venerdì 23 gennaio 2015

Corriere 23.1.15
Crisi al vertice della «Società Heidegger»
di A. Car.


Giunge a una svolta il caso Heidegger, esploso dopo la pubblicazione della prima parte dei Quaderni neri, i taccuini filosofici del pensatore tedesco, rimasti a lungo inediti, dai quali emerge in modo evidente il suo antisemitismo. Il presidente della «Società Martin Heidegger» tedesca, Günter Figal, si è infatti dimesso dall’incarico, dicendo di non voler più in alcun modo rappresentare una figura capace di affermazioni che ritiene di natura patologica. Dissente però da Figal la vicepresidente della Società Heidegger, Donatella Di Cesare: «Il nostro compito è promuovere una discussione critica, come quella adesso in corso a Parigi nel convegno “Heidegger e gli ebrei”. Avevo chiesto di prendere iniziative simili in Germania, ma Figal è rimasto inerte. Mi pare incomprensibile che adesso si dimetta». Di Cesare e Figal sono invece d’accordo nel chiedere che gli eredi di Heidegger mettano tutte le carte del filosofo a disposizione degli studios.

La Stampa 23.1.15
Rodotà: no a un partito Sel più dissidenti Pd

«Mentre capisco la scelta del papa straniero Tsipras, non condivido l’idea di una Syriza italiana. È una forzatura». Così Stefano Rodotà in un’intervista a Micromega. «In Grecia - aggiunge - Syriza ha raggiunto l’attuale consenso perché durante la crisi economica ha svolto un lavoro effettivo nel sociale. In Italia la situazione è differente».

MicroMega 22.1.15
Stefano Rodotà: “Ripartiamo dal basso, senza la zavorra dei partiti”
“Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società”
intervista di Giacomo Russo Spena

qui

il Fatto 23.1.15
Human Factor, a Milano kermesse della sinistra

SI APRE OGGI a Milano, l’evento-congresso “Human factor” organizzato da Sel per far nascere la Syriza italiana. Alla vigilia delle elezioni in Grecia, quelle che potrebbero essere vinte da Alexis Tsipras, il laboratorio guidato da Nichi Vendola ospita anche la minoranza Pd, ormai apertamente in rotta con Matteo Renzi. Sul palco saliranno Gianni Cuperlo, Stefano Fassina e Sergio Cofferati (ancora in forse a causa di un problema ad una spalla). E poi ci saranno anche esponenti del neonato gruppo ex M5S al Senato, intellettuali, rappresentanti del mondo sindacale e gli amici della sinistra radicale “e vincente” europea (ovviamente Syriza ma anche gli spagnoli di Podemos).
Quasi trecento i relatori: la giornata clou sarà domenica quando prenderanno la parola Civati, Cuperlo, Fassina, il sindaco di Napoli de Magistris, gli ex cinquestelle Campanella e Mussini e, in chiusura, l’intervento di Nichi Vendola. “Ciascuno di noi sarà giudicato sulla base della coerenza dei propri comportamenti. Non si può più dire: ‘Vorrei ma non posso’ - ha detto il leader di Sel - Sfidare Renzi per batterlo è una necessità dell’Italia”.

il Fatto 23.1.15
Tsipras e dintorni
Serve più sinistra in questa Europa
di Barbara Spinelli


Caro direttore, in riferimento all’articolo di Salvatore Cannavò, “Rottura ligure, la sinistra cerca l’x factor rosso”, pubblicato il 20 gennaio dal tuo giornale, ti chiedo di ospitare una riflessione che precisa le posizioni che mi vengono erroneamente attribuite. Un caro saluto.
Questi sono giorni cruciali, come ho avuto in modo di dire il 17 gennaio, nel corso dell’assemblea dell’Altra Europa con Tsipras alla quale Salvatore Cannavò fa riferimento nel suo articolo del 20 gennaio. Sono giorni cruciali per noi in Italia, dove ci stiamo preparando all’elezione del prossimo presidente della Repubblica e a un possibile sfaldamento del Pd, e sono giorni cruciali per un’Europa che – scossa dai terribili attentati di Parigi e dalle loro prevedibili ripercussioni sulle politiche di sicurezza e sui diritti dei cittadini – attende l’esito delle elezioni generali in Grecia.
La possibile vittoria di Syriza, cui l’Altra Europa si è ispirata fin dalla sua costituzione, potrebbe davvero rappresentare una svolta, se Tsipras condurrà sino in fondo la battaglia che ha promesso, e se sarà sostenuto da un grande arco di movimenti e partiti fuori dalla Grecia. Sarà la prova generale di uno schieramento che non si adatta più all’Europa così com’è, che giudica fallimentari e non più proponibili i rigidi dogmi dell’austerità, e che mette fine allo schema ormai trentennale inventato da Margaret Thatcher, secondo cui “non c’è alternativa” alla visione neoliberista delle nostre economie e delle nostre società: visione fondamentalmente antisindacale, politicamente accentratrice, decisa a decostituzionalizzare le singole democrazie dell’Unione europea e la democrazia delle stesse istituzioni comunitarie.
IN QUESTO scenario, l’articolo di Cannavò restringe l’orizzonte, collegando la nascita di un progetto politico di ampio respiro a una mera sommatoria di sigle e di singole figure, per quanto autorevoli. Nell’inverno 2013-2014, la lista L’Altra Europa con Tsipras nacque per unire in Italia le forze che non si riconoscevano nella linea di un partito – il Pd – sempre più attratto dall’ideologia centrista che sprezza le forze intermedie della società, e i poteri che controbilanciano il potere dell’esecutivo. Siamo nati – ho avuto occasione di dirlo a Bologna – per rimobilitare politicamente e conquistare il consenso di una sinistra oggi emarginata, sì, e anche di chi ha cercato rifugio nel movimento di Grillo o – sempre più – nell’astensione, dunque in un voto di sfiducia verso tutti i partiti e tutte le istituzioni politiche.
Eravamo partiti da Alexis Tsipras e dalle sue proposte di riforme europee, perché anche noi vedevamo la crisi iniziata nel 2007-2008 come una crisi sistemica – di tutto il capitalismo e in particolare dell’eurozona – e non come una somma di crisi nazionali del debito e dei conti da tenere in ordine nelle varie case nazionali. L’aggancio a Syriza e al caso greco era un grimaldello per cambiare l’Europa e la politica italiana.
Quelle idee vanno salvaguardate, perché hanno prodotto un esito importante: un milione di voti, tre deputati nel Parlamento europeo, un consigliere comunale in Emilia Romagna; ma soprattutto hanno prodotto una consapevolezza nuova: non bisogna aspettare, per nascere come soggetto politico, che altri decidano quale fattore x, quale alternativa nuova e mai vista debba prodursi alla politica di Renzi.
Il soggetto c’è, questo ho detto a Bologna, senza mai sognarmi di pronunciare le parole che mi vengono attribuite da Cannavò: L’Altra Europa non è affatto un “contenitore autosufficiente”, ma un’esperienza politica autonoma, che può essere messa in comune nella costruzione di una nuova realtà il più ampia possibile – che si dia il compito di fermare la disgregazione sociale in atto nel nostro paese, a livelli mai conosciuti nella storia repubblicana, mettendo al centro la difesa del lavoro e dell’ambiente, e ridando dignità a una generazione senza prospettive.
LA NOSTRA Lista non deve dimenticare, e anzi deve accentuare e trasformare sempre più in proposte politiche concrete, la sua intuizione iniziale: l’aspirazione a essere massimamente inclusiva e unitaria, partendo dalle esperienze e dalle pratiche esistenti nei territori, e massimamente aperta ai movimenti alternativi. Aperta – come lo siamo stati nelle elezioni europee – alle persone più che agli apparati. Pronta a dialogare con i diversi partiti e movimenti della sinistra radicale, e anche con chi non si identifica – o non si identifica più – in ciò che viene chiamato “sinistra”. Penso agli ecologisti, ai militanti delle battaglie anticorruzione e antimafia, ai delusi del M5S, e infine – ancora una volta, e sempre più – agli astensionisti. Il nostro progetto politico non era la riproposizione di un insieme di partitini e, anche se essenzialmente di sinistra, non era solo di sinistra. Non era antipartitico, ma era rigorosamente non-partitico.
Sono talmente tante le cose da fare che non abbiamo letteralmente tempo di occuparci degli equilibrismi tra i piccoli partiti, delle piccole o grandi secessioni dentro il Pd. C’è l’Europa dell’austerità, che dobbiamo cambiare affiancando la battaglia che domani farà Syriza, e che dopodomani – spero – farà Podemos.
C’è l’Europa-fortezza da mettere radicalmente in questione, con politiche dell’immigrazione che mutino i regolamenti sull’asilo, che garantiscano protezione ai profughi da guerre che attorno a noi si moltiplicano e ci coinvolgono, perché sono guerre che americani ed europei hanno acutizzato e quasi sempre scatenato.
PERFINO il mar Mediterraneo va ricostituzionalizzato, visto che l’Unione sta violando addirittura la legge del mare, mettendo in discussione il dovere di salvare le vite umane minacciate da naufragio. E vanno aboliti i Cie, i Centri di identificazione ed espulsione, nella loro forma attuale.
Ho visitato in dicembre quello di Ponte Galeria a Roma. Non è un centro. É un campo di concentramento. Non per ultimo: in Italia bisogna trovare risposte a un razzismo che sta esplodendo ovunque, non solo nel popolo della Lega ma anche a sinistra, e che sarà sempre più legittimato dalle urne, se non impareremo ad affrontarlo in maniera giusta e argomentata.
Proprio perché l’ora di agire è adesso, la Lista nata prima delle europee deve mettersi subito al lavoro, e costruire un’alternativa con tutte le forze che vorranno ripensare la democrazia e con tutte le personalità in rotta con il partito di Renzi, ma senza disperdere il patrimonio dell’Altra Europa, specie quello accumulato nei territori. Senza sciogliersi.
E avendo coscienza che non basta riunire attorno a un tavolo i frammenti della sinistra. Ci interessa al tempo stesso, e subito, il dialogo con gli italiani che si astengono o che votano Grillo: rispettivamente il 40 e il 20 per cento dell’elettorato.
È la maggioranza del paese, con cui la politica deve ricominciare a parlare. Alla crisi straordinaria che viviamo, non si può che rispondere con uno sforzo di unificazione, e di oltrepassa-mento dei recinti cui siamo abituati.

La Stampa 23.1.15
E la sinistra di casa nostra sbarca ad Atene: la “Brigata Kalimera” alla corte di Syriza
Trecento intellettuali deputati e no global fanno comizi in vista delle elezioni
di Giuseppe Salvaggiulo

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Repubblica 23.1.15
La Brigata Kalimera, dall’Italia con furore
di E. L.


ATENE . La sirena di Alexis Tsipras chiama. La Brigata Kalimera (come si sono auto-battezzati con un filo d’ironia) risponde. «Abbiamo cominciato quasi per scherzo per sostenere i nostri vecchi amici di Syriza – racconta Raffaella Bolini, l’organizzatrice di questo strano viaggio della speranza della sinistra italiana. Poi tutto è andato oltre le nostre previsioni». Sotto lo striscione “Kalimera Grecia, Kalimera Europa” in piazza Omonia, di fronte al palco da cui parla il favorito numero uno delle elezioni elleniche, si sono trovati in duecento. Politici d’esperienza come l’ex ministro Paolo Ferrero («E’ la prima volta da Maastricht che c’è una vera alternativa nel Vecchio continente»). Volti storici come quello di Luciana Castellina e facce più giovani come Eleonora Forenza, parlamentare europea della Lista per Tsipras. Ma anche decine di ragazzi e diversamente ragazzi arrivati qui – come dice Carlo, studente di 23 anni di Perugia – «perché guidati dalla certezza che il voto in Grecia è l’unica occasione per cambiare». E perché qui - come ammette Bolini - «si sta mettendo un piccolo mattone per provare a costruire la nuova casa comune della sinistra italiana».
In piazza risuonano le note di “O Bella Ciao”, versione rock dei Modena City Rambler. «Tsipras? Mi ricordo di lui nel 2001, quando ha cercato di arrivare a Genova per il G8 ed è stato fermato a manganellate ad Ancona dalla polizia », racconta Bolini. «Allora noi eravamo più avanti, ora ripartiamo da zero», ammette Ferrero. Qui sotto lo striscione in Omonia, sono convinti tutti che a sinistra di Renzi ci sia spazio per creare una Syriza tricolore. C’è il caso Cofferati, ci sono i venti di scissione nel Pd. Il toto-Brigata Kalimera dà in arrivo tra oggi e domani sotto il Partenone Stefano Fassina e Beppe Civati. «Nei prossimi due mesi la sinistra si ricomporrà – è convinto Ferrero – arriveranno in tanti e metteremo sotto la Merkel».
Facile dirlo nella tiepida serata ateniese. Con migliaia di persone che applaudono il tandem anti-troika “Tsiglesias”, come qui chiamano Tsipras e Pablo Iglesias, leader di Podemos. «La lezione di Syriza è che per vincere bisogna rimanere uniti» dice Bolini, che non ha dimenticato le mille scissioni e i partitini personali che hanno segnato la storia recente della sinistra tricolore. Intanto si riparte dalla Brigata Kalimera. «Domenica – conclude Carlo sfidando la scaramanzia– sarà davvero una buona giornata per la Grecia e per l’Europa ».

il Fatto 23.1.15
Bersani: “Non cuciniamo minestre con la destra”


È UNO degli oppositori interni a Matteo Renzi, anche se lui ha già detto che “la ditta” non la lascerà mai, perchè è casa sua. Però, ieri, Pier Luigi Bersani è tornato a battere sul tasto dolente del partito democratico. “L'unica cosa che tanti di noi chiedono - ha ribadito in un’intervista al Tg5 - è che non si pensi mai di preparare la minestra con la destra e farla bere con forza a un pezzo del Pd”. “Al netto di questo - precisa l’ex segretario sconfitto da Renzi alle primarie - ci sarà assoluta lealtà” nel voto sul Quirinale. Il punto è che la stampella di Forza Italia è già servita, nel voto al Senato sull’Italicum. “Questo apre un problema, si dice che succederà lo stesso sul Quirinale”. Bersani fu già vittima dei franchi tiratori, quando propose la candidatura di Prodi al Colle: “Io che una slealtà l'ho subita  - conclude - pratico lealtà”.

Repubblica 23.1.15
Matteo apre a Pierluigi: “Giovedì il nome decidiamolo insieme”
di Goffredo De Marchis


ROMA Sminare il campo del Pd. In sei giorni Matteo Renzi cerca l’impresa di ricucire il partito di cui è segretario, un partito spaccato e sull’orlo di una crisi di nervi ma che ha ben 450 grandi elettori decisivi per l’elezione del presidente della Repubblica. «Il nome del Quirinale lo voglio e lo devo concordare con la minoranza. Per me il metodo non cambia, anche dopo lo scontro sull’Italicum», dice il premier incontrando a Palazzo Chigi la delegazione che farà gli incontri con gli altri partiti, tra martedì e mercoledì della prossima settimana. «Com’è il clima interno?», chiede. Non buono, agitato, la premessa di un bis del 2013 quando Napolitano fu richiamato in servizio, rispondono tutti. Roberto Speranza perciò propone: «Riuniamo prima i gruppi parlamentari nostri, poi vediamo gli altri gruppi». Così il candidato sarà targato Pd, in modo chiaro. Non patto del Nazareno, come sospettano in tanti. Renzi condivide e si prepara a partecipare agli appuntamenti preliminari. «Guiderò la delegazione. Vedrò anche i grillini».
Basta un’agenda di date a sanare la ferita? Renzi dice che «l’avvicinamento dev’essere bilaterale. Lo faccio io ma lo devono fare anche loro». Loro sono i dissidenti. Nel gruppone Fassina, Civati, Bindi spingono per la battaglia finale. Le dichiarazione di Bersani raffreddano invece il clima, anche se l’ex segretario resta su posizioni di grandissima critica. Per questo Renzi ripete: «Vedrò Pier Luigi, voglio trovare un nome condiviso con lui». Non è però il momento più adatto per un faccia a faccia, non subito. L’aria è cattiva.
Anche il premier non ha ancora smaltito la rabbia per il «comportamento assurdo» dei dissidenti al Senato. «Quelli della minoranza pensano di spingermi a indicare per il Colle uno di loro. Ma non hanno capito niente, se pensano di usare questa tattica con me si sbagliano». Manca ancora la fiducia tra le parti, al di là delle offese di questi giorni. Bersani e i suoi dicono che la legge elettorale e il capo dello Stato rimangono terreni separati. Lo precisa anche Francesco Boccia. Come dire che la vendetta non è nei programmi. Ma basta poco per appiccare l’incendio. Un parola, una mossa falsa. In poche parole, il nome del candidato che Renzi tirerà fuori all’ultimo minuto ovvero nell’assemblea dei grandi elettori del Pd mercoledì sera o giovedì mattina (si comincia a votare nel pomeriggio). Quel nome, sussurrato nelle ore precedenti, può far capire da che parte pende il segretario: se per una riconciliazione nel Pd o per la tutela dell’asse con Berlusconi. E scatenare il fuoco.
Renzi racconta ai suoi collaboratori che il Cavaliere gli ha fatto due nomi: Casini e Amato. «Se scegli uno dei due chiudiamo in 24 ore», sono state le pa- role del leader di Forza Italia. «Già - commenta il premier -. Ma io non mi faccio imporre da lui sia il nome di un candidato del Ppe (Casini) sia di quello del Pse (Amato)». Questo ragionamento sembra escludere il giudice costituzionale (che ha il suo pacchetto di voti nel Pd, a differenza del capo Udc), eppure quella soluzione è ancora in piedi. Come lo è la candidatura di Sergio Mattarella. Con loro reggono, nel valzer dei nomi, i nomi dei politici puri: Anna Finocchiaro, Piero Fassino, Walter Veltroni che stanno recuperando terreno. Un amico personale di Renzi spiega la strategia: «A Matteo interessa il risultato, più del nome. Non vuole rimanere impantanato in una serie infinita di votazioni». È uno schema che esclude il solo Prodi a causa del veto insormontabile di Berlusconi. Ma tiene in pista praticamente tutti gli altri (numerosi) “papabili”.
Il calendario è stato fissato. Oggi Renzi riunisce la segreteria allargata ai membri della delegazione: Serracchiani, Orfini, Guerini, Speranza e Zanda. Si parlerà di metodo, insomma si rimarrà ben lontano dal nome che Palazzo Chigi tiene coperto. Lunedì verranno convocati i gruppi di Camera e Senato e in molti chiederanno un identikit più preciso. Il tentativo di stanare il premier andrà in scena, immaginando di poter usare anche il “forno” dei 5stelle. Tra martedì e mercoledì Renzi e la delegazione Pd cercherà un accordo largo con gli altri gruppi. Si può fare senza il nome giusto in campo? Difficile. Ma il sondaggio aiuterà il premier a capire i numeri su cui può fare affidamento, quelli utili a raggiungere il «risultato». Mercoledì sera, più probabilmente giovedì Renzi dovrà scoprire le carte davanti ai grandi elettori. A quel punto dovrà avere già in tasca il “sì” di Berlusconi e il via libera della minoranza Pd. O della maggior parte di essa.

Repubblica 23.1.15
Cuperlo al leader
“Muta noi democratici nella balena centrista che guarda a destra”
“Non me ne vado, ma voglio anche capire che partito è diventato il Pd: discutiamo di come siamo cambiati”
intervista di Francesco Bei


ROMA Gianni Cuperlo, sinistra dem. Alla vigilia delle votazioni per il Quirinale è tra i critici più duri delle scelte di Renzi. Fino all’accusa di voler dar vita a un nuovo partito con Berlusconi.
Forza Italia è entrata in maggioranza?
«Lo chiedo io. Mai contestato il principio che le riforme si fanno assieme ma qui si dice che da quell’accordo deriverebbe la scelta sul Quirinale e non solo. Serve chiarezza ».
Seguiamo una logica aristotelica: se è vero, come dite voi, che è cambiata la maggioranza di governo, significa che la minoranza dem che ha votato contro l’Italicum va considerata all’opposizione?
«L’abbinamento tra Esposito e Aristotele è suggestivo ma ci svia. Il punto è che la riforma elettorale e della Costituzione dovrebbero osare di più. Io voglio superare il bicameralismo ma si è blindato un Senato che sarà un ibrido. Un po’ Camera delle garanzie, un po’ delle autonomie. La conferenza Stato-Regioni difenderà le sue prerogative e aumenteranno i contenziosi davanti alla Consulta. La vivo come un’occasione sciupata e comunque la battaglia continua».
Ogni Ditta ha le sue regole. Sull’Italicum si sono riuniti gli organi direttivi del Pd, ma al dunque la minoranza si è sentita legibus soluta, sciolta da ogni vincolo. Come fate a invocare la libertà di coscienza per una materia così squisitamente politica come la legge elettorale?
«Certo che la materia è politica ma le regole raccontano la tua concezione della democrazia. Le proposte fatte potevano migliorare i testi sia dell’Italicum che del futuro Senato. Invece si è abbassata la saracinesca e le sole correzioni sono transitate dal famoso patto. Avrei dato più fiducia al Parlamento invece di spostare il processo costituente in una sede extra parlamentare. Per altro senza streaming».
Non legittimate in questo modo l’accusa renziana di essere un partito nel partito?
«A parte che il primo a dotarsi di un partito nel partito è stato il premier, io so che esiste un’alternativa all’idea di partito di Renzi e ad alcune sue scelte di governo. Questo pluralismo è l’anima del Pd e non può che avere lo scopo di cambiare quell’idea di partito e quelle scelte».
Adesso considerate le preferenze come la panacea dei mali della democrazia. Eppure nell’ottobre 2012, a Youdem, Bersani disse che “in Italia le preferenze portano a situazione patologiche”...
«Resto affezionato ai collegi uninominali. Ma sto con chi si batte contro un Parlamento fatto ancora in prevalenza di nominati».
Da mesi ormai alcuni esponenti della minoranza trattano Renzi come il principale nemico. Avete la sindrome di chi non si rassegna ad aver perso il congresso e cerca la rivincita?
«Per me il congresso è finito un anno fa. Sostengo il governo, Renzi è il mio segretario e credo di dovergli la lealtà di chi difende e argomenta le proprie idee. Se rinunciamo a questo perdiamo tutti».
Quindi si sente ancora del Pd?
«Sì ma voglio capire che partito è. Perché, tornando all’Italicum, la novità non è il tentativo di spingere verso due grandi partiti ma il fatto che uno dei due col 13% dei voti non ha alcuna chance di vittoria. Allora delle due l’una. O Berlusconi consegna i suoi a una resa preventiva oppure si immagina che il partito della Nazione debba risolversi in una balena centrista relegando ai margini chi non si omologa».
E il Pd che fine farebbe?
«In quel caso il nostro destino sarebbe diventare un partito moderato che guarda a destra. È anche in questo la mutazione d’identità del Pd renziano, e io vorrei discuterne. Per capire se abbiamo ancora la stessa visione della sinistra, del bipolarismo, della democrazia».
Quanto peserà lo strappo sull’Italicum nelle scelte relative al Quirinale? C’è da immaginare imboscate di franchi tiratori?
«Ma naturalmente. Ho appena ricevuto la convocazione per una riunione in un luogo segreto dove ordiremo trame diaboliche. Altre domande?» Fassina accusa Renzi di essere stato il mandante dei 101? Ha dei sospetti anche lei?
«No e non mi sono mai appassionato al tema ».

La Stampa 23.1.15
Paesi e buoi
di Mattia Feltri

Durante la prima repubblica o eri al governo o eri all’opposizione, ma non per una legislatura: o eri tutta la vita al governo o eri tutta la vita all’opposizione. Poi, con la seconda repubblica, eri al governo o eri all’opposizione ma per un po’, eri al governo poi si votava e andavi all’opposizione, poi si rivotava e tornavi al governo e così via.
Adesso o sei al governo o sei all’opposizione ma dipende dai punti di vista.

La Stampa 23.1.15
Fassina, l’attacco più feroce a Renzi
“Tu a capo dei 101 traditori di Prodi”
E Bindi: Matteo disse “Romano non ce l’ha fatta” prima del risultato ufficiale
Intanto la riforma costituzionale slitta a dopo l’elezione del capo dello Stato
di Francesca Schianchi


A metà pomeriggio, su un divano del Transatlantico di Montecitorio, confabulano fitto fitto due deputati della minoranza Pd. Oggetto della conversazione, l’annuncio del collega Stefano Fassina: «Una parte del Pd non voterà la legge elettorale». «Non puoi continuamente minacciare sfracelli», sospirano, tentati di rilasciare qualche dichiarazione un po’ meno belligerante. Perché all’indomani della riunione di 140 parlamentari servita soprattutto come prova di forza numerica, questo è lo stato della minoranza Pd, un caleidoscopio di posizioni diverse tra loro. Tanto che pure l’altra, pesante dichiarazione di giornata di Fassina, e cioè che Renzi sarebbe stato, due anni fa, a capo dei 101 franchi tiratori di Prodi - «non è un segreto», dice, «a differenza di quelli che oggi chiedono disciplina e due anni fa hanno capeggiato i 101, noi siamo persone serie» - viene accolta da alcuni colleghi di minoranza come un’esagerazione che sarebbe stato prudente non dire, soprattutto in questa fase.
D’accordo Bindi e D’Attorre
E da altri invece con commenti più cauti ma di sostanziale accordo: «Non ho elementi di certezza – spiega Alfredo D’Attorre – ma certo Renzi non ha lavorato per la candidatura di Prodi». E la Bindi ride, «io non lo so… Ma so che Renzi disse da Firenze “Prodi non ce l’ha fatta” prima del risultato ufficiale…». «Una sciocchezza incredibile», la reazione del vicesegretario Lorenzo Guerini. L’ex segretario Pierluigi Bersani tende a smorzare, «è l’opinione di Fassina», ma «con il voto segreto puoi fare ipotesi che poi vengono smentite. L’ho già detto: allora c’era chi non voleva Prodi, chi non voleva Bersani, e si sono saldati. Ora andiamo avanti, l’importante è che quella cosa non la facciamo più». Toni più concilianti di quelli usati ai primi di dicembre in un colloquio con La Stampa: «Non provino a insegnarmi come si sta nel partito quelli che hanno fatto parte dei 101». Ora però il voto sul capo dello Stato è a un passo, e il tentativo della minoranza è avere un ruolo, contribuire a determinare un candidato autorevole e autonomo, «ho già avuto modo di dire la mia, con Renzi ci siamo sentiti nei giorni scorsi», spiega Bersani. In un clima che, le parole dell’ex viceministro dell’Economia rendono bene l’idea, è di grande tensione.
Prima il Colle poi le riforme
Un clima in cui, nella minoranza, si guarda con disappunto alla lista pubblicata dal Foglio di tutti i parlamentari con indicazione «dei buoni e dei cattivi», cioè di chi è pronto a votare sì e chi no al capo dello Stato, che circolerebbe a Palazzo Chigi («sarebbe opportuno che Renzi non usasse il metodo Isis, non facesse vendette, liste di proscrizione o fatwa verso chi non la pensa come lui», dichiara Francesco Boccia). Un clima in cui, in Aula, la minoranza continua a farsi sentire: ieri alla Camera l’art. 2 della riforma costituzionale è passato con una maggioranza risicata («un serio campanello d’allarme», insiste D’Attorre), e il voto finale, è stato deciso, slitterà a dopo la votazione sul capo dello Stato, e non prima, come tanto avrebbe voluto Renzi. Mentre al Senato, sull’Italicum, arriva l’annuncio di un nuovo no dei senatori di sinistra al maxiemendamento della Finocchiaro. Il nome, peraltro, che più circolava ieri come candidato al Quirinale. La voterebbero tutti, nella minoranza? «Tutti forse no, ma molti», garantisce uno di loro. Che aggiunge il no invece alle ipotesi Padoan e Delrio, viste come figure troppo vicine a Renzi. Mancano pochi giorni alla prova del fuoco. Ma si comincia già a guardare al dopo: all’assemblea di mercoledì, qualcuno ha proposto di presentare un documento con alcuni punti politici da sottoporre all’attenzione del governo. Due i prossimi campi su cui dare battaglia: i diritti civili e le politiche fiscali.

Corriere 23.1.15
Nel Pd accuse e veleni sul caso dei 101 anti Prodi


La sinistra del Pd alza il tiro contro il segretario-premier. «Non è un segreto» che Matteo Renzi sia stato a capo dei 101 parlamentari che il 19 aprile 2013, alla quarta votazione per scegliere l’inquilino del Quirinale, affossar ono Romano Prodi: così Stefano Fassina, deputato ed ex viceministro nel governo Letta, esponente della minoranza del partito. «Incredibile sciocchezza», taglia corto il vicesegretario, Lorenzo Guerini. E Debora Serracchiani, altra vicesegretario: «Non si possono lanciare accuse come questa, e non si possono nemmeno commentare». Sdrammatizza l’ex segretario Pier Luigi Bersani: «Per sapere com’è andata davvero ci vorrebbero i servizi segreti. L’importante è che quella roba lì non la facciamo più. Serve lealtà, la slealtà preferisco subirla piuttosto che farla».

Corriere 23.1.15
Scontro nei dem, la sinistra alza il tiro
Fassina: il segretario guidò i 101 di Prodi
L’ira di Guerini: incredibile sciocchezza. Bersani: ora è meglio di allora, l’importante è non rifarlo
di Mariolina Iossa


ROMA Matteo Renzi a capo della «fronda dei 101», i «disobbedienti» che nel 2013 silurarono Romano Prodi al Quirinale. L’atmosfera già pesante dentro al Partito democratico, a causa dell’Italicum, ieri si è appesantita ancora dopo le parole di Stefano Fassina. Secondo il deputato ed ex viceministro dell’Economia nel governo Letta, «non è un segreto» che Renzi sia stato a capo dei 101 che affossarono Prodi e anche se non lo nomina direttamente è a lui che si rivolge quando dice, rispondendo alla richiesta di lealtà del presidente del Consiglio a tutto il Pd nelle prossime votazioni per la nomina del capo dello Stato, «a differenza di quelli che oggi chiedono disciplina e due anni fa hanno capeggiato i 101, noi siamo persone serie. Nessuno deve temere da noi i franchi tiratori».
Un colpo al cerchio e uno alla botte: non preoccuparti, caro Matteo, manda a dire Fassina, voteremo lealmente ma non dimentichiamo che fosti tu a gestire i franchi tirat ori del 2013. Un botto questo che esplode in un partito che appare già spaccato su più fronti. A Fassina si aggiunge la dichiarazione di Rosy Bindi, molto polemica, su La7: «Il patto del Nazareno è una prigione per tutti. Se si deve fare un presidente funzionale a quel patto io sono contraria».
«Sciocchezze», ribatte subito su Twitter il senatore renziano Andrea Marcucci, «se viene meno il rispetto è finita, Fassina e Bindi disarmanti». «Incredibile sciocchezza», ribadisce il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini mentre Simone Valiante, portavoce di AmiciDem, l’area popolare riformatrice del Pd, parla di «parole inopportune e gravi, che non fanno bene al confronto interno al partito perché offuscano le ragionevoli questioni di merito che a volte la minoranza solleva». Sferzante il vicesegretario pd Debora Serracchiani: «Non si possono lanciare accuse come questa, e non si possono nemmeno commentare».
Pacata invece la reazione di Pier Luigi Bersani. Così parlò Fassina? «È la sua opinione», risponde l’ex segretario. «Col voto segreto puoi fare diverse ipotesi che poi vengono smentite, per sapere com’è andata davvero ci vorrebbero i servizi segreti». Due anni fa, ricorda Bersani, «si sono saldati quelli che non volevano Prodi e quelli che non volevano me: ma è inutile tornarci sopra, meglio chiuderla qui ». E comunque, la situazione oggi «è molto meglio», rispetto al 2013, «non la vedo difficile»; oggi «ci sono altri protagonisti, l’importante è che quella roba lì non la facciamo più. Serve lealtà, la slealtà preferisco subirla piuttosto che farla».
Sandra Zampa, prodiana, su famigliacristiana.it spiega come secon do lei andarono le cose. «Immagino che Fassina intendesse dire che anche la componente renziana, o meglio alcuni renziani, parteciparono all’affossamento — ha detto Zampa —. Ma non c’è stato un solo capo, erano diversi», alcuni addirittura pensavano che dopo i 101 voti che non confluirono su Prodi, la candidatura dell’ex leader dell’Ulivo «sarebbe rimasta ancora in piedi. Ma il Professore, giustamente, si fece subito da parte».
Per Sandra Zampa non è che «Renzi non c’entrasse, però non credo che lui abbia dato indicazione ai suoi per non votare Prodi. Di alcuni renziani sicuramente c’è stata la regia — ha continuato la “fedelissima” del Professore — però anche Bersani è stato tradito dai suoi. E hanno partecipato pure quelli che erano arrabbiati per la vicenda Marini». Insomma, furono in molti a bocciare il nome di Romano Prodi nel segreto dell’urna, «Matteo Renzi non aveva allora 101 voti, ne aveva 50-60. Dopo sono diventati tutti renziani».

Corriere 23.1.15
Quella guerra tra bande e le accuse incrociate nel giorno più nero del Pd
di Monica Guerzoni


ROMA Il Parlamento (e i gruppi del Pd) non sono cambiati dal giorno livido dell’agguato contro Romano Prodi, il frutto avvelenato di vecchi rancori, tradimenti e vendett e incrociate che innescarono una catena di lutti politici. Il 19 aprile 2013 è una data che il Pd porta impressa nel suo dna, severo monito degli errori da non ripetere. I 101 franchi tiratori che affossarono l’ex premier — incoronato di fresco con una standing ovation al teatro Capranica — sono ancora a volto coperto e la loro identità resterà celata dal voto segreto.
Dopo venti mesi di tormenti la dolorosa autoanalisi non è finita. Chi furono i registi del trappolone ai danni dell’intero Pd? «Il capo dei 101 è Renzi», accusa a sei giorni dal voto Stefano Fassina. E la ferita mai suturata riprende a sanguinare. L’unico farmaco è «la lealtà» suggerisce Bersani, colui che ha pagato il prezzo più alto. E la domanda che assilla i protagonisti di quella pagina nera è se il Grande Complotto possa vedere un remake, magari a parti invertite. Silvio Sircana, storico portavoce di Prodi, si augura che i grandi elettori «riescano a trovare un candidato forte e credibile e che non si facciano invischiare in questo tipo di inciuci». L’ex senatore del Pd resta convinto che l’obiettivo dei cecchini fosse «radere al suolo Bersani». L’ordine di eseguire la sentenza non arrivò però da un solo capocorrente, «fu il combinato disposto di una guerra per bande che si consumò, in modo un po’ cialtrone, sulla persona di Prodi».
Le bande, appunto. Quelle correnti che sono da sempre il male endemico del Pd. Nelle ore drammatiche in cui si cominciava a parlare di mutazione genetica del Pd, Sandra Zampa sfogava il suo dolore indicando D’Alema e Fioroni. Quindi annunciava l’autosospensione dal gruppo, perché riteneva «impossibile restare seduta accanto a chi ha accoltellato Prodi alle spalle come un sicario». Nel tempo la vicepresidente del Pd si è convinta che «tutti parteciparono per arrivare a quel risultato e molti si sono pentiti». Se avessero conosciuto meglio il «Prof» e intuito che si sarebbe sfilato dopo la batosta, il giorno dopo lo avrebbero votato.
Tutti traditori? Dalemiani, fioroniani, bersaniani e renziani, anche? Il perimetro è troppo largo per distinguere volti nel mucchio. Quanto all’allora sindaco di Firenze, una delle tesi difensive è che Renzi non avesse le truppe per affossare Prodi, da solo. «Non ne aveva la f orza», lo assolve Antonio Bassolino. Sandro Gozi, ora a Palazzo Chigi, si è addannato per mesi alla caccia dei «killer del fondatore».
«I franchi tiratori? Provate a chiamare Fioroni e D’Alema», insinuava Felice Casson. Ma D’Alema ha sempre smentito con un certo vigore complotti e regie occulte del fattaccio, minacciando denunce contro i «calunniatori». E se gli accusatori teorizzavano che l’ex premier avesse lasciato le impronte digitali con quei quindici voti incassati per se stesso, lui andava in tv e reagiva buttando la croce su Bersani: «È una vergogna autentica. Si cercano capri espiatori, ma come potevo impedire che 15 persone mi votassero? ».
Capri espiatori, la stessa espressione a cui affida la sua difesa Beppe Fioroni. L’ex ministro amico di Franco Marini, altra vittima illustre del fuoco amico democratico, uscì dall’aula brandendo il cellulare. Aveva fotografato la scheda con scritto PRODI: «C’era un clima da caccia alle streghe. Ero sotto stress emotivo, ma non lo farei mai più. Una regia creò il delitto perfetto precostituendo i killer in quelli più scontati». Renzi? «È stato iperattivo su Marini, su Prodi non ci credo».
Dal Mali, la mattina in cui fu mandato al massacro con una telefonata di Bersani, Romano chiamò il già líder Maximo per sondare la sua reazione alla candidatura e la risposta non gli suonò di buon auspicio. «Benissimo — si congratulò D’Alema, come ha raccontato Alan Friedman —. Ma decisioni così importanti dovrebbero essere prese coinvolgendo i massimi dirigenti». Prodi, che già a Bersani aveva comunicato i suoi dubbi sulla «nobiltà del casato» pd, chiuse il telefono e disse alla moglie che era finita. Il verdetto dell’urna confermò il cattivo presagio e l’allora sindaco dichiarò che la candidatura di Prodi poteva ritenersi decaduta. Una velocità che insospettì, tra i tanti, anche la lettiana Paola De Micheli, ora al governo: «La prima gallina che canta ha fatto l’uovo...».
Pippo Civati fu il primo a prevedere che i 101 sarebbero entrati al governo e rivendica di non essere stato smentito: «Nasce tutto da lì. Lo schema delle larghe intese e i governi di Letta e poi di Renzi hanno preso l’abbrivio da quel voto». Il 29 gennaio che accadrà? «Sarebbe un bel segnale vedere 101 franchi tiratori nella prima votazione, sul nome di Prodi... Hanno sottovalutato il problema e adesso si ripropone».

La Stampa 23.1.15
Pd, scoppia il caso del no agli ex segretari sul Colle
E spunta l’ipotesi di un candidato di bandiera per i primi voti
di Carlo Bertini

qui

il Fatto 23.1.15
Democrat e lunghi coltelli, è iniziata la gara al Colle
Schedati i possibili traditori ma senza le minoranze partita difficie
di Wanda Marra


“Io sono in segreteria. E riformista poi... ”. Alessia Rotta, responsabile Comunicazione del Pd, a pieno titolo renzianissima, nella “Lista del Nazareno”, viene classificata come “area riformista, rischio”. In Parlamento non si parla d’altro. Ma di cosa si tratta? Il Foglio ieri pubblica un elenco di tutti i parlamentari democratici, schedati per corrente, ma soprattutto etichettati con un “ok”, un “no”, un “a rischio”. Rispetto a cosa? Al voto per il candidato al Quirinale che verrà. “Una lista che gira a Palazzo Chigi”, la presenta il quotidiano, che a Matteo Renzi e ai suoi fedelissimi è molto vicino. Basti pensare che durante i mondiali Luca Lotti ci teneva una rubrica di calcio.
“È IL PALLOTTOLIERE di Lotti”, “è un pizzino”, “è piena di errori”, i commenti che ieri andavano per la maggiore. Ma soprattutto: “Gliel’hanno data”. Ecco, chi? E perché? Tutti gli indizi portano proprio al Sottosegretario, amico fraterno del presidente del Consiglio, che da settimane ormai conta e controlla. E allora, sì: è una via di mezzo tra lista di proscrizione, “avvertimenti” e depistaggi. Ci sono alcuni “riconoscimenti”: Anna Ascani, per dire, è definita “lettiana”, ma “ok”. Ormai in realtà è decisamente renziana. O Francesco Russo, “renzian-lettiano ok”: in Senato ha lavorato per l’approvazione delle riforme. Poi c’è Pier Luigi Bersani “a rischio”. Da notare “a rischio” pure la Finocchiaro: come dire, tutto è possibile se la sua candidatura decade. “Io indipendente? Ma se sono bersaniano”, si schernisce un altro “a rischio”, come Andrea Giorgis. “Antonio Misiani non è area riformista è un giovane turco”, corregge qualcuno. E Lorenzo Guerini: “È tutto sbagliato. Mauro Guerra, area riformista, a rischio? Ma se vive con me. E Andrea Rigoni, area dem? È un gueriniano... ”. Fatto sta che ieri i parlamentari hanno passato la giornata a leggere, commentare, mandare rettifiche e correzioni al Foglio. Chi si è trovato incasellato tra “i nemici” lavorando da “amico” si sente attenzionato, minacciato, messo sul chi va là. Un passo falso sul Colle o su altro, ed ecco che il malcapitato esce dai giochi. D’altra parte, Renzi non perdona.
La lista di proscrizione fa il paio con le accuse dirette di ieri. Ecco Stefano Fassina: “Non è un segreto” che Renzi abbia guidato i 101 che bocciarono Romano Prodi. “A differenza di quelli che oggi chiedono disciplina e due anni fa hanno capeggiato i 101, noi siamo persone serie”. Lo riprende Guerini: “Una sciocchezza incredibile”. Pronto arriva il distinguo di Bersani, che pure nei mesi qualche accusa, seppur velata, magari per interposta persona l’ha lanciata: “È la sua opinione”, così commenta l’affermazione di Fassina. “L’ho già detto, allora c’era chi non voleva Prodi, chi non voleva Bersani. Si sono saldati. Ora andiamo avanti, l’importante è che quella cosa non la facciamo più”. “Bersani ha detto una cosa giustissima”, commenta un renzianissimo. Corteggiamenti.
Tira una brutta aria tra i dem: anche ieri alla Camera e al Senato in 35 (da Bindi a Bersani e Cuperlo) non votano l’articolo 2 della riforma costituzionale, mentre continua la battaglia della minoranza contro l’Italicum al Senato, in particolare contro l’emendamento Finocchiaro. Ma la strategia che sta cercando di mettere in campo il segretario-premier è chiarissima: “Ma no che non è tutto deciso con Berlusconi. Matteo coinvolgerà Bersani. E tutto andrà per il meglio”, dicono i suoi. Più che convinzioni, sembrano depistaggi. Anche se dal canto loro, Alfano e Berlusconi dubi-
BUONI E CATTIVI LA RASSEGNA DEL “FOGLIO” Dal deputato Andrea Martella “veltroniano, ok” al senatore Sergio Zavoli “indipendente, ok”. Ci sono tutti i parlamentari del Pd nella “lista” pubblicata ieri sul giornale di Giuliano Ferrara e della famiglia Berlusconi. Su ognuno degli eletti democratici delle Camere è segnata l’appartenenza (“Renziano”, “Area Dem”, “Dalemiano”, “Veltroniano”, “Giovane turco”, “Fioroniano”, “Bindiano”, “Area riformista”, “Ex Sel”, “Lettiano”) e un grado di affidabilità sul voto al Quirinale segnato con le tre diciture: “Ok”, “No” e “a rischio”. Il conto fa: 275 voti sicuri, 99 a rischio e 41 già persi in partenza.
tano della parola di Matteo. È il giorno della fuffa, perché, con il riavvicinamento di Ncd e Forza Italia, le larghe intese sono già nei fatti, con tanto di ministri del centrodestra. E il partito della nazione è un processo inarrestabile, che Renzi ha già teorizzato. Però, c’è un però. Il premier non può far passare il fatto che Amato sia un candidato imposto da Berlusconi. Ecco “salire” la Finocchiaro: offerta ai bersaniani, che non potrebbero non votarla, contro il volere dello stesso Bersani. Ed ecco far girare ad arte il nome di Delrio: un modo per coprire l’asse del Nazareno (o per chiarire a B. che Matteo si tiene le mani libere).
IERI Renzi ha riunito al Pd il coordinamento per l’elezione al Colle: i vicesegretari Guerini e Serracchiani, il Presidente Orfini, i capigruppo Zanda e Speranza. Carte coperte, da parte di tutti. Si è parlato di metodo, che prevede segreteria oggi, assemblea dei gruppi di Camera e Senato lunedì e incontri con gli altri partiti. Renzi sa che provare a far passare un candidato al primo colpo è molto pericoloso. Ma che lo è anche farlo al quarto: le fronde potrebbero coalizzarsi su un nome, che poi diventerebbe vero. Si ipotizza di andare per i primi scrutini su un candidato di bandiera. E poi? Le soluzioni che ha in mente il premier sono 5 o 6. Lui lavora sulle soluzioni “win-win”. E dunque, si sta preparando a più schemi di gioco.

La Stampa 23.1.15
Il partito dei risentimenti incrociati
di Marcello Sorgi


Una regola non scritta dice che in politica i sentimenti non contano, l’amicizia, l’odio, la simpatia, l’antipatia non devono pesare su alleanze e rotture, accordi e divisioni, strategie e tattiche. Ma il risentimento, invece, quanto conta? Viene da chiederselo, guardando com’è ridotto il Pd, a una settimana dall’inizio delle votazioni per il Quirinale e a due giorni dall’accordo Renzi-Berlusconi.
Fassina ieri ha accusato Renzi di essere stato il vero organizzatore dei 101 che silurarono Prodi. Bersani, dopo la conclusione della vicenda dell’Italicum al Senato in cui la minoranza Pd è stata sconfitta grazie all’appoggio dell’ex-Cav., s’è dichiarato offeso e ha detto che dev’essere Renzi, se vuole, a prendere l’iniziativa per fare la pace. Boccia, lettiano anti-renziano, ha addirittura paragonato i metodi di Renzi a quelli dei tagliagole dell’Isis. Cofferati, più che della sconfitta e della corruzione alle primarie, s’è dispiaciuto perchè nessuno del vertice del suo partito lo ha chiamato per ascoltare le sue rimostranze. E all’assemblea dei centoquaranta parlamentari della minoranza, perfino il capogruppo dei deputati Speranza, dicasi il capogruppo, è stato guardato con sospetto, quasi come se fosse una spia del leader. Infine, tanto per ricambiare le cortesie, l’autore dell’emendamento che ha salvato l’Italicum, Esposito, ha definito gli avversari della minoranza “parassiti”. Ma anche Renzi cova un forte risentimento nei confronti della Ditta, come si definiscono i post-comunisti e tutti quelli, anche di altre correnti, che gli si oppongono fieramente. Al segretario-premier non va giù che a più di un anno dal voto del popolo del centrosinistra che lo ha innalzato alla segreteria, i suoi avversari non lo riconoscano come leader, anche se ha vinto, prima le primarie, e poi le elezioni europee con il 40,8 per cento, una percentuale che per ritrovarla occorre tornare indietro di quasi mezzo secolo, e sta pure portando a casa le riforme.
La ragione per cui Renzi non viene ancora rispettato, malgrado i suoi successi, in un partito nato dalla fusione di quel che restava di Dc e Pci, è che per conquistare la guida del Pd non ha seguito le liturgie. Né quella democristiana del “caminetto” dei capicorrente che alla fine, nella maggior parte dei casi, sceglievano il più debole, per poterlo far fuori agevolmente prima possibile, né quella della consacrazione a vita sul “baldacchino invisibile”, sul quale, secondo Vasquez Montalban, sedevano tutti i segretari comunisti del mondo. Per i capi, sottocapi ed ex-capi del centrosinistra, indipendentemente dalla tradizione da cui provengono, Renzi ha violato le regole e deve pagarla. Anche a costo di far saltare per la seconda volta la scelta di un Presidente che tutti continuano ad aspettarsi dal Pd.

La Stampa 23.1.15
I giorni contati del Patto del Nazareno
L’alleanza tra Renzi e Berlusconi ha ancora un mese per portare a termine la sua missione. E poi cosa accadrà? Ne dovranno inventare un altro?
di Ugo Magri

qui

il Fatto 23.1.15
Giovanni Maria Flick Nazareno e dintorni
“Un patto segreto non può vincolare le scelte del Paese”
di Fabrizio d’Esposito


Nell’Italia del Nazareno renzusconiano, anno del Signore 2015, c’è un autorevole giurista con la barba bianca e corta che va sempre in tv con un prezioso libriccino, dalla copertina azzurra: la Costituzione della nostra Repubblica. Il professore è Giovanni Maria Flick ed è stato Guardasigilli del governo Prodi dal 1996 al 1998. Poi presidente della Corte costituzionale, dal novembre 2008 al febbraio dell’anno successiva. È emerito di diritto penale alla Luiss di Roma e il suo ultimo volume è uscito da poco, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana. S’intitola: Elogio della dignità.
Professore perché va in giro con la Costituzione?
Perché sono sempre più convinto che prima di riscrivere la Costituzione bisogna rileggerla. E qualcuno, invece, deve cominciare a leggerla.
I nuovi costituenti del Nazareno non l’hanno letta?
Diciamo che la mia è un’idea che viene fuori dal dibattito in corso, non solo sulle riforme.
A che cosa si riferisce, per esempio?
Penso alle deleghe che il Parlamento deve assegnare al governo con una precisa determinazione dell’articolo 76. A proposito della legge delega sul lavoro, il Jobs Act, tutto si rinvia ai decreti attuativi. Lo stesso accade con l’articolo 19 bis della delega fiscale...
La Salvasilvio.
Così la chiama lei, io parlo per commi, sono un professorino. Dicevo, un tempo la Corte costituzionale era meno attenta ai criteri di delega, oggi si è fatta più occhiuta. Poi non capisco una cosa.
Quale?
Certe scelte, mi riferisco all’articolo 19 bis, devono essere fatte con trasparenza, in maniera chiara. Che significa che era un fraintendimento e viene congelata? O una scelta è giusta e si va avanti, oppure se si ritira vuole dire che era sbagliata, ma allora non la si può riproporre. Non si può trattare allo stesso modo una dichiarazione dei redditi con frode e una senza.
Pare che sia la logica del patto del Nazareno.
Si continua a evocare il patto del Nazareno. Io insegno diritto penale e dico: producetemi il patto. Questo accordo non può essere un vincolo che condiziona il futuro. Un patto vale se assicura la partecipazione, non il contrario. Non può essere esclusivo, ma inclusivo, altrimenti rischia di essere una trappola.
L’altro giorno al Senato, l’Italicum è stata la rappresentazione di questa trappola.
Bisogna considerare il rapporto tra causa e effetto di un evento. Si dice: io cerco il sostegno dell’opposizione perché non ho quello di una parte dei miei. Ma c’è anche il contrario: è la sponda dell’opposizione che mi fa perdere una parte dei miei.
Il risultato è che Renzi non ha più la maggioranza.
Nel 2010, in circostanze analoghe, il presidente della Repubblica impose al presidente del Consiglio, seppur con un ampio margine di tempo, un mese e mezzo, di ritornare in Parlamento per verificare la maggioranza; lo stesso discorso si ripe-tè nel 2011. Tutti sappiamo come andò a finire nelle due volte. Certo, le situazioni sono diverse, e perdipiù c’è un presidente della Repubblica supplente, ma la sostanza è la stessa, se non sbaglio.
Dall’Italicum alla riforma del monocameralismo.
È il caso di rileggere l’articolo 138.
Rileggiamolo.
La Costituzione va riscritta con una forte coesione e un grande accordo di fondo. E senza il cronometro in mano. Credo invece che volontà di ordine politico abbiano deciso di fare in fretta per far vedere che si eliminano i costi eccessivi della politica.
Da Togliatti a De Gasperi a Renzi e Berlusconi, alla Boschi e Verdini.
Vede quando si arriva alla mia età (Flick è del 1940, ndr) si accumulano parecchi ricordi. E la memoria è fondamentale. C’è un proverbio africano che è diventato la mia filosofia di vita. Recita: “Quando muore un vecchio è come se bruciasse una biblioteca”. E ho paura che stiamo bruciando parecchie biblioteche. Bisogna stare attenti.
Però c’è da cambiare verso all’Italia, dice il premier.
Cambiare non vuol dire rottamare. E cambiare è necessario. Ma anche la memoria è importante. Sono da poco tornato da Auschwitz, con gli studenti. In quel posto la memoria è tutto.
Lei è stato ministro nel governo Prodi. Il Professore al Quirinale appare come l’unico argine al patto del Nazareno.
Questa logica da referendum o da ultima spiaggia mi piace poco. Io e Prodi siamo stati insieme all’università, ci conoscevamo già quando sono stato ministro con lui. L’ho apprezzato molto per la sua concretezza e la sua dimensione europea, di cui ci sarebbe tanto bisogno. Ha anche una grande competenza economica che non diventa incomprensibile con i tecnicismi.
Lo vorrebbe presidente?
Non sono un grande elettore e non tocca a me fare nomi, come per ora non li fa neppure il presidente del Consiglio. Certo, ho le mie speranze ma non voglio bruciare nessuno.

il Fatto 23.1.15
Forbici
Esposito, Boschi, Romani... Tutte le manine del canguro
di Gianluca Roselli


C’è dunque una manina dietro l’emendamento presentato da Stefano Esposito, e votato anche da molti forzisti, che ha spazzato via in un sol colpo 35 mila emendamenti (su 44 mila) alla legge elettorale? Il sospetto che non sia stato il senatore di Moncalieri a scrivere il testo a Palazzo Madama è reale. “Sono 33 righe perfette, in cui c’è tutta la legge. Se fossi ancora in Rai assumerei subito un giornalista così bravo nella capacità di sintesi”, osserva con un pizzico di malizia Corradino Mineo, uno della truppa dei dissidenti Pd contrari all’Italicum. Da più parti, infatti, si concorda che per scrivere il testo che poi ha fatto scattare il mega-canguro ci voleva una mano molto esperta di leggi elettorali e di tecniche parlamentari.
“CON TUTTO IL RISPETTO per Esposito, non credo sia stato lui. Per questa operazione ci voleva un senatore anonimo che presentasse l’emendamento all’ultimo momento, senza farsi notare. Altrimenti qualcuno poteva prendere delle contro misure, magari con sub emendamenti”, sottolinea il capogruppo di Gal Mario Ferrara. Ma torniamo per un momento a giovedì sera, quando, verso le 23, sta per scadere il termine per la presentazione delle proposte di modifiche al testo. Diversi senatori hanno visto Esposito attendere fino all’ultimo istante. Anzi, secondo alcuni ha presentato l’emendamento a tempo scaduto. Un senatore leghista ha anche girato un video col telefonino dove si vede Esposito in un angolo, seduto, mentre Calderoli passa con i tomi trasportati su un montacarichi. “Esposito ha fatto da testa di ponte, ma l’emendamento arriva dal governo”, assicura il leghista Jonny Crosio.
Ma quindi chi l’ha scritto? I sospetti si concentrano sul ministro Maria Elena Boschi. E in particolare su un tecnico del suo ministero, Paolo Aquilanti. Funzionario esperto della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, Aquilanti è passato da poco all’ufficio legislativo del ministero delle Riforme. “Solo uno come lui può aver scritto un testo così perfetto per il canguro”, sussurrano i boatos di Palazzo Madama. Testo che poi è stato rivisto dalla stessa Boschi. Ma sarebbe passato anche dalle scrivanie di Luigi Zanda, Anna Finocchiaro e Paolo Romani. A sancire l’oliato meccanismo su cui scorrono i binari del patto del Nazareno. Che proprio sull’Italicum ha dato la dimostrazione plastica della sua tenuta. Che i mandanti siano a Palazzo Chigi, del resto, lo confermano le parole pronunciate dallo stesso Renzi davanti ai senatori la settimana scorsa. “L’Italicum va votato così com’è. Altrimenti abbiamo comunque gli strumenti parlamentari per farlo passare in 48 ore”, aveva detto il premier. Pistola fumante, dunque.
DOPO GLI ATTACCHI, c’è stata la reazione di Esposito, che ha dato definito “parassiti” i dissidenti, suscitando l’ira di Pierluigi Bersani, con successive scuse di Esposito. Il quale a Palazzo Madama finora si era fatto notare soprattutto per le sue battaglie in favore della Tav. Mentre l’unica legge che lo vede primo firmatario è una proposta per abolire il Porcellum. Specialmente nella parte che riguarda i capilista bloccati. Che l’Italicum, invece, ha confermato.

Corriere 23.1.15
Mucchetti
«Fedeli ha firmato una mia proposta poi l’ha dichiarata inammissibile»
intervista di M.Gu.

ROMA «Questo Italicum non lo voterò».
E la disciplina di gruppo, senatore Mucchetti?
«Su una legge che arriva al traguardo grazie a un emendamento tagliola, fatto soprattutto contro i colleghi del Pd non allineati?».
È rimasto male perché non sono passati i suoi emendamenti?
«Niente personalismi. Grande è stata la sorpresa nello scoprire che gli emendamenti su incompatibilità e ineleggibilità dei parlamentari erano stati dichiarati inammissibili per estraneità alla legge elettorale».
Bocciati dalla presidente vicaria del Senato?
«Il capogruppo Luigi Zanda, l’allora vicepresidente Valeria Fedeli, l’attuale segretario d’aula Giorgio Tonini e molti altri avevano firmato il mio disegno di legge sulla incompatibilità di natura economica, ripreso nell’emendamento».
La Fedeli ha sottoscritto il ddl e dichiarato inammissibile l’emendamento?
«La presidente Fedeli, che continuo a stimare molto, aveva firmato anche l’emendamento».
Sentenza inappellabile.
«Non discuto l’inappellabilità, ma a me piacerebbe che qualcuno spiegasse perché una legge elettorale non debba aggiornare le cause di incompatibilità degli eletti, che risalgono agli anni 50».
Ragioni politiche?
«Sono curioso di capire quali. Intanto constato che si sproloquia di contrasto ai poteri forti e poi si lascia aperta la porta attraverso la quale un concessionario dello Stato potrebbe, in teoria, conquistare un partito con i soldi guadagnati e dunque il governo, il diritto a nominare il presidente della Repubblica e la maggioranza degli organi di garanzia costituzionale».
È nato il Partito del Nazareno?
«Si è formata una nuova maggioranza sulla riforma più delicata dell’agenda Renzi assieme al decreto fiscale, che riprende le argomentazioni di Coppi, difensore di Berlusconi e che ha avuto più applausi in Forza Italia che nella opinione pubblica di centrosinistra».
È la contropartita del patto del Nazareno?
«Non faccio illazioni sul “decreto Coppi”. È sbagliato nel merito, anche se non fosse Berlusconi l’utilizzatore finale. I grandi Paesi non depenalizzano la frode fiscale a percentuale».
Renzi era il capo dei 101, come accusa Fassina?
«Renzi, allora sindaco di Firenze, dichiarò decaduta la candidatura di Prodi prima ancora che Prodi rinunciasse e che l’allora segretario Bersani ne potesse prendere atto. Fate voi».

Repubblica 23.1.15
Massimo Mucchetti
“Stroncato il mio emendamento per fare un piacere a Berlusconi”
intervista di T. Ci.

ROMA Un emendamento all’Italicum per regolare le situazioni di conflitto d’interesse dei parlamentari. «Serviva a risolvere il problema di chi è azionista di controllo di società partecipate dallo Stato o operanti in regime di concessione - racconta il senatore del Pd Massimo Mucchetti - ma la Presidenza l’ha escluso perché estraneo alla materia».
Cosa c’è che non va, senatore?
«Tanti hanno accusato D’Alema di inciucio e ora che facciamo?».
Andiamo con ordine, senatore.
«L’emendamento riprendeva il mio ddl sull’incompatibilità di origine economica per i parlamentari. Sa, la normativa è degli anni Cinquanta e consente ad esempio a Berlusconi di essere eleggibile perché è padrone senza cariche, mentre Confalonieri non lo sarebbe».
Quindi voleva aggiornare la normativa. Come?
«Se sei eletto, l’antitrust accerta se l’eletto sia incompatibile. E l’eletto sceglie se conservare il mandato parlamentare, vendendo in un anno la partecipazione, oppure decadere».
E siamo a mercoledì.
«La presidente vicaria Fedeli ha cassato l’emendamento che essa stessa aveva firmato per la commissione. Eppure nulla è più affine a una legge elettorale che l’incompatibilità e l’ineleggibilità. Prendo atto della diversità di opinioni in capo alla stessa persona».
Un frutto avvelenato del Nazareno?
«Mi domando se quanto accaduto ha a che vedere con la necessità di non dispiacere a Berlusconi».

il Fatto 23.1.15
Rapporti di forza
Renzi si inchina alla Merkel nella sua Firenze


Durante il semestre di presidenza europea, Matteo Renzi non è riuscito a ottenere quella flessibilità sui conti pubblici che chiedeva. Eppure ha scelto di celebrare la fine della ribalta continentale omaggiando a Firenze proprio Angela Merkel, cioè la capofila di quel fronte del rigore che ha sconfitto l’Italia.
LA CANCELLIERA TEDESCA è cortese, prima di partire per la Toscana dal World Economic Forum di Davos dice: “Ci sono sforzi di riforme anche in Italia, finalmente ed un segnale importante il fatto che Renzi sia stato qui”. Ed era stata collaborativa con il premier anche a ottobre, quando con la sua presenza aveva dato credibilità a un vertice (inutile) sul lavoro organizzato a Milano da Renzi come spot per il suo Jobs Act. Da Berlino guardano a Renzi con interesse da tempo, la Merkel lo aveva voluto incontrare quando era ancora sindaco: è il primo dei tanti premier con cui la Merkel ha avuto a che fare (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) che ha il consenso e l’orizzonte per mantenere le promesse che fa. Ma, al contempo, è abbastanza inesperto a livello europeo da non creare problemi alla Merkel nei vertici che continua a dominare con l’esperienza che deriva dai suoi dieci anni di potere.
Anche nel suo ultimo discorso da presidente di turno dell’Unione Renzi si è scagliato contro il rigore, e allora perché omaggiare così Angela Merkel? Il premier ha fatto i suoi calcoli: da mesi c’è un contenzioso con la Commissione europea sull’aggiustamento del deficit strutturale richiesto all’Italia. In pratica su quanti tagli di spesa sono richiesti al governo per rispettare i vincoli del Fiscal Compact e del Two pact. Nonostante un poco di flessibilità concessa da Bruxelles, l’Italia è fuori regola: la Commissione chiede una riduzione del deficit strutturale dello 0,25 per cento, noi ci fermiamo allo 0,1. E i tecnici che rispondono a Pierre Moscovici e a Jyrki Katainen non si fidano dell’ottimismo di Roma. Per questo Renzi ha bisogno delle foto a fianco della Merkel e delle dichiarazioni favorevoli alle riforme: se ci crede l’inflessibile cancelliera tedesca, come si permettono i burocrati della Direzione generale economia e finanza di Bruxelles di questionare la credibilità degli impegni italiani? La politica europea si fa anche così.
Renzi ha fatto da guida ad Angela Merkel a palazzo Vecchio, la sede del Comune a Firenze, poi i due si sono dedicati a un vertice bilaterale a cena: pappa al pomodoro, filetto di chianina con verdure e patate saltate, infine frutti di bosco con salsa di yogurt alla ricotta, il tutto a cura dello chef Guido Guidi, piatti serviti nella sala dei Gigli.
IL CORTEO DI ANTAGONISTI che si è riunito per contestate l’arrivo della Merkel è risultato piuttosto sparuto: un centinaio di persone. Questa mattina è prevista una manifestazione di Fratelli d’Italia.
Grande sintonia, ma al presidente del Consiglio non è sfuggita la frase con cui la Merkel ha commentato le decisioni della Bce di ieri: “I politici non devono distrarsi dal prendere i passi necessari per assicurare la ripresa”. Anche l’Italia è avvertita.

Corriere 23.1.15
Anche il renziano Burlando indagato per la centrale
di Erika Dellacasa


GENOVA A poco meno di un anno dal sequestro da parte del gip degli impianti della centrale a carbone di Tirreno Power, a Vado Ligure, la Procura di Savona ha iscritto nel registro degli indagati 45 persone fra dirigenti della centrale, funzionari della Regione e politici a partire dal governatore della Liguria Claudio Burlando insieme con alcuni assessori e due sindaci. L’ipotesi di reato per gli amministratori pubblici è disastro ambientale e violazione delle norme relative alle autorizzazioni ambientali: in pratica avrebbero consentito all’impianto di funzionare al di fuori dei limiti di legge.
La magistratura indaga sulle emissioni della centrale dal 2000 al 2012, secondo alcune perizie dei pm ai fumi sarebbero riconducibili oltre 400 morti per tumore e migliaia di ricoveri per malattie respiratorie. L’indagine ha portato il 13 marzo scorso all’ordinanza con cui il giudice ha sequestrato gli impianti, da allora la centrale è chiusa.La Regione Liguria ha cercato in questi mesi le strade percorribili per consentirne la riapertura, approvando delibere che stabilivano livelli di fumi «medi» per il riavvio. Nel mirino della Procura ci sarebbero sia le autorizzazioni concesse negli anni passati alla centrale per permetterle di continuare la produzione sia gli atti più recenti (a cui si riferirebbero intercettazioni telefoniche).
«Non ho avuto nessuna comunicazione di un avviso di garanzia - dice Burlando — e non sono stato ascoltato dagli inquirenti, sono naturalmente a disposizione. Dico però che l’azienda ha annunciato che dal 28 febbraio non pagherà più gli stipendi. Significa la perdita di centinaia di posti di lavoro: questo è un caso simile all’Ilva. Bisogna impegnarsi nei 40 giorni che restano per salvare salute, ambiente e lavoro, la questione è da tempo sul tavolo del governo».
Proprio due ministeri, però, quello dello Sviluppo economico e quello dell’Ambiente, concedono tempi diversi a Tirreno Power per mettere in sicurezza il carbonile (oggi a cielo aperto): l’Ambiente stabilisce l’ultimatum a marzo, il Mise concede 30 mesi. Dal canto suo l’azienda ha fatto intendere di non poter rispettare la scadenza di marzo.
La notizia giudiziaria arriva in un momento delicato per il centrosinistra ligure che si prepara alle elezioni regionali di maggio. Anche a destra però i guai non mancano: la Guardia di Finanza ha consegnato alla Procura di Genova che indaga sulle «spese pazze» dei consiglieri regionali una relazione sul leghista Edoardo Rixi, vice di Salvini e candidato governatore, ipotizzando il peculato. «Il comportamento della Lega — commenta Rixi — è stato corretto, lo dimostreremo».

il Fatto 23.1.15
L’attimo fuggente di Renzi
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, come ha fatto Renzi, che è pur sempre un laureato in Legge, a fare un pasticcio unificato di “carpe diem”, “come è bella giovinezza” e “l’attimo fuggente”?
Ivana

IL “PASTICCIO” sembra una specialità e anzi una vocazione di Renzi, ma più nel senso culinario (in cui il “pasticcio” è pur sempre un risultato da valutare o un piatto da gustare) che in quello logico, perché Renzi è piuttosto chiaro e coerente. Certo a lui piace avere in ogni caso ragione ed è spietato (verbalmente) non tanto contro chi se ne va quanto contro chi lo ostacola. Nel momento in cui non sei più un ingombro sulla sua strada smetti di interessarlo, qualunque sia il grado e la qualità della critica. Ma se ti metti di traverso sulla sua strada, perde persino il piglio spiritoso. Poiché con una battuta al giorno si toglie l'analisi critica della sua azione politica di torno, Renzi ha lanciato (e poi abbandonato subito) la trovata del “carpe diem” forse perché si è accorto, lui stesso, in ritardo, che stava celebrando non la virtù dell’operosità più energia, più giovinezza, più successo, ma l’abbandonarsi al momento felice, senza pensieri per il dopo. Renzi invece calcola tutto con cura, anche le deviazioni dal percorso per un abbraccio che sembra occasionale, e più che tipo da “carpe diem” sembra un militante del “niente è impossibile alla volontà” che una volta si scriveva a grandi caratteri sui muri. Quanto all’attimo fuggente, gli è davvero estraneo. Renzi è un buon giocatore di scacchi, vede le mosse in anticipo, e persino le sue mosse sbagliate sembrano essere calcolate. Tutte queste espressioni però evocano un lampo di felicità o almeno di esuberante compiacimento, un istante di abbandono che in Renzi manca sempre, lasciando il posto, il più delle volte, a un commento un po’ acido per dimostrare che chi ha perso se l’è voluta. Il tempo dedicato a squalificare gli sconfitti è persino più grande del tempo per descrivere la sua vittoria e le buone conseguenze che ne derivano. A Renzi interessa vincere, più del che cosa vincere. E non perde tempo a decidere come vincere, perché quel tempo gli serve a “mettere a posto” gli sconfitti. È vero, vince molto. Ma con una grande trovata: abolire i partiti, ovvero usarli solo come cassetti di un suo grande tavolo di comando. È vero, è già successo. Ma se glielo fai notare, lui è già tre mosse in avanti. E non si può negare che in molti per ora lo seguono. Parlo del partito, non degli elettori, che a me sembrano sempre più perplessi.

Corriere 23.1.15
Piketty: «Per salvare l’Unione Europea serve ben più di una banca centrale»
intervista di Stefano Montefiori


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Parigi Thomas Piketty non si lascia (mai) impressionare facilmente. Il 43enne economista francese, diventato una star internazionale nel corso del 2014 grazie al suo ponderoso bestseller «Il capitale del XXI secolo» (Bompiani), il primo gennaio scorso ha rifiutato la Legion d’Onore che il presidente della Repubblica voleva conferirgli: «Non spetta al governo decidere chi è degno di onori», disse allora Piketty, aggiungendo soprattutto che «sarebbe meglio dedicarsi alla crescita della Francia e dell’Europa». Ieri ci ha provato Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, a rilanciare la crescita del continente con un piano senza precedenti, ma Piketty non sembra convinto. Sullo sfondo, la sua convinzione di sempre, e cioè che senza una unione politica gli sforzi di politica economica sono destinati a fallire, o comunque a non avere un impatto risolutivo. L’errore di partenza degli europei, ossia dotarsi di una moneta comune senza le istituzioni politiche democratiche che potessero sorreggerla, continua a ripetersi. E non saranno le misure prese ieri a Francoforte, per quanto innovative rispetto al passato, a cambiare radicalmente la situazione.
Il piano di «Quantitative easing» annunciato da Draghi è superiore alle attese: 60 miliardi di euro al mese fino al settembre 2016, ossia circa 1.100 miliardi. È una rivoluzione? L’ultima occasione di salvare l’Unione Europea?
«Non esageriamo. L’entità del bilancio della Banca centrale europea potrebbe risalire a circa 3.000 miliardi di euro, che era già il livello raggiunto nel 2012. Questo rappresenterebbe allora l’equivalente del 30 per cento del Pil della zona euro (10 mila miliardi di euro), ma pari solamente al 3 per cento del totale degli attivi finanziari detenuti nella zona euro (100 mila miliardi). Serve ben più di una banca centrale per salvare l’Unione Europea».
La parte più consistente del rischio, l’80 per cento, pesa sulle banche nazionali. Solo il 20 per cento è a carico della Bce. Questo riduce o no la portata dell’annuncio?
«Questa parte delle misure rese note da Draghi è molto strana. Merita di essere studiata più da vicino, ma potenzialmente è molto inquietante, nel momento stesso in cui saremmo chiamati a realizzare l’unione bancaria nella zona euro. Come minimo, l’effetto di annuncio non è molto riuscito».
L’obiettivo è arrivare a un livello di inflazione del 2 per cento. Qual è la sua opinione?
«C’è da temere che questi nuovi acquisti di titoli sfocino in bolle su certi attivi, invece di rilanciare l’inflazione dei prezzi al consumo. La Bce tenta di fare la sua parte, ma per rilanciare l’inflazione e la crescita europea ci vorrebbe senza dubbio un rilancio budgetario e salariale. La priorità in Europa oggi dovrebbe essere investire nell’innovazione e nelle università».
E come arrivare a questi investimenti?
«Ci vorrebbe una unione politica e fiscale rafforzata della zona euro, con delle decisioni prese a maggioranza in un Parlamento della zona euro realmente democratico. Non si può chiedere tutto a una banca centrale».

La Stampa 23.1.15
I punteggi di qualità del ministero penalizzano i teatri più virtuosi
Le valutazioni stupiscono: il Regio di Torino 11esimo su 14, Venezia penultima
di Sandro Cappelletto


Davvero è possibile che ci sia un divario così estremo tra la qualità degli spettacoli allestiti dai nostri teatri? Che alla Scala venga riconosciuto il massimo del punteggio previsto - 150 - e alla Fenice di Venezia, giudicato dalla critica il migliore in Italia per varietà e originalità di programmazione, solo 10, secondo punteggio più basso? Che la Scala giochi in Champions, mentre il Regio di Torino - 18 punti - annaspa tra i dilettanti, nonostante sia ai primi posti per numero di rappresentazioni, di abbonati e di capacità di riempire la sala? E bastano due opere dirette da Muti per far ottenere all’Opera di Roma la lusinghiera valutazione di 136, mentre, sempre a Roma, all’Orchestra di Santa Cecilia, con una stagione sempre dignitosa, spesso eccellente, ne vengono riconosciuti 40?
Fossero solo numeri: il problema è che a questi punteggi corrispondono milioni di euro erogati dal Ministero dei Beni e delle attività culturali in base proprio alla «qualità». È uno scippo, protestano i teatri che si ritengono penalizzati. No, è soltanto un riequilibrio che tiene conto delle esigenze di tutti, ribattono autorevoli fonti ministeriali. Un’ingiustizia che risponde a delle scelte incomprensibili. No, un’applicazione oggettiva dei nuovi parametri voluti dal Ministero.
Eccoli i nuovi parametri, in funzione dal 2014, pensati per evitare operazioni non alla luce del sole: il 50% delle somme erogate - complessivamente 187 milioni di euro (erano 239 nel 2000, con una diminuzione da allora a oggi in valore nominale del 33% e in termini reali del 50%) - viene stabilito in base alla quantità, cioè al numero di rappresentazioni svolte; il 25% dipende dalla capacità di reperire «risorse proprie»: vendita di biglietti, abbonamenti, ricerca di sponsor, altre iniziative di marketing. Salvo scoprire che per «autofinanziamento» si intende anche il contributo degli enti locali: così i teatri di Roma, Bari e Palermo, molto aiutati da Comune e Regione, fanno un figurone, nonostante si tratti sempre di denaro pubblico e non di capacità gestionale. Venezia e Torino, che dagli enti locali ricevono somme molto inferiori e incassano di più da biglietti e sponsor, vengono così penalizzati.
L’ultimo 25% dipende dalla qualità: e qui a decidere è stata la Commissione musica, «nella sua autonomia», dicono sempre al Ministero. In verità, sorprendente. Perché se la Scala ottiene il massimo, si fa fatica a capire perché l’Arena di Verona sopravanzi in qualità Venezia e Torino, Genova e Cagliari. Questa oggettività assume anche i contorni di un’umiliazione.
Ma - si dice ormai piuttosto apertamente - il ministro Franceschini non ha a troppo a cuore il mondo della lirica, le sue tensioni, le elefantiasi, le opacità gestionali. E dunque, già nel 2015, messe al sicuro le due realtà di eccellenza alle quali è stata riconosciuta l’autonomia gestionale, e cioè La Scala e Santa Cecilia, per tutti gli altri i parametri - oggettivi o soggettivi - saranno comunque al ribasso.

Repubblica 23.1.15
Francia, la sfida di Valls “Basta con l’apartheid contro l’estremismo ripopoliamo le banlieue”
Nuovo piano per combattere l’emarginazione Sarkozy polemico: “È un paragone sbagliato”
di A. G.


PARIGI . — Prima ha parlato di «apartheid», ora di «ripopolamento » delle banlieue. Manuel Valls è in prima linea sulle banlieue considerate da molti esperti come un potenziale vivaio di odio. Gli attentati di Parigi sono stati compiuti da nemici interni, terroristi cresciuti in casa, in quei quartieri da tempo abbandonati dalla République. Per lottare contro la ghettizzazione delle banlieue, ha detto Valls, bisogna organizzare una «politica di ripopolamento» dei quartieri più sensibili, abitati in grande maggioranza da immigrati, di prima, seconda e terza generazione. Il premier non vuole solo una politica di nuovi alloggi o infrastrutture, ma misure che possano lottare contro la «segregazione sociale»”, un concetto che aveva già espresso tre giorni fa.
«Paragonare la Repubblica francese all’apartheid è un errore. Sono costernato», ha tuonato Nicolas Sarkozy, rompendo così il clima di unità nazionale, due settimane dopo le stragi. «Bisogna essere grandi, non piccoli», ha replicato il premier socialista, aggiungendo: «Pensate che ora ci mettiamo a perdere tempo con le polemiche?». Il premier è tornato anche a spiegare la sua risposta sociale agli attentati nella capitale. «Non sopporto che in alcune scuole non si trovino che studenti figli di famiglie povere, provenienti solo dall’immigrazione, dallo stesso ambiente culturale e dalla stessa religione » ha detto Valls, ricordando di essere cresciuto in una cittadina di periferia, Evry, sud di Parigi.
E proprio sul ruolo delle scuole, il governo ha annunciato un piano per lottare contro la radicalizzazione dei giovani. «La scuola non può fare tutto, ma è un elemento essenziale» ha commentato il premier. «La laicità deve imporsi dappertutto, perché permette la fraternità e permette a ciascuno di vivere insieme ». Il governo ha indetto per il 9 febbraio una conferenza nazionale in cui saranno elaborati metodi di insegnamento di valori come il rifiuto del razzismo o l’eguaglianza tra uomo e donna. Il pacchetto di misure, di cui alcune già note, comporta un investimento di 250 milioni di euro per il prossimo triennio. Tra i provvedimenti più simbolici la creazione di una «Giornata della Laicità», indetta nelle scuole il 9 dicembre, in riferimento a quel giorno del 1905 in cui venne adottata la legge sulla separazione tra Stato e Chiesa. La ministra dell’Istruzione, Najat Vallaud- Belkacem, ha annunciato che mille tutor selezionati verranno incaricati di fornire le linee guida su «laicità» e «insegnamento morale e civico» ai professori. «La trasmissione della conoscenza è il modo migliore di combattere l’oscurantismo», ha avvertito la ministra, deplorando «la disinformazione», le «teorie del complotto», il «sospetto generalizzato» veicolati ai giovani attraverso web e social network. Tutti problemi a cui Parigi intende rispondere anche attraverso un «percorso educativo civico», con tanto di valutazione finale, dalle elementari al liceo, e la sottoscrizione da parte di genitori e studenti di un’apposita «Carta della Laicità».

Repubblica 23.1.15
L’ultimo urlo di Tsipras tra le bandiere di Atene “L’austerity al capolinea”
Il leader di Syriza esalta la piazza insieme a Iglesias (Podemos)
“Non è un sogno Il futuro è nelle vostre mani. Dateci il voto per cambiare la vostra vita”
“Noi non siamo un pericolo per l’Europa ma per chi ha portato il Paese nel baratro”
Ma la Bce non esclude che il Paese possa entrare negli acquisti dei titoli
di Ettore Livini


ATENE “We will, we will rock you”. La Troika è avvisata. A Omonia, nel centro di Atene, sventolano centinaia di bandiere di Syriza e risuonano le note dei Queen. «La Grecia e l’Europa stanno per vivere un momento storico!», dice dal palco Alexis Tsipras, favorito numero uno del voto ellenico. «Hasta la victoria, venceremos!», lo applaude alzandogli il braccio destro Pablo Iglesias, leader di Podemos, in testa a tutti i sondaggi in Spagna. «L’era del pensiero unico dei tecnocrati di Bruxelles è finito», esulta Kostas Douzinas, professore di legge alla Birbeck University di Londra («sono arrivato dalla Gran Bretagna assieme a 400 simpatizzanti!») in una piazza dove non entra più nemmeno uno spillo. Davos e le stanze ovattate della Bce sembrano davvero lontane mille miglia. «Domenica volteremo pagina e inizierà una nuova era — assicura la strana coppia (“Tsiglesias” la chiamano qui) che vuole rivoltare come un calzino le politiche d’austerity del Vecchio Continente — La paura è finita, è l’ora della speranza. E di un’Europa governata dai popoli e dalla democrazia e non dalle mail e dagli ultimatum di Ue, Bce e Fmi».
Un sogno? «No. Il futuro è nelle vostre mani. Dateci il voto per cambiare la vostra vita» chiede Tsipras dal palco dell’ultimo comizio della sua campagna elettorale. In molti sembrano pronti ad ascoltarlo: gli ultimi sondaggi (se sono attendibili) danno Syriza a un soffio da quel 35-37% che le garantirebbe la maggioranza assoluta. Un mandato fortissimo per presentarsi a Bruxelles e chiedere un taglio a quel debito «che soffoca l’economia del paese». Mettendo la parola fine alla via crucis lunga dodici finanziarie che ha ridotto di un quarto il Pil del paese e fatto schizzare la disoccupazione al 26% e aprendo uno spiraglio di flessibilità agli altri paesi, Italia compresa, schiacciati da una montagna di prestiti.
L’Europa per ora continua a fare orecchie da mercante: «Chiunque vinca dovrà mantenere gli impegni presi con i creditori» ha ripetuto ieri il presidente della Commissione Jean Claude Juncker. «Ma il clima sta cambiando, l’asse con Podemos sta ammorbidendo le resistenze dei falchi», assicura Dimitris Liakos, consigliere economico di Tsipras. E anche Mario Draghi — che negli ultimi mesi ha già incontrato due volte il leader di Syriza — ne ha preso atto a modo suo: «La Grecia non sarà sottoposta ad alcuna limitazione particolare nel piano di quantitative easing della Bce — ha detto ieri — : dovrà semplicemente rispettare alcune regole specifiche che valgono per i paesi sottoposti ai piani di ristrutturazione della Troika». Tradotto in soldoni: Eurotower non ha prevenzioni contro la sinistra greca. E comprerà titoli di stato ellenici se Tsipras riuscirà a raggiungere un’intesa con i suoi creditori.
Il premier Antonis Samaras non l’ha presa benissimo. Ieri, convinto che Francoforte avrebbe escluso Atene dal suo programma di sostegno all’economia del Vecchio continente, aveva convocato un conferenza stampa a reti unificate per calcare la mano sulle parole d’ordine della sua campagna elettorale («Syriza ci porterà fuori dall’euro e ci trasformerà in una Corea del Nord europea» l’ultima perla). Invece ha dovuto prendere atto del ramoscello d’ulivo di Draghi e fare una timida retromarcia: «Non buttate al vento cinque anni di sacrifici», ha detto davanti alle telecamere, provando a convincere quel 10% di indecisi che potrebbe ribaltare le certezze dei sondaggi.
La strada però è in salita. «Ho votato tutta la mia vita Nea Demokratia, il partito del premier — racconta davanti al palco Danai Dimitropoulou, dipendente del Comune di Atene — . E cosa ho avuto in cambio? Il mio stipendio è sceso da 1.400 a mille euro. Mio marito è rimasto senza lavoro due anni fa e da 12 mesi non ha più nemmeno l’assistenza sanitaria. Un disastro visto che è diabetico». Risultato: come molti ex elettori del centrodestra domenica prossima «farò quello che non avrei mai immaginato di fare in vita mia: mettere la croce sul simbolo di Syriza».
Tsipras e Iglesias sanno che certi treni passano una sola volta. E non vogliono sprecare il jolly che hanno in mano, sperando di trovare lungo il percorso alleati anche in Italia, Irlanda («oggi mi ha chiamato il presidente del Sinn Fein Gerry Adams», racconta il leader della sinistra ellenica) e persino in Germania. «Noi non siamo un pericolo per l’Europa e per la Grecia ma per quelli che hanno portato il nostro paese nel baratro — assicura Tsipras — . Non abbiamo paura di niente. Combatteremo l’evasione fiscale e l’economia in nero per trovare i soldi con cui ridare il lavoro alla gente». Musica per le orecchie di Omonia. «Nessuno perderà la sua prima casa se non riesce a pagare i debiti alle banche! — aggiunge — dobbiamo lavorare per un paese più giusto, più equo e più democratico».
L’obiettivo, in questa sera piena di ottimismo, è riuscire a conquistare la maggioranza assoluta in Parlamento per poter negoziare con la Troika da una posizione di forza e senza annacquare il programma elettorale in nome di un governo di coalizione. “We will, we will rock you”, canta la piazza di Atene. Qui, sei anni fa, è iniziata la crisi dell’euro. Ma da qui, sulle note dei Queen e della rivoluzione targata “Tsiglesias”, ha iniziato a soffiare il vento che rischia di cambiare di nuovo (da sinistra) la storia dei vecchio continente.

Corriere 23.1.15
Sgarbo di Obama. Non riceverà Netanyahu

Schiaffo chiama schiaffo. Sale la tensione tra Obama e il leader di Israele mentre nel Parlamento di Washington si fa incandescente la battaglia sulle nuove sanzioni contro l’Iran che la Casa Bianca è pronta a bloccare col veto presidenziale. L’annuncio di una visita di Benjamin Netanyahu al Congresso concordata senza coinvolgere la Casa Bianca era stato preso da Barack Obama come un intervento a gamba tesa dei repubblicani, ma anche del premier israeliano: «Il protocollo — aveva detto a il portavoce Josh Earnest — suggerisce che il leader di un Paese contatti quello di un altro Paese quando intende recarsi in visita. In questa circostanza sembra che ci sia allontanati dal protocollo». L’ufficio di Netanyahu ha comunque chiesto un incontro alla Casa Bianca, ma allo sgarbo israeliano Obama ha risposto con durezza: non solo non riceverà Netanyahu, ma ha praticamente bollato come inopportuna la sua visita fissata per il 3 marzo, due settimane prima delle elezioni politiche in Israele. Ieri, infatti, la portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Bernadette Meehan, ha spiegato il «no» all’incontro Obama-Netanyahu con una prassi da lungo tempo seguita dalla presidenza: non si invitano leader che sono anche candidati a breve distanza dalle elezioni «per non dare l’impressione di voler influenzare il processo democratico in un Paese straniero». Porta chiusa in faccia anche al Dipartimento di Stato: mercoledì, a caldo, John Kerry aveva detto che Netanyahu è il benvenuto. Ieri, però, è stato chiarito che nemmeno il capo della diplomazia americana lo riceverà. Ora fonti del governo Usa cercano di minimizzare: nessuna rottura, Obama e Netanyahu si sentono spesso, solo una questione di opportunità. Si sentono spesso, ma non si amano. E in questo momento l’Iran è un macigno tra di loro: Israele preme per la linea dura con le nuove sanzioni. La Casa Bianca spera ancora nella difficile intesa e considera un inasprimento dell’embargo un sabotaggio del negoziato che riprende proprio oggi in Svizzera.

Repubblica 23.1.15
Palestina, Pd spaccato. L’Italia rinvia il voto
Renzi e Gentiloni hanno già detto di essere contrari al riconoscimento
di V. N.

ROMA Sulla Palestina la politica italiana per ora rinvia la conta. Ieri sera la Camera dei Deputati ha deciso una “tregua quirinalizia”: oggi i deputati italiani non voteranno come previsto sul riconoscimento dello Stato di Palestina. I capigruppo hanno concordato di attendere l’elezione del nuovo presidente della Repubblica prima di schierare i loro deputati a favore o contro una scelta simbolica, ma politicamente molto divisiva.
Fino a giovedì in Parlamento erano state presentate 3 mozioni a favore dello Stato di Palestina e una contraria: i favorevoli sono il piccolo gruppo del Psi, il Movimento5Stelle e la sinistra di Sel. Contrari al voto filopalestinese i leghisti. Con i leghisti sicuramente si schiereranno Forza Italia, il Nuovo centro-destra e le altre formazioni centriste.
Trovare una posizione unica è invece più difficile per il Partito democratico, in cui convivono due anime: una favorevole al riconoscimento immediato della Palestina, l’altra attenta a non provocare rotture con Israele alla vigilia delle elezioni politiche volute dal premier Netanyahu. Nel Pd sia Matteo Renzi che il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni hanno anticipato la loro posizione: l’Italia dovrebbe fare come la Germania, evitando di votare un riconoscimento simbolico della Palestina «che non aiuterebbe a far ripartire il negoziato».
Il problema è che la Palestina è già stata votata da molti altri Parlamenti e riconosciuta da altri governi. Hanno votato “si” l’Europarlamento assieme ai Parlamenti di Francia, Gran Bretagna, Spagna, Irlanda, Portogallo, Lussemburgo.

Repubblica 23.1.15
Avraham B. Yehoshua
“Sostenete lo Stato di Palestina, è l’unica via per arrivare alla pace”
“I palestinesi non vogliono un califfato ma solo il diritto di essere cittadini della propria patria Questo dobbiamo concederlo, ormai anche il 50-60% degli israeliani è d’accordo Bloccare la costruzione di insediamenti è la prima elementare azione da compiere“
intervista di Fabio Scuto


GERUSALEMME «I PALESTINESI non vogliono un califfato islamico e non hanno obiettivi religiosi estremi. Ciò che in definitiva chiedono è ciò a cui ha diritto ogni persona al mondo: essere cittadini della propria patria. Questo dobbiamo darglielo, come chiede la maggioranza degli israeliani. Il problema è come realizzarlo». Va subito al nocciolo della questione lo scrittore israeliano Avraham B. Yehoshua: il riconoscimento dello Stato palestinese. Professore emerito dell’Università di Haifa e “visiting professor” a Harvard, Oxford, Princeton e Chicago, Yehoshua appartiene ai molti israeliani che negli ultimi anni hanno fortemente criticato le posizioni del governo di Benjamin Netanyahu che hanno contribuito al fallimento della trattativa di pace. Il Parlamento italiano — dopo Gran Bretagna, Francia, Spagna, Irlanda e Portogallo — si appresta a votare il riconoscimento della Palestina. Yehoshua è uno dei primi firmatari israeliani di un appello per questo riconoscimento, cosa che il governo israeliano giudica un’assurdità.
Perché è importante il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dei parlamenti europei?
«L’assenza di una trattativa, le lungaggini, la guerra a Gaza, l’ampliamento incontrollato degli insediamenti, tutto ciò crea una situazione in cui, i palestinesi, quelli moderati, coloro che vogliono vivere in pace su quello che è un quarto della Palestina storica hanno bisogno di un incoraggiamento, dopo che gli Stati Uniti hanno tirato per le lunghe e non sono riusciti ad avere un solo successo, non sono riusciti a fare “smantellare” nemmeno un insediamento in Cisgiordania. Non sto parlando delle trattative vere e proprie, che sono una questione complessa, in cui sono presenti molti elementi quali il “Diritto al Ritorno”, che senza dubbio presenta molti problemi, ma almeno bloccare la costruzione di insediamenti, che è l’azione più elementare che Israele dovrebbe compiere, per non creare situazioni irreversibili».
Siamo al punto di non-ritorno? È finita la soluzione “due Stati per due popoli”?
«Spero davvero che non siamo ancora arrivati a questo punto, perché uno Stato bi-nazionale sarebbe una catastrofe per entrambi i popoli. Vediamo che cosa sta accadendo oggi negli stati bi-nazionali: un caos atroce negli stati arabi. Per questo, proprio i palestinesi che ancora credono in una trattativa e ancora credono in uno Stato palestinese sono quelli che hanno bisogno di un incoraggiamento più concreto dagli europei, di un riconoscimento dello Stato Palestinese ».
Quindi lei è d’accordo sul fatto che la comunità internazionale, l’Europa e l’Italia, continuino a dedicare attenzione a quanto avviene nel Medio Oriente?
«Ma certamente. Guardi che cosa succede in Siria, cose terribili, e lì è praticamente impossibile fare qualcosa. Ma la questione palestinese, che è una delle ragioni del caos medioorientale, non unica ma una delle tante che infiammano gli estremismi, è invece risolvibile. Naturalmente l’Europa non può creare lo Stato Palestinese, che può essere costituito solo tramite una trattativa fra Israele e i palestinesi, con condizioni che garantiscano la sicurezza di Israele, ma può incoraggiare questo processo con un atto simbolico di riconoscimento».
La soluzione del conflitto fra Israele ed i palestinesi può offrire una maggiore possibilità di confrontarsi con gli altri conflitti che travagliano il Medio Oriente, come quelli con l’Is o Al Qaeda?
«Non lo so. Sembra che nemmeno coloro che combattono sappiano su che cosa verta il conflitto. Chi sa veramente che cosa vogliono l’Is ed Al Qaeda? Sono conflitti molto complessi, in cui non è chiaro dove stia il bene e dove il male, né in Iraq né in Siria, dove non è possibile sapere che cosa accade. Quello che si sa, però, è quello che vogliono i palestinesi: non vogliono un califfato islamico, non hanno obiettivi religiosi estremi. Ciò che vogliono in definitiva è ciò a cui ha diritto ogni persona al mondo: essere cittadino nella propria patria. Questo dobbiamo darglielo e le dirò di più: il 50-60% degli israeliani sono d’accordo, il problema è come realizzarlo ».
Se è vero ciò che lei dice che cosa ne impedisce la realizzazione?
«La paura che possa succedere quello che è successo con il ritiro da Gaza. Allora ci fu un ritiro israeliano dalla Striscia incondizionato (che ha portato a tre successive operazioni militari in nove anni, ndr), mentre ora stiamo parlando di un ritiro con garanzie, con contingenti israeliani che rimarrebbero sul posto: il coordinamento fra l’esercito israeliano e le forze di sicurezza palestinesi ha dato ottime prove da anni. Non vi è terrorismo, e se ci sono episodi, si tratta di casi sporadici occorsi soprattutto nei Territori palestinesi che sono ancora sotto il dominio israeliano. Abbiamo visto Abu Mazen che è andato a Parigi per esprimere la sua solidarietà e ha marciato a fianco del primo ministro di Israele. Il terrorismo non è nel suo ordine del giorno, non combatte gli ebrei ovunque siano e non rappresenta l’estremismo islamico. Ha un obiettivo chiaro e preciso: ottenere il suo piccolo Stato ».
A due mesi da un voto politico decisivo Israele si trova sull’orlo della pace o su quello della guerra?
«Israele si trova sull’orlo di un cambiamento, sull’orlo della fine del ricatto dei coloni estremisti di destra, sull’orlo della possibilità di cambiare registro, di ritornare al dialogo che vi è stato in passato. Non siamo più all’epoca in cui nessuno nel mondo arabo voleva parlare con noi, abbiamo sul tavolo la proposta della Lega Araba: bisogna soltanto superare l’ostacolo del “Diritto al Ritorno”, che per noi è impossibile accettare (il ritorno dei profughi arabi nel territorio di Israele, ndr).
In cambio della rinuncia dei profughi palestinesi al ritorno, lei sarebbe disposto a rinunciare alla Legge del Ritorno per gli ebrei?
«No, perché si tratta di due cose che non hanno nulla in comune, la Legge del Ritorno non ha alcun collegamento con gli arabi. Noi abbiamo bisogno della Legge del Ritorno, perché solo così possiamo assicurare la possibilità di accogliere tutti gli ebrei che ne hanno necessità: guardi quello che succede in questo momento in Francia. Il Diritto al Ritorno dei palestinesi non può essere esteso al ritorno dei profughi in Israele, ma per quanto riguarda il ritorno entro i confini dello Stato Palestinese, lì avranno ogni diritto di ritornare, lì sarà applicata la loro legge del ritorno».

Corriere 23.1.15
Il senso del limite che la ragione deve avere
Chi capisce l’altro è maturo, chi preferisce sempre se stesso no
di Raffaele La Capria


«Je est un autre» ha scritto Rimbaud in Una stagione all’inferno . Era profetico Rimbaud, oggi queste sue parole hanno assunto un altro significato, perché — dopo la strage dei dodici vignettisti di Charlie Hebdo — è iniziato quello che, sempre Rimbaud, chiamò il « combat spirituel ».
Questo combattimento spirituale si svolge oggi tra la ragione illuminista, che è la mia ragione, e quella, sempre mia, che è costretta a ragionare adesso avendo presente con orrore il grande misfatto commesso non solo contro un giornale e i suoi vignettisti, ma contro l’umanità. Può l’offesa fatta a Maometto riportare indietro nei secoli tutto il mondo nato dopo la Rivoluzione francese? E i rapporti umani e i comportamenti pubblici al Medio Evo, la ferocia all’età di Tamerlano e Gengis Khan, la comunicazione all’esposizione televisiva di teste tagliate, donne lapidate, bambini obbligati all’assassinio o a diventare cariche esplosive? Non è troppo per delle vignette?
Eppure, se smettiamo di pubblicarle, veniamo meno ai nostri sacrosanti principi fondati sulla libertà d’espressione e sulla democrazia. Che fare allora per far cessare l’abominio? Possiamo stare a guardare quel che accade come spettatori impotenti e continuare ad emettere condanne senza nessun effetto, oppure c’è bisogno di qualcosa d’altro?
Ed è qui, a questo punto che comincia il combat spirituel della ragione con se stessa, della ragione illuminista con se stessa. In cuor mio Je suis Hebdo , lo ripeto: ma fino a quando me lo potrò permettere? Se dopo dodici morti l’idealismo di Charlie Hebdo continua con le sue vignette, finisce per aver ragione il pragmatismo del Financial Times che si chiede: a che serve?
Per me è maturo chi capisce la ragione dell’altro, è immaturo chi preferisce se stesso a tutti i costi. Per me è meglio il se stesso maturo che il se stesso immaturo. E poi c’è la reciprocità su cui è fondato ogni possibile dialogo. Se tu puoi fare a me ciò che io non posso fare a te, non c’è reciprocità e dunque non è possibile alcun dialogo, e se voglio ragionare la mia ragione vacilla.
Ma la mia ragione illuminista deve accettare anche questa asimmetria, se la ragione dell’altro è invalicabile. Il musulmano dice: in nome del Profeta io posso costruire moschee nella tua terra perché sei tu che per ragioni storiche, che hai contribuito a determinare, sei invaso da me, e devi darmi la possibilità di pregare. Tu non puoi costruire chiese da me perché da sempre Allah ha stabilito che il suolo musulmano è sacro e inviolabile, ed io ho fede in Allah. Qui finisce la reciprocità, perché la fede è irrazionale, non ragiona come la ragione, la differenza tra noi è tutta qui, lo ha detto anche un Papa a Ratisbona.
Ma la ragione, la ragione illuminista, se vuole evitare il conflitto di civiltà e l’irreparabile rovina che ne consegue, oggi deve per forza essere compagna responsabile della libertà. La mia ragione dice anche che tutti devono rispettare il senso del limite, che è sacro, e dunque invalicabile. Per aver superato il senso del limite Dante punì Ulisse e lo fece naufragare in un abisso senza fondo. Finiremo anche noi in quell’abisso se non rispettiamo il senso del limite imposto dalle religioni. È anche vero che a Parigi due terroristi hanno superato il senso del limite, e lo stanno superando ogni giorno i tagliatori di teste e chi usa le bambine come esplosivo. Ragioniamo, per favore. Ragioniamo tutti, evitiamo le sfide e le vendette. E finiamola di vendere armi a chi le usa contro di noi.

Corriere 23.1.15
Ebrei, politici e soldati: gli italiani nei lager
In una mostra al Vittoriano il racconto, settant’anni dopo, della liberazione dei campi di sterminio nazisti
di Gian Guido Vecchi


ROMA «Il senso di questa mostra è chiarire che la liberazione dei campi non fu, come si crede, un momento felice». Lo storico Marcello Pezzetti, direttore della Fondazione Museo della Shoah, schiaccia un tasto e le immagini mostrano dei movimenti incerti sotto un cumulo di cadaveri, gambe che si ritraggono, dita che s’aggrappano al terreno, «negli ultimi giorni i nazisti avevano ricavato pure degli Sterbelager , depositi di moribondi», i giovani ricercatori dello staff le avranno viste infinite volte eppure anche loro, tutt’intorno, hanno un moto di orrore e pietà. Hanno setacciato per mesi campi e sottocampi del sistema di sterminio per aggiornare i dati e recuperare documenti, oggetti, immagini inedite o rarissime, tra i filmati degli Alleati ci sono anche quelli girati da Hitchcock.
Martedì, settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, verrà inaugurata al Vittoriano di Roma la grande mostra su «La liberazione dei campi nazisti». Un racconto senza precedenti della drammatica Endphase decisa dai nazisti accerchiati fin dall’estate del 1944, mentre da Ovest e da Est avanzano Alleati e russi. Tra le «marce della morte» da un campo all’altro e gli ultimi massacri, in poche settimane morirono più di trecentomila dei settecentomila prigionieri rimasti. Il 27 gennaio 1945 i sovietici liberano Auschwitz-Birkenau ed è diventata la data simbolo, il Giorno della Memoria. Ma l’«ultima fase» ha un prologo già nella notte tra il 22 e il 23 luglio 1944, a quattro chilometri da Lublino, quando l’Armata Rossa entra nel lager di Majdanek. E prosegue con le liberazioni di Groß-Rosen (sempre ad opera dei sovietici, 13 febbraio), Stutthof (sovietici, 9 maggio, ma l’evacuazione era iniziata a gennaio), Mittelbau-Dora e Buchenwald (americani, 11 aprile), Bergen-Belsen (inglesi, 15 aprile), Flossenbürg (americani, 23 aprile), Sachsenhausen (sovietici, 22-23 aprile), Dachau (americani, 29 aprile), Ravensbrück (sovietici, 30 aprile), Neuengamme (inglesi, 2 maggio) e Mauthausen (americani, 5 maggio).
È il compimento della Shoah e insieme una svolta. Campo per campo, al Vittoriano viene elencata in particolare la sorte degli italiani: gli ebrei ma anche i «politici» — antifascisti, persone che si erano rifiutate di aderire a Salò — e gli internati militari. Dopo Auschwitz, si moltiplicano le marce forzate dei prigionieri. «All’interno dei lager cominciano a cadere le motivazioni razziali», spiega Pezzetti. «Il criterio di selezione dei nazisti comincia a diventare tra abili e non abili al lavoro. Anche un “politico” può essere selezionato per il gas. Ebrei e non ebrei si trovano a morire assieme».
Da Berlino non arrivano più direttive chiare, Himmler si contraddice, prendono potere i capi locali. Tra le cose più notevoli della mostra, la grande mappa animata che rappresenta l’avanzata dei fronti e le evacuazioni progressive dei campi. Ci sono foto scattate da tedeschi che da casa vedevano passare le colonne di prigionieri. Una donna con la sua bambina riesce a saltare giù da un treno. È l’impazzimento finale.
A Stutthof un vagone ferroviario viene adattato a camera a gas, tremila ebrei vengono portati su una spiaggia del Mar Baltico e lì massacrati da SS, Hitlerjugend e popolazione. A Gardelegen, il 14 aprile, gli americani scoprono un capannone con più di mille prigionieri bruciati vivi dai nazisti il giorno prima. Denutrizione e malattie fanno il resto: solo a Bergen-Belsen cinquemila persone muoiono nei dieci giorni dopo la liberazione. Tra i documenti, la prima lettera che Primo Levi manda da Katowice a casa, il 6 giugno 1945: «Come i pochi compagni italiani superstiti, io sono vivo per miracolo».

La Stampa 23.1.15
Primo Levi e la lettera inedita: l’olocausto spiegato a una bambina
“Piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza, e soprattutto di ignoranza volontaria perché chi voleva conoscere la verità poteva conoscerla e farla conoscere”
di Monica Perosino

qui

La Stampa 23.1.15
Gli avevo chiesto: come potevano essere così cattivi?
di Monica Perosino


A 11 anni, nel 1983, avevo appena finito di leggere Se questo è un uomo. L’avevo letto durante le vacanze di Natale, e riletto pochi giorni dopo l’Epifania. Ma restavano domande senza risposta: esiste la malvagità?
Se questo è un uomo era nella lista dei libri da leggere stilata dalla professoressa di italiano, Maria Mazza Ghiglieno. Neanche lei, che pure aveva sempre le domande e le risposte giuste, poteva risolvere il dilemma. Così, spinta dalla logica senza curve di un’undicenne, mi parve ovvio andare alla fonte. Cercai l’indirizzo di Primo Levi sulla guida del telefono per chiedere direttamente a lui: perché nessuno ha fatto niente per fermare lo sterminio? I tedeschi erano cattivi?
Nemmeno per un attimo pensai che stavo scrivendo allo scrittore di fama planetaria. Per me era «solo» Primo Levi e il suo libro era anche un po’ mio. Chiedere conto a lui mi parve la cosa più naturale del mondo. Lui doveva sapere per forza. Presi la mia carta da lettere preferita, zeppa di fiori e pupazzi, e scrissi una paginetta di lettere tozze. Già che c’ero lo invitai nella mia scuola.
La risposta arrivò, datata 25 aprile, e non colsi subito la coincidenza fino in fondo. Il concetto di «ignoranza volontaria» non era la spiegazione che mi aspettavo. Io volevo sapere se il male esisteva. Smisi di rileggere la lettera tre anni dopo, l’11 aprile 1987, quando trovarono il corpo di Primo Levi nella tromba delle scale. Ero rimasta senza l’uomo che avrebbe potuto darmi spiegazioni. La lettera finì in un cassetto, assieme ad altre. Ora, 32 anni dopo, è rispuntata durante un trasloco, con tutte le sue risposte.

La Stampa 23.1.15
Chi aveva paura di bombardare Auschwitz
Nell’estate del ’44 gli Alleati erano pronti a distruggere il Lager nazista, gli stessi internati preferivano morire così anziché nelle camere a gas
Un libro di Umberto Gentiloni spiega perché non se ne fece niente
di Maurizio Molinari


A 70 anni dalla liberazione di Auschwitz-Birkenau uno degli interrogativi che restano senza risposta è perché gli Alleati non bombardarono il campo di sterminio nazista cuore della «Soluzione finale», ovvero il genocidio degli ebrei d’Europa. A colmare il vuoto arriva Bombardare Auschwitz, un libro, in uscita da Mondadori (pp. 120, € 17), con cui Umberto Gentiloni Silveri esamina tutte le testimonianze, prove e supposizioni disponibili per arrivare a tratteggiare una possibile spiegazione del «perché si poteva fare» e del «perché non è stato fatto».
Le notizie del massacro
Confezionato da uno storico con la passione del reporter, il volume accompagna il lettore attraverso il processo che portò le democrazie occidentali a venire a conoscenza dello sterminio degli ebrei mentre era in corso. A cominciare dalla fuga da Auschwitz, nell’aprile del 1944, di due ebrei slovacchi, Rudolf Vrba e Alfred Wetzler, che consegnano alla Resistenza piantine, resoconti, numeri e notizie talmente dettagliate da costituire una testimonianza diretta, inequivocabile, dello sterminio in corso. Dopo di loro altri seguono, facendo arrivare a Londra e Washington notizie a sufficienti per essere consapevoli del massacro di ebrei da parte della Germania nazista e dei suoi alleati, Italia fascista inclusa.
In questa cornice il libro ricostruisce anche l’atmosfera dentro il Lager, ossia l’attesa con cui i deportati scrutavano il cielo augurandosi un bombardamento alleato che avrebbe potuto distruggere camere a gas, forni crematori, rampe ferroviarie e anche le baracche, ovvero tutti gli ingranaggi della fabbrica della morte. Le testimonianze di Piero Terracina, deportato da Roma, Shlomo Venezia, catturato a Salonicco, e Elie Wiesel, ebreo transilvano e futuro premio Nobel, consentono al lettore di addentrarsi nello stato d’animo di chi viveva dentro Auschwitz, oggetto delle più brutali angherie naziste, maturando la convinzione che poiché la morte era comunque certa, «meglio sarebbe stato morire sotto le bombe alleate anziché nelle camere a gas degli aguzzini». Anche perché, come Wiesel ricorda, quando alcune bombe americane caddero sul campo - forse per errore, a seguito di un attacco contro vicini impianti industriali tedeschi - gli aguzzini del Lager vennero travolti da una paura tale che, sebbene per poche ore, portò sollievo ai «sommersi» di Auschwitz, come li definiva Primo Levi.
Via libera da Londra
Nell’estate del 1944 i governi alleati sanno oramai dello sterminio degli ebrei, i progressi militari della liberazione dell’Europa rendono l’attacco fattibile e l’accelerazione dell’eliminazione degli ebrei ungheresi pone un senso di urgenza - ricostruisce Gentiloni - creando una situazione nella quale, per la prima volta, si ipotizza il bombardamento del Lager e delle ferrovie che vi fanno arrivare i «trasporti della morte». È la presenza della 15a divisione dell’Aviazione americana del Sud Italia a offrire la possibilità logistica di rotte e rifornimenti per raggiungere un obiettivo non lontano da altri nell’Europa centrorientale.
Le richieste di bombardare Auschwitz sui governi di Washington e Londra diventano pressanti. Il 24 giugno 1944 il War Refugee Board americano invia un telegramma con un’esplicita richiesta per l’Aviazione britannica di bombardare almeno il tratto ferroviario fra Kosice e Presov per ostacolare la deportazione di 400 mila ebrei ungheresi. Il 6 luglio 1944 Chaim Weitzmann, presidente dell’Agenzia ebraica, ripete la richiesta ad Anthony Eden, ministro degli Esteri britannico, che la presenta al premier Winston Churchill, da cui sembra arrivare il via libera. «Richiedete il massimo sforzo alla nostra aviazione, comunicategli che è una mia decisione» fa sapere il premier.
Prevalgono i dubbi
«Sembrerebbe l’inizio della svolta» scrive Gentiloni in uno dei passaggi di maggiore tensione dell’appassionante ricostruzione storica. Per otto giorni il comando della Raf, ovvero gli eroi della battaglia d’Inghilterra, esamina il bombardamento nel comando alleato delle truppe in Europa: gli spazi ci sono, la via è stretta ma percorribile. L’ipotesi è un attacco diurno, affidato probabilmente ai bombardieri Usa in Sud Italia. Ma con il passare dei giorni, delle settimane, non avviene nulla. A prendere il sopravvento sono i dubbi convergenti del Foreign Office britannico e del Dipartimento di Stato americano: lo stallo non si supera e la finestra si chiude perché la guerra entra nella fase finale che vede la Germania nazista battersi con inattesa caparbietà, dalla controffensiva sulle Ardenne alla V2 su Londra, fino ai tentativi di sviluppare super-armi, spingendo gli Alleati a concentrare ogni sforzo bellico sulla sconfitta finale dell’Asse.
Silenzi e antisemitismo
Sul perché l’attacco non avvenne Gentiloni descrive il mosaico di spiegazioni possibili: dalle scelte dei comandi militari all’antisemitismo che circolava nelle grandi democrazie dell’epoca, dallo «scarto fra le informazioni esistenti e la disponibilità a ritenerle attendibili», come osserva lo storico Walter Laqueur, fino ai silenzi dell’Urss di Stalin che aveva le maggiori possibilità logistiche di colpire e disponeva delle più numerose testimonianze sull’Olocausto - per via degli ebrei che fuggivano a piedi verso la Siberia - ma non fece nulla per fermare lo sterminio né per accelerare la liberazione di Auschwitz. Arrivare all’ultima di pagina di Bombardare Auschwitz significa comprendere la rabbia dei sopravvissuti per il mancato attacco - che Elie Wiesel ha messo nero su bianco in un pannello al secondo piano del Museo della Shoah di Washington - come anche il perché la Seconda guerra mondiale fu una guerra combattuta dagli Alleati per sconfiggere il nazifascismo ma senza avere la priorità di salvare le vite gli ebrei d’Europa.

Corriere 23.1.15
Il tesoro nascosto dei piccoli editori
Marchi tenaci e indipendenti contro la dittatura soft del mercato
di Claudio Magris


S e l’Italia — nonostante la crisi e tante indecenze, improvvisazioni e incompetenze — sopravvive con tenacia e vitalità, lo si deve non ai padroni del vapore — spesso incapaci e truffaldini pachidermi di Stato o del grande capitale, che moltiplicano zeri alla fine equivalenti realmente a zero — bensì alle piccole imprese e ai lavoratori, sempre a rischio di essere soffocati e derubati da quella schiuma di zeri. È la piccola impresa il nucleo del vero liberismo — inseparabile dal liberalismo, come sosteneva Einaudi nella famosa discussione con Croce, e inconciliabile con ogni monopolio, pubblico o privato. La vita del piccolo imprenditore spesso non è più facile di quella dei suoi dipendenti e la sua, la loro lotta per sopravvivere si fa sempre più difficile.
Ciò vale pure per la piccola e medio-piccola editoria, spesso coraggiosa e pionieristica nelle sue iniziative e nelle sue scelte, sempre più in difficoltà non solo e non tanto con i costi di produzione quanto con i problemi di distribuzione, con la fatica di far conoscere la propria attività e i propri libri, di portarli a conoscenza dei lettori e di renderli visibili in libreria, dove sono schiacciati dalle pile dei libri — poco importa se buoni o no — più pubblicizzati. Purtroppo nell’editoria quel predominio e quella dittatura dell’offerta sulla domanda sono totalizzanti e distruttivi. Non si legge ciò che si desidera, ciò che si pensa corrisponda ai propri gusti e alle proprie inclinazioni, ma ciò che viene imposto. Più efficace dei regimi totalitari, il mercato si impone soft e inesorabile. Pochi cercano i samizdat ovvero quei libri che oggi sono i nuovi samizdat , pochi seguono le proprie passioni.
È difficile comperare e dunque leggere un libro che non si sa che esiste. Io mi sono procurato a fatica un capolavoro letterario come Il quarto secolo di Édouard Glissant, edito dalle Edizioni del Lavoro — e difficilmente reperibile sul mercato — nella splendida traduzione di Elena Pessini. Purtroppo un altro capolavoro della letteratura contemporanea mondiale, Notizie dall’impero di Fernando Del Paso — un vastissimo e geniale affresco narrativo, innovatore nel linguaggio e nella struttura, cui anche personalmente devo alcune illuminazioni essenziali, tradotto splendidamente da Giuliana Dal Piaz — è stato pubblicato dalla casa editrice Imprint-Profeta di Napoli e temo che, a differenza di quanto è accaduto in tanti altri Paesi, non abbia quasi raggiunto le librerie. Si potrebbero fare molti esempi. Se Diabasis fosse una grande anziché media casa editrice, Il signor Kreck di Juan Octavio Prenz sarebbe probabilmente uno dei libri del giorno. La splendida versione di Renata Caruzzi di un testo capitale e arduo come Le Elegie Duinesi di Rilke, pubblicata dalla piccola casa editrice Beit, o la preziosa edizione del saggio di Hannah Arendt e Günther Stern-Anders sulle medesime elegie curata da Sante Maletta per la piccola editrice Asterios sarebbero probabilmente sfuggite anche a me se quelle case editrici non fossero triestine.
Gli esempi potrebbero e dovrebbero continuare, perché farne solo alcuni è ingiusto verso gli altri. Una di queste meritorie e creative case editrici che sono nell’ombra più di quanto meriterebbero sono le edizioni Hefti, cui si deve una preziosa mediazione della letteratura soprattutto croata ma anche più in generale balcanico-adriatica, con particolare attenzione a quel grande dialogo di secoli passati tra le due sponde di quel mare, che vedeva poeti che si chiamavano Marko Maruli ma anche Marco Marullo e non certo, come in sciagurati secoli successivi, per snazionalizzazione imposta dagli sciovinismi, ma per un libero dialogo che vedeva questi poeti di Spalato, di Curzola, di Traù scrivere in croato come in latino e in italiano, nutrirsi del petrarchismo e trasferirlo nella propria lingua e nella propria tradizione, in un reciproco scambio e arricchimento.
Le edizioni Hefti hanno operato in questa direzione, facendo conoscere eccellenti narratori moderni e contemporanei (per esempio Ranko Marinkovic o Slobodan Novak con le loro storie marine o Predrag Matvejevic, con la prima edizione italiana del suo Breviario mediterraneo ). Allo stesso tempo hanno fatto conoscere il fiorire di traduzioni croate di Dante o Petrarca o italiane di Krleža, spesso grazie al lavoro di Ljiljana Avirovic, straordinaria traduttrice dall’italiano in croato e dal croato o dal russo in italiano, con una doppia valenza che è già realtà concreta di quel dialogo fra culture. Ma le edizioni Hefti hanno pubblicato ad esempio pure una grammatica della lingua croata di Marina Lipovac Gatti e una folta Antologia della poesia croata contemporanea , curata anch’essa da Marina Lipovac Gatti, che permette di fare i conti a fondo con la travagliata, vitale, drammatica letteratura di un Paese che ha vissuto, come in un concentrato, le lacerazioni e le tragedie d’Europa.
Una vera gemma è la Judita di Marco Marulic, edita nella ristampa della II edizione del 1522 e nella versione italiana (con testo a fronte) di Lucia Borsetto, che rende con forza poetica questo testo che si affianca alle altre grandi Giuditte — l’eroina biblica che salva il suo popolo uccidendo Oloferne — della letteratura europea, a cominciare da quella del grande tragico barocco italiano Federico Della Valle. Sì, forse una volta, in quei secoli cui si guarda dall’alto del nostro progresso, esisteva l’Europa, che ora sembra sfaldarsi.

Corriere 23.1.15
Curare persone, non malattie Il vero medico è colui che sceglie
di Giangiacoimo Schiavi


N on è facile dire a un paziente che il suo tempo è finito. Non è facile parlare di morte. Ma è giusto prolungare l’agonia a tutti i costi, aumentando le sofferenze anziché alleviarle? Fare il medico vuol dire entrare in un campo seminato di dubbi e assumersi il coraggio di una scelta. Anche quella di staccare la spina. Domandatevi se aiutare a morire è sempre eutanasia, e preparatevi a scegliere da che parte stare. Giuseppe Remuzzi, medico e scienziato, scuote l’albero sul quale sono rimasti appollaiati per anni molti suoi colleghi e invita la categoria a un esame di coscienza: «Vediamo sempre la morte come una sconfitta, non dovrebbe più essere così… Aver aiutato qualcuno a morire bene, a casa sua, con un po’ di morfina se ha dolore, fra le sue cose e chi gli vuole bene è un grande traguardo a cui dovremmo tendere sempre».
Ci vuole coraggio a esporsi denunciando ipocrisie e retorica sulla dignità della vita, ma per Remuzzi è ora di uscire da un equivoco che in Italia provoca conflitti etici e politici. «C’è dignità nell’agonia in un reparto di rianimazione, dopo mesi di incoscienza e di ventilazione meccanica?». La sua fiducia nei medici, negli ospedali, nella battaglia quotidiana per vincere il male, non cancella un giudizio che diventa severa autocritica: per i malati non abbiamo fatto abbastanza. «Quanti medici del mio ospedale hanno voglia di andare al di là di quello che devono fare comunque?», si chiede Remuzzi. Spesso l’adempimento tecnico prevale sulla partecipazione umana: si cura la malattia, non la persona. I pazienti però non sono macchine in avaria. Se non c’è umanità, comprensione della sofferenza, presa in carico, se non ci sono pietas e un po’ di empatia, non c’è buona medicina.
La scelta (Sperling & Kupfer) non è un libro sulla sanità. È il bilancio di un primario, immunologo, ricercatore, autore di oltre 1.200 pubblicazioni scientifiche, unico italiano a far parte dei board di «The Lancet» e «New England Journal of Medicine». Quasi un radar per una professione che deve ritrovare passione e competenza. E un grido di rabbia, per la burocratizzazione che ha spersonalizzato un’arte, ridotto l’ascolto, miniaturizzato il tempo a disposizione per una visita. «Dobbiamo cambiare noi per primi, i nostri medici migliori dovrebbero poter ritrovare le motivazioni che oggi negli ospedali sono venute meno».
Il medico ideale di Remuzzi non è un santo guaritore: è un uomo o una donna chiamato a fronteggiare non solo la malattia, ma il senso di disgregazione della persona malata, la sua perdita d’immagine, l’emarginazione e la solitudine. Deve prendere decisioni rapide, magari di notte, quando si è troppo stanchi e si ha paura di sbagliare. Gli si chiede di dire la verità senza togliere la speranza. Di interrompere o continuare una terapia. Lo fa? Non sempre, secondo Remuzzi. Spesso non decide. Si affida alla legge o lascia il compito al magistrato di turno. Ma certe scelte non si possono delegare. «Scegliere, decidere, fa parte delle nostre responsabilità, a tutela di chi non dovrebbe subire trattamenti inappropriati e dei tanti che, invece, delle cure intensive hanno bisogno per vivere».
C’è anche la rivendicazione di una coscienza medica, una coscienza che i casi di Eluana, Stamina e Di Bella hanno scosso e turbato. E un richiamo all’università: non si diventa dottori con i quiz. È meglio saper parlare senza arroganza con chi sta dall’altra parte che conoscere chi ha scritto Barbablu . Remuzzi ci mette la faccia e l’esperienza: come quella volta con Celentano, che definì “una cazzata” la legge sui trapianti. Lui reagì e andò in tv. «Il trapianto vuole dire vita», scrisse sul «Corriere». Il molleggiato si scusò. Vuol dire che manca la giusta informazione, disse. A volte è vero, a volte è solo un alibi. Oggi difendiamo il diritto universale alla salute, ma dopo anni di sprechi i budget sono sempre più stretti. «È un errore spendere il 30% dei bilanci della Sanità per gli ultimi sei mesi di vita di persone molto malate», afferma Remuzzi. «Capita che in certi ospedali non si trovi posto in rianimazione per un ragazzo con la meningite. O meglio: il posto ci sarebbe ma è occupato da qualcuno molto anziano, quasi sempre incosciente, che non ha nessuna prospettiva di vivere o di avere una vita di relazione anche minima...».
La morte resta il convitato di pietra di un libro duro e tenero insieme. «Il più delle volte ce l’hai di fronte. E devi sapere cosa fare». Il mio miglior amico è il campanello, gli ha detto un giorno un malato in dialisi. Era Natale e doveva andare a casa. «Lasciatemi qui, è triste il Natale a casa, da solo con una badante...». Nessuno pensa a questi esodati della vita. «Medici e infermieri non dedicano quasi mai abbastanza attenzioni a chi sta per morire», scrive Remuzzi. Faceva meglio Oscar, il gatto dello Steere Hause Nursing Center di Providence, Usa. Tra i malati di Alzheimer aveva imparato a prevedere chi stava per andarsene e si accucciava davanti al suo letto. In quell’ospedale c’è una targa: «Per Oscar e la sua attenzione a quelli che hanno più bisogno». Non si dovrebbe mai morire soli.

Repubblica 23.1.15
Norberto Bobbio “Altro che cultura per me il fascismo fu solo retorica”
Nel carteggio del ’76 con Luisa Mangoni lo studioso difende le sue tesi: “Un’era di cortigiani e adulatori”
di Simonetta Fiori


NEL 1976 Norberto Bobbio è già uno studioso influente, 67 anni, preside della Facoltà di Scienze Politiche a Torino. Da diversi decenni i suoi volumi sul rapporto tra cultura e politica orientano la scena intellettuale italiana. Tre anni prima era uscito il saggio Cultura e fascismo, destinato ad accendere un grande dibattito. Bobbio è persuaso che non sia mai esistita una “cultura fascista”. Il regime aveva prodotto molta retorica ma non opere importanti, titoli spartiacque, in una parola una tradizione intellettuale: chi poteva dire il contrario? Ecco farsi avanti una giovane studiosa, Luisa Mangoni, Marisa per gli amici.
Ha 35 anni, quasi la metà del suo autorevole interlocutore. Rigorosa e schietta, meticolosa e dolcissima. Gli dà dell’«arretrato». Dice proprio così: «l’impostazione del professor Bobbio appare arretrata». Lo fa durante una conferenza a Bologna. E il pubblico l’ascolta con attenzione: nel 1974 era uscito da Laterza il suo libro L’interventismo della cultura, destinato a cambiare lo sguardo sul rapporto tra ceto intellettuale e regime. In quelle pagine moriva l’equazione tra fascismo e “non cultura”.
Da quello scambio a distanza tra l’appassionata studiosa e l’illustre professore ebbe origine il carteggio inedito che ora pubblichiamo grazie allo storico Innocenzo Cervelli, marito della Mangoni mancata un anno fa. Un pacchetto di lettere, dal 21 marzo del 1976 al 16 marzo del 1977, che lumeggiano da una parte il singolare profilo intellettuale di Bobbio, maestro generoso che non parla mai ex cathedra, disponibile nello sperimentare i suoi stessi limiti, umile e insieme pedagogico. Dall’altra, la sicurezza intellettuale di una giovane donna che non arretra, però se occorre è pronta al ripensamento, mette a fuoco e rilancia. Un metodo di lavoro che avrebbe mantenuto nel corso della sua vita di ricercatrice, forse non pienamente riconosciuta dall’università e alla quale oggi rende omaggio un convegno dell’Istituto Gramsci. Da Adriano Prosperi ad Albertina Vittoria, da Francesco Barbagallo a Giuseppe Ricuperati, saranno in tanti ad evocare i suoi studi sulla storia degli intellettuali nel loro rapporto con il potere e la politica, le sue poco convenzionali ricerche sulle case editrici Einaudi e Laterza (quest’ultima interrotta dalla scomparsa), il ruolo pionieristico «nell’analisi della cultura intesa nei suoi aspetti organizzativi e nella sua volontà di avere voce in capitolo nella sfera della società e dello Stato», come spiega Giuseppe Vacca, ideatore del seminario.
Ed è questo l’aspetto più innovativo che emerge anche dal confronto con Bobbio. Per lo studioso la cultura è «il patrimonio intellettuale e morale di una nazione », «opere destinate a durare nel tempo, a dare vita a una tradizione ». Mangoni liquida questa definizione come “riduttiva”. «A me pare che da un lato Lei privilegi un’idea di alta letteratura di impronta marcatamente aristocratica », gli scrive il 29 marzo del 1976. «E dall’altro evada il significato della cultura in rapporto allo Stato e alla società civile, che è un’altra cosa rispetto alla organizzazione, alla propaganda, alla stressa manipolazione del consenso». Secondo Mangoni la cultura e gli intellettuali «non si spiegano tautologicamente con se stessi, ma solo in relazione allo Stato e alla società». Per questo contesta a Bobbio anche il giudizio sul “nicodemismo”, ossia quel fenomeno di infingimento che Eugenio Garin aveva condannato tra gli intellettuali italiani sotto Mussolini: antifascisti nell’intimo ma pronti a ricevere onori e prebende dal regime. «Non vedo come la dissimulazione produca cultura», le aveva scritto Bobbio nella lettera del 21 marzo. «Produce quella letteratura tra cortigianesca e adulatoria di cui gli intellettuali italiani sono stati prodighi in tutte le epoche ». Mangoni rilancia: anche il nicodemismo è una zona di opacità che deve essere indagata. «Come interpretare altrimenti la recensione di Delio Cantimori a Ugo Spirito nel 1937?».
La discussione sarebbe andata avanti per alcuni mesi. Era una stagione di grande fermento, alla metà dei Settanta. Uscivano libri che ampliavano lo sguardo sul fascismo e sul Novecento. Beppe Vacca ricorda che nel 1974, insieme all’Interventismo della cultura , furono pubblicati Gli intellettuali del X-X secolo di Eugenio Garin e Gli anni del consenso , il terzo volume della biografia mussoliniana di Renzo De Felice. Cambiavano i parametri e la polemica culturale era quasi quotidiana, come questa tra Bobbio e Mangoni. Lui sembra anche divertito da questa inattesa «esecuzione sommaria condotta sui sacri testi» (che poi sarebbero Gramsci e Togliatti), ma non si lascia convincere. «Quando mi chiedo se ci sia stata una cultura reazionaria vado a cercarla nei grandi scrittori come Nietzsche o Pareto, cioè proprio in opere destinate a durare nel tempo. E sulle quali tutte le epoche tornano per reinterpretarle e discuterle». In fondo dell’azione culturale svolta da Giuseppe Bottai — personaggio simbolo scelto da Mangoni per il suo ragionamento — non è rimasto niente. «Si è sciolta come nebbia al sole», dice Bobbio. Sopravvive invece l’insopportabile retorica dei tanti giovani costretti all’ossequio. Ma la retorica è cultura?, la provoca in una lettera del 27 aprile. «Bisogna risalire alle radici più profonde », replica la studiosa nel giugno del 1976. Lei si accingeva all’opera proprio in quei mesi, persuasa che alcune componenti ideologiche e strutturali del fascismo fossero sopravvissute nella giovane democrazia, «dal capitalismo monopolistico di Stato alla concezione corporativa della società». Tutti temi su cui avrebbe continuato a studiare, con puntiglio ed umiltà. Scavando nelle zone d’ombra dell’intellettualità italiana, senza mai lasciarsene avvolgere.

Repubblica 23.1.15
Le lettere mai pubblicate
Cara, quel regime creò tanto rumore per nulla
di Norberto Bobbio


TORINO, 21 marzo 1976 Gentile dottoressa, ho letto con vivo interesse il suo articolo sulla cultura e il fascismo, e le osservazioni critiche ivi contenute nei riguardi della mia (malfamata) tesi sull’inesistenza della cultura fascista. Alcuni mesi fa scrissi un nuovo articolo sul tema, che le mando (...). Come vede, sono recidivo. Sono recidivo perché mi pare che sino ad ora gli avversari ai miei argomenti rispondano o spostando la discussione sul cedimento degli intellettuali (che io non ho mai contestato ma che è un problema completamente diverso) oppure parlando d’altro, per esempio dell’organizzazione della cultura promossa con tanto strepito (se pure con scarsi risultati) dal regime. (...) Non posso dire che questo suo articolo, pur interessante (e non poteva essere altrimenti provenendo dall’autore di un libro importante come L’interventismo della cultura ) e ricco di spunti (su cui intendo riflettere), m’induca a cambiare idea. Ma non insisto. Mi domando soltanto perché lei consideri arretrato (arretrato rispetto a cosa?) il mio modo di porre il problema (...). Perché è arretrato chiedere che si finisca di fare discorsi generici pro o contro il fascismo, e si faccia un esame serio di quel che è rimasto della cultura durante il fascismo? Non è la stessa cosa che chiede lei? A un certo punto lei per dimostrare la mia arretratezza parla del nicodemismo e dice che la tesi di Garin sul nicodemismo rappresenta «un notevole passo avanti rispetto alla tesi di Bobbio ecc.». A parte il fatto che del nicodemismo avevo parlato anche io indipendentemente da Garin (vedi Fascismo e cultura , ...), e in maniera molto esplicita, e credo precisa, mi pare che il nicodemismo sia uno degli argomenti più forti a favore della mia tesi. Non vedo come la “dissimulazione” produca cultura. Produce questa letteratura cortigianesca e adulatoria, di cui gli intellettuali italiani sono stati prodighi in tutte le epoche.
Coi più cordiali saluti Norberto Bobbio

TORINO , 16 marzo 1977 Gentile signora, la ringrazio dell’estratto del suo articolo su cesarismo ecc. Un bel tema, che mi piacerebbe però vedere sviluppato meglio anche concettualmente. Lei per esempio accenna a un certo punto alla distinzione tra cesarismo e bonapartismo, poi se non sbaglio non la riprende più. Così il problema del rapporto tra cesarismo, democrazia di massa e capo carismatico, da cui parte, andrebbe meglio approfondito anche riguardo a Gramsci, che cita Michels a proposito del capo carismatico in un famoso passo sulla demagogia in senso negativo e sulla demagogia in senso positivo. Il tema del capo carismatico è un tema che entra con forza nelle discussioni di quegli anni tra coloro che si rendono conto che è cominciata l’era della democrazia di massa (della “ribellione delle masse” per dirla con una espressione nota e negativa). Dal momento che lei ha dedicato l’ultima parte del suo articolo a Gramsci, perché non analizzare il suo pensiero anche su questo punto? Chi è “il demagogo superiore”? È anche lui un capo carismatico? Come mai tutta la teoria politica marxistica anche dopo Michels e dopo Weber non ha mai parlato volentieri del capo carismatico? (...) Cordiali saluti Norberto Bobbio

Repubblica 23.1.15
Omicidio o morte naturale? In Cile si riapre l’inchiesta sulla fine di Pablo Neruda

SANTIAGO DEL CILE Si riapre l’inchiesta sulla morte di Pablo Neruda e questa volta il governo cileno sarà parte in causa. La salma del poeta era stata riesumata nel 2013 e le analisi avevano dato esito negativo: non c’erano tracce di agenti chimici, nessuna prova per sostenere l’omicidio. Eppure il Partito comunista e i nipoti di Neruda hanno chiesto di sottoporre i resti a nuovi esami. Non credono alla versione ufficiale, quella della morte per cancro dodici giorni dopo il colpo di stato che portò al potere Augusto Pinochet. Il primo a sollevare dei dubbi fu il suo autista: raccontò che un medico gli iniettò una sostanza che fece peggiorare rapidamente le sue condizioni. «Gli indizi puntano a un possibile intervento di alcuni agenti dello Stato, per cui il caso potrebbe costituire un crimine di lesa umanità», ha spiegato Francisco Ugas, responsabile dell’area dei diritti umani nel ministero degli Interni.

Repubblica 23.1.15
Che cosa si può fare per abolire il carcere
Da anni si discute su come arrivare a una giustizia riparativa che superi la detenzione retaggio della premodernità
di Gustavo Zagrebelsky


La reclusione non si concilia con la dignità umana e toglie il diritto al proprio tempo Sono più coerenti sanzioni risarcitorie che costringano a vivere, ma cambiando vita *
IL CONVEGNO
Il testo di Gustavo Zagrebelsky riassume la lezione che l’ex presidente della Corte Costituzionale tiene questa mattina al Dipartimento di giurisprudenza dell’Università Roma Tre. Con Zagrebelsky interviene l’altro ex presidente della Corte, Gaetano Silvestri

IL carcere non è semplicemente privazione della libertà, come nel caso di un sequestro di persona. È qualcosa di qualitativamente diverso. Il sequestrato sa che la sua condizione è arbitraria e deve cessare il più presto possibile e che, fuori, c’è chi si dà da fare a questo fine. La vita continua nell’attesa.
Una volta c’erano i “cantacronache”.
Un bellissimo testo di vita e d’amore del 1959 — autore Fausto Amodei —, contiene una lezione di filosofia morale che nell’ultimo verso dice: «Basta che non ci debba mai mancare qualcosa d’aspettare». Ciò che possiamo aspettare è ciò che trasforma la mera esistenza biologica in vita. Vorrei ricordare una considerazione che viene da un uomo che il carcere l’ha conosciuto davvero e a lungo, Vittorio Foa. Per il detenuto comune non sorretto da una fede religiosa o politica, dice, «non c’è futuro. La speranza di salvezza viene meno. Il tempo si svuota. Si ripensa il passato o ci si rappresenta il futuro come in un’esteriore contemplazione priva di legami con la volontà ormai assente. (…) Le privazioni materiali del carcere sono poca cosa o comunque cosa alla quale l’organismo umano si adatta con facilità, (…) il peso reale della detenzione consiste solo nel progressivo svanire della volontà col decorso del tempo», cioè nella decomposizione dell’essere umano in conseguenza dell’espropriazione e della nullificazione del tempo ( Psicologia carceraria, in il Ponte, 1949, pagg. 299 e sgg.).
Il possesso del tempo della propria vita non è precisamente ciò che distingue gli esseri umani dalle cose che non hanno tempo e dagli animali la cui esistenza è ancorata agli istanti di un continuo presente privo di prospettiva? Per questo, la conciliabilità del carcere con la dignità umana appare un’illusione: una nobile illusione, ma pur sempre illusione. Si potranno mettere in atto tutte le misure possibili per alleviare le sofferenze e rendere sopportabile la condizione carceraria, ma non si potrà eliminare l’amputazione del primo diritto dell’essere umano: il diritto al proprio tempo. Nel nudo concetto del carcere percepiamo con turbamento questa mutilazione di umanità, ogni volta che mettiamo piede in uno “stabilimento penitenziario” o anche, soltanto, passiamo a fianco di muraglioni, grate e bocche di lupo (dove ancora esistono) e pensiamo al mondo che esiste al di là, fermo mentre tutto il resto scorre.
Si dirà: ma le cose non stanno così. Il regime penitenziario è oggi molto più complesso di quello che prese corpo nelle politiche di ordine pubblico dell’Antico Regime e si è perfezionato nelle società borghesi dell’‘800. La condanna a pene detentive non esclude benefici che mirano al superamento della condizione di separatezza e di abbandono, e a promuovere il reinserimento sociale: dalla legge Gozzini del 1986 in poi, sono possibili, per chi le merita, varie “misure alternative” e “pene sostitutive” (affidamento in prova ai servizi sociali, semilibertà, liberazione anticipata, detenzione domiciliare, permessi-premio, ecc.). Questo è vero ma, a parte le umiliazioni cui talora ci si sottopone per ottenere il “rapportino” favorevole alla concessione del beneficio, si tratta per l’appunto di misure alternative al carcere, cioè di misure non carcerarie . Questa è la riprova d’una ovvietà: il carcere è il carcere e, per sfuggire alla sua logica, occorre il non-carcere. Per venire incontro a ciò che la dignità implica bisogna uscire dal carcere. Il carcere è la sanzione ufficiale dell’indegnità delle persone.
Mentre tutto cambia, il carcere è ancora il centro del sistema delle sanzioni. La sua funzione è quella del capro espiatorio dei mali della società. Possibile che questo retaggio del mondo premoderno resti insediato al centro del rapporto — un rapporto la cui necessità non può negarsi — delitto- castigo, delinquente-sicurezza? Non ci sorprende che, su una questione cruciale come quella delle sanzioni penali, si sia fermi a una soluzione immaginata in una società dell’esclusione sociale come quella dello Stato assoluto, in cui ha svolto la funzione di simbolo di dominio? Cresce l’attenzione per il miglioramento delle condizioni nelle carceri e per l’attuazione e il sostegno delle misure alternative: enti locali, Università, associazioni di volontariato vi si dedicano a livello locale, nazionale ed europeo. Si vogliono riforme di contorno, ma il carcere resta ad occupare il centro della scena.
Diciamo che la commissione d’un crimine fa sorgere nel colpevole il dovere di “pagare il suo debito” alla società. Il carcere è un modo efficace di saldare questo debito? Evidentemente no. È solo il modo di soddisfare una pulsione sociale che richiede segregazione ed espiazione attraverso il dolore. Che cosa ne ottiene la società, se non la moltiplicazione di figure come quella del folle geraseno che si chiamava “legione”( perché erano in molti) del racconto evangelico di Marco (5, 1-20), oggetto della magistrale interpretazione di Jean Starobinsky ( Il combattimento con Legione, in Tre furori, SE, 2006, pagg. 66 e sgg.) e di René Girard ( Il capro espiatorio , Adelphi,1987, pagg. 257 e sgg.)? Non sarebbe più coerente una sanzione restitutoria e risarcitoria del danno commesso, con gravosi interessi che intacchino le stesse condizioni di vita del condannato il quale, dopo la condanna, non possa disporre delle medesime di prima? Che lo costringano a vivere, ma cambiando vita?
Diciamo anche che il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare quella frattura? Da qualche tempo si discute di giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa. Studi sono in corso, promossi anche da raccomandazioni internazionali. Si tratta di una prospettiva nuova e antichissima al tempo stesso che potrebbe modificare profondamente le coordinate con le quali concepiamo il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto sociale; da individuo rigettato dalla società a individuo che ne fa pur sempre parte, pur rappresentandone il lato d’un rapporto patologico. Qualcosa si muove, nella giustizia minorile, nei reati punibili a querela. Ma molto resterebbe da fare.
C’è una spiegazione del tradizionale insufficiente interesse della classe dirigente per questi temi. Nel nostro mondo gli status sociali sono aboliti, ma non rispetto al carcere. Il carcere è per chi, nella vita, ne ha già viste di tutti i colori, cioè per i predestinati, coloro che stanno ai margini. Ci immaginiamo uomini della grande finanza, della grande industria, della grande politica che dividono i pochi metri d’una cella con persone “comuni”, che si arrampicano sulla brandina, che usano il bugliolo unico per ogni cella (dove ancora esiste), che tendono le mani fuori delle grate, che magari devono rivolgersi all’agente di custodia chiamandolo “superiore” (dove è ancora così)? Se ci sono, sono eccezioni che confermano la regola. Quando i legislatori legiferano, i governanti governano, gli amministratori amministrano vale una sorta d’implicita divisione psicologica: trattano di problemi estranei alla loro vita, che suppongono non possano riguardarli. Si spiega che non ci sia urgenza di affrontarli.

Repubblica 23.1.15
I fantafigli
Gli scienziati già profetizzano: “In futuro, i maschi si potranno riprodurre senza donne”. In un laboratorio di Cambridge sono stati creati spermatozoi e cellule uovo dalle staminali
È la prima volta che si riesce a farlo nell’uomo. Un risultato che apre scenari fino a ieri inimmaginabili, anche se non così prossimi
di Silvia Bencivelli


I BAMBINI non li porta la cicogna. Non nascono nemmeno sotto i cavoli. I bambini del ventunesimo secolo nascono sempre più spesso grazie all’aiuto della scienza e della medicina. E quelli del ventiduesimo? Staremo a vedere. Per la prima volta, infatti, un gruppo di ricercatori di Cambridge è riuscito a costruire le delicate cellule della riproduzione al di fuori di testicoli e ovaia. Partendo dalle cellule staminali e dimostrando che, un giorno, potremmo avere cellule uovo e spermatozoi pronta consegna, ricavati in laboratorio laddove la natura non riesca a pensarci da sé.
La fantabiologia già vorrebbe parlare di uomini che si riproducono senza donne, di mammenonne eternamente fertili, di scienziati Frankenstein a capo di fabbriche di bambini. Ma la realbiologia, per fortuna o purtroppo, è decisamente meno fantasiosa. In compenso è molto più interessante, perché preannuncia non solo una rivoluzione nelle terapie per la sterilità, ma anche la comprensione, per esempio, di come e perché in età avanzata fare figli sia più difficile, anche col metodo tradizionale che conosciamo tutti.
La ricerca proviene dal Gurdon Institute di Cambridge, l’istituto per la ricerca sulle cellule staminali fondato dal premio Nobel per la medicina 2012 John Gurdon. Lo scienziato inglese è nella storia dalla fine degli anni Cinquanta per avere clonato un vertebrato (in quel caso il girino di una rana acquatica) a partire da una cellula già matura. Era la prima volta che la biologia viaggiava nel tempo, tornando indietro da una cellula adulta a una cellula di embrione, e poi avanti da quella cellula a un intero organismo adulto uguale all’organismo di partenza. Ed era l’inizio della ricerca sulle cellule staminali. Ma a quel tempo l’obiettivo di Gurdon non era né la clonazione né tantomeno la produzione di staminali. Era capire che cosa fosse contenuto nel Dna delle singole cellule e se ciascuna avesse in sé tutte le informazioni che costruiscono l’intero individuo. Un obiettivo molto di base, insomma.
Oggi, con John Gurdon ultraottantenne ma ancora attivo a Cambridge tra microscopi e provette, i viaggi nel tempo della biologia hanno risolto un nuovo problema. La ricerca ha infatti permesso di produrre i precursori delle cellule uovo e di spermatozoi in una sola settimana, a partire da cellule staminali embrionali e persino da cellule della pelle, quindi adulte e specializzate. È la prima volta che si riesce a farlo nell’uomo. Mentre nel 2012 un gruppo di scienziati giapponesi era riuscito a far nascere topolini da cellule uovo prodotte in laboratorio. E in precedenza si erano ottenuti in maniera analoga spermatozoi nuovi di zecca. Nell’uomo mancava un tassello chiave, cioè il gene capace di innescare il processo. Oggi questo ha un nome: SOX17. È un gene che nel topo non sembra avere nessun ruolo. E per Azim Surani, che ha diretto la ricerca, è una sorpresa: «I topi sono il modello chiave per lo studio dello sviluppo dei mammiferi », ha dichiarato al Guardian. Ma, evidentemente, ha proseguito, «questa estrapolazione non è sempre affidabile». Quindi la ricerca ha bisogno di utilizzare anche cellule umane, se vuole studiare l’uomo.
Quanto alle prospettive fantabiologiche, ci si può divertire a immaginare mondi in cui ciascuno di noi produce cellule uovo e spermatozoi dalle cellule della pelle e si riproduce da solo o con partner dello stesso sesso, superando una barriera biologica che oggi è insormontabile. Ma c’è una differenza tra uomini e donne che balza agli occhi. I maschi hanno un genoma di 46 cromosomi di cui due sessuali: un X e un Y. Perciò negli spermatozoi mettono 23 cromosomi, di cui uno solo sessuale, che può essere X (allora la prole è femmina) o Y (e allora sarà un maschietto). Mentre le femmine hanno comunque 46 cromosomi, ma i due sessuali sono entrambi X. Quindi nelle cellule uovo mettono 23 cromosomi di cui sempre una X.
Questo ha portato qualcuno a pensare che un giorno gli uomini potranno farsi costruire in laboratorio cellule germinali dotate alternativamente di X e di Y, sia spermatozoi sia cellule uovo. Mentre che per le donne l’offerta sarà solo di cellule con X. Ma Surani rallenta gli entusiasmi, e le fantasie: «Non è impossibile che un giorno costruiremo cellule di questo tipo. Ma come saremo capaci di usarle è un’altra questione, che affronteremo in un altro momento». Insomma: lasciateci lavorare e non esagerate con la fantabiologia. Questa «è il punto di partenza per nuovi lavori», insiste. E, come nel caso del giovane John Gurdon di sessant’anni fa, ha poco senso decidere oggi che quali saranno.
La prospettiva certa è intanto quella di una svolta nel trattamento delle infertilità: situazioni oggi molto frequenti per cui ogni progresso nella terapia è necessario e benvenuto. Ma c’è già qualche idea in più. Gli scienziati del Gurdon Institute insistono a dire che la loro ricerca non avrà conseguenze solo in ambito riproduttivo. Per cominciare, dicono, sarà utile per capire le malattie dell’invecchiamento legate ai danni da fumo, da cattive abitudini alimentari, da esposizione a sostanze chimiche. Danni che affliggono le cellule normali, ma che vengono cancellati a un certo punto dello sviluppo delle cellule germinali, permettendo al loro Dna di ricominciare una nuova vita in cui le colpe dei padri non ricadono sui figli. «La nostra ricerca ci potrà far capire come si cancellano queste mutazioni », spiega Surani. Come dire che, con la giusta ambizione della realbiologia, non cambierà solo il nostro modo di riprodurci, ma cambierà tutta la nostra vita. E che quando avremo a che fare con cellule uovo e spermatozoi non si tratterà più necessariamente di vecchie storie di cavoli e cicogne.

Repubblica 23.1.15
Ecco perché servono le sfide impossibili
di Elena Cattaneo


LA SCOPERTA di Azim Surani ha radici già storiche. Era il 1998, e con tre pagine su Science scienziati americani descrivevano l’isolamento delle cellule staminali embrionali da blastocisti (sovrannumerarie) umane. Rivoluzionarono così alcuni preconcetti ed esposero il mondo occidentale a nuovi conflitti bioetici, con alcune immancabili chiusure. Da quelle staminali si poteva prevedere di ottenere tutte le cellule specializzate dell’organismo. Con quelle staminali pluripotenti si cominciarono a immaginare percorsi conoscitivi e terapeutici impensabili prima. Seguirono anni d’intenso lavoro in laboratorio, sempre col “freno a mano tirato” a causa di alcune legislazioni, inclusa quella italiana. Tuttavia il progresso delle idee non si fermava. Ne risultò una valanga di competenze e risultati, oltre alla meraviglia e allo stupore che queste cellule alimentavano, in quanto aprivano una finestra per vedere e studiare in un piattino di laboratorio eventi della fisiologia umana cui mai avremmo potuto accedere. Ora sappiamo governare meglio il destino di quelle staminali per ottenere, ad esempio, cardiomiociti o quei neuroni dopaminergici la cui degenerazione scatena il Parkinson. Tanti gli aspetti scientifici risolti, molte le nuove sfide, anche cliniche.
Nel 2004 un altro giro di boa: tre laboratori ottengono da quelle embrionali (di topo) cellule simili ai gameti. Anche in questo caso la scienza non rinunciò afsporadico fatto ad affrontare le problematiche sollevate dai percorsi conoscitivi intrapresi. A far da pionieri furono Giuseppe Testa (docente alla Statale di Milano e biologo molecolare dell’Istituto Europeo di Oncologia nonché bioeticista) e John Harris (dell’Università di Manchester) che, con un articolo su Science, aprirono la discussione sulle implicazioni etiche associate alla produzione in vitro di gameti da staminali. Molti i risvolti analizzati e approfonditi. Coppie infertili potevano, forse, intravedere la possibilità di ottenere gameti attraverso la riprogrammazione delle loro cellule mediata dal trasferimento nucleare somatico. Testa e Harris anticiparono, loro stessi, anche un pensiero provocatorio: quello di due uomini che avrebbero potuto realizzare i loro eventuali desideri di genitorialità attraverso un figlio il cui genoma avrebbe avuto il contributo di entrambi, con un gamete ottenuto attraverso la normale spermatogenesi e l’altro mediante riprogrammazione verso la linea germinale femminile. E l’anno scorso proseguirono anticipando le ulteriori implicazioni etiche e politiche che la scoperta di Surani fa ora scaturire.
Non era passato troppo tempo (siamo nel 2006), e la scoperta delle cellule iPS infrangeva un altro dogma (quello dell’immutabilità delle nostre cellule specializzate) e, con esso, le ipotesi sopra descritte diventavano “teoricamente” più attuabili. Fu infatti chiaro agli scienziati sin da subito (meno a coloro che si approcciano alla scienza in modo e ideologico) che le iPS, salutate entusiasticamente come l’alternativa etica alle embrionali umane, erano a loro volta fonte di acceso conflitto etico per la possibilità che rappresentano di ottenere gameti da fibroblasti di ogni individuo. La pubblicazione di Surani, chiude il cerchio e dice che tecnicamente “si può”. Sottolineando, una volta di più, come la scienza renda pubbliche le opportunità che scopre affinché siano analizzate sia per i loro vantaggi che per le riflessioni che sollevano. Tra queste, quella che gli uomini possano riprodursi autonomamente riprogrammando le cellule della propria pelle a diventare ovocita e spermatozoo, poi generando un embrione mediante fertilizzazione in vitro per poi accedere ad una madre surrogata. Ma bisogna chiarire una serie di cose.
Prima di tutto che la pubblicazione di Surani è “distante anni luce” non solo da questo obiettivo ma anche dal più semplice intento di usare gli eventuali gameti umani, ottenuti dalle iPS, in coppie infertili o, per fare un altro esempio, per rimediare a quei drammatici casi di sterilizzazione biologica involontaria ancora reali in alcune parti del mondo. Molto resta, infatti, da capire sull’efficacia dei gameti umani che si formerebbero. Ci sono prove che gameti maschili e femminili ottenuti da iPS di topo generano una progenie. Tuttavia mancano informazioni circa la longevità e le caratteristiche di questi topolini ed è, allo stato attuale, impensabile un simile procedimento nell’uomo. Non per questo però lo studio di Surani perde la sua enorme importanza. La sua vera forza sta, al contrario, nell’avere scardinato (ancora una volta) “l’irraggiungibilità conoscitiva” di processi fisiologici che altrimenti mai potremmo analizzare, come ad esempio la formazione dei progenitori degli spermatozoi e degli ovociti e la loro maturazione. Partendo dalle iPS umane sarà anche possibile disporre, nel piattino, di gameti da soggetti fertili e infertili per poi studiare “dal vero” alcuni degli eventi che provocano l’infertilità nell’individuo.
Bisogna quindi chiarire bene che la “fantabiologia” è sempre esterna ai laboratori. Dentro ci sono persone che studiano, lavorano e si cimentano in sfide spesso inimmaginabili, ma con vantaggi per tutti. Spesso, se non sempre, coltivando la speranza di essere capiti, oltre che utili.
Docente, Università degli Studi di Milano