sabato 24 gennaio 2015

il Fatto 24.1.15
L’Unità resta chiusa il Foglio diventa di Lotti e di governo
Il nuovo direttore esplicita i legami con Renzusconi:

"Siamo innamorati della limonata tra Matteo e Silvio
di Salvatore Cannavò

Penso che Renzi e Berlusconi siano la coppia più bella del mondo. Noi siamo innamorati della grande limonata tra i due”. Intervistato dal Corriere della Sera, il futuro direttore del Foglio, il trentaduenne Claudio Cerasa, ha illustrato in pochissime righe il programma editoriale del giornale che ha come soci Paolo Berlusconi e Denis Verdini e come presidente Giuseppe Spinelli, il ragioniere di Silvio Berlusconi. Non è una gran novità.
Giuliano Ferrara, direttore dal 1996 e che ha deciso di lasciare “perché non si può fare il direttore per venti anni”, ha sempre “limonato” con i dirigenti del Pd. La stessa nascita del suo giornale avvenne nell’innamoramento per la Bicamerale allora presieduta da Massimo D’Alema e che rappresentò l’apice degli “inciuci” tra destra e sinistra. Ancora nel 2006, Ferrara si prodigò per sostenere la candidatura di D’Alema alla presidenza della Repubblica pubblicando, con una esplicita intervista all’allora segretario dei Ds, Piero Fassino, un programma per il Quirinale improntato alla pacificazione nazionale. Infine, quando, dopo il 2008, l’Elefantino tifava per l’intesa tra Silvio Berlusconi e il Pd, arrivò a inventarsi l’abbreviazione Caw, dove la lettera finale stava per Walter, nome di Veltroni, primo segretario del Partito democratico.
LE LIMONATE, dunque, sono storia antica. Oggi, però, alla guida della “sinistra” italiana c’è un signore che all’attivo del suo primo anno di governo ha la chiusura di, quasi, tutti i giornali della sinistra. E in questo vuoto, il Foglio può offrirsi come una sorta di house organ del governo Renzusconi con una agilità sorprendente. Un segnale degli amorosi sensi tra il quotidiano e il partito lo si è avuto con la paginata pubblicata l’altroieri in cui i deputati e i senatori Pd sono stati tutti “schedati” a seconda del loro affidabilità in vista delle elezioni per il presidente della Repubblica. Una lista dietro cui è sembrata evidente la mano dei colonnelli di Renzi, in primis quel Luca Lotti che ormai è il vero numero 2 dell’entourage renziano. E la cui prima, vera, biografia giornalistica fu pubblicata proprio da Cerasa nel dicembre 2013. Una pagina di aneddoti e ricostruzioni in cui veniva esaltato “il bambino che da piccolo ha imparato ad azzannare i comunisti”.
Senza cedere alla malizia con cui ieri Dagospia bollava la dipartita di Ferrara – “abbandona la nave che cola a picco? ” – le vicende del Foglio si intersecano ai problemi economici di gran parte della stampa italiana. Come una cinquantina di testate, anche il quotidiano dell’Elefantino percepisce i “contributi diretti alle imprese editoriali” in base al comma 2 dell’articolo 3 della legge 250 del 1990. Nell’ultimo dato disponibile presso il Dipartimento dell’Editoria, i contributi ammontavano a 1,2 milioni di euro che corrispondono a circa il 20% del fatturato del Foglio stando ai numeri pubblicati da Milano Finanza. Quei fondi, però, si stanno riducendo impietosamente. Il Fondo per l’Editoria è stato via via prosciugato e lo stesso governo Renzi conta di dimezzarlo nel 2015.
UN RAPPORTO diretto con il premier potrebbe essere utile per avere qualche sponda? Lecito pensarlo. Renzi finora non ha dimostrato grande sensibilità per la stampa politica. Nel corso del suo governo, infatti, hanno chiuso quasi tutti i quotidiani collocati a sinistra: Liberazione a marzo, poi l’Unità, Europa, Left – che però è stata riacquistata da Matteo Fago – il Salvagente e, ultima in ordine di tempo, Rassegna sindacale che si è trasferita sul web.
I problemi principali emergono per quanto riguarda i quotidiani di area Pd. L’Unità ed Europa, infatti, avrebbero dovuto essere recuperati dalla nuova società editoriale Eyu (l’acronimo di Europa, Youdem, Unità) di proprietà al 100% del Pd. A oggi, però, la situazione è drammatica, soprattutto per i dipendenti dei rispettivi giornali (quasi un centinaio). Europa è stata chiusa e la testata assorbita direttamente dal Pd che, assicura, la farà tornare presto online. All’Unità, invece, si attendono ancora le decisioni che prenderà l’editoriale Veneziani che punta ad acquisire la testata. Un comunicato della Fnsi e del Cdr del quotidiano teme che la vicenda possa concludersi “nel peggiore dei modi” perché Veneziani vorrebbe rilevare il giornale “senza avvalersi della professionalità dei suoi lavoratori, giornalisti e poligrafici”. Eppure, il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, aveva garantito che il cambio di proprietà sarebbe avvenuto a condizione di avvalersi “prioritariamente” dei lavoratori della Nie (società in liquidazione) oggi in cassa integrazione straordinaria. L’offerta di Veneziani è all’esame del Tribunale di Roma ma le componenti sindacali reclamano, da mesi, un incontro immediato con l’editore Veneziani “capofila della cordata di cui fa parte anche la fondazione Eyu del Pd” .

La Stampa 24.1.15
Civati e Vendola contro l’asse Renzi-Berlusconi: “Per il Colle candidiamo un nome anti-Nazareno” Il Pd: “Nessuna spaccatura, il partito resta unito”
Il deputato della minoranza Pd e il leader di Sel aprono all’alleanza col M5S. Ma i Cinque Stelle: «Aspettiamo la rosa di nomi dal premier». E Guerini: «Non ci divideremo»

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La Stampa 24.1.15
Il NON partito
di Massimo Gramellini


Quando le chiedevano di partecipare a una marcia contro la guerra, madre Teresa di Calcutta rispondeva che lei preferiva manifestare a favore della pace. Non occorre essere una santa per capire che chi va contro qualcosa non fa che infonderle ulteriore energia. Ma la sinistra massimalista italiana ha la psicologia di un bimbo capriccioso. Sempre «anti», «contro», «non», identifica se stessa soltanto in contrapposizione a un nemico. Ancora ieri Vendola e Civati hanno proposto un candidato NN per il Quirinale. Dove la sigla evocatrice di orfanotrofi e solitudini strazianti sta per Non Nazareno, il famigerato patto che Matteo Renzusconi avrebbe stretto un anno fa con Silvio Berlenzi nei sotterranei della sede Pd (il Nazareno, appunto). Potevano chiamarlo candidato della Sinistra, che non è mica una parolaccia, o candidato della Costituzione. Potevano chiamarlo candidato Bella Ciao, l’inno partigiano cantato a squarciagola da tutte le sinistre europee che si battono per vincere le elezioni e non per farle perdere a qualcun altro. E invece Non Nazareno. Cioè, ancora una volta, un’iniziativa politica costruita contro qualcuno anziché intorno a qualcosa. 
Persino i ciclici innamoramenti per un papa straniero (Blair, Zapatero, adesso Tsipras) sono la spia di quella regola del Non che i notabili della sinistra nostrana applicano anzitutto al loro interno, bruciandosi le carriere a vicenda in reciproci soprassalti di gelosia. Tsipras va bene finché se ne rimane tranquillo ad Atene. Il giorno in cui decidesse di trasferirsi a Roma partirebbe subito la ricerca di un candidato NGG, Niente Greci Grazie. 

Corriere 24.1.15
I ribelli e il no: niente di personale contro Anna
di Andrea Garibaldi

Gotor boccerà la modifica firmata dalla senatrice: ma lei va bene per il Quirinale
ROMA Sul percorso della minoranza del Partito democratico c’è un caso «personale»: i senatori si troveranno a votare contro un emendamento firmato da una collega da sempre al fianco di molti di loro, Anna Finocchiaro. E la via d’uscita è: «Niente, proprio niente di personale».
«Mi dispiace molto non essere stavolta sulla sua stessa lunghezza d’onda, poiché ho con lei un’intesa umana e intellettuale», dice la senatrice Doris Lo Moro, magistrato (come Finocchiaro) ed ex sindaco di Lamezia Terme. L’emendamento finale che mette in fila tutti i punti dell’«Italicum», la nuova legge elettorale, è firmato da Finocchiaro, dalemiana e bersaniana, insomma vicina a buona parte dei ventinove dissidenti che contestano la legge, voluta dal segretario Pd e premier Renzi. A nome degli altri, due giorni fa Walter Tocci ha detto: «Non parteciperò al voto sul maxiemendamento. Il non voto è un silenzio che parla...».
«Non è un voto contro Anna — spiega Miguel Gotor —. È un voto contro il merito della questione. L’emendamento Finocchiaro è conseguenza dell’emendamento Esposito, bocciato da un gruppo di senatori democratici (29 in tutto). Noi siamo contrari a una futura Camera con il 60 per cento di “nominati”».
Ed ecco ancora la senatrice Lo Moro: «Non so quanto l’emendamento Finocchiaro traduca il suo pensiero. È stato sicuramente concordato con Palazzo Chigi. Di certo, il dibattito in commissione Affari costituzionali è stato di livello elevato, grazie anche al presidente Finocchiaro. Io sono sicura che fra me, Anna e Renzi ci sarebbe un comune sentire sulla legge elettorale. Solo che si è cercato un accordo al di là del Pd...».
Come ogni cosa in questo periodo, anche il voto sull’emendamento Finocchiaro si incrocia con l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Molti dei «ribelli» Pd tengono a «separare nettamente» la questione Quirinale dalla legge elettorale: «Non è che andremo a vedere cosa hanno firmato o cosa hanno votato i candidati al Quirinale», sostiene uno dei dissenzienti, che non vuole apparire. Dice Gotor che sulla Presidenza della Repubblica si deve prima di tutto partire dal Pd «nel suo insieme»: «Da parte nostra c’è piena disponibilità a una soluzione unitaria e sarebbe molto importante eleggere un presidente nelle prime tre votazioni, che fosse rappresentativo delle principali forze politiche, di maggioranza e di opposizione. Dentro questo quadro non avrei nulla da eccepire sul nome di Anna Finocchiaro, che ho imparato a stimare umanamente e professionalmente, lavorando con lei in commissione».
Secondo Gotor, «sbaglia Civati a inseguire disegni minoritari destinati al fallimento». Civati, che fa parte della minoranza, ma è deputato, vuole un candidato presidente non Nazareno, non frutto di un accordo Renzi-Berlusconi. E il senatore di minoranza Corradino Mineo si allinea: «Non voteremo una persona che cammini alcuni passi indietro al “Sindaco d’Italia”, Renzi, o una persona che abbia cambiali da pagare a Berlusconi».

Corriere 24.1.15
«Con i voti della destra è un’altra maggioranza»

Massimo D’Alema ieri a Roma per la presentazione, insieme a Stefano Rodotà, del libro Alexis Tsipras. La mia sinistra (Edizioni Bordeaux) di Teodoro Synghellakis. Per l’ex premier le maggioranze variabili «non sono trasparenti. Se in modo sistematico i voti di una parte del Pd sono sostituiti dai voti di destra cambia la maggioranza». E sul caso Cofferati: «Sui suoi rilievi risposte sconcertanti, le primarie devono avere delle regole»

La Stampa 24.1.15
“Avevamo una banca” Origini ed esiti dello scandalo che ha travolto il Montepaschi
di Gianluca Paolucci e Giuseppe Bottero

un ebook da scaricare qui


il Fatto 24.1.15
Sinistra cimiteriale
L’inciucio con B. li ha ammazzati tutti
di Fabrizio d’Esposito


L’altra sera, a Servizio Pubblico destava una certa impressione il mostro tipo Gabibbo del Connubio Bierre, Nazareno Renzoni, intervistato sul Totoquirinale da Alessandro De Angelis dell’Huffington Post. Nazareno Renzoni è figlio, anche nel nome, dell’antico Dalemoni, fantastica crasi dell’inciucio scolpita ab aeterno da Giampaolo Pansa sull’Espresso. “Dalem” stava per D’Alema, il primo a sinistra a credere di poter fare un patto con Silvio Berlusconi-oni-oni.
Il patto della crostata e l’ammissione di Violante
Per il Generale Massimo, penultimo dei togliattiani del Pci (l’ultimo è stato Giorgio Napolitano al Quirinale), quella storia a base di crostate gustate in casa di Gianni Letta alla fine è stata letale. Non solo per il marchio infame dell’inciucio che ha accompagnato D’Alema per tutto il ventennio della Seconda Repubblica. Ma anche e soprattutto perché l’intelligenza con il Cavaliere si trasfigura sempre in un abbraccio mortale. Ed è questo che deve temere Matteo Renzi. Riuscirà a sopravvivere al Nazareno dopo che anni e anni di consociativismo hanno devastato un’intera classe dirigente del centrosinistra, con la sola eccezione dell’antiberlusconiano Romano Prodi? In origine, appunto, fu Massimo D’Alema. E al di là di retroscena e ricostruzioni di quella cena nel 1997 a casa Letta del mostro Dalemoni, per parlare di Bicamerale sulle riforme e salvezza delle tv del Biscione, fa fede la clamorosa e ormai nota rivelazione pubblica di Luciano Violante nell’aula di Montecitorio nel febbraio del 2002.
Promesse e garanzie, ma D’Alema fu sempre bruciato
La citazione di Violante edizione 2002 va riportata per intero come memorandum a Renzi e al suo fidato Lotti quando s’incontrano con B. e Verdini. Violante, nel suo ruolo di capogruppo dei Ds, rispose a un deputato dell’allora An, Anedda, che accusò la sinistra di voler espropriare il Cavaliere: “Se dovessi applicare i vostri criteri, quelli che avete applicato voi nella scorsa legislatura contro di noi, che non avevamo fatto una legge sul conflitto di interessi, non avevamo tolto le televisioni all’onorevole Berlusconi. Onorevole Anedda, la invito a consultare l’onorevole Berlusconi perché lui sa per certo che gli è stata data la garanzia piena, non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di governo, che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta. A parte questo, la questione è un’altra. Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni. Durante i governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte”. Un passaggio che è ancora di una sconcertante attualità. Eppure, nonostante tutto, B. ha combinato a D’Alema due macabri scherzi. Dapprima fece saltare la tanto decantata Bicamerale, poi nel 2006 bruciò l’amico “Massimo” per il Quirinale, dopo che il povero Fassino aveva lanciato la candidatura di D’Alema sul solito Foglio di Ferrara.
L’accordo con Veltroni e l’èra Bersani-Enrico Letta
Perfidia della storia, il cognome Veltroni è invece una crasi naturale dell’accordo tra “Walter” e “Silvio”. Stavolta siamo nel 2008. Alle politiche, Veltroni è il candidato del centrosinistra e non cita mai l’avversario in campagna elettorale. Una cortesia che verrà utile un anno dopo quando Goffredo Bettini, factotum veltroniano, incontra segretamente Denis Verdini per un accordo-ne su legge elettorale per l’Europee e assetto radio-tv. In pratica, l’attuale Pregiudicato dopo aver rottamato D’Alema, estinguerà anche il nemico giurato di “Massimo”. Il resto è storia di questi anni, sotto l’ombrello consociativo di Re Giorgio. Certo, fu il capo dello Stato a imporre l’inciucio a Pier Luigi Bersani per il governo Monti, ma lo stesso segretario del Pd non ebbe difficoltà a fare un patto con B. sul congelamento del Porcellum, per portare nel 2013 i rispettivi nominati in Parlamento. Garanti di quell’intesa furono Verdini per Berlusconi e e Migliavacca per Bersani. Con Enrico Letta a Palazzo Chigi, l’inciucio diventa di famiglia. Il nipote premier, lo zio Gianni con B. Dal ’94 a oggi Silvio Berlusconi ha abbracciato e ucciso tutti i leader di centrosinistra che hanno voluto accordarsi con lui. Bisogna dargliene atto. Adesso c’è Renzi, che pensa di essere più furbo del Caimano.

il Fatto 24.1.15
Da Botteghe Oscure a bottega
La storia del Pci in un market
Nello storico palazzo, per decenni sede del partito comunista, ha aperto un Pamn
Di quel periodo non resta più nulla, solo scaffali e ultime offerte
di Alessandro Ferrucci


La domanda spiazza l’interlocutore alle prese con l’ardua scelta su quale succo di frutta acquistare: “Lo sa che in questi locali di Botteghe Oscure, fino a poco tempo fa, c’era Rinascita, la libreria del Partito comunista, e che in questo palazzo Togliatti e compagni hanno scritto un lungo pezzo di storia? ”. Silenzio, sguardo attonito, quasi preoccupato. “Ho fretta... devo andare”, risponde. Ci mancherebbe, siamo in un supermercato, uno dei tanti, tantissimi, infiniti nel centro di Roma, piccoli, medi, giganteschi, ovunque, sono tra i pochi esercizi commerciali ancora in buona salute (i dati del settore confermano), quindi giusto conquistare spazi, il mercato comanda, a prescindere da luogo, cultura, storia, sentimenti; a prescindere dalle timide proteste di coloro i quali in quella via hanno vissuto, e versato, parte del proprio credo, e che ora possono manifestare lo stordimento solo sui social network; le sezioni non esistono più, si chiamano circoli, e sono mezzi vuoti. “Quanti ricordi in quella via”, scrive Maria su Facebook, “ora non c’è più nulla, che tristezza”.
CI SONO SCAFFALI, l’offerta della settimana, quella del giorno, il precotto, qualche surgelato, la memoria no. Nessuno dei passanti conosce la storia di Botteghe Oscure, nessuno, è un luogo qualunque, una via qualunque, un palazzo qualunque. Ugo Sposetti, tesoriere dei Ds, togliattiano di fede, virtualmente alza le mani e sfodera un inedito pragmatismo: “La questione doveva essere posta nel 2000, quando l’allora Pds ha lasciato il palazzo e abbandonato un percorso, non oggi. Oggi la vita prosegue, inutile aggrapparsi a certi simboli”. Sì, di simboli non resta alcuna eco. Giusto l’androne del palazzo ha ancora parte della struttura studiata da Giò Pomodoro, ora ha gli uffici l’Abi (Associazione bancaria italiana), “ma per anni è stato chiuso – spiegano all’interno – costava troppo, o almeno così dicono, ma da un anno la società ha rilevato la struttura. Oh, bella, figo anche il terrazzo, dicono che si affacciavano da lì”. Chi si affacciava? “I capi”. Vero, ma senza mani sui fianchi, specialmente dopo un successo elettorale.
L’ULTIMA SERA di (fu) vera gloria è datata 21 aprile 1996. Berlusconi battuto. Prodi e Ulivo vincenti. Il centrosinistra era il centrosinistra, il centrodestra era il centrodestra, l’ex Cavaliere era ancora un avversario, Renzi aveva appena 22 anni. Il Nazareno non esisteva, le tradizioni sì: D’Alema, acclamato dalla folla, si affaccia, appunto, da quel balcone e alza il pugnetto in segno di vittoria, non il pugno. Dentro la sede c’era Veltroni, forse anche Napolitano, e tutti gli altri leader, sparsi nelle varie stanze del terzo piano, il piano riservato ai big con un grande corridoio centrale sul quale si aprivano gli uffici. Qui c’era anche quello di Togliatti dopo la sua morte, gli altri segretari hanno scelto la stanza accanto, un tempo regno del suo braccio destro, meglio non paragonarsi direttamente al Migliore. “Comunque qui è un mortorio – interviene
un commesso del supermercato – c’è poco movimento”. A dire il vero non c’è proprio, movimento. Strade semi-vuote, sia di macchine che di pedoni, serrande abbassate da ambo i lati del marciapiede, cartelli con “affittasi” e numeri di telefono scritti a caratteri enormi, meglio non rischiare di perdere un potenziale cliente. “Sono troppo cari gli affitti, e non è una via commerciale – spiega un’agenzia immobiliare – giusto un market può avere margini”.
Una libreria no, non è più il tempo, anche se si chiamava Rinascita, nome evocativo di un fine, di un programma, per alcuni di una speranza, ma i libri sono in crisi, pure in questo caso i dati sono chiari.
“MA LO SA cosa c’era da quel lato, dietro le saracinesche? ”, ci domanda un signore anziano. No. “I servizi segreti, monitoravano i movimenti dentro il palazzo, ufficialmente controllavano la sicurezza, ma non so se era veramente così. E poi lì dietro, oltre l’angolo, c’era il bar di Vezio, con il busto di Lenin all’entrata, e dentro sembrava di superare il confine con l’Unione Sovietica, solo falce e martello, icone comuniste e pugni chiusi”. Al posto del bar c’è uno studio di grafica. Anche Vezio non c’è più. E di Botteghe Oscure è rimasto solo l’Abi e un bottegone, da supermercato con l’offerta a 3 euro.


il Fatto 24.1.15
Alfredo D’Attorre Voglia di dissenso
“Saremo franchi ma non tiratori”
di Gianluca Roselli


Renzi alla guida dei 101 che silurarono Prodi? Di certo il premier non lavorò per favorire la candidatura di Marini e del Professore, probabilmente per indebolire la segreteria di Bersani”. Alfredo D’Attorre, deputato bersaniano, fa parte della minoranza del Pd. E in questi mesi non ha risparmiato critiche a Renzi e al suo governo.
Le parole di Stefano Fassina, dunque, non l’hanno sorpresa?
Fassina dice sicuramente una verità. Poi, ripeto, Renzi non fu il solo a remare contro il Professore. Ma non fu il solo, anche perché allora, da sindaco di Firenze, non credo potesse controllare 101 parlamentari. Diciamo che i renziani possono aver concorso insieme ad altri.
Secondo lei la candidatura di Prodi è ancora in campo anche per le prossime elezioni?
La sua candidatura ha caratteristiche di autorevolezza e autonomia. Se ne discute, senza accettare veti da parte di nessuno.
Si riferisce al veto che avrebbe messo B.?
Sì.
Dopo le divisioni sull’Italicum, non si arriva nel migliore dei modi a questo voto per il Colle…
Sono certo che ci sarà più lealtà nei confronti di Renzi di quanto ce ne sia stata nei confronti di Bersani. Diciamo che mi fa un certo effetto sentire il premier ergersi a cantore della disciplina di partito, visto il modo in cui agiva durante la segreteria Bersani. Un po’ lo stesso effetto che mi fa sentire mio amico Orfini, da sempre teorico dell’organizzazione per correnti, polemizzare contro le aree organizzate.
Ora cosa succederà?
Credo ci sia tutto lo spazio, se c’è la volontà, per costruire in modo trasparente una candidatura di alto profilo, forte e unitaria. Bisogna evitare il rischio che i grandi elettori del Pd vengano messi di fronte a un aut aut: prendere o lasciare. Inoltre...
Inoltre…
Il prossimo presidente dovrà essere una figura non subalterna al governo, né al patto del Nazareno.
E se invece fosse un nome deciso da Renzi e Berlusconi?
A quel punto nel Pd si aprirebbe un problema politico serio e noi esprimeremo il nostro dissenso apertamente. Renzi, però, può stare sereno: diremo no alla luce del sole e non ci saranno franchi tiratori. Ci sarà semmai un franco dissenso. Ma, ripeto, penso e spero che il Pd possa mettere in campo il candidato giusto.
Che potrà essere votato anche da Fi?
L’importante è che i voti di Forza Italia siano aggiuntivi e non determinati, come invece è stato sull’Italicum. Se non sarà così, sarà un problema.

il Fatto 24.1.15
De Luca sospeso “Resto e mi candido”. Figuraccia Dem
Stop al sindaco condannato: “Rimango da emerito”
Il Pd che attaccò De Magistris non invoca più la Severino ma non lo vuole alle primarie, e gli lascia Salerno
di Vincenzo Iurillo


Napoli La conferma che Vincenzo De Luca è l’uomo dei record – 75% al primo turno nel 2011, ben 11.000 firme per la candidatura alle primarie del Pd in Campania – arriva poco prima di pranzo, con il decreto prefettizio di sospensione dalla carica di sindaco di Salerno. Sono trascorsi appena due giorni dalla condanna per abuso d’ufficio alla notifica del provvedimento. Un record anche questo. Straccia i sette giorni impiegati per sospendere Luigi de Magistris a Napoli, poi reintegrato da un’ordinanza del Tar confermata dal Consiglio di Stato. De Luca e De Magistris sono le due vittime più illustri della Severino. Una legge che per il Pd è da applicare e rispettare quando riguarda un sindaco avversario, ma diventa – Piero Fassino dixit, a nome dell’Anci – una norma che “penalizza gli amministratori perbene” e va rivista, se colpisce un democrat. Per fortuna c’è chi conserva i lanci di agenzia. La condanna di De Magistris risale al 24 settembre e il giorno dopo il segretario del Pd campano Assunta Tartaglione già parla “di applicazione possibile della Severino” per un primo cittadino “che ha messo in ginocchio la città” e lo invita “a pensare alle possibili dimissioni”. Il 26 settembre, il responsabile Giustizia Pd, David Ermini, a proposito della Severino, è lapidario: “La legge è uguale per tutti. In Italia le sentenze si rispettano e le leggi si applicano. Funziona così”. Il senatore pd, Rosaria Capacchione, rincara: “La legge c’è e va applicata. Berlusconi si è dovuto dimettere e, invece, De Magistris vuole fare le barricate... Se una condanna è ingiusta, la si impugna. Ma, nel frattempo, il sindaco dovrebbe farsi da parte”.
IL 27 SETTEMBRE Antonio Bassolino, recentemente riappacificato con De Luca dopo decenni di lotte intestine, va oltre: “De Magistris ormai è finito, è il momento di ridare la parola ai cittadini”. In quelle ore il presidente del Senato Grasso risponde così a una domanda: “De Magistris può scegliere se dare le dimissioni o aspettare l’applicazione di questa legge”. Interviene anche il segretario generale campano Cgil, Franco Tavella: “De Magistris risparmi alla città una lunga agonia e restituisca con le sue dimissioni la parola agli elettori”. Si tratta dello stesso Franco Tavella che l’altroieri era a Salerno alla prima iniziativa politica di De Luca dopo la condanna. Il 1° ottobre, a decreto di sospensione ormai pronto, il segretario napoletano del Pd Venanzio Carpentieri prevede per Napoli “una prospettiva di profonda incertezza e di grave instabilità politica, per le quali manifestiamo profonda preoccupazione” e aggiunge: “Riteniamo indispensabile scongiurare una simile eventualità e consentire alla città di tornare al voto”. Il culmine, o il colmo, arriva il 4 ottobre, quando il senatore Pd Angelica Saggese invoca in un’interrogazione ad Alfano “il divieto di dimora a Napoli per De Magistris” per mettere fine “a uno spettacolo indecoroso di un ex primo cittadino che ha dimostrato un assoluto disprezzo per chi lo ha condannato e sospeso”.
ORA IL PD tace, anche se De Luca è stato condannato per fatti commessi nell’esercizio delle funzioni, a differenza di De Magistris. Nessuno invita il sindaco di Salerno a dimettersi, i Dem glissano sui suoi attacchi “a quella parte della magistratura che non sa cosa sia il diritto, e solo uno squinternato poteva pensare di trovare contro di me il peculato” (mentre fonti dalla Procura fanno filtrare l’ipotesi di un ricorso contro l’assoluzione per questo reato). Dietro le quinte, tra Roma, Napoli e Salerno, si anima una trattativa impossibile da portare alla luce del sole: De Luca si ritiri dalle primarie in Campania e in cambio il Pd gli lascerà campo libero a Salerno fino alla fine del mandato (dando per scontato che il Tar applichi anche a lui il precedente di De Magistris). Ma le primarie ci saranno? “Assolutamente sì” risponde De Luca pochi minuti dopo la sospensione. E ora? “Mi sento persino inorgoglito della mia nuova veste di sindaco emerito. Affiancherò come volontario il sindaco facente funzione per supportarlo nella sua attività”. Si tratta del suo capo staff, Enzo Napoli. Nominato poche ore prima della condanna.

il Fatto 24.1.15
Tutti contro l’invasor
Bella Ciao e il webcorteo globale
di Nanni Delbecchi


Una mattina mi son svegliato e ho googlato l'invasor. Oggi a Giancarlo Magalli, domani a Bella Ciao; al giorno d'oggi non si sa mai a chi può toccare di ringiovanire, o addirittura di risorgere in Rete dalla propria leggenda. L'ultimo a intonare la leggendaria canzone partigiana è stato Alexis Tsipras durante la chiusura della sua campagna elettorale per le elezioni greche, ma ormai è un passaparola planetario che si infoltisce di giorno in giorno. Dove c'è una folla unita dalla protesta o dalla dissidenza, c'è Bella ciao. È stata intonata alle esequie per i vignettisti Charb e Tignous uccisi nell'assalto al settimanale Charlie Hebdo. Prima ancora c'erano stati quelli di Occupy Wall Street a Zuccotti Park, e i dimostranti di Piazza Taksim a Istanbul nei cortei contro il premier turco Erdogan. È echeggiata in coro anche tra i giovani dimostranti di Hong Kong; e se non è ancora arrivata in Giappone (la versione in giapponese su Youtube c'è già), è solo questione di tempo. Da noi, che bene o male deteniamo il copyright, la corsa a mettere il cappello, o la felpa, o la maglietta della salute, è in pieno svolgimento e genera strane commistioni; hanno cantato Bella ciao Camusso e Landini alle manifestazioni della Cgil, Michele Santoro in apertura di Servizio pubblico, ma anche il sedicente “comunista vecchia maniera” Matteo Salvini, abilissimo in realtà a captare tutti i tram che passano, in segno di protesta contro i disperati che sbarcano sulle nostre coste. Dimmi che invasore hai e ti dirò chi sei.
Repubbliche delle banane a parte, il segnale è preciso: la crisi non è mai stata tanto globale e così, per il noto principio della dinamica, sta nascendo una resistenza uguale e contraria. Passo dopo passo, le note della canzone partigiana, di cui in realtà non si è mai stabilita la vera origine, stanno dando forma a una sorta di corteo planetario, dove non ci sono distanze che non possano essere colmate in un clic; e anzi, la lontananza diventa un incentivo a riconoscersi in una ribellione sempre più trasversale. In fondo, non fa una piega: se l'oppressore è globale come il capitalismo senza nome e senza volto che di fatto ci governa, anche chi vi si oppone non conoscerà più confini e cercherà un'identità comune. La Rete è una grande piovra, ma è anche piena di macchie e di montagne adatte a organizzare imboscate. Altrettanto significativo è il testacoda tra vecchi messaggi (ma vecchi perché intramontabili) e mezzi nuovissimi: la vecchia canzone rimbalza da una piazza all'altra del globo grazie alla viralità social, il clandestino si fa ubiquo; e nel caso di Bella ciao non si può escludere che sia proprio la sua patina d'epoca, il suo ribellismo in bianco e nero a farla amare di più. Così il futuro torna al passato che il presente vorrebbe seppellire: c'è qualcosa di nuovo oggi in Rete, anzi di antico.

il Fatto 24.1.15
La candidata Pd: lavoro finto e contributi veri
Paita in corsa per la Liguria, da assessore si fece assumere senza mai presentarsi
Pagava il Comune. Lei: “Solo pochi mesi”
di Ferruccio Sansa


Un contratto di lavoro in una società dove i vertici assicurano di “non averla mai vista in ufficio”. Dove gli amministratori sedevano anche in società in affari con partecipate del Comune di cui lei era assessore. Dove si ritrovano tanti pezzi grossi del centrosinistra. Dopo le primarie taroccate, Raffaella Paita, candidata Pd alle Regionali liguri, si trova di fronte un’altra polemica. Una storia di contratti di lavoro, e contributi per la pensione pagati dagli enti pubblici.
Tutto comincia nel maggio 2007 quando Paita diventa assessore al Comune di La Spezia nella giunta dell’attuale sindaco, Massimo Federici (suo sponsor). Al Comune, che deve pagare i contributi per la pensione, Paita dichiara di essere dipendente della società Sti spa. Vero. Ma Andrea Pesce, allora amministratore della Sti (promettente società poi finita in bancarotta), racconta: “So che Paita era stata assunta, ma non l’ho mai vista al lavoro”. Non solo: negli ambienti della Sti c’è chi fa notare che la società “si occupava di archiviazione dati, un ambito apparentemente estraneo dalle competenze di Paita” (giornalista pubblicista). Non solo: Antonio Desiata (altro amministratore di Sti, mai indagato) sedeva anche in società in affari con partecipate del Comune della Spezia di cui Paita era assessore.
La candidata Pd ai cronisti racconta: “È vero, fui assunta, ma in effetti non andai mai a lavorare. Volevo avere una copertura contributiva perché non sapevo quanto sarebbe durato il mio incarico. Ma dopo pochi mesi, appena ho visto che era destinato a prolungarsi, mi sono dimessa rinunciando ai contributi e dimostrando correttezza. Credo sia un esempio. Secondo me in Regione non c’è un consigliere che non abbia i contributi”. Un trattamento di favore, la segnalazione di qualche potente locale? “Affrontai un regolare colloquio”. Dal sindaco Massimo Federici nessuna critica a Paita, anzi elogi: “Io non l’ho mai segnalata. Cercava lavoro perché il futuro politico non è mai sicuro. Poi dopo un po’ di tempo ha anche rinunciato ai contributi. Lo trovo encomiabile. In Italia di casi come questo, anzi, più rilevanti, ce ne sono stati tanti. Uno ha anche riguardato Renzi”.
UNA COSA è certa: “Paita – racconta uno dei massimi dirigenti del centrosinistra spezzino che non vuole essere citato – fino al 2002 era stata capogruppo Pds in Comune. Poi, non volendo candidarsi alle elezioni insieme con il suo compagno (quel Luigi Merlo poi vice-sindaco di La Spezia, quindi assessore di Claudio Burlando in Regione e oggi presidente del Porto di Genova), divenne capo di gabinetto dell’allora sindaco”. Quindi non risultava assunta dal Comune. Nel 2007, con l’arrivo del sindaco Federici ecco il grande salto nella politica. Diventa assessore. Ma, come tanti politici di professione, si presenta forse il problema di avere un contratto di lavoro che, durante il mandato politico, le consenta il versamento dei contributi per la pensione. Niente di illegale, fino a prova contraria.
Paita risulta all’epoca dipendente di Sti spa. Non una società come tante. Sti era una società “rampante”, pronta al grande salto sulla scena nazionale. Vantava clienti di primo piano, come la Carige poi toccata dagli scandali. I soci avevano molte partite aperte a La Spezia. Anche l’acquisto dello Spezia Calcio, poi finito in mano di amici dell’allora onorevole Luigi Grillo (arrestato nel 2014). A scorrere l’elenco delle persone vicine a Sti e alle sue collegate si ritrova il mondo del potere ligure di questi anni.
Hanno occupato cariche in Sti tra gli altri: Gianfranco Tiezzi, assessore al Commercio del Comune di Genova all’epoca di Marta Vincenzi; Paolo Momigliano, manager vicino al centrosinistra che oggi ritroviamo alla presidenza della fondazione Carige; ancora il commercialista Federico Galantini (che già sedeva nella banca Carispe), vicino a Federici e all’assessore regionale alle Attività Produttive, il burlandiano-paitiano Renzo Guccinelli.
MA AD ATTIRARE l’attenzione sono anche le assunzioni e le sponsorizzazioni della Sti e delle società ad essa legate, sempre molto attente al mondo politico. Andrea Pesce – manager acclamato da tutti, spremuto e poi abbandonato al suo destino appena si profilarono i guai – nell’inchiesta sulla bancarotta raccontò di collegamenti con l’Idv ligure (anch’esso travolto da scandali e arresti) e di finanziamenti da parte di un’altra sua società alle campagne elettorali come quella dell’attuale assessore del comune di Savona, Elisa Di Padova. “Non so se mi abbia finanziato”, disse all’epoca Di Padova. Emerse anche l’assunzione della figlia di Nicolò Scialfa (ex vicepresidente Idv della Giunta Burlando, collega di Raffaella Paita, arrestato nell’inchiesta sulle spese pazze in Regione). Ancora: si ricordano le sponsorizzazioni alla squadra di pallavolo Igo Volley (che aveva tra i suoi sponsor anche il gruppo Carige e imprenditori legati al centrosinistra). Il presidente onorario era Roberto Fucigna, ex responsabile dell’ufficio gip del Tribunale di Genova.

Corriere 24.1.15
La legge elettorale
I padroni del voto di tutti
di Michele Ainis


I compromessi, come i funghi, si dividono in due categorie: quelli buoni e quelli cattivi. È commestibile il compromesso raggiunto sulla legge elettorale? Perché di questo, in ultimo, si tratta: l’ Italicum che sta per varcare l’uscio del Senato non è la legge di Renzi, né di Berlusconi. Il primo avrebbe preferito i collegi uninominali (intervista al Messaggero , 25 aprile 2012). Il secondo ha ingoiato il doppio turno, e ha pure dovuto digerire il premio alla lista, anziché alla coalizione. Ma non è generosità, è realismo. Perfino Lenin, nel settembre 1917, scrisse che in politica non si può rinunziare ai compromessi.
E a noi popolo votante, quanto ci compromette il compromesso? Per saperlo, bisogna innanzitutto togliersi un Grillo dalla testa: che da qualche parte esista un sistema perfetto, dove l’elettore sia davvero sovrano. No, non c’è. I candidati li decidono i partiti, mica noi. Anche con l’uninominale, la nostra scelta è sempre di secondo grado. Rousseau diceva che il cittadino è libero soltanto quando vota, dopo di che per 5 anni torna schiavo. Sbagliava: non siamo del tutto liberi nemmeno in quell’unica giornata.
Però c’è prigione e prigione. La più buia era il Porcellum : premio di maggioranza senza limiti, parlamentari senza voto.
Di quanto si sono poi allargate le sbarre della cella? Di un bel po’, diciamolo; specie se mettiamo a confronto l’ultima versione dell’ Italicum con il suo
primo stampo. Per farlo, basta puntare gli occhi
su una lettera dell’alfabeto: la «P».
Premio, pluricandidature, preferenze, parità di genere, primarie, percentuali per l’accesso ai seggi: è su questi campi che si gioca la partita dei partiti.
E dunque, il premio di maggioranza. In origine scattava con il 35% dei consensi, poi al 37%, ora al 40%. Meglio così, la forzatura suona meno forzata. Quanto alla soglia di sbarramento per i piccoli partiti, l’8% è diventato il 3%; ma dopotutto, se la governabilità discende dal premio, non aveva senso negare l’accesso in Parlamento alle forze politiche minori. Progressi pure sulle quote rosa: la Camera aveva detto no, il Senato dice sì. Però regressi sulle pluricandidature: da 8 a 10, come se Buffon giocasse in tutti i ruoli. E niente da fare sulle primarie obbligatorie, che avrebbero restituito un po’ di peso agli elettori. Infine le preferenze: subentrano alle liste bloccate, anche se restano bloccati i capilista. E clausola di salvaguardia rispetto all’abolizione del Senato elettivo, un altro punto che mancava nell’accordo originario.
Si poteva fare meglio? Certo, ma anche peggio. Tuttavia c’è un’altra «P» da scrivere a margine di questa legge elettorale: il nuovo presidente. Toccherà a lui compensare la «P» del premier, che ne esce più forte che mai. Se viceversa al Colle entrerà una sua controfigura, in futuro i compromessi Renzi potrà farli con se stesso.

Corriere 24.1.15
I professori più vecchi d’Europa
Più della metà sono «over 50»
di Gian Antonio Stella


«Mi mandano un ragazzino quando ho bisogno di un uomo con grinta, baffi e barba da Mangiafoco…»: così si lagnò corrucciato il direttore scolastico accogliendo tanti anni fa il maestro Giovanni Mosca, che «aveva vent’anni ma ne dimostrava sedici». Il quale proprio grazie all’età riuscì a impadronirsi della sua classe abbattendo in volo un moscone con la fionda. Oggi non c’è pericolo che accada: dicono i recentissimi dati Ocse che nella scuola primaria (le elementari) gli insegnanti sotto i trent’anni sono talmente pochi da essere percentualmente irrilevanti. E così nelle medie e nelle superiori. Quelli sotto la quarantina sono il 12% alle elementari, il 13 alle medie, l’8 alle superiori. Sono dati immensamente diversi da quelli del resto del mondo. Basti dire che maestri e professori sotto i cinquant’anni («in due occasioni di compleanno ci si sente improvvisamente decrepiti: a diciannove anni e a cinquanta», ha scritto Gesualdo Bufalino) non arrivano ad essere secondo l’Ocse, nel complesso della nostra scuola, neppure la metà: il 48%. Tutti gli altri stanno sopra. E quelli sopra la sessantina sono addirittura l’11% alle elementari, il 13% alle superiori e il 15% alle medie. Tanto per capirci: 6 punti sopra la media dei Paesi Ocse e 7 (quasi il doppio) sopra la media delle altre nazioni europee. Per non dire della Spagna, del Giappone, dell’Irlanda, del Canada o del Belgio: i nostri «vecchi» sono il quadruplo.
L’«Annuario scienze società» 2015 di Observa curato da Giuseppe Pellegrini e Barbara Saracino, che uscirà a metà febbraio per il Mulino, ha una tabella su dati Eurostat-Teaching staff che mette i brividi. È sugli insegnanti con meno di quarant’anni nelle scuole secondarie di primo e secondo grado (tradotto nel linguaggio comune: medie e superiori) in tutta Europa. Con un umiliante 10,3% siamo ultimissimi. Austria e Germania ne hanno due volte e mezzo più di noi, Spagna e Francia il triplo abbondante, il Belgio il quadruplo, la Gran Bretagna il quintuplo.
«La struttura per età», spiega l’associazione TreeLLLe presieduta da Attilio Oliva, «ci racconta la storia delle politiche di reclutamento del corpo insegnante. I dati mostrano una più ampia incidenza della quota dei 50-59enni evidentemente entrati negli anni ‘80, che “schiaccia” gli ingressi delle corti più giovani, costituite dai neolaureati. Stupisce che anche la scuola primaria, in passato luogo d’ingresso di giovani insegnanti meno che trentenni, oggi a seguito dell’introduzione dell’obbligo di possesso di un titolo universitario in combinazione con la mancata apertura dei canali di reclutamento, vede la scomparsa di insegnanti giovani».
Nel decennio dal 1998 al 2009 i maestri britannici e francesi sono «ringiovaniti» da un’età media di 41 anni e mezzo a 40 e mezzo, i nostri invecchiati da 44,5 a 47,5. E dal 2009 a oggi questa età media è salita ancora fino a 53 anni e 3 mesi nella scuola primaria e addirittura a 54 in quella dell’infanzia. Il che significa un gran numero di «nonne» sessantenni, magari con le caviglie gonfie e il fiatone, chiamate ciascuna per ore a gestire venti «nipotini». A volte, un inferno.
La rivista Tuttoscuola ha messo a confronto le fasce d’età negli ultimi tre lustri. Nel 1997/98, spiega il direttore Giovanni Vinciguerra, «oltre un quarto degli insegnanti, esattamente il 26,2%, aveva un’età inferiore ai 40 anni. E solo il 2,4% passava i sessanta: uno su venti. Da allora si sono succedute varie riforme previdenziali che hanno avuto effetti determinanti sul turn over del pubblico impiego e del personale della scuola». Prima conseguenza, appunto, l’invecchiamento dei docenti. Vistosissimo nel 2014, quando il documento governativo sulla «Buona Scuola» confermava che l’età media degli insegnanti statali era 51 anni: «Un invecchiamento medio di quasi 6 anni, che è come dire che ogni anno l’età media si è andata innalzando di cinque-sei mesi». Tanto più che «nello stesso periodo delle riforme previdenziali la mancanza di concorsi, congelati per oltre un quinquennio, non consentiva di attingere a nuove leve più giovani e le chiamate dalle graduatorie ad esaurimento privilegiavano i precari più anziani».
Esattamente quello che accadrà anche quest’anno con l’assunzione promessa da Renzi di 154.561 precari che, come spiegava qualche settimana fa Orsola Riva, tutto saranno fuorché «insegnanti freschi di laurea e abilitazione perché le graduatorie sono chiuse dal 2007. I più giovani sono i maestri laureati in Scienze della formazione primaria, ma il grosso è rappresentato dai vincitori del penultimo concorso (parliamo del 1999!) e dagli abilitati di vecchio conio (Ssis e abilitazioni riservate)».
L’età media, dice «La buona scuola», è di 41 anni e «diventa chiaro che la loro assunzione consentirà di ringiovanire sensibilmente il corpo docente». E anche di renderlo, viste le percentuali di donne, ancora più femminile. Difficile definirla però, come ricordava il Corriere , «un’iniezione di giovinezza». Lo dice lo stesso grafico del documento governativo, dove spiccano le assunzioni anche di precari sessantacinquenni... Persone che sono certamente in credito con lo Stato chiamato a saldare il suo debito, come ci ha ricordato l’Europa, dopo decenni di caos, rattoppi e sanatorie. Ma anche, stando alle denunce del sito voglioilruolo.it , maestri e professori che ormai se l’erano messa via e magari hanno perduto da anni la confidenza con le aule, la lavagna, il rapporto con gli allievi. Si sono aggiornati? Possiedono le competenze d’inglese e informatica richieste dalla legge Profumo? Hanno continuato incessantemente a studiare o hanno buttato rabbiosamente i libri in un angolo?
E proprio qui è il nodo: fermi restando i torti dello Stato e la legittimità delle aspettative di centinaia di migliaia di insegnanti precari, hanno diritto o no, i nostri bambini e i nostri ragazzi, a una scuola che dia la precedenza a loro, gli utenti? E cioè una scuola che offra loro un corpo docente ricco di entusiasmo e che sia il meglio del meglio in modo che poi quei giovani possano affrontare ad armi pari i «concorrenti» stranieri in un mondo sempre più competitivo? Questo è il tema. E se non viene affrontato di petto, subito, sono guai seri…
(2 — fine)

il Fatto 24.1.15
Inutile delocalizzare
La Cina è qui da noi: le griffe sfruttano il lavoro come a Prato
“Nelle filiere italiane pochi soldi e turni anche di 12 ore, spesso in nero”
di Virginia Della Sala


L’itinerario nel settore della moda italiana inizia dalla Riviera del Brenta, in provincia di Venezia, famosa per il settore calzaturiero. Ci sono più di 550 aziende, le grandi griffe hanno evitato che il distretto collassasse durante la crisi economica, ma hanno divorato le imprese artigianali. I proprietari delle aziende locali sono stati assunti come operai specializzati. Per sopravvivere si deve sottostare a ritmi massacranti: “Hanno installato la manovia elettrica per andare più veloci – raccontano – e poi hanno aumentato le ore perché bisognava consegnare. Erano lì con il camion, pronti ad andare via. Non c’era più tranquillità. Ti dicevano: ‘Si devono fare 90 paia di scarpe per domani sera’. Si lavorava anche il sabato e fino a 12 ore al giorno nel momento del boom: le suole e i tacchi che non arrivano e devi fare tutto di fretta - prosegue - Invece di finire alle cinque e mezza finisci alle otto. E dovevi fare tutto molto bene perchè andavano in sfilata”. In Riviera c’è poca rappresentatività sindacale e i rari iscritti sono stranieri che hanno bisogno di spiegazioni burocratiche. “Tra le varie griffe - si legge nell'ultimo rapporto elaborato dalla campagna “Abiti Puliti” - sembra che Prada sia quella in cui i rapporti sindacali sono più complicati e le condizioni di lavoro più critiche. D’altra parte, Prada è l’unica delle grandi case del lusso che applica il contratto di lavoro del cuoio sebbene la produzione sia calzaturiera”. Questo tipo di contratto è più basso come livello economico rispetto a quello tessile o calzaturiero. L'azienda, contattata dal Fatto, non ha fornito, per ora, alcuna risposta. Ma altri nomi si ripetono spesso nello studio: Louis Vuitton, che contattata ha risposto di non “commentare questo genere di dati”. Dior, che dopo aver richiesto l'invio di una mail con specifiche domande, non ha fornito risposta. Armani, stessa situazione. Fendi, il cui telefono ha squillato a vuoto. Ferragamo: anche in questo caso richieste di mail e poi nulla. Il loro ruolo nelle vicende non è diretto. Spesso, però, le imprese che applicano condizioni disumane appartengono alla filiera di subappalti che ha origine proprio dalle grandi griffe.
Gli asiatici in Toscana producono per i big della moda
In Toscana, nel distretto tessile di Prato, l'80% delle imprese è a conduzione cinese. Una “filiera nella filiera”, portata alla luce dopo l'incendio del dicembre 2013, senza permessi di soggiorno, con rapporti di lavoro irregolari, pagamenti in nero, evasione fiscale, orari di lavoro prolungati, luoghi insalubri. Ma il dato che stupisce è che l’allarme del mondo imprenditoriale è stato lanciato solo quando le ditte cinesi sono uscite dal loro tradizionale ruolo di terziste per assumere il controllo di tutte le fasi, dalla produzione alla distribuzione. Già nel 2003, uno studio di Antonella Ceccagno sul distretto tessile multietnico toscano sottolineava come, tra gli imprenditori cinesi subfornitori di aziende italiane, i nomi più citati fossero quello di Armani, Ferré, Valentino, Versace e Max Mara. Giovanna, che invece è italiana, racconta nel rapporto: “Cucivo le tomaie da casa a mano, con ago e filo. Io e mio figlio facevamo 20-30 paia al giorno. Mi pagavano al paio. In nero. Ti svegliavi alle 6 del mattino e fino alla sera tiravi tutto il giorno il filo. Perché devi fare questo movimento, così - racconta mimando il gesto - Per tutto il giorno, per prendere poi alla fine del mese 500, 600 euro”.
Dalle finestre a livello strada delle cantine dei vicoli di Napoli si vedono spesso operai impegnati a cucire nei sottoscala. Attraversando un ponte della zona industriale è facile notare laboratori con file di macchine per cucire attive a qualsiasi ora del giorno. Sono imprese conto terzi che producono per le aziende locali e le grandi firme nazionali. Ambientiincuiprevaleilricorsoallavoro nero, che sfocia nel sommerso e nelle produzioni cosiddette “parallele” (a servizio anche delle distribuzioni legali). A Napoli, il lavoro si tramanda, i laboratori sono casalinghi e familiari e si lavora anche in età scolare. Marco, che è un tagliatore, addetto ai tessuti, racconta di aver iniziato a 14 anni. “Ero impiegato nell’azienda di mio zio, una ventina di persone. Producevamo completi da donna per i grossisti. La maggior parte dei dipendenti era irregolare”.
Inutile andare all’estero, meglio importare lo sfruttamento del lavoro in Italia
Oggi, il problema è l'attribuzione di responsabilità. È colpa dei grandi marchi a capo della filiera o di chi subappalta? “Non esiste, a livello internazionale, una legge che obblighi le grandi case di moda ad avere il controllo su tutta la filiera di produzione. E così per quanto riguarda lo sfruttamento del lavoro in Italia le aziende possono alzare le spalle e dire 'non ne sapevo nulla'” spiega al Fatto Francesco Gesualdi, che ha curato il rapporto “Abiti puliti”. “ Per salari più bassi e condizioni di lavoro infime, non c'è più bisogno di delocalizzare - continua - Si fa direttamente qui”. Partendo dal paniere Istat, emerge che il salario degli operai dell'abbigliamento italiano è inferiore a quanto necessario per vivere dignitosamente. “È assurdo se si considera quanto costa una borsa griffata o quanto spendono i grandi marchi solo in pubblicità. Si parla del 10% di tutti i ricavi”. Così, cresce il fenomeno del backreshoring, ovvero del ritorno in patria delle aziende di moda che avevano inizialmente delocalizzato. “Gli conviene - spiega Gesualdi - perchè importano lo stesso modello dell'Europa dell'Est, con la classe politica compiacente, col Jobs act che riduce le tutele. Le aziende hanno tutto dalla loro parte e il governo è compiacente. Che bisogno c'è di andare in Cina o Bangladesh se i lavoratori italiani sono trattati allo stesso modo? ”.
Intanto, Benetton rifiuta di risarcire le vittime del crollo di Rana Plaza, a Dacca in Bangladesh, che nel 2013 provocò 1.129 vittime e 2.515 feriti. “Si ostina a respingere la sua responsabilità, nonostante tutte le prove della sua presenza in quella fabbrica – spiega Gesualdi –. Chiediamo che Benetton versi 5 milioni di dollari nel Fondo istituito, tramite l’Onu, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Una cifra proporzionale all’entità dei profitti che il gruppo realizza e ha realizzato anche grazie al Rana Plaza”. All'accusa, mossa a dicembre da “Abiti Puliti”, Benetton aveva risposto dicendo di star operando tramite un'organizzazione non governativa, con un sostegno finanziario e corsi di formazione per 280 vittime e le loro famiglie. Un’iniziativa che, secondo “Abiti Puliti”, è “solo beneficenza”. E non ha nulla in comune con i diritti dei lavoratori.

il Fatto 24.1.15
Bce, il bazooka a salve: la Grecia e gli altri flop
Alexis Tsipras respinge l’apertura di Draghi: “Non rispetterò gli accordi dei precedenti governi”
I tedeschi continuano a contestare le misure
di Stefano Feltri


A prima vista il bazooka della Bce ha ottenuto tutti i risultati: la decisione di Mario Draghi e del consiglio della Bce hanno annunciato un piano di acquisti di titoli pubblici per 1.140 miliardi di euro sta indebolendo il cambio dell’euro con il dollaro, spingendo le Borse e abbassando il costo del credito. Piazza Affari cresce dello 0,35 per cento, l’euro scende fino a 1,12 dollari, ai minimi del 2003, il tasso di interesse fissato dal mercato per i buoni del Tesoro italiani a 10 anni scende sotto il minimo storico, all’1,5 per cento.
Tutto bello, bellissimo. Ma soltanto in superficie. Ci sono almeno tre segnali che invitano a ridimensionare l’ottimismo.
INCOGNITA GRECA. Nel comunicato ufficiale della Bce, Mario Draghi ha fatto un’apertura, molto discreta ma chiara, alla Grecia: la Bce non può comprare titoli di Stato di Paesi dell’eurozona con un rating al livello spazzatura, cioè Grecia e Cipro, tranne nel caso in cui siano impegnati in programmi di riforme negoziati con l’Unione europea in cambio di assistenza finanziaria. Tradotto: caro Alexis Tsipras, se quando vincerai le elezioni domenica con Syriza non sgancerai la Grecia dal rapporto con la troika (Ue-Bce-Fmi), la Banca centrale europea comprerà anche titoli greci, sostenendo l’economia e alleggerendo i bilanci delle banche locali. Che ne hanno parecchio bisogno, visto che nei giorni scorsi hanno dovuto richiedere l’utilizzo della linea di liquidità di emergenza (ELA) per evitare che la fuga di capitali pre-elettorale causasse disastri.
Ieri è arrivata la risposta di Tsipras: un eventuale governo guidato dalla sinistra di Syriza “non rispetterà accordi firmati dal suo predecessore”, cioè dall’esecutivo di centrodestra di Antonis Samaras e Nuova Democrazia. Spiegazione di Tsipras: “Il nostro partito rispetta gli obblighi che derivano dalla partecipazione della Grecia alle istituzioni europee. Ma l’austerità non fa parte dei trattati di fondazione dell’Ue”. La carota offerta da Draghi non ha funzionato.
È GIÀ ORA DEL BIS. A meno di 30 ore dall’annuncio del Quantitative easing, atteso per mesi, il membro francese del board della Bce, Benoit Coeuré, già dice: “Se vedremo che ci sono difficoltà nel raggiungere i nostri obiettivi, dovremo continuare”. Ufficialmente il piano di acquisti straordinari di bond dura “almeno” fino al settembre 2016. Quindi è già noto che potrebbe continuare, ma che uno dei vertici della Bce lo dica esplicitamente così presto ha trasmesso ai trader un senso di insicurezza. La Bce sta dicendo che è pronta a fare di tutto contro la deflazione o che non è sicura che le misure adottate funzionino?
Nel suo discorso al convegno americano di Jackson Hole, in agosto, Mario Draghi aveva invitato gli economisti a non guardare soltanto il dato dell’inflazione, ma anche un indicatore noto solo ai tecnici, lo swap quinquennale sull’inflazione che in pratica è una stima di come andranno i prezzi fra cinque anni. Perché la Bce prende le sue decisioni ragionando sul futuro e non sul passato. Dopo le parole di Coeuré di ieri l’indicatore ha oscillato, come se sui mercati non sapessero se prevedere una perdurante deflazione, più forte della Bce, o sentirsi rassicurati dall’ipotesi di nuovi interventi.
IL FRENO TEDESCO. A Berlino, e soprattutto nella capitale finanziaria di Francoforte, le resistenze al Quantitative easing sono state fortissime. Draghi ha spiegato che alla fine tutti, nel consiglio della Bce, erano d’accordo sul fatto che comprare titoli di Stato non violasse lo statuto della Banca centrale. Ma c’erano alcuni che contestavano la decisione di intervenire adesso (anche se l’inflazione è lontanissima dall’obiettivo della Bce, -0,2 per cento invece che +2). “L’acquisto di titoli di Stato nella zona euro non è strumento come gli altri. Comporta dei rischi”. Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, attacca senza riserve il Qe annunciato ieri dalla Bce. Weidmann, ieri, ha spiegato in un’intervista alla Bild le ragioni della sua contrarietà: “Con il nuovo programma le Banche centrali del sistema Bce diventeranno tra i principali creditori della zona euro. Questo comporta il rischio che le politiche di consolidamento fiscale vengano messe da parte”. L’attacco è diretto a Italia e Francia.
L’obiezione è fondata: finora la Bce faceva operazioni di pronti contro termine, cioè caricava sul suo bilancio titoli soltanto come garanzia di prestiti a breve termine, alla scadenza recuperava i soldi e restituiva i titoli. Ora invece li compra e acquista anche titoli a rendimento negativo (quelli tedeschi, per esempio), che cioè non portano guadagni a Francoforte e alle Banche centrali nazionali che gestiscono il grosso dell’operazione, ma perdite. E i governi si troveranno a pagare meno interessi sul debito e quindi avranno meno incentivo a rispettare gli impegni sull’austerità. “Non è vero”, risponde il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Idem il presidente francese François Hollande: “Anzi, ci obbliga a essere più audaci”. Polemiche che Draghi sperava di evitare perché riducono la fiducia del mercato nell’operazione.

La Stampa 24.1.15
Tsipras avverte la Merkel “Non rispetterò gli accordi”
Il leader della sinistra vola nei sondaggi alla vigilia delle elezioni “Nei Trattati non c’è l’austerity”
La Cancelliera: resti nella storia
di Marta Ottaviani


La Grecia domani va alle urne in quella che sembra sempre di più la cronaca di una vittoria annunciata. Alexis Tsipras, 40 anni, leader del partito di sinistra Syriza e giovane promessa della politica dell’Ellade, è a un passo per diventare capo del governo, succedendo all’attuale premier conservatore, Antonis Samaras, che per due anni ha guidato un esecutivo di salvezza nazionale traballante e negoziato con la Troika dei creditori internazionali.
Effetto Syriza
È Tsipras la stella incontrastata di questa campagna elettorale. Per le strade della capitale Atene, i manifesti degli altri partiti sono sensibilmente meno, persino quelli di Nea Demokratia (Nuova Democrazia), il principale oppositore di Syriza. Se fino a due giorni fa fra i due partiti lo scarto era intorno ai 2-3 punti percentuali, adesso il partito di sinistra sarebbe avanti del 6,6% punti, attestato intorno al 32,9%. Ancora non basta a dare a Tsipras la certezza che potrà formare un governo monocolore, anche se le sue chance crescono. Di certo, meno partiti entrano in Parlamento e non superano il 3% previsto dalla legge, più salgono le possibilità.
 I partiti in lizza

Determinanti saranno i risultati del Pasok, il vecchio partito socialista, passato da risultati a due cifre a un probabile e poco lusinghiero 6%, del Kke, il Partito Comunista greco, autore di una campagna elettorale incisiva, e dei Greci Indipendenti, anche loro in lizza per entrare alla Voule ton Ellenon, il Parlamento greco. Tutti gli occhi sono puntati su Potami, un partito di sinistra moderata al suo esordio sulla scena politica greca, fondato dal giornalista Stavros Theodorakis, e che secondo gli ultimi sondaggi potrebbe arrivare fino al 7%. Poco sotto, al 6,5%, c’è il partito neonazista Alba Dorata, nonostante le accuse infamanti di omicidio e terrorismo che pendono su alcuni suoi dirigenti.
Il messaggio a Berlino
Tutti calcoli che, almeno apparentemente, sembrano non interessare né a Tsipras, né ai suoi supporter, che giovedì sera hanno invaso Piazza Omonia e le vie del centro di Atene e hanno urlato in migliaia il no all’austerità e alle politiche di Angela Merkel, infiammandosi quando Tsipras li ha salutati dal palco con il leader del movimento spagnolo Podemos, Pablo Iglesias, che ha urlato in greco «prima di prenderemo Atene e poi Berlino». Ed è proprio alla Germania che sono andate le ultime dichiarazioni della vigilia. «Abbiamo obblighi nei confronti delle istituzioni e dei trattati europei - ha dichiarato Tspras alla televisione nazionale -: ci sono obiettivi fiscali da rispettare, ma non dicono con quali strumenti perseguirli». 
Mondo economico incerto
Il giovane leader ha lodato il Qe avviato dalla Bce, spiegando che l’austerità non fa parte dei trattati e ha aggiunto che il suo governo non rispetterà gli obblighi firmati dall’esecutivo precedente. Un avvertimento alla Troika dei creditori internazionali, formata da Bce, Fmi e Ue. Merkel ieri ha detto di augurarsi che la Grecia rimanga parte della storia europea, ma da qui a rinegoziare le condizioni per il pagamento del debito greco c’è una bella differenza. Il timore di molti economisti è che con il voto di domani inizierà un periodo per i mercati e la stabilità interna del Paese destinato a durare mesi. Dopo aver lottato per conquistare la leadership, adesso Tsipras dovrà anche dimostrare di saper governare.

Corriere 24.1.15
La star Theodorakis, liberale di sinistra: «Offriamo riforme in cambio di risorse»
di A.Ni.


ATENE I due pesi massimi fanno corsa a sé: Syriza a sinistra, Nuova Democrazia a destra. Tutti gli altri si dividono quel che resta e le previsioni li relegano sotto il 10%. Per come è concepita la legge elettorale greca, però, se Syriza non arrivasse alla maggioranza assoluta, i piccoli partiti diverrebbero determinanti. All’estrema destra ci sono i simil neonazisti di Alba Dorata, i cui capi sono tutti in carcere in attesa di giudizio. All’ultra sinistra i comunisti antieuro e anti Nato del Kke ugualmente ostracizzati. Al centro sgomitano nazionalisti, ex nobili leader come George Papandreu, partiti in disfacimento come il Pasok e stelle tv come Stavros Theodorakis, un incrocio tra un Minoli e un Santoro.
A febbraio lei ha fondato «To Potami» (Fiume), ora corre per il terzo posto, possibile ago della bilancia. Perché è entrato in politica?
«La crisi economica ha rotto il rapporto con i leader tradizionali percepiti come incapaci se non endemicamente corrotti. Questa anti politica apre spazi che il populismo riempie con facilità, per me, invece, è il momento di una riflessione più profonda, fatta da gente seria».
Lei.
«I ricchi che diventano più ricchi e i poveri più poveri: è un errore. Il capitalismo deve andare a beneficio della gente, non della finanza. Tutto l’Occidente deve riflettere e correggersi. L’Europa tassare le multinazionali, armonizzare la fiscalità, investire sull’educazione».
Nel frattempo però la Grecia fallisce.
«Mi sento più vicino al vostro Renzi che alla Merkel. Per me la Grecia dovrebbe offrire ai soci europei riforme in cambio di risorse. L’Europa ci dice “soffrite”, ok, ma non distruggendo il Paese. Non mi interessa salvare i conti a tutti i costi. Voglio cambiare, soffrendo se necessario».
In Syriza o in Nuova Democrazia si possono sentire idee così.
«Nuova Democrazia non è credibile, smentisce se stessa e la sua fideistica accettazione dell’austerità. Per Syriza, dipende da chi parla. Ho ascoltato loro candidati dire di non volere soldi Ue e altri di voler cancellati i debiti. Mi ricordano uno che va in banca e dice “se non mi condonate il mutuo, mi do fuoco”. Che margini di manovra ha il signore allo sportello?».
E lei invece che farebbe?
«Primo: restiamo nell’euro. Secondo: recuperiamo risorse fermando lo spoil system, il clientelismo, gli sprechi. Terzo: ripristiniamo lo Stato sociale per fermare la crisi umanitaria. Quarto: creiamo occupazione non con lo Stato, ma col mercato, con incentivi fiscali».
Il suo quartier generale pare un backstage televisivo. Le attiviste vincono il premio delle più belle dell’arco costituzionale. Dicono che lei sia un’invenzione degli «oligarchi» greci per rubare voti a Syriza.
«Ho lavorato nelle maggiori tv del Paese. Non sceglievo la testata in base agli altri affari del proprietario, ma per la libertà di dire ciò che volevo. Sono un liberale di sinistra che sugli oligarchi dice cose precise. La simultanea proprietà di media e banche condiziona la politica e trucca gli appalti. Non è sano né per l’economia né per la democrazia. L’intreccio va spezzato».

Corriere 24.1.15
Grecia
Mercatini e farmacie, la rete sociale
Così la sinistra radicale ha costruito un sistema di volontariato che crea consensi
di Andrea Nicastro


ATENE «Scusi la penombra, ma non abbiamo pagato le bollette della luce. Manca anche il riscaldamento, quindi tenga pure il cappotto». Sulla credenza dove una volta c’era il servizio di porcellana e le bomboniere dei matrimoni ora sono allineate scatole di medicine. In cucina lo stesso, in bagno anche, farmaci ovunque, fin nel frigorifero rotto. «Per fortuna sono tante» sorride Dimitri Souliotis. «Questa è casa di mia cognata, ma ora lei vive con me e mia moglie e questa è diventata una farmacia per disoccupati, senza tetto e immigrati. Assistiamo anche tre italiani indigenti. È stato il Consolato a mandarceli». Le medicine sono in ordine alfabetico come in una farmacia vera, ma dentro le confezioni ci sono pastiglie e bustine sfuse, blister usati a metà. «Ormai qui in Grecia lo fanno tutti. Quando guarisci e qualche farmaco è avanzato, non lo lasci scadere nel cassetto, ma lo regali. Noi li raccogliamo e li distribuiamo».
Souliotis per trent’anni ha fatto il marconista sulle navi. Erano i tempi d’oro degli armatori greci, Onassis e non solo. Poi, in pensione con 1.250 euro al mese, è finalmente tornato ad Atene, in tempo per scarrocciare sotto la furia della Grande Crisi. «La pensione è affondata a poco più di 800 euro, ma comunque sto a galla. Gente più giovane e senza lavoro invece ha perso tutto: la casa che pagava col mutuo e l’assistenza sanitaria. In mare quando uno sta annegando lo si aiuta. Perché a terra dovevo far finta di non vedere?».
L’impegno sociale è una riscoperta per tutta Europa, ma in Grecia, la disoccupazione ha colpito selvaggiamente, ha cambiato la società e la politica. La Chiesa ortodossa ha attivato le chiese, una rete fittissima che riceve poche critiche e sfama ogni giorno almeno 200 mila persone. Anche la destra neonazi di Alba Dorata ha proposto il suo volontariato con ronde antimmigrati, «aiuti» per sfrattare gli stranieri morosi e mense sociali per soli greci purosangue. Chi ha azzeccato la formula è stata la sinistra di Syriza. «Non abbiamo messo il cappello su nessuna iniziativa e questo ci ha dato grande credibilità» dice Argiris Panagopoulos, una sorta di ambasciatore della sinistra greca in Italia. «La gente ha capito che non ci comportavamo come un partito qualsiasi, che noi eravamo come loro: la risposta della società ai nuovi bisogni».
Farmacie sociali, mense, reti di medici per visite gratuite, Syriza non è solo sfida al debito e all’euro, ma anche una sorta di Stato sociale sostitutivo di quello azzoppato dai tagli della Troika.
«Una delle idee migliori sono i mercatini senza intermediari — spiega Feano Fotiu responsabile della solidarietà di Syriza —. Guadagnano i contadini che non sono strozzati dalle catene dei supermercati e guadagnano i consumatori con prodotti di qualità a basso prezzo». Come nei gruppi d’acquisto a km0, solo che qui non si pensa al bio, ma a sopravvivere. Il 30% delle famiglie è sotto la soglia della povertà, i disoccupati 1,5 milioni, come i lavoratori e i pensionati. «Gli avversari ridevano di noi chiamandoci il “partito delle lenticchie”. Ma erano loro a non capire che contro la fame, un piatto di lenticchie è benvenuto soprattutto se onesto e disinteressato».
Per ordinare le merci, chiedere farmaci, vestiti, aiuto è necessario lasciare un numero di telefono, un indirizzo mail. In due anni di Grande crisi, Syriza ha costruito così un database che è diventato utilissimo per costruire anche una base politica. «Sono 400 i centri di solidarietà in tutto il Paese che in vario modo fanno parte del nostro network — spiega Fotiu — e così siamo riusciti a diffondere una consapevolezza diversa». Syriza è uscita dal «palazzo» per riportare la politica nell’agorà, in piazza. Organizza assemblee di quartiere dove cercare soluzioni ai problemi pratici, un ritorno etimologico alla politica. Così è nata, gramscianamente, l’egemonia di cui godono oggi le tesi del partito in Grecia. «La gente era paralizzata dal senso di colpa che gli era stato indotto dalla narrativa dominante della recessione. Il Nord Europa e la Destra ci descriveva come meridionali lazzaroni e corrotti, inferiori ai virtuosi tedeschi. I greci sentivano la responsabilità morale del fallimento nazionale fino a che Syriza non ha parlato del ruolo dei banchieri, del trucco dei prestiti che rendono schiavi, del neoliberismo rapace. E le teste si sono alzate».
Questo welfare solidale una volta lo si sarebbe chiamato «catena di trasmissione» tra partito e società, ma in Grecia si è dimostrato un antidoto per l’anti politica e la rassegnazione che dominano in tanta parte d’Europa. Futiu è certa: «Con farmaci e lenticchie Syriza ha distribuito anche l’idea che un partito diverso, più pulito e umano, possa meritare fiducia».

Il Sole 24.1.15
Tra le macerie dell’austerity
di Mariano Maugeri

«I greci sono finora la specie d’uomini meglio riuscita. Più bella, più invidiata, più seduttrice verso la vita». Friedrich Nietzsche non era uomo incline ai complimenti.
E se oggi passeggiasse intorno piazza Omonia, l?ombelico di Atene, una spianata di cemento a semicerchio con gli studenti e i pensionati che si stiracchiano al sole, si pentirebbe amaramente di quelle parole. Di quella seduzione non è rimasta neppure la cenere. I volti dei greci sembrano maschere dolenti scavate nella cera. L?attesa, questa volta, non ha nulla di contemplativo. C?è un pezzo della generazione tra i quaranta e cinquant?anni che suo malgrado è il più convincente testimonial dello stato della Grecia e della periferia dell?Unione: capelli unti, pantaloni bucati e piedi che strisciano per tutto il giorno tra saracinesche di negozi sbarrate da anni e la ricerca di un pasto caldo tra le decine di mense dei poveri, dormitori pubblici, centri in cui si distribuiscono viveri, vestiti, coperte e beni di prima necessità, una sorta di mappa della crisi, che? vendetta del lessico? origina dal greco krisis, scelta. Sono i fantasmi di Maastricht, le vittime di un disegno politico seppellito prima che sbocciasse. Unione europea e thanatos. Antoniadis Christos esce a passo veloce da uno dei centri di assistenza del Pyreos e scarta come uno slalomista gli immigrati immobili come birilli con le mani in tasca.
Nella busta di plastica bianca porta un panino e una teglia monoporzione di alluminio sigillata: «Polpette e riso», dice anticipando la domanda. Fino al 2009 Antoniadios, 57 anni, era il rispettabile proprietario di un supermarket a Salonicco. Prima cala le saracinesche, poi la malasorte gli uccide la moglie. Racconta: «Cerco lavoro da cinque anni e ho solo collezionato porte in faccia. Domenica voto il partito comunista ma la colpa di questa situazione è tutta della corruzione e della politica».
Alexis Tsipras lo sa e maieuticamente giovedì sera in una piazza Omonia stracolma di bandiere faceva la levatrice della nuova Grecia sulle note di Bella Ciao: «Mani pulite, decisioni chiare e posizioni nette: Syriza è la grande sfida di cui ha bisogno l?Europa». Sembra un crudele gioco semantico, ma anche la parola Europa appartiene alla mitologia greca: era una principessa fenicia di cui s?innamorò follemente Giove, che si trasformò in un toro per rapirla e portarla a Creta. Nessuno, di questi tempi, sembra essere innamorato dei greci. Le parole sono codici sui quali l?Europa ha fondato la sua identità. Eppure la Atene contemporanea ha l?aspetto lugubre di una città intirizzita, sospesa, con un esercito di senza parole e senza qualcosa: casa, assistenza sanitaria, lavoro, cibo. Consci della drammaticità della situazione, un anno fa le Caritas italiana e greca si sono gemellate per far fronte all?emergenza sanitaria e umanitaria. Stanislao Stouraitis, studi di Teologia a Roma, è l?uomo che coordina gli aiuti per conto della Caritas: «In Grecia possiamo contare su 300 volontari, 150 dei quali ad Atene. Ma siamo pochi, le nuove povertà dilagano e reclamano mezzi ben più imponenti di quelli di cui disponiamo: questa dovrebbe essere la nuova terra dei missionari».
La Grecia come l?Africa e il Sud est asiatico. La pediatra Catherine Mourtzopoulou racconta della recrudescenza della tubercolosi, di casi montanti di malnutrizione infantile, di un?assistenza modellata solo su chi può pagarsi un?assicurazione sanitaria, di famiglie senza soldi per il gasolio da riscaldamento che dormono tra muri di casa tappezzati da colonie di muffe. Mentre lo Stato lesina la carta Aporias, la copertura sanitaria provvisoria? va rinnovata ogni anno? per chi è senza lavoro e i loro figli. Stouraitis chiude il cerchio con un dato che dovrebbe allarmare tutti, compresa l?onnipresente troika (Unione europea, Bce e Fmi): «In questo momento nel nostro Paese ci sono 450 mila bambini malnutriti». I clochard, invece, non si contano più. La sera, le strade del centro che si snodano ai piedi dell?acropoli illuminata a giorno, si trasformano nel ricovero di centinaia di senza tetto. Sotto i portici, a pochi metri da Monastiraki square, un uomo con le gambe già infilate nel sacco a pelo si pettina lentamente i capelli lunghi e brizzolati come se il dolore di quella condizione gli fosse assolutamente estraneo. Forse è per questo che i greci sono gli inventori della tragedia. Burzari Fnixos, camicia di jeans e sigaretta perennemente al labbro (la Grecia è un Paese di fortissimi fumatori), è il Caronte che con naturalezza traghetta i poveri nel labirinto dell?assistenza comunale. È lui che distribuisce 1500 coupon al mese, qui ribattezzati couponia, di cinque euro ciascuno con i quali si può comprare da mangiare nei supermercati. «Ne servirebbero 20, 30 mila, altro che 1500. Nella settimana della distribuzione dei buoni gli ateniesi si accalcano qui fuori già dalle sei del mattino».
Dal Pyreos al Metauxorio, una zona semicentrale in cui svetta una palazzina bianca di architettura simil razionalista con di fronte la nuova metropolitana inaugurata per le Olimpiadi del 2004, l?inizio della fine. Un gruppo di donne gitane con le sigarette tra le dita è seduta tra i gradini in attesa della distribuzione di un pezzo di pane e una bottiglia di latte. Da lontano arrivano padre e figlio mano nella mano. Il papà si chiama Giorgio Dais, una felpa nera macchiata di vernice con la scritta?graduate?. Dice: «Sono un piastrellista senza lavoro. L?edilizia qui è morta e sepolta insieme con tutto il resto. Cerco di racimolare un po? di farina e qualche barattolo di pomodori da portare a casa. Come viviamo? Noi sopravviviamo. Mia moglie, quando la chiamano, fa le pulizie».
Charalambos, il figlio tredicenne di Giorgio, una felpa gialla, gli occhiali rossi e il viso immobile, non si sogna di staccare le mani e lo sguardo da suo papà. L?Unione europea vista con gli occhi rassegnati di questo ragazzino ha qualcosa di raggelante. Solo una domanda lo distoglie dal silenzio e gli provoca un sorriso timido: «Da grande voglio fare l?astronauta». Forse per scappare a distanze siderali da questa Atene, da questa Grecia e da questa Europa.

Il Sole 24.1.15
E se Atene salvasse l’euro?
di Adriana Cerretelli


E se un giorno, tra quattro o cinque anni, si scoprisse che alla fine è stata la Grecia a salvare l’euro, che la bestia nera del club dei ciechi virtuosi è riuscita a farli rinsavire?
Ed è riuscita a farli rinsavire, con un bagno nella realtà purificata da troppa dottrina ideologica, convertendoli alla logica di una governance flessibile e pragmatica?
L'interrogativo può suonare paradossale proprio quando nell?Eurozona riemerge la minaccia Grexit, cioè l'ipotesi che il paese possa presto essere messo alla porta, invitato a lasciare la moneta unica o provocato al punto di convincersi a farlo da solo. Può sembrare anche una provocazione e un po' lo è. Ma forse meno di quanto non appaia a prima vista.
Dopo sei anni di crisi che non passa, con l'Eurozona stremata da una crescita al lumicino regolarmente ridimensionata dalla varie previsioni internazionali, da una disoccupazione che investe 26 milioni di persone eguagliando la somma della popolazione di Belgio e Olanda, dalla deflazione con la caduta media dei prezzi dello 0,2% in dicembre per la prima volta dal 2009, dall'euroscetticismo che avanza dovunque minando la tenuta dei partiti tradizionali e la stabilità dei Governi.
Dopo questa lunga prova provata che la politica fin qui seguita ha abbattuto il deficit medio (2,3%) ma non il debito (95%) penalizzando comunque seriamente lo sviluppo, non è affatto escluso che proprio dalle imminenti elezioni ad Atene arrivi lo shock politico capace di imprimere una sterzata costruttiva alla governance europea, oggi in mezzo al guado.
La Grecia, che rappresenta il 2% del Pil euro e il 3% del suo debito, è stata il principio e al tempo stesso il paradigma della crisi diventata presto contagiosa perchè il paese si è trasformato nel laboratorio di una governance europea improvvisata, ideologizzata, devastante nei fatti e quindi insostenibile in termini politici, sociali ed economici.
La 'troika' ne ha applicato le direttive diventando l'incubo dell'Eurozona, il moloch anti-democratico da combattere e distruggere. I dati dicono che in 5 anni la Grecia ha perso il 25% del Pil, ha visto salire i disoccupati al 25%, i giovani al 55% insieme alla fuga massiccia di cervelli (150.000 persone). Però il debito, che doveva scendere, è schizzato dal 125 a quasi il 180%. «Nemmeno dopo la guerra avevamo vissuto una simile recessione» denuncia Dimitrios Papadimoulis, sinistra radicale, vicepresidente dell'Europarlamento.
Per questo di fatto è l'Europa il grande elettore di Syriza, l'Europa che ha sconfitto l'attuale Governo di centro-destra negandogli le concessioni che presto sarà costretto a fare al suo successore. Il partito di Alexis Tsipras, in testa ai sondaggi promettendo la fine dell'austerità e il rinegoziato sul debito, è il figlio naturale di questi errori molto più che la creatura riuscita di un abile populista. A riprova, tuttora quasi l'80% dei greci resta favorevole alla moneta unica.
Di fronte all'evidenza dei problemi scatenati più che risolti in Grecia, il primo riflesso di un'Eurozona sempre più dominata dalla cultura nordico- tedesca è stato lo stesso emerso all'inizio della crisi: scorciatoia Grexit.
Ma Grexit è molto più facile da dire che da fare: non trova basi legali nei Trattati Ue, quindi l'espulsione è impossibile se l'interessato non condivide. Peggio, provocherebbe un effetto domino molto simile a quello che in passato ha propagato il contagio ellenico in tutta l'Eurozona, scatenando un attacco speculativo in grande stile sul debito sovrano. E relativa destabilizzazione dell'euro, tuttora irrisolta.
Oggi, si ripete, il pericolo è più contenuto: le banche tedesche e francesi, allora sovra-esposte ad Atene, non corrono più grossi rischi. Il debito ellenico è più pubblico che privato. Però il potenziale di destabilizzazione politica dell'area è intatto, in parte inesplorato e per questo anche più insidioso.
I partiti euro-scettici, nazionalisti, populisti o comunque alla ricerca di un'altra Europa, proliferano nell'Unione. Quest'anno, tra regionali e nazionali, ci saranno elezioni in 7 paesi dell'euro su 19. In Spagna, Francia, Olanda i partiti anti-sistema sono in cima ai consensi popolari. Ma anche in Portogallo e Finlandia le contestazioni sono molto forti.
Grexit dunque farebbe subito volonterosi proseliti. E direbbe ai mercati che la moneta unica non è irreversibile, la politica del 'whatever il takes' del presidente della Bce, Mario Draghi, non è più credibile e il suo quantative easing vano. Isolando la Grecia invece di stemperarne i problemi con un negoziato europeo, si suonerebbe di fatto una nuova carica per la speculazione galvanizzata dal rischio-sfascio. Senza contare che un suo default costringerebbe i Governi dell'euro, che finora hanno puntellato il paese sborsando essenzialmente garanzie, a coprirle con denaro vero dei contribuenti.
Nasce da qui, dalla constatazione che dall'euro non si può tornare indietro a meno di non essere disposti, tutti senza eccezione, a pagare il salatissimo prezzo del disastro collettivo, la speranza di una svolta intelligente nella governance dell'Eurozona.
Il programma Juncker di investimenti da 315 miliardi di euro in 3 anni per rilanciare la crescita e, soprattutto, l'iniezione di flessibilità interpretativa nell'applicazione del patto di stabilità sono segnali concreti di realismo: non significano sconfessione ma ragionevole allentamento delle politiche di rigore, dosi più limitate e tempi più lunghi, per renderle sostenibili. E utilizzo degli 'sconti' per accelerare le riforme, cioè la modernizzazione dell'economia europea in perdita di competitività mondiale.
Significano invece che Francia e Italia, seconda e terza economia dell'euro, in marzo non saranno sanzionate per i loro ritardi. Evitando così una crisi politica dal potenziale ben più dirompente di quella greca.
Naturalmente per poter funzionare e scongiurare il peggio, l'implosione dell'euro, la nuova politica di Juncker ha bisogno della collaborazione di tutti gli attori della partita: sia della serietà dei Governi che devono fare riforme e risanamenti veri sia del senso di responsabilità di quelli che, a dispetto delle loro virtù, non riescono più a crescere quanto dovrebbero e quindi dovrebbero avere interesse a un'Europa più convergente, dinamica e risanata.
Nella nuova logica ispirata da due campioni di realismo come Juncker e Draghi e imposta da una realtà politica ed economica europea che non si può continuare a ignorare, le rivendicazioni greche andranno accolte quel tanto che basta a disinnescare una crisi che non conviene a nessuno. Per questo, dopo essere stata a lungo il problema, la Grecia potrebbe un giorno ritrovarsi attribuito un po' di merito per la soluzione dei troppi problemi dell'euro ancora aperti.

La Stampa 24.1.15
“Il Front National non ha paura di dire: Stiamo con Syriza”
Louis Aliot, compagno di Le Pen “Uniti contro il sistema economico”
di Leonardo Martinelli


Louis Aliot, classe 1969, è vicepresidente del Front National e compagno nella vita di Marine Le Pen. Non è un segreto per nessuno: è lui ad aver ideato la nuova politica del partito, quella del suo sdoganamento, la « dédiabolisation ». Un dottorato in diritto pubblico alle spalle (di ex rugbista), sempre impeccabile, mai sopra le righe, Aliot è una sorta di improbabile gentleman dell’estrema destra. Improbabile è anche la posizione sua e del partito in vista del voto greco.
È vero che appoggiate Syriza, la sinistra radicale?
«Certo. E sappiamo benissimo chi sono. Ma quando criticano il sistema economico europeo, questo ultraliberismo sotto gli occhi tutti, la pensiamo allo stesso modo. Anche quando attaccano la politica di austerità. Per lo stesso motivo apprezzo pure gli indignati spagnoli. Sono le uniche cose che abbiamo in comune ma io non sono come quelli di sinistra».
Cosa vuol dire?
«Noi non cadiamo nel settarismo della sinistra tradizionale, che non riconosce gli elementi positivi nei discorsi degli avversari. Loro dicono che sono Charlie quando uno la pensa esattamente come loro ma sono subito molto meno Charlie, se la pensi un po’ meno come loro».
A proposito, lei è Charlie?
«Non condivido assolutamente la linea editoriale di quel giornale e nella maggior parte dei casi trovo le loro vignette infami. Ma se significa difesa totale della libertà di espressione, io sono Charlie. In un paese democratico del XXI secolo si deve poter scrivere, dire e decidere tutto. Altrimenti si compie il primo passo verso il totalitarismo».
Ma in Grecia perché non appoggiate Alba dorata?
«Non abbiamo niente a che fare con quella gente lì».
Dopo gli attentati terroristici a Parigi, diversi osservatori politici, dicono che il Front National ha perso consensi, perché non ha voluto partecipare alla manifestazione di Parigi. È vero?
«Io ho manifestato a Perpignan, nella mia città. Temevamo che ci contestassero e invece non è successo nulla, anche perché mi sono guardato intorno e per strada fortunatamente non ho visto i politici ma il popolo, gli indignati. Davanti a me hanno insultato la delegazione di un sindacato, che ha tirato fuori le sue bandiere, accusata di voler sfruttare l’occasione. Loro sì li hanno contestati».
Ma perché non siete andati a manifestare a Parigi?
«Perché a organizzare quella marcia sono stati i socialisti. Hanno detto che non eravamo i benvenuti. E noi non ci siamo andati».
Altro passo falso del partito : il video fatto girare su Twitter da un vostro eurodeputato, Aymeric Chauprade, dove pronuncia affermazioni fortemente anti islamiche...
«Marine Le Pen lo ha esautorato da tutte le sue funzioni all’interno del Front National. E ha fatto benissimo, anche se poi personalmente sono d’accordo con il 90% di quel video».
Jean-Marie Le Pen ha preso le parti di Chauprade...
«Il problema di Jean-Marie Le Pen è che lui va contro tutti quelli che sono a favore di qualcosa ed è a favore quando tutti sono contro. È così per principio. Deve far vedere che è diverso. Meno male che ormai Marine è identificata come la vera leader di questo partito. Diciamo che lei preferirebbe che un padre l’appoggiasse in ogni circostanza. Ma questa è la vita. Non è facile».

Corriere 24.1.15
I nazisti di Alba dorata interlocutori politici dalle celle del carcere
di A. Ni.


ATENE Da detenuti a onorevoli (e ritorno) in un girar di chiavi. Il 29 dicembre, per l’ultimo tentativo di eleggere un nuovo presidente greco prima di queste elezioni, al Parlamento ateniese (non un posto qualunque) arrivò un furgone della polizia penitenziaria. A bordo 8 carcerati in manette. Gli agenti li scortarono fin dentro l’augusto edificio, poi, a uno a uno, li liberarono. Gli onorevoli galeotti poterono così democraticamente partecipare al voto dai banchi di Alba Dorata. Il presidente non venne eletto, gli onorevoli tornarono dietro le sbarre, ma la figuraccia fece il giro del mondo. «Ora potrebbe andare peggio – dice al Corriere Iannis Politis, uno di più stimati analisti politici greci –. Se Alba Dorata, un partito di simpatie neonaziste, arrivasse terzo, saremmo costretti a vedere il presidente Karolos Papoulias, un ex partigiano, dare l’incarico esplorativo al leader neonazi Nikos Michaloliakos, chiamandolo dal penitenziario di massima sicurezza di Korydallos. A confronto la richiesta di cancellazione del debito diverrebbe improvvisamente una linea politica autorevolissima». Alba Dorata vuole la schedatura degli stranieri, la loro esclusione dai servizi sociali, in ultima istanza l’espulsione. Undici leader sono accusati di associazione a delinquere e omicidio. Loro, ovviamente, negano tanto le accuse penali, tanto l’ispirazione ideologica. L’ascesa di Alba Dorata però è caratterizzata dall’espandersi di squadracce di «auto soccorso» popolare: scortano le vecchiette al bancomat e selezionano i «puri ellenici» per la distribuzione degli aiuti. «Nel 2011 c’erano sondaggi riservati che li davano al 18% – racconta Politis –. Poi la crescita di Syriza ha dato al malcontento un’alternativa e si sono un poco sgonfiati». I sondaggi li indicano tra il 5 e l’8%. «Dovesse fallire Syriza – dice Politis – le prossime elezioni potrebbero essere le loro».

il Fatto 24.1.15
L’Islam francese rende omaggio alla République
Nelle 3mila moschee di Francia preghiera per l’unità delPaese
Ma le provocazioni contro la comunità araba si sono moltiplicati
di Luana De Micco


Che Allah benedica la République. I fedeli musulmani che ieri, alle 13:03, si sono raccolti nelle circa 3 mila moschee e luoghi di culto di tutta la Francia hanno pregato “per la pace e la serenità” del paese dopo gli attentati alla redazione di Charlie Hebdo e al negozio kosher, in cui sono rimaste uccise 17 persone. “Abbiamo già pregato la scorsa settimana, ognuno per conto nostro. Ma questa volta sono tutti i musulmani che si mobilitano per parlare con una voce sola”, ha osservato Mohammed Moussaoui, presidente dell’Unione delle moschee di Francia.
La grande preghiera per la Francia si è tenuta su iniziativa del Movimento dei musulmani di Francia, una delle più importanti federazioni che riunisce circa 500 istituti religiosi. Alla Grande moschea di Parigi, un fedele si ferma a parlare con i giornalisti prima di entrare nella sala di preghiera: “Vivo un rapporto molto intimo con la mia fede e ho un legame molto stretto con la Francia – dice –. È il paese dove sono nati i miei figli. Penso che questi due aspetti della mia vita possono coabitare senza problemi”. I cronisti non sono ammessi all’interno. Davanti all’ingresso c’è una vistosa pattuglia di poliziotti armati.
Bisogna dire che tra il 7 gennaio, giorno dell’attacco a Charlie Hebdo, e il 20, l’Osservatorio nazionale contro l’islamofobia ha contato 128 atti anti-musulmani in Francia. Quasi quanti ne sono stati registrati in tutto il 2014. Minacce e insulti ma anche attacchi a moschee: “Si raggiungono livelli di odio nei confronti dei musulmani mai registrati prima”, ha detto Abdallah Zekri, presidente dell’Osservatorio.
IL RETTORE della principale moschea parigina, Dalil Boubackeur, ha già annunciato che, per quanto lo riguarda, la grande preghiera del venerdì sarà d’ora in poi dedicata alla Francia. E già diversi imam hanno fatto sapere che seguiranno l’esempio.
Nel suo sermone, l’imam Chabbar Taïeb della moschea Ali, in un quartiere popolare della capitale, ha sottolineato che l’Islam è una “religione di tolleranza e di pace”. Poi ai giornalisti ha confidato che gli attentati hanno generato “odio”: “I musulmani di Francia soffrono. Alcuni mi hanno detto di essere stati aggrediti nel metrò, altri di aver tolto la djellaba per non attirare l’attenzione”. In un comunicato, Boubackeur ha ricordato alle autorità di averle sempre messe in guardia “contro le derive del fondamentalismo islamico”.
Di cui ora è anche la più numerosa comunità musulmana d’Europa (quasi 5 milioni di persone) a farne le spese. Esattamente come tutti gli altri: “Abituatevi a vivere con il terrorismo”, ammoniva ieri il premier Manuel Valls parlando ad alcuni studenti di un liceo della regione parigina.
E, chissà, forse anche per calmare gli animi, il disegnatore Riss, che ha ripreso la direzione di Charlie Hebdo dopo la morte di Charb, ha anticipato che non ci dovrebbero essere nuove caricature di Maometto nel prossimo numero del giornale (la cui uscita, prevista il 28 gennaio, è stata rinviata). Ma ciò non vuol dire abbassare la testa: “Siamo un giornale responsabile. Se cedessimo ora, saremmo irresponsabili”.

La Stampa 24.1.15
La bimba deportata ad Auschwitz che ha adottato il nipote del suo aguzzino
di Maurizio Molinari

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La Stampa 24.1.15
Noi, le ultime bambine di Auschwitz
Due sorelle e quattrocento giovani amici: cronaca di un ritorno all'inferno settant'anni dopo, tra ricordi di palle di neve, sensi di colpa e il bisogno di non dimenticare
Un reportage di Mario Calabresi

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La Stampa 24.1.15
Shoah, in un libro Lanzman svela l’altra faccia del rabbino capo di Vienna Murmelstein
L’intellettuale francese in un film documentario e in un romanzo descrive la personalità controversa del decano dello Judenrat del campo di concentramento di Theresienstadt
di Francesco Sforza

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Corriere 24.1.15
L’olocausto una tragedia europea (e molto italiana)
di Furio Colombo


Caro direttore, chiedo ospitalità al tuo giornale, che il 20 gennaio ha pubblicato un articolo firmato da Ricardo Franco Levi e Alberto Melloni. Benché intitolato «Domande scomode sull’antisemitismo», l’articolo dedica un’attenzione quasi esclusiva alla legge numero 211 del 20 luglio 2000, che istituisce in Italia il Giorno della Memoria.
Quel testo di legge che, come è noto, ho scritto, firmato e presentato fin dall’inizio della Tredicesima legislatura, viene presentato come anonimo nell’articolo in questione (non si dice neppure da quale parte della Camera di allora quel testo sia stato presentato). Ma alcune osservazioni severe vengono fatte subito. Scrivono Levi e Melloni: «Come avviene ormai da quattordici anni, il 27 gennaio si celebrerà il Giorno della Memoria in ricordo, come dice la legge (senza mai pronunciare la parola «fascismo») dello sterminio e della persecuzione del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti». Ma il testo della legge dice all’articolo 1: «La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria” al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte...». Non sembra che vi siano omissioni o ambiguità.
L’articolo 2 si conclude (e conclude il breve testo della legge), con le parole «affinché simili eventi non possano mai più accadere». Commentano gli autori: «La realtà non sempre si adegua alla norma (...) specie quando sostituisce il risultato sicuro del conoscere con gli effetti incerti del ricordare». L’argomento così grave rende imbarazzante una obiezione ovvia ma anche inevitabile. Il Giorno della Memoria, come si constata in molte scuole d’Italia, ma anche in televisione, raramente fa accenni vaghi ai ricordi. Di solito si ascolta chi racconta ciò che sa e che ha vissuto, si vedono i film, i luoghi, i documenti di cose tragicamente accadute, per chi non le avrebbe mai viste.
Ed ecco un secondo, disorientante passaggio: «Se vogliamo evitare il rischio di una stanca ripetizione, il Giorno della Memoria potrà, dovrà (...) avere un’ottica innanzitutto e prevalentemente italiana che la stessa data del 27 gennaio, con il riferimento ad Auschwitz che essa implica, non aiuta ad assumere (...). Altri sono i luoghi e altre sono le date che parlano e devono parlare alle giovani generazioni della persecuzione agli ebrei italiani». Gli autori elencano, oltre ai campi italiani, il Ghetto di Roma e la Camera dei deputati dove tanta parte della tragedia è accaduta «per superare gli stereotipi, le visioni rassicuranti». E concludono: «Su questo sarà bene riflettere il prossimo 27 gennaio».
Su come tutto è cominciato, e, alla fine, con tutti i suoi limiti, si è realizzato, affido un chiarimento importante (ma che era certo conosciuto dagli autori dell’articolo) al professor Robert F.C.Gordon (Modern italian culture, University of Cambridge) citando dal suo libro The Holocaust in Italian Culture ( L’Olocausto nella cultura italiana , pubblicato da Stanford University Press): «Nei tardi anni Novanta Furio Colombo e altri hanno cominciato a sostenere la necessità di istituire in Italia un giorno nazionale della memoria dell’Olocausto. (...) Alla fine il giorno scelto è stato il 27 gennaio, data della liberazione del campo da parte dei Sovietici e il più grande simbolo dell’orrore della soluzione finale. Ma Furio Colombo ha continuato a insistere su una data italiana, una data che appartenesse alla storia italiana e alla storia degli ebrei italiani. La sua data era il 16 ottobre 1943, quando, lui diceva, la soluzione finale è stata portata nel cuore di Roma e ha mostrato e confermato la collaborazione fra tedeschi e fascisti» (pag. 97 ).
Non ho mai incontrato Robert Gordon. Ma ciò che scrive era pubblico a quel tempo in Italia, e gli argomenti si incrociavano sui giornali e in televisione. Tanto che lui può scrivere: «Si è espresso bene Colombo, quando inizia la sua campagna per il Giorno della Memoria e dice: “La Shoah è un delitto italiano”» (pag. 179). Molto importante, per me, è la presa di posizione di Tullia Zevi, allora presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche in Italia, che mi ha chiesto di aderire alla proposta del 27 gennaio, come data capace di contenere il senso europeo della tragedia. Alla fine — il giorno dell’approvazione unanime della legge alla Camera — ho potuto dire ai miei colleghi ciò che Ricardo Franco Levi e Alberto Melloni vogliono che sia il senso del Giorno della Memoria: «In quest’Aula in ciascuno dei nostri seggi sedeva qualcuno che ha votato sì alle leggi di persecuzione dei cittadini italiani ebrei. Io vi chiedo di votare sì, adesso, dagli stessi seggi, sul Giorno della Memoria. Non potremo cambiare neppure in un dettaglio il passato. Ma avremo detto ai più giovani che sappiamo che cosa è accaduto in quest’Aula». (Cito dai verbali).
Mi sono illuso per un momento che il Parlamento fosse una macchina del tempo, capace di toccare il passato. Non lo è. È poca cosa il Giorno della Memoria. Ma esiste. Esiste in Italia.
Giornalista e scrittore
Ex parlamentare pd

Corriere 24.1.15
La liberazione di Auschwitz, un antidoto al negazionismo
di Aldo Grasso


Ha ragione Paolo Mieli. Ai negazionisti, coloro che si spingono a negare l’esistenza o la storicità dei campi di sterminio, andrebbero fatte vedere e rivedere le immagini della liberazione di Auschwitz, girate dai cineoperatori dell’Armata rossa, o le prime testimonianze visive degli orrori filmati dai cineoperatori inglesi e americani all’interno del campo di Bergen-Belsen.
Una sorta di «Cura Lodovico», aggiungo io, quella praticata in Arancia meccanica , in modo che le sconvolgenti immagini s’imprimano bene nella memoria. La Grande Storia ha dedicato una serata alla commemorazione del Giorno della Memoria, nell’anno del 70° anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz (Rai3, giovedì, ore 21,10).
La puntata, dal titolo «Nel nome della razza» di Nicola Bertini ha raccontato anche le figure di Josef Mengele, Adolf Eichmann e Julius Streicher. È difficile rappresentare l’orrore anche perché l’orrore non ha mai fine. Mengele usava i corpi dei prigionieri per i suoi deliranti esperimenti (non ha mai pagato per i suoi delitti); Streicher, direttore della rivista Der Stürmer , è stato uno dei fondatori della propaganda antisemita; Eichmann era il «burocrate della morte», quello che gestiva e organizzava le uccisioni nel lager con le sue famigerate Schutzstaffel.
Nulla ha la forza del documento originale, della scoperta dell’abisso in cui le convulsioni della storia sanno gettarci. Per questo la visione del film Night Will Fall , diretto da André Singer, è stata sconcertante. Si tratta di immagini girate dalle forze inglesi, russe e americane, che l’allora ministro delle Comunicazioni britannico Sidney Bernstein incaricò di riunire, assieme a numerose interviste ai sopravvissuti allo sterminio, in un documentario che testimoniasse, in modo inequivoco, l’indicibile vastità dei crimini perpetrati dal regime nazista ai danni delle comunità ebraiche e di tutta l’umanità.

Corriere 24.1.15
Figli senza unioni uomo-donna La scienza e il dilemma del futuro
Partenogenesi e staminali, così la procreazione potrà cambiare la società
di Edoardo Boncinelli


Si sente dire spesso che i filosofi cambiano il mondo, e a più breve termine i politici. Ma da quando ci sono io, è stata la scienza a cambiare il mondo: l’allungamento incredibile della nostra vita, l’aumentata prevedibilità delle vicende del mondo e la liberazione da molte sinistre condizioni di partenza, sono altrettanti esempi, per non parlare dell’enorme impatto che ha avuto l’invenzione della pillola anticoncezionale. E non è certo finita. Anzi, per qualcuno il bello deve ancora venire. In questo periodo si parla di gameti e di riproduzione, con l’apertura di orizzonti prima inimmaginabili.
Qualche giorno fa ho parlato di una cosa abbastanza naturale, la stimolazione di una cellula-uovo, in modo che dia luogo a una nuova vita senza l’intervento di uno spermatozoo maschile. L’abbiamo definita partenogenesi, un fenomeno di grande naturalezza, ottenibile con una stimolazione minima. Per ottenere una figlia da una mamma. Ora si parla di produrre gameti maschili e femminili utilizzando cellule adulte di certi individui. È ovvio che stiamo entrando nel grande capitolo delle cellule staminali. Con le quali si possono fare cellule somatiche di tutti i tipi, e ora anche gameti, cioè cellule germinali. In anfibi e topi ciò è possibile da tempo, ma ora anche nella nostra specie.
Una nuova scoperta fatta a Cambridge permette appunto la produzione di gameti umani da cellule qualsiasi. L’ultimo passo in questa direzione è stato compiuto grazie all’individuazione di un gene specifico, un membro della famiglia Sox, una delle tante che controllano l’operato di diversi geni-architetto, i regolatori della generazione della forma vivente negli animali superiori. È un traguardo atteso, ma non per questo meno ambito, un traguardo che promette — o minaccia — di cambiare per sempre il rapporto genitori-figli. Millenni fa ci riproducevamo per abitudine, «un po’ per celia e un po’ per non morire», come fanno tutti gli animali. Vivevamo pochissimo, molti dei nostri figli ci premorivano e quelli che sopravvivevano ci seppellivano. Le donne dovevano partorire 15-16 figli per portarne uno o due alla maggiore età. Era tutto naturale e tutto convulso e confuso. Poi, a poco a poco, le cose sono cambiate e si è avuta una procreazione più responsabile, ma sempre appoggiata su grandi numeri per colpa dell’azione del Triste Mietitore.
In tempi relativamente recenti le morti dei bambini sono drasticamente diminuite e si è cominciato a parlare di famiglia e pianificazione delle nascite. Ma ci siamo accorti che ci sono molte persone che non riescono in questa che è la funzione più naturale del mondo: non possono avere figli. Molto, moltissimo è stato fatto in questo campo, con lo sviluppo di una ginecologia specializzata e grazie ai diversi metodi di fecondazione assistita. L’ultimo grido prima di adesso è stata l’introduzione direttamente nel nucleo di una cellula-uovo di uno spermatozoo che non è riuscito a maturare del tutto. Ora i gameti, cellule-uovo e spermatozoi, si potranno creare in laboratorio a piacimento .
Questa sarà un’arma eccezionale contro ogni forma di infertilità, ma anche contro ogni forma di condizionamento, sia questo di natura biologica, psicologica o sociale. Saremo ancora più liberi. Di fare cosa? Non è facile dirlo. Potremo decidere noi quando, dove, con chi, come e perché procreare. E forse anche che cosa generare, se mettere al mondo un essere vivente con queste o quelle caratteristiche. Chi parla di eugenetica, usa questo termine con una connotazione negativa, che spesso nella storia ha avuto, ma scorda che la parola contiene la particella «eu» che in greco vuol dire «bene» e «buono». Quello che era buono ieri non lo è oggi e si può scommettere che domani sarà ancora un’altra cosa. Non commettiamo l’errore di sbarazzarci troppo in fretta del futuro per paure che provengono da un lontano passato. Naturalmente sempre a ragion veduta, e ho detto «ragione» non a caso.