mercoledì 21 gennaio 2015

La Stampa 21.1.15
Pd, un uomo solo al comando
Viaggio nel partito di Renzi nelle città: le sfide, i circoli falsi, la crisi delle primarie
E un rinnovamento che ancora non c’è
di Jacopo Iacoboni

qui

il Fatto 21.1.15
Voto di scambio
Legge elettorale: Renzi non controlla più il Pd e chiede aiuto a Berlusconi. Che gli concede tutto (Forza Italia inclusa) in cambio di un amico al Quirinale e della SalvaSilvio che lo riporterà in Parlamento
Caos e risse in Senato: la decisione sugli emendamenti slitta a questa mattina
di Luca De Carolis


Senato stracolmo, tardo pomeriggio. Il cicaleccio cala, la curiosità diventa silenzio. Tutti ad ascoltare Giulio Tremonti, e la sua sintesidi una giornata, forse di una stagione politica: “Sulla legge elettorale c’è un’altra maggioranza, quindi un altro governo. Se ci fosse un presidente della Repubblica... ”. L’ex superministro si risiede ridendo, accanto al leghista Roberto Calderoli. Ha consumato il suo frammento di vendetta, nell’aula in cui gira tutto al supercanguro, o tagliola, prossimo venturo: il maxiemendamento del democratico Stefano Esposito, di fatto l’intero Italicum riscritto secondo il Nazareno rinfrescato, da approvare per far cadere in un amen il 90 per cento degli emendamenti alla legge elettorale. L’ennesimo sfregio del duo Renzi-B. a detta delle opposizioni tutte, di certo stratagemma indispensabile per Pd e Forza Italia. Per tenersi a galla tra mille correnti, il divin Matteo e l’eterno Silvio si devono affidare allo stesso emendamento-boa. Ma palazzo Madama rimane trincea, dove si combatte tra parecchi cavilli, citazioni dotte e qualche urlaccio. Sempre nell’attesa (dei rivoltosi) di contarsi sull’emendamento del ribelle dem Gotor contro i capilista bloccati. Si parte alle 17.30, in ritardo di un’ora, con il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi. Vestita di scuro, al microfono declama la lista degli emendamenti bocciati dal governo. Dall’elenco si salva solo il maxiemendamento di Esposito, noto come deputato piemontese pro Tav. Ma la partita inizia davvero nel segno di Calderoli: signore dei regolamenti del Senato, prima di Natale contro l’Italicum aveva scagliato scatoloni di emendamenti. Il leghista contesta l’ammissibilità del canguro, lo classifica come “l’emendamento che regge il Nazareno”. Chiede “almeno la possibilità” di sub-emendamenti al testo. “Ci dia un’ora presidente” invoca. L’esortazione è diretta alla rossissima Valeria Fedeli, pd, vicepresidente che fa le veci di Pietro Grasso, ora presidente supplente della Repubblica. Al leghista si associano tutte le opposizioni, con lunghi interventi in cui si parla anche di crisi economica.
Fedeli e l’ostrusionismo pomeridiano
Evidente la strategia: ostruzionismo sempre e comunque. La Fedeli risponde con tono calmo. Occhi puntati soprattutto verso i 5 Stelle. Ma dai loro banchi non arrivano colpi di teatro. Soprattutto, il Movimento non vuole scoprire le carte sulla linea in aula. “L’emendamento Gotor non sarà mai messo ai voti” twitta Vito Petrocelli. Per poi ironizzare: “Ghedini, Verdini e gli altri abituali assenteisti che sono venuti a fare in aula? ”. Ad occhio, a tenere compatte le fila dei lealisti di Forza Italia. Ma i frondisti fittiani sono vivaci. Ciro Falanga è quasi perfido: “Mica penserete che io voglia contrastare la maggioranza del mio partito? ”. Vincenzo D’Anna (Gal) è un torrente. Cita Protagora, poi s’innalza: “Vi ricordare quell’opera, la Merda d’artista fatta di feci? Voi della maggioranza che volete inscatolare? ”. Poi virerà in vernacolare: “Questo sistema elettorale è una fetenzia”. Ovazioni. L’ex cantore di Silvio Sandro Bondi appare stanco, mentre la Boschi e Luca Lotti parlano fitto. La Fedeli rivaleggia su voto e ordini del giorno con le opposizioni e in particolare con i leghisti, i più rumorosi. Tra i banchi del Carroccio spuntano cartelli contro la legge Fornero. I commessi rimuovono, la presidente non ferma i lavori. Calderoli insiste: “Il maxiemendamento è stato presentato fuori dei termini”. Loredana De Petris (Sel) si sgola: “State oltrepassando ogni limite”. Doris Lo Moro, tra i 29 firmatari dem dell’emendamento Gotor: “Il maxiemendamento Esposito è inammissibile, è un ordine del giorno fatto di enunciazioni di principi”. Applausi. Ma Fedeli respinge: “L’emendamento Esposito è ammissibile”. Il deputato piemontese risponde a Calderoli: “Non si permetta di darmi del bugiardo”.
Tra una discussione e l’ altra piove una penna contro la Fedeli, tirata (pare) dal leghista Stefano Candiani. Lei, stoica, tira dritto. Si limita a chiedere: “Ditemi chi l’ha tirata”. I leghisti, discolacci, alzano tutti la mano. Si arriva alle dichiarazioni di voto sul primo emendamento, proprio a firma Calderoli. Endrizzi (M5S) resta sul vago: “Per ora diciamo no, su altri emendamenti vedremo che possibilità ci sono”. Tradotto, sull’emendamento Gotor decideranno in base alle mosse di Pd e Forza Italia. Ma il voto favorevole è possibile.
Si ricomincia stamani alle 9:30
Tra i sì a Calderoli arriva quello di Francesco Campanella, del neonato coordinamento degli espulsi dall’M5S, pronto a trasformarsi in gruppo (sono in 12). Si arriva alle 20.30, con Calderoli che fa l’ultimo dispetto e rinuncia al voto sul suo testo. Si ricomincia oggi alle 9.30. Voto finale previsto per la prossima settimana.

Repubblica 21.1.15
Processo compravendita, braccio di ferro sulla prescrizione
di Liana Milella


ROMA . «...e non facciamo scherzi sulla prescrizione». Una battuta di Berlusconi, quanto basta per ricordare a quelli del Pd che le promesse sono come i debiti, si devono pagare. Niente prescrizione per i processi in corso, come una soglia accettabile per i reati fiscali, come altre soglie per il falso in bilancio. Ma sulla prescrizione, su cui l’accordo con gli uomini dell’ex Cavaliere è di antica data, non sono ammessi giochi sotto banco o peggio sgambetti furbeschi. Come quelli che, secondo Fi, ma anche Ncd, sarebbero stati fatti a Montecitorio una settimana fa. Di mezzo c’è un processo importante che l’ex premier vuole togliersi di torno, quello per la compravendita dei senatori, in corso a Napoli in primo grado, che nell’autunno di quest’anno, sarà cancellato definitivamente dalla prescrizione. Lo sarà a patto che, nel frattempo, non intervenga una riforma che blocca l’orologio dell’azione penale dopo la sentenza di primo grado e lo congela per due anni, per dar tempo ai giudici dell’appello di riesaminare il caso. Se una legge simile fosse approvata e se si applicasse al caso De Gregorio, Berlusconi potrebbe rischiare una nuova condanna dopo quella per Mediaset.
Pagine segrete del patto del Nazareno, quelle di cui parlano senza remora alcuna gli uomini di Berlusconi che hanno contribuito a scriverle. In cui al primo posto c’è la prescrizione. Su cui l’intesa è saltata la scorsa settimana quando la presidente Pd della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti ha messo in votazione un testo dove non figura la norma transitoria che garantisce Silvio. Giusto quella che invece fa parte del testo approvato dal governo: la prescrizione «non si applica ai processi in corso». Riguarda solo i dibattimenti che cominceranno dopo l’approvazione della legge. Quindi Berlusconi, in questo caso, è salvo, il suo processo di Napoli si può considerare “morto”.
Dal momento stesso del voto sul testo Ferranti Forza Italia ha cominciato ad agitarsi. Gli emissari si sono precipitati dall’ex premier. I suoi avvocati Niccolò Ghedini e Franco Coppi sono entrati in allarme. È partito un pressing per imporre al Pd la marcia indietro e per ricordare gli impegni sottoscritti e che evidentemente non vedono tra i firmatari la Ferranti. Quando il testo passa in commissione senza norma transitoria il primo a protestare è il vice ministro della Giustizia Enrico Costa che tuttora dice: «Io non ci sto. Non è questo il testo su cui il governo si è impegnato. La norma transitoria che esclude i processi in corso non solo è una regola di civiltà, ma è in linea con la dottrina giuridica. È inimmaginabile che una norma in sé più sfavorevole possa valere per i processi già aperti».
Costa e i parlamentari di Alfano, in queste ore, sono degli alleanti preziosi per Berlusconi. Pronti come sono a non votare il testo se le norme dovessero restare così. Dice ancora Costa: «Non possiamo fare le leggi contra personam. Dobbiamo fare leggi giuste». Chiosa, nel Pd, chi è contro qualsiasi patto del Nazareno sulla giustizia: «Una legge giusta sarebbe quella che applicasse la riforma della prescrizione a tutti i processi, quelli di Berlusconi compresi». Fatto sta che per gli emendamenti bisognerà aspettare il voto per il Colle, giusto come per la nuova versione della delega fiscale. Un modo, in caso di sorprese, per non far fibrillare Berlusconi.

il Fatto 21.1.15
Il sistema di Silvio e Matteo
Il “porcellinum”: più di metà nominati alla Camera, tutti nominati al Senato


CAMERA LISTE BLOCCATE Il modello Renzi-Berlusconi si basa su cento collegi con capilista bloccati. Nelle simulazioni fatte sui sondaggi che circolano oggi (con il Pd al 34,8% e M5S a 20,6%), in caso di vittoria Democrat, i nominati a Montecitorio sarebbero 100 su 340 per il Pd, 97 su 97 per M5s, 70 su 70 per Forza Italia, 60 su 60 per la Lega, 18 su 18 per Ncd/Udc, 17 su 17 per Fratelli d’Italia e 15 su 15 per Sel. Ben oltre la metà della Camera sarebbe così nominata direttamente dalle segreterie del partito.
SENATO NOMINATO Saranno le Regioni a nominare i 100 senatori previsti dalla nuova riforma costituzionale già approvata in un ramo del Parlamento e oggi all’attenzione dell’aula di Montecitorio. Anche qui il cittadino sarà espropriato della scelta di eleggere direttamente il proprio rappresentante a Palazzo Madama.
PREMIO DI MAGGIORANZA Scatta se un partito supera il 40% o se vince il ballottaggio (che si svolge tra i primi due partiti più votati al primo turno). Consente alla lista vincitrice di ottenere i 340 deputati sui 630 necessari alla maggioranza.
SOGLIE DI SBARRAMENTO Anche qui si è trattato con i partiti. La soglia inizialmente fissata all’8%, si è alla fine ridotta al 3%.

Corriere 21.1.15
Prende forma un’alleanza che va oltre il Nazareno
di Massimo Franco


Stanno emergendo due novità. La prima è che si profila in Senato una nuova maggioranza parlamentare, fondata sul patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. La seconda è che ne fanno parte gran parte del Pd e di FI, e il Nuovo centrodestra. Ma per paradosso, mentre spunta una sorta di rinnovata unità Berlusconi-Alfano in vista dell’elezione del capo dello Stato, sulla legge elettorale il partito del premier perde 29 senatori su 102. La componente che fa capo all’ex segretario Pier Luigi Bersani non vuole votare il cosiddetto Italicum : i cento capilista bloccati, voluti da Berlusconi sono indigesti in quanto «nominati» dai leader. Si tratta di capire quali saranno le conseguenze sul Quirinale di questo mutamento di scenario e di rapporti di forza. Il fatto che Renzi abbia deciso di andare avanti dopo il colloquio con Berlusconi a Palazzo Chigi significa che l’accordo tra i due si sta cementando. E il «placet» dell’ex premier al premio alla lista vincente dimostra che le intese con palazzo Chigi vanno oltre quelle conosciute. Se ci fossero le elezioni ora, FI non potrebbe aspirare nemmeno al ballottaggio. Dunque, Berlusconi si muove ormai in un’ottica che va al di là del partito. Per questo gli avversari dentro FI parlano di «suicidio». La verità è che Pd e FI ritengono di potere eleggere da soli il capo dello Stato. È la conferma di un patto asimmetrico, nel quale Renzi ha la possibilità di imporre il suo schema. L’imprevisto, forse, è stato l’abbandono rumoroso dell’ex sindacalista Sergio Cofferati dopo le irregolarità nelle primarie in Liguria: un episodio che ha smentito la pacificazione del Pd alla vigilia del voto per il Quirinale; e segnalato la nascita di «assi del Nazareno» anche a livello locale. E si somma al «no» all’ Italicum di almeno ventisei dei ventinove senatori. È probabile che la legge passi comunque prima del 29 gennaio grazie ad un emendamento che annulla gran parte degli altri. Il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, spiega che «i numeri ci sono. Siamo tranquilli». A Palazzo Madama dovrebbe esistere un margine di sicurezza di almeno una decina di voti rispetto alla soglia minima di 161. Il problema è il prezzo politico: la spaccatura del Pd. E sono i contraccolpi sulla scelta del presidente della Repubblica. L’ipotesi di una candidatura votata dal grosso di Pd e FI e dal Ncd di Alfano diventa plausibile: sempre che i margini del Senato reggano a Camere riunite.
Il tentativo del M5S di opporsi «a tutti i costi» all’ Italicum per agganciare il Pd non renziano prefigura una maggioranza alternativa. Insomma, come si prevedeva la competizione sta diventando dura. Verrebbe da dire che quanto è accaduto ieri rende la situazione più chiara. La condizione, però, è che lo «schema del Nazareno» conduca rapidamente al risultato programmato da Renzi e Berlusconi per il Quirinale. In caso contrario, sarà il caos dagli esiti più imprevedibili.

Il Sole 21.1.15
Scatta la maggioranza trasversale
A favore della riforma almeno 195 voti “trasversali”.
di Barbara Fiammeri

Roma È la vittoria del Patto del Nazareno. E per garantirla tanto Matteo Renzi che Silvio Berlusconi hanno deciso di sacrificare l’unità dei loro rispettivi partiti. L’Italicum sarà approvato dal Senato prima che il Parlamento si riunisca in seduta comune per l’elezione del successore di Giorgio Napolitano con i voti decisivi di Fi.
A dare l’input del «non si torna indietro» è stato il premier, che fin da lunedì aveva messo in conto di arrivare in aula con un partito diviso. Un conto salato, che Renzi ha immediatamente girato a Silvio Berlusconi nel faccia a faccia svoltosi ieri mattina a Palazzo Chigi.
Al Cavaliere il premier ha ribadito che il tempo delle mediazioni è scaduto: l’Italicum va approvato rapidamente e per farlo l’unica possibilità è il via libera all’emendamento del democratico Stefano Esposito, che travolge o, meglio, fa decadere automaticamente tutti i 44mila emendamenti alla riforma elettorale, compresi quelli presentati dalla minoranza del Pd. Dentro l’emendamento Esposito (qualcuno ironicamente ha già ribattezzato la riforma elettorale “Espositum”) c’è infatti tutto il nuovo Italicum: soglie di sbarramento al 3%, clausola di salvaguardia per far decorrere la nuova legge a partire dal 1° luglio 2016 e naturalmente i capilista bloccati, chiesti da Berlusconi e contro cui si è si schierata la minoranza dem guidata dai bersaniani, ma anche il premio alla lista, a cui Fi si è sempre opposta. Almeno fino a ieri.
Da ieri tutto è cambiato. E quanto è avvenuto nell’aula di Palazzo Madama è la fotografia più eloquente. In un clima tesissimo si è assistito a interventi di singoli senatori seduti tra i banchi del Pd o di Fi, che prendevano le distanze dai loro reciproci gruppi e venivano applauditi dall’opposizione. Un’opposizione di cui Fi non fa più parte, non sull’Italicum e che ridisegna la scena parlamentare. Lo dice esplicitamente il capogruppo azzurro Paolo Romani che parla di «dato politicamente rilevante»: «In questo momento, stante questa situazione politica in cui Renzi non ha più la maggioranza al Senato, riteniamo di sostituire i senatori che non concorrono all’approvazione della legge elettorale “con i nostri”». E Giulio Tremonti, il megaministro dell’Economia di tutti i governi Berlusconi che oggi siede tra i banchi di Gal osserva: «Siamo di fronte a una nuova maggioranza, forse a un nuovo governo se ci fosse un Capo dello Stato...».
Una battuta che ben sintetizza il nuovo corso della svolta impressa ieri da Renzi e Berlusconi e destinata a riflettersi tra qualche giorno nel voto per il Colle. Prima di allora però bisogna esaurire il capitolo Italicum. La conferenza dei capigruppo ha deciso che il voto finale arriverà la prossima settimana. Tutto però si deciderà tra oggi e domani. Quando l’aula dovrà pronunciarsi sui cosiddetti emendamenti «premissivi», perché la loro approvazione farebbe decadere gran parte dei 44mila emendamenti presentati. Tra questi due sono sostenuti da 29 senatori della minoranza Pd (primo firmatario il bersaniano Miguel Gotor) e prevedono che l’assegnazione dei seggi avvenga per un 30% con capilista bloccati e per un 70% tramite le preferenze, legando inoltre l’entrata in vigore della legge elettorale al via libera definitivo alla riforma costituzionale del Senato.
Il governo ha già dato parere contrario e l’apporto di voti di Fi garantisce che non supereranno l’esame dell’aula. Anche perché alcuni dei 29 senatori della minoranza che avevano sottoscritto il documento presentato da Gotor all’assemblea del gruppo, hanno già fatto sapere che non voteranno contro la decisione del governo. Distinguo che potrebbero aumentare nelle prossime ore e che emergeranno non tanto sul voto a favore degli emendamenti della minoranza, quanto su quelle che avverrà immediatamente dopo. Il caso vuole che dopo gli emendamenti Gotor sia posto ai voti quello Esposito.
È di fatto la prova generale del voto finale, quella in cui si potrà pesare l’effettiva forza del dissenso espresso dalla minoranza Dem e dai fittiani in Fi. Ieri l’intervento più duro è stato quello di Doris Lo Moro. L’attuale capogruppo del Pd in commissione Affari costituzionali ha attaccato l’emendamento del collega di partito chiedendone la «bocciatura» e riscuotendo gli applausi di Lega, Sel e 5stelle. Una volta superato lo scoglio Esposito quasi tutti gli altri emendamenti decadranno in quanto in contrasto quanto già deciso dall’aula. Dopodiché Renzi e Berlusconi potranno concentrarsi sulla scelta per il Quirinale.

il Fatto 21.1.15
Questione immorale, corruzione legalizzata
Ora la corruzione è a norma di legge
di Roberta De Monticelli


La questione morale ha cambiato taglia. Ma non è la “mappa della corruzione” nella Pubblica amministrazione, con le sue percentuali di illeciti che sembrano aver impressionato il ministro della Giustizia Orlando (Fatto Quotidiano19/01/2015) a fare la differenza. Per la semplice ragione che si tratta di “illeciti”. Cioè di violazioni della legge. Almeno dai tempi di Tacito è ben noto che la peggiore corruzione è quella “a norma di legge”, per far eco al bel titolo di un recente libro di Rizzo e Giavazzi.
Ma ancora peggiore è la corruzione della legge stessa. Qui per illustrare il fenomeno vien buona un’altra immagine di sartoria. Secondo una famosa ricetta cinica di Giolitti, “Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo deve fare la gobba anche all’abito”. La corruzione delle leggi è appunto questo: una legge non serve a prevenire, impedire o raddrizzare una deformità, ma ad adattarcisi al meglio. Se proprio serve un esempio, oltre alla reiterata depenalizzazione del falso in bilancio, che non ha invece impensierito il ministro, può valere l’ormai ben noto 19-bis del Decreto-legge sulla delega fiscale. La cosa più sorprendente di questo vestito tagliato a misura di gobba è che il clamore che ha finito per suscitare si sia limitato nella maggior parte dei casi a censurare il carattere ad personam di questo mostriciattolo partorito probabilmente da un accordo sordido: come se il suo effetto “riabilitante” nei confronti di un noto pregiudicato ne esaurisse la mostruosità. Come se non ci fossero due altri aspetti mostruosi.
Il primo è l’atto con cui l’articolo è improvvisamente comparso nel testo di un decreto del Consiglio dei ministri. Questo, stando alle autorevoli dichiarazioni di due costituzionalisti, è semplicemente un falso in atto pubblico. Per il Prof. Sorrentino si tratta di un “reato commesso nell’esercizio delle funzioni del ministro o del presidente del Consiglio... un fatto di una gravità straordinaria, passato sotto silenzio” (FQ 18/01/15).
Per il Prof. Pace chi se ne è assunto la responsabilità “ha usato un sotterfugio per far sì che una sua ‘volizione individuale’ assumesse le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti” (FQ 17/01/15). E il contenuto di questa “volizione”? Ecco, dall’intervista di F. Forquet al ministro Padoan (Sole 24 Ore 17/01/2015). Domanda: “Quella franchigia del 3% sarà riproposta? ”. Risposta: “Bisogna ragionare su un sistema di percentuali e di margini, dall’intreccio di questi due parametri può uscire un sistema equo”. Traduzione: dall’intreccio di una frode che non viene più trattata come frode e di una legge che calcola gli sconti per le frodi invece di sanzionarle, “può uscire un sistema equo”. Domanda: “Ma qual è la sua versione sulla famosa manina che ha introdotto la norma del 3%? ”. Risposta: “... è il metodo di lavoro abituale di questo governo: l’interazione tra ministeri e presidenza e quindi il Consiglio”. Cioè: un falso in atto pubblico come lo chiama, un ministro della Repubblica? Un metodo di lavoro!
Ecco: per capire la gravità di questi due aspetti, l’atto e il suo contenuto, occorre allargare la visuale al più vasto fenomeno cui il colpaccio che si sperava passasse inosservato appartiene. È un fenomeno di proporzioni apocalittiche, la cui profondità e vastità ci impedisce forse di prenderne veramente coscienza: perché ci nuotiamo dentro, come pesci nell’acqua. Questo fenomeno è l’appiattimento del dover essere sull’essere, del valore sul fatto, della norma sulla pratica comune anche se abnorme, e in definitiva del diritto sulla forza. “Tutto quel che è reale è razionale”, dice il filosofo che dà ragione alla forza, purché vinca. “Tutto quello che è reale è normale”, dice il cinismo che ha permeato il linguaggio popolare.
AL FONDO, è la dissoluzione dei vincoli di senso, i vincoli all’interno dei quali soltanto le parole umane dicono qualcosa di definito, i comportamenti umani hanno un significato e un valore definito. Sciogliete una lingua dalle sue norme logiche e nessuno potrà più affermare o negare nulla. Si dirà insieme tutto e il contrario di tutto. Sciogliete i comportamenti umani dai vincoli pur minimi dell’etica, da quelle norme implicite che sono i mores o da quelle ponderate che sono le leggi, e non potrete più valutare se la mano che vi si tende offre morte o amicizia. Leggiamola a questa profondità, la piccola porcheria del 19-bis. Ci consente di farlo il comportamento degli individui che con atti, parole e omissioni contribuiscono, come tutti ormai facciamo senza accorgercene neppure più, ad appiattire la norma sul fatto e il diritto sul potere. Perché l’erosione dell’idealità non avviene da sola, e neppure da soli i vestiti si attagliano alle gobbe, ci vuole chi dispone, chi scrive, chi tace, chi usa le leggi corrotte. E cosa c’è di terribile in questo? Quasi niente: l’auto-destituzione del soggetto morale in noi, vale a dire la semplice impossibilità di dissentire anche nel foro interiore da ciò che non è come dovrebbe essere, perché la distinzione non c’è più: la realtà ha vinto completamente, ovunque. Chi si ribella a uno Stato totalitario, come fecero i coniugi Solgenitsin quando decisero di non mentire più qualunque conseguenza potesse seguirne, ha una chance di uscire libero dalla sofferta “prigionia della mente”. Nel caso totalitario resta la potenziale coscienza della libertà perduta: la costrizione, il dolore di subirla, la vergogna di piegarsi... mentre lo Stato impunitario è una distruzione irreversibile di risorse di senso. Chi ha sciolto il suo pensiero dal vincolo della legge ha destituito in se stesso per sempre l’autonomia, la libertà di resistere all’arbitrio, dentro e fuori di sé. Il parricidio della civiltà, come predisse Socrate, è vicino. E questo è il vero ultimo senso della parola “corruzione”: dissoluzione e morte di un intero vivente. Ecco perché la questione morale ha cambiato taglia.

il Fatto 21.1.15
Lorenza Carlassare
“Preparano il Porcellum-bis e tradiscono la Consulta”
La costituzionalista Lorenza Carlassare
“Il Nazareno vuole mettere a tacere la voce dei cittadini”
intervista di Silvia Truzzi

  
Un anno fa. Dodici mesi dopo la proposta di modifica della legge elettorale non convince molti costituzionalisti. Tra loro c’è Lorenza Carlassare, professore emerito a Padova.
Professoressa, Renzi dice: la questione dei capilista non è decisiva.
Invece è assolutamente decisiva! A parte il partito che prende il premio di maggioranza, praticamente gli eletti degli altri partiti sarebbero tutti nominati. Soprattutto questo sistema va contro la sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum. I giudici hanno insistito moltissimo sul tema della rappresentanza, del collegamento con gli elettori. E certo questo sistema dei “capilista bloccati” non corrisponde alle indicazioni della Consulta.
Che pensa delle candidature plurime?
Non c’è nessuna possibilità che il cittadino sappia chi verrà eletto. Se un candidato può presentarsi in otto collegi e, mettiamo, vince a Padova e opta per Milano, allora a Padova andrà un candidato che non è stato votato. Non è vero che con le liste corte il cittadino sa sempre chi vota, perché con le candidature plurime il risultato finale può essere diverso. Io voto lei, ma lei sceglie un altro collegio. Al suo posto verrà qualcun altro che io non ho scelto: il partito può avere un ruolo fondamentale in questo meccanismo.
Si ripropongono i dubbi di costituzionalità del Porcellum?
Molti, tutti incentrati sulla perdita di centralità del principio di rappresentanza. E non dimentichiamo la riforma del Senato...
... ecco: l'esecutivo vuol proseguire speditamente anche sulla riforma costituzionale. Il che porterebbe da un lato una Camera eletta con questo sistema, dall’altra un Senato di nominati.
È molto importante capire che non si può ragionare separatamente: la legge elettorale deve essere analizzata insieme alla riforma del Senato. La visione deve essere complessiva, perché è dall’orizzonte unitario che si capisce dove il patto del Nazareno vuole arrivare. Non si tratta nemmeno di un’elezione di secondo grado, ma di una cooptazione: i grandi elettori sono di fatto molto pochi. È un partita che si gioca all’interno delle segreterie. L’obiettivo finale è tacitare completamente i cittadini, che nell’elezione del Senato non hanno voce. Nella formazione della Camera si trovano di fronte a un meccanismo elettorale che tende ad alterare il risultato del voto popolare. Non dimentichiamo quanto il premio di maggioranza modifichi il risultato.
Il messaggio sembra essere: il prezzo della governabilità è un restringimento degli spazi di democrazia.
Bisogna tener conto di entrambe le esigenze, ma non si può fare a scapito degli equilibri democratici. Mussolini, nel 1923, chiarì a cosa serviva il premio di maggioranza: che “l’Assemblea eletta sia la più capace a costituire un governo... atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco tutte le questioni... non impacciato da preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili, non soffocato da dissidi, non viziato nella origine da differenze ingenite di tendenze e di indirizzi”. Nessuno spazio per le opinioni diverse: l’elezione è intesa “più come atto di selezione del Ministero che come definizione della rappresentanza il cui ruolo è destinato a diventare del tutto secondario”. È una riforma che ha l’unico scopo di decidere velocemente: un argomento che dal 1923 si ripropone ancora oggi.
Bisognerebbe ricordare anche che il Parlamento che procede alla riforma costituzionale è un parlamento fortemente delegittimato dalla sentenza del gennaio 2014. Non è un dettaglio.
Questo Parlamento non dovrebbe fare nessuna riforma costituzionale, nessuna! La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la legge con cui è stato eletto, pur ammettendo che il Parlamento possa restare in carica fino alle nuove elezioni, in modo da non bloccare la vita dello Stato. Ma non si può andare avanti all’infinito, per di più facendo riforme costituzionali: le Camere hanno una legittimazione molto scarsa. In più la situazione politica è opaca: di questi accordi del Nazareno non si quasi nulla. Il nostro presidente del Consiglio si accorda, prima che con i suoi, sempre con Berlusconi. E lo fa segretamente: la democrazia è fatta di dibattiti, di discussioni, di pubblicità, di dibattiti in Parlamento. Non di accordi segreti, cui non assiste nessuno al di fuori di Verdini, che tra l’altro ha diversi problemi penali.
Lei quale soluzione vedrebbe?
Una legge elettorale il più possibile orientata al sistema proporzionale, che sarebbe in grado di ricomporre tutte le fratture che ci sono nel Paese. Un Parlamento così eletto rappresenterebbe davvero i cittadini: sarebbe legittimato a fare le riforme costituzionali.

il Fatto 21.1.15
Fondatore democrat Gad Lerner
“Ora il premier sta creando il partito unico dei trasformisti”
“Matteo rincorre la destra, cerca risse e vuole la scissione”
intervista di Carlo Tecce


Gad Lerner fa un lungo ragionamento, lo avvolge con citazioni storiche, rimandi ideologici e schiette constatazioni, e poi estrapola la sintesi, che non può essere interpretata male: “Matteo Renzi cerca la rissa, la rottura, l’emorragia a sinistra per riparare in mediana, dove si mescolano moderati di centro e di destra. È un raffinato giocatore, uno spregiudicato, ma stavolta rischia molto”. Lerner è un giornalista, scrive sui giornali e conduce programmi tv, ma è anche un fondatore del Partito democratico e un componente dell’assemblea nazionale. Il disagio è evidente, e ogni risposta ne riflette la portata: “Il premier scherza con il fuoco”.
Italicum e Liguria, uscite volontarie e cacciate minacciate, cosa accade?
Mi sto convincendo, spero di avere torto ma temo di no, che Renzi persegua la scissione. E questo atteggiamento non è dovuto solo alla sua proverbiale impulsività, il dileggio a Stefano Fassina e Gianni Cuperlo, il sarcasmo sulla minoranza o su Susanna Camusso o piuttosto sui professoroni, ma è evidente che faccia parte di un calcolo consapevole. Nei giorni scorsi, per la prima volta, una persona misurata come Cuperlo ha ipotizzato una mutazione genetica del Pd. Senza chiamare in causa la bioetica, ci sono dei segnali che vanno in questa direzione, oltre il patto del Nazareno.
E cosa fa scattare l’allarme?
La scelta dichiarata in Liguria di un’alleanza con il centrodestra fa venire più di un sospetto. Renzi vuole l’incidente a sinistra per poi occupare uno spazio in mezzo e attrarre i berlusconiani delusi. Pensa che può anche permettersi di perdere qualche punto a sinistra, perché convinto che li possa recuperare altrove. Per Renzi l’ideale sarebbe stato un movimento magari guidato da Maurizio Landini, uno schieramento subalterno però vicino. Il meccanismo che ha innescato è pericoloso. In Italia non esiste un Alexis Tsipras. Ma da fondatore del Pd resto dell’idea che sia necessario un contenitore con dentro le culture riformiste.
Renzi vuole riesumare la Democrazia cristiana un po’ colorata di rosso?
Non uso l’espressione mutazione genetica che è demonizzante, ma trasformismo. Un tipico fenomeno politico. Giovanni Giolitti fu trasformista, un uomo che ha fatto e disfatto l’Italia. Giovanni Orsini, che non è uno storico di sinistra, fu il primo a paragonare Renzi a Giolitti. Tanti temi e le parole d’ordine di Renzi sono di destra, vedi la campagna contro i sindacati. Lo ritengo un trasformista perché vuole trasformare il Pd in un grande partito di centro. E ha assegnato il Pd alla famiglia dei socialisti europei per fare liberamente questa operazione. Ma i democratici di Renzi, in questa evoluzione europea, stanno con Berlino e Bruxelles o con i greci di Syriza e gli spagnoli di Podemos?
Un renziano potrebbe replicare che il “giglio magico” ha trascinato il partito al 40,8 per cento.
E devono sapere che gli elettori italiani fanno molto in fretta a rinchiudersi nell’astensionismo di massa, a manifestare fenomeni di volubilità. Il successo europeo è un’illusione ottica. Così Renzi rischia di commettere il suo più grosso errore politico. Il Pd non è solo dei militanti, ma anche dei suoi elettori, e questo valore hanno le primarie. Significa che non potrà mai essere il partito di un leader, mentre Renzi lo sta plasmando come partito del leader che da solo può manovrare e rimodulare il sistema politico. Ai sindacati ha concesso un’inutile ora di tempo sulla riforma del lavoro, li ha convocati pur sapendo di voler mettere la fiducia. Dopo lo sciopero generale, ha detto: “Io non mi faccio impressionare”. Il disagio sociale non lo comprendi così, non attraverso bravi consulenti come Andrea Guerra o accanto a bravi imprenditori come Enzo Manes, ma dando la giusta importanza a una piazza che incarna la protesta sociale, pacifica e democratica.
Lerner, non ci sono vie di fuga per chi si dichiara un sofferente di sinistra?
Renzi vuole far fuori l’anima rossa, spero che l’anima rossa non cada in questa trappola. O dia libero sfogo a uscite individuali come quelle di Sergio Cofferati che, nonostante i clamorosi brogli che dovevano far annullare la consultazione, ha sbagliato a candidarsi: era una mossa improvvisata, incomprensibile per gli elettori; sei mesi fa s’era proposto per un mandato a Strasburgo e l’aveva ottenuto. Adesso c’è Nichi Vendola che si sta muovendo, c’è il sindaco Giuliano Pisapia, un bravo amministratore che potrà essere un riferimento nazionale. Sabato a Milano, città laboratorio della sinistra, ci sarà la manifestazione Human Factor, e io ci andrò, un modo per agire insieme. Ma agire davvero.

Repubblica 21.1.15
L’Italicum nascerà da un partito in frantumi
Per il premier una vittoria che rende Berlusconi determinante: ora è più debole nella partita del Quirinale
di Stefano Folli


ALLA fine Matteo Renzi otterrà dal Senato la riforma elettorale a lungo inseguita, con il premio in seggi al partito vincitore e i capilista bloccati. Ormai è a un passo dal risultato, a suo modo storico. Il che significa che il Pd diventerà ancora di più il partito del premier, modellato e plasmato sugli obiettivi di una leadership forte e poco propensa ai compromessi interni. Ma la trasformazione è dolorosa e lascia sul campo un certo numero di macerie. Il vecchio partito si sfalda, registrando un’altra sconfitta. E per i vinti c’è poca pietà: i dissidenti sono marcati come «anti- partito»; il bersaniano Gotor, l’uomo degli emendamenti, è dipinto come un oscurantista; e il leader si preoccupa più che altro di non appannare la sua immagine di corridore instancabile.
Di conseguenza gli oppositori sono costretti ad arretrare, consapevoli che pochi di loro avrebbero fortuna al di fuori dei confini del Pd. Può darsi che esista, alla sinistra di Renzi, un’area elettorale propizia per un esperimento stile Tsipras, ma al momento non si vede chi potrebbe incarnare la versione italiana del politico greco. Forse Landini, dice qualcuno. Intanto l’unica cosa certa è che i gruppi anti-Renzi hanno tentato la prova di forza al Senato e la stanno perdendo, sia pure battendosi bene. D’altra parte, il premier non ha davvero motivo di essere soddisfatto, al di là del messaggio propagandistico. Un Pd frantumato giusto alla vigilia del voto sul Quirinale non è di buon auspicio. La contesa sulla legge elettorale ha creato una nuova fascia di malcontento, non tanto fra chi ha trovato il coraggio di votare contro le indicazioni del gruppo (di fatto mettendosi ai margini del partito), quanto fra i senatori che stanno rientrando nei ranghi per disciplina e non per convinzione. E fra tutti coloro che non si sono esposti nella contestazione al premier-segretario, ma covano la segreta speranza di una rivincita.
Renzi esce quindi indebolito e non rafforzato dalla prova di forza sulla riforma. Prevale, sì, ma esponendosi a nuovi rischi in vista dell’elezione del capo dello Stato. In fondo c’è del vero nell’argomento usato da Gotor e indirettamente da Bersani contro di lui: la rottura con la minoranza interna rende più significativo e centrale il soccorso di Berlusconi. La riforma passa grazie alla logica del «patto del Nazareno». Il capo di Forza Italia, più volte descritto come subordinato a Renzi, quasi soggiogato dal giovane fiorentino, questa volta gioca da protagonista e offre al suo semi- alleato un contributo decisivo. Lo fa scontando una rottura interna a Forza Italia parallela a quella del Pd, simile anche nei numeri. Anche qui si conferma (intorno a Fitto) un’area di malessere che andrà meglio valutata fra pochi giorni, quando si comincerà a votare per il successore di Napolitano. In altre parole, il patto a due regge, ma è quasi una corsa contro il tempo a spremere dall’accordo tutto quello che se ne può ricavare prima che i fattori di logoramento prevalgano. E poi c’è un’altra questione. Qual è il prezzo che Renzi paga al suo partner per l’aiuto ricevuto a Palazzo Madama? Lo spirito pragmatico di Berlusconi ha di sicuro percepito la difficoltà del presidente del Consiglio e avrà letto nella spaccatura del Pd l’opportunità di cogliere un successo più rotondo. In primo luogo il leader di Forza Italia è di nuovo al centro del gioco politico e questo è già molto. Ma c’è di più, grazie anche all’alleanza tattica ricomposta con Alfano. Magari la possibilità di tagliare la strada del Quirinale a un esponente del Pd, quanto meno a una figura proveniente dalla tradizione ex comunista. Tocca sempre a Renzi fare la prima mossa e avanzare una proposta per la presidenza della Repubblica. Ma l’operazione è tanto più complicata quanto più il Pd esce spaccato dal confronto sulla riforma elettorale.

La Stampa 21.1.15
Sinistra, destra e il partito della nazione
di Marcello Sorgi

qui

il Fatto 21.1.15
Renzi e l’Italicum 2.0 frantumano il Pd
In 29 firmano un documento contro i capilista bloccati
Il premier non fa passi indietro, Bersani oggi riunisce i suoi
di Wanda Marra


Alla fine sul mio emendamento ci saranno 150 voti. E molti senatori staranno fuori. L’Italicum passerà”. A sera Stefano Esposito, l’autore del cosiddetto maxi canguro che farà decadere quasi tutte le altre modifiche alla legge elettorale azzarda il pronostico.
LA GIORNATA è stata lunga e concitata, quella di oggi, con i voti dell’Aula di Palazzo Madama sull’Italicum, si preannuncia altrettanto congestionata. Ma per come è andata, sul piatto, evidente, c’è soprattutto la polverizzazione del Pd. Spaccato al suo interno e marginalizzato dalla coppia Matteo-Silvio. Oggi infatti Pier Luigi Bersani riunisce le minoranze, nella sala Berlinguer di Montecitorio. Previste 150 persone: l’incontro tra lui e il premier per parlare del prossimo presidente della Repubblica non c’è ancora stato (e non è ancora neanche stata fissata una data sull’agenda). Al momento non c’è traccia di quella condivisione del percorso, promessa dal segretario, fatta eccezione per i colloqui di Lotti&co con i parlamentari per sondare l’aria. C’è sicuramente una minaccia sempre più pressante di caos e di battaglia sul voto per il Colle.
I fatti. Matteo Renzi arriva in Senato in mattinata solo dopo l’incontro con Silvio Berlusconi, quello in cui gli ha chiesto i voti sulla riforma elettorale e ha fissato un altro faccia a faccia per parlare del Quirinale. “Ormai la trattativa è solo con lui”, commenta Miguel Gotor. Ecco, allora, il documento, con 29 firme in calce (da Chiti a Mineo, da Mucchetti a Tocci, alla Puppato), per dire no ai capolista bloccati. Il premier è preso di sorpresa. Non se l’aspettava. Tra i renziani si registrano momenti di nervosismo: “Se salta l’Italicum si va al voto. ” E ancora: “Se il Pd fa così, la prossima volta vince ancora Berlusconi. ” Ma i toni dell’assemblea sono tutto sommato pacati. Anche se non mancano le prese di posizione. Doris Lo Moro, dopo aver firmato l’emendamento di Gotor si dice pronta a lasciare il suo incarico di capogruppo in commissione. Renzi ascolta, poi trae le conclusioni, senza cambiare idea: i 100 capilista bloccati non equivalgono alle attuali liste bloccate, sostiene. “E se ci fosse stata questa legge elettorale Bersani sarebbe andato al ballottaggio e sarebbe diventato premier”. Il suo Pd, sottolinea il premier, “non caccia la minoranza” ma dopo il confronto “decide”. Dunque, niente libertà di coscienza per i senatori dem: Renzi mette ai voti la sua linea e con lui si schierano 71 su 102, uno si astiene e gli stessi 29 non partecipano al voto. “Spero che la minoranza si adegui”, commenta Maria Elena Boschi. Ma comunque “i numeri ci sono. ” Come dire: in fondo sono ininfluenti, si farà senza di loro. In corso di giornata i 29 scendono. Tre senatrici (Donatella Albano, Josefa Idem e Laura Puppato) fanno sapere di essere pronte a schierarsi con la maggioranza alla prova del nove del voto in Aula. I renziani che tengono il pallottoliere a Palazzo Madama assicurano che i ribelli al dunque non saranno più di 20. Dalla maggioranza cominciano a schernirli: “Basta vedere com’è andata nel gruppo, per capire come andrà a finire”. “Non ci faremo fermare dai frenatori”, commenta Renzi nel suo perfetto stile. La vera strategia è sempre nei dettagli. Twitta la deputata di Forza Italia, Gabriella Giammanco: “No a decreto legge contro banche credito cooperativo. Renzi non distrugga sistema che ha salvaguardato famiglie/imprese da crisi”. Renzi risponde: Nessuno tocca le Bcc, Gabriella”. Eccolo qui, che comincia a rinsaldare rapporti con parlamentari e elettori del partito teoricamente avverso.
IL SUO, di partito, va per conto suo. La minoranza si conterà in Senato sul voto all’Italicum. “Io dico no, anche se mi tagliano le mani”, commenta Mucchetti. Che poi chiarisce: “La minaccia di voto anticipato non ha senso. Non è certo per il bene del Paese. ” E il Colle? “Con noi renzi non parla. ” Spiega Civati: “Certo l’Italicum dovrà passare alla Camera. E con il voto segreto..... ” Ma tutto succederà dopo la partita del Quirinale. E allora? Nella minoranza sostengono che i candidati che potrebbero andar bene sono molti di quelli teoricamente in campo, da Sergio Mattarella a Giuliano Amato. I renziani confidano che se Matteo potesse scegliere vorrebbe una figura non ingombrante: Graziano Delrio, Paolo Gentiloni, Pierluigi Castagnetti. Ma poi, il Pd, sarebbe disposto a mettersi d’accordo su un candidato apparentemente “suo”, Walter Veltroni, tanto per fare un nome? L’impressione è che ci sia una guerra di bande, che la tentazione più forte sia quella di mettere in difficoltà il leader, piuttosto che pesare davvero nella scelta del futuro presidente. Ancora un renziano: “Se si proponesse Bersani, magari si calmerebbero”. Riflette ancora Stefano Esposito: “La golden share ce l’ha ancora il Pd. Basta che Bersani non avalli battaglie come quella di Gotor in Senato. ” Insomma, consiglia, ci vorrebbe una strategia.

Il Sole 21.1.15
Pd, tre virate in due anni
di Lina Palmerini


Quasi un anno fa la stessa minoranza che oggi fa la guerra a Renzi sull’Italicum e sul Colle, votava in una direzione del Pd un documento per sfiduciare Enrico Letta e portare a Palazzo Chigi l’attuale premier. In meno di un anno l’ennesima virata.
Era il 14 febbraio di un anno fa quando Enrico Letta si dimise da premier dopo una direzione del Pd che lo aveva sfiduciato. Furono 136 i voti a favore dell’arrivo a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, una staffetta - si disse - per avviare una nuova fase del Governo e del partito e affrontare le europee di maggio. In quella direzione Pd, di fatto, a favorire il cambio di premier fu la stessa minoranza che oggi fa la guerra a Matteo Renzi sull’Italicum e sul Quirinale. Tra quei 136 voti c’era tutta la minoranza bersaniana, cuperliana e dei giovani turchi, solo i 16 di Civati votarono contro e in due si astennero, Stefano Fassina e la bindiana Margherita Miotto. Insomma, la stessa corrente che contribuì alla fine dell’Esecutivo Letta e all'arrivo di Renzi oggi lo accusa di essere anti-democratico sull’Italicum, di fare patti oscuri con Berlusconi, di aver varato provvedimenti economici di destra come il Jobs act. Ma allora perché ne favorirono l’ascesa a Palazzo Chigi senza nemmeno passare per le urne?
Non si può usare l’argomento di un cambiamento di personalità del segretario Pd in questi ultimi mesi: le bordate alla Cgil le aveva lanciate durante le primarie, i primi provvedimenti sul lavoro li ha fatti prima delle europee, la rottamazione l’aveva compiutamente spiegata e applicata e il patto del Nazareno era già nato quasi un mese prima di quella direzione di febbraio. Dunque, non c'era nulla che non si sapesse di Renzi, neppure l’accordo con l’ex Cavaliere è stata una sorpresa.
La domanda resta: cosa è cambiato in meno di un anno? E a questa se ne affianca una più profonda che non ha a che fare solo con il premier ma con il Pd nel suo complesso. E cioè un partito di maggioranza relativa - quale è oggi il Pd - si può permettere di fare inversione di marcia ogni nove, dodici mesi? Si può permettere un’assenza di strategia a medio termine e continuare a bruciare leader e Governi come se niente fosse? Perché non è solo Renzi che è finito nel tritacarne. Prima di lui è toccato a Pierluigi Bersani, poi a Letta e ora a lui. In meno di due anni il Partito democratico, il più votato dagli italiani, ha messo alla graticola tre leader ma quello che è più grave è l’improvvisazione con cui crea e distrugge posizioni politiche. Il Pd, minoranza inclusa, ha votato il pareggio di bilancio e poi l’ha messo all’indice, dal 2011 al 2012 ha votato insieme a Berlusconi il Governo Monti e poi lo ha rinnegato. E soprattutto nella primavera 2013 ha votato le larghe intese insieme al Pdl di Berlusconi - che era nella maggioranza di Governo - mentre ora vuole stracciare il patto del Nazareno che è sulle riforme. Il risultato è la confusione, una assenza totale di criteri politici che vivano più di sei mesi. Una continua navigazione a vista.
La questione non è solo come andrà a finire sull’Italicum e, la prossima settimana, sul Quirinale. Non è la sopravvivenza o no di Renzi ma se il partito di maggioranza relativa, il Pd, non cominci a essere la vera mina vagante per le istituzioni e per il Paese. Una mina non solo vagante ma incomprensibile. Questo continuo cambiare giudizio su punti strategici di una legislatura sta portando il Pd a trasformarsi da partito a “movida”. Senza una bussola e con identità multiple. Altro che primarie, il problema è a Roma e in Parlamento.

La Stampa 21.1.15
La minoranza dem resta sulle barricate
Ma c’è il soccorso di FI
Arriva un maxi-emendamento per approvare l’Italicum
di Francesca Schianchi


Alle tre del pomeriggio, sorseggiando una spremuta alla buvette del Senato («vitamine per tenersi in salute») il ministro Maria Elena Boschi prevede già a quale giornata sta andando incontro. «L’emendamento Esposito è il diciassettesimo da votare, non so se faremo in tempo entro stasera: bisogna vedere se l’opposizione fa ostruzionismo», sospira. E infatti, quando alle otto e mezza di sera si sospende la seduta del Senato sulla legge elettorale, i voti sono appena iniziati, tra polemiche e interventi creativi (il rappresentante di Gal Vincenzo D’Anna cita la «Merda d’artista» di Manzoni per chiedere quale soluzione «avete inscatolato»). Ma oggi si riprendono i lavori, e quell’emendamento, firmato dal senatore piemontese del Pd Stefano Esposito, che ingloba tutte le modifiche concordate in maggioranza (capolista bloccati, premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione, soglie al 3% ed entrata in vigore il 1° luglio 2016), determinando la sostanziale «caduta» di gran parte dei 48 mila emendamenti presentati, è il grimaldello per arrivare in tempi brevi all’Italicum 2.0.
La riunione del Pd
È lo stesso Renzi, in una riunione che tiene all’ora di pranzo coi senatori del suo gruppo, a chiedere a tutti di votare quella proposta di modifica: «Così arriviamo a una nuova legge elettorale in 48-72 ore», spiega loro, mentre difende l’Italicum ricordando che se fosse stato in vigore, «Bersani sarebbe andato al ballottaggio e sarebbe diventato premier»: «Votiamo ora nel gruppo – chiede - poi siamo compatti in Aula». Risultato: 71 sì su 90 presenti, con la minoranza che presenta un documento ma evita di votare contro. E però non fa un passo indietro sul voto in Aula e sui propri emendamenti «dissidenti», appoggiati anche dal M5S: «Se non verrà approvato l’emendamento che elimina i capilista bloccati, non voterò sì all’Italicum», conferma uno dei protagonisti della battaglia, il bersaniano Miguel Gotor, «il fatto è che più di quello che dice la minoranza Pd credo conti per Renzi quello che dice Verdini». Posizioni che però non preoccupano più di tanto il governo: all’emendamento Esposito mancheranno 29 voti dem? «Aspetti, aspetti… - predica cautela la Boschi – la diplomazia è al lavoro…».
Il sostegno di Forza Italia
Anche perché, pure Forza Italia promette di convergere sull’emendamento Esposito: una messe di voti che permetterebbe di passare, per dirla con le parole ironiche del capogruppo di Gal Mario Ferrara in Aula, «dal Mattarellum al Porcellum all’Espositum». Almeno, questa è l’indicazione data da Berlusconi ai suoi dopo aver incontrato il premier, ieri mattina a Palazzo Chigi: decisione discussa in una burrascosa riunione, tanto che la seduta del Senato, inizialmente fissata alle quattro e mezza del pomeriggio, viene rinviata di un’ora. Per permettere a Forza Italia di terminare il proprio confronto interno, che finisce con un numero tra dieci e venti dissidenti e le aspre critiche di Raffaele Fitto: «Sulla legge elettorale Berlusconi fa un errore madornale». Tanto più che il capogruppo Paolo Romani se ne esce dicendo che «Renzi non ha più la maggioranza al Senato» per cui «riteniamo di sostituire i senatori» che non votano la legge «con i nostri». È possibile anche che qualcuno chieda il voto per parti separate dell’emendamento Esposito, il che permetterebbe ai critici dei vari partiti di scegliere quali aspetti votare e quali no: «Ma ragionevolmente credo che passerebbero tutte le parti comunque», ragiona Esposito. Difficilmente i mal di pancia di dem e forzisti potranno arrestare l’avanzata della legge. Nonostante le dichiarazioni guerreggianti dei Cinque stelle: «Assumeremo qualunque iniziativa per impedire una legge irricevibile».

Corriere 21.1.15
Ecco chi sono i 29 senatori dissidenti del Pd

qui

La Stampa 21.1.15
Gotor attacca: “È uno strappo come la legge truffa del ’53”
L’emendamento firmato da 29 senatori dissidenti
intervista di Carlo Bertini


Roma Sono passate da poco le tredici, manca poco all’intervento di Renzi all’assemblea del gruppo Pd del Senato e Miguel Gotor esce trafelato: «Scusate ragazzi, ma devo andare dal sarto per farmi cucire uno strappo nei pantaloni, non vorrei restare in mutande in una giornata come questa». Ma lo strappo si consuma politicamente in tutta la sua drammaticità, il gruppo si spacca platealmente e Renzi perde per strada un terzo dei cento e passa senatori. Una dichiarazione di guerra a tutto tondo, che avrà sicure ripercussioni. E ora la minoranza bersaniana messa alle corde dai colpi del patto del Nazareno riveduto e blindato, reagisce sparando a palle incatenate.
«Questo è uno strappo istituzionale, uno strappo nelle procedure, ricorda il precedente della legge truffa del ’53, che fu votata in maniera fulminea al Senato». Gotor, capofila dei ribelli, si sfoga e lancia l’accusa più infamante, avanzando il sospetto che si siano prese le mosse «da quei precedenti e da quelle modalità». È un fiume in piena il colonnello di Bersani, spera di veder votato il suo emendamento contro le liste bloccate da tutti e 29 i senatori che l’hanno firmato; ma non ci conta troppo, «sarebbe un successo tenerli tutti».
La posta in palio infatti è alta, oggi si consumerà una sorta di voto di fiducia al governo sulla legge elettorale. Il sospetto dei ribelli è che questa fretta sull’Italicum sia un’arma usata da Renzi per condizionare la partita del Colle: «Ha forzato per sovrapporre la legge elettorale al Quirinale e per condizionare una quindicina di soggetti che aspirano a quella carica. E la legge elettorale, in linea con la fase politica che si muove lungo l’asse Renzi-Verdini sarà votata da quella maggioranza».
Insomma è la fiera dei veleni, il Pd ormai è un campo di battaglia a cielo aperto. Renzi ai suoi uomini fa notare che «anche il Pd ha cambiato pelle: alla fine a fare la differenza è stato un emendamento di un “giovane turco”, un combattente come Esposito che ha votato Cuperlo alle primarie».
Gotor e compagni invece mettono Esposito nel mirino: dicono di aver scoperto del suo emendamento quando Renzi ieri mattina alla riunione del gruppo ha alluso «a procedure che consentono di approvare la legge in 48 ore». E accusano il governo del Pd di aver usato tutti gli espedienti procedurali del Senato per esautorare il Parlamento delle sue prerogative: «questo è l’artiglio dell’aquila», sibila Gotor. Mentre alla Camera i compagni caricano le armi: «Così Renzi surriscalda il clima alla vigilia della partita sul Quirinale».

Corriere 21.1.15
La scelta degli ex Cinque Stelle schierati con Gotor
Al Senato voteranno gli emendamenti della sinistra
di Emanuele Buzzi


MILANO Mentre i fuoriusciti si schieravano in Senato con la minoranza pd, il Movimento entrava in un turbine di eventi e riunioni, che sfocerà nella partita per la scelta del successore di Napolitano: la giornata di ieri, per il Movimento 5 Stelle, è stata solo l’antipasto dei giorni a venire, che prevedono l’arrivo di Beppe Grillo a Roma e una doppia assemblea dei parlamentari. La giornata di ieri si è giocata tra Bruxelles e Milano: da una parte la riunione tra eurodeputati e direttorio, dall’altra il vertice alla Casaleggio associati con i capigruppo di Camera e Senato, Andrea Cecconi e Andrea Cioffi, e i responsabili della comunicazione, Rocco Casalino e Ilaria Loquenzi. Al centro il toto-candidature.
«Se ci viene presentato un nome che sia di alto profilo, indipendente dal governo, che abbia al primo posto del suo programma una legge anticorruzione lo valuteremo», dice Roberto Fico. Ma nessuno si sbottona: «Il silenzio è generale, non è nostro — commenta Cecconi —. Il silenzio in verità è di tutti, perché tutti i nomi che si stanno facendo sono completamente bruciati. E noi non vogliamo perdere tempo a giocare con dei bari sul nulla». Cioffi, invece, sposta l’attenzione su altri temi: «Non abbiamo parlato di Quirinale ma di reddito di cittadinanza». In realtà, il blitz è servito (anche) per delineare in modo chiaro la strategia e seguire gli sviluppi delle ultime ore.
Il dialogo con la minoranza dem e la tattica dell’attendismo «iniziano a logorare gli altri partiti», confida un esponente pentastellato. E non è detto che nelle prossime ore questo gioco di specchi non prosegua e si rafforzi. A sentire alcuni fedelissimi, l’idea di Quirinarie «bloccate» — ipotizzate anche su un asse diverso da quello della maggioranza — sembra ancora prevalere. Rimane la suggestione della candidatura del pm Nino Di Matteo, ma quello che ormai sembra certo è che i Cinque Stelle cercheranno di giocare le loro carte all’ultimo minuto.
Incognita nei progetti e nelle strategie dei pentastellati sono gli ex, che si stanno compattando. Ieri dodici fuoriusciti al Senato hanno annunciato di condividere l’emendamento Gotor sull’Italicum e hanno creato un coordinamento tra loro: il primo passo verso la possibile creazione di un gruppo. Una pattuglia che potrebbe scompigliare gli equilibri qualora si aggregassero anche gli ex di stanza a Montecitorio.
Intanto sul blog Grillo ieri è tornato ad attaccare i democratici: «L’elettore (poi corretto nel pomeriggio con “finanziatore”, ndr ) tipo del Pd è ormai un broker, un finanziere o un ex della banda della Magliana».

La Stampa 21.1.15
Italicum, mezzo M5s e gli ex con la minoranza Pd
Ma i vertici non vogliono votare l’emendamento
di F. Mae.


L’esame in Aula al Senato dell’Italicum ha prodotto tensioni e reso evidenti nuovi assetti all’interno del M5S. Nel gruppo c’è chi vorrebbe dare man forte alla minoranza Pd, votando l’emendamento presentato lunedì che riduce la quota di nominati nell’Italicum. Il voto, previsto per ieri, è invece slittato ad oggi. «Al Senato è un giorno cruciale. Uniamoci per votare sì alle preferenze e contro le liste bloccate», twittava ieri mattina il responsabile de facto per le riforme Danilo Toninelli. Una presa di posizione che va molto oltre le intenzioni dei vertici del M5S e ha spiazzato molti parlamentari. «Se l’emendamento avesse qualche possibilità – ragionava ieri ad alta voce Paola Taverna – allora lo voteremmo, ma così rischiamo solo di sporcarci le mani». L’indicazione ricevuta lunedì dai vertici era di tenersi lontano il più possibile da una palla velenosa. Ma a complicare il quadro ci si è messa la formazione di un nuovo gruppo al Senato.
L’emendamento della minoranza Pd troverà infatti l’appoggio del coordinamento di senatori ex M5S che si è formato in queste ore. Lo guida il toscano Maurizio Romani, buon amico dell’espulso alla Camera Massimo Artini. Con lui altri undici colleghi: Luis Alberto Orellana, Francesco Campanella, Monica Casaletto, Alessandra Bencini, Paola De Pin, Fabrizio Bocchino, Laura Bignami, Maria Mussini, Bartolomeo Pepe, Cristina De Pietro, Adele Gambaro. «Noi ci stiamo – spiega Romani – nel complesso l’Italicum è un disastro, ma vogliamo valutare le singole idee. Serve una cabina di regia comune. Ad esempio saremmo stati disposti anche a votare per il premio di lista. I nostri ex colleghi hanno rifiutato, ma quel punto fa parte del pacchetto che era stato discusso in streaming in estate con l’M5S. Noi siamo disposti a votare a favore».
Intanto il direttorio del M5S ieri pomeriggio è volato a Bruxelles. Al termine della riunione Alessandro Di Battista si è espresso in favore della vittoria di Syriza alle elezioni greche (come Marine Le Pen) completando l’avvicinamento dal Movimento verso una forza politica inizialmente considerata ostile: ora che i sondaggi la danno vincente alle urne, hanno ragionato i vertici M5S, può tornare buona come modello di governo alternativo alle politiche dell’Unione Europea.
Mentre il direttorio era a Bruxelles i capigruppo erano a Milano, convocati al quartier generale della Casaleggio Associati. Andrea Cioffi nega, ma nell’incontro al quale hanno partecipato anche i responsabili della comunicazione di Camera e Senato, Ilaria Loquenzi e Rocco Casalino, si è parlato di Quirinale, dell’eventualità di indire le Quirinarie e di come gestire al meglio i delicati passaggi, anche comunicativi, che attendono il Movimento da qui a fine mese. Qualche preoccupazione la destano le continue fughe di notizie che accompagnano ogni assemblea congiunta dei gruppi parlamentari. Vista la volontà di non scoprire le carte, attendendo il nome del Pd anche oltre i primi due turni di votazione, le comunicazioni saranno ridotte all’osso e la catena di comando resa ancora più essenziale.

La Stampa 21.1.15
Epifani: “Un fatto inaudito l’intesa solo con Forza Italia”
L’ex segretario: Cofferati ha sbagliato a uscire
intervista di Roberto Giovannini


«Non capisco la sorpresa: Renzi da settimane sa che su questo punto la minoranza di area riformista avrebbe tenuto il punto, in coerenza con ciò che il Pd sostiene da anni: no al Parlamento dei nominati, far scegliere i cittadini».

Guglielmo Epifani, dunque è d’accordo con i senatori dissidenti?
«Condivido la loro posizione. Rispetto alla prima stesura la legge elettorale è migliorata sulla soglia di sbarramento, sulla parità di genere e sul premio alla lista. Ma non si è risolto l’altro tema fondamentale. E il sistema escogitato, preso alla lettera, porta a una prevalenza dei deputati nominati rispetto a quelli eletti. Va fatto proprio il contrario».
Ma la riforma passerà, con il «soccorso azzurro» di Berlusconi...
«Se si confermerà l’accordo con Forza Italia e i partiti di maggioranza ci sarà un fatto inaudito: il segretario trova l’intesa con tutti, ma non con una parte significativa del proprio partito. La maggioranza del Pd definisce spesso la minoranza come un ostacolo all’azione rinnovatrice del governo, ma non è così. Su certe scelte di fondo si deve essere coerenti col mandato ricevuto dagli elettori».
Sarà come sull’art. 18: dite no, ma sapendo che non ci saranno conseguenze politiche.
«No. Non è una battaglia simbolica. E in politica si può perdere una battaglia, quando si ha ragione nell’interesse del Paese».
Che pensa dell’uscita dal Pd di Sergio Cofferati, suo predecessore alla guida della Cgil?
«È un abbandono doloroso: parliamo di un grande protagonista della vita prima sindacale e poi politica del Paese. Cofferati, sulle primarie in Liguria, ha posto problemi seri che dovevano essere affrontati in maniera diversa, ascoltando le sue denunce. Dopo di che, non condivido la sua decisione di uscire dal partito. E neanche alcune delle sue motivazioni. Se si perdono delle primarie - anche in questo modo - io penso che si debba rimanere nel partito e combattere dall’interno per aggiustare le cose».
Cofferati però pone un problema politico, e sembra dire che nel Pd non ci sia più spazio per una linea di sinistra.
«Che nel Pd ci sia un dissenso anche politico è vero. Ma un conto è denunciare scorrettezze o avere opinioni diverse, un altro denunciare un presunto mutamento genetico del Pd».
E il Quirinale? Che accadrà?
«Spetta al Pd, il partito più grande, avanzare una proposta, senza fissare o subire veti, a partire da criteri condivisi. Serve il più vasto consenso possibile con tutte le forze politiche, ma a cominciare dalla massima unità nel Partito democratico. Guai se questo non avvenisse».

Corriere 21.1.15
L’assemblea dei ribelli (con il sogno di arrivare a quota 150)
Tutte le anime della sinistra interna riunite stasera a Montecitorio per arginare il pressing renziano
di Monica Guerzoni


ROMA Nella simbolica Sala Berlinguer di Montecitorio, stasera i parlamentari sconfitti della minoranza batteranno un colpo. Bersaniani, dalemiani, cuperliani, civatiani e bindiani proveranno a reagire alla sberla di Renzi sulla legge elettorale. Come anticipato dal Corriere i non-renziani si conteranno (e si faranno contare) in una grande assemblea, che vedrà unite tutte le anime dell’opposizione interna.
L’ala dura ha spinto molto per organizzare la riunione e spera di mettere assieme almeno 150 parlamentari, oltre un terzo dei gruppi. Impresa non agevole, visto il pressing energico che i vertici del Pd stanno esercitando sui ribelli. Corradino Mineo, tra i pochi pronti a votare contro l’Italicum, racconta che «Renzi ha chiamato personalmente diversi miei colleghi, promettendo ponti d’oro, dicendo “tu sei bravo” o “che te serve?”». Luigi Zanda smentisce pressioni «mai fatte», ma intanto la fronda perde foglie e i ribelli sono tormentati sul da farsi. Dato per scontato il «no» all’emendamento Esposito, che vale come una fiducia, l’unica soluzione che può unire i dissidenti è non partecipare al voto finale. Ma se Forza Italia mettesse a rischio il governo, quanti avrebbero il coraggio di far mancare numeri decisivi? Gotor insiste, «non voterò una legge coi capilista bloccati». Felice Casson prende tempo, «valuteremo alla fine». Cecilia Guerra invece ha deciso, «non voterò contro il governo».
Persa la battaglia contro i nominati il Quirinale si profila come l’ultima spiaggia, l’ultima speranza di poter condizionare le scelte del segretario. Bersani «farà un passaggio» in sala Berlinguer perché sarebbe per lui troppo amara una «minestra» cucinata al Nazareno, cioè un presidente ostile alla minoranza e garante solo del governo. È il grande timore dell’ex segretario, che ha riallacciato il filo con D’Alema e che aspetta ancora l’invito di Renzi a un confronto.
«Tagliando in modo brutale la discussione il segretario si è rifiutato di ascoltare una parte importante del suo partito — denuncia Stefano Fassina — Una prova di forza che ferisce la funzione del Parlamento». E adesso l’ex viceministro prevede ripercussioni «inevitabili» sul Quirinale: «È evidente che il comportamento del presidente del Consiglio complica la discussione». Anche per questo Roberto Speranza sarà in prima fila stasera, per togliere all’assemblea della minoranza il sapore di fronda e tentare una ricucitura. Nel merito però il capogruppo difende la posizione dei 29 ribelli e giudica «un errore» la scelta dei nominati: «Resta un punto irrisolto, si poteva trovare un’altra soluzione. Ma io non vedo come il tema della legge elettorale possa allargarsi al Quirinale o all’ipotesi di una scissione». Eppure per i bersaniani duri e puri la forzatura sulla legge elettorale porta a compimento la «mutazione genetica del Pd», spostando il baricentro del partito a destra. Gianni Cuperlo sarà alla riunione ed è attesa anche Rosy Bindi, la quale continua a pensare che «più Renzi guarda a destra, più si aprono spazi a sinistra». Per Alfredo D’Attorre «ha vinto la linea Verdini» e adesso il governo ha «una nuova maggioranza politica». Quanto costerà al Pd il patto del Nazareno? Qual è il prezzo dell’Italicum? Per Pippo Civati è così alto che la scissione gli appare come la sola via di uscita: «Queste ferite lasceranno un segno, così la situazione non si regge...». E se la civatiana Lucrezia Ricchiuti medita di votare contro l’Italicum, il premier medita di sostituire la ministra Lanzetta con il renziano Bressa.

Repubblica 21.1.15
“Ci guida Verdini”. I veleni sul ring del Pd
I ribelli contrappongono la Costituzione ai richiami alla disciplina. Zanda sorpreso: “Incredibile un dissenso così organizzato”
Boccia chiede a Renzi di evitare “metodi da Is” con la minoranza. I fedelissimi del premier: “Ha passato il segno, chieda scusa”
di Giovanna Casadio


ROMA«Ci siamo consegnati a Berlusconi, anzi a Verdini che è il vero consulente del Pd sull’Italicum, e non soltanto». La minoranza dem — guidata dalla falange bersaniana con Miguel Gotor e Maurizio Migliavacca e dai civatiani — tira le somme alla fine di una giornata in cui il partito è piombato nel caos. I dem si spaccano nell’assemblea dei senatori, dove gli appelli di Renzi e del ministro Maria Elena Boschi all’unità, gli ammonimenti del premier («Grave se mancano i voti del Pd sulle riforme»), la mozione di sentimenti dei renziani, restano lettera morta. In 29 sciamano dall’auletta dove è riunito il gruppo a Palazzo Madama e più che le parole, vale la faccia del capogruppo Luigi Zanda che aveva sperato fino all’ultimo si sgretolasse l’opposizione interna: «Non immaginavo un dissenso organizzato...», mormora Zanda.
Ma sulla richiesta della minoranza di cancellare i capilista bloccati, Renzi non sente ragione. Non si cambia, sta nel Patto del Nazareno, nell’accordo con Berlusconi incontrato a Palazzo Chigi ieri mattina poco prima di vedere il gruppo dem. La sinistra del Pd annuncia che non darà tregua: non voterà l’Italicum e consegna un documento contro. Lo dice Gotor. Lo spiega Paolo Corsini citando l’articolo 67 della Costituzione, quello che recita “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Vale più della disciplina e dell’obbedienza al partito. Doris Lo Moro mette sul tavolo le dimissioni da capogruppo in commissione affari costituzionali: «Voterò con la minoranza del partito, non posso essere incoerente». Lo scontro esplode. Renzi tenta di convincere: «Cara Doris, comprendo e apprezzo il tuo travaglio... ma la questione dei capilista nominati non è poi decisiva». Per i renziani i dissidenti «hanno passato il segno». Andrea Marcucci parla a Bersani nella speranza che la falange bersaniana al Senato torni a più miti consigli: «La minestra votata anche da Bersani in prima lettura alla Camera era molto meno saporita».
Lo strascico di tensioni finirà in un sabotaggio del candidato di Renzi per il Quirinale? I renziani lo temono e denunciano. La minoranza nega e contrattacca: «Si è visto che il Patto del Nazareno varrà anche per il Quirinale », rincara Gotor. Tra la sinistra dem e Stefano Esposito, il senatore che ha presentato il maxi emendamento-ghigliottina, volano parole grosse. Esposito accusa «i cattivi consiglieri di Bersani, quelli che l’hanno fatto perdere nel 2013, i Gotor». Passano le ore e i toni si alzano. I dissidenti tuttavia fanno sapere di essere saldamente ancorati nella “ditta”, nel partito. Solo Civati e i suoi sembrano tentati dalla scissione, da un movimento a sinistra con Sergio Coffera- ti, Maurizio Landini e Nichi Vendola. La fronda dem sull’Italicum poi si riduce a 26, perché tre senatrici (Puppato, Idem e Albano) si sfilano. Corradino Mineo, civatiano, svela la lamentela di Renzi contro il lettiano Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio di Montecitorio, che aveva a sua volta pesantemente attaccato il premier. «Mi ha detto Boccia — è lo sfogo di Renzi — che faccio come l’Isis». «Matteo fa la vittima per strappare un applauso ai senatori, tutto pur di vincere», chiosa Mineo. «Boccia chieda scusa», è la reazione dei renziani. C’è un’atmosfera pesante tra i Democratici. Vannino Chiti — che è stato ricevuto qualche giorno fa da Renzi proprio per parlare della nuova legge elettorale — ammette di essere sconcertato: «Mi sembrava che Matteo si fosse convinto a dare ascolto a noi della minoranza contro i capilista bloccati. Se si va avanti così i cittadini non eleggono più le Province, non eleggeranno il nuovo Senato e neppure i parlamentari... Evidentemente Berlusconi non ha voluto sentire ragione». Nel Pd ci si guarda in cagnesco. Alfredo D’Attorre, deputato bersaniano, ironizza: «Elezioni anticipate? Se ci fossero, Renzi rivedrebbe Palazzo Chigi in cartolina».
Poco vale il lavoro dei pontieri. Francesco Verducci invita a non essere autolesionisti: «È come quella moglie che per fare un dispetto al marito... Ma il nuovo Italicum è una buona legge». Renzi garantisce: «La minoranza non si caccia». Ma non deve esagerare e «si deve votare insieme ».

Corriere 21.1.15
Gli sms nervosi e le cravatte allentate In Aula lo psicodramma della fronda
L’esponente bersaniano Gotor: non sarò corresponsabile di questa tragica vicenda
di Fabrizio Roncone


ROMA Ci sono scene che spiegano molto.
Questa in ascensore, per dire.
Il senatore Francesco Nitto Palma è saltato dentro con un balzo.
Spinge il pulsante «T», sbuffa, alza il suo sguardo classico (non capisci mai se è un ghigno di disprezzo, o una smorfia di pazienza).
«Che c’è?».
C’è che il patto del Nazareno tiene, no?
«Noi di Forza Italia, qui a Palazzo Madama, votiamo come è stato deciso. Punto. Anzi, punto e basta».
E Fitto? E i fittiani?
«I fittiani? I fittiani non esistono. Se riescono ad arrivare a dieci, è tutto grasso che cola».
Stavolta il ghigno era proprio di disprezzo. Le porte si aprono, esce, va a farsi un giro di Burraco («Il suo amico Ciro Falanga, l’altro giorno, gli ha vinto 20 euro, e adesso deve dargli la rivincita»: è la voce divertita di Monica Cirinnà, senatrice del Pd).
Risalire.
Tornare al primo piano, attraversare il corridoio dei busti, cercare Miguel Gotor.
Raccontano che il capo dei rivoltosi bersaniani sia piuttosto nervoso. Ci sono politici capaci di nascondere sentimenti, lacrime, sudore. Gotor, no: Gotor fu arruolato da Bersani per coprire il ruolo dell’intellettuale non organico, forse per fare persino il ministro della Cultura — studioso di santi, eretici e inquisitori, filologo di Aldo Moro, ricercatore di Storia moderna a Torino — ma non ha mai subìto una reale mutazione genetica; è rimasto un professore universitario e così, se si arrabbia, o si dispiace, o se capisce di aver perso, si vede.
Un paio d’ore fa, nella sala Koch, durante l’assemblea dei senatori del Pd, atmosfera tesa, la Boschi vestita di nero, Gotor se ne stava lì, seduto al centro. Molto irrequieto, con la cravatta allentata, le mani sul cellulare per mandare sms, riceverli, rispondere, e poi guardarsi intorno, guardare soprattutto lui, Matteo Renzi, che l’aveva definito «il mio nemico preferito» (quando il bersaniano Paolo Corsini s’è alzato annunciando un documento politico ostile all’Italicum redatto proprio da Gotor e firmato da 29 senatori, Renzi ha deglutito, il capogruppo Luigi Zanda s’è passato una mano tra i capelli, Giorgio Tonini e Stefano Lepri si sono guardati come di solito si guardano quelli che finiscono su «Scherzi a parte»).
Gotor, l’avete fatta grossa.
«Abbiamo seguito la nostra coscienza».
Qualcuno, però, adesso sembra pentito.
«Vuol sapere se qualcuno dei 29 sta cambiando idea e, invece di uscire dall’Aula, resterà? Non lo so, può darsi. Problemi loro. Io non voglio essere corresponsabile di questa penosa, tragica vicenda...».
Sta usando toni forti.
«Vogliono far passare una legge elettorale decisa solo con Verdini. Il 70% di eletti da Renzi e Berlusconi, il 30% di eletti con le preferenze. Una vergogna assoluta. Io, per coerenza, mi tiro fuori. Altri faranno come me, altri magari no... Quello lì, per esempio, cosa farà?».
Indica Ugo Sposetti.
Sposetti, in verità, durante l’Assemblea, è stato autore di un intervento vibrante e raffinato, ha ricordato che un gruppo parlamentare ha il dovere della sintesi, della compattezza, che non è possibile dividersi in vinti e vincitori.
Passa la senatrice Donella Mattesini. Chiama Sposetti: «Ugo, sei stato bravissimo. Dobbiamo restare uniti!». Arriva la notizia che tre dei 29 ribelli ci avrebbero ripensato ufficialmente: sono la Puppato, la Idem e la Albano. Voteranno sì all’ormai celebre «emendamento Esposito», costruito per inglobare tutti gli accordi di maggioranza sull’Italicum, e che quindi farebbe decadere altri 48 mila emendamenti. Il senatore di Gal, Vincenzo D’Anna, spiega che, a questo punto, «più che di Italicum sarebbe opportuno parlare di Espositum». I bersaniani paiono ostinati e giurano che sul loro pallottoliere continuano comunque a contare 29 dissidenti. Fitto spedisce sms ai suoi: e i fittiani conteggiati sarebbero forse anche venti (magari non andate a dirlo a Nitto Palma).
Alla buvette c’è Mario Michele Giarrusso (M5S).
«Che spettacolino... Noi grillini siamo contrari a questo schifo di legge imposto da Renzi e Berlusconi. Purtroppo, ormai c’è poco da fare...».
Gira voce che Sel e Lega proveranno ad allungare i tempi. Roberto Calderoli, per lunghi minuti, tiene magnificamente l’Aula.
Magnificamente, poi, è chiaro: dipende dai gusti.
Augusto Minzolini esce.
Minzolini, da qualche tempo, viene arruolato tra i rivoltosi di FI. Ma se vai a dirglielo, lui s’infuria. La verità è che ti trovi davanti a un senatore che ragiona con la testa di un cronista politico. Salta d’istinto qualche passaggio, rischia, bleffa, intuisce.
«Che noia ormai parlare d’Italicum... dai, parliamo piuttosto di Quirinale! Io dico che Berlusconi spinge per Amato. Ma se Renzi, che come Nerone vive di sospetti, non ci casca, allora potrebbe comparire una figura simile a Mattarella...».
Tipo?
«Tipo Ugo De Siervo... Oh, ma io non v’ho detto niente... Non mettetemi nei casini».

Corriere 21.1.15
La mamma di Civati: in quel partito non si può stare
di Massimo Rebotti


«I miei genitori vorrebbero che uscissi dal Pd. Ma io resisto» ha raccontato Pippo Civati, uno dei leader della sinistra dem. La mamma prima temporeggia, «in questo periodo cerchiamo di lasciarlo in pace», poi conferma «in un partito così non si può più stare». Rossana Civati non ha più rinnovato la tessera (a Monza) da quando Matteo Renzi è diventato premier: «Ho trovato indecente lo stile con cui è stato defenestrato Letta».
Impegnata per anni in politica, «bassa manovalanza, eh», dal Pci, «quando c’era Berlinguer», al Pd. «La scelta è sua — dice — certo qualche frase in casa mi scappa e un po’ mi spiace, se penso all’impegno che Pippo ci mette. Ma credo che prima o poi dovrà uscire». Di Renzi la signora Civati non condivide «praticamente niente, men che meno quel piglio aggressivo». Eppure alla prima Leopolda lui e il figlio erano insieme, «ma già allora, a me e a mio marito, non sembrò uno di cui ci si potesse fidare. Voler essere un po’ protagonisti va bene, ma farlo a scapito degli altri…».

il Fatto 21.1.15
Primarie Pd, sono ammessi pure i condomini della scala accanto
di Alessandro Robecchi


Buone notizie per il Pd: alle primarie liguri non hanno votato il Boia di Riga, né Italo Balbo, né il consigliere militare dell’Imperatore Hiro Hito, quindi l’inquinamento del voto di destra appare limitato e va tutto benissimo. L’equipaggio di cosmonauti alieni che ha votato ad Albenga è stato smascherato: erano quattro tizi dell’Ncd ansiosi di partecipare alla vita interna di un partito diverso dal loro. Pattuglie di scajoliani ai seggi hanno garantito trasparenza e buon andamento delle operazioni di voto. Poi Cofferati se n’è andato, chissà perché. Le cinque paginette della commissione dei garanti sono illuminanti: da un lato (i garanti del Pd) si ammettono i brogli e dall’altro (il Pd) si spernacchia l’imbrogliato. Non fa una piega.
Il consiglio di amministrazione della Coca Cola che corre a votare il presidente della Pepsi non si vedrà mai, e se un giorno alla Samsung facessero le primarie per eleggere i loro vertici, si può star certi che ai dirigenti di Apple sarebbe impedito il voto. In America nessun repubblicano va a votare alle primarie dei democratici. La grande lezione di democrazia e di società aperta che ci viene dal Pd, dunque, è quella che i suoi dirigenti, segretari e candidati governatori possano essere scelti anche dagli avversari politici, speranzosi di qualche accordo o larga intesa. Ma lasciamo stare per un attimo la certificata truffa ai danni di questo o quel candidato, e pensiamo per un attimo al trattamento riservato all’elettore del Pd che va, convinto e determinato, a votare per indicare democraticamente il suo candidato alle regionali. Come si sentirà? Forse come uno che va all’assemblea di condominio e scopre che tutti i condomini dei palazzi vicini potevano votare, e hanno deciso di fargli un garage multipiano in giardino. Ecco. Qualunque onesto, convinto e responsabile elettore del Pd dovrebbe sentirsi un po’ offeso.
Ciò riguarda, forse e soprattutto, la stessa filosofia delle primarie, che per anni e anni è stata uno degli argomenti forti del centrosinistra contro il centrodestra. “Noi facciamo i congressi”, “Noi facciamo le primarie”, erano mantra ossessivi sì, ma veritieri: da un lato una destra di proprietà di Berlusconi, e dall’altro una sinistra della base, capace di scegliersi i capi con libera espressione del voto interno. E da qui, una specie di “primato”, se non morale almeno politico: una base consapevole sembrava assai meglio sia delle decisioni prese in villa prima dopo (o durante) le cene eleganti, sia delle consultazioni online grillesche a cui partecipava lo zero virgola degli elettori complessivi del movimento. Ora (non solo la Liguria, ma Roma dopo quel che è emerso dalle inchieste, Napoli nel 2011, il dibattito serrato se farle o no in Campania) quel “primato” non c’è più, e il centrosinistra perde un argomento forte, annichilisce una differenza notevole con i suoi avversari. Il che – essere sempre meno diversi dalla destra – va d’accordo, e parecchio, con la linea politica dell’attuale vertice del partito: una larga intesa perenne, ricercata con costanza, non solo sulle questioni di tattica e strategia politica, di patti segreti, di accordi, ma anche sul piano ideale e sull’idea di democrazia. Il dibattito su quanti elettori del Pd andrebbero un domani con Civati, con Cofferati, con Fassina e forse Landini, o questo o quello, non è troppo appassionante. Ma vedere come quegli elettori reagiranno a una specie di mutazione genetica del loro partito sì, sarà istruttivo e interessante.

Corriere 21.1.15
Quirinale
La nebbia sull’irto colle
Quello che avrebbe dovuto essere un disincarnato custode-garante della Legge si è trasformato sempre più spesso in padrone virtuale dell’intero meccanismo politico
di Ernesto Galli della Loggia

qui

il Fatto 21.1.15
Renzusconi ricomincia da tre e insegue il Salva Silvio
Pronta la rosa del patto per il Colle: Finocchiaro, Amato e Casini
Verdini chiarisce ai suoi: “In gioco c’è la delega fiscale congelata per B.”
di Fabrizio d’Esposito


Per comprendere la giornata campale di ieri, vissuta fra tre Palazzi (Chigi, Madama e Grazioli), e in cui il patto del Nazareno ha scritto la sua macabra pagina decisiva, bisogna partire dalle tenebre di una Roma uggiosa e fredda. Quando alle nove di sera, un berlusconiano di altissimo rango, sfinito e soddisfatto, fa la sintesi del Grande Scambio tra il Pregiudicato e lo Spregiudicato.
La sintesi berlusconiana del Grande Scambio
Ecco il senso autentico del Nazareno: “La questione è umana più che politica. Altrimenti perché il presidente (Berlusconi, ndr) sull’Italicum al Senato avrebbe dovuto perdere un pezzo di consenso e un pezzo di Forza Italia per dire di sì a Renzi sul premio di lista? Qui non c’è solo il Colle all’orizzonte, il progetto è più complesso e ampio, non guardate solo il dito del Quirinale, sforzatevi di vedere la Luna. Renzi è debole, non tiene più il Pd e con questo governo deve reggere agli altri urti della crisi, che non mancheranno. Poi, certamente al Colle andrà una persona che ci soddisferà. Uomo o donna? Se lo dico indovinate subito”.
L’ammissione di Denis sull’articolo 19 bis
Dalle tenebre passiamo quindi al pomeriggio, alcune ore prima. Palazzo Grazioli, la residenza privata di Silvio Berlusconi a Roma. I senatori azzurri sono riuniti nel solito parlamentino del Condannato. Tra di loro, ovviamente, i tumultuosi ribelli del pugliese Raffaele Fitto. Scoprono che l’ex Cavaliere non c’è. È rimasto sopra, nel suo studio. Protestano. Gridano: “Liberatelo, non lo fate scendere giù perché sapete che potrebbe cambiare idea sulla legge elettorale”. La ratifica del “suicidio di Forza Italia”, frase di Fitto medesimo, è sorvegliata dal renzusconiano Denis Verdini e dal capogruppo di Palazzo Madama, Paolo Romani. I fittiani sono crudelmente efficaci: “Con questa legge e con il premio di lista, non arriviamo nemmeno al ballottaggio, ci avete svenduti a Renzi”. Ed è a questo punto che il Cerbero dell’infernale Nazareno, ovvero Verdini, cala sul tavolo da gioco la verità: “Qui c’è in ballo l’agibilità del nostro leader, cui tutti dovremmo essere grati per quello che ha costruito in vent’anni. Non dimenticate che Renzi ha congelato l’articolo 19 bis (del decreto attuativo della delega fiscale, ndr) ”. È la sola e unica chiave per decifrare le convulsioni di ieri sull’Italicum. Ed è la chiave della Salvasilvio, la norma ad personam che perdona chi froda il fisco sotto il 3 per cento dell’importo dichiarato. Il paradiso dell’ex Cavaliere, che non sarebbe più Condannato e decaduto. Una questione umana, appunto. Più che politica. Il resto è teatrino.
Meno cinquanta, l’inciucio scricchiola
Alla fine restano sul campo 18 no dei senatori azzurri (dieci secondo i vertici). In ogni caso, Berlusconi perde un pezzo di partito. Così come lo perde, in maniera simmetrica, l’amico Matteo, con la fronda dei bersaniani. Meno cinquanta, o giù di lì, al Senato. Sono queste tutte le conseguenze che originano dunque dall’incontro in mattinata tra il Pregiudicato e lo Spregiudicato. Il nono della serie, in un anno di Nazareno. Berlusconi e Renzi suonano la loro Nona in un clima comunque teso. La debolezza di “Matteo”: “Silvio mi puoi salvare solo tu”. E il nervosismo di “Silvio”, consapevole del peso della scelta: “Matteo, sai che sul premio di lista mi salta il partito”. L’abbraccio finale del patto segreto del Nazareno si consuma in un’ora circa. Con loro: Luca Lotti e Lorenzo Guerini per il premier, Gianni Letta e Denis Verdini per l’ex Cavaliere.
Partito della Nazione o colpo grosso di Bersani?
Sul Quirinale, all’uscita, il portavoce del Nazareno, Guerini, annuncia che non si è detto nulla. E che il colloquio decisivo è previsto per martedì prossimo, 27 gennaio, prima della riunione generale del Pd. In realtà il presidente amico del patto e garante del Grande Scambio è sancito per il momento da una rosa di tre, massimo quattro nomi: Giuliano Amato, Anna Finocchiaro, Pier Ferdinando Casini. Qualcuno aggiunge Sergio Mattarella. Le quotazioni vedono la Finocchiaro in ascesa (“Uomo o donna? Se lo dico indovinate subito”). Ma il Colle dovrebbe essere solo la prima tappa per rivoluzione il paesaggio politico nei prossimi mesi. Governo Renzusconi? Partito della Nazione? Quello che è chiaro è che ieri Renzi e Berlusconi hanno legato i loro destini in modo indissolubile. E solo una carta Prodi o Bersani dal quarto scrutinio in poi, quando per il Quirinale è prevista la maggioranza assoluta, potrebbe far saltare tutto.

Repubblica 21.1.15
La corsa al Quirinale
I tre forni del premier per il Colle e la tentazione del colpo a sorpresa
di Claudio Tito


Matteo Renzi
“Possiamo rivolgerci alla minoranza del Pd, oppure ai berlusconiani e, infine, ai grillini dissidenti. Ma il mio obiettivo è arrivare ad eleggere una persona civile”
Io devo tornare in pista a febbraio e devo recuperare nei sondaggi almeno 5 punti: non voglio portare il peso di eleggere uno odiato dall’opinione pubblica

Silvio Berlusconi
Al Quirinale non deve andarci per forza qualcuno della ditta, un ex diessino L’importante è che si tratti di una personalità autonoma e autorevole

MA ALLORA , al Quirinale chi vorresti? Si potrebbe fare Amato o Casini...». L’incontro tra Renzi e Berlusconi stava per finire. I due si stavano dando la mano proprio sulla soglia dell’ufficio del presidente del consiglio. Il commesso aveva già aperto le porte dell’ascensore di servizio che porta gli ospiti davanti allo scalone d’onore di Palazzo Chigi. E, proprio in quel momento, il leader di Forza Italia si è fermato un momento. Ha lanciato uno sguardo verso Gianni Letta, poi si è rivolto sorridendo al premier: «Chi vorresti al Quirinale? Amato o Casini?». Renzi non ha risposto. Ha continuato a camminare verso l’ascensore e ha tagliato corto: «Ne parliamo martedì» .
LA“ partita” è dunque ufficialmente aperta.
Fino a ieri la corsa al Colle era solo uno spettro, anche se aleggiava su ogni incontro e discussione. Soprattutto incombeva su tutte le votazioni per l’Italicum e per la riforma costituzionale. Ma da ieri quel sottile diaframma dietro il quale il capo del governo si era difeso per rinviare il più possibile il negoziato sulla successione di Napolitano, si è improvvisamente infranto. Le candidature si sono moltiplicate la scorsa settimana e ora si riducono come in un imbuto che seleziona e screma. Se il Cavaliere avanza i nomi di Amato e Casini, nel centrosinistra si rincorrono quelli di Sergio Mattarella, Anna Finocchiaro e praticamente ti tutti gli ex segretari di partito da Veltroni a Bersani. Più qualche ministro come Padoan. E infine quello che i renziani definiscono il «colpo a sorpresa ».
Nei prossimi quindici giorni, il leader Pd si gioca buona parte del suo futuro. Di certo buona parte delle chance di concludere la legislatura. La legge elettorale, l’abolizione del Senato e l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Se uno solo di questi tasselli si rompe nel delicato mosaico di Palazzo Chigi, tutto salta. Renzi lo sa bene. E prepara la sua strategia: quella del «triplo forno». Con un obiettivo: «Portare alla presidenza una persona civile».
La partita del Quirinale, però, è tutt’altro che semplice. I gruppi parlamentari sono sempre più “balcanizzati”. Il Pd è strattonato dalle correnti e da una gran parte di eletti che rispondono alla vecchia segreteria, quella di Bersani, e non a quella attuale. L’aria che si respira tra i banchi democratici è quella del tutti contro tutti. Con in più la malattia contagiosa della sinistra: fare fuori il capo della corrente avversa. Renziani contro dalemiani, veltroniani contro ex popolari, bersaniani contro amatiani. Forza Italia poi è messa a soqquadro da un caos sistematico. E il M5S, paralizzato dalla diarchia Grillo- Casaleggio, deve fare i conti con un esodo continuo di dissidenti. Nel Transatlantico di Montecitorio e in quello di Palazzo Madama, il clima è sempre più teso. Le previsioni dettate dall’incertezza Il capo del governo sperava di arrivare a questo appuntamento avendo allentato la tensione con l’approvazione delle riforme. L’obiettivo è svanito nelle ultime ore. «Ma io non mollo ripete prima di partire per Davos -. Io non sono uno che si tira indietro». Con i suoi fedelissimi allora sta mettendo a punto il suo piano. «Abbiamo tre forni cui rivolgerci - osserva -: il nostro partito con la minoranza in primo luogo. A Bersani l’ho detto: dobbiamo decidere insieme». Poi c’è il secondo fronte: quello dei «berlusconiani ». E infine i «dissidenti grillini». Il candidato, da ufficializzare al quarto scrutinio, sarà il risultato dell’accordo stretto con «uno o due» di questi forni. «Vedremo quale può essere la soluzione migliore in base a chi accetterà un’intesa ».
Per l’inquilino di Palazzo Chigi, del resto, non c’è alternativa a questo schema. «Io resto comunque centrale». Il motivo è molto semplice: «Senza di me, non si elegge nessuno. Tutti gli altri dovrebbero coalizzarsi contro di me». Ma su chi? Appunto, su chi? Se in pubblico Renzi non fa nomi, con i suoi uomini in realtà le candidature sono state già vagliate e valutate. Amato? «È possibile - chiede ai suoi - che Bersani, Berlusconi e Vendola si mettano insieme per eleggere Amato contro di me? Sarebbe un’alleanza ben strana. E Grillo cosa fa? E la Lega cosa fa? Non mi pare siano sufficienti». Prodi? «La Lega, Berlusconi e i democristiani del Pd dovrebbero unirsi per sostenere Romano contro di me? Anche questo mi pare difficile. E poi Forza Italia accetta questa ipotesi e non fa con me una persona civile? Non credo. Per un semplice motivo: Berlusconi vuole stare al tavolo. Vota l’Italicum perché sa che altrimenti il Quirinale ce lo facciamo da soli».
Il capo del governo, dunque, disegna una scacchiera con tre pedine e tre tappe. Eppure le variabili - in un Parlamento tanto anarchico e frammentato - sono infinite. Basti pensare, appunto, al partito democratico. Dove le faide sono profonde e quasi tutte puntano a far fuori l’avversario interno. Di certo, ai nastri di partenza, anche a Palazzo Chigi, più che Casini e Amato vedono Mattarella e Anna Finocchiaro. Sul primo Renzi da qualche giorno riferisce un episodio che gli è stato raccontato da De Mita: «Quando lo ha nominato commissario per la Dc in Sicilia, ha chiamato il questore e si è raccomandato: “Questo va preservato”».
Anche Bersani parla dell’attuale giudice costituzionale. L’ex segretario segue da giorni una linea abbastanza definita: «Al Quirinale non deve andarci per forza uno della “ditta”», ossia un ex diessino. «L’importante - spiega - è che ci vada una persona autonoma e autorevole ». E con i suoi non nasconde che il suo “campione” è l’ex popolare. Un’opzione fondata sulla stima, ma anche determinata dallo scontro con i dalemiani. Bersani accusa l’ex premier di averlo tradito e si mette di traverso su tutto ciò che proviene da quell’area. A cominciare da Giuliano Amato. Il fronte favorevole all’ex socialista, infatti, è composto in primo luogo dai sostenitori del “lider massimo” e dagli esponenti della Fondazione ItalianiEuropei. Basta sentir parlare il capogruppo democratico alla Camera Speranza (che ascolta spesso i consigli dell’ex presidente della Repubblica Napolitano): «Giuliano è il migliore per quel ruolo». Sono poi dalla sua parte molti degli ex Psi, quelli di Nencini e quelli presenti nelle altre formazioni (ad esempio gli Ncd Cicchitto e Sacconi). Nel frattempo gli ex popolari ridanno vita al metodo delle cene di corrente. Fioroni li riunisce e lancia Mattarella, ma si tiene una carta di riserva: quella di Dario Franceschini. Così come Rosy Bindi che nel bel mezzo del Transatlantico di Montecitorio dice a chiare lettere: «Per me c’è un solo candidato», ossia Romano Prodi. Mentre nel salone Garibaldi del Senato, un altro democratico come il lettiano Francesco Russo, dice a bassa voce: «Per me Matteo andrà su Pierluigi Castagnetti».
Ma la “guerriglia” intestina non risparmia nemmeno Forza Italia. Anzi, lì è ancor più cruenta. «Berlusconi - si lamentava ieri Renzi a un certo punto mi dice: l’emendamento Esposito non lo posso votare perché ho un accordo con Boccia. Con Boccia? E che c’entra?». Boccia è il deputato pd, eletto in Puglia, vicino a Enrico Letta e Massimo D’Alema. Secondo il premier, in questa fase agisce di concerto con un altro pugliese: il forzista dissidente Raffaele Fitto. «Ed entrambi sono guidati - è l’avvertimento dato al Cavaliere - dal “Gran Pugliese”». Ossia, ancora Massimo D’Alema.
Di sicuro Fitto si muove in opposizione al governo e soprattutto al Patto del Nazareno. «Io non mi tiro indietro - avvisa camminando nella Corea, il corridoio più nascosto della Camera né sull’Italicum né sul Quirinale. Non voto l’uomo di Renzi». Pure Berlusconi, quindi, deve fare i conti con la fronda interna. Lancia quindi i nomi di Casini e Amato per alzare la trattativa con palazzo Chigi. «Il mio obiettivo è tornare in pista a febbraio, quando la pena dei servizi sociali sarà finita - è il ragionamento del capo forzista -. Devo recuperare almeno 5 punti nei sondaggi e non mi voglio caricare del peso di mandare al Quirinale uno odiato dall’opinione pubblica ».
Tutti, insomma, fanno il loro gioco. Bastava ascoltare cosa diceva ieri pomeriggio proprio Casini al Senato conversando con Renato Schifani: «Ho parlato le scorse settimane con Alfano e con Berlusconi e ho avuto buoni segnali. Ma altro non faccio. Gli ex ds, che comunque mi stimano, votano Amato. Poi certo bisogna vedere se Renzi non si inventa un colpo di teatro. Ma non lo vedo e in ogni caso il centrodestra muore se vota qualsiasi nome gli proponga il capo del governo».
Ecco, la “sorpresa”. A Palazzo Chigi è un’idea che sta maturando. Le quotazioni del ministro Padoan, ad esempio, sono tornate a salire, anche se di poco. Ma nella road map renziana il punto di partenza è un altro: «Il nome dipende da chi farà l’accordo con me: Bersani, Berlusconi o gli ex grillini?».

Il Sole 21.1.15
La corsa. Tra i candidati sale il nome Finocchiaro
Colle, a Renzi resta solo lo schema «Nazareno» Martedì l’intesa sul nome
di Emilia Patta


ROMA Dopo lo scontro del premier Matteo Renzi con la minoranza del Pd sull’Italicum andato in scena in Senato nelle ultime ore, si chiarisce anche meglio la partita del Quirinale: il premier la giocherà dalla stessa parte di Silvio?Berlusconi, ricevuto ieri mattina a Palazzo Chigi con tutto il rilievo mediatico del caso per un colloquio di un’ora. Al centro dell’incontro la partita della legge elettorale. Ed è il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani a dire poco dopo come stanno le cose: «In questo momento, stante questa situazione politica in cui Renzi non ha più la maggioranza al Senato, riteniamo di sostituire i senatori che non concorrono all’approvazione della legge elettorale con i nostri». E lo schema con il quale si approverà in Aula - almeno secondo le previsioni - il maxiemendamento a firma Stefano Esposito (Pd) con tutte le modifiche volute da Renzi alla prima versione dell’Italicum sarà lo stesso con cui si eleggerà tra qualche giorno, a partire da giovedì 29, il successore di Giorgio Napolitano al Quirinale: Pd senza la minoranza (almeno quella più agguerrita), Fi senza i fittiani e i centristi di Angelino Alfano compatti. Quasi la nascita di una nuova maggioranza, che non a caso lascia «interdetti» i bersaniani, a cominciare dallo stesso Pier Luigi Bersani. Non ci sarà la sigla del novello patto con un vertice a tre Renzi-Alfano-Berlusconi come ipotizzato negli ultimi giorni, Ma il fatto politico c’è tutto. E si tratta di una “maggioranza” che può sopportare fino a 180-190 franchi tiratori.
Il percorso, intanto: Renzi e Berlusconi hanno concordato di rivedersi martedì 27 per chiudere su un nome, giusto il giorno prima della “proclamazione” pubblica all’assemblea dei grandi elettori del Pd come annunciato da Renzi. E questa volta sarà un incontro ufficiale all’interno delle consultazioni di rito previste a partire da lunedì mattina con tutti i gruppi parlamentari: il premier sarà accompagnato dalla delegazione decisa all’ultima direzione del Pd, ossia i vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, il presidente del partito Matteo Orfini e i capigruppo di Camera e Senato Roberto?Speranza e Luigi Zanda. Dopo la proclamazione del nome - e i collaboratori di Renzi assicurano che non c’è alcun nome coperto, nessun coniglio pronto a spuntare dal cilindro - si procederà con le votazioni e il Pd darà ai suoi circa 450 grandi elettori l’indicazione di votare scheda bianca, un modo per controllare subito la disciplina dei parlamentari e dei delegati regionali (per mettere la scheda nell’urna senza scrivere il nome non occorre fermarsi). Modello Napolitano 2006, dunque. Mentre Forza Italia dovrebbe dare indicazione di votare un candidato di bandiera come Antonio Martino. Poi l’elezione alla quarta votazione, scontando i dissidenti fittiani e gli irriducibili contro del Pd. Soprattutto dopo la forzatura sull’Italicum, sono in molti tra i renziani del giro stretto a pensare che parecchie decine di parlamentari del Pd, nel segreto dell’urna, sarebbero pronti a bocciare la qualunque pur di colpire Renzi e il patto del Nazareno financo se il candidato fosse Bersani.
E qui si inserisce la questione del chi. Perché, nonostante lo strappo sull’Italicum, una buona parte dei 120 parlamentari di Area riformista - la corrente della minoranza che ha come riferimento il capogruppo?Speranza - dovrebbe comunque votare il candidato proposto da Renzi se autorevole e proveniente dell’area del Pd. Berlusconi avrebbe offerto a Renzi una rosa composta da Giuliano Amato, Anna Finocchiaro e Pier Ferdinando Casini.?Tolto quest’ultimo, che mai sarebbe votato dal pattuglione del Pd, della rosa restano gli altri due. Ieri in Transatlantico salivano le quotazioni di Anna Finocchiaro, nonostante la sua provenienza dalemiana e la bocciatura pubblica da parte di Renzi un anno e mezzo fa. La prima presidente donna sarebbe certo un colpo d’immagine per il premier. Restano stabili le quotazioni di Amato, che faceva parte della rosa di Bersani la volta scorsa e che Renzi ancora sindaco di Firenze aveva già allora approvato. Sulla carta una larghissima maggioranza che in un Parlamento non così balcanizzato come l’attuale potrebbe essere eletto alla prima votazione. Ma sono in molti, tra i renziani, a pensare che in realtà sia Sergio?Mattarella ad avere più chance. Nonostante il fatto che Berlusconi avrebbe nuovamente fatto pollice verso, come nel 2013. Certo, a Mattarella mancherebbe lo standing internazionale che ha invece Amato, si riflette. E non è ancora esclusa la carta di un outsider alla Sabino Cassese. «Tuttavia in cuor suo Renzi, se potesse, punterebbe su Pier Carlo Padoan», confida un renziano vicinissimo al premier. La carta Padoan potrebbe essere rimessa in effetti sul tavolo se dalle elezioni greche dovesse arrivare un risultato che mette a rischio la tenuta dell’euro. «C’è sicuramente un insieme di personalità tra le quali può essere operata una scelta adeguata alle esigenze del Paese e delle istituzioni» ha commentato ieri Giorgio Napolitano a Ballarò. «Auguri a chi dovrà scegliere. Non sono io».

il Fatto 21.1.15
L’intervista Bernice King
Il razzismo resiste, ma Obama è una benedizione
di Claudia Andreozzi


Non so quanti si aspettassero che l'elezione di un presidente di colore portasse questo rigurgito di violenze e tensioni razziali, ma Obama è comunque una benedizione: dalla morte di mio padre non abbiamo fatto molti passi avanti nella lotta alle disuguaglianze”. Il discorso dell'Unione di Obama arriva subito dopo l'86° anniversario della nascita di Martin Luther King, ricorrenza che quest'anno ha visto in molte città Usa manifestazioni in ricordo delle vittime della polizia. Ed è dalle violenze che hanno scosso l'America nei mesi scorsi che parte questa intervista con Bernice King, la più giovane dei 4 figli del leader ucciso nel 1968, oggi presidente del Martin Luther King Center di Atlanta.
Nel 1966, dopo un'estate di scontri e proteste, suo padre disse che “la rivolta è la lingua di chi non ha voce”. Vale anche per le proteste di Ferguson e New York?
Per quanto creda che le parole di mio padre in quell'intervista siano accurate, ho scelto di non concentrarmi sui disordini, perché la maggior parte delle proteste di questi mesi è stata pacifica, entro i limiti della libertà di espressione. King ha incoraggiato la disobbedienza civile per quasi tutta la vita, perché bisognava sì scardinare un sistema, ma sapeva che il cambiamento doveva arrivare anche attraverso il sistema giudiziario e legislativo.
A distanza di cinquant'anni, cosa devono fare gli Usa per superare una volta per tutte le disuguaglianze razziali?
La maggior parte degli americani frequenta una chiesa o altri luoghi di culto, quindi i leader religiosi hanno la responsabilità di collaborare e incoraggiare il dialogo. A livello legislativo, poi, dobbiamo vedere quali parti del Civil Rights Act del 1964 non vengono ancora applicate: a esempio bisognerebbe negare fondi federali alle città che hanno pratiche discriminatorie.
E cosa andrebbe cambiato nel sistema giudiziario?
Bisogna creare degli osservatori di cittadini. Le comunità dovrebbero avere qualche potere di controllo per evitare che la polvere venga sempre messa sotto al tappeto, dovrebbero poter citare in giudizio le forze dell'ordine in casi come quello di Michael Brown. Con tutto il rispetto per le forze dell'ordine, è difficile per un pm svolgere delle indagini a carico di un poliziotto. Processare e giudicare uno dei tuoi non è mai semplice. Creare un sistema giudiziario ad hoc, che sia più equo per tutti, è qualcosa che dobbiamo ai cittadini americani e anche alle stesse forze dell'ordine.
Trayvon Martin, Michael Brown, Eric Gardner. E poi gli scontri e le proteste in tutto il paese. Si aspettava qualcosa di diverso dalla presidenza Obama?
Nel suo ufficio alla Ebzener Baptist Church di Atlanta, il Rev. Bernice King sospira e fa una pausa.
Non so se avevo delle aspettative. La sua elezione ha dato speranza a molti dopo anni di delegittimazione e mancanza di rappresentanza, non solo in politica. Non so quanti se lo immaginassero, che eleggere un presidente di colore avrebbe causato un tale rigurgito di violenze e tensioni razziali, ma credo comunque che Obama sia una benedizione. Dall'assassinio di mio padre non abbiamo continuato a lavorare per superare le diseguaglianze, che si sono accumulate. La sua elezione ha riportato la questione in superficie, e anche le proteste e gli scontri ci obbligano ad affrontare il problema.
La sua elezione è stata usata come alibi per affermare che il razzismo non c'era più? Averlo alla Casa Bianca ha reso più difficile parlarne apertamente?
Non credo l'abbia reso più difficile, di certo il colore della sua pelle è un continuo sollecito, ti obbliga a pensare alle disparità che ancora abbiamo. Non puoi nasconderti. Per quanto ci sia ancora molto da fare, non credo che ne parleremmo se a Washington ci fosse un americano bianco.

Repubblica 21.1.15
Da Moore a Sarah Palin diventa un caso politico il cecchino di Eastwood
“American sniper” con Bradley Cooper nei panni di Chris Kyle sbanca ai botteghini e accende la polemica negli Usa
di Arianna Finos


ROMA LE polemiche crescono vertiginose quanto gli incassi. American Sniper di Clint Eastwood sbanca i cinema Usa e colonizza i social media con uno scontro feroce che si consuma sulla figura vera di Chris Kyle, «il più letale cecchino nella storia delle forze armate», la cui storia ha ispirato il regista 84enne. Ormai — certifica il Washington post — American Sniper è un caso politico. Per i conservatori il soldato che in quattro anni di guerra in Iraq ha ucciso 150 persone è il simbolo del coraggio, per molti liberal solo un killer.
Il regista Michael Moore posta su twitter e facebook: «Molte chiacchiere sui cecchini nel weekend, così ho pensato di dire la mia. Mio padre era nei marines nel Sud del Pacifico durante la Seconda guerra mondiale. Mio zio era un paracadutista e fu ucciso da un cecchino giapponese, 70 anni fa. Mio padre diceva sempre: “I cecchini sono codardi, non credono in una lotta equa. I cecchini non sono eroi. E gli invasori sono peggio”».
La risposta al regista, che nel suo Fahrenheit 9/ 1-1attaccava la guerra in Iraq, arriva dall’account di Sarah Palin, riferimento della destra conservatrice americana: «Dio benedica le nostre truppe, specialmente i nostri cecchini». L’ex candidata alla vice presidenza Usa attacca «i sinistrorsi» di Hollywood: «Vi scambiate trofei di plastica l’uno con l’altro mentre sputate sulla tomba dei nostri combattenti per la libertà. Rendetevi conto che il resto dell’America sa che non siete degni di lucidare gli stivali di guerra di Kyle».
Il pubblico continua ad affollare le sale. Non solo in America, dove il film ha incassato 110 milioni di dollari in quattro giorni (ne è costati 58), ma anche in Italia (primo paese straniero ad averlo in sala), dove ha raggiunto i 16 milioni di euro. Ha appena ricevuto sei candidature agli Oscar. Clint Eastwood ha spiegato che per il suo 34° film ha scelto la storia di Kyle come emblema del dovere e immagine delle ferite irreparabili che una guerra può aprire nell’esistenza di un uomo tra patria e famiglia. Ma la figura del tiratore scelto, ucciso in un poligono di tiro in Texas nel 2013, era controversa già dai tempi del best seller autobiografico che ha lo stesso titolo del film. E in cui scriveva: «In Iraq combattevamo il male, selvaggio e spregevole. Per questo in molti, me compreso, chiamavamo selvaggi i nostri nemici». E poi «la gente mi chiede spesso se mi è dispiaciuto uccidere così tanta gente in Iraq e io rispondo che no, non mi è dispiaciuto. Non mento o esagero se dico che era divertente».
Kyle è stato un uomo complesso, spiega Bradley Cooper l’attore che lo interpreta nel film: «Per lui dare la vita per il suo Paese non era una frase di rito, ma una missione vera. Eastwood non voleva farne un martire o un eroe, ma descrivere un uomo che credeva in ciò che faceva». Inevitabile leggere l’interesse, e le reazioni, ad American Sniper anche come frutto dello stato d’animo dell’oggi, quel sentirsi sotto attacco che non appartiene più solo agli Stati Uniti ma all’Occidente tutto. L’ex speaker repubblicano della Camera, Newt Gingrich alza i toni contro Michael Moore dicendo che «dovrebbe passare qualche settimana con l’Isis e Boko Haram, poi potrebbe apprezzare American Sniper ». Molte voci si sono levate anche per dire che il film, di fatto, incarna «una propaganda pericolosa che sdogana un killer di massa e riscrive la storia della guerra in Iraq». Lo ha scritto la giornalista Rania Khalek, ricevendo minacce di morte da un account twitter subito sospeso.

La Stampa 21.1.15
Israele al voto: guerra di spot sul Web
A meno di due mesi dalle politiche, i principali partiti iniziano a darsi battaglia: il Likud di Netanyahu punta su un video nel quale si vede il premier tentare di fare ordine in un asilo dove i bambini hanno i nomi dei rivali politici
di Maurizio Molinari

qui

Corriere 21.1.15
La locomotiva cinese rallenta. I manager guardano agli Usa
Nel 2014 la crescita del Pil di Pechino si è fermata al 7,4% Davos, il sorpasso americano nelle attese degli investitori
di Guido Santevecchi


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO Bisogna preoccuparsi per una crescita del 7,4 per cento della seconda economia del mondo nel 2014? È la domanda che si pongono gli analisti davanti ai dati del Pil della Cina, che mostrano l’espansione più lenta dal 1990, quando Pechino scontava il contraccolpo delle sanzioni internazionali per il massacro sulla Tienanmen nel 1989 e l’anno si chiuse al +3,8%. Per trent’anni l’economia cinese era avanzata al ritmo del 10% l’anno, con punte del 14% ancora nel 2007. Poi il rallentamento: nel 2012 e nel 2013 il Pil era salito del 7,7%. Per il 2014 il governo aveva fissato un obiettivo «intorno» al 7,5% che non è stato raggiunto per un piccolo 0,1. Ma il decimale rappresenta il primo fallimento dei pianificatori statali dal 1998, quando l’economia era indebolita dalla cosiddetta «febbre asiatica dei mercati».
I problemi per Pechino sono evidenti e da tempo sono riconosciuti dal governo: eccesso di capacità produttiva; domanda globale debole per la crisi in Occidente; mercato immobiliare in caduta tanto da far temere l’esplosione della bolla (questo settore da solo vale più del 15% del Pil cinese). Il governo cinese da un paio d’anni ha ammesso che è necessario ristrutturare, riequilibrare la crescita per renderla «sostenibile»: significa trasformare il sistema per trent’anni orientato verso la produzione a basso costo affidata a industrie altamente inquinanti; significa fare meno affidamento sulle esportazioni (fenomeni sostenuti da un credito illimitato che ha creato una montagna di debito interno). Riequilibrare per la Cina significa creare le condizioni per aumentare la domanda interna. Ora si valuta che i consumi interni valgano intorno al 35% del Pil (rispetto a oltre il 70% in Occidente) e l’obiettivo di medio termine e di farli salire fino al 55%. Questi gli elementi negativi del quadro (ma una crescita del 7,4% è sempre la più imponente del mondo globalizzato). In conclusione la Cina, per i pessimisti, rischia di cadere nella «trappola del reddito medio» nella quale sono cadute quindici anni fa potenze industriali emergenti in Asia.
Ma Pechino sa di dover riformare l’economia e vuole rassicurare il mondo. Per questo il premier Li Keqiang è a Davos, al World economic forum. Lo hanno accolto con una relazione di PricewaterhouseCoopers che, in sostanza, certifica, per il 2015, il controsorpasso degli Usa sulla Cina come mercato estero più promettente per la maggioranza relativa dei top manager. I leader cinesi replicano che la loro economia è ancora «in via di sviluppo». Dietro la modestia la realtà della diseguaglianza sociale: visto pro capite, il Pil cinese è all’80° posto. «Continueremo a incrementare i consumi delle famiglie perché questo serve come nuovo motore per la crescita», dice Li. La famiglia cinese media continua a risparmiare il 40% del reddito, rispetto al 5,2 di quella Usa: c’è ampio spazio per manovrare, anche se la Cina non ha un sistema di sicurezza sociale e pensioni paragonabile a quello occidentale.
E ci sono molti altri fattori positivi. Anzitutto il 7,4% di crescita nel 2014 è superiore alle aspettative che fino a ieri la ponevano al 7,2-7,3 (infatti le Borse asiatiche hanno reagito salendo). E poi oggi il Pil cinese vale circa 10,4 trilioni di dollari: quindi il +7,4% sono circa 700 miliardi di dollari, tanti quanti il +14% dello stellare 2007. È questa la «nuova normalità» di cui parla il presidente Xi Jinping e che in Occidente sarebbe un miracolo.

Repubblica 21.1.15
Si riapre il caso Polanski tradito dalla sua Polonia “Può essere estradato”
La Corte di Cracovia deciderà se consegnare il regista agli Usa per il rapporto sessuale con una minorenne avvenuto nel ‘77
di Andrea Tarquini


BERLINO Nello Stato di diritto risorto in Polonia dopo la rivoluzione del 1989 la legge è uguale per tutti, anche contro intellettuali- simbolo nazionale. E allora si mette male per Roman Polanski, il regista di fama mondiale da Rosemary’s baby a Il Pianista (Oscar per la regia nel 2003) passando da Per favore non mordermi sul collo . La procura nazionale polacca ha chiesto al tribunale di Cracovia, competente sul caso, di esaminare e poi avviare la procedura di estradizione del regista, pur considerato eroe nazionale, negli Stati Uniti, dove egli è indagato per l’accusa di sesso con una minorenne, un caso che risale al 1977. In altre parole, nemmeno gli intellettualisimbolo di mezzo secolo di dissenso sono cosndierati immuni al corso della giustizia.
La procedura sarà complessa, secondo l’iter giuridico polacco: il tribunale di Cracovia dovrà giudicare se la richiesta americana di estradizione è lecita e conforme con le leggi nazionali, e se così sarà il caso tornerà episodio giuridico nazionale. In ultima istanza toccherà al ministro della Giustizia del governo di Varsavia assumersi la responsabilità della scelta finale. L’opinione pubblica guarda a Polanski con simpatia, ma la legge avrà l’ultima parola, e l’esecutivo si mostra deciso a scelte imparziali, sebbene 81 polacchi su cento siano contro l’estradizione. È uno shock, per la Polonia figlia della rivoluzione dell’89, oggi democrazia solida e matura e “tigre economica” dell’Ue. Polanski è un eroe nazionale, allievo prodigio dei grandi del cinema polacco come Andrzej Wajda o Jerzy Kawalerowicz. Con i suoi primi film come Il coltello nell’acqua, storia di un flirt tra la moglie di un gerarca di regime e un giovane anticonformista, criticò il sistema sovietico. Sorvegliato speciale del Kgb locale, fu costretto all’espatrio, e a Hollywood volò a successi mondiali. Prima con Sharon Tate a fianco, poi con film memorabili come Chinatown, fino al ritorno in Europa con titoli che hanno fatto la storia del cinema come Tess e Frantic. Ma il passato lo condanna, dice la giustizia americana.
Nel 1977, per sua ammissione, Polanski ebbe rapporti sessuali con una minorenne, Samantha Geimer, in un party con champagne e droghe. Liberato dopo 42 giorni, fuggì dall’America costruendosi una fortuna nel Vecchio Continente. Ma nel 2009 la giustizia tornò a bussare alla sua porta: arrestato a causa di un mandato internazionale, si fece prima il carcere, poi i domiciliari, per essere liberato infine su decisione delle autorità elvetiche, che rifiutarono l’estradizione. Adesso gira nella sua Polonia un film molto atteso sul caso Dreyfus, l’ufficiale ebreo francese ingiustamente accusato di tradimento prima della prima guerra mondiale.
Il mondo del cinema e l’opinione pubblica globale attendono il verdetto di Cracovia. Se gli andrà male, Polanski sarà consegnato agli americani, e se condannato, vista la sua età (80 anni), potrebbe restare recluso fino alla morte. Meriti culturali o meno.

Repubblica 21.1.15
La nuova sfida dell’Islam
La strage di Parigi rimanda anche alla mancata riforma della religione musulmana
Una nuova èra che può avere il suo fulcro proprio in Europa
di Renzo Guolo


DOPO Parigi, l’Islam è nuovamente stretto tra i jihadisti che ne reclamano la guida e la mobilitazione di quanti, evocando il burqa sul volto insanguinato della Marianna e il vessillo nerocerchiato sui simboli della cristianità, mettono sotto accusa non solo gli islamisti radicali e la loro pratica terroristica ma i musulmani in quanto tali.
La maggioranza dei musulmani ritiene che il fattore religioso sia secondario nella logica d’azione jihadista. Per i cantori dello scontro di civiltà vi è, invece, automatica equazione tra religione e violenza. Islam e jihadismo, inteso come combattimento militare e missionario, anzi militare proprio perché missionario, coinciderebbero. Tesi, non casualmente condivisa dai radicali, alla quale la maggior parte dei musulmani replica che «l’Islam è una religione di pace». Eppure, nonostante quella radicale sia un’ideologia politica, un’incursione sul terreno della religione non può essere del tutto esorcizzata. Se non altro perché gli islamisti la usano come repertorio simbolico che alimenta la logica amico/nemico.
Vi sono nodi della religione, come istituzione e organizzazione prima ancora che come credenza, che non possono essere elusi nemmeno da quanti non condividono quell’ideologia. Ad esempio l’interpretazione dei testi, decisiva in una religione del Libro, e della Legge, come l’Islam. L’essere religione senza centro, senza gerarchia capace di imporre un dogma, pone all’Islam, tutt’altro che monolitico, un serio problema di frammentazione. Negli ultimi decenni le istituzioni e le figure deputate a custodire la tradizione sono state contestate dagli islamisti per aver messo la religione al servizio del potere. La delegittimazione dei governanti è diventata così delegittimazione di teologi e giuristi. E il campo religioso musulmano si è ritrovato senza guardiani dei confini. Un vuoto che ha accentuato una sorta di protestantizzazione dell’Islam già in corso, con i testi sacri divenuti oggetto di interpretazione libera. Lungi dal favorire una concezione meno dogmatica della fede, questo processo ha prodotto una lettura più rigida e militante.
Anche perché, invece di portare sino in fondo la destrutturazione del campo reli- gioso e rivisitare la teologia in senso più aperto, gli esperti, anche su pressione dei regimi che temevano per la loro stabilità, hanno inseguito il movimento islamista sul terreno dell’ortodossia. Nel tentativo di arginarlo mediante la ricostruzione di un nuovo, impossibile “consenso della comunità”. Tentativo che i radicali, decisi a eliminare ogni forma di mediazione sapienziale che non sia quella dei loro leader spirituali o quella emersa dalla prassi della comunità del fronte, hanno comunque ignorato. L’esito: un nuovo, stringente tradizionalismo, intriso di matrici salafite, senza che il fenomeno radicale venisse contenuto.
Ancora: la questione della “porta della riflessione”. Nel X secolo umanissime menti hanno dichiarato chiuso lo studio della teologia e del diritto, che hanno le medesime fonti. Una decisione che, insieme alla sconfitta del movimento razionalista e la conseguente vittoria dei letteralisti, fautori del dogma del Corano come increato, parola di Dio eterna e immodificabile, fa dell’Islam, contrariamente a Cristianesimo e Ebraismo, una religione che rifugge dall’innovazione. Una scelta che ha impedito all’Islam di affrontare, con strumenti adeguati, la modernità, la separazione tra religione e cultura, la secolarizzazione, l’individualismo. E che in seguito non ha facilitato l’impatto con l’Occidente, vissuto come minaccia identitaria. Anche quando non si presentava con il volto arcigno del dominio politico e militare. Una percezione che gli islamisti radicali descrivono come westoxification, intossicazione da Occidente, e ritengono la principale causa del declino dell’Islam.
Questioni, come molte altre, che rinviano al tema della mancata riforma dell’Islam. Una riforma che può avere uno dei suoi poli proprio in Europa, dove l’Islam è minoranza, non ha evidenza sociale e normativa, e il credente può vivere la fede anche come scelta individuale. E le comunità, con le loro richieste di riconoscimento e negoziazione rivolte alle istituzioni, sono costrette a pensarsi come parte di un ambiente pluralistico. È in un simile contesto che la religione può essere ripensata, anche se non diventare necessariamente questione privata. Attrezzandosi per affrontare le sfide della modernità e della democrazia così come quelle, assai temibili, portate da fighters non più foreign.

Repubblica 21.1.15
Quel che resta della Libia
di Hisham Matar


DELLA Libia non si parla pressoché più nei notiziari, benché quanto accade laggiù sia di importanza decisiva. L’esercito nazionale libico, ai comandi di Khalifa Haftar — ex generale che alla metà degli anni Ottanta disertò e passò all’opposizione in esilio, per poi ritornare nel 2011 a prendere parte alla rivolta contro Muammar Gheddafi — , sta combattendo contro Ansa al-Sharia, un gruppo di miliziani armati di stanza a Bengasi che ha espresso opinioni dispotiche e profondamente antidemocratiche. Seconda città più importante del Paese e capitale della turbolenta regione orientale, Bengasi è segnata da episodi di violenza estrema, più di quanti ne abbia visti dalla Seconda guerra mondiale in poi.
Molti abitanti di questa città che ne conta 1,3 milioni ormai hanno abbandonato le loro case a favore di quartieri relativamente più sicuri. I prezzi dei beni ordinari sono schizzati alle stelle. Lunghe code alle stazioni di servizio, nelle panetterie, presso i venditori di carbone sono diventate la regola. Le croniche interruzioni di energia elettrica hanno reso indispensabile tornare al carbone. L’intera regione orientale, da Ajdabiya a Tobruk, è segnata da gravi blackout e da questo punto di vista Bengasi ha appena vissuto la sua settimana peggiore. In media, la città usufruisce delle forniture di energia elettrica per sole quattro ore al giorno. Anche l’acqua è disponicontro bile soltanto con discontinuità. «Questa crisi energetica ha soffocato ciò che restava del nostro spirito» mi ha confidato un abitante di Bengasi.
La violenza ha fatto definitivamente piazza pulita dei media locali affermatisi con successo dopo la destituzione di Gheddafi. Dopo quarant’anni di censura, improvvisamente aveva iniziato a circolare oltre un centinaio tra quotidiani, riviste e giornali. Adesso quelle pubblicazioni sono scomparse e tutti i gruppi di attivisti stranieri che si battevano per il rispetto dei diritti umani hanno lasciato il Paese. In pratica, nessun giornalista straniero si reca in Libia. Questa settimana, in risposta al rapimento di due corrispondenti tunisini, un gruppo di associazioni libiche della società civile e alcuni attivisti hanno reso nota una dichiarazione sulla gravità delle violenze i giornalisti. «Soltanto nell’anno appena concluso sono stati assassinati quattordici giornalisti, decine di altri sono stati rapiti, di altri ancora non si sa più nulla» hanno detto.
Simili aggressioni mirate sono entrate a far parte della quotidianità di Bengasi. «Qui ormai la morte è di casa» mi ha detto un attivista. «E non ci ferma neanche più. Quando vengo a sapere che qualcuno è stato ammazzato, faccio un respiro profondo e tiro avanti». L’anno scorso in città ci sono stati oltre duecento omicidi. Le vittime in buona parte erano militari, agenti di polizia, giornalisti, attivisti per i diritti umani e avvocati. Anche se è raro che gli episodi di violenza di questo tipo siano rivendicati, si ritengono opera di Ansar al-Sharia.
Durante la rivoluzione libica — senza alcun dubbio la più completa di quelle esplose nella regione — , quasi tutte le strutture di potere sono state messe a dura prova o abbattute. Perfino gli insegnanti non hanno più la medesima autorità. Di conseguenza dal 2011 le scuole non hanno più operato con regolarità. Adesso che Bengasi sta crollando, l’insegnamento qui e in altre città e località è definitivamente paralizzato. Un docente che negli ultimi venti anni ha lavorato in parecchi istituti scolastici, accademie e università di Bengasi chiacchierando mi ha detto che «ogni singola struttura scolastica nella quale ho insegnato è stata bombardata, data alle fiamme o rasa al suolo».
I genitori stanno cercano di far proseguire gli studi ai figli a casa. Sei settimane fa è entrata in servizio l’opzione online Beghazi-School.com e ha attirato un numero significativamente alto di alunni. La Mezzaluna Rossa gestisce una scuola a Bengasi, nella quale offre insegnamento a livello di elementari, ma le iscrizioni sono state a tal punto numerose che l’organizzazione è in grado di seguire soltanto due delle sette sessioni quotidiane normali. Tra un blackout e l’altro, una studentessa che avrebbe dovuto finire il suo primo semestre all’Università di Bengasi (il campus è stato prima bombardato e infine dato alle fiamme), mi ha scritto una email. “Talvolta mi dico che dovrei partire, quanto meno per finire gli studi e prendere la laurea. Poi però mi chiedo come potrei lasciare davvero Bengasi…” ha scritto. Come molti altri libici della sua età, si trova a dover scegliere se abbandonare il suo Paese o rischiare di mettere in gioco il proprio futuro.
È anche probabile che in futuro incomba un conflitto più grande e pericoloso. La milizia Misrata Dawn, che tiene sotto controllo la capitale, si è allineata con il governo di Tripoli, autoproclamatosi tale. Nessuno dei due accetta la legittimità del Parlamento eletto, che al momento si riunisce nell’estremo oriente del Paese, a Tobruk. Pare che il Qatar appoggi i nuovi governanti di Tripoli, mentre Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto sembrano sostenere Haftar e l’Esercito libico nazionale. Fino a questo momento Haftar ha accettato la legittimità del Parlamento e del governo democraticamente eletti e riconosciuti a livello internazionale. Questo avvelenato miscuglio di conflitti interni e di intromissioni dall’estero sta spingendo sempre più i governi di Tobruk e Tripoli verso lo scontro armato.
Malgrado la situazione sia così cupa, i libici sono determinati a tener duro e a coronare le aspirazioni originarie della loro rivoluzione. Di sondaggio in sondaggio è stato confermato che la stragrande maggioranza della popolazione vuole che un governo laico e democratico faccia rispettare la legalità. La speranza, benché intaccata e agli stremi, persiste. Questa settimana Ginevra ospiterà un nuovo round di trattative della Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil, United Nations Support Mission in Libya), ed è stato reso noto che “la decisione di organizzare questi negoziati fa seguito ad ampie consultazioni con tutte le più importanti parti in causa libiche”. In ogni caso, il sedicente governo di Tripoli sta minacciando di boicottare le trattative.
Molti credono che per la Libia questa sia l’ultima occasione.
L’autore è uno scrittore libico il suo ultimo libro è “ Anatomia di una scomparsa” ( Einaudi) Traduzione di Anna Bissanti

La Stampa 21.1.15
Capirete cosa è il contagio del male
Così fu Auschwitz: in un volume testimonianze inedite dello scrittore e di un suo compagno di prigionia
di Primo Levi


Pensate: non più di venti anni fa, e nel cuore di questa civile Europa, è stato sognato un sogno demenziale, quello di edificare un impero millenario su milioni di cadaveri e di schiavi. Il verbo è stato bandito per le piazze: pochissimi hanno rifiutato, e sono stati stroncati; tutti gli altri hanno acconsentito, parte con ribrezzo, parte con indifferenza, parte con entusiasmo. Non è stato solo un sogno: l’impero, un effimero impero, è stato edificato: i cadaveri e gli schiavi ci sono stati. [...]
Ma c’è stato anche di più e di peggio: c’è stata la dimostrazione spudorata di quanto facilmente il male prevalga. Questo, notate bene, non solo in Germania, ma ovunque i tedeschi hanno messo piede; dovunque, lo hanno dimostrato, è un gioco da bambini trovare traditori e farne dei sàtrapi, corrompere le coscienze, creare o restaurare quell’atmosfera di consenso ambiguo, o di terrore aperto, che era necessaria per tradurre in atto i loro disegni.
Tale è stata la dominazione tedesca in Francia, nella Francia nemica di sempre; tale nella libera e forte Norvegia; tale in Ucraina, nonostante vent’anni di disciplina sovietica; e le medesime cose sono avvenute, lo si racconta con orrore, entro gli stessi ghetti polacchi: perfino entro i Lager. È stato un prorompere, una fiumana di violenza, di frode e di servitù: nessuna diga ha resistito, salvo le isole sporadiche delle Resistenze europee.
Negli stessi Lager, ho detto. Non dobbiamo arretrare davanti alla verità, non dobbiamo indulgere alla retorica, se veramente vogliamo immunizzarci. I Lager sono stati, oltre che luoghi di tormento e di morte, luoghi di perdizione. Mai la coscienza umana è stata violentata, offesa, distorta come nei Lager: in nessun luogo è stata più clamorosa la dimostrazione cui accennavo prima, la prova di quanto sia labile ogni coscienza, di quanto sia agevole sovvertirla e sommergerla. Non stupisce che un filosofo, Jaspers, ed un poeta, Thomas Mann, abbiano rinunciato a spiegare l’hitlerismo in chiave razionale, ed abbiano parlato, alla lettera, di «dämonische Mächte», di potenze demoniache.
Su questo piano acquistano senso molti particolari, altrimenti sconcertanti, della tecnica concentrazionaria. Umiliare, degradare, ridurre l’uomo al livello dei suoi visceri. Per questo i viaggi nei vagoni piombati, appositamente promiscui, appositamente privi d’acqua (non si trattava qui di ragioni economiche). Per questo la stella gialla sul petto, il taglio dei capelli, anche alle donne. Per questo il tatuaggio, il goffo abito, le scarpe che fanno zoppicare. Per questo, e non la si comprenderebbe altrimenti, la cerimonia tipica, prediletta, quotidiana, della marcia al passo militare degli uomini-stracci davanti all’orchestra, una visione grottesca più che tragica. Vi assistevano, oltre ai padroni, reparti della Hitlerjugend, ragazzi di 14-18 anni, ed è evidente quali dovevano essere le loro impressioni. Sono questi, dunque, gli ebrei di cui ci hanno parlato, i comunisti, i nemici del nostro paese? Ma questi non sono uomini, sono pupazzi, sono bestie: sono sporchi, cenciosi, non si lavano, a picchiarli non si difendono, non si ribellano; non pensano che a riempirsi la pancia. È giusto farli lavorare fino alla morte, è giusto ucciderli. È ridicolo paragonarli a noi, applicare a loro le nostre leggi.
Allo stesso scopo di avvilimento, di degradazione, si arrivava per altra via. I funzionari del campo di Auschwitz, anche i più alti, erano prigionieri: molti erano ebrei. Non si deve credere che questo mitigasse le condizioni del campo: al contrario. Era una selezione alla rovescia: venivano scelti i più vili, i più violenti, i peggiori, ed era loro concesso ogni potere, cibo, vestiti, esenzione dal lavoro, esenzione dalla stessa morte in gas, purché collaborassero. Collaboravano: ed ecco, il comandante Höss si può scaricare di ogni rimorso, può levare la mano e dire «è pulita»: non siamo più sporchi di voi, i nostri schiavi stessi hanno lavorato con noi. Rileggete la terribile pagina del diario di Höss in cui si parla del Sonderkommando, della squadra addetta alle camere a gas e al crematorio, e capirete cosa è il contagio del male.

Corriere 21.1.15
Domande scomode sull’antisemitismo
di Riccardo Franco Levi e Alberto Melloni


«La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo traportando alla fossa comune il cadavere di Somogyi, il primo dei morti tra i nostri compagni di camera… Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati…». Così, nelle prime pagine de La tregua , Primo Levi descrive la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz.
A settanta anni esatti di distanza, il 27 gennaio, come avviene ormai da quattordici anni in base alla Legge n.211 del 20 luglio 2000, si celebrerà il Giorno della Memoria in ricordo, come dice la legge (senza mai pronunciare la parola «fascismo»), «dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti». «Affinché simili eventi non possano mai più accadere».
La realtà non sempre si adegua alla norma, foss’anche alla più giusta tra di esse, specie quando ultra vires sostituisce il problema del risultato sicuro del conoscere con gli effetti incerti del ricordare. Ma se ci fosse stato ancora bisogno di ricordare quanto e come l’odio antiebraico non sia sparito e non sia stato espulso dalle viscere profonde della società e degli uomini, a suonare l’allarme e a risvegliare le coscienze ci hanno pensato i terroristi di Parigi, allungando con il massacro al supermercato kosher, nelle ore di preparazione dello Shabbat, la scia di sangue e di morte che avevano iniziato a tracciare con la carneficina nella redazione di Charlie Hebdo .
A tanto orrore ha risposto l’enorme, emozionata partecipazione alla marcia che ha percorso e bloccato Parigi e scosso l’intera Europa. E una speranza si è riaccesa. Per quanto scomodi, urticanti addirittura, alcuni interrogativi, però, sono legittimi, anzi doverosi, proprio per non rinunciare alla razionalità critica che è quella che nella storia europea ha permesso a ciascuna delle sue culture di essere più profondamente se stessa.
Quanto della commozione, della condivisione di valori e sentimenti che si sono manifestati in quelle ore terribili è stato possibile grazie a quel «Je suis Charlie», il motto sventolato come impavida bandiera della libertà di espressione che ha saputo parlare dritto al cuore di tutti? Quanto ha pesato nell’eco e nell’emozione estesa da Parigi al mondo intero il fatto che le prime vite spezzate, spezzate come le matite subito assurte a simbolo dell’orrore, fossero vite di giornalisti, che ad essere colpito fosse stato il mondo dell’informazione? Quanto si sarebbe manifestato quel corale sentimento di fraternità se l’eccidio si fosse limitato ai quattro ebrei caduti sotto il fuoco omicida, o persino dei bimbi della scuola che i terroristi avevano progettato di colpire, ripetendo nella Ville Lumière l’orrore consumato nel 2012 a Tolosa? Avremmo visto, nelle strade, sui balconi, sulle prime pagine dei giornali, la scritta «Je suis Johan»? E noi, noi italiani, come avremmo reagito? Cosa avremmo pensato?
Se vogliamo evitare il rischio di una stanca ripetizione, il Giorno della Memoria potrà, dovrà essere l’occasione per risposte vere a questi interrogativi. In un’ottica innanzitutto e prevalentemente italiana che la stessa data del 27 gennaio, con il riferimento ad Auschwitz che essa implica, non aiuta ad assumere. Come ha ricordato il ministro Giannini parlando agli studenti italiani ad Auschwitz pochi giorni fa, pur nel riconoscimento di quel luogo quale primo ed universale simbolo dell’orrore della Shoah, altri sono i luoghi, altre sono le date che parlano e devono parlare alle giovani generazioni della persecuzione contro gli ebrei italiani: l’aula della Camera dei deputati dove il 14 dicembre del 1938 furono all’unanimità approvate le leggi antiebraiche; il Ghetto di Roma dove avvenne il rastrellamento degli ebrei del 16 ottobre 1943; il Binario 21 della stazione Centrale di Milano da dove partivano i vagoni per la deportazione; il campo di Fossoli, ultima tappa prima di Auschwitz, la Risiera di San Sabba a Trieste, l’unico campo di sterminio in terra italiana.
Qui, non meno che ad Auschwitz, è e sarà bene portare gli studenti per far toccar loro con mano (sì, con la mano passata, ad esempio, sul legno dei vagoni conservati nel Memoriale del Binario 21) la realtà e la radice profondamente italiane delle persecuzioni contro gli ebrei. Per aprire la porta a una conoscenza diffusa e a una comprensione più vera della storia, delle storie, delle responsabilità. Per superare gli stereotipi, le visioni rassicuranti, le verità di comodo: quella degli italiani brava gente, delle leggi razziali fasciste come frutto dell’obbligato accodarsi all’alleato nazista, della Chiesa avversaria del regime e impegnata, sotto la guida di papa Pio XII, a difesa e a protezione degli ebrei.
Così sappiamo che non fu. Non in questi termini, non senza sfumature, oscillazioni e codardie che è troppo facile sospingere fuori dalla storia con una retorica del diabolico, generando un risentimento autoassolutorio sui nazisti o sui croati o sugli ucraini. Le norme antiebraiche italiane in alcuni aspetti persino peggiori di quelle tedesche. La polizia italiana ebbe un ruolo determinante nella cattura degli ebrei. La Santa Sede e il Cattolicesimo in generale che, non certo soli, ebbero un ruolo nell’ascesa al potere del fascismo e nella costruzione del suo consenso, s’illusero che tollerando la «parte cattiva» delle leggi razziste (che ci fosse la «parte buona» il portavoce del Papa lo sostenne privatamente anche dopo il 25 luglio 1943) avrebbe potuto svolgere la sua missione.
Ancora più in profondo, la propaganda e le argomentazioni fasciste a giustificazione e sostegno della legislazione antiebraica furono astutamente modellate sulla base di quell’insegnamento del disprezzo e quel diritto di segregazione iscritti nella storia dei cristiani: i cattolici della associazione «Amici Israël» che li volevano ripudiare furono sciolti nel 1928, e dovettero attendere fino al 1959 e all’inizio del Concilio perché il ripudio del linguaggio della «perfidia» e dell’antisemitismo «di chiunque e quandunque» aprisse una via nuova.
Quanto di questo substrato, di questi pregiudizi (sull’ebreo ricco ed avaro, potente nella finanza e nel mondo dell’informazione, corruttore della società, estraneo ed infedele alla nazione che lo «ospita») rimane vivo nella società italiana? E se sì, perché? Su questo sarà bene riflettere il prossimo 27 gennaio. Dopo la marcia di Parigi, il presidente del Consiglio Renzi ha detto: «Je suis Charlie, je suis juif, je suis européen». Siamo sicuri che le sue parole rappresentino davvero il comune sentire di tutti noi italiani? E se qualcuno facesse compilare agli italiani un’autocertificazione razziale come quella richiesta ad Albert Einstein al suo ingresso in America, scriveremmo tutti di essere di razza «umana»?

La Stampa TuttoScienze 21.1.15
Le leggi del caos e quelle della prevedibilità:
gli enigmi dell’evoluzione della vita
di Bruce Lieberman



L’evoluzione è prevedibile? Alcuni scienziati sostengono di sì, molti controbattono di no. Quale visione dovremmo accettare e perché? La mia relazione al Festival delle Scienze di Roma, sabato 24 gennaio, verterà su questo problema.
In generale, basandoci sullo studio dei fossili, sembra che la migliore definizione di evoluzione sia «la sopravvivenza del più fortunato», invece che «la sopravvivenza del più adatto». Ovvero: il verdetto è che gran parte dell’evoluzione dipende da contingenze storiche e quindi non sia prevedibile. È una visione che contraddice quella tradizionale di scienziati come Charles Darwin e Richard Dawkins, ma che forse non sorprende, considerando la celebre frase - a volte attribuita al giocatore di baseball Yogi Berra e a volte al Nobel danese per la fisica Niels Bohr - secondo cui «è molto difficile fare una previsione accurata, soprattutto per il futuro». Ciò che è vero nel baseball e perfino in fisica è vero anche nell’evoluzione.
Fortunatamente per biologi e paleontologi, benché molti aspetti dell’evoluzione su grande scala siano dovuti ai capricci del fato, stiamo imparando che in alcune aree la prevedibilità è in realtà possibile. Se una specie aliena avesse visitato la Terra 500 milioni di anni fa, o anche solo 50 milioni di anni fa, non avrebbe potuto immaginare l’emergere dell’Homo sapiens. Ma, in senso più ampio, se quegli alieni avessero avuto sufficienti conoscenze di paleontologia, matematica ed evoluzione, avrebbero potuto fare una serie di previsioni attendibili su alcuni eventi di speciazione e in quali momenti sarebbero state presenti più o meno specie. Oggi, infatti, i paleontologi possono prevedere a lungo termine quali specie hanno maggiori probabilità di sopravvivenza e quali, invece, potrebbero estinguersi.
Al Festival spiegherò anche le ragioni per cui la prevedibilità nella storia evolutiva della vita sia così difficile, ma anche quando e come può essere dedotta: mostrerò come eventi catastrofici di estinzione di massa - come quello che 65 milioni di anni fa eliminò i dinosauri - inseriscano un considerevole elemento di casualità e incertezza nella storia della vita. E come il numero di specie marine sul nostro pianeta segua, perlopiù, un percorso casuale, simile a un ubriaco che barcolla. E tuttavia spiegherò anche che ci sono delle eccezioni.
In particolare, ogni 62 milioni di anni, il numero complessivo delle specie sulla Terra ha attraversato cicli di picchi e di depressioni, in corrispondenza con la posizione relativa del nostro Sistema solare nella galassia. Sebbene inquietante, ciò significa che il prossimo picco negativo nella biodiversità non è così lontano, se misurato in milioni di anni (e non lo è neppure considerando gli effetti negativi della nostra specie sul Pianeta e sugli altri esseri viventi). Mostrerò anche come elementi apparentemente diversissimi - quali le specie animali fossili, i pacchetti azionari e le stelle - mostrino in realtà comportamenti simili nel loro «evolvere» nel tempo. Questa somiglianza consente, quindi, la prevedibilità dei loro rispettivi destini a lungo termine: esistono specie che evolvono molto rapidamente, pacchetti azionari che tendono ad assumere prezzi estremamente variabili e stelle più soggette di altre a esplodere. Possiamo considerarli tutti più instabili (di altre specie, di altre azioni e di altre stelle) e tuttavia, proprio perché evolvono più rapidamente, sono proprio i tipi di specie, azioni e stelle che non prosperano nel lungo termine. Al contrario tendono a scomparire, mentre sono le specie, le azioni e le stelle più normali - statiche e meno precarie - quelle che sopravvivono e prosperano. Nella vita, come nel mercato azionario e nell’Universo, l’essere fatti in un certo modo piuttosto che in un altro alla lunga ripaga.
Tutto questo significa che, forse, non è destino che l’umanità sia padrona della Terra (visto che apparteniamo a un gruppo evolutivamente alquanto instabile, cioè i mammiferi). Potrebbero, invece, esserlo creature molto meno precarie dal punto di vista evolutivo, come gli umili e apparentemente semplici vermi. L’evoluzione mostra schemi ripetitivi e dall’incertezza e dal caso, a volte, emergono sorprendenti aspetti di prevedibilità. In particolare, ogni 62 milioni di anni, il numero complessivo delle specie sulla Terra ha attraversato cicli di picchi e di depressioni, in corrispondenza con la posizione relativa del nostro Sistema solare nella galassia. Sebbene inquietante, ciò significa che il prossimo picco negativo nella biodiversità non è così lontano, se misurato in milioni di anni (e non lo è neppure considerando gli effetti negativi della nostra specie sul Pianeta e sugli altri esseri viventi). Mostrerò anche come elementi apparentemente diversissimi - quali le specie animali fossili, i pacchetti azionari e le stelle - mostrino in realtà comportamenti simili nel loro «evolvere» nel tempo. Questa somiglianza consente, quindi, la prevedibilità dei loro rispettivi destini a lungo termine: esistono specie che evolvono molto rapidamente, pacchetti azionari che tendono ad assumere prezzi estremamente variabili e stelle più soggette di altre a esplodere. Possiamo considerarli tutti più instabili (di altre specie, di altre azioni e di altre stelle) e tuttavia, proprio perché evolvono più rapidamente, sono proprio i tipi di specie, azioni e stelle che non prosperano nel lungo termine. Al contrario tendono a scomparire, mentre sono le specie, le azioni e le stelle più normali - statiche e meno precarie - quelle che sopravvivono e prosperano. Nella vita, come nel mercato azionario e nell’Universo, l’essere fatti in un certo modo piuttosto che in un altro alla lunga ripaga.
Tutto questo significa che, forse, non è destino che l’umanità sia padrona della Terra (visto che apparteniamo a un gruppo evolutivamente alquanto instabile, cioè i mammiferi). Potrebbero, invece, esserlo creature molto meno precarie dal punto di vista evolutivo, come gli umili e apparentemente semplici vermi. L’evoluzione mostra schemi ripetitivi e dall’incertezza e dal caso, a volte, emergono sorprendenti aspetti di prevedibilità.

Repubblica 21.1.15
Puri da morire
La vita lontano dalle città la rinuncia alla corrente e al gas, i lunghi digiuni come quello che ha ucciso un uomo vicino a Ivrea
Dagli Elfi ai “villaggi ecologici”, ecco le comunità che inseguono miti antichi fino a trasformare, talvolta i loro riti in rischi fatali
di Jacopo Ricca e Vera Schiavazzi


«NON siamo matti. Potete vederlo da soli, stiamo preparando la cena ». Emelio indica le sue figlie, Louise e Ayla, che al tavolone di legno illuminato dalle luci delle candele affettano le verdure per il minestrone. In Valchiusella, sopra Issiglio, non vive solo la coppia francese che ha portato all’estremo i digiuni di purificazione, con la morte di Alain Roussé. Qualche tornante dopo la loro casa, percorrendo una strada sterrata, si raggiunge Ravenwood, l’ecovillaggio. Un insieme di case, roulotte e tende dove abita poco più di una dozzina di persone che ha scelto di vivere secondo gli insegnamenti di Anastasia, una donna russa che ha scritto diversi libri sulla vita «a contatto con la natura».
Della morte di «Djesaelè», il nome preso da un rivo qui vicino da Alain Fourré, sanno poco o nulla: «Ne siamo rimasti sconvolti e molto intristiti» racconta un po’ in inglese e un po’ in italiano Emelio, giacca tecnica e lampada frontale per illuminare dove mette i piedi nel buio del bosco. La scelta del digiuno non vuole commentarla: «Sono decisioni molto personali, ma non fanno parte di riti. La nostra è una vita il più possibile a contatto con la natura, crediamo nella pace e nell’amore». Dopo più di quarant’anni in Germania, Emelio ha deciso di abbandonare tutto e con la sua famiglia si è trasferito tra le montagne del Piemonte: «Abbiamo deciso di abbandonare tutte le pene che ci impone la società e tornare a uno stile più vicino a quelli che sono i reali bisogni dell’uomo». In casa loro non c’è acqua corrente, né elettricità, «ma metteremo dei pannelli fotovoltaici appena possibile». Una scelta estrema che sua moglie Freya considera estremamente razionale: «Può darsi che in futuro tutti saranno costretti a portare avanti una vita simile alla nostra, se non sarà per una catastrofe sarà per la crisi economica ». In Valchiusella stanno utilizzando i risparmi di tutta la vita per vivere, e mentre il loro figlio più piccolo frequenta la scuola loro coltivano, cercano di rendere più confortevole la loro casa e «si avvicinano alla natura ». Sul sito di Ravenwood si parla di un rapporto con la «sacra fonte», la Sorgente Bianca che ha una «connessione energetica » con una fonte simile a quella di Glastonbury in Inghilterra: «Il guardiano della fonte è una donna e si chiama Mary», ma nessuno degli abitanti risponde a questo nome. Una setta? Non proprio: «Qui viviamo con uno stile simile e certamente siamo contenti quando c’è il solstizio o la luna piena torna a sorgere — spiega Emelio — Ringraziamo la natura per questo e magari andiamo anche nel bosco ad accendere delle candele per celebrare lo scandire delle stagioni, ma la nostra è una scelta sia di cuore che di razionalità ».
L’ecovillaggio di Issiglio non è certamente l’unico in Italia dove si vive senza luce o senza gas, dove si mangiano solo le cose coltivate intorno a sé o i frutti selvaggi e dove si pratica una vita totalmente alternativa a quella delle città, dei supermercati, del lavoro a orario fisso e del cibo globale. L’idea della purezza, di modi di vivere che spesso si richiamano al passato o addirittura si ispirano alle storie di Tolkien, l’abbandono del cibo “deperibile” e del consumo indiscriminato sono all’origine di moltissimi modi di vivere. Nei villaggi, appunto, ma anche nelle città, dove si moltiplicano gli adulti che credono nelle medicine energetiche anche e soprattutto quando si tratta dei bambini. «È un fenomeno molto più diffuso di quanto crediamo, che in qualche modo dovrebbe preoccuparci — racconta lo scrittore Marco Franzoso, che col suo Il bambino indaco (Einaudi) ha ispirato il film Hungry Hearts - Ho frequentato alcune di queste persone che cercavano di nutrirsi il meno possibile, convinte dell’idea che fosse ragionevole vivere di luce o non curare, ma anzi accogliere, le proprie malattie. Qualcuno nel tempo era morto, qualcun altro non poteva più camminare e aveva perso il lavoro. Casi estremi? Forse sì, ma che non sembrano esserlo più quando anche nelle grandi città senti parlare di bambini indaco, e poi arcobaleno, e poi cristallo, e di come la pranoterapia li avrebbe guariti benissimo dall’influenza ». L’idea è quella che il cibo «commerciale» sia da bandire, da sostituire magari con le cose crude o con le noci e le bacche che si possono raccogliere. Forse, alla fine, dietro a questi comportamenti c’è un desiderio narcisistico che non riesce neppure ad accogliere i bambini per quello che sono, creature bisognose di cibo e di carezze.
Sull’Appennino Pistoiese vive una delle più longeve comunità alternative d’Italia, che per trattare con le amministrazioni pubbliche e dotarsi di un’identità ha deciso di ribattezzarsi Comunità degli Elfi. Nati negli anni 80, gli Elfi vivono come i contadini di sessanta o settanta anni fa a Pesale, un paesino ormai abbandonato al confine tra la Toscana e l’Emilia, ribattezzato Gran Burrone. «Abbiamo sempre respinto ogni tentativo di integrarci in un progetto, per noi è meglio l’autosufficienza», dice Mario Cecchi, un elfo anziano, membro del Movimento comunitario italiano che raccoglie molte di queste realtà.
E poi ci sono case editrici come Mediterranee o periodici come la Nuova Terra che propagandano l’accostamento tra medicine non tradizionali e oncologia, o il crudismo come unica alternativa all’obesità, reti come la Famiglia Rainbow che propone «un nuovo modo di vivere in un luogo con caratteristiche adatte, selvatico, lontano dalle strade» e attribuisce valore «alla madre terra più che al materialismo». C’è la Rive, Rete italiana villaggi ecologici, dove ogni villaggio è un “laboratorio”, e il Cir, Corrispondenze e informazioni rurali, che vuole organizzare un bagaglio di conoscenze del popolo contadino. Ma ci sono anche i seguaci di Jasmusheen, la donna australiana che dal 1993 «vive di aria e di luce», sostenendo che il prana sia la forma di energia già tramandata dai cinesi e che negli anni ha conquistato sempre più ammiratori, non ultime due donne che in Svizzera e in Scozia sono morte per imitarla. E ci sono i digiuni rituali, spesso di ventuno giorni, ai quali si può essere invitati: a Piacenza si possono «seguire soggiorni igienisti individuali o di gruppo », durata minima una settimana, prenotazione via email. Il digiuno, con pratiche di avvicinamento e altre di allontanamento, è praticato negli ecovillaggi come in tante cliniche di rémise en forme, con assistenza e terapie mediche o alla fai da te, come dev’essere capitato nella casa di Alain Fourré. Ma le filosofie che le ispirano sono le stesse: rinascita, amore spirituale, contatto con la natura. Teorie talvolta salubri, quando si coltiva e si vuole soltanto staccarsi dalla stretta cittadina. Ma talvolta micidiali, quando si ha un obiettivo spirituale e ci si rifiuta di nutrirsi.

Repubblica 21.1.15
Ma voler annullare il corpo significa tradire la natura
di Michela Marzano


IL puro non può essere né nominato né definito», scriveva il filosofo francese Vladimir Jankélévitch ne Il puro e l’impuro , spiegando come talvolta l’essere umano, attratto dalla «metafisica della purezza », si smarrisca. Perché non c’è vita senza «mescolanza»: il bene e il male, il puro e l’impuro, la materia e lo spirito non possono non coesistere; si mescolano, sono inseparabili. A meno di illudersi di potersi definitivamente affrancare dalla pesantezza del corpo, dalla sporcizia degli alimenti e dagli errori della carne. Smarrendosi però, così facendo, alla ricerca di un paradiso perduto, di un luogo leggendario in cui purezza e felicità sarebbero sinonimi. Fino a morirne. Certo, l’idea che il corpo sia una prigione da cui liberarsi è molto antica. Se ne trovano tracce non solo in Grecia con il pitagorismo e con l’orfismo, prima ancora di assumere un carattere sistematico con Platone, ma anche in Oriente, dove la mistica del vuoto si è lentamente trasformata in una vera e propria mortificazione di sé. Per secoli, il corpo è stato considerato come un mero ostacolo al raggiungimento della conoscenza e della virtù. La filosofia si è trasformata in un “esercizio di morte”. L’essere umano è stato incoraggiato all’ascesi e al sacrificio. Ma questo, almeno in teoria, era prima. Prima del superamento del dualismo anima- corpo, prima della consapevolezza del fatto che il corpo non è solo qualcosa che si «ha», ma anche e soprattutto qualcosa che si «è», prima della certezza che è la vita che impone il corpo a ognuno di noi e che non possiamo sbarazzarcene senza sbarazzarci al tempo stesso della nostra esistenza. I limiti, le imperfezioni e le impurità che ci rinvia il corpo sono, in realtà, i limiti, le imperfezioni e le impurità della condizione umana. Perché allora continuare a mortificarsi?
Il controllo del corpo, in realtà, non è mai venuto meno. Anzi. Anche in un’epoca in cui si celebra la morte dell’anima, si continua a pensare e a vivere in maniera binaria: adeguato e inadeguato, puro e impuro. Solo che adesso è la volontà che cerca di imporsi alla materialità e ai suoi limiti. Controllando il corpo, la volontà pensa di liberarsi da ogni appetito. Controllando il corpo, la volontà immagina di essere più forte dei bisogni e delle mancanze. Fino a convincersi di essere capaci di non dipendere più da niente e da nessuno. Il nuovo mito, oggi, è proprio questo: cancellare ogni dipendenza. Non solo le dipendenze affettive, ma anche quelle biologiche. Se vinco la fame, che cosa potrà mai resistermi? Se controllo il corpo, che cosa potrà mai accadermi? Peccato che a forza di voler controllare tutto, dopo un po’ non si controlli più nulla. E ci si ritrovi schiacciati sotto il “peso della leggerezza”. Paradosso che i forsennati del digiuno conoscono bene. E di cui soffrono, nonostante continuino a massacrarsi, pensando di essere loro, e solo loro, i responsabili della propria inadeguatezza. Il corpo fa resistenza. La realtà non si piega. E, col tempo, prende definitivamente il sopravvento. «Amare la verità significa sopportare il vuoto», scriveva Simone Weil nei suoi Cahiers . Nell’universo, per la filosofa francese, regnano due forze: l’ombra e la grazia, la luce e la pesantezza. Anche la pietà, però, «scende fino a un certo punto, non più in basso». Altrimenti si rischia di pervertire la volontà di potenza e, credendosi onnipotenti, ci si dimentica che «l’immutabile che è nell’anima» lo si raggiunge solo contemplando «l’immutabile che è nel corpo».

Repubblica 21.1.15
Siamo tutti Alice eterni sognatori dell’altro mondo
Il classico di Lewis Carroll compie 150 anni: uno scrittore ci svela perché non possiamo non amarlo
di Michele Mari


L’autore usava filastrocche e nonsense anche durante le sue lezioni di matematica L’opera ha avuto infinite interpretazioni dalle trame algebriche alla critica sociale
L’AUTORE: Lewis Carroll (1832- 1898) ha scritto Alice nel paese delle maraviglie e
Alice nello specchio

ALAN Turing, il padre dell’intelligenza artificiale che il pubblico sta conoscendo grazie al film The imitation game , si suicidò nel 1954 mangiando una mela rossa in cui aveva iniettato del cianuro. Non sappiamo se una parte della sua mente meravigliosa si illudesse di poter tornare alla vita come Biancaneve; è tuttavia evidente che un suicidio così didascalicamente fiabesco ha una fortissima valenza regressivoinfantile.
Oltre a implicare una polemica dichiarazione di “innocenza” (Turing era stato processato e condannato per omosessualità).
Genio, Inghilterra, matematica, puritanesimo, taccia di immoralità, infanzia, fiaba: le coordinate che definiscono Turing portano dritto a Charles Lutwidge Dodgson, che esattamente 150 anni fa firmò Alice nel paese delle meraviglie con lo pseudonimo di Lewis Carroll. Sotto il suo vero nome pubblicò invece una cospicua serie di trattati di logica e di articoli, in uno dei quali rivelava la scoperta di un principio (noto come “regresso di Bolzano-Carroll”, essendo stato scoperto indipendentemente anche dal boemo Bernard Bolzano) del quale si sarebbe avvalso lo stesso Turing nell’elaborazione della propria “macchina” algoritmica. E pur se non drammaticamente come Turing, anche Carroll ebbe i suoi guai con la morale pubblica. A lungo è stato gravato dal sospetto di pedofilia, e sebbene oggi la maggior parte degli studiosi ritenga che il suo interesse per le bambine, per quanto morboso, non lo spingesse mai ad alcun tipo di abuso o di molestia, resta il fatto che egli stesso era consapevole dell’ambiguità, tanto da distruggere migliaia di fotografie infantili scattate in oltre venticinque anni. Compagno di strada dei preraffaeliti, in quelle bambine ritratte fra erbe e fiori cercava di cogliere l’innocenza: e cosa di più rassicurante per un cultore dell’innocenza che regredire al livello degli innocenti? Bamboleggiare, esprimersi per filastrocche e nonsense, abbandonarsi a un immaginario onirico e surreale furono il suo modo, paradossalmente, di essere “rispettabile”.
Non ci si stupisce nell’apprendere che la sua proverbiale balbuzie cessava come per incanto quando la sua frase si metricizzava in filastrocche rimate, le stesse che informano Alice nel paese delle meraviglie e il successivo Alice nello specchio.
Non solo: ma da diverse testimonianze parrebbe che Carroll, non dalla cattedra di matematica che aveva alla Christ Church ma nel salotto di casa propria, in occasione di lezioni private, insegnasse in versi, riducendo formule e teoremi a filastrocche. E ancora nel 1885, sotto il titolo A tangled tale ( Una storia intricata ), raccolse una serie di racconti matematici in cui l’elemento ludico era direttamente proporzionale all’intento didascalico.
La logica combinatoria insinuò in Carroll una vera ossessione per i giochi di carte e per l’enigmistica (in questo il suo scrittore fraterno è Leo Perutz, autore di romanzi fantastici e di manuali di scacchi e di bridge): tutti conoscono la tremenda Regina di Cuori e le sue cartesuddito (capitolo 8 di Alice: Il campo da croquet della Regina), ma quanti, giocando a Word ladder (“Scala di parole” o metagramma), sanno che quel gioco fu inventato da Lewis Carroll nel 1879? In quel caso si trattava di escogitare qualcosa per intrattenere due bambine, Julia ed Ethel Arnold (la prima destinata ad essere la madre di Aldous Huxley), proprio come la genesi di Alice, notoriamente, è legata a una gita in barca con le tre sorelline Liddell, il 4 luglio del 1862. Lorina, Alice e Edith Liddell, figlie del rettore della Christ Church, avevano rispettivamente tredici, dieci e otto anni, e non era la prima volta che si diportavano sul Tamigi con Carroll e con il reverendo Duckworth (un nome che sembra finto, e che infatti ispirò il personaggio dell’anatra: ma a parte questo, fosse forma deontologica o più cruciale profilassi, pare che per queste scampagnate e per le sue sessioni fotografiche Carroll facesse sempre in modo di non rimanere mai da solo con le sue giovani amiche). La leggenda vuole che, inventata lì per lì, la vicenda di una bambina che finisce in un sottomondo fantastico fosse subito attribuita a quella, delle tre sorelle, con l’età più consona: quindi non la già adolescente Lorina e non la troppo piccola Edith, ma la decenne Alice, la quale poche settimane dopo si vide consegnare da Carroll un manoscritto intitolato Alice’s adventures under ground. Da quel momento Alice si impose come “libro” anche nella coscienza del proprio autore, che per oltre due anni continuò a lavorarvi con una dedizione che nei paesi di lingua inglese ha fatto la gioia della filologia delle varianti. Nel 1865 venivano così alla luce, associate alle magnifiche illustrazioni di John Tenniel, le Alice’s adventures in Wonderland , uno dei tre o quattro libri più tradotti al mondo dopo la Bibbia.
Leggibilissimo “letteralmente”, come di fatto è stato letto da centinaia di milioni di bambini, Alice si presta a livelli di lettura via via più complessi. Il matematico Martin Gardner ha dimostrato che dietro molte apparenti assurdità si nascondono altrettanti principii matematici, mentre altri esegeti hanno evidenziato una fittissima trama di allusioni a personaggi e vicende della società contemporanea, oltre alla continua parodia di opere letterarie e teatrali. Carroll, è questo il punto, non voleva rinunciare a dire la sua sul mondo dei “grandi”, ma voleva farlo “da bambino”, anzi da bambino che sogna, come dir e da bambino al quadrato. Ed essere bambino, per lui, significava innanzitutto non essere lì ma da un’altra parte, e poco importa che quest’altra parte fosse il sottosuolo o il paese delle meraviglie o il mondo dietro lo specchio. Coniglio bianco, dunque innocente, egli vuole essere inseguito e trovato da Alice, metafora semplicissima (e dunque ardua) per esprimere il proprio disperato bisogno di essere riconosciuto ed amato; a chi lo farà, in cambio, egli regalerà un intero universo fantastico, a partire dalla lingua. È questo il vantaggiosissimo patto che dopo un secolo e mezzo, miracolosamente, continua ad essere sottoscritto da ogni nuovo lettore.

Repubblica 21.1.15
Fino a che punto un artista può essere irresponsabile?
Dopo gli attentati di Parigi e la grande manifestazione per la libertà di espressione il dilemma degli intellettuali
di Stefania Parmeggiani

“Ogni autore deve scrivere quello che gli detta la coscienza senza cautele o autocensure
Ci sono voluti anni per sottrarre l’arte alla religione Oggi il problema è nella suscettibilità dei credenti
Se l’arte ha un senso è quello di aprire finestre, senza alcuna garanzia né protezione per chi lo fa”
“La libertà necessita di un contrappeso che è dato dalla responsabilità Solo così l’arte può tracciare una strada
Gli artisti devono avere la capacità di guardare oltre i limiti imposti dalla legge morale del loro tempo
Si è responsabili di ciò che si scrive Lo si è nel momento in cui un testo viene pubblicato e quindi giudicato”

LIBERI, ovviamente. Ma anche irresponsabili? Dopo la strage di Charlie Hebdo due milioni di persone sono scese in strada per difendere la libertà di espressione. Poi sono cominciate le domande. Gli scrittori, gli artisti e gli intellettuali devono pensare alle conseguenze delle loro opere? O, come sostiene Michel Houellebecq, hanno il diritto di essere irresponsabili? Lui ha pubblicato Sottomissione senza curarsi delle reazioni, né di eventuali censure né dei fondamentalisti islamici. Charlie Hebdo è tornato in edicola con lo stesso slogan di sempre: «Giornale irresponsabile». Ma questa è veramente l’unica condizione possibile?
Lo abbiamo chiesto a filosofi, scrittori e artisti. «Credo che lo scrittore, in quanto scrittore, non possa fare altro che obbedire alla forma che l’opera sta assumendo nel suo cervello e nel suo corpo». Walter Siti riconosce a se stesso e ai suoi colleghi un solo dovere: «Capire quando una frase o un episodio sono dettati da una bassa voglia di notorietà, o quando invece sono necessari alla compiutezza della forma. In quel caso la frase o l’episodio deve scriverli, anche se possono apparire provocatori o politicamente scorretti». Irresponsabile quando crea, ma non come cittadino che «deve affrontare le reazioni che la sua opera suscita nella società intorno a lui, senza lamentarsi troppo. Giuste o ingiuste che siano». In fondo può sempre sperare nei tempi lunghi: «I parenti di Brunetto Latini non possono più querelare Dante per l’outing proditorio sul loro congiunto, né Dante poteva prevedere che l’aver messo all’Inferno Maometto e il genero Alì avrebbe potuto fruttargli un rogo della Commedia a Sana’a o a Mossul».
Anche il filosofo Remo Bodei non vuole sentire parlare di limiti: «Ci sono voluti secoli per sottrarre l’arte al potere della religione e della politica e adesso non si può tornare indietro ». Non si può negoziare un diritto acquisito. «Capisco che sia un rischio andare a toccare la fede delle persone, come dice Papa Francesco, ma il problema non è nella libertà degli artisti, ma nella suscetti- bilità dei credenti». In Occidente la tolleranza non è stata una conquista facile: «Ci sono volute le guerre di religione e tanto sangue da fare girare le ruote dei mulini, ma oggi ognuno può dire ciò che vuole purché non imponga la propria opinione con la violenza o con l’astuzia».
I limiti della decenza come ha detto Steve Bell, vignettista del Guardian, non possono essere codificati. E poi il buon gusto è un concetto ambiguo. Non piace a Rodrigo Garcia, il regista teatrale che come Romeo Castellucci si è scontrato con i fondamentalisti cristiani e ha portato i suoi spettacoli in teatri blindati dalla polizia.
Lui pensa alla pressione sociale come «a un batterio invisibile che lavora in profondità nella psiche di un artista» e, interrogato da Le Monde, si è spinto a paragonare la responsabilità «a una cellula cancerogena capace di distruggere la libertà».
Meglio la solitudine, quella che Gipi, illustratore e fumettista, estremizza fino al paradosso: «Secondo me gli artisti devono essere abbandonati a se stessi, non protetti, non garantiti... Non devono neanche porsi il problema della libertà perché se l’arte ha un senso è quella di aprire finestre, anche se quello che c’è al di là è scomodo. Se poi parliamo di religioni, per me è anche peggio: capisco il riguardo o la sensibilità nei confronti delle persone, ma non quello per delle creature invisibili o per delle ideologie».
E in teatro? Dietro la maschera dell’arte ci si può prendere gioco di tutto? «Sì, su un palcoscenico tutto è lecito», ha spiegato ai lettori francesi Shermin Langhoff, direttrice del Maxim Gorki Theater di Berlino. «Penso che nessun artista o scrittore debba esitare a produrre la sua arte perché teme o pensa o immagina che possa offendere qualcuno o provocare reazioni negative», ci spiega Alan Bennett, autore inglese che nei suoi libri come nei suoi spettacoli ha messo in luce le contraddizioni della cultura britannica. «Ogni scrittore deve scrivere quello che gli detta la sua coscienza, senza cautele o autocensure». Perché come sostiene Moni Ovadia, «rappresenta solo se stesso e i lettori sono liberi o no di sceglierlo». Lui si dichiara agnostico e disinteressato al tipo di satira pubblicata da Charlie Hebdo , ma contrario a ogni forma di censura. «E poi si è già responsabili di ciò che si scrive. Lo si è nel momento in cui il tuo testo viene pubblicato o portato in un teatro, sottoposto al giudizio di chi è libero di apprezzarlo, di contestarlo, di ignorarti o di sentirsi offeso e quindi di querelarti».
In base alle leggi e non alla morale, come precisa Maurizio Cattelan, il provocatore dell’arte, l’uomo che in una sua celebre opera raffigurò il Papa abbattuto da meteorite: «Un giudice può condannarti per aver infranto la legge, ma solo un fondamentalista può arrogarsi il diritto di condannare a morte chi ha infranto una legge morale, perché questa è soggettiva e variabile. Gli artisti, come gli scienziati, hanno la capacità di guardare oltre i limiti imposti dalla legge morale del tempo in cui vivono. È un raggio d’azione privilegiato, che comporta da sempre dei rischi. Basta pensare a Copernico o a Galileo per rendersi conto che non c’è niente di nuovo, anzi; la storia si ripete, pur con leggere variazioni. Ieri era la scienza, oggi sono gli artisti, ma la caccia alle streghe è la stessa».
Di opposta opinione Michelangelo Pistoletto, artista che da sempre lavora sui concetti di libertà e responsabilità. «Due termini fondamentali legati alla creatività. La libertà totale di per sé sfugge alla realtà e ha bisogno di un contrappeso che è la responsabilità. Solo così, attraverso una libertà responsabile, l’arte può tracciare una via, una prospettiva nella società. Abbiamo acquisito un’autonomia straordinaria sul piano artistico, ma non basta. Ci vuole responsabilità perché questa libertà possa essere bene applicata. La libertà è illimitata. La responsabilità scandisce questa libertà nelle opportunità del reale. Viviamo un tempo in cui i contrasti tornano a esplodere. Dobbiamo trovare la capacità di mettere gli opposti in equilibrio. L’arte deve assumersi una responsabilità civile. Non deve approfittare della libertà per mancare di rispetto». Ancora più radicale Will Self, autore noto per i suoi racconti satirici, grotteschi e spesso provocatori. «Io difendo la libertà di espressione, ma questa non può esistere senza la responsabilità ». La sua riflessione, consegnata a un dibattito su Channel Four , è stata una presa di posizione netta nei confronti della linea editoriale di Charlie Hebdo . «Una buona satira deve colpire i potenti, e questo non è il caso dei musulmani ». Per lui il settimanale francese appartiene a quella tradizione post ’68 «che provoca e poi sta a vedere cosa accade ». Irresponsabile, dunque. Come rivendica Houellebecq, ma questa volta senza orgoglio.

Honoré Daumier: La Republique ; una vignetta di Charb (da Charlie Hebdo ) e una del siriano Ali Ferzat

Corriere 21.1.15
Una tecnica per leggere i papiri di Ercolano senza srotolarli né far danni
di Ida Bozzi


Una tecnica di microelettronica per leggere i papiri dell’unica biblioteca sopravvissuta dal mondo classico, quelli carbonizzati quasi due millenni fa a Ercolano nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Senza srotolarli. È questa l’impresa riportata da «Nature Communications» e compiuta da un gruppo di ricercatori tutto europeo, coordinato dal fisico italiano Vito Mocella dell’Imm, Istituto per la microelettronica e i microsistemi del Cnr a Napoli (nel team anche ricercatori tedeschi, dell’omologo francese Cnrs, e della struttura per la luce di sincrotrone, l’Ersf di Grenoble). Con la «tomografia a raggi X a contrasto di fase» usata dall’Ersf, il gruppo ha «srotolato» e letto virtualmente alcuni papiri di Ercolano conservati all’Institut de France.
I papiri usati sono parte del tesoro letterario e filosofico ritrovato nella cosiddetta Villa dei Papiri di Ercolano, che appartenne a Lucio Calpurnio Pisone e fu sede della scuola epicurea di Filodemo di Gadara: la nuova tecnica può cambiare il destino dei 450 papiri di Ercolano ancora intatti e non letti, che peraltro potrebbero contenere altre opere e commenti inediti di autori antichi, del filosofo Epicuro in primis. Finora le trascrizioni disintegravano i rotoli, mentre la microelettronica non è invasiva e «legge» distinguendo accuratamente tra il nerofumo dell’inchiostro, che penetra solo in parte il papiro, e l’incenerimento dell’eruzione.

La Stampa 21.1.15
Nasce “Edicola italiana”, finalmente tutti i giornali sono su un unico sito
L’iniziativa on line di tutti i maggiori editori
di Marco Castelnuovo

qui