Corriere 23.1.15
Crisi al vertice della «Società Heidegger»
di A. Car.
Giunge
a una svolta il caso Heidegger, esploso dopo la pubblicazione della
prima parte dei Quaderni neri, i taccuini filosofici del pensatore
tedesco, rimasti a lungo inediti, dai quali emerge in modo evidente il
suo antisemitismo. Il presidente della «Società Martin Heidegger»
tedesca, Günter Figal, si è infatti dimesso dall’incarico, dicendo di
non voler più in alcun modo rappresentare una figura capace di
affermazioni che ritiene di natura patologica. Dissente però da Figal la
vicepresidente della Società Heidegger, Donatella Di Cesare: «Il nostro
compito è promuovere una discussione critica, come quella adesso in
corso a Parigi nel convegno “Heidegger e gli ebrei”. Avevo chiesto di
prendere iniziative simili in Germania, ma Figal è rimasto inerte. Mi
pare incomprensibile che adesso si dimetta». Di Cesare e Figal sono
invece d’accordo nel chiedere che gli eredi di Heidegger mettano tutte
le carte del filosofo a disposizione degli studios.
La Stampa 23.1.15
Rodotà: no a un partito Sel più dissidenti Pd
«Mentre
capisco la scelta del papa straniero Tsipras, non condivido l’idea di
una Syriza italiana. È una forzatura». Così Stefano Rodotà in
un’intervista a Micromega. «In Grecia - aggiunge - Syriza ha raggiunto
l’attuale consenso perché durante la crisi economica ha svolto un lavoro
effettivo nel sociale. In Italia la situazione è differente».
MicroMega 22.1.15
Stefano Rodotà: “Ripartiamo dal basso, senza la zavorra dei partiti”
“Chi
pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato
guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico
senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e
rappresentativa della società”
intervista di Giacomo Russo Spena
qui
il Fatto 23.1.15
Human Factor, a Milano kermesse della sinistra
SI
APRE OGGI a Milano, l’evento-congresso “Human factor” organizzato da
Sel per far nascere la Syriza italiana. Alla vigilia delle elezioni in
Grecia, quelle che potrebbero essere vinte da Alexis Tsipras, il
laboratorio guidato da Nichi Vendola ospita anche la minoranza Pd, ormai
apertamente in rotta con Matteo Renzi. Sul palco saliranno Gianni
Cuperlo, Stefano Fassina e Sergio Cofferati (ancora in forse a causa di
un problema ad una spalla). E poi ci saranno anche esponenti del neonato
gruppo ex M5S al Senato, intellettuali, rappresentanti del mondo
sindacale e gli amici della sinistra radicale “e vincente” europea
(ovviamente Syriza ma anche gli spagnoli di Podemos).
Quasi trecento i
relatori: la giornata clou sarà domenica quando prenderanno la parola
Civati, Cuperlo, Fassina, il sindaco di Napoli de Magistris, gli ex
cinquestelle Campanella e Mussini e, in chiusura, l’intervento di Nichi
Vendola. “Ciascuno di noi sarà giudicato sulla base della coerenza dei
propri comportamenti. Non si può più dire: ‘Vorrei ma non posso’ - ha
detto il leader di Sel - Sfidare Renzi per batterlo è una necessità
dell’Italia”.
il Fatto 23.1.15
Tsipras e dintorni
Serve più sinistra in questa Europa
di Barbara Spinelli
Caro
direttore, in riferimento all’articolo di Salvatore Cannavò, “Rottura
ligure, la sinistra cerca l’x factor rosso”, pubblicato il 20 gennaio
dal tuo giornale, ti chiedo di ospitare una riflessione che precisa le
posizioni che mi vengono erroneamente attribuite. Un caro saluto.
Questi
sono giorni cruciali, come ho avuto in modo di dire il 17 gennaio, nel
corso dell’assemblea dell’Altra Europa con Tsipras alla quale Salvatore
Cannavò fa riferimento nel suo articolo del 20 gennaio. Sono giorni
cruciali per noi in Italia, dove ci stiamo preparando all’elezione del
prossimo presidente della Repubblica e a un possibile sfaldamento del
Pd, e sono giorni cruciali per un’Europa che – scossa dai terribili
attentati di Parigi e dalle loro prevedibili ripercussioni sulle
politiche di sicurezza e sui diritti dei cittadini – attende l’esito
delle elezioni generali in Grecia.
La possibile vittoria di Syriza,
cui l’Altra Europa si è ispirata fin dalla sua costituzione, potrebbe
davvero rappresentare una svolta, se Tsipras condurrà sino in fondo la
battaglia che ha promesso, e se sarà sostenuto da un grande arco di
movimenti e partiti fuori dalla Grecia. Sarà la prova generale di uno
schieramento che non si adatta più all’Europa così com’è, che giudica
fallimentari e non più proponibili i rigidi dogmi dell’austerità, e che
mette fine allo schema ormai trentennale inventato da Margaret Thatcher,
secondo cui “non c’è alternativa” alla visione neoliberista delle
nostre economie e delle nostre società: visione fondamentalmente
antisindacale, politicamente accentratrice, decisa a
decostituzionalizzare le singole democrazie dell’Unione europea e la
democrazia delle stesse istituzioni comunitarie.
IN QUESTO scenario,
l’articolo di Cannavò restringe l’orizzonte, collegando la nascita di un
progetto politico di ampio respiro a una mera sommatoria di sigle e di
singole figure, per quanto autorevoli. Nell’inverno 2013-2014, la lista
L’Altra Europa con Tsipras nacque per unire in Italia le forze che non
si riconoscevano nella linea di un partito – il Pd – sempre più attratto
dall’ideologia centrista che sprezza le forze intermedie della società,
e i poteri che controbilanciano il potere dell’esecutivo. Siamo nati –
ho avuto occasione di dirlo a Bologna – per rimobilitare politicamente e
conquistare il consenso di una sinistra oggi emarginata, sì, e anche di
chi ha cercato rifugio nel movimento di Grillo o – sempre più –
nell’astensione, dunque in un voto di sfiducia verso tutti i partiti e
tutte le istituzioni politiche.
Eravamo partiti da Alexis Tsipras e
dalle sue proposte di riforme europee, perché anche noi vedevamo la
crisi iniziata nel 2007-2008 come una crisi sistemica – di tutto il
capitalismo e in particolare dell’eurozona – e non come una somma di
crisi nazionali del debito e dei conti da tenere in ordine nelle varie
case nazionali. L’aggancio a Syriza e al caso greco era un grimaldello
per cambiare l’Europa e la politica italiana.
Quelle idee vanno
salvaguardate, perché hanno prodotto un esito importante: un milione di
voti, tre deputati nel Parlamento europeo, un consigliere comunale in
Emilia Romagna; ma soprattutto hanno prodotto una consapevolezza nuova:
non bisogna aspettare, per nascere come soggetto politico, che altri
decidano quale fattore x, quale alternativa nuova e mai vista debba
prodursi alla politica di Renzi.
Il soggetto c’è, questo ho detto a
Bologna, senza mai sognarmi di pronunciare le parole che mi vengono
attribuite da Cannavò: L’Altra Europa non è affatto un “contenitore
autosufficiente”, ma un’esperienza politica autonoma, che può essere
messa in comune nella costruzione di una nuova realtà il più ampia
possibile – che si dia il compito di fermare la disgregazione sociale in
atto nel nostro paese, a livelli mai conosciuti nella storia
repubblicana, mettendo al centro la difesa del lavoro e dell’ambiente, e
ridando dignità a una generazione senza prospettive.
LA NOSTRA Lista
non deve dimenticare, e anzi deve accentuare e trasformare sempre più
in proposte politiche concrete, la sua intuizione iniziale:
l’aspirazione a essere massimamente inclusiva e unitaria, partendo dalle
esperienze e dalle pratiche esistenti nei territori, e massimamente
aperta ai movimenti alternativi. Aperta – come lo siamo stati nelle
elezioni europee – alle persone più che agli apparati. Pronta a
dialogare con i diversi partiti e movimenti della sinistra radicale, e
anche con chi non si identifica – o non si identifica più – in ciò che
viene chiamato “sinistra”. Penso agli ecologisti, ai militanti delle
battaglie anticorruzione e antimafia, ai delusi del M5S, e infine –
ancora una volta, e sempre più – agli astensionisti. Il nostro progetto
politico non era la riproposizione di un insieme di partitini e, anche
se essenzialmente di sinistra, non era solo di sinistra. Non era
antipartitico, ma era rigorosamente non-partitico.
Sono talmente
tante le cose da fare che non abbiamo letteralmente tempo di occuparci
degli equilibrismi tra i piccoli partiti, delle piccole o grandi
secessioni dentro il Pd. C’è l’Europa dell’austerità, che dobbiamo
cambiare affiancando la battaglia che domani farà Syriza, e che
dopodomani – spero – farà Podemos.
C’è l’Europa-fortezza da mettere
radicalmente in questione, con politiche dell’immigrazione che mutino i
regolamenti sull’asilo, che garantiscano protezione ai profughi da
guerre che attorno a noi si moltiplicano e ci coinvolgono, perché sono
guerre che americani ed europei hanno acutizzato e quasi sempre
scatenato.
PERFINO il mar Mediterraneo va ricostituzionalizzato,
visto che l’Unione sta violando addirittura la legge del mare, mettendo
in discussione il dovere di salvare le vite umane minacciate da
naufragio. E vanno aboliti i Cie, i Centri di identificazione ed
espulsione, nella loro forma attuale.
Ho visitato in dicembre quello
di Ponte Galeria a Roma. Non è un centro. É un campo di concentramento.
Non per ultimo: in Italia bisogna trovare risposte a un razzismo che sta
esplodendo ovunque, non solo nel popolo della Lega ma anche a sinistra,
e che sarà sempre più legittimato dalle urne, se non impareremo ad
affrontarlo in maniera giusta e argomentata.
Proprio perché l’ora di
agire è adesso, la Lista nata prima delle europee deve mettersi subito
al lavoro, e costruire un’alternativa con tutte le forze che vorranno
ripensare la democrazia e con tutte le personalità in rotta con il
partito di Renzi, ma senza disperdere il patrimonio dell’Altra Europa,
specie quello accumulato nei territori. Senza sciogliersi.
E avendo
coscienza che non basta riunire attorno a un tavolo i frammenti della
sinistra. Ci interessa al tempo stesso, e subito, il dialogo con gli
italiani che si astengono o che votano Grillo: rispettivamente il 40 e
il 20 per cento dell’elettorato.
È la maggioranza del paese, con cui
la politica deve ricominciare a parlare. Alla crisi straordinaria che
viviamo, non si può che rispondere con uno sforzo di unificazione, e di
oltrepassa-mento dei recinti cui siamo abituati.
La Stampa 23.1.15
E la sinistra di casa nostra sbarca ad Atene: la “Brigata Kalimera” alla corte di Syriza
Trecento intellettuali deputati e no global fanno comizi in vista delle elezioni
di Giuseppe Salvaggiulo
qui
Repubblica 23.1.15
La Brigata Kalimera, dall’Italia con furore
di E. L.
ATENE
. La sirena di Alexis Tsipras chiama. La Brigata Kalimera (come si sono
auto-battezzati con un filo d’ironia) risponde. «Abbiamo cominciato
quasi per scherzo per sostenere i nostri vecchi amici di Syriza –
racconta Raffaella Bolini, l’organizzatrice di questo strano viaggio
della speranza della sinistra italiana. Poi tutto è andato oltre le
nostre previsioni». Sotto lo striscione “Kalimera Grecia, Kalimera
Europa” in piazza Omonia, di fronte al palco da cui parla il favorito
numero uno delle elezioni elleniche, si sono trovati in duecento.
Politici d’esperienza come l’ex ministro Paolo Ferrero («E’ la prima
volta da Maastricht che c’è una vera alternativa nel Vecchio
continente»). Volti storici come quello di Luciana Castellina e facce
più giovani come Eleonora Forenza, parlamentare europea della Lista per
Tsipras. Ma anche decine di ragazzi e diversamente ragazzi arrivati qui –
come dice Carlo, studente di 23 anni di Perugia – «perché guidati dalla
certezza che il voto in Grecia è l’unica occasione per cambiare». E
perché qui - come ammette Bolini - «si sta mettendo un piccolo mattone
per provare a costruire la nuova casa comune della sinistra italiana».
In
piazza risuonano le note di “O Bella Ciao”, versione rock dei Modena
City Rambler. «Tsipras? Mi ricordo di lui nel 2001, quando ha cercato di
arrivare a Genova per il G8 ed è stato fermato a manganellate ad Ancona
dalla polizia », racconta Bolini. «Allora noi eravamo più avanti, ora
ripartiamo da zero», ammette Ferrero. Qui sotto lo striscione in Omonia,
sono convinti tutti che a sinistra di Renzi ci sia spazio per creare
una Syriza tricolore. C’è il caso Cofferati, ci sono i venti di
scissione nel Pd. Il toto-Brigata Kalimera dà in arrivo tra oggi e
domani sotto il Partenone Stefano Fassina e Beppe Civati. «Nei prossimi
due mesi la sinistra si ricomporrà – è convinto Ferrero – arriveranno in
tanti e metteremo sotto la Merkel».
Facile dirlo nella tiepida
serata ateniese. Con migliaia di persone che applaudono il tandem
anti-troika “Tsiglesias”, come qui chiamano Tsipras e Pablo Iglesias,
leader di Podemos. «La lezione di Syriza è che per vincere bisogna
rimanere uniti» dice Bolini, che non ha dimenticato le mille scissioni e
i partitini personali che hanno segnato la storia recente della
sinistra tricolore. Intanto si riparte dalla Brigata Kalimera. «Domenica
– conclude Carlo sfidando la scaramanzia– sarà davvero una buona
giornata per la Grecia e per l’Europa ».
il Fatto 23.1.15
Bersani: “Non cuciniamo minestre con la destra”
È
UNO degli oppositori interni a Matteo Renzi, anche se lui ha già detto
che “la ditta” non la lascerà mai, perchè è casa sua. Però, ieri, Pier
Luigi Bersani è tornato a battere sul tasto dolente del partito
democratico. “L'unica cosa che tanti di noi chiedono - ha ribadito in
un’intervista al Tg5 - è che non si pensi mai di preparare la minestra
con la destra e farla bere con forza a un pezzo del Pd”. “Al netto di
questo - precisa l’ex segretario sconfitto da Renzi alle primarie - ci
sarà assoluta lealtà” nel voto sul Quirinale. Il punto è che la
stampella di Forza Italia è già servita, nel voto al Senato
sull’Italicum. “Questo apre un problema, si dice che succederà lo stesso
sul Quirinale”. Bersani fu già vittima dei franchi tiratori, quando
propose la candidatura di Prodi al Colle: “Io che una slealtà l'ho
subita - conclude - pratico lealtà”.
Repubblica 23.1.15
Matteo apre a Pierluigi: “Giovedì il nome decidiamolo insieme”
di Goffredo De Marchis
ROMA
Sminare il campo del Pd. In sei giorni Matteo Renzi cerca l’impresa di
ricucire il partito di cui è segretario, un partito spaccato e sull’orlo
di una crisi di nervi ma che ha ben 450 grandi elettori decisivi per
l’elezione del presidente della Repubblica. «Il nome del Quirinale lo
voglio e lo devo concordare con la minoranza. Per me il metodo non
cambia, anche dopo lo scontro sull’Italicum», dice il premier
incontrando a Palazzo Chigi la delegazione che farà gli incontri con gli
altri partiti, tra martedì e mercoledì della prossima settimana. «Com’è
il clima interno?», chiede. Non buono, agitato, la premessa di un bis
del 2013 quando Napolitano fu richiamato in servizio, rispondono tutti.
Roberto Speranza perciò propone: «Riuniamo prima i gruppi parlamentari
nostri, poi vediamo gli altri gruppi». Così il candidato sarà targato
Pd, in modo chiaro. Non patto del Nazareno, come sospettano in tanti.
Renzi condivide e si prepara a partecipare agli appuntamenti
preliminari. «Guiderò la delegazione. Vedrò anche i grillini».
Basta
un’agenda di date a sanare la ferita? Renzi dice che «l’avvicinamento
dev’essere bilaterale. Lo faccio io ma lo devono fare anche loro». Loro
sono i dissidenti. Nel gruppone Fassina, Civati, Bindi spingono per la
battaglia finale. Le dichiarazione di Bersani raffreddano invece il
clima, anche se l’ex segretario resta su posizioni di grandissima
critica. Per questo Renzi ripete: «Vedrò Pier Luigi, voglio trovare un
nome condiviso con lui». Non è però il momento più adatto per un faccia a
faccia, non subito. L’aria è cattiva.
Anche il premier non ha ancora
smaltito la rabbia per il «comportamento assurdo» dei dissidenti al
Senato. «Quelli della minoranza pensano di spingermi a indicare per il
Colle uno di loro. Ma non hanno capito niente, se pensano di usare
questa tattica con me si sbagliano». Manca ancora la fiducia tra le
parti, al di là delle offese di questi giorni. Bersani e i suoi dicono
che la legge elettorale e il capo dello Stato rimangono terreni
separati. Lo precisa anche Francesco Boccia. Come dire che la vendetta
non è nei programmi. Ma basta poco per appiccare l’incendio. Un parola,
una mossa falsa. In poche parole, il nome del candidato che Renzi tirerà
fuori all’ultimo minuto ovvero nell’assemblea dei grandi elettori del
Pd mercoledì sera o giovedì mattina (si comincia a votare nel
pomeriggio). Quel nome, sussurrato nelle ore precedenti, può far capire
da che parte pende il segretario: se per una riconciliazione nel Pd o
per la tutela dell’asse con Berlusconi. E scatenare il fuoco.
Renzi
racconta ai suoi collaboratori che il Cavaliere gli ha fatto due nomi:
Casini e Amato. «Se scegli uno dei due chiudiamo in 24 ore», sono state
le pa- role del leader di Forza Italia. «Già - commenta il premier -. Ma
io non mi faccio imporre da lui sia il nome di un candidato del Ppe
(Casini) sia di quello del Pse (Amato)». Questo ragionamento sembra
escludere il giudice costituzionale (che ha il suo pacchetto di voti nel
Pd, a differenza del capo Udc), eppure quella soluzione è ancora in
piedi. Come lo è la candidatura di Sergio Mattarella. Con loro reggono,
nel valzer dei nomi, i nomi dei politici puri: Anna Finocchiaro, Piero
Fassino, Walter Veltroni che stanno recuperando terreno. Un amico
personale di Renzi spiega la strategia: «A Matteo interessa il
risultato, più del nome. Non vuole rimanere impantanato in una serie
infinita di votazioni». È uno schema che esclude il solo Prodi a causa
del veto insormontabile di Berlusconi. Ma tiene in pista praticamente
tutti gli altri (numerosi) “papabili”.
Il calendario è stato fissato.
Oggi Renzi riunisce la segreteria allargata ai membri della
delegazione: Serracchiani, Orfini, Guerini, Speranza e Zanda. Si parlerà
di metodo, insomma si rimarrà ben lontano dal nome che Palazzo Chigi
tiene coperto. Lunedì verranno convocati i gruppi di Camera e Senato e
in molti chiederanno un identikit più preciso. Il tentativo di stanare
il premier andrà in scena, immaginando di poter usare anche il “forno”
dei 5stelle. Tra martedì e mercoledì Renzi e la delegazione Pd cercherà
un accordo largo con gli altri gruppi. Si può fare senza il nome giusto
in campo? Difficile. Ma il sondaggio aiuterà il premier a capire i
numeri su cui può fare affidamento, quelli utili a raggiungere il
«risultato». Mercoledì sera, più probabilmente giovedì Renzi dovrà
scoprire le carte davanti ai grandi elettori. A quel punto dovrà avere
già in tasca il “sì” di Berlusconi e il via libera della minoranza Pd. O
della maggior parte di essa.
Repubblica 23.1.15
Cuperlo al leader
“Muta noi democratici nella balena centrista che guarda a destra”
“Non me ne vado, ma voglio anche capire che partito è diventato il Pd: discutiamo di come siamo cambiati”
intervista di Francesco Bei
ROMA
Gianni Cuperlo, sinistra dem. Alla vigilia delle votazioni per il
Quirinale è tra i critici più duri delle scelte di Renzi. Fino
all’accusa di voler dar vita a un nuovo partito con Berlusconi.
Forza Italia è entrata in maggioranza?
«Lo
chiedo io. Mai contestato il principio che le riforme si fanno assieme
ma qui si dice che da quell’accordo deriverebbe la scelta sul Quirinale e
non solo. Serve chiarezza ».
Seguiamo una logica aristotelica: se è
vero, come dite voi, che è cambiata la maggioranza di governo, significa
che la minoranza dem che ha votato contro l’Italicum va considerata
all’opposizione?
«L’abbinamento tra Esposito e Aristotele è
suggestivo ma ci svia. Il punto è che la riforma elettorale e della
Costituzione dovrebbero osare di più. Io voglio superare il
bicameralismo ma si è blindato un Senato che sarà un ibrido. Un po’
Camera delle garanzie, un po’ delle autonomie. La conferenza
Stato-Regioni difenderà le sue prerogative e aumenteranno i contenziosi
davanti alla Consulta. La vivo come un’occasione sciupata e comunque la
battaglia continua».
Ogni Ditta ha le sue regole. Sull’Italicum si
sono riuniti gli organi direttivi del Pd, ma al dunque la minoranza si è
sentita legibus soluta, sciolta da ogni vincolo. Come fate a invocare
la libertà di coscienza per una materia così squisitamente politica come
la legge elettorale?
«Certo che la materia è politica ma le regole
raccontano la tua concezione della democrazia. Le proposte fatte
potevano migliorare i testi sia dell’Italicum che del futuro Senato.
Invece si è abbassata la saracinesca e le sole correzioni sono
transitate dal famoso patto. Avrei dato più fiducia al Parlamento invece
di spostare il processo costituente in una sede extra parlamentare. Per
altro senza streaming».
Non legittimate in questo modo l’accusa renziana di essere un partito nel partito?
«A
parte che il primo a dotarsi di un partito nel partito è stato il
premier, io so che esiste un’alternativa all’idea di partito di Renzi e
ad alcune sue scelte di governo. Questo pluralismo è l’anima del Pd e
non può che avere lo scopo di cambiare quell’idea di partito e quelle
scelte».
Adesso considerate le preferenze come la panacea dei mali
della democrazia. Eppure nell’ottobre 2012, a Youdem, Bersani disse che
“in Italia le preferenze portano a situazione patologiche”...
«Resto affezionato ai collegi uninominali. Ma sto con chi si batte contro un Parlamento fatto ancora in prevalenza di nominati».
Da
mesi ormai alcuni esponenti della minoranza trattano Renzi come il
principale nemico. Avete la sindrome di chi non si rassegna ad aver
perso il congresso e cerca la rivincita?
«Per me il congresso è
finito un anno fa. Sostengo il governo, Renzi è il mio segretario e
credo di dovergli la lealtà di chi difende e argomenta le proprie idee.
Se rinunciamo a questo perdiamo tutti».
Quindi si sente ancora del Pd?
«Sì
ma voglio capire che partito è. Perché, tornando all’Italicum, la
novità non è il tentativo di spingere verso due grandi partiti ma il
fatto che uno dei due col 13% dei voti non ha alcuna chance di vittoria.
Allora delle due l’una. O Berlusconi consegna i suoi a una resa
preventiva oppure si immagina che il partito della Nazione debba
risolversi in una balena centrista relegando ai margini chi non si
omologa».
E il Pd che fine farebbe?
«In quel caso il nostro
destino sarebbe diventare un partito moderato che guarda a destra. È
anche in questo la mutazione d’identità del Pd renziano, e io vorrei
discuterne. Per capire se abbiamo ancora la stessa visione della
sinistra, del bipolarismo, della democrazia».
Quanto peserà lo strappo sull’Italicum nelle scelte relative al Quirinale? C’è da immaginare imboscate di franchi tiratori?
«Ma
naturalmente. Ho appena ricevuto la convocazione per una riunione in un
luogo segreto dove ordiremo trame diaboliche. Altre domande?» Fassina
accusa Renzi di essere stato il mandante dei 101? Ha dei sospetti anche
lei?
«No e non mi sono mai appassionato al tema ».
La Stampa 23.1.15
Paesi e buoi
di Mattia Feltri
Durante
la prima repubblica o eri al governo o eri all’opposizione, ma non per
una legislatura: o eri tutta la vita al governo o eri tutta la vita
all’opposizione. Poi, con la seconda repubblica, eri al governo o eri
all’opposizione ma per un po’, eri al governo poi si votava e andavi
all’opposizione, poi si rivotava e tornavi al governo e così via.
Adesso o sei al governo o sei all’opposizione ma dipende dai punti di vista.
La Stampa 23.1.15
Fassina, l’attacco più feroce a Renzi
“Tu a capo dei 101 traditori di Prodi”
E Bindi: Matteo disse “Romano non ce l’ha fatta” prima del risultato ufficiale
Intanto la riforma costituzionale slitta a dopo l’elezione del capo dello Stato
di Francesca Schianchi
A
metà pomeriggio, su un divano del Transatlantico di Montecitorio,
confabulano fitto fitto due deputati della minoranza Pd. Oggetto della
conversazione, l’annuncio del collega Stefano Fassina: «Una parte del Pd
non voterà la legge elettorale». «Non puoi continuamente minacciare
sfracelli», sospirano, tentati di rilasciare qualche dichiarazione un
po’ meno belligerante. Perché all’indomani della riunione di 140
parlamentari servita soprattutto come prova di forza numerica, questo è
lo stato della minoranza Pd, un caleidoscopio di posizioni diverse tra
loro. Tanto che pure l’altra, pesante dichiarazione di giornata di
Fassina, e cioè che Renzi sarebbe stato, due anni fa, a capo dei 101
franchi tiratori di Prodi - «non è un segreto», dice, «a differenza di
quelli che oggi chiedono disciplina e due anni fa hanno capeggiato i
101, noi siamo persone serie» - viene accolta da alcuni colleghi di
minoranza come un’esagerazione che sarebbe stato prudente non dire,
soprattutto in questa fase.
D’accordo Bindi e D’Attorre
E da altri
invece con commenti più cauti ma di sostanziale accordo: «Non ho
elementi di certezza – spiega Alfredo D’Attorre – ma certo Renzi non ha
lavorato per la candidatura di Prodi». E la Bindi ride, «io non lo so…
Ma so che Renzi disse da Firenze “Prodi non ce l’ha fatta” prima del
risultato ufficiale…». «Una sciocchezza incredibile», la reazione del
vicesegretario Lorenzo Guerini. L’ex segretario Pierluigi Bersani tende a
smorzare, «è l’opinione di Fassina», ma «con il voto segreto puoi fare
ipotesi che poi vengono smentite. L’ho già detto: allora c’era chi non
voleva Prodi, chi non voleva Bersani, e si sono saldati. Ora andiamo
avanti, l’importante è che quella cosa non la facciamo più». Toni più
concilianti di quelli usati ai primi di dicembre in un colloquio con La
Stampa: «Non provino a insegnarmi come si sta nel partito quelli che
hanno fatto parte dei 101». Ora però il voto sul capo dello Stato è a un
passo, e il tentativo della minoranza è avere un ruolo, contribuire a
determinare un candidato autorevole e autonomo, «ho già avuto modo di
dire la mia, con Renzi ci siamo sentiti nei giorni scorsi», spiega
Bersani. In un clima che, le parole dell’ex viceministro dell’Economia
rendono bene l’idea, è di grande tensione.
Prima il Colle poi le riforme
Un
clima in cui, nella minoranza, si guarda con disappunto alla lista
pubblicata dal Foglio di tutti i parlamentari con indicazione «dei buoni
e dei cattivi», cioè di chi è pronto a votare sì e chi no al capo dello
Stato, che circolerebbe a Palazzo Chigi («sarebbe opportuno che Renzi
non usasse il metodo Isis, non facesse vendette, liste di proscrizione o
fatwa verso chi non la pensa come lui», dichiara Francesco Boccia). Un
clima in cui, in Aula, la minoranza continua a farsi sentire: ieri alla
Camera l’art. 2 della riforma costituzionale è passato con una
maggioranza risicata («un serio campanello d’allarme», insiste
D’Attorre), e il voto finale, è stato deciso, slitterà a dopo la
votazione sul capo dello Stato, e non prima, come tanto avrebbe voluto
Renzi. Mentre al Senato, sull’Italicum, arriva l’annuncio di un nuovo no
dei senatori di sinistra al maxiemendamento della Finocchiaro. Il nome,
peraltro, che più circolava ieri come candidato al Quirinale. La
voterebbero tutti, nella minoranza? «Tutti forse no, ma molti»,
garantisce uno di loro. Che aggiunge il no invece alle ipotesi Padoan e
Delrio, viste come figure troppo vicine a Renzi. Mancano pochi giorni
alla prova del fuoco. Ma si comincia già a guardare al dopo:
all’assemblea di mercoledì, qualcuno ha proposto di presentare un
documento con alcuni punti politici da sottoporre all’attenzione del
governo. Due i prossimi campi su cui dare battaglia: i diritti civili e
le politiche fiscali.
Corriere 23.1.15
Nel Pd accuse e veleni sul caso dei 101 anti Prodi
La
sinistra del Pd alza il tiro contro il segretario-premier. «Non è un
segreto» che Matteo Renzi sia stato a capo dei 101 parlamentari che il
19 aprile 2013, alla quarta votazione per scegliere l’inquilino del
Quirinale, affossar ono Romano Prodi: così Stefano Fassina, deputato ed
ex viceministro nel governo Letta, esponente della minoranza del
partito. «Incredibile sciocchezza», taglia corto il vicesegretario,
Lorenzo Guerini. E Debora Serracchiani, altra vicesegretario: «Non si
possono lanciare accuse come questa, e non si possono nemmeno
commentare». Sdrammatizza l’ex segretario Pier Luigi Bersani: «Per
sapere com’è andata davvero ci vorrebbero i servizi segreti.
L’importante è che quella roba lì non la facciamo più. Serve lealtà, la
slealtà preferisco subirla piuttosto che farla».
Corriere 23.1.15
Scontro nei dem, la sinistra alza il tiro
Fassina: il segretario guidò i 101 di Prodi
L’ira di Guerini: incredibile sciocchezza. Bersani: ora è meglio di allora, l’importante è non rifarlo
di Mariolina Iossa
ROMA
Matteo Renzi a capo della «fronda dei 101», i «disobbedienti» che nel
2013 silurarono Romano Prodi al Quirinale. L’atmosfera già pesante
dentro al Partito democratico, a causa dell’Italicum, ieri si è
appesantita ancora dopo le parole di Stefano Fassina. Secondo il
deputato ed ex viceministro dell’Economia nel governo Letta, «non è un
segreto» che Renzi sia stato a capo dei 101 che affossarono Prodi e
anche se non lo nomina direttamente è a lui che si rivolge quando dice,
rispondendo alla richiesta di lealtà del presidente del Consiglio a
tutto il Pd nelle prossime votazioni per la nomina del capo dello Stato,
«a differenza di quelli che oggi chiedono disciplina e due anni fa
hanno capeggiato i 101, noi siamo persone serie. Nessuno deve temere da
noi i franchi tiratori».
Un colpo al cerchio e uno alla botte: non
preoccuparti, caro Matteo, manda a dire Fassina, voteremo lealmente ma
non dimentichiamo che fosti tu a gestire i franchi tirat ori del 2013.
Un botto questo che esplode in un partito che appare già spaccato su più
fronti. A Fassina si aggiunge la dichiarazione di Rosy Bindi, molto
polemica, su La7: «Il patto del Nazareno è una prigione per tutti. Se si
deve fare un presidente funzionale a quel patto io sono contraria».
«Sciocchezze»,
ribatte subito su Twitter il senatore renziano Andrea Marcucci, «se
viene meno il rispetto è finita, Fassina e Bindi disarmanti».
«Incredibile sciocchezza», ribadisce il vicesegretario del Pd Lorenzo
Guerini mentre Simone Valiante, portavoce di AmiciDem, l’area popolare
riformatrice del Pd, parla di «parole inopportune e gravi, che non fanno
bene al confronto interno al partito perché offuscano le ragionevoli
questioni di merito che a volte la minoranza solleva». Sferzante il
vicesegretario pd Debora Serracchiani: «Non si possono lanciare accuse
come questa, e non si possono nemmeno commentare».
Pacata invece la
reazione di Pier Luigi Bersani. Così parlò Fassina? «È la sua opinione»,
risponde l’ex segretario. «Col voto segreto puoi fare diverse ipotesi
che poi vengono smentite, per sapere com’è andata davvero ci vorrebbero i
servizi segreti». Due anni fa, ricorda Bersani, «si sono saldati quelli
che non volevano Prodi e quelli che non volevano me: ma è inutile
tornarci sopra, meglio chiuderla qui ». E comunque, la situazione oggi
«è molto meglio», rispetto al 2013, «non la vedo difficile»; oggi «ci
sono altri protagonisti, l’importante è che quella roba lì non la
facciamo più. Serve lealtà, la slealtà preferisco subirla piuttosto che
farla».
Sandra Zampa, prodiana, su famigliacristiana.it spiega come
secon do lei andarono le cose. «Immagino che Fassina intendesse dire che
anche la componente renziana, o meglio alcuni renziani, parteciparono
all’affossamento — ha detto Zampa —. Ma non c’è stato un solo capo,
erano diversi», alcuni addirittura pensavano che dopo i 101 voti che non
confluirono su Prodi, la candidatura dell’ex leader dell’Ulivo «sarebbe
rimasta ancora in piedi. Ma il Professore, giustamente, si fece subito
da parte».
Per Sandra Zampa non è che «Renzi non c’entrasse, però non
credo che lui abbia dato indicazione ai suoi per non votare Prodi. Di
alcuni renziani sicuramente c’è stata la regia — ha continuato la
“fedelissima” del Professore — però anche Bersani è stato tradito dai
suoi. E hanno partecipato pure quelli che erano arrabbiati per la
vicenda Marini». Insomma, furono in molti a bocciare il nome di Romano
Prodi nel segreto dell’urna, «Matteo Renzi non aveva allora 101 voti, ne
aveva 50-60. Dopo sono diventati tutti renziani».
Corriere 23.1.15
Quella guerra tra bande e le accuse incrociate nel giorno più nero del Pd
di Monica Guerzoni
ROMA
Il Parlamento (e i gruppi del Pd) non sono cambiati dal giorno livido
dell’agguato contro Romano Prodi, il frutto avvelenato di vecchi
rancori, tradimenti e vendett e incrociate che innescarono una catena di
lutti politici. Il 19 aprile 2013 è una data che il Pd porta impressa
nel suo dna, severo monito degli errori da non ripetere. I 101 franchi
tiratori che affossarono l’ex premier — incoronato di fresco con una
standing ovation al teatro Capranica — sono ancora a volto coperto e la
loro identità resterà celata dal voto segreto.
Dopo venti mesi di
tormenti la dolorosa autoanalisi non è finita. Chi furono i registi del
trappolone ai danni dell’intero Pd? «Il capo dei 101 è Renzi», accusa a
sei giorni dal voto Stefano Fassina. E la ferita mai suturata riprende a
sanguinare. L’unico farmaco è «la lealtà» suggerisce Bersani, colui che
ha pagato il prezzo più alto. E la domanda che assilla i protagonisti
di quella pagina nera è se il Grande Complotto possa vedere un remake,
magari a parti invertite. Silvio Sircana, storico portavoce di Prodi, si
augura che i grandi elettori «riescano a trovare un candidato forte e
credibile e che non si facciano invischiare in questo tipo di inciuci».
L’ex senatore del Pd resta convinto che l’obiettivo dei cecchini fosse
«radere al suolo Bersani». L’ordine di eseguire la sentenza non arrivò
però da un solo capocorrente, «fu il combinato disposto di una guerra
per bande che si consumò, in modo un po’ cialtrone, sulla persona di
Prodi».
Le bande, appunto. Quelle correnti che sono da sempre il male
endemico del Pd. Nelle ore drammatiche in cui si cominciava a parlare
di mutazione genetica del Pd, Sandra Zampa sfogava il suo dolore
indicando D’Alema e Fioroni. Quindi annunciava l’autosospensione dal
gruppo, perché riteneva «impossibile restare seduta accanto a chi ha
accoltellato Prodi alle spalle come un sicario». Nel tempo la
vicepresidente del Pd si è convinta che «tutti parteciparono per
arrivare a quel risultato e molti si sono pentiti». Se avessero
conosciuto meglio il «Prof» e intuito che si sarebbe sfilato dopo la
batosta, il giorno dopo lo avrebbero votato.
Tutti traditori?
Dalemiani, fioroniani, bersaniani e renziani, anche? Il perimetro è
troppo largo per distinguere volti nel mucchio. Quanto all’allora
sindaco di Firenze, una delle tesi difensive è che Renzi non avesse le
truppe per affossare Prodi, da solo. «Non ne aveva la f orza», lo
assolve Antonio Bassolino. Sandro Gozi, ora a Palazzo Chigi, si è
addannato per mesi alla caccia dei «killer del fondatore».
«I franchi
tiratori? Provate a chiamare Fioroni e D’Alema», insinuava Felice
Casson. Ma D’Alema ha sempre smentito con un certo vigore complotti e
regie occulte del fattaccio, minacciando denunce contro i
«calunniatori». E se gli accusatori teorizzavano che l’ex premier avesse
lasciato le impronte digitali con quei quindici voti incassati per se
stesso, lui andava in tv e reagiva buttando la croce su Bersani: «È una
vergogna autentica. Si cercano capri espiatori, ma come potevo impedire
che 15 persone mi votassero? ».
Capri espiatori, la stessa
espressione a cui affida la sua difesa Beppe Fioroni. L’ex ministro
amico di Franco Marini, altra vittima illustre del fuoco amico
democratico, uscì dall’aula brandendo il cellulare. Aveva fotografato la
scheda con scritto PRODI: «C’era un clima da caccia alle streghe. Ero
sotto stress emotivo, ma non lo farei mai più. Una regia creò il delitto
perfetto precostituendo i killer in quelli più scontati». Renzi? «È
stato iperattivo su Marini, su Prodi non ci credo».
Dal Mali, la
mattina in cui fu mandato al massacro con una telefonata di Bersani,
Romano chiamò il già líder Maximo per sondare la sua reazione alla
candidatura e la risposta non gli suonò di buon auspicio. «Benissimo —
si congratulò D’Alema, come ha raccontato Alan Friedman —. Ma decisioni
così importanti dovrebbero essere prese coinvolgendo i massimi
dirigenti». Prodi, che già a Bersani aveva comunicato i suoi dubbi sulla
«nobiltà del casato» pd, chiuse il telefono e disse alla moglie che era
finita. Il verdetto dell’urna confermò il cattivo presagio e l’allora
sindaco dichiarò che la candidatura di Prodi poteva ritenersi decaduta.
Una velocità che insospettì, tra i tanti, anche la lettiana Paola De
Micheli, ora al governo: «La prima gallina che canta ha fatto
l’uovo...».
Pippo Civati fu il primo a prevedere che i 101 sarebbero
entrati al governo e rivendica di non essere stato smentito: «Nasce
tutto da lì. Lo schema delle larghe intese e i governi di Letta e poi di
Renzi hanno preso l’abbrivio da quel voto». Il 29 gennaio che accadrà?
«Sarebbe un bel segnale vedere 101 franchi tiratori nella prima
votazione, sul nome di Prodi... Hanno sottovalutato il problema e adesso
si ripropone».
La Stampa 23.1.15
Pd, scoppia il caso del no agli ex segretari sul Colle
E spunta l’ipotesi di un candidato di bandiera per i primi voti
di Carlo Bertini
qui
il Fatto 23.1.15
Democrat e lunghi coltelli, è iniziata la gara al Colle
Schedati i possibili traditori ma senza le minoranze partita difficie
di Wanda Marra
“Io
sono in segreteria. E riformista poi... ”. Alessia Rotta, responsabile
Comunicazione del Pd, a pieno titolo renzianissima, nella “Lista del
Nazareno”, viene classificata come “area riformista, rischio”. In
Parlamento non si parla d’altro. Ma di cosa si tratta? Il Foglio ieri
pubblica un elenco di tutti i parlamentari democratici, schedati per
corrente, ma soprattutto etichettati con un “ok”, un “no”, un “a
rischio”. Rispetto a cosa? Al voto per il candidato al Quirinale che
verrà. “Una lista che gira a Palazzo Chigi”, la presenta il quotidiano,
che a Matteo Renzi e ai suoi fedelissimi è molto vicino. Basti pensare
che durante i mondiali Luca Lotti ci teneva una rubrica di calcio.
“È
IL PALLOTTOLIERE di Lotti”, “è un pizzino”, “è piena di errori”, i
commenti che ieri andavano per la maggiore. Ma soprattutto: “Gliel’hanno
data”. Ecco, chi? E perché? Tutti gli indizi portano proprio al
Sottosegretario, amico fraterno del presidente del Consiglio, che da
settimane ormai conta e controlla. E allora, sì: è una via di mezzo tra
lista di proscrizione, “avvertimenti” e depistaggi. Ci sono alcuni
“riconoscimenti”: Anna Ascani, per dire, è definita “lettiana”, ma “ok”.
Ormai in realtà è decisamente renziana. O Francesco Russo,
“renzian-lettiano ok”: in Senato ha lavorato per l’approvazione delle
riforme. Poi c’è Pier Luigi Bersani “a rischio”. Da notare “a rischio”
pure la Finocchiaro: come dire, tutto è possibile se la sua candidatura
decade. “Io indipendente? Ma se sono bersaniano”, si schernisce un altro
“a rischio”, come Andrea Giorgis. “Antonio Misiani non è area
riformista è un giovane turco”, corregge qualcuno. E Lorenzo Guerini: “È
tutto sbagliato. Mauro Guerra, area riformista, a rischio? Ma se vive
con me. E Andrea Rigoni, area dem? È un gueriniano... ”. Fatto sta che
ieri i parlamentari hanno passato la giornata a leggere, commentare,
mandare rettifiche e correzioni al Foglio. Chi si è trovato incasellato
tra “i nemici” lavorando da “amico” si sente attenzionato, minacciato,
messo sul chi va là. Un passo falso sul Colle o su altro, ed ecco che il
malcapitato esce dai giochi. D’altra parte, Renzi non perdona.
La
lista di proscrizione fa il paio con le accuse dirette di ieri. Ecco
Stefano Fassina: “Non è un segreto” che Renzi abbia guidato i 101 che
bocciarono Romano Prodi. “A differenza di quelli che oggi chiedono
disciplina e due anni fa hanno capeggiato i 101, noi siamo persone
serie”. Lo riprende Guerini: “Una sciocchezza incredibile”. Pronto
arriva il distinguo di Bersani, che pure nei mesi qualche accusa, seppur
velata, magari per interposta persona l’ha lanciata: “È la sua
opinione”, così commenta l’affermazione di Fassina. “L’ho già detto,
allora c’era chi non voleva Prodi, chi non voleva Bersani. Si sono
saldati. Ora andiamo avanti, l’importante è che quella cosa non la
facciamo più”. “Bersani ha detto una cosa giustissima”, commenta un
renzianissimo. Corteggiamenti.
Tira una brutta aria tra i dem: anche
ieri alla Camera e al Senato in 35 (da Bindi a Bersani e Cuperlo) non
votano l’articolo 2 della riforma costituzionale, mentre continua la
battaglia della minoranza contro l’Italicum al Senato, in particolare
contro l’emendamento Finocchiaro. Ma la strategia che sta cercando di
mettere in campo il segretario-premier è chiarissima: “Ma no che non è
tutto deciso con Berlusconi. Matteo coinvolgerà Bersani. E tutto andrà
per il meglio”, dicono i suoi. Più che convinzioni, sembrano depistaggi.
Anche se dal canto loro, Alfano e Berlusconi dubi-
BUONI E CATTIVI
LA RASSEGNA DEL “FOGLIO” Dal deputato Andrea Martella “veltroniano, ok”
al senatore Sergio Zavoli “indipendente, ok”. Ci sono tutti i
parlamentari del Pd nella “lista” pubblicata ieri sul giornale di
Giuliano Ferrara e della famiglia Berlusconi. Su ognuno degli eletti
democratici delle Camere è segnata l’appartenenza (“Renziano”, “Area
Dem”, “Dalemiano”, “Veltroniano”, “Giovane turco”, “Fioroniano”,
“Bindiano”, “Area riformista”, “Ex Sel”, “Lettiano”) e un grado di
affidabilità sul voto al Quirinale segnato con le tre diciture: “Ok”,
“No” e “a rischio”. Il conto fa: 275 voti sicuri, 99 a rischio e 41 già
persi in partenza.
tano della parola di Matteo. È il giorno della
fuffa, perché, con il riavvicinamento di Ncd e Forza Italia, le larghe
intese sono già nei fatti, con tanto di ministri del centrodestra. E il
partito della nazione è un processo inarrestabile, che Renzi ha già
teorizzato. Però, c’è un però. Il premier non può far passare il fatto
che Amato sia un candidato imposto da Berlusconi. Ecco “salire” la
Finocchiaro: offerta ai bersaniani, che non potrebbero non votarla,
contro il volere dello stesso Bersani. Ed ecco far girare ad arte il
nome di Delrio: un modo per coprire l’asse del Nazareno (o per chiarire a
B. che Matteo si tiene le mani libere).
IERI Renzi ha riunito al Pd
il coordinamento per l’elezione al Colle: i vicesegretari Guerini e
Serracchiani, il Presidente Orfini, i capigruppo Zanda e Speranza. Carte
coperte, da parte di tutti. Si è parlato di metodo, che prevede
segreteria oggi, assemblea dei gruppi di Camera e Senato lunedì e
incontri con gli altri partiti. Renzi sa che provare a far passare un
candidato al primo colpo è molto pericoloso. Ma che lo è anche farlo al
quarto: le fronde potrebbero coalizzarsi su un nome, che poi
diventerebbe vero. Si ipotizza di andare per i primi scrutini su un
candidato di bandiera. E poi? Le soluzioni che ha in mente il premier
sono 5 o 6. Lui lavora sulle soluzioni “win-win”. E dunque, si sta
preparando a più schemi di gioco.
La Stampa 23.1.15
Il partito dei risentimenti incrociati
di Marcello Sorgi
Una
regola non scritta dice che in politica i sentimenti non contano,
l’amicizia, l’odio, la simpatia, l’antipatia non devono pesare su
alleanze e rotture, accordi e divisioni, strategie e tattiche. Ma il
risentimento, invece, quanto conta? Viene da chiederselo, guardando
com’è ridotto il Pd, a una settimana dall’inizio delle votazioni per il
Quirinale e a due giorni dall’accordo Renzi-Berlusconi.
Fassina ieri
ha accusato Renzi di essere stato il vero organizzatore dei 101 che
silurarono Prodi. Bersani, dopo la conclusione della vicenda
dell’Italicum al Senato in cui la minoranza Pd è stata sconfitta grazie
all’appoggio dell’ex-Cav., s’è dichiarato offeso e ha detto che
dev’essere Renzi, se vuole, a prendere l’iniziativa per fare la pace.
Boccia, lettiano anti-renziano, ha addirittura paragonato i metodi di
Renzi a quelli dei tagliagole dell’Isis. Cofferati, più che della
sconfitta e della corruzione alle primarie, s’è dispiaciuto perchè
nessuno del vertice del suo partito lo ha chiamato per ascoltare le sue
rimostranze. E all’assemblea dei centoquaranta parlamentari della
minoranza, perfino il capogruppo dei deputati Speranza, dicasi il
capogruppo, è stato guardato con sospetto, quasi come se fosse una spia
del leader. Infine, tanto per ricambiare le cortesie, l’autore
dell’emendamento che ha salvato l’Italicum, Esposito, ha definito gli
avversari della minoranza “parassiti”. Ma anche Renzi cova un forte
risentimento nei confronti della Ditta, come si definiscono i
post-comunisti e tutti quelli, anche di altre correnti, che gli si
oppongono fieramente. Al segretario-premier non va giù che a più di un
anno dal voto del popolo del centrosinistra che lo ha innalzato alla
segreteria, i suoi avversari non lo riconoscano come leader, anche se ha
vinto, prima le primarie, e poi le elezioni europee con il 40,8 per
cento, una percentuale che per ritrovarla occorre tornare indietro di
quasi mezzo secolo, e sta pure portando a casa le riforme.
La ragione
per cui Renzi non viene ancora rispettato, malgrado i suoi successi, in
un partito nato dalla fusione di quel che restava di Dc e Pci, è che
per conquistare la guida del Pd non ha seguito le liturgie. Né quella
democristiana del “caminetto” dei capicorrente che alla fine, nella
maggior parte dei casi, sceglievano il più debole, per poterlo far fuori
agevolmente prima possibile, né quella della consacrazione a vita sul
“baldacchino invisibile”, sul quale, secondo Vasquez Montalban, sedevano
tutti i segretari comunisti del mondo. Per i capi, sottocapi ed ex-capi
del centrosinistra, indipendentemente dalla tradizione da cui
provengono, Renzi ha violato le regole e deve pagarla. Anche a costo di
far saltare per la seconda volta la scelta di un Presidente che tutti
continuano ad aspettarsi dal Pd.
La Stampa 23.1.15
I giorni contati del Patto del Nazareno
L’alleanza
tra Renzi e Berlusconi ha ancora un mese per portare a termine la sua
missione. E poi cosa accadrà? Ne dovranno inventare un altro?
di Ugo Magri
qui
il Fatto 23.1.15
Giovanni Maria Flick Nazareno e dintorni
“Un patto segreto non può vincolare le scelte del Paese”
di Fabrizio d’Esposito
Nell’Italia
del Nazareno renzusconiano, anno del Signore 2015, c’è un autorevole
giurista con la barba bianca e corta che va sempre in tv con un prezioso
libriccino, dalla copertina azzurra: la Costituzione della nostra
Repubblica. Il professore è Giovanni Maria Flick ed è stato
Guardasigilli del governo Prodi dal 1996 al 1998. Poi presidente della
Corte costituzionale, dal novembre 2008 al febbraio dell’anno
successiva. È emerito di diritto penale alla Luiss di Roma e il suo
ultimo volume è uscito da poco, pubblicato dalla Libreria Editrice
Vaticana. S’intitola: Elogio della dignità.
Professore perché va in giro con la Costituzione?
Perché
sono sempre più convinto che prima di riscrivere la Costituzione
bisogna rileggerla. E qualcuno, invece, deve cominciare a leggerla.
I nuovi costituenti del Nazareno non l’hanno letta?
Diciamo che la mia è un’idea che viene fuori dal dibattito in corso, non solo sulle riforme.
A che cosa si riferisce, per esempio?
Penso
alle deleghe che il Parlamento deve assegnare al governo con una
precisa determinazione dell’articolo 76. A proposito della legge delega
sul lavoro, il Jobs Act, tutto si rinvia ai decreti attuativi. Lo stesso
accade con l’articolo 19 bis della delega fiscale...
La Salvasilvio.
Così
la chiama lei, io parlo per commi, sono un professorino. Dicevo, un
tempo la Corte costituzionale era meno attenta ai criteri di delega,
oggi si è fatta più occhiuta. Poi non capisco una cosa.
Quale?
Certe
scelte, mi riferisco all’articolo 19 bis, devono essere fatte con
trasparenza, in maniera chiara. Che significa che era un fraintendimento
e viene congelata? O una scelta è giusta e si va avanti, oppure se si
ritira vuole dire che era sbagliata, ma allora non la si può riproporre.
Non si può trattare allo stesso modo una dichiarazione dei redditi con
frode e una senza.
Pare che sia la logica del patto del Nazareno.
Si
continua a evocare il patto del Nazareno. Io insegno diritto penale e
dico: producetemi il patto. Questo accordo non può essere un vincolo che
condiziona il futuro. Un patto vale se assicura la partecipazione, non
il contrario. Non può essere esclusivo, ma inclusivo, altrimenti rischia
di essere una trappola.
L’altro giorno al Senato, l’Italicum è stata la rappresentazione di questa trappola.
Bisogna
considerare il rapporto tra causa e effetto di un evento. Si dice: io
cerco il sostegno dell’opposizione perché non ho quello di una parte dei
miei. Ma c’è anche il contrario: è la sponda dell’opposizione che mi fa
perdere una parte dei miei.
Il risultato è che Renzi non ha più la maggioranza.
Nel
2010, in circostanze analoghe, il presidente della Repubblica impose al
presidente del Consiglio, seppur con un ampio margine di tempo, un mese
e mezzo, di ritornare in Parlamento per verificare la maggioranza; lo
stesso discorso si ripe-tè nel 2011. Tutti sappiamo come andò a finire
nelle due volte. Certo, le situazioni sono diverse, e perdipiù c’è un
presidente della Repubblica supplente, ma la sostanza è la stessa, se
non sbaglio.
Dall’Italicum alla riforma del monocameralismo.
È il caso di rileggere l’articolo 138.
Rileggiamolo.
La
Costituzione va riscritta con una forte coesione e un grande accordo di
fondo. E senza il cronometro in mano. Credo invece che volontà di
ordine politico abbiano deciso di fare in fretta per far vedere che si
eliminano i costi eccessivi della politica.
Da Togliatti a De Gasperi a Renzi e Berlusconi, alla Boschi e Verdini.
Vede
quando si arriva alla mia età (Flick è del 1940, ndr) si accumulano
parecchi ricordi. E la memoria è fondamentale. C’è un proverbio africano
che è diventato la mia filosofia di vita. Recita: “Quando muore un
vecchio è come se bruciasse una biblioteca”. E ho paura che stiamo
bruciando parecchie biblioteche. Bisogna stare attenti.
Però c’è da cambiare verso all’Italia, dice il premier.
Cambiare
non vuol dire rottamare. E cambiare è necessario. Ma anche la memoria è
importante. Sono da poco tornato da Auschwitz, con gli studenti. In
quel posto la memoria è tutto.
Lei è stato ministro nel governo Prodi. Il Professore al Quirinale appare come l’unico argine al patto del Nazareno.
Questa
logica da referendum o da ultima spiaggia mi piace poco. Io e Prodi
siamo stati insieme all’università, ci conoscevamo già quando sono stato
ministro con lui. L’ho apprezzato molto per la sua concretezza e la sua
dimensione europea, di cui ci sarebbe tanto bisogno. Ha anche una
grande competenza economica che non diventa incomprensibile con i
tecnicismi.
Lo vorrebbe presidente?
Non sono un grande elettore e
non tocca a me fare nomi, come per ora non li fa neppure il presidente
del Consiglio. Certo, ho le mie speranze ma non voglio bruciare nessuno.
il Fatto 23.1.15
Forbici
Esposito, Boschi, Romani... Tutte le manine del canguro
di Gianluca Roselli
C’è
dunque una manina dietro l’emendamento presentato da Stefano Esposito, e
votato anche da molti forzisti, che ha spazzato via in un sol colpo 35
mila emendamenti (su 44 mila) alla legge elettorale? Il sospetto che non
sia stato il senatore di Moncalieri a scrivere il testo a Palazzo
Madama è reale. “Sono 33 righe perfette, in cui c’è tutta la legge. Se
fossi ancora in Rai assumerei subito un giornalista così bravo nella
capacità di sintesi”, osserva con un pizzico di malizia Corradino Mineo,
uno della truppa dei dissidenti Pd contrari all’Italicum. Da più parti,
infatti, si concorda che per scrivere il testo che poi ha fatto
scattare il mega-canguro ci voleva una mano molto esperta di leggi
elettorali e di tecniche parlamentari.
“CON TUTTO IL RISPETTO per
Esposito, non credo sia stato lui. Per questa operazione ci voleva un
senatore anonimo che presentasse l’emendamento all’ultimo momento, senza
farsi notare. Altrimenti qualcuno poteva prendere delle contro misure,
magari con sub emendamenti”, sottolinea il capogruppo di Gal Mario
Ferrara. Ma torniamo per un momento a giovedì sera, quando, verso le 23,
sta per scadere il termine per la presentazione delle proposte di
modifiche al testo. Diversi senatori hanno visto Esposito attendere fino
all’ultimo istante. Anzi, secondo alcuni ha presentato l’emendamento a
tempo scaduto. Un senatore leghista ha anche girato un video col
telefonino dove si vede Esposito in un angolo, seduto, mentre Calderoli
passa con i tomi trasportati su un montacarichi. “Esposito ha fatto da
testa di ponte, ma l’emendamento arriva dal governo”, assicura il
leghista Jonny Crosio.
Ma quindi chi l’ha scritto? I sospetti si
concentrano sul ministro Maria Elena Boschi. E in particolare su un
tecnico del suo ministero, Paolo Aquilanti. Funzionario esperto della
commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, Aquilanti è passato
da poco all’ufficio legislativo del ministero delle Riforme. “Solo uno
come lui può aver scritto un testo così perfetto per il canguro”,
sussurrano i boatos di Palazzo Madama. Testo che poi è stato rivisto
dalla stessa Boschi. Ma sarebbe passato anche dalle scrivanie di Luigi
Zanda, Anna Finocchiaro e Paolo Romani. A sancire l’oliato meccanismo su
cui scorrono i binari del patto del Nazareno. Che proprio sull’Italicum
ha dato la dimostrazione plastica della sua tenuta. Che i mandanti
siano a Palazzo Chigi, del resto, lo confermano le parole pronunciate
dallo stesso Renzi davanti ai senatori la settimana scorsa. “L’Italicum
va votato così com’è. Altrimenti abbiamo comunque gli strumenti
parlamentari per farlo passare in 48 ore”, aveva detto il premier.
Pistola fumante, dunque.
DOPO GLI ATTACCHI, c’è stata la reazione di
Esposito, che ha dato definito “parassiti” i dissidenti, suscitando
l’ira di Pierluigi Bersani, con successive scuse di Esposito. Il quale a
Palazzo Madama finora si era fatto notare soprattutto per le sue
battaglie in favore della Tav. Mentre l’unica legge che lo vede primo
firmatario è una proposta per abolire il Porcellum. Specialmente nella
parte che riguarda i capilista bloccati. Che l’Italicum, invece, ha
confermato.
Corriere 23.1.15
Mucchetti
«Fedeli ha firmato una mia proposta poi l’ha dichiarata inammissibile»
intervista di M.Gu.
ROMA «Questo Italicum non lo voterò».
E la disciplina di gruppo, senatore Mucchetti?
«Su
una legge che arriva al traguardo grazie a un emendamento tagliola,
fatto soprattutto contro i colleghi del Pd non allineati?».
È rimasto male perché non sono passati i suoi emendamenti?
«Niente
personalismi. Grande è stata la sorpresa nello scoprire che gli
emendamenti su incompatibilità e ineleggibilità dei parlamentari erano
stati dichiarati inammissibili per estraneità alla legge elettorale».
Bocciati dalla presidente vicaria del Senato?
«Il
capogruppo Luigi Zanda, l’allora vicepresidente Valeria Fedeli,
l’attuale segretario d’aula Giorgio Tonini e molti altri avevano firmato
il mio disegno di legge sulla incompatibilità di natura economica,
ripreso nell’emendamento».
La Fedeli ha sottoscritto il ddl e dichiarato inammissibile l’emendamento?
«La presidente Fedeli, che continuo a stimare molto, aveva firmato anche l’emendamento».
Sentenza inappellabile.
«Non
discuto l’inappellabilità, ma a me piacerebbe che qualcuno spiegasse
perché una legge elettorale non debba aggiornare le cause di
incompatibilità degli eletti, che risalgono agli anni 50».
Ragioni politiche?
«Sono
curioso di capire quali. Intanto constato che si sproloquia di
contrasto ai poteri forti e poi si lascia aperta la porta attraverso la
quale un concessionario dello Stato potrebbe, in teoria, conquistare un
partito con i soldi guadagnati e dunque il governo, il diritto a
nominare il presidente della Repubblica e la maggioranza degli organi di
garanzia costituzionale».
È nato il Partito del Nazareno?
«Si è
formata una nuova maggioranza sulla riforma più delicata dell’agenda
Renzi assieme al decreto fiscale, che riprende le argomentazioni di
Coppi, difensore di Berlusconi e che ha avuto più applausi in Forza
Italia che nella opinione pubblica di centrosinistra».
È la contropartita del patto del Nazareno?
«Non
faccio illazioni sul “decreto Coppi”. È sbagliato nel merito, anche se
non fosse Berlusconi l’utilizzatore finale. I grandi Paesi non
depenalizzano la frode fiscale a percentuale».
Renzi era il capo dei 101, come accusa Fassina?
«Renzi,
allora sindaco di Firenze, dichiarò decaduta la candidatura di Prodi
prima ancora che Prodi rinunciasse e che l’allora segretario Bersani ne
potesse prendere atto. Fate voi».
Repubblica 23.1.15
Massimo Mucchetti
“Stroncato il mio emendamento per fare un piacere a Berlusconi”
intervista di T. Ci.
ROMA
Un emendamento all’Italicum per regolare le situazioni di conflitto
d’interesse dei parlamentari. «Serviva a risolvere il problema di chi è
azionista di controllo di società partecipate dallo Stato o operanti in
regime di concessione - racconta il senatore del Pd Massimo Mucchetti -
ma la Presidenza l’ha escluso perché estraneo alla materia».
Cosa c’è che non va, senatore?
«Tanti hanno accusato D’Alema di inciucio e ora che facciamo?».
Andiamo con ordine, senatore.
«L’emendamento
riprendeva il mio ddl sull’incompatibilità di origine economica per i
parlamentari. Sa, la normativa è degli anni Cinquanta e consente ad
esempio a Berlusconi di essere eleggibile perché è padrone senza
cariche, mentre Confalonieri non lo sarebbe».
Quindi voleva aggiornare la normativa. Come?
«Se
sei eletto, l’antitrust accerta se l’eletto sia incompatibile. E
l’eletto sceglie se conservare il mandato parlamentare, vendendo in un
anno la partecipazione, oppure decadere».
E siamo a mercoledì.
«La
presidente vicaria Fedeli ha cassato l’emendamento che essa stessa
aveva firmato per la commissione. Eppure nulla è più affine a una legge
elettorale che l’incompatibilità e l’ineleggibilità. Prendo atto della
diversità di opinioni in capo alla stessa persona».
Un frutto avvelenato del Nazareno?
«Mi domando se quanto accaduto ha a che vedere con la necessità di non dispiacere a Berlusconi».
il Fatto 23.1.15
Rapporti di forza
Renzi si inchina alla Merkel nella sua Firenze
Durante
il semestre di presidenza europea, Matteo Renzi non è riuscito a
ottenere quella flessibilità sui conti pubblici che chiedeva. Eppure ha
scelto di celebrare la fine della ribalta continentale omaggiando a
Firenze proprio Angela Merkel, cioè la capofila di quel fronte del
rigore che ha sconfitto l’Italia.
LA CANCELLIERA TEDESCA è cortese,
prima di partire per la Toscana dal World Economic Forum di Davos dice:
“Ci sono sforzi di riforme anche in Italia, finalmente ed un segnale
importante il fatto che Renzi sia stato qui”. Ed era stata collaborativa
con il premier anche a ottobre, quando con la sua presenza aveva dato
credibilità a un vertice (inutile) sul lavoro organizzato a Milano da
Renzi come spot per il suo Jobs Act. Da Berlino guardano a Renzi con
interesse da tempo, la Merkel lo aveva voluto incontrare quando era
ancora sindaco: è il primo dei tanti premier con cui la Merkel ha avuto a
che fare (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) che ha il consenso e
l’orizzonte per mantenere le promesse che fa. Ma, al contempo, è
abbastanza inesperto a livello europeo da non creare problemi alla
Merkel nei vertici che continua a dominare con l’esperienza che deriva
dai suoi dieci anni di potere.
Anche nel suo ultimo discorso da
presidente di turno dell’Unione Renzi si è scagliato contro il rigore, e
allora perché omaggiare così Angela Merkel? Il premier ha fatto i suoi
calcoli: da mesi c’è un contenzioso con la Commissione europea
sull’aggiustamento del deficit strutturale richiesto all’Italia. In
pratica su quanti tagli di spesa sono richiesti al governo per
rispettare i vincoli del Fiscal Compact e del Two pact. Nonostante un
poco di flessibilità concessa da Bruxelles, l’Italia è fuori regola: la
Commissione chiede una riduzione del deficit strutturale dello 0,25 per
cento, noi ci fermiamo allo 0,1. E i tecnici che rispondono a Pierre
Moscovici e a Jyrki Katainen non si fidano dell’ottimismo di Roma. Per
questo Renzi ha bisogno delle foto a fianco della Merkel e delle
dichiarazioni favorevoli alle riforme: se ci crede l’inflessibile
cancelliera tedesca, come si permettono i burocrati della Direzione
generale economia e finanza di Bruxelles di questionare la credibilità
degli impegni italiani? La politica europea si fa anche così.
Renzi
ha fatto da guida ad Angela Merkel a palazzo Vecchio, la sede del Comune
a Firenze, poi i due si sono dedicati a un vertice bilaterale a cena:
pappa al pomodoro, filetto di chianina con verdure e patate saltate,
infine frutti di bosco con salsa di yogurt alla ricotta, il tutto a cura
dello chef Guido Guidi, piatti serviti nella sala dei Gigli.
IL
CORTEO DI ANTAGONISTI che si è riunito per contestate l’arrivo della
Merkel è risultato piuttosto sparuto: un centinaio di persone. Questa
mattina è prevista una manifestazione di Fratelli d’Italia.
Grande
sintonia, ma al presidente del Consiglio non è sfuggita la frase con cui
la Merkel ha commentato le decisioni della Bce di ieri: “I politici non
devono distrarsi dal prendere i passi necessari per assicurare la
ripresa”. Anche l’Italia è avvertita.
Corriere 23.1.15
Anche il renziano Burlando indagato per la centrale
di Erika Dellacasa
GENOVA
A poco meno di un anno dal sequestro da parte del gip degli impianti
della centrale a carbone di Tirreno Power, a Vado Ligure, la Procura di
Savona ha iscritto nel registro degli indagati 45 persone fra dirigenti
della centrale, funzionari della Regione e politici a partire dal
governatore della Liguria Claudio Burlando insieme con alcuni assessori e
due sindaci. L’ipotesi di reato per gli amministratori pubblici è
disastro ambientale e violazione delle norme relative alle
autorizzazioni ambientali: in pratica avrebbero consentito all’impianto
di funzionare al di fuori dei limiti di legge.
La magistratura indaga
sulle emissioni della centrale dal 2000 al 2012, secondo alcune perizie
dei pm ai fumi sarebbero riconducibili oltre 400 morti per tumore e
migliaia di ricoveri per malattie respiratorie. L’indagine ha portato il
13 marzo scorso all’ordinanza con cui il giudice ha sequestrato gli
impianti, da allora la centrale è chiusa.La Regione Liguria ha cercato
in questi mesi le strade percorribili per consentirne la riapertura,
approvando delibere che stabilivano livelli di fumi «medi» per il
riavvio. Nel mirino della Procura ci sarebbero sia le autorizzazioni
concesse negli anni passati alla centrale per permetterle di continuare
la produzione sia gli atti più recenti (a cui si riferirebbero
intercettazioni telefoniche).
«Non ho avuto nessuna comunicazione di
un avviso di garanzia - dice Burlando — e non sono stato ascoltato dagli
inquirenti, sono naturalmente a disposizione. Dico però che l’azienda
ha annunciato che dal 28 febbraio non pagherà più gli stipendi.
Significa la perdita di centinaia di posti di lavoro: questo è un caso
simile all’Ilva. Bisogna impegnarsi nei 40 giorni che restano per
salvare salute, ambiente e lavoro, la questione è da tempo sul tavolo
del governo».
Proprio due ministeri, però, quello dello Sviluppo
economico e quello dell’Ambiente, concedono tempi diversi a Tirreno
Power per mettere in sicurezza il carbonile (oggi a cielo aperto):
l’Ambiente stabilisce l’ultimatum a marzo, il Mise concede 30 mesi. Dal
canto suo l’azienda ha fatto intendere di non poter rispettare la
scadenza di marzo.
La notizia giudiziaria arriva in un momento
delicato per il centrosinistra ligure che si prepara alle elezioni
regionali di maggio. Anche a destra però i guai non mancano: la Guardia
di Finanza ha consegnato alla Procura di Genova che indaga sulle «spese
pazze» dei consiglieri regionali una relazione sul leghista Edoardo
Rixi, vice di Salvini e candidato governatore, ipotizzando il peculato.
«Il comportamento della Lega — commenta Rixi — è stato corretto, lo
dimostreremo».
il Fatto 23.1.15
L’attimo fuggente di Renzi
risponde Furio Colombo
CARO
FURIO COLOMBO, come ha fatto Renzi, che è pur sempre un laureato in
Legge, a fare un pasticcio unificato di “carpe diem”, “come è bella
giovinezza” e “l’attimo fuggente”?
Ivana
IL “PASTICCIO” sembra
una specialità e anzi una vocazione di Renzi, ma più nel senso
culinario (in cui il “pasticcio” è pur sempre un risultato da valutare o
un piatto da gustare) che in quello logico, perché Renzi è piuttosto
chiaro e coerente. Certo a lui piace avere in ogni caso ragione ed è
spietato (verbalmente) non tanto contro chi se ne va quanto contro chi
lo ostacola. Nel momento in cui non sei più un ingombro sulla sua strada
smetti di interessarlo, qualunque sia il grado e la qualità della
critica. Ma se ti metti di traverso sulla sua strada, perde persino il
piglio spiritoso. Poiché con una battuta al giorno si toglie l'analisi
critica della sua azione politica di torno, Renzi ha lanciato (e poi
abbandonato subito) la trovata del “carpe diem” forse perché si è
accorto, lui stesso, in ritardo, che stava celebrando non la virtù
dell’operosità più energia, più giovinezza, più successo, ma
l’abbandonarsi al momento felice, senza pensieri per il dopo. Renzi
invece calcola tutto con cura, anche le deviazioni dal percorso per un
abbraccio che sembra occasionale, e più che tipo da “carpe diem” sembra
un militante del “niente è impossibile alla volontà” che una volta si
scriveva a grandi caratteri sui muri. Quanto all’attimo fuggente, gli è
davvero estraneo. Renzi è un buon giocatore di scacchi, vede le mosse in
anticipo, e persino le sue mosse sbagliate sembrano essere calcolate.
Tutte queste espressioni però evocano un lampo di felicità o almeno di
esuberante compiacimento, un istante di abbandono che in Renzi manca
sempre, lasciando il posto, il più delle volte, a un commento un po’
acido per dimostrare che chi ha perso se l’è voluta. Il tempo dedicato a
squalificare gli sconfitti è persino più grande del tempo per
descrivere la sua vittoria e le buone conseguenze che ne derivano. A
Renzi interessa vincere, più del che cosa vincere. E non perde tempo a
decidere come vincere, perché quel tempo gli serve a “mettere a posto”
gli sconfitti. È vero, vince molto. Ma con una grande trovata: abolire i
partiti, ovvero usarli solo come cassetti di un suo grande tavolo di
comando. È vero, è già successo. Ma se glielo fai notare, lui è già tre
mosse in avanti. E non si può negare che in molti per ora lo seguono.
Parlo del partito, non degli elettori, che a me sembrano sempre più
perplessi.
Corriere 23.1.15
Piketty: «Per salvare l’Unione Europea serve ben più di una banca centrale»
intervista di Stefano Montefiori
DAL
NOSTRO CORRISPONDENTE Parigi Thomas Piketty non si lascia (mai)
impressionare facilmente. Il 43enne economista francese, diventato una
star internazionale nel corso del 2014 grazie al suo ponderoso
bestseller «Il capitale del XXI secolo» (Bompiani), il primo gennaio
scorso ha rifiutato la Legion d’Onore che il presidente della Repubblica
voleva conferirgli: «Non spetta al governo decidere chi è degno di
onori», disse allora Piketty, aggiungendo soprattutto che «sarebbe
meglio dedicarsi alla crescita della Francia e dell’Europa». Ieri ci ha
provato Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, a
rilanciare la crescita del continente con un piano senza precedenti, ma
Piketty non sembra convinto. Sullo sfondo, la sua convinzione di sempre,
e cioè che senza una unione politica gli sforzi di politica economica
sono destinati a fallire, o comunque a non avere un impatto risolutivo.
L’errore di partenza degli europei, ossia dotarsi di una moneta comune
senza le istituzioni politiche democratiche che potessero sorreggerla,
continua a ripetersi. E non saranno le misure prese ieri a Francoforte,
per quanto innovative rispetto al passato, a cambiare radicalmente la
situazione.
Il piano di «Quantitative easing» annunciato da Draghi è
superiore alle attese: 60 miliardi di euro al mese fino al settembre
2016, ossia circa 1.100 miliardi. È una rivoluzione? L’ultima occasione
di salvare l’Unione Europea?
«Non esageriamo. L’entità del bilancio
della Banca centrale europea potrebbe risalire a circa 3.000 miliardi di
euro, che era già il livello raggiunto nel 2012. Questo
rappresenterebbe allora l’equivalente del 30 per cento del Pil della
zona euro (10 mila miliardi di euro), ma pari solamente al 3 per cento
del totale degli attivi finanziari detenuti nella zona euro (100 mila
miliardi). Serve ben più di una banca centrale per salvare l’Unione
Europea».
La parte più consistente del rischio, l’80 per cento, pesa
sulle banche nazionali. Solo il 20 per cento è a carico della Bce.
Questo riduce o no la portata dell’annuncio?
«Questa parte delle
misure rese note da Draghi è molto strana. Merita di essere studiata più
da vicino, ma potenzialmente è molto inquietante, nel momento stesso in
cui saremmo chiamati a realizzare l’unione bancaria nella zona euro.
Come minimo, l’effetto di annuncio non è molto riuscito».
L’obiettivo è arrivare a un livello di inflazione del 2 per cento. Qual è la sua opinione?
«C’è
da temere che questi nuovi acquisti di titoli sfocino in bolle su certi
attivi, invece di rilanciare l’inflazione dei prezzi al consumo. La Bce
tenta di fare la sua parte, ma per rilanciare l’inflazione e la
crescita europea ci vorrebbe senza dubbio un rilancio budgetario e
salariale. La priorità in Europa oggi dovrebbe essere investire
nell’innovazione e nelle università».
E come arrivare a questi investimenti?
«Ci
vorrebbe una unione politica e fiscale rafforzata della zona euro, con
delle decisioni prese a maggioranza in un Parlamento della zona euro
realmente democratico. Non si può chiedere tutto a una banca centrale».
La Stampa 23.1.15
I punteggi di qualità del ministero penalizzano i teatri più virtuosi
Le valutazioni stupiscono: il Regio di Torino 11esimo su 14, Venezia penultima
di Sandro Cappelletto
Davvero
è possibile che ci sia un divario così estremo tra la qualità degli
spettacoli allestiti dai nostri teatri? Che alla Scala venga
riconosciuto il massimo del punteggio previsto - 150 - e alla Fenice di
Venezia, giudicato dalla critica il migliore in Italia per varietà e
originalità di programmazione, solo 10, secondo punteggio più basso? Che
la Scala giochi in Champions, mentre il Regio di Torino - 18 punti -
annaspa tra i dilettanti, nonostante sia ai primi posti per numero di
rappresentazioni, di abbonati e di capacità di riempire la sala? E
bastano due opere dirette da Muti per far ottenere all’Opera di Roma la
lusinghiera valutazione di 136, mentre, sempre a Roma, all’Orchestra di
Santa Cecilia, con una stagione sempre dignitosa, spesso eccellente, ne
vengono riconosciuti 40?
Fossero solo numeri: il problema è che a
questi punteggi corrispondono milioni di euro erogati dal Ministero dei
Beni e delle attività culturali in base proprio alla «qualità». È uno
scippo, protestano i teatri che si ritengono penalizzati. No, è soltanto
un riequilibrio che tiene conto delle esigenze di tutti, ribattono
autorevoli fonti ministeriali. Un’ingiustizia che risponde a delle
scelte incomprensibili. No, un’applicazione oggettiva dei nuovi
parametri voluti dal Ministero.
Eccoli i nuovi parametri, in funzione
dal 2014, pensati per evitare operazioni non alla luce del sole: il 50%
delle somme erogate - complessivamente 187 milioni di euro (erano 239
nel 2000, con una diminuzione da allora a oggi in valore nominale del
33% e in termini reali del 50%) - viene stabilito in base alla quantità,
cioè al numero di rappresentazioni svolte; il 25% dipende dalla
capacità di reperire «risorse proprie»: vendita di biglietti,
abbonamenti, ricerca di sponsor, altre iniziative di marketing. Salvo
scoprire che per «autofinanziamento» si intende anche il contributo
degli enti locali: così i teatri di Roma, Bari e Palermo, molto aiutati
da Comune e Regione, fanno un figurone, nonostante si tratti sempre di
denaro pubblico e non di capacità gestionale. Venezia e Torino, che
dagli enti locali ricevono somme molto inferiori e incassano di più da
biglietti e sponsor, vengono così penalizzati.
L’ultimo 25% dipende
dalla qualità: e qui a decidere è stata la Commissione musica, «nella
sua autonomia», dicono sempre al Ministero. In verità, sorprendente.
Perché se la Scala ottiene il massimo, si fa fatica a capire perché
l’Arena di Verona sopravanzi in qualità Venezia e Torino, Genova e
Cagliari. Questa oggettività assume anche i contorni di un’umiliazione.
Ma
- si dice ormai piuttosto apertamente - il ministro Franceschini non ha
a troppo a cuore il mondo della lirica, le sue tensioni, le
elefantiasi, le opacità gestionali. E dunque, già nel 2015, messe al
sicuro le due realtà di eccellenza alle quali è stata riconosciuta
l’autonomia gestionale, e cioè La Scala e Santa Cecilia, per tutti gli
altri i parametri - oggettivi o soggettivi - saranno comunque al
ribasso.
Repubblica 23.1.15
Francia, la sfida di Valls “Basta con l’apartheid contro l’estremismo ripopoliamo le banlieue”
Nuovo piano per combattere l’emarginazione Sarkozy polemico: “È un paragone sbagliato”
di A. G.
PARIGI
. — Prima ha parlato di «apartheid», ora di «ripopolamento » delle
banlieue. Manuel Valls è in prima linea sulle banlieue considerate da
molti esperti come un potenziale vivaio di odio. Gli attentati di Parigi
sono stati compiuti da nemici interni, terroristi cresciuti in casa, in
quei quartieri da tempo abbandonati dalla République. Per lottare
contro la ghettizzazione delle banlieue, ha detto Valls, bisogna
organizzare una «politica di ripopolamento» dei quartieri più sensibili,
abitati in grande maggioranza da immigrati, di prima, seconda e terza
generazione. Il premier non vuole solo una politica di nuovi alloggi o
infrastrutture, ma misure che possano lottare contro la «segregazione
sociale»”, un concetto che aveva già espresso tre giorni fa.
«Paragonare
la Repubblica francese all’apartheid è un errore. Sono costernato», ha
tuonato Nicolas Sarkozy, rompendo così il clima di unità nazionale, due
settimane dopo le stragi. «Bisogna essere grandi, non piccoli», ha
replicato il premier socialista, aggiungendo: «Pensate che ora ci
mettiamo a perdere tempo con le polemiche?». Il premier è tornato anche a
spiegare la sua risposta sociale agli attentati nella capitale. «Non
sopporto che in alcune scuole non si trovino che studenti figli di
famiglie povere, provenienti solo dall’immigrazione, dallo stesso
ambiente culturale e dalla stessa religione » ha detto Valls, ricordando
di essere cresciuto in una cittadina di periferia, Evry, sud di Parigi.
E
proprio sul ruolo delle scuole, il governo ha annunciato un piano per
lottare contro la radicalizzazione dei giovani. «La scuola non può fare
tutto, ma è un elemento essenziale» ha commentato il premier. «La
laicità deve imporsi dappertutto, perché permette la fraternità e
permette a ciascuno di vivere insieme ». Il governo ha indetto per il 9
febbraio una conferenza nazionale in cui saranno elaborati metodi di
insegnamento di valori come il rifiuto del razzismo o l’eguaglianza tra
uomo e donna. Il pacchetto di misure, di cui alcune già note, comporta
un investimento di 250 milioni di euro per il prossimo triennio. Tra i
provvedimenti più simbolici la creazione di una «Giornata della
Laicità», indetta nelle scuole il 9 dicembre, in riferimento a quel
giorno del 1905 in cui venne adottata la legge sulla separazione tra
Stato e Chiesa. La ministra dell’Istruzione, Najat Vallaud- Belkacem, ha
annunciato che mille tutor selezionati verranno incaricati di fornire
le linee guida su «laicità» e «insegnamento morale e civico» ai
professori. «La trasmissione della conoscenza è il modo migliore di
combattere l’oscurantismo», ha avvertito la ministra, deplorando «la
disinformazione», le «teorie del complotto», il «sospetto generalizzato»
veicolati ai giovani attraverso web e social network. Tutti problemi a
cui Parigi intende rispondere anche attraverso un «percorso educativo
civico», con tanto di valutazione finale, dalle elementari al liceo, e
la sottoscrizione da parte di genitori e studenti di un’apposita «Carta
della Laicità».
Repubblica 23.1.15
L’ultimo urlo di Tsipras tra le bandiere di Atene “L’austerity al capolinea”
Il leader di Syriza esalta la piazza insieme a Iglesias (Podemos)
“Non è un sogno Il futuro è nelle vostre mani. Dateci il voto per cambiare la vostra vita”
“Noi non siamo un pericolo per l’Europa ma per chi ha portato il Paese nel baratro”
Ma la Bce non esclude che il Paese possa entrare negli acquisti dei titoli
di Ettore Livini
ATENE
“We will, we will rock you”. La Troika è avvisata. A Omonia, nel centro
di Atene, sventolano centinaia di bandiere di Syriza e risuonano le
note dei Queen. «La Grecia e l’Europa stanno per vivere un momento
storico!», dice dal palco Alexis Tsipras, favorito numero uno del voto
ellenico. «Hasta la victoria, venceremos!», lo applaude alzandogli il
braccio destro Pablo Iglesias, leader di Podemos, in testa a tutti i
sondaggi in Spagna. «L’era del pensiero unico dei tecnocrati di
Bruxelles è finito», esulta Kostas Douzinas, professore di legge alla
Birbeck University di Londra («sono arrivato dalla Gran Bretagna assieme
a 400 simpatizzanti!») in una piazza dove non entra più nemmeno uno
spillo. Davos e le stanze ovattate della Bce sembrano davvero lontane
mille miglia. «Domenica volteremo pagina e inizierà una nuova era —
assicura la strana coppia (“Tsiglesias” la chiamano qui) che vuole
rivoltare come un calzino le politiche d’austerity del Vecchio
Continente — La paura è finita, è l’ora della speranza. E di un’Europa
governata dai popoli e dalla democrazia e non dalle mail e dagli
ultimatum di Ue, Bce e Fmi».
Un sogno? «No. Il futuro è nelle vostre
mani. Dateci il voto per cambiare la vostra vita» chiede Tsipras dal
palco dell’ultimo comizio della sua campagna elettorale. In molti
sembrano pronti ad ascoltarlo: gli ultimi sondaggi (se sono attendibili)
danno Syriza a un soffio da quel 35-37% che le garantirebbe la
maggioranza assoluta. Un mandato fortissimo per presentarsi a Bruxelles e
chiedere un taglio a quel debito «che soffoca l’economia del paese».
Mettendo la parola fine alla via crucis lunga dodici finanziarie che ha
ridotto di un quarto il Pil del paese e fatto schizzare la
disoccupazione al 26% e aprendo uno spiraglio di flessibilità agli altri
paesi, Italia compresa, schiacciati da una montagna di prestiti.
L’Europa
per ora continua a fare orecchie da mercante: «Chiunque vinca dovrà
mantenere gli impegni presi con i creditori» ha ripetuto ieri il
presidente della Commissione Jean Claude Juncker. «Ma il clima sta
cambiando, l’asse con Podemos sta ammorbidendo le resistenze dei
falchi», assicura Dimitris Liakos, consigliere economico di Tsipras. E
anche Mario Draghi — che negli ultimi mesi ha già incontrato due volte
il leader di Syriza — ne ha preso atto a modo suo: «La Grecia non sarà
sottoposta ad alcuna limitazione particolare nel piano di quantitative
easing della Bce — ha detto ieri — : dovrà semplicemente rispettare
alcune regole specifiche che valgono per i paesi sottoposti ai piani di
ristrutturazione della Troika». Tradotto in soldoni: Eurotower non ha
prevenzioni contro la sinistra greca. E comprerà titoli di stato
ellenici se Tsipras riuscirà a raggiungere un’intesa con i suoi
creditori.
Il premier Antonis Samaras non l’ha presa benissimo. Ieri,
convinto che Francoforte avrebbe escluso Atene dal suo programma di
sostegno all’economia del Vecchio continente, aveva convocato un
conferenza stampa a reti unificate per calcare la mano sulle parole
d’ordine della sua campagna elettorale («Syriza ci porterà fuori
dall’euro e ci trasformerà in una Corea del Nord europea» l’ultima
perla). Invece ha dovuto prendere atto del ramoscello d’ulivo di Draghi e
fare una timida retromarcia: «Non buttate al vento cinque anni di
sacrifici», ha detto davanti alle telecamere, provando a convincere quel
10% di indecisi che potrebbe ribaltare le certezze dei sondaggi.
La
strada però è in salita. «Ho votato tutta la mia vita Nea Demokratia, il
partito del premier — racconta davanti al palco Danai Dimitropoulou,
dipendente del Comune di Atene — . E cosa ho avuto in cambio? Il mio
stipendio è sceso da 1.400 a mille euro. Mio marito è rimasto senza
lavoro due anni fa e da 12 mesi non ha più nemmeno l’assistenza
sanitaria. Un disastro visto che è diabetico». Risultato: come molti ex
elettori del centrodestra domenica prossima «farò quello che non avrei
mai immaginato di fare in vita mia: mettere la croce sul simbolo di
Syriza».
Tsipras e Iglesias sanno che certi treni passano una sola
volta. E non vogliono sprecare il jolly che hanno in mano, sperando di
trovare lungo il percorso alleati anche in Italia, Irlanda («oggi mi ha
chiamato il presidente del Sinn Fein Gerry Adams», racconta il leader
della sinistra ellenica) e persino in Germania. «Noi non siamo un
pericolo per l’Europa e per la Grecia ma per quelli che hanno portato il
nostro paese nel baratro — assicura Tsipras — . Non abbiamo paura di
niente. Combatteremo l’evasione fiscale e l’economia in nero per trovare
i soldi con cui ridare il lavoro alla gente». Musica per le orecchie di
Omonia. «Nessuno perderà la sua prima casa se non riesce a pagare i
debiti alle banche! — aggiunge — dobbiamo lavorare per un paese più
giusto, più equo e più democratico».
L’obiettivo, in questa sera
piena di ottimismo, è riuscire a conquistare la maggioranza assoluta in
Parlamento per poter negoziare con la Troika da una posizione di forza e
senza annacquare il programma elettorale in nome di un governo di
coalizione. “We will, we will rock you”, canta la piazza di Atene. Qui,
sei anni fa, è iniziata la crisi dell’euro. Ma da qui, sulle note dei
Queen e della rivoluzione targata “Tsiglesias”, ha iniziato a soffiare
il vento che rischia di cambiare di nuovo (da sinistra) la storia dei
vecchio continente.
Corriere 23.1.15
Sgarbo di Obama. Non riceverà Netanyahu
Schiaffo
chiama schiaffo. Sale la tensione tra Obama e il leader di Israele
mentre nel Parlamento di Washington si fa incandescente la battaglia
sulle nuove sanzioni contro l’Iran che la Casa Bianca è pronta a
bloccare col veto presidenziale. L’annuncio di una visita di Benjamin
Netanyahu al Congresso concordata senza coinvolgere la Casa Bianca era
stato preso da Barack Obama come un intervento a gamba tesa dei
repubblicani, ma anche del premier israeliano: «Il protocollo — aveva
detto a il portavoce Josh Earnest — suggerisce che il leader di un Paese
contatti quello di un altro Paese quando intende recarsi in visita. In
questa circostanza sembra che ci sia allontanati dal protocollo».
L’ufficio di Netanyahu ha comunque chiesto un incontro alla Casa Bianca,
ma allo sgarbo israeliano Obama ha risposto con durezza: non solo non
riceverà Netanyahu, ma ha praticamente bollato come inopportuna la sua
visita fissata per il 3 marzo, due settimane prima delle elezioni
politiche in Israele. Ieri, infatti, la portavoce del Consiglio per la
Sicurezza Nazionale, Bernadette Meehan, ha spiegato il «no» all’incontro
Obama-Netanyahu con una prassi da lungo tempo seguita dalla presidenza:
non si invitano leader che sono anche candidati a breve distanza dalle
elezioni «per non dare l’impressione di voler influenzare il processo
democratico in un Paese straniero». Porta chiusa in faccia anche al
Dipartimento di Stato: mercoledì, a caldo, John Kerry aveva detto che
Netanyahu è il benvenuto. Ieri, però, è stato chiarito che nemmeno il
capo della diplomazia americana lo riceverà. Ora fonti del governo Usa
cercano di minimizzare: nessuna rottura, Obama e Netanyahu si sentono
spesso, solo una questione di opportunità. Si sentono spesso, ma non si
amano. E in questo momento l’Iran è un macigno tra di loro: Israele
preme per la linea dura con le nuove sanzioni. La Casa Bianca spera
ancora nella difficile intesa e considera un inasprimento dell’embargo
un sabotaggio del negoziato che riprende proprio oggi in Svizzera.
Repubblica 23.1.15
Palestina, Pd spaccato. L’Italia rinvia il voto
Renzi e Gentiloni hanno già detto di essere contrari al riconoscimento
di V. N.
ROMA
Sulla Palestina la politica italiana per ora rinvia la conta. Ieri sera
la Camera dei Deputati ha deciso una “tregua quirinalizia”: oggi i
deputati italiani non voteranno come previsto sul riconoscimento dello
Stato di Palestina. I capigruppo hanno concordato di attendere
l’elezione del nuovo presidente della Repubblica prima di schierare i
loro deputati a favore o contro una scelta simbolica, ma politicamente
molto divisiva.
Fino a giovedì in Parlamento erano state presentate 3
mozioni a favore dello Stato di Palestina e una contraria: i favorevoli
sono il piccolo gruppo del Psi, il Movimento5Stelle e la sinistra di
Sel. Contrari al voto filopalestinese i leghisti. Con i leghisti
sicuramente si schiereranno Forza Italia, il Nuovo centro-destra e le
altre formazioni centriste.
Trovare una posizione unica è invece più
difficile per il Partito democratico, in cui convivono due anime: una
favorevole al riconoscimento immediato della Palestina, l’altra attenta a
non provocare rotture con Israele alla vigilia delle elezioni politiche
volute dal premier Netanyahu. Nel Pd sia Matteo Renzi che il ministro
degli Esteri Paolo Gentiloni hanno anticipato la loro posizione:
l’Italia dovrebbe fare come la Germania, evitando di votare un
riconoscimento simbolico della Palestina «che non aiuterebbe a far
ripartire il negoziato».
Il problema è che la Palestina è già stata
votata da molti altri Parlamenti e riconosciuta da altri governi. Hanno
votato “si” l’Europarlamento assieme ai Parlamenti di Francia, Gran
Bretagna, Spagna, Irlanda, Portogallo, Lussemburgo.
Repubblica 23.1.15
Avraham B. Yehoshua
“Sostenete lo Stato di Palestina, è l’unica via per arrivare alla pace”
“I
palestinesi non vogliono un califfato ma solo il diritto di essere
cittadini della propria patria Questo dobbiamo concederlo, ormai anche
il 50-60% degli israeliani è d’accordo Bloccare la costruzione di
insediamenti è la prima elementare azione da compiere“
intervista di Fabio Scuto
GERUSALEMME
«I PALESTINESI non vogliono un califfato islamico e non hanno obiettivi
religiosi estremi. Ciò che in definitiva chiedono è ciò a cui ha
diritto ogni persona al mondo: essere cittadini della propria patria.
Questo dobbiamo darglielo, come chiede la maggioranza degli israeliani.
Il problema è come realizzarlo». Va subito al nocciolo della questione
lo scrittore israeliano Avraham B. Yehoshua: il riconoscimento dello
Stato palestinese. Professore emerito dell’Università di Haifa e
“visiting professor” a Harvard, Oxford, Princeton e Chicago, Yehoshua
appartiene ai molti israeliani che negli ultimi anni hanno fortemente
criticato le posizioni del governo di Benjamin Netanyahu che hanno
contribuito al fallimento della trattativa di pace. Il Parlamento
italiano — dopo Gran Bretagna, Francia, Spagna, Irlanda e Portogallo —
si appresta a votare il riconoscimento della Palestina. Yehoshua è uno
dei primi firmatari israeliani di un appello per questo riconoscimento,
cosa che il governo israeliano giudica un’assurdità.
Perché è importante il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dei parlamenti europei?
«L’assenza
di una trattativa, le lungaggini, la guerra a Gaza, l’ampliamento
incontrollato degli insediamenti, tutto ciò crea una situazione in cui, i
palestinesi, quelli moderati, coloro che vogliono vivere in pace su
quello che è un quarto della Palestina storica hanno bisogno di un
incoraggiamento, dopo che gli Stati Uniti hanno tirato per le lunghe e
non sono riusciti ad avere un solo successo, non sono riusciti a fare
“smantellare” nemmeno un insediamento in Cisgiordania. Non sto parlando
delle trattative vere e proprie, che sono una questione complessa, in
cui sono presenti molti elementi quali il “Diritto al Ritorno”, che
senza dubbio presenta molti problemi, ma almeno bloccare la costruzione
di insediamenti, che è l’azione più elementare che Israele dovrebbe
compiere, per non creare situazioni irreversibili».
Siamo al punto di non-ritorno? È finita la soluzione “due Stati per due popoli”?
«Spero
davvero che non siamo ancora arrivati a questo punto, perché uno Stato
bi-nazionale sarebbe una catastrofe per entrambi i popoli. Vediamo che
cosa sta accadendo oggi negli stati bi-nazionali: un caos atroce negli
stati arabi. Per questo, proprio i palestinesi che ancora credono in una
trattativa e ancora credono in uno Stato palestinese sono quelli che
hanno bisogno di un incoraggiamento più concreto dagli europei, di un
riconoscimento dello Stato Palestinese ».
Quindi lei è d’accordo sul
fatto che la comunità internazionale, l’Europa e l’Italia, continuino a
dedicare attenzione a quanto avviene nel Medio Oriente?
«Ma
certamente. Guardi che cosa succede in Siria, cose terribili, e lì è
praticamente impossibile fare qualcosa. Ma la questione palestinese, che
è una delle ragioni del caos medioorientale, non unica ma una delle
tante che infiammano gli estremismi, è invece risolvibile. Naturalmente
l’Europa non può creare lo Stato Palestinese, che può essere costituito
solo tramite una trattativa fra Israele e i palestinesi, con condizioni
che garantiscano la sicurezza di Israele, ma può incoraggiare questo
processo con un atto simbolico di riconoscimento».
La soluzione del
conflitto fra Israele ed i palestinesi può offrire una maggiore
possibilità di confrontarsi con gli altri conflitti che travagliano il
Medio Oriente, come quelli con l’Is o Al Qaeda?
«Non lo so. Sembra
che nemmeno coloro che combattono sappiano su che cosa verta il
conflitto. Chi sa veramente che cosa vogliono l’Is ed Al Qaeda? Sono
conflitti molto complessi, in cui non è chiaro dove stia il bene e dove
il male, né in Iraq né in Siria, dove non è possibile sapere che cosa
accade. Quello che si sa, però, è quello che vogliono i palestinesi: non
vogliono un califfato islamico, non hanno obiettivi religiosi estremi.
Ciò che vogliono in definitiva è ciò a cui ha diritto ogni persona al
mondo: essere cittadino nella propria patria. Questo dobbiamo darglielo e
le dirò di più: il 50-60% degli israeliani sono d’accordo, il problema è
come realizzarlo ».
Se è vero ciò che lei dice che cosa ne impedisce la realizzazione?
«La
paura che possa succedere quello che è successo con il ritiro da Gaza.
Allora ci fu un ritiro israeliano dalla Striscia incondizionato (che ha
portato a tre successive operazioni militari in nove anni, ndr), mentre
ora stiamo parlando di un ritiro con garanzie, con contingenti
israeliani che rimarrebbero sul posto: il coordinamento fra l’esercito
israeliano e le forze di sicurezza palestinesi ha dato ottime prove da
anni. Non vi è terrorismo, e se ci sono episodi, si tratta di casi
sporadici occorsi soprattutto nei Territori palestinesi che sono ancora
sotto il dominio israeliano. Abbiamo visto Abu Mazen che è andato a
Parigi per esprimere la sua solidarietà e ha marciato a fianco del primo
ministro di Israele. Il terrorismo non è nel suo ordine del giorno, non
combatte gli ebrei ovunque siano e non rappresenta l’estremismo
islamico. Ha un obiettivo chiaro e preciso: ottenere il suo piccolo
Stato ».
A due mesi da un voto politico decisivo Israele si trova sull’orlo della pace o su quello della guerra?
«Israele
si trova sull’orlo di un cambiamento, sull’orlo della fine del ricatto
dei coloni estremisti di destra, sull’orlo della possibilità di cambiare
registro, di ritornare al dialogo che vi è stato in passato. Non siamo
più all’epoca in cui nessuno nel mondo arabo voleva parlare con noi,
abbiamo sul tavolo la proposta della Lega Araba: bisogna soltanto
superare l’ostacolo del “Diritto al Ritorno”, che per noi è impossibile
accettare (il ritorno dei profughi arabi nel territorio di Israele,
ndr).
In cambio della rinuncia dei profughi palestinesi al ritorno,
lei sarebbe disposto a rinunciare alla Legge del Ritorno per gli ebrei?
«No,
perché si tratta di due cose che non hanno nulla in comune, la Legge
del Ritorno non ha alcun collegamento con gli arabi. Noi abbiamo bisogno
della Legge del Ritorno, perché solo così possiamo assicurare la
possibilità di accogliere tutti gli ebrei che ne hanno necessità: guardi
quello che succede in questo momento in Francia. Il Diritto al Ritorno
dei palestinesi non può essere esteso al ritorno dei profughi in
Israele, ma per quanto riguarda il ritorno entro i confini dello Stato
Palestinese, lì avranno ogni diritto di ritornare, lì sarà applicata la
loro legge del ritorno».
Corriere 23.1.15
Il senso del limite che la ragione deve avere
Chi capisce l’altro è maturo, chi preferisce sempre se stesso no
di Raffaele La Capria
«Je
est un autre» ha scritto Rimbaud in Una stagione all’inferno . Era
profetico Rimbaud, oggi queste sue parole hanno assunto un altro
significato, perché — dopo la strage dei dodici vignettisti di Charlie
Hebdo — è iniziato quello che, sempre Rimbaud, chiamò il « combat
spirituel ».
Questo combattimento spirituale si svolge oggi tra la
ragione illuminista, che è la mia ragione, e quella, sempre mia, che è
costretta a ragionare adesso avendo presente con orrore il grande
misfatto commesso non solo contro un giornale e i suoi vignettisti, ma
contro l’umanità. Può l’offesa fatta a Maometto riportare indietro nei
secoli tutto il mondo nato dopo la Rivoluzione francese? E i rapporti
umani e i comportamenti pubblici al Medio Evo, la ferocia all’età di
Tamerlano e Gengis Khan, la comunicazione all’esposizione televisiva di
teste tagliate, donne lapidate, bambini obbligati all’assassinio o a
diventare cariche esplosive? Non è troppo per delle vignette?
Eppure,
se smettiamo di pubblicarle, veniamo meno ai nostri sacrosanti principi
fondati sulla libertà d’espressione e sulla democrazia. Che fare allora
per far cessare l’abominio? Possiamo stare a guardare quel che accade
come spettatori impotenti e continuare ad emettere condanne senza nessun
effetto, oppure c’è bisogno di qualcosa d’altro?
Ed è qui, a questo
punto che comincia il combat spirituel della ragione con se stessa,
della ragione illuminista con se stessa. In cuor mio Je suis Hebdo , lo
ripeto: ma fino a quando me lo potrò permettere? Se dopo dodici morti
l’idealismo di Charlie Hebdo continua con le sue vignette, finisce per
aver ragione il pragmatismo del Financial Times che si chiede: a che
serve?
Per me è maturo chi capisce la ragione dell’altro, è immaturo
chi preferisce se stesso a tutti i costi. Per me è meglio il se stesso
maturo che il se stesso immaturo. E poi c’è la reciprocità su cui è
fondato ogni possibile dialogo. Se tu puoi fare a me ciò che io non
posso fare a te, non c’è reciprocità e dunque non è possibile alcun
dialogo, e se voglio ragionare la mia ragione vacilla.
Ma la mia
ragione illuminista deve accettare anche questa asimmetria, se la
ragione dell’altro è invalicabile. Il musulmano dice: in nome del
Profeta io posso costruire moschee nella tua terra perché sei tu che per
ragioni storiche, che hai contribuito a determinare, sei invaso da me, e
devi darmi la possibilità di pregare. Tu non puoi costruire chiese da
me perché da sempre Allah ha stabilito che il suolo musulmano è sacro e
inviolabile, ed io ho fede in Allah. Qui finisce la reciprocità, perché
la fede è irrazionale, non ragiona come la ragione, la differenza tra
noi è tutta qui, lo ha detto anche un Papa a Ratisbona.
Ma la
ragione, la ragione illuminista, se vuole evitare il conflitto di
civiltà e l’irreparabile rovina che ne consegue, oggi deve per forza
essere compagna responsabile della libertà. La mia ragione dice anche
che tutti devono rispettare il senso del limite, che è sacro, e dunque
invalicabile. Per aver superato il senso del limite Dante punì Ulisse e
lo fece naufragare in un abisso senza fondo. Finiremo anche noi in
quell’abisso se non rispettiamo il senso del limite imposto dalle
religioni. È anche vero che a Parigi due terroristi hanno superato il
senso del limite, e lo stanno superando ogni giorno i tagliatori di
teste e chi usa le bambine come esplosivo. Ragioniamo, per favore.
Ragioniamo tutti, evitiamo le sfide e le vendette. E finiamola di
vendere armi a chi le usa contro di noi.
Corriere 23.1.15
Ebrei, politici e soldati: gli italiani nei lager
In una mostra al Vittoriano il racconto, settant’anni dopo, della liberazione dei campi di sterminio nazisti
di Gian Guido Vecchi
ROMA
«Il senso di questa mostra è chiarire che la liberazione dei campi non
fu, come si crede, un momento felice». Lo storico Marcello Pezzetti,
direttore della Fondazione Museo della Shoah, schiaccia un tasto e le
immagini mostrano dei movimenti incerti sotto un cumulo di cadaveri,
gambe che si ritraggono, dita che s’aggrappano al terreno, «negli ultimi
giorni i nazisti avevano ricavato pure degli Sterbelager , depositi di
moribondi», i giovani ricercatori dello staff le avranno viste infinite
volte eppure anche loro, tutt’intorno, hanno un moto di orrore e pietà.
Hanno setacciato per mesi campi e sottocampi del sistema di sterminio
per aggiornare i dati e recuperare documenti, oggetti, immagini inedite o
rarissime, tra i filmati degli Alleati ci sono anche quelli girati da
Hitchcock.
Martedì, settantesimo anniversario della liberazione di
Auschwitz, verrà inaugurata al Vittoriano di Roma la grande mostra su
«La liberazione dei campi nazisti». Un racconto senza precedenti della
drammatica Endphase decisa dai nazisti accerchiati fin dall’estate del
1944, mentre da Ovest e da Est avanzano Alleati e russi. Tra le «marce
della morte» da un campo all’altro e gli ultimi massacri, in poche
settimane morirono più di trecentomila dei settecentomila prigionieri
rimasti. Il 27 gennaio 1945 i sovietici liberano Auschwitz-Birkenau ed è
diventata la data simbolo, il Giorno della Memoria. Ma l’«ultima fase»
ha un prologo già nella notte tra il 22 e il 23 luglio 1944, a quattro
chilometri da Lublino, quando l’Armata Rossa entra nel lager di
Majdanek. E prosegue con le liberazioni di Groß-Rosen (sempre ad opera
dei sovietici, 13 febbraio), Stutthof (sovietici, 9 maggio, ma
l’evacuazione era iniziata a gennaio), Mittelbau-Dora e Buchenwald
(americani, 11 aprile), Bergen-Belsen (inglesi, 15 aprile), Flossenbürg
(americani, 23 aprile), Sachsenhausen (sovietici, 22-23 aprile), Dachau
(americani, 29 aprile), Ravensbrück (sovietici, 30 aprile), Neuengamme
(inglesi, 2 maggio) e Mauthausen (americani, 5 maggio).
È il
compimento della Shoah e insieme una svolta. Campo per campo, al
Vittoriano viene elencata in particolare la sorte degli italiani: gli
ebrei ma anche i «politici» — antifascisti, persone che si erano
rifiutate di aderire a Salò — e gli internati militari. Dopo Auschwitz,
si moltiplicano le marce forzate dei prigionieri. «All’interno dei lager
cominciano a cadere le motivazioni razziali», spiega Pezzetti. «Il
criterio di selezione dei nazisti comincia a diventare tra abili e non
abili al lavoro. Anche un “politico” può essere selezionato per il gas.
Ebrei e non ebrei si trovano a morire assieme».
Da Berlino non
arrivano più direttive chiare, Himmler si contraddice, prendono potere i
capi locali. Tra le cose più notevoli della mostra, la grande mappa
animata che rappresenta l’avanzata dei fronti e le evacuazioni
progressive dei campi. Ci sono foto scattate da tedeschi che da casa
vedevano passare le colonne di prigionieri. Una donna con la sua bambina
riesce a saltare giù da un treno. È l’impazzimento finale.
A
Stutthof un vagone ferroviario viene adattato a camera a gas, tremila
ebrei vengono portati su una spiaggia del Mar Baltico e lì massacrati da
SS, Hitlerjugend e popolazione. A Gardelegen, il 14 aprile, gli
americani scoprono un capannone con più di mille prigionieri bruciati
vivi dai nazisti il giorno prima. Denutrizione e malattie fanno il
resto: solo a Bergen-Belsen cinquemila persone muoiono nei dieci giorni
dopo la liberazione. Tra i documenti, la prima lettera che Primo Levi
manda da Katowice a casa, il 6 giugno 1945: «Come i pochi compagni
italiani superstiti, io sono vivo per miracolo».
La Stampa 23.1.15
Primo Levi e la lettera inedita: l’olocausto spiegato a una bambina
“Piuttosto
che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di
indifferenza, e soprattutto di ignoranza volontaria perché chi voleva
conoscere la verità poteva conoscerla e farla conoscere”
di Monica Perosino
qui
La Stampa 23.1.15
Gli avevo chiesto: come potevano essere così cattivi?
di Monica Perosino
A
11 anni, nel 1983, avevo appena finito di leggere Se questo è un uomo.
L’avevo letto durante le vacanze di Natale, e riletto pochi giorni dopo
l’Epifania. Ma restavano domande senza risposta: esiste la malvagità?
Se
questo è un uomo era nella lista dei libri da leggere stilata dalla
professoressa di italiano, Maria Mazza Ghiglieno. Neanche lei, che pure
aveva sempre le domande e le risposte giuste, poteva risolvere il
dilemma. Così, spinta dalla logica senza curve di un’undicenne, mi parve
ovvio andare alla fonte. Cercai l’indirizzo di Primo Levi sulla guida
del telefono per chiedere direttamente a lui: perché nessuno ha fatto
niente per fermare lo sterminio? I tedeschi erano cattivi?
Nemmeno
per un attimo pensai che stavo scrivendo allo scrittore di fama
planetaria. Per me era «solo» Primo Levi e il suo libro era anche un po’
mio. Chiedere conto a lui mi parve la cosa più naturale del mondo. Lui
doveva sapere per forza. Presi la mia carta da lettere preferita, zeppa
di fiori e pupazzi, e scrissi una paginetta di lettere tozze. Già che
c’ero lo invitai nella mia scuola.
La risposta arrivò, datata 25
aprile, e non colsi subito la coincidenza fino in fondo. Il concetto di
«ignoranza volontaria» non era la spiegazione che mi aspettavo. Io
volevo sapere se il male esisteva. Smisi di rileggere la lettera tre
anni dopo, l’11 aprile 1987, quando trovarono il corpo di Primo Levi
nella tromba delle scale. Ero rimasta senza l’uomo che avrebbe potuto
darmi spiegazioni. La lettera finì in un cassetto, assieme ad altre.
Ora, 32 anni dopo, è rispuntata durante un trasloco, con tutte le sue
risposte.
La Stampa 23.1.15
Chi aveva paura di bombardare Auschwitz
Nell’estate
del ’44 gli Alleati erano pronti a distruggere il Lager nazista, gli
stessi internati preferivano morire così anziché nelle camere a gas
Un libro di Umberto Gentiloni spiega perché non se ne fece niente
di Maurizio Molinari
A
70 anni dalla liberazione di Auschwitz-Birkenau uno degli interrogativi
che restano senza risposta è perché gli Alleati non bombardarono il
campo di sterminio nazista cuore della «Soluzione finale», ovvero il
genocidio degli ebrei d’Europa. A colmare il vuoto arriva Bombardare
Auschwitz, un libro, in uscita da Mondadori (pp. 120, € 17), con cui
Umberto Gentiloni Silveri esamina tutte le testimonianze, prove e
supposizioni disponibili per arrivare a tratteggiare una possibile
spiegazione del «perché si poteva fare» e del «perché non è stato
fatto».
Le notizie del massacro
Confezionato da uno storico con la
passione del reporter, il volume accompagna il lettore attraverso il
processo che portò le democrazie occidentali a venire a conoscenza dello
sterminio degli ebrei mentre era in corso. A cominciare dalla fuga da
Auschwitz, nell’aprile del 1944, di due ebrei slovacchi, Rudolf Vrba e
Alfred Wetzler, che consegnano alla Resistenza piantine, resoconti,
numeri e notizie talmente dettagliate da costituire una testimonianza
diretta, inequivocabile, dello sterminio in corso. Dopo di loro altri
seguono, facendo arrivare a Londra e Washington notizie a sufficienti
per essere consapevoli del massacro di ebrei da parte della Germania
nazista e dei suoi alleati, Italia fascista inclusa.
In questa
cornice il libro ricostruisce anche l’atmosfera dentro il Lager, ossia
l’attesa con cui i deportati scrutavano il cielo augurandosi un
bombardamento alleato che avrebbe potuto distruggere camere a gas, forni
crematori, rampe ferroviarie e anche le baracche, ovvero tutti gli
ingranaggi della fabbrica della morte. Le testimonianze di Piero
Terracina, deportato da Roma, Shlomo Venezia, catturato a Salonicco, e
Elie Wiesel, ebreo transilvano e futuro premio Nobel, consentono al
lettore di addentrarsi nello stato d’animo di chi viveva dentro
Auschwitz, oggetto delle più brutali angherie naziste, maturando la
convinzione che poiché la morte era comunque certa, «meglio sarebbe
stato morire sotto le bombe alleate anziché nelle camere a gas degli
aguzzini». Anche perché, come Wiesel ricorda, quando alcune bombe
americane caddero sul campo - forse per errore, a seguito di un attacco
contro vicini impianti industriali tedeschi - gli aguzzini del Lager
vennero travolti da una paura tale che, sebbene per poche ore, portò
sollievo ai «sommersi» di Auschwitz, come li definiva Primo Levi.
Via libera da Londra
Nell’estate
del 1944 i governi alleati sanno oramai dello sterminio degli ebrei, i
progressi militari della liberazione dell’Europa rendono l’attacco
fattibile e l’accelerazione dell’eliminazione degli ebrei ungheresi pone
un senso di urgenza - ricostruisce Gentiloni - creando una situazione
nella quale, per la prima volta, si ipotizza il bombardamento del Lager e
delle ferrovie che vi fanno arrivare i «trasporti della morte». È la
presenza della 15a divisione dell’Aviazione americana del Sud Italia a
offrire la possibilità logistica di rotte e rifornimenti per raggiungere
un obiettivo non lontano da altri nell’Europa centrorientale.
Le
richieste di bombardare Auschwitz sui governi di Washington e Londra
diventano pressanti. Il 24 giugno 1944 il War Refugee Board americano
invia un telegramma con un’esplicita richiesta per l’Aviazione
britannica di bombardare almeno il tratto ferroviario fra Kosice e
Presov per ostacolare la deportazione di 400 mila ebrei ungheresi. Il 6
luglio 1944 Chaim Weitzmann, presidente dell’Agenzia ebraica, ripete la
richiesta ad Anthony Eden, ministro degli Esteri britannico, che la
presenta al premier Winston Churchill, da cui sembra arrivare il via
libera. «Richiedete il massimo sforzo alla nostra aviazione,
comunicategli che è una mia decisione» fa sapere il premier.
Prevalgono i dubbi
«Sembrerebbe
l’inizio della svolta» scrive Gentiloni in uno dei passaggi di maggiore
tensione dell’appassionante ricostruzione storica. Per otto giorni il
comando della Raf, ovvero gli eroi della battaglia d’Inghilterra,
esamina il bombardamento nel comando alleato delle truppe in Europa: gli
spazi ci sono, la via è stretta ma percorribile. L’ipotesi è un attacco
diurno, affidato probabilmente ai bombardieri Usa in Sud Italia. Ma con
il passare dei giorni, delle settimane, non avviene nulla. A prendere
il sopravvento sono i dubbi convergenti del Foreign Office britannico e
del Dipartimento di Stato americano: lo stallo non si supera e la
finestra si chiude perché la guerra entra nella fase finale che vede la
Germania nazista battersi con inattesa caparbietà, dalla controffensiva
sulle Ardenne alla V2 su Londra, fino ai tentativi di sviluppare
super-armi, spingendo gli Alleati a concentrare ogni sforzo bellico
sulla sconfitta finale dell’Asse.
Silenzi e antisemitismo
Sul
perché l’attacco non avvenne Gentiloni descrive il mosaico di
spiegazioni possibili: dalle scelte dei comandi militari
all’antisemitismo che circolava nelle grandi democrazie dell’epoca,
dallo «scarto fra le informazioni esistenti e la disponibilità a
ritenerle attendibili», come osserva lo storico Walter Laqueur, fino ai
silenzi dell’Urss di Stalin che aveva le maggiori possibilità logistiche
di colpire e disponeva delle più numerose testimonianze sull’Olocausto -
per via degli ebrei che fuggivano a piedi verso la Siberia - ma non
fece nulla per fermare lo sterminio né per accelerare la liberazione di
Auschwitz. Arrivare all’ultima di pagina di Bombardare Auschwitz
significa comprendere la rabbia dei sopravvissuti per il mancato attacco
- che Elie Wiesel ha messo nero su bianco in un pannello al secondo
piano del Museo della Shoah di Washington - come anche il perché la
Seconda guerra mondiale fu una guerra combattuta dagli Alleati per
sconfiggere il nazifascismo ma senza avere la priorità di salvare le
vite gli ebrei d’Europa.
Corriere 23.1.15
Il tesoro nascosto dei piccoli editori
Marchi tenaci e indipendenti contro la dittatura soft del mercato
di Claudio Magris
S
e l’Italia — nonostante la crisi e tante indecenze, improvvisazioni e
incompetenze — sopravvive con tenacia e vitalità, lo si deve non ai
padroni del vapore — spesso incapaci e truffaldini pachidermi di Stato o
del grande capitale, che moltiplicano zeri alla fine equivalenti
realmente a zero — bensì alle piccole imprese e ai lavoratori, sempre a
rischio di essere soffocati e derubati da quella schiuma di zeri. È la
piccola impresa il nucleo del vero liberismo — inseparabile dal
liberalismo, come sosteneva Einaudi nella famosa discussione con Croce, e
inconciliabile con ogni monopolio, pubblico o privato. La vita del
piccolo imprenditore spesso non è più facile di quella dei suoi
dipendenti e la sua, la loro lotta per sopravvivere si fa sempre più
difficile.
Ciò vale pure per la piccola e medio-piccola editoria,
spesso coraggiosa e pionieristica nelle sue iniziative e nelle sue
scelte, sempre più in difficoltà non solo e non tanto con i costi di
produzione quanto con i problemi di distribuzione, con la fatica di far
conoscere la propria attività e i propri libri, di portarli a conoscenza
dei lettori e di renderli visibili in libreria, dove sono schiacciati
dalle pile dei libri — poco importa se buoni o no — più pubblicizzati.
Purtroppo nell’editoria quel predominio e quella dittatura dell’offerta
sulla domanda sono totalizzanti e distruttivi. Non si legge ciò che si
desidera, ciò che si pensa corrisponda ai propri gusti e alle proprie
inclinazioni, ma ciò che viene imposto. Più efficace dei regimi
totalitari, il mercato si impone soft e inesorabile. Pochi cercano i
samizdat ovvero quei libri che oggi sono i nuovi samizdat , pochi
seguono le proprie passioni.
È difficile comperare e dunque leggere
un libro che non si sa che esiste. Io mi sono procurato a fatica un
capolavoro letterario come Il quarto secolo di Édouard Glissant, edito
dalle Edizioni del Lavoro — e difficilmente reperibile sul mercato —
nella splendida traduzione di Elena Pessini. Purtroppo un altro
capolavoro della letteratura contemporanea mondiale, Notizie dall’impero
di Fernando Del Paso — un vastissimo e geniale affresco narrativo,
innovatore nel linguaggio e nella struttura, cui anche personalmente
devo alcune illuminazioni essenziali, tradotto splendidamente da
Giuliana Dal Piaz — è stato pubblicato dalla casa editrice
Imprint-Profeta di Napoli e temo che, a differenza di quanto è accaduto
in tanti altri Paesi, non abbia quasi raggiunto le librerie. Si
potrebbero fare molti esempi. Se Diabasis fosse una grande anziché media
casa editrice, Il signor Kreck di Juan Octavio Prenz sarebbe
probabilmente uno dei libri del giorno. La splendida versione di Renata
Caruzzi di un testo capitale e arduo come Le Elegie Duinesi di Rilke,
pubblicata dalla piccola casa editrice Beit, o la preziosa edizione del
saggio di Hannah Arendt e Günther Stern-Anders sulle medesime elegie
curata da Sante Maletta per la piccola editrice Asterios sarebbero
probabilmente sfuggite anche a me se quelle case editrici non fossero
triestine.
Gli esempi potrebbero e dovrebbero continuare, perché
farne solo alcuni è ingiusto verso gli altri. Una di queste meritorie e
creative case editrici che sono nell’ombra più di quanto meriterebbero
sono le edizioni Hefti, cui si deve una preziosa mediazione della
letteratura soprattutto croata ma anche più in generale
balcanico-adriatica, con particolare attenzione a quel grande dialogo di
secoli passati tra le due sponde di quel mare, che vedeva poeti che si
chiamavano Marko Maruli ma anche Marco Marullo e non certo, come in
sciagurati secoli successivi, per snazionalizzazione imposta dagli
sciovinismi, ma per un libero dialogo che vedeva questi poeti di
Spalato, di Curzola, di Traù scrivere in croato come in latino e in
italiano, nutrirsi del petrarchismo e trasferirlo nella propria lingua e
nella propria tradizione, in un reciproco scambio e arricchimento.
Le
edizioni Hefti hanno operato in questa direzione, facendo conoscere
eccellenti narratori moderni e contemporanei (per esempio Ranko
Marinkovic o Slobodan Novak con le loro storie marine o Predrag
Matvejevic, con la prima edizione italiana del suo Breviario
mediterraneo ). Allo stesso tempo hanno fatto conoscere il fiorire di
traduzioni croate di Dante o Petrarca o italiane di Krleža, spesso
grazie al lavoro di Ljiljana Avirovic, straordinaria traduttrice
dall’italiano in croato e dal croato o dal russo in italiano, con una
doppia valenza che è già realtà concreta di quel dialogo fra culture. Ma
le edizioni Hefti hanno pubblicato ad esempio pure una grammatica della
lingua croata di Marina Lipovac Gatti e una folta Antologia della
poesia croata contemporanea , curata anch’essa da Marina Lipovac Gatti,
che permette di fare i conti a fondo con la travagliata, vitale,
drammatica letteratura di un Paese che ha vissuto, come in un
concentrato, le lacerazioni e le tragedie d’Europa.
Una vera gemma è
la Judita di Marco Marulic, edita nella ristampa della II edizione del
1522 e nella versione italiana (con testo a fronte) di Lucia Borsetto,
che rende con forza poetica questo testo che si affianca alle altre
grandi Giuditte — l’eroina biblica che salva il suo popolo uccidendo
Oloferne — della letteratura europea, a cominciare da quella del grande
tragico barocco italiano Federico Della Valle. Sì, forse una volta, in
quei secoli cui si guarda dall’alto del nostro progresso, esisteva
l’Europa, che ora sembra sfaldarsi.
Corriere 23.1.15
Curare persone, non malattie Il vero medico è colui che sceglie
di Giangiacoimo Schiavi
N
on è facile dire a un paziente che il suo tempo è finito. Non è facile
parlare di morte. Ma è giusto prolungare l’agonia a tutti i costi,
aumentando le sofferenze anziché alleviarle? Fare il medico vuol dire
entrare in un campo seminato di dubbi e assumersi il coraggio di una
scelta. Anche quella di staccare la spina. Domandatevi se aiutare a
morire è sempre eutanasia, e preparatevi a scegliere da che parte stare.
Giuseppe Remuzzi, medico e scienziato, scuote l’albero sul quale sono
rimasti appollaiati per anni molti suoi colleghi e invita la categoria a
un esame di coscienza: «Vediamo sempre la morte come una sconfitta, non
dovrebbe più essere così… Aver aiutato qualcuno a morire bene, a casa
sua, con un po’ di morfina se ha dolore, fra le sue cose e chi gli vuole
bene è un grande traguardo a cui dovremmo tendere sempre».
Ci vuole
coraggio a esporsi denunciando ipocrisie e retorica sulla dignità della
vita, ma per Remuzzi è ora di uscire da un equivoco che in Italia
provoca conflitti etici e politici. «C’è dignità nell’agonia in un
reparto di rianimazione, dopo mesi di incoscienza e di ventilazione
meccanica?». La sua fiducia nei medici, negli ospedali, nella battaglia
quotidiana per vincere il male, non cancella un giudizio che diventa
severa autocritica: per i malati non abbiamo fatto abbastanza. «Quanti
medici del mio ospedale hanno voglia di andare al di là di quello che
devono fare comunque?», si chiede Remuzzi. Spesso l’adempimento tecnico
prevale sulla partecipazione umana: si cura la malattia, non la persona.
I pazienti però non sono macchine in avaria. Se non c’è umanità,
comprensione della sofferenza, presa in carico, se non ci sono pietas e
un po’ di empatia, non c’è buona medicina.
La scelta (Sperling
& Kupfer) non è un libro sulla sanità. È il bilancio di un
primario, immunologo, ricercatore, autore di oltre 1.200 pubblicazioni
scientifiche, unico italiano a far parte dei board di «The Lancet» e
«New England Journal of Medicine». Quasi un radar per una professione
che deve ritrovare passione e competenza. E un grido di rabbia, per la
burocratizzazione che ha spersonalizzato un’arte, ridotto l’ascolto,
miniaturizzato il tempo a disposizione per una visita. «Dobbiamo
cambiare noi per primi, i nostri medici migliori dovrebbero poter
ritrovare le motivazioni che oggi negli ospedali sono venute meno».
Il
medico ideale di Remuzzi non è un santo guaritore: è un uomo o una
donna chiamato a fronteggiare non solo la malattia, ma il senso di
disgregazione della persona malata, la sua perdita d’immagine,
l’emarginazione e la solitudine. Deve prendere decisioni rapide, magari
di notte, quando si è troppo stanchi e si ha paura di sbagliare. Gli si
chiede di dire la verità senza togliere la speranza. Di interrompere o
continuare una terapia. Lo fa? Non sempre, secondo Remuzzi. Spesso non
decide. Si affida alla legge o lascia il compito al magistrato di turno.
Ma certe scelte non si possono delegare. «Scegliere, decidere, fa parte
delle nostre responsabilità, a tutela di chi non dovrebbe subire
trattamenti inappropriati e dei tanti che, invece, delle cure intensive
hanno bisogno per vivere».
C’è anche la rivendicazione di una
coscienza medica, una coscienza che i casi di Eluana, Stamina e Di Bella
hanno scosso e turbato. E un richiamo all’università: non si diventa
dottori con i quiz. È meglio saper parlare senza arroganza con chi sta
dall’altra parte che conoscere chi ha scritto Barbablu . Remuzzi ci
mette la faccia e l’esperienza: come quella volta con Celentano, che
definì “una cazzata” la legge sui trapianti. Lui reagì e andò in tv. «Il
trapianto vuole dire vita», scrisse sul «Corriere». Il molleggiato si
scusò. Vuol dire che manca la giusta informazione, disse. A volte è
vero, a volte è solo un alibi. Oggi difendiamo il diritto universale
alla salute, ma dopo anni di sprechi i budget sono sempre più stretti.
«È un errore spendere il 30% dei bilanci della Sanità per gli ultimi sei
mesi di vita di persone molto malate», afferma Remuzzi. «Capita che in
certi ospedali non si trovi posto in rianimazione per un ragazzo con la
meningite. O meglio: il posto ci sarebbe ma è occupato da qualcuno molto
anziano, quasi sempre incosciente, che non ha nessuna prospettiva di
vivere o di avere una vita di relazione anche minima...».
La morte
resta il convitato di pietra di un libro duro e tenero insieme. «Il più
delle volte ce l’hai di fronte. E devi sapere cosa fare». Il mio miglior
amico è il campanello, gli ha detto un giorno un malato in dialisi. Era
Natale e doveva andare a casa. «Lasciatemi qui, è triste il Natale a
casa, da solo con una badante...». Nessuno pensa a questi esodati della
vita. «Medici e infermieri non dedicano quasi mai abbastanza attenzioni a
chi sta per morire», scrive Remuzzi. Faceva meglio Oscar, il gatto
dello Steere Hause Nursing Center di Providence, Usa. Tra i malati di
Alzheimer aveva imparato a prevedere chi stava per andarsene e si
accucciava davanti al suo letto. In quell’ospedale c’è una targa: «Per
Oscar e la sua attenzione a quelli che hanno più bisogno». Non si
dovrebbe mai morire soli.
Repubblica 23.1.15
Norberto Bobbio “Altro che cultura per me il fascismo fu solo retorica”
Nel carteggio del ’76 con Luisa Mangoni lo studioso difende le sue tesi: “Un’era di cortigiani e adulatori”
di Simonetta Fiori
NEL
1976 Norberto Bobbio è già uno studioso influente, 67 anni, preside
della Facoltà di Scienze Politiche a Torino. Da diversi decenni i suoi
volumi sul rapporto tra cultura e politica orientano la scena
intellettuale italiana. Tre anni prima era uscito il saggio Cultura e
fascismo, destinato ad accendere un grande dibattito. Bobbio è persuaso
che non sia mai esistita una “cultura fascista”. Il regime aveva
prodotto molta retorica ma non opere importanti, titoli spartiacque, in
una parola una tradizione intellettuale: chi poteva dire il contrario?
Ecco farsi avanti una giovane studiosa, Luisa Mangoni, Marisa per gli
amici.
Ha 35 anni, quasi la metà del suo autorevole interlocutore.
Rigorosa e schietta, meticolosa e dolcissima. Gli dà dell’«arretrato».
Dice proprio così: «l’impostazione del professor Bobbio appare
arretrata». Lo fa durante una conferenza a Bologna. E il pubblico
l’ascolta con attenzione: nel 1974 era uscito da Laterza il suo libro
L’interventismo della cultura, destinato a cambiare lo sguardo sul
rapporto tra ceto intellettuale e regime. In quelle pagine moriva
l’equazione tra fascismo e “non cultura”.
Da quello scambio a
distanza tra l’appassionata studiosa e l’illustre professore ebbe
origine il carteggio inedito che ora pubblichiamo grazie allo storico
Innocenzo Cervelli, marito della Mangoni mancata un anno fa. Un
pacchetto di lettere, dal 21 marzo del 1976 al 16 marzo del 1977, che
lumeggiano da una parte il singolare profilo intellettuale di Bobbio,
maestro generoso che non parla mai ex cathedra, disponibile nello
sperimentare i suoi stessi limiti, umile e insieme pedagogico.
Dall’altra, la sicurezza intellettuale di una giovane donna che non
arretra, però se occorre è pronta al ripensamento, mette a fuoco e
rilancia. Un metodo di lavoro che avrebbe mantenuto nel corso della sua
vita di ricercatrice, forse non pienamente riconosciuta dall’università e
alla quale oggi rende omaggio un convegno dell’Istituto Gramsci. Da
Adriano Prosperi ad Albertina Vittoria, da Francesco Barbagallo a
Giuseppe Ricuperati, saranno in tanti ad evocare i suoi studi sulla
storia degli intellettuali nel loro rapporto con il potere e la
politica, le sue poco convenzionali ricerche sulle case editrici Einaudi
e Laterza (quest’ultima interrotta dalla scomparsa), il ruolo
pionieristico «nell’analisi della cultura intesa nei suoi aspetti
organizzativi e nella sua volontà di avere voce in capitolo nella sfera
della società e dello Stato», come spiega Giuseppe Vacca, ideatore del
seminario.
Ed è questo l’aspetto più innovativo che emerge anche dal
confronto con Bobbio. Per lo studioso la cultura è «il patrimonio
intellettuale e morale di una nazione », «opere destinate a durare nel
tempo, a dare vita a una tradizione ». Mangoni liquida questa
definizione come “riduttiva”. «A me pare che da un lato Lei privilegi
un’idea di alta letteratura di impronta marcatamente aristocratica »,
gli scrive il 29 marzo del 1976. «E dall’altro evada il significato
della cultura in rapporto allo Stato e alla società civile, che è
un’altra cosa rispetto alla organizzazione, alla propaganda, alla
stressa manipolazione del consenso». Secondo Mangoni la cultura e gli
intellettuali «non si spiegano tautologicamente con se stessi, ma solo
in relazione allo Stato e alla società». Per questo contesta a Bobbio
anche il giudizio sul “nicodemismo”, ossia quel fenomeno di infingimento
che Eugenio Garin aveva condannato tra gli intellettuali italiani sotto
Mussolini: antifascisti nell’intimo ma pronti a ricevere onori e
prebende dal regime. «Non vedo come la dissimulazione produca cultura»,
le aveva scritto Bobbio nella lettera del 21 marzo. «Produce quella
letteratura tra cortigianesca e adulatoria di cui gli intellettuali
italiani sono stati prodighi in tutte le epoche ». Mangoni rilancia:
anche il nicodemismo è una zona di opacità che deve essere indagata.
«Come interpretare altrimenti la recensione di Delio Cantimori a Ugo
Spirito nel 1937?».
La discussione sarebbe andata avanti per alcuni
mesi. Era una stagione di grande fermento, alla metà dei Settanta.
Uscivano libri che ampliavano lo sguardo sul fascismo e sul Novecento.
Beppe Vacca ricorda che nel 1974, insieme all’Interventismo della
cultura , furono pubblicati Gli intellettuali del X-X secolo di Eugenio
Garin e Gli anni del consenso , il terzo volume della biografia
mussoliniana di Renzo De Felice. Cambiavano i parametri e la polemica
culturale era quasi quotidiana, come questa tra Bobbio e Mangoni. Lui
sembra anche divertito da questa inattesa «esecuzione sommaria condotta
sui sacri testi» (che poi sarebbero Gramsci e Togliatti), ma non si
lascia convincere. «Quando mi chiedo se ci sia stata una cultura
reazionaria vado a cercarla nei grandi scrittori come Nietzsche o
Pareto, cioè proprio in opere destinate a durare nel tempo. E sulle
quali tutte le epoche tornano per reinterpretarle e discuterle». In
fondo dell’azione culturale svolta da Giuseppe Bottai — personaggio
simbolo scelto da Mangoni per il suo ragionamento — non è rimasto
niente. «Si è sciolta come nebbia al sole», dice Bobbio. Sopravvive
invece l’insopportabile retorica dei tanti giovani costretti
all’ossequio. Ma la retorica è cultura?, la provoca in una lettera del
27 aprile. «Bisogna risalire alle radici più profonde », replica la
studiosa nel giugno del 1976. Lei si accingeva all’opera proprio in quei
mesi, persuasa che alcune componenti ideologiche e strutturali del
fascismo fossero sopravvissute nella giovane democrazia, «dal
capitalismo monopolistico di Stato alla concezione corporativa della
società». Tutti temi su cui avrebbe continuato a studiare, con puntiglio
ed umiltà. Scavando nelle zone d’ombra dell’intellettualità italiana,
senza mai lasciarsene avvolgere.
Repubblica 23.1.15
Le lettere mai pubblicate
Cara, quel regime creò tanto rumore per nulla
di Norberto Bobbio
TORINO,
21 marzo 1976 Gentile dottoressa, ho letto con vivo interesse il suo
articolo sulla cultura e il fascismo, e le osservazioni critiche ivi
contenute nei riguardi della mia (malfamata) tesi sull’inesistenza della
cultura fascista. Alcuni mesi fa scrissi un nuovo articolo sul tema,
che le mando (...). Come vede, sono recidivo. Sono recidivo perché mi
pare che sino ad ora gli avversari ai miei argomenti rispondano o
spostando la discussione sul cedimento degli intellettuali (che io non
ho mai contestato ma che è un problema completamente diverso) oppure
parlando d’altro, per esempio dell’organizzazione della cultura promossa
con tanto strepito (se pure con scarsi risultati) dal regime. (...) Non
posso dire che questo suo articolo, pur interessante (e non poteva
essere altrimenti provenendo dall’autore di un libro importante come
L’interventismo della cultura ) e ricco di spunti (su cui intendo
riflettere), m’induca a cambiare idea. Ma non insisto. Mi domando
soltanto perché lei consideri arretrato (arretrato rispetto a cosa?) il
mio modo di porre il problema (...). Perché è arretrato chiedere che si
finisca di fare discorsi generici pro o contro il fascismo, e si faccia
un esame serio di quel che è rimasto della cultura durante il fascismo?
Non è la stessa cosa che chiede lei? A un certo punto lei per dimostrare
la mia arretratezza parla del nicodemismo e dice che la tesi di Garin
sul nicodemismo rappresenta «un notevole passo avanti rispetto alla tesi
di Bobbio ecc.». A parte il fatto che del nicodemismo avevo parlato
anche io indipendentemente da Garin (vedi Fascismo e cultura , ...), e
in maniera molto esplicita, e credo precisa, mi pare che il nicodemismo
sia uno degli argomenti più forti a favore della mia tesi. Non vedo come
la “dissimulazione” produca cultura. Produce questa letteratura
cortigianesca e adulatoria, di cui gli intellettuali italiani sono stati
prodighi in tutte le epoche.
Coi più cordiali saluti Norberto Bobbio
TORINO
, 16 marzo 1977 Gentile signora, la ringrazio dell’estratto del suo
articolo su cesarismo ecc. Un bel tema, che mi piacerebbe però vedere
sviluppato meglio anche concettualmente. Lei per esempio accenna a un
certo punto alla distinzione tra cesarismo e bonapartismo, poi se non
sbaglio non la riprende più. Così il problema del rapporto tra
cesarismo, democrazia di massa e capo carismatico, da cui parte,
andrebbe meglio approfondito anche riguardo a Gramsci, che cita Michels a
proposito del capo carismatico in un famoso passo sulla demagogia in
senso negativo e sulla demagogia in senso positivo. Il tema del capo
carismatico è un tema che entra con forza nelle discussioni di quegli
anni tra coloro che si rendono conto che è cominciata l’era della
democrazia di massa (della “ribellione delle masse” per dirla con una
espressione nota e negativa). Dal momento che lei ha dedicato l’ultima
parte del suo articolo a Gramsci, perché non analizzare il suo pensiero
anche su questo punto? Chi è “il demagogo superiore”? È anche lui un
capo carismatico? Come mai tutta la teoria politica marxistica anche
dopo Michels e dopo Weber non ha mai parlato volentieri del capo
carismatico? (...) Cordiali saluti Norberto Bobbio
Repubblica 23.1.15
Omicidio o morte naturale? In Cile si riapre l’inchiesta sulla fine di Pablo Neruda
SANTIAGO
DEL CILE Si riapre l’inchiesta sulla morte di Pablo Neruda e questa
volta il governo cileno sarà parte in causa. La salma del poeta era
stata riesumata nel 2013 e le analisi avevano dato esito negativo: non
c’erano tracce di agenti chimici, nessuna prova per sostenere
l’omicidio. Eppure il Partito comunista e i nipoti di Neruda hanno
chiesto di sottoporre i resti a nuovi esami. Non credono alla versione
ufficiale, quella della morte per cancro dodici giorni dopo il colpo di
stato che portò al potere Augusto Pinochet. Il primo a sollevare dei
dubbi fu il suo autista: raccontò che un medico gli iniettò una sostanza
che fece peggiorare rapidamente le sue condizioni. «Gli indizi puntano a
un possibile intervento di alcuni agenti dello Stato, per cui il caso
potrebbe costituire un crimine di lesa umanità», ha spiegato Francisco
Ugas, responsabile dell’area dei diritti umani nel ministero degli
Interni.
Repubblica 23.1.15
Che cosa si può fare per abolire il carcere
Da anni si discute su come arrivare a una giustizia riparativa che superi la detenzione retaggio della premodernità
di Gustavo Zagrebelsky
La
reclusione non si concilia con la dignità umana e toglie il diritto al
proprio tempo Sono più coerenti sanzioni risarcitorie che costringano a
vivere, ma cambiando vita *
IL CONVEGNO
Il testo di Gustavo
Zagrebelsky riassume la lezione che l’ex presidente della Corte
Costituzionale tiene questa mattina al Dipartimento di giurisprudenza
dell’Università Roma Tre. Con Zagrebelsky interviene l’altro ex
presidente della Corte, Gaetano Silvestri
IL carcere non è
semplicemente privazione della libertà, come nel caso di un sequestro di
persona. È qualcosa di qualitativamente diverso. Il sequestrato sa che
la sua condizione è arbitraria e deve cessare il più presto possibile e
che, fuori, c’è chi si dà da fare a questo fine. La vita continua
nell’attesa.
Una volta c’erano i “cantacronache”.
Un bellissimo
testo di vita e d’amore del 1959 — autore Fausto Amodei —, contiene una
lezione di filosofia morale che nell’ultimo verso dice: «Basta che non
ci debba mai mancare qualcosa d’aspettare». Ciò che possiamo aspettare è
ciò che trasforma la mera esistenza biologica in vita. Vorrei ricordare
una considerazione che viene da un uomo che il carcere l’ha conosciuto
davvero e a lungo, Vittorio Foa. Per il detenuto comune non sorretto da
una fede religiosa o politica, dice, «non c’è futuro. La speranza di
salvezza viene meno. Il tempo si svuota. Si ripensa il passato o ci si
rappresenta il futuro come in un’esteriore contemplazione priva di
legami con la volontà ormai assente. (…) Le privazioni materiali del
carcere sono poca cosa o comunque cosa alla quale l’organismo umano si
adatta con facilità, (…) il peso reale della detenzione consiste solo
nel progressivo svanire della volontà col decorso del tempo», cioè nella
decomposizione dell’essere umano in conseguenza dell’espropriazione e
della nullificazione del tempo ( Psicologia carceraria, in il Ponte,
1949, pagg. 299 e sgg.).
Il possesso del tempo della propria vita non
è precisamente ciò che distingue gli esseri umani dalle cose che non
hanno tempo e dagli animali la cui esistenza è ancorata agli istanti di
un continuo presente privo di prospettiva? Per questo, la conciliabilità
del carcere con la dignità umana appare un’illusione: una nobile
illusione, ma pur sempre illusione. Si potranno mettere in atto tutte le
misure possibili per alleviare le sofferenze e rendere sopportabile la
condizione carceraria, ma non si potrà eliminare l’amputazione del primo
diritto dell’essere umano: il diritto al proprio tempo. Nel nudo
concetto del carcere percepiamo con turbamento questa mutilazione di
umanità, ogni volta che mettiamo piede in uno “stabilimento
penitenziario” o anche, soltanto, passiamo a fianco di muraglioni, grate
e bocche di lupo (dove ancora esistono) e pensiamo al mondo che esiste
al di là, fermo mentre tutto il resto scorre.
Si dirà: ma le cose non
stanno così. Il regime penitenziario è oggi molto più complesso di
quello che prese corpo nelle politiche di ordine pubblico dell’Antico
Regime e si è perfezionato nelle società borghesi dell’‘800. La condanna
a pene detentive non esclude benefici che mirano al superamento della
condizione di separatezza e di abbandono, e a promuovere il
reinserimento sociale: dalla legge Gozzini del 1986 in poi, sono
possibili, per chi le merita, varie “misure alternative” e “pene
sostitutive” (affidamento in prova ai servizi sociali, semilibertà,
liberazione anticipata, detenzione domiciliare, permessi-premio, ecc.).
Questo è vero ma, a parte le umiliazioni cui talora ci si sottopone per
ottenere il “rapportino” favorevole alla concessione del beneficio, si
tratta per l’appunto di misure alternative al carcere, cioè di misure
non carcerarie . Questa è la riprova d’una ovvietà: il carcere è il
carcere e, per sfuggire alla sua logica, occorre il non-carcere. Per
venire incontro a ciò che la dignità implica bisogna uscire dal carcere.
Il carcere è la sanzione ufficiale dell’indegnità delle persone.
Mentre
tutto cambia, il carcere è ancora il centro del sistema delle sanzioni.
La sua funzione è quella del capro espiatorio dei mali della società.
Possibile che questo retaggio del mondo premoderno resti insediato al
centro del rapporto — un rapporto la cui necessità non può negarsi —
delitto- castigo, delinquente-sicurezza? Non ci sorprende che, su una
questione cruciale come quella delle sanzioni penali, si sia fermi a una
soluzione immaginata in una società dell’esclusione sociale come quella
dello Stato assoluto, in cui ha svolto la funzione di simbolo di
dominio? Cresce l’attenzione per il miglioramento delle condizioni nelle
carceri e per l’attuazione e il sostegno delle misure alternative: enti
locali, Università, associazioni di volontariato vi si dedicano a
livello locale, nazionale ed europeo. Si vogliono riforme di contorno,
ma il carcere resta ad occupare il centro della scena.
Diciamo che la
commissione d’un crimine fa sorgere nel colpevole il dovere di “pagare
il suo debito” alla società. Il carcere è un modo efficace di saldare
questo debito? Evidentemente no. È solo il modo di soddisfare una
pulsione sociale che richiede segregazione ed espiazione attraverso il
dolore. Che cosa ne ottiene la società, se non la moltiplicazione di
figure come quella del folle geraseno che si chiamava “legione”( perché
erano in molti) del racconto evangelico di Marco (5, 1-20), oggetto
della magistrale interpretazione di Jean Starobinsky ( Il combattimento
con Legione, in Tre furori, SE, 2006, pagg. 66 e sgg.) e di René Girard (
Il capro espiatorio , Adelphi,1987, pagg. 257 e sgg.)? Non sarebbe più
coerente una sanzione restitutoria e risarcitoria del danno commesso,
con gravosi interessi che intacchino le stesse condizioni di vita del
condannato il quale, dopo la condanna, non possa disporre delle medesime
di prima? Che lo costringano a vivere, ma cambiando vita?
Diciamo
anche che il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In
una società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non
dovrebbe il diritto mirare a riparare quella frattura? Da qualche tempo
si discute di giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa. Studi
sono in corso, promossi anche da raccomandazioni internazionali. Si
tratta di una prospettiva nuova e antichissima al tempo stesso che
potrebbe modificare profondamente le coordinate con le quali concepiamo
il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto sociale; da
individuo rigettato dalla società a individuo che ne fa pur sempre
parte, pur rappresentandone il lato d’un rapporto patologico. Qualcosa
si muove, nella giustizia minorile, nei reati punibili a querela. Ma
molto resterebbe da fare.
C’è una spiegazione del tradizionale
insufficiente interesse della classe dirigente per questi temi. Nel
nostro mondo gli status sociali sono aboliti, ma non rispetto al
carcere. Il carcere è per chi, nella vita, ne ha già viste di tutti i
colori, cioè per i predestinati, coloro che stanno ai margini. Ci
immaginiamo uomini della grande finanza, della grande industria, della
grande politica che dividono i pochi metri d’una cella con persone
“comuni”, che si arrampicano sulla brandina, che usano il bugliolo unico
per ogni cella (dove ancora esiste), che tendono le mani fuori delle
grate, che magari devono rivolgersi all’agente di custodia chiamandolo
“superiore” (dove è ancora così)? Se ci sono, sono eccezioni che
confermano la regola. Quando i legislatori legiferano, i governanti
governano, gli amministratori amministrano vale una sorta d’implicita
divisione psicologica: trattano di problemi estranei alla loro vita, che
suppongono non possano riguardarli. Si spiega che non ci sia urgenza di
affrontarli.
Repubblica 23.1.15
I fantafigli
Gli
scienziati già profetizzano: “In futuro, i maschi si potranno riprodurre
senza donne”. In un laboratorio di Cambridge sono stati creati
spermatozoi e cellule uovo dalle staminali
È la prima volta che si
riesce a farlo nell’uomo. Un risultato che apre scenari fino a ieri
inimmaginabili, anche se non così prossimi
di Silvia Bencivelli
I
BAMBINI non li porta la cicogna. Non nascono nemmeno sotto i cavoli. I
bambini del ventunesimo secolo nascono sempre più spesso grazie
all’aiuto della scienza e della medicina. E quelli del ventiduesimo?
Staremo a vedere. Per la prima volta, infatti, un gruppo di ricercatori
di Cambridge è riuscito a costruire le delicate cellule della
riproduzione al di fuori di testicoli e ovaia. Partendo dalle cellule
staminali e dimostrando che, un giorno, potremmo avere cellule uovo e
spermatozoi pronta consegna, ricavati in laboratorio laddove la natura
non riesca a pensarci da sé.
La fantabiologia già vorrebbe parlare di
uomini che si riproducono senza donne, di mammenonne eternamente
fertili, di scienziati Frankenstein a capo di fabbriche di bambini. Ma
la realbiologia, per fortuna o purtroppo, è decisamente meno fantasiosa.
In compenso è molto più interessante, perché preannuncia non solo una
rivoluzione nelle terapie per la sterilità, ma anche la comprensione,
per esempio, di come e perché in età avanzata fare figli sia più
difficile, anche col metodo tradizionale che conosciamo tutti.
La
ricerca proviene dal Gurdon Institute di Cambridge, l’istituto per la
ricerca sulle cellule staminali fondato dal premio Nobel per la medicina
2012 John Gurdon. Lo scienziato inglese è nella storia dalla fine degli
anni Cinquanta per avere clonato un vertebrato (in quel caso il girino
di una rana acquatica) a partire da una cellula già matura. Era la prima
volta che la biologia viaggiava nel tempo, tornando indietro da una
cellula adulta a una cellula di embrione, e poi avanti da quella cellula
a un intero organismo adulto uguale all’organismo di partenza. Ed era
l’inizio della ricerca sulle cellule staminali. Ma a quel tempo
l’obiettivo di Gurdon non era né la clonazione né tantomeno la
produzione di staminali. Era capire che cosa fosse contenuto nel Dna
delle singole cellule e se ciascuna avesse in sé tutte le informazioni
che costruiscono l’intero individuo. Un obiettivo molto di base,
insomma.
Oggi, con John Gurdon ultraottantenne ma ancora attivo a
Cambridge tra microscopi e provette, i viaggi nel tempo della biologia
hanno risolto un nuovo problema. La ricerca ha infatti permesso di
produrre i precursori delle cellule uovo e di spermatozoi in una sola
settimana, a partire da cellule staminali embrionali e persino da
cellule della pelle, quindi adulte e specializzate. È la prima volta che
si riesce a farlo nell’uomo. Mentre nel 2012 un gruppo di scienziati
giapponesi era riuscito a far nascere topolini da cellule uovo prodotte
in laboratorio. E in precedenza si erano ottenuti in maniera analoga
spermatozoi nuovi di zecca. Nell’uomo mancava un tassello chiave, cioè
il gene capace di innescare il processo. Oggi questo ha un nome: SOX17. È
un gene che nel topo non sembra avere nessun ruolo. E per Azim Surani,
che ha diretto la ricerca, è una sorpresa: «I topi sono il modello
chiave per lo studio dello sviluppo dei mammiferi », ha dichiarato al
Guardian. Ma, evidentemente, ha proseguito, «questa estrapolazione non è
sempre affidabile». Quindi la ricerca ha bisogno di utilizzare anche
cellule umane, se vuole studiare l’uomo.
Quanto alle prospettive
fantabiologiche, ci si può divertire a immaginare mondi in cui ciascuno
di noi produce cellule uovo e spermatozoi dalle cellule della pelle e si
riproduce da solo o con partner dello stesso sesso, superando una
barriera biologica che oggi è insormontabile. Ma c’è una differenza tra
uomini e donne che balza agli occhi. I maschi hanno un genoma di 46
cromosomi di cui due sessuali: un X e un Y. Perciò negli spermatozoi
mettono 23 cromosomi, di cui uno solo sessuale, che può essere X (allora
la prole è femmina) o Y (e allora sarà un maschietto). Mentre le
femmine hanno comunque 46 cromosomi, ma i due sessuali sono entrambi X.
Quindi nelle cellule uovo mettono 23 cromosomi di cui sempre una X.
Questo
ha portato qualcuno a pensare che un giorno gli uomini potranno farsi
costruire in laboratorio cellule germinali dotate alternativamente di X e
di Y, sia spermatozoi sia cellule uovo. Mentre che per le donne
l’offerta sarà solo di cellule con X. Ma Surani rallenta gli entusiasmi,
e le fantasie: «Non è impossibile che un giorno costruiremo cellule di
questo tipo. Ma come saremo capaci di usarle è un’altra questione, che
affronteremo in un altro momento». Insomma: lasciateci lavorare e non
esagerate con la fantabiologia. Questa «è il punto di partenza per nuovi
lavori», insiste. E, come nel caso del giovane John Gurdon di
sessant’anni fa, ha poco senso decidere oggi che quali saranno.
La
prospettiva certa è intanto quella di una svolta nel trattamento delle
infertilità: situazioni oggi molto frequenti per cui ogni progresso
nella terapia è necessario e benvenuto. Ma c’è già qualche idea in più.
Gli scienziati del Gurdon Institute insistono a dire che la loro ricerca
non avrà conseguenze solo in ambito riproduttivo. Per cominciare,
dicono, sarà utile per capire le malattie dell’invecchiamento legate ai
danni da fumo, da cattive abitudini alimentari, da esposizione a
sostanze chimiche. Danni che affliggono le cellule normali, ma che
vengono cancellati a un certo punto dello sviluppo delle cellule
germinali, permettendo al loro Dna di ricominciare una nuova vita in cui
le colpe dei padri non ricadono sui figli. «La nostra ricerca ci potrà
far capire come si cancellano queste mutazioni », spiega Surani. Come
dire che, con la giusta ambizione della realbiologia, non cambierà solo
il nostro modo di riprodurci, ma cambierà tutta la nostra vita. E che
quando avremo a che fare con cellule uovo e spermatozoi non si tratterà
più necessariamente di vecchie storie di cavoli e cicogne.
Repubblica 23.1.15
Ecco perché servono le sfide impossibili
di Elena Cattaneo
LA
SCOPERTA di Azim Surani ha radici già storiche. Era il 1998, e con tre
pagine su Science scienziati americani descrivevano l’isolamento delle
cellule staminali embrionali da blastocisti (sovrannumerarie) umane.
Rivoluzionarono così alcuni preconcetti ed esposero il mondo occidentale
a nuovi conflitti bioetici, con alcune immancabili chiusure. Da quelle
staminali si poteva prevedere di ottenere tutte le cellule specializzate
dell’organismo. Con quelle staminali pluripotenti si cominciarono a
immaginare percorsi conoscitivi e terapeutici impensabili prima.
Seguirono anni d’intenso lavoro in laboratorio, sempre col “freno a mano
tirato” a causa di alcune legislazioni, inclusa quella italiana.
Tuttavia il progresso delle idee non si fermava. Ne risultò una valanga
di competenze e risultati, oltre alla meraviglia e allo stupore che
queste cellule alimentavano, in quanto aprivano una finestra per vedere e
studiare in un piattino di laboratorio eventi della fisiologia umana
cui mai avremmo potuto accedere. Ora sappiamo governare meglio il
destino di quelle staminali per ottenere, ad esempio, cardiomiociti o
quei neuroni dopaminergici la cui degenerazione scatena il Parkinson.
Tanti gli aspetti scientifici risolti, molte le nuove sfide, anche
cliniche.
Nel 2004 un altro giro di boa: tre laboratori ottengono da
quelle embrionali (di topo) cellule simili ai gameti. Anche in questo
caso la scienza non rinunciò afsporadico fatto ad affrontare le
problematiche sollevate dai percorsi conoscitivi intrapresi. A far da
pionieri furono Giuseppe Testa (docente alla Statale di Milano e biologo
molecolare dell’Istituto Europeo di Oncologia nonché bioeticista) e
John Harris (dell’Università di Manchester) che, con un articolo su
Science, aprirono la discussione sulle implicazioni etiche associate
alla produzione in vitro di gameti da staminali. Molti i risvolti
analizzati e approfonditi. Coppie infertili potevano, forse, intravedere
la possibilità di ottenere gameti attraverso la riprogrammazione delle
loro cellule mediata dal trasferimento nucleare somatico. Testa e Harris
anticiparono, loro stessi, anche un pensiero provocatorio: quello di
due uomini che avrebbero potuto realizzare i loro eventuali desideri di
genitorialità attraverso un figlio il cui genoma avrebbe avuto il
contributo di entrambi, con un gamete ottenuto attraverso la normale
spermatogenesi e l’altro mediante riprogrammazione verso la linea
germinale femminile. E l’anno scorso proseguirono anticipando le
ulteriori implicazioni etiche e politiche che la scoperta di Surani fa
ora scaturire.
Non era passato troppo tempo (siamo nel 2006), e la
scoperta delle cellule iPS infrangeva un altro dogma (quello
dell’immutabilità delle nostre cellule specializzate) e, con esso, le
ipotesi sopra descritte diventavano “teoricamente” più attuabili. Fu
infatti chiaro agli scienziati sin da subito (meno a coloro che si
approcciano alla scienza in modo e ideologico) che le iPS, salutate
entusiasticamente come l’alternativa etica alle embrionali umane, erano a
loro volta fonte di acceso conflitto etico per la possibilità che
rappresentano di ottenere gameti da fibroblasti di ogni individuo. La
pubblicazione di Surani, chiude il cerchio e dice che tecnicamente “si
può”. Sottolineando, una volta di più, come la scienza renda pubbliche
le opportunità che scopre affinché siano analizzate sia per i loro
vantaggi che per le riflessioni che sollevano. Tra queste, quella che
gli uomini possano riprodursi autonomamente riprogrammando le cellule
della propria pelle a diventare ovocita e spermatozoo, poi generando un
embrione mediante fertilizzazione in vitro per poi accedere ad una madre
surrogata. Ma bisogna chiarire una serie di cose.
Prima di tutto che
la pubblicazione di Surani è “distante anni luce” non solo da questo
obiettivo ma anche dal più semplice intento di usare gli eventuali
gameti umani, ottenuti dalle iPS, in coppie infertili o, per fare un
altro esempio, per rimediare a quei drammatici casi di sterilizzazione
biologica involontaria ancora reali in alcune parti del mondo. Molto
resta, infatti, da capire sull’efficacia dei gameti umani che si
formerebbero. Ci sono prove che gameti maschili e femminili ottenuti da
iPS di topo generano una progenie. Tuttavia mancano informazioni circa
la longevità e le caratteristiche di questi topolini ed è, allo stato
attuale, impensabile un simile procedimento nell’uomo. Non per questo
però lo studio di Surani perde la sua enorme importanza. La sua vera
forza sta, al contrario, nell’avere scardinato (ancora una volta)
“l’irraggiungibilità conoscitiva” di processi fisiologici che altrimenti
mai potremmo analizzare, come ad esempio la formazione dei progenitori
degli spermatozoi e degli ovociti e la loro maturazione. Partendo dalle
iPS umane sarà anche possibile disporre, nel piattino, di gameti da
soggetti fertili e infertili per poi studiare “dal vero” alcuni degli
eventi che provocano l’infertilità nell’individuo.
Bisogna quindi
chiarire bene che la “fantabiologia” è sempre esterna ai laboratori.
Dentro ci sono persone che studiano, lavorano e si cimentano in sfide
spesso inimmaginabili, ma con vantaggi per tutti. Spesso, se non sempre,
coltivando la speranza di essere capiti, oltre che utili.
Docente, Università degli Studi di Milano