudovest ancora infestato dalla criminalità organizzata. Tutto ciò gli consentirebbe di individuare, al di là di ogni possibile dubbio, le origini delle disparità economiche tra Italia meridionale e settentrionale, proprio come i biologi molecolari hanno individuato la funzione del centotrentasettesimo amminoacido della beta-galattosidasi.
Ma ahimè, c’è un piccolo problema: la mia modesta proposta è immorale, illegale e impraticabile. Molti esperimenti potenzialmente decisivi nel campo delle scienze sociali hanno il medesimo difetcomunissimo to: sono immorali, illegali e impraticabili. Dobbiamo dunque rinunciare a ogni speranza di progresso in questo ambito della conoscenza? Com’è ovvio, la risposta è no. Il progresso scientifico non si realizza soltanto grazie agli esperimenti di laboratorio controllati che tanto piacciono ai chimici e ai biologi molecolari. La conoscenza del mondo reale, che è poi il fine ultimo della scienza, ammette anche il ricorso ad altri metodi.
Ho imparato questa grande verità intorno ai ventisei anni, cioè nel periodo della mia vita in cui la passione per gli uccelli stava cominciando a trasformarsi da semplice hobby in serio interesse accademico. Il dottorato di ricerca in fisiologia conseguito un anno prima dimostrava che tra i ventuno e i venticinque anni ero stato addestrato a risolvere i problemi relativi al mio ambito di studi tramite ben congegnati esperimenti scientifici. [...] Quando poi ho cominciato a studiare gli uccelli della Nuova Guinea ho constatato che sul piano sintattico i problemi della nuova disciplina non erano affatto diversi da quelli della fisiologia. Uno di questi, per esempio, riguardava il passeriforme noto come pigliamosche dorsoverde e la sua capacità di influenzare (e se sì, in quale misura) la consistenza delle popolazioni dell’altrettanto comune pigliamosche dorsogrigio. Applicando il metodo delle scienze “dure”, avrei potuto risolvere la questione in quattro e quattr’otto: sarebbe bastato uccidere tutti i pigliamosche dorsoverde che vivevano in una certa zona e misurare le eventuali variazioni nella popolazione di pigliamosche dorsogrigio, finalmente liberi dalla concorrenza dei cugini dorsoverde. Ma c’era un problema: l’esperimento, benché decisivo, era altrettanto immorale, illegale e impraticabile di quello che un immaginario andromediano avrebbe potuto effettuare traslocando la Sicilia e trapiantando o uccidendo i mafiosi. Di fatto, dovevo trovare un altro metodo per risolvere i miei dubbi ornitologici.
L’alternativa agli esperimenti manipolativi controllati c’era già, ed era un metodo ampiamente diffuso nelle scienze sociali: il cosiddetto esperimento naturale. Invece di creare un ambiente artificiale privo di pigliamosche dorsoverde, cominciai dunque a osservare diversi ambienti montani della Nuova Guinea: scoprii che alcuni ne sostenevano la diffusione, altri no. Negli ambienti in cui non c’erano pigliamosche dorsoverde la popolazione di pigliamosche dorsogrigio era del trenta per cento più abbondante, in quanto libera di estendersi anche alle quote che negli ambienti popolati da entrambe le specie erano occupate dai pigliamosche dorsoverde. Ma naturalmente anche gli esperimenti naturali, come quelli manipolativi, presentano problemi. Nel caso dei pigliamosche, per esempio, per confermare che l’assenza naturale di pigliamosche dorsoverde era alla base dell’aumento della popolazione di pigliamosche dorsogrigio, e non una semplice causa correlata, si sono resi necessari altri studi sul campo.
Come ho detto, gli esperimenti naturali sono un normale strumento delle scienze sociali. [...] Il primo esempio che ci viene in mente è quello della Germania, unificata fino al 1945 e poi divisa in due nazioni i cui governi e istituzioni, tra il 1945 e il 1990, hanno creato incentivi economici alquanto dissimili, a loro volta responsabili di livelli di benessere molto differenti. [...] In altri casi gli esperimenti naturali mettono a confronto entità che si differenziano sotto vari punti di vista, e non soltanto in relazione a un’unica variabile dominante. Se per esempio volessimo misurare gli effetti della latitudine sul benessere economico delle nazioni, non sarebbe corretto paragonare un solo paese situato alle basse latitudini (diciamo lo Zambia) con un altro che si trovi a latitudini maggiori (diciamo l’Olanda), perché la distanza dall’Equatore non sarebbe l’unico elemento di diversità. Tuttavia una comparazione tra decine di nazioni ubicate a diverse latitudini ci permetterebbe di constatare senza ombra di dubbio che i paesi delle zone temperate, situati alle latitudini più alte, sono in media due volte più ricchi delle nazioni tropicali che si trovano alle latitudini più basse. (Traduzione di Anna Rusconi e Carla Palmieri) © 2-014 Jared Diamond. All rights reserved © 2-015 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino
Il brano è tratto da Da te solo a tutto il mondo di Jared Diamond che esce da Einaudi (pagg. 130, euro 13)

Corriere 20.1.15
Dove nascono le paure
Ecco la molecola che attiva l’ansia nel nostro cervello È la stessa che portò Rita Levi Montalcini al Nobel
di Mario Pappagallo


Ansia e paura hanno lo stesso interruttore al centro del cervello. Lo si cercava, è stato trovato e adesso si può lavorare per vedere come «spegnerlo». Ma solo quando la paura diventa malattia, quando il panico è ingiustificato e paralizza, quando un grave trauma lascia come conseguenza il terrore nel fare qualcosa. Guidare l’auto, entrare in ascensore, uscire di casa, prendere l’aereo... Fobie che innescano modificazioni ormonali e fisiche tali da bloccare una persona, farla star male, attivare meccanismi di difesa ingiustificati. Utili per anticipare i pericoli reali, negativi quando il pericolo è inventato. In questi casi, e solo in questi, l’interruttore va spento o rimesso in equilibrio. Oppure si può studiare come renderlo più raffinato, quasi predittivo di un pericolo: ansia e paura hanno consentito all’umanità bambina di sopravvivere, il meccanismo va preservato.
Il sistema memorizza il pericolo avvertito da tutti e cinque i sensi, lo elabora e innesca le contromosse. Per esempio fa distinguere se quello che sembra un ramo d’albero è un vero ramo o un serpente mimetizzato, se l’auto che sta arrivando rischia di investirti o non rappresenta un pericolo. Questa «telecamera di sicurezza» al centro del cervello si chiama amigdala, il pannello di comando è adiacente e si chiama talamo. Si trovano in un’area della corteccia cerebrale che più si studia più assomiglia alla centrale di comando psico-fisico-emotiva dell’intero organismo. Tutto è connesso e tutto lì, in quell’area, interpreta dati e innesca reazioni.
Il circuito nervoso responsabile dei disordini dell’ansia e delle fobie, che nel mondo affliggono 40 milioni di adulti, è stato scoperto da due gruppi indipendenti: uno, guidato da Bo Li, del Cold Spring Harbor Laboratory (Cshl) di New York; l’altro, con a capo Gregory Quirk, dell’università di Porto Rico. Entrambi firmano la pubblicazione su Nature . Individuato nei topi, il circuito svolge un ruolo chiave nell’organizzazione della memoria dei ricordi traumatici. È difficile immaginare, rilevano gli autori, che un’emozione intangibile come la paura sia codificata all’interno di circuiti nervosi. Invece è così: è memorizzata e organizzata in un’area specifica del cervello. «In precedenti ricerche — spiega Li — abbiamo scoperto che l’apprendimento della paura e del relativo ricordo sono gestiti dalle cellule nervose nell’amigdala centrale». E ora il passo successivo. Gli scienziati hanno visto che l’amigdala centrale è governata a sua volta da un gruppo di neuroni che formano il nucleo paraventricolare del talamo (Pvt), una regione del cervello estremamente sensibile alle sollecitazioni e che agisce come un sensore sia alla tensione fisica sia a quella psicologica.
Spiega Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano: «Queste due aree sono legate da messaggeri chimici, molecole chiamate Bdnf (Brain-derived neurotrophic factor), note per essere implicate nei disturbi d’ansia». Le Bdnf sono fattori di crescita che svolgono un ruolo importante nello stimolare la nascita di nuovi neuroni e di nuove connessioni tra questi. Secondo Bo Li potrebbero diventare presto il bersaglio di nuovi farmaci per il trattamento dell’ansia e delle fobie. O per modulare ansie e fobie. Le Bdnf parlano italiano: la prima a essere scoperta, negli anni 50, è quel fattore di crescita neuronale (Ngf) che consacrò Rita Levi Montalcini premio Nobel nel 1986.