domenica 25 gennaio 2015

Corriere La Lettura 25.1.15
No, non sono la variante di Heidegger
Il dibattito intorno all’autore tedesco invita a riflettere sulle questioni fondamentali dell’Essere e della violenza
I «Quaderni neri» hanno svelato l’antisemitismo e riaperto un caso
Qui Severino replica alle tesi di Giacomo Marramao e Victor Farías
di Emanuele Severino


In questi giorni, in cui si è resa ancora più visibile la componente antiebraica del terrorismo islamico, la pubblicazione dei Quaderni neri di Martin Heidegger complica le cose. È tragicamente noto che cosa sia stata la violenza antiebraica del nazismo; Heidegger è stato nazista; i Quaderni neri confermano il suo antiebraismo.
Purtroppo Heidegger li ha scritti. Articoli interessanti in proposito, come quelli di Guido Ceronetti e di Livia Profeti, sono apparsi anche sul «Corriere». In sostanza, mi sembra, Heidegger trascrive nelle proprie categorie l’accusa di deicidio che il cristianesimo ha per secoli e secoli rivolto agli ebrei. Al posto di «Dio» mette cioè l’«Essere» (quello che lui intende con questa parola). Nel suo libro, molto informato e pensato, Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri, 2014), Donatella Di Cesare, pur nella sua decisa opposizione, non intende nascondere nulla, a quanto ho capito, del peso filosofico di Heidegger e proprio per questo bada a mostrare tutta la forza speculativa di cui può disporre la sua condanna degli ebrei. Forza ben misera, che in sostanza, quando è al meglio, si riduce alla seguente affermazione: «La questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale non è razziale, bensì è la questione metafisica su quella specie di umanità che, essendo semplicemente svincolata, può fare dello sradicamento di ogni ente dall’Essere il proprio “compito” nella storia del mondo». Dal fatto che gli ebrei sono un popolo nomade, sradicato dalla terra, essi sarebbero cioè sradicati dall’«Essere». I tedeschi invece no, insieme ai greci antichi non sono sradicati.
Molte, da parte di Heidegger, le descrizioni dello sradicamento ebraico dalla terra e della propensione ebraica alla razionalità calcolante scientifico-economica; ma, appunto, non si va oltre il descrivere, o meglio: oltre la convinzione di dire cose che siano descrizioni; la quale non autorizza certo il passaggio dal nomadismo del popolo ebraico al suo sradicamento dall’«Essere».
Per fortuna Heidegger non è coerente, ossia non esiste una connessione rigorosa tra le sue tesi; sì che si possono lasciar da parte i Quaderni neri senza esser costretti a fare altrettanto con molte altre sue opere, che lo rendono uno dei maggiori pensatori del Novecento. Rileggere tutta la sua opera alla luce di questi Quaderni (dalla copertina nera) è quindi molto arbitrario. Si può dire allora che se l’isolamento dell’ente dall’«Essere» è in Heidegger un problema serio, non altrettanto si può dire dell’affermazione che gli ebrei siano responsabili di tale isolamento. Non lo si può dire anche perché altrove egli sostiene la tesi che già nel primo pensiero greco, dove l’«Essere» si manifesta per la prima volta, si produce l’oblio dell’«Essere», ossia il voler avere a che fare soltanto con le cose e solo con esse, dimenticando l’«Essere». (Una volontà, peraltro, che prima di Heidegger era stata espressa da Husserl e da Gentile, visto che l’«Essere» è in sostanza il manifestarsi, l’apparire delle cose, l’«aver a che fare», appunto, con esse).
«Con Giacomo Marramao — scrive la Di Cesare — ho avuto modo di discutere sin dall’inizio le pagine di Heidegger». E Giacomo Marramao, nel suo importante libro Dopo il Leviatano (Bollati Boringhieri, 2013), ha avuto modo di discutere quelle che egli chiama «filosofie enfatiche del XX secolo (da quella di Heidegger a quella di Severino, che della filosofia heideggeriana può essere tranquillamente considerata l’italica versione o variante)». L’amico Marramao è un filosofo serio; errare humanum est ; e avrei lasciato correre se ora non si fossero messi di mezzo quei neri e heideggeriani Quaderni — e se non ci trovassimo in una situazione in cui è meglio che, a proposito dell’antiebraismo, tutto sia il più chiaro possibile. Debbo dunque dirgli che se il bianco può essere tranquillamente considerato una «versione o variante» del nero, allora, sì, si può stare altrettanto tranquilli nel considerare la mia filosofia come l’italica versione o variante di quella heideggeriana. Sennonché per Heidegger l’«Essere» è tempo, evento, e nessun ente è eterno; i miei scritti indicano invece la dimensione in cui appare la necessità che ogni ente sia eterno (e se l’«Essere» è, come in effetti è, l’apparire degli enti, allora anche l’«Essere» è eterno). Per molti la differenza, anzi, l’opposizione, tra queste due prospettive è evidente. Cito per tutti Massimo Cacciari.
Certo, Marramao è ben lontano dall’ingenuità di Victor Farías, la cui accusa a Heidegger sollevò verso gli ultimi anni Ottanta un clamoroso e internazionale vespaio analogo a quello che ora i Quaderni neri stanno suscitando all’estero e in Italia. (Solo che oggi, soprattutto in relazione all’antisemitismo presente nel terrorismo islamico, il problema non è solo «culturale»). Ho sempre sostenuto che se una verità definitiva non esiste, allora non è una verità definitiva nemmeno che la distruzione dell’uomo debba essere condannata; e che a questo risultato disumano, partendo da quella premessa, perviene inevitabilmente la civiltà occidentale (e ormai il Pianeta) — la civiltà occidentale, dico, non il Contenuto a cui si rivolgono i miei scritti.
Ma il disattento Farías (cileno, allievo di Heidegger, docente alla Freie Universität Berlin) aveva capito che questa fosse una delle tesi del mio discorso filosofico — il quale è invece la negazione dei fondamenti di tale civiltà. E quindi, scandalizzato, emetteva nel suo libro giudizi come: «È l’inumanità in atto che parla nelle affermazioni di Emanuele Severino»; oppure: Severino «fa appello a Hegel, ma in realtà si trova pericolosamente vicino a Hitler»; e avanti di questo passo. (E il mio errore, agli occhi di Farías, era anche la pretesa di distinguere, in Heidegger, l’uomo dal filosofo. Pretesa, d’altronde, che tengo tuttora ferma: nel senso, come ho detto all’inizio, che tra le tesi di Heidegger non esiste una connessione rigorosa e che quindi la miseria di una non implica la miseria di tutte le altre).
Marramao è lontano dall’ingenua disattenzione di Farías. Però contrappone il Libro dei libri — cioè la Bibbia, che taglia i ponti col mondo classico — alle «filosofie enfatiche» di Heidegger e mia, appunto, per le quali «non si danno né cesure né metamorfosi, né vuoti né paradossi, ma solo passaggi e inveramenti interni a un monologo nichilistico del Divenire già dato ab originibus nel pensiero greco: almeno a partire dal “parricidio” nei confronti di Parmenide perpetuato da Platone e Aristotele. Per esse le idee di “redenzione” e di “consumazione dei secoli” introdotte dalle tre religioni del Libro non costituiscono novità alcuna».
È curioso — e abbastanza grave — che Marramao descriva Heidegger attribuendogli in sostanza (qualche sbavatura a parte) quella che è la mia diagnosi della storia dell’Occidente e che non solo gli heideggeriani, ma credo nessuno sarebbe disposto a vedere in Heidegger. Negando che tale storia sia un «monologo nichilistico del Divenire», Marramao intende negare che essa abbia un senso unitario. Quasi che «cesure», «metamorfosi», «vuoti», «paradossi», «redenzione» e «consumazione dei secoli», che gli stanno a cuore, non fossero forme del «Divenire».
La filosofia greca pensa che il «Divenire» sia l’andare nell’essere, da parte delle cose, venendo fuori dal loro non essere e ritornandovi. Il futuro è ciò che non è ancora; il passato è ciò che non è più. Nel passato e nel futuro le cose sono nulla. C’è un luogo, nella storia dell’Occidente, dove questa convinzione è negata? C’è un luogo, ovunque lo si cerchi? Assolutamente no. (Ecco perché la storia dell’Occidente è un «monologo»). Ma — e siamo al punto decisivo — questa convinzione è, insieme, l’errore estremo e l’estremo orrore, l’estrema violenza. L’errore estremo, perché, affermando un tempo in cui le cose sono nulla, si identificano le cose, ossia ciò che non è un nulla, al nulla (ecco perché il monologo dell’Occidente è «nichilistico»). L’orrore estremo, perché la convinzione della essenziale nullità delle cose è il fondamento di ogni violenza, omicidio, genocidio, Olocausto: «Tu sei nulla — grida la Violenza —; quindi posso e anzi devo trattarti come un nulla».
I difensori dell’uomo, e quindi dell’uomo ebraico, volendo essere amici del Divenire vogliono essere amici della Violenza?

Corriere La Lettura 25.1.15
Il tempo ha ripreso a scorrere
Un fisico sovverte le teorie di Einstein, una psicologa e un neurobiologo sembrano descrivere il fluire delle ore come un’illusione del cervello. Ma una convergenza è possibile
di Sandro Modeo

Fino a poco tempo fa, le prospettive della scienza sul «mistero del tempo» si diramavano in due direzioni alternative. Da una parte avevamo la fisica, tendente a presentarlo come un’illusione dei sensi e quindi a negarlo: se per Einstein e Minkowski il tempo non è altro che una dimensione del palcoscenico cosmico (la quarta, inseparabile dalle tre dello spazio), alle invisibili scale quantistiche — a maggior ragione — non esistono direzioni spaziotemporali: l’euritmica «danza delle Ore» del mito greco si frange qui nel brulichio casuale degli atomi. Dall’altra parte, avevamo la biologia, surrogata dall’esperienza, in cui il tempo scandisce le sequenze degli organismi (nascita-sviluppo-riproduzione-morte) in un senso irreversibile: la sequenza retrograda è possibile solo in certe fiction, come nel Philip K. Dick di In senso inverso , dove i morti («bussando» dall’interno delle bare) regrediscono in adulti, bambini e poi feti accolti da ventri materni a loro volta in regressione temporale, fino all’implosione completa.
Ma adesso il quadro sembra complicarsi e — in apparenza — capovolgersi. Un fisico teorico autorevole e originale come Lee Smolin propone un libro «militante» ( La rinascita del tempo ) in cui sovverte il paesaggio della fisica, reimmettendovi il fluire del tempo come svolta metodologico-filosofica; mentre le scienze cognitive e le neuroscienze (pensiamo a un libro recente della scrittrice-psicologa Claudia Hammond, Time Warped , tempo «piegato» o «distorto» e a uno prossimo del giovane neurobiologo Dean Buonomano, The Brain Is a Time Machine ) sembrano descrivere il «senso del tempo» nel cervello come uno spettro di variazioni illusorie nella nostra rappresentazione del mondo esterno.
Per argomentare la sua ambiziosa proposta-break, Smolin costruisce il libro in due «movimenti». Nel primo (più breve) riassume forza e suggestione della visione dominante: quell’«universo-blocco» in cui le leggi fondamentali — dal moto alla gravitazione — preesistono alla materia istruendone le dinamiche. È un universo simile a una rete astratta e immutabile, dove il tempo è traducibile in geometria atemporale e dove (seguendo la cosmologia quantistica di Julian Barbour, l’autore della Fine del tempo ) ogni oggetto o evento è simile a un’istantanea in una «vasta collezione di momenti congelati», dissolvendo — col prima e il dopo — anche i nessi causali tra i fenomeni. Nel secondo movimento (risalendo a intuizioni di Dirac, Wheeler e Feynman), Smolin mostra invece le leggi fisiche soggette allo stesso processo evolutivo («temporale») degli organismi viventi, e in quanto tali inseparabili dalla materia e dalle sue proprietà fisico-chimiche.
In questo modo, le leggi si mutano da fondamentali in «approssimate» ed «emergenti», sempre penultime rispetto ad altre «più» fondamentali: al punto che la loro efficacia, paradossalmente, consiste nell’applicarsi a dinamiche locali (Smolin parla di «troncamenti di natura»), a porzioni perimetrate di universo piuttosto che all’universo intero.
Non tutto, in questo re-ingresso del tempo in fisica, è convincente. Per esempio, l’analogia tra evoluzionismo biologico e cosmologico appare, al momento, sfocata e spericolata: vedi il paragone tra la selezione naturale nelle specie (per mutazioni-variazioni genetiche) e quella tra universi in competizione attraverso i buchi neri e le loro «discendenze» (ce ne sono, nell’universo conosciuto, un miliardo di miliardi), anche se proprio quest’ipotesi è stata di recente vagliata dallo zoologo di Oxford Andy Gardner. Si tratta però di sfocature, sia chiaro, in un libro che ha il merito non trascurabile di riportare nella disciplina una ventata di realismo adulto, dopo lunghe infatuazioni metafisiche, dalle «teorie del Tutto» al multiverso.
Come si diceva, i libri della Hammond e di Buonomano sembrano invece inquadrare il «senso del tempo» nel cervello come configurazione illusoria, fitta di distorsioni e autoinganni. «Sembrano», perché in realtà il loro obiettivo è mostrare come quel «senso» — innegabile — sia tutt’altro che oggettivo; se lo fosse, non avremmo bisogno di orologi e cronometri.
Tutto parte dal fatto che il «tempo interno» è un’applicazione particolare di schemi mentali adattativi (consci e inconsci) più generali e flessibili, selezionati dall’evoluzione per l’orientamento, la fuga/predazione e la riproduzione. A rigore, in effetti, l’unico vero «orologio biologico» di cui disponiamo è la regolazione del rapporto sonno/veglia rispetto alla luce e alla temperatura, la cui base neurale è nell’ipotalamo: orologio peraltro non esclusivo dei mammiferi, dato che lo posseggono anche piante, fiori e persino batteri (certe proteine-orologio che si autoregolano su cicli di 24 ore). Per sotto-orologi più specifici, ricorriamo a un patchwork funzionale prelevato da un ventaglio di aree e circuiti neurali adibiti ad altre funzioni, spesso linkati tra loro: il cervelletto (che presiede al movimento) per valutare i millisecondi; il lobo frontale (memoria di lavoro) per i secondi; i gangli basali (funzioni motorie ed emotività) per discriminare ritmi e affetti della musica; e soprattutto, di nuovo, l’ipotalamo (coinvolto nella memoria a lungo termine) per visualizzare il futuro e predisporre strategie predittive; anche qui, senza particolari privilegi di specie, come mostra il minuscolo colibrì rosso, capace di valutare i 20 minuti necessari a un fiore per caricarsi di nettare prima di affondarvi il becco.
Decisive, nella modulazione di questo patchwork (che intreccia senso dello spazio e del numero, memoria ed emozione) sono le variabili ambientali-culturali: a popolazioni come gli amazzonici Amondawa (che non hanno parole per le unità di tempo, né calendari) si oppongono le nostre società iper-cronometrate, dove tutti siamo come il Bianconiglio di Alice; mentre la rappresentazione mentale di passato e futuro segue le direzionalità del metodo di scrittura: gli occidentali da sinistra a destra, gli arabi e gli ebrei al contrario, i sinofoni in senso verticale, col passato in alto e il futuro in basso.
E altrettanto contano le variabili soggettive oscillanti tra fisiologia e patologia, che si traducono in una vera fantasmagoria di fattori distorsivi del tempo. Alcuni sono immediati: la paura e la malattia lo rallentano, l’euforia o l’attenzione lo accelerano. Altri sono più sorprendenti, come le visioni sinestetiche, in cui i giorni si associano ai colori, i mesi a cerchi anti-orari o a spirali, gli anni a ellissi imperfette. Altri ancora, sono perturbanti: è il caso delle crono-alterazioni nell’isolamento o in certe lesioni cerebrali, dell’«eterno presente» nei bambini iperattivi, del non-tempo negli psicotici.
Del resto, che il tempo abbia una «forma» lo ricorda anche il codice Morse, dove l’alternanza di punti e linee con i relativi intervalli fa emergere le frasi un po’ come i puntini fanno emergere volti o alberi nei quadri di Seurat.
Alla fine di questo percorso incrociato — tra soluzioni aperte e domande inevase — è possibile almeno reimpostare la rotta concettuale. Condividendo la cerniera evoluzionistica, la prospettiva di Smolin e quella di Hammond-Buonomano convergono anche nel descrivere quella dialettica fluida tra cervello e ambiente (esteso dalla stanza in cui siamo alle vastità dell’universo) di cui l’ordine temporale è solo un aspetto, anche se tutt’altro che secondario. Se, come scrive Putnam, «la mente e la realtà costruiscono insieme la mente e la realtà», anche il tempo deve rientrare in questa costruzione. Separati solo per convenzione — in quanto unica e contigua è la materia che li veicola — il tempo «esterno» della fisica e quello «interno» del cervello cercano una difficile sincronia: ma pensare che il primo possa scorrere senza passare per il filtro del secondo, questa sì è un’illusione, se non un’allucinazione.

Corriere La Lettura 25.1.15
Attenti, internet non è la risposta ai problemi


Internet non è la risposta ai mali dell’umanità. Ne è convinto Andrew Keen, imprenditore, già autore di Digital Vertigo . In The Internet Is Not the Answer (Atlantic Books, pp. 288, $ 25) se la prende con Amazon, Uber e Facebook per spiegare il lato oscuro del web: la Rete ha promesso innovazione e uguaglianza, ha invece contribuito alla crisi del mercato del lavoro, creato inediti monopoli e una nuova classe di imprenditori. Cool, alla moda, più cinici dei lupi di Wall Street. I ceo della Silicon Valley portano la maschera dei filantropi ma guadagnano servendosi di dati personali e impiegando pochi individui in relazione alle dimensioni delle aziende. Però ci piacciono tanto. Perché? Soddisfano le nostre pulsioni di consumatori, spiega Keen, ci fanno credere che tutto quello di cui abbiamo bisogno stia dentro una piattaforma online. Nemmeno i corsi online delle università sono per Keen un esempio della nuova democrazia educativa digitale: al contrario. Servirebbero solo agli istituti più blasonati per monetizzare la propria fama. Non solo soldi, però. Internet nuocerebbe anche alla personalità. A causa dei social media staremmo infatti sprofondando in una visione pre-copernicana della vita: tutti convinti che l’Universo ci giri intorno, siamo sempre più isolati nel narcisismo dei nostri post. Insomma, se le analisi di Keen suonano un po’ risentite, una scrollata al nostro spirito selfie addicted ci aiuterà. Anche a pensare prima di postare, certo.

il Fatto 25.1.15
Aspettando Tsipras
Rodotà spiazza la sinistra italiana
“Sel, Prc e minoranza Pd sono zavorre. Non si ricostruisce guardando a loro”
Vendola oggi chiude la sua tre giorni
di Salvatore Cannavò


Mentre gli occhi sono puntati sul voto in Grecia, sulla tre giorni vendo-liana a Milano e sulla “brigata Kalimera” ad Atene, il dibattito a sinistra in Italia ha anche altri protagonisti. Di peso, anche se ora in sordina.
La testa pensante è Stefano Rodotà ma accanto a lui ci sono nomi del calibro di Maurizio Landini, Gino Strada, don Luigi Ciotti. Mentre i “kalimeriani”, vendoliani, rifondazionisti, “tsiprasiani” più o meno doc, sperano di importare in Italia il soffio di Tsipras e mentre oggi a Human Factor Nichi Vendola, Pippo Civati, Paolo Ferrero, Stefano Fassina spiegheranno la loro idea di sinistra, quegli altri studiano altre strade. Senza strappi o scontri. Senza divergenze sul ruolo catalizzatore che potrebbe avere la vittoria di Syriza. Ma con altre priorità.
NICHI VENDOLA, oggi, assicurerà che non ci sarà nessuna “ora X”. Ma l’ora X è nelle cose e la decisione di Sergio Cofferati di abbandonare il Pd ha accelerato l’attesa e il vorticoso rito delle riunioni. Tutti in cerca di un possibile rimescolamento dei gruppi dirigenti che si conoscono da decenni. Sotto traccia, però, la discussione è più complicata.
Il perché lo spiega una intervista a Stefano Rodotà, già parte della “sinistra indipendente” quando c’era il Pci, candidatura illustre, per quanto snobbata, alla presidenza della Repubblica, che su Micromega espone una idea molto diversa dell’ipotesi assemblativa presentata finora. “La sinistra italiana ha alle spalle due fallimenti” risponde Rodotà: “La lista Arcobaleno e Rivoluzione Civile di Ingroia. Due esperienze inopportune nate per mettere insieme i cespugli esistenti ed offrire una scialuppa a frammenti e a gruppi perdenti della sinistra”. Qui il giudizio è spietato: “Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società. Nulla di nuovo può nascere portandosi dietro queste zavorre”.
Giudizi così sferzanti spiegano, forse, perché Rodotà non sia presente alla kermesse milanese. “Rifondazione è un residuo di una storia - continua l’ex candidato al Quirinale - Sel ha avuto mille vicissitudini, la Lista Tsipras mi pare si sia dilaniata subito dopo il voto alle Europee. Ripeto: cercare di creare una nuova soggettività assemblando quel che c’è nel mondo propriamente politico secondo me è una via perdente”.
Rodotà non rinuncia ad avanzare proposte: “Bisogna partire da quel che definisco “coalizione sociale”. Mettere insieme le forze maggiormente vivaci ed attive: Fiom, Libera, Emergency  - che ha creato ambulatori dal basso - movimenti per i beni comuni, reti civiche e associazionismo diffuso. Da qui, per ridisegnare il nodo della rappresentanza”.
La linea del professore ha un retroterra teorico nel suo ultimo libro, Solidarietà, il cui titolo è già un programma. Ma si nutre anche dei rapporti con i soggetti indicati anch’essi assenti dalla tre giorni vendoliana.
LA FIOM HA INVIATO alcuni suoi rappresentanti ma non Maurizio Landini che non vuole più vedere associato il suo nome, e quello del suo sindacato, alla ricostruzione della sinistra politica. Ma anche Libera di don Ciotti non è presente e così anche molti dei costituzionalisti che avevano lanciato la manifestazione “La via maestra”. La Fiom, ad esempio, sta riflettendo seriamente sulla tematica del mutuo soccorso quella che ha portato Syriza a realizzare mense autogestite o ambulatori popolari . Ci sono già collaborazioni avviate in questo senso tra Libera ed Emergency e la stessa Fiom potrebbe realizzare qualcosa di simile.
Da segnalare, poi, il canale diretto aperto da don Ciotti con Beppe Grillo, incontrato due giorni fa e con il quale l’associazione che si batte contro le mafie, ma anche contro la miseria, sta pensando di predisporre una proposta parlamentare sul reddito di cittadinanza.
C’è quindi un altro racconto a sinistra. Parla più il linguaggio del “sociale” e non si appassiona molto alle riunificazioni di altri tempi. Anche questa è una novità.

Corriere 25.1.15
L’ora della verità per una Grecia spaccata in due, tra sfida e miseria
Syriza sopra il 30%, Nuova Democrazia insegue
di A. Ni.


DAL NOSTRO INVIATO ATENE Nel primo Paese europeo che ha ricominciato ad avere fame, le elezioni non passano da chissà quali elaborazioni ideologiche. La scelta è tra miseria e rischio. I greci conoscono la prima sin troppo bene. Da sette anni ci sguazzano sino al collo. Nel mercato di Atene l’agnello costa 5 euro al chilo, ma le famiglie che se lo possono permettere tre volte al mese sono appena la metà. Gli altri mettono in tavola carote e legumi, 0,80 e 0,90 euro al chilo, spesso avuti per carità.
L’altro corno della scelta è il rischio. Il rischio di scoprirsi senza carta moneta, con le banche prese d’assalto e i risparmi che si volatilizzano. Il rischio è fidarsi di una banda di giovanotti che quattro anni fa dirigevano a malapena il Consiglio di zona e che domani dovranno andare a trattare con Mario Draghi, Jean-Claude Junker e Christine Lagarde.
Da una parte voterà chi ha ancora qualcosa da perdere. Dall’altra chi ha già perso tutto. Nuova Democrazia contro Syriza. Destra contro sinistra. Una sfida che sa di antico. Diceva Aristotele: «La causa di ogni rivolta è l’ineguaglianza».
A voler scegliere Syriza, la coalizione di estrema sinistra, sembrano intenzionati in molti. Il punto è se arriveranno al 38% e se contemporaneamente i partitini sotto il 3% sommeranno complessivamente l’8. Se così fosse Syriza avrebbe la maggioranza assoluta e non avrebbe scuse nello sguinzagliare la sua muta di professori d’economia, emigranti richiamati da tutte le università del mondo. Obiettivo: liberarsi del macigno del debito e aprire una gestione nuova della Grande Crisi. Non più bilanci pubblici a dieta forzata, ma pasti ipercalorici a base di interventi statali.
I sondaggi, però, non danno questo scenario. Dovrebbe vincere Syriza sopra il 30%, seconda Nuova Democrazia sotto il 30 e poi altri 4 o 5 partiti sotto il 10%. Due o tre fuori dal Parlamento. Alla fine potrebbero essere determinanti i piccoli. Il voto dei quasi 10 milioni di greci, comunque, marcherà un prima e un dopo. In Grecia, perché dopo quasi 60 anni un partito rosso può tornare al governo. In Europa, perché questo vento del Sud si sente ovunque, tanto che Berlino, Madrid e Bruxelles (dove governa il centrodestra) hanno criticato in vari modi il «rischio».
Nei dibattiti tv, anche questa settimana, candidati di Syriza sostenevano che «l’euro è stato un errore e che è meglio uscirne al più presto». Però la linea ufficiale portata avanti dal leader Alexis Tsipras ora nega l’ipotesi di Grexit, uscita dalla moneta unica appunto, e chiede invece una «Conferenza di rinegoziazione del debito».
Il quarantenne Tsipras ha incontrato in «forma privata» già a giugno il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi. Il greco aveva appena vinto le elezioni europee e di lui i mercati sapevano poco, ma lo catalogavano come pericoloso. L’italiano ha dimostrato anche per gli «appuntamenti privati» la statura dello statista europeo aprendo il canale di comunicazione.
Da allora i professori emigranti greci hanno cominciato a lasciare le aule universitarie dove insegnano e a fare colazioni di lavoro a Francoforte e Bruxelles. Tra estate e autunno ciò che prima era un tratto di penna sui 320 miliardi di debito greco è diventato un possibile compromesso che alterna moratorie a pagamenti legati alla crescita del Pil. Un po’ come certi mutui nell’era dei contratti a termine. Quando lavori paghi, quando sei disoccupato la banca aspetta.
Dragasaki, Statakis, Chacalotos, Liakos sono economisti targati Syriza dell’ala «moderata». Sono loro i protagonisti della «shuttle diplomacy» tra Atene e Francoforte. Milios, Varusaki e Lapavitsas sarebbero i falchi disposti allo strappo con il ritorno alla dracma.
Tra dicembre e gennaio persino la City di Londra ha intuito che la banda dei professori rossi poteva avere qualcosa di sensato da dire. Dal Financial Times è arrivato addirittura un endorsement. In fin dei conti conviene a tutti che l’economia riparta invece di asfissiarla sottraendo spiccioli di interessi per 40 anni. I greci votano. L’Europa guarda. Sotto il Partenone potrebbe nascere oggi la prima sinistra post Guerra Fredda.

il Fatto 25.1.15
Grecia, sfida rossa all’Europa
Un continente appeso al voto di Atene: se Tsipras trionfa, si vedrà un’alternativa al rigore
di Stefano Feltri


Speriamo che Syriza vinca così tornerà la sanità pubblica e noi potremo dedicarci ad altro”. Nell’ambulatorio sociale di via Amissou, nel quartiere ancora borghese di Nuova Smirne, tra palazzi dignitosi e alberi d’arancio, lavorano sessanta volontari, tra medici e amministrativi. Raccolgono medicine da famiglie e cliniche e le distribuiscono, offrono un’assistenza di base poi indirizzano i pazienti più gravi verso gli ospedali dove operano medici e infermieri, fuori dall’orario regolamentare. “Non vogliamo sostituirci al pubblico, ci consideriamo una soluzione tampone”, spiega una dottoressa alla “brigata Kalimera”. Oltre 200 persone che sono arrivate dall’Italia per dare solidarietà ai greci e partecipare a quello che considerano un momento storico, la vittoria della sinistra guidata da Alexis Tsipras.
NELLA “BRIGATA” ci sono sindacalisti, attivisti, quadri di partiti ormai dimenticati, come Rifondazione comunista, che stanno provando a rinascere con un leader straniero. Il progetto è partito con la lista alle elezioni europee, L’Altra Europa per Tsipras. Qualcuno lo potrebbe chiamare turismo politico, ma i 200 della “brigata” si sentono parte della rivincita contro l’austerità che potrebbe partire da Atene. Hanno una lista infinita di domande da fare ai volontari greci, si informano su come dare sostegno dall’Italia, chiedono dettagli per replicare in patria forme di sostegno anti-crisi. Ma soprattutto, vivono il voto di oggi come una battaglia comune, non solo greca.
La “Brigata Kalimera” degli italiani visita anche una “mensa sociale”, così la chiamano: un appartamento di due stanze e un cucinotto nel quartiere di Neos Kosmos, zona sud della Capitale. Dal 2012 Dimitris, uno psichiatra sulla cinquantina, lavora con i suoi volontari per distribuire cibo: lo raccolgono dai ristoranti, dai supermercati, dalle famiglie. Un paio di cuoche cucinano una trentina di pasti caldi al giorno, le famiglie della zona passano a ritirarli, assieme ad alcuni pacchi alimentari. “In Grecia non abbiamo una cultura di filantropia, ma di solidarietà, l’80 per cento delle persone che si danno da fare qui all’inizio erano venute a chiedere aiuto”, racconta Dimitris. Prima di consegnare il cibo chiedono la dichiarazione dei redditi, per dare priorità ai più bisognosi. Di qualunque fede politica. Qualcuno confessa anche di essere simpatizzante di Alba Dorata, il partito criminale neonazista. Anche Dimistris, come molti ateniesi, non sembra elettrizzato dal voto che tanto entusiasta la “Brigata Kalimera”.
Nel giorno delle sue ennesime elezioni decisive – nel 2012 ce ne sono state due altrettanto drammatiche – Atene sembra una città spossata, rassegnata. A parte il comizio conclusivo della campagna elettorale di Tsipras, giovedì sera in piazza Omonia, non si trovano tracce del fatto che i destini di un continente si decidono qui, oggi. Nessun manifesto elettorale. Lo stand principale di Nuova Democrazia, il partito di centrodestra al governo, viene ignorato dai passanti in piazza Syntagma.
EPPURE nel Paese che ha inventato la democrazia, oggi si devono capire due cose importanti. La prima: se l’Europa dominata dal rigore imposto dalla Germania può gestire una Grecia guidata da Alexis Tsipras. Se, cioè, Angela Merkel, Mario Draghi, Jean Claude Juncker, Donald Tusk, riusciranno a dialogare con un leader che non si sente vincolato dagli impegni presi dai suoi predecessori (il socialista George Papandreou, il tecnico Lucas Papademos e il conservatore Antonis Samaras), che vuole rinegoziare i termini di rimborso di un debito arrivato al 175 per cento del Pil e restituire speranza ai greci con un programma economico che prevede molta spesa pubblica e coperture assai incerte (lotta all’evasione, tasse su settori privilegiati, su tutti gli armatori, guerra ai monopoli nei media). Oltre a dialogare con le istituzioni europee, Tsipras dovrà anche confrontarsi con i mercati. Non soltanto per i tassi sul debito pubblico, ma anche per la tenuta del sistema bancario, nei giorni scorsi le due principali banche elleniche hanno dovuto ricorrere al sostegno di emergenza della Bce per tamponare la fuga di capitali. Il secondo dato delle elezioni di oggi è che sono le prime nazionali a essere anche davvero europee: tutto il continente osserva e partecipa. Dai destini di Tsipras dipendono quelli degli ex-indignati di Podemos in Spagna, forse quelli della minoranza del Pd e di Sel in Italia, perfino quelli di François Hollande che in un’Europa meno austera potrebbe ritrovare spazio, e anche Angela Merkel faticherà in patria a trovare consenso se deciderà di concedere qualcosa alla Grecia.
LE ELEZIONI per l’Europarlamento di maggio erano solo la prova generale, con il sistema degli Spitzenkandidaten che permetteva ai cittadini di votare direttamente (più o meno) il presidente della Commissione. Ma le elezioni politiche di oggi in Grecia sono la prima elezione davvero continentale. Anche se solo i cittadini greci votano, tutti gli europei sono coinvolti. Basta qualche pasticcio di troppo in questa fase così delicata e la Grecia può trovarsi senza credito o addirittura fuori dall’euro, “speriamo che non venga commesso alcun errore fatale”, auspica Alexis Papachelas sul quotidiano conservatore Khatimerini.

il Fatto 25.1.15
Vincitori e vinti
I segreti oscuri del laboratorio greco
di Marco Palombi


Oggi si vota in Grecia. Questo sarà noto ai più. Meno chiaro, invece, è cosa sia successo prima, perché e quale rapporto hanno quegli eventi con noi. Cominceremo da quest’ultimo tema: esattamente come fu per il golpe dei colonnelli nel 1967, Atene è stata un laboratorio. In questo caso, la cavia su cui sono state testate le spericolate teorie darwiniste che informano l’Unione europea. Solo dopo è toccato a Portogallo, Irlanda e Spagna, tutti paesi beneficiati dagli “aiuti” comunitari e dalle visite – in varie forme – dei ragazzi della Troika. La Grecia è un campanello d’allarme per l’Italia, per questo è utile ricostruire cosa è successo e quanto la realtà sia stata diversa dal racconto che se n’è fatto.
COME TUTTO È INIZIATO. Tra 2007 e 2008, con la crisi dei sub-prime negli Usa anche le banche europee – quelle del Nord in particolare – si ritrovano in cattive acque e cominciano a rientrare dei crediti esigibili. In Europa significa che le economie dei paesi periferici – poi detti Pigs – vengono messe sotto pressione: l’afflusso di capitali privati in quei paesi negli anni dell’euro (grazie all’assenza di rischio di cambio) era stato enorme e ora i creditori li rivogliono indietro. Le tensioni finiscono per scaricarsi sui conti pubblici perché si decide che siano i soldi di tutti a garantire quelli delle banche: il nemico pubblico numero uno diventano i debiti pubblici e dovunque si parla di “crisi dei debiti sovrani” (curioso in paesi come Spagna o Irlanda, dove nel 2007 il debito era rispettivamente al 36 e al 25% del Pil). Cos’era esploso invece? Il debito privato. Così il vicepresidente della Bce Vitor Constancio nel maggio 2013: “Contrariamente al livello del debito pubblico complessivo, quellodel debito privato è aumentato nei primi 7 anni dell’euro del 27%. L’aumento è stato particolarmente pronunciato in Grecia (217%), Irlanda (101%), Spagna (75,2%), e Portogallo (49%), tutti paesi che sono stati fortemente sotto pressionedurante la recente crisi. La rapida crescita del debito pubblico, viceversa, è iniziata solo dopo la crisi finanziaria”.
IL LABORATORIO GRECIA. I fatti. Ad aprile 2010 il debito pubblico greco è ormai classificato “spazzatura” dalle agenzie di rating: la Germania aveva nel frattempo fatto sapere che i debiti dei singoli paesi dell’Eurozona non sonogarantiti dalla Bce. È a quel punto che arriva la Troika con la sua borsa: promette un prestito da 110 miliardi, poi divenuti oltre 300 negli anni. Piccola notazione: i soldi non sono gratis – e nemmeno prestati all’1% come la Bce fece coi mille miliardi dati alle banche – ma concessi all’interesse del 5,5%. In cambio la Troika ha preteso tagli strutturali per 30 miliardi di euro. Per capirci: il Pil greco ammonta a 180 miliardi, quindi è come se all’Italia chiedessero una manovra da 250 miliardi. Atene procede a rilento, ma comunque ha già licenziato 8.500 statali e altri 6.500 sono quasi fuori dalla porta. La tv pubblica è stata chiusa dalla sera alla mattina, la rete degli ambulatori specialistici pure, scuola, università e ospedali sono stati falcidiati. L’ultimo Memorandum, primavera 2014, ha imposto alla Grecia di vendere pure le spiagge (110 per la precisione) e un piano di privatizzazioni capillari da qui al 2020. Più altre cosette, tipo regole pastorizzazione in un senso gradito alle multinazionali straniere.
I RISULTATI DELL’AUSTERITÀ. Diciamo che gli esiti non sono brillanti. Il reddito disponibile delle famiglie dal 2009 è diminuito del 40%, gli stipendi del 34%, servizi e benefit sociali del 26%. La disoccupazione era al 9% nel 2009 e ora supera il 27%, il Pil s’è ridotto di un quarto, la produzione industriale di oltre il 30%. Pure i conti pubblici, ovviamente, non migliorano: il rapporto deficit-Pil nel 2013 era al 12,7%, il debito pubblico al 175% (dal 129% del 2009). Perché succede questo? Il motivo è semplice e lo spiega sempre Constancio : oltre ai soldi per non far fallire le banche, “il rapido incremento dei livelli di debito pubblico deriva dal collasso delle entrate fiscali e dalle spese sociali, che sono aumentate durante la recessione, quando sono stati attivati gli stabilizzatori automatici (cassa integrazione e simili, ndr)”.
Quindi l’austerità non ha funzionato? Al contrario, ha funzionato benissimo garantendo ai creditori privati della Grecia di rientrare dei loro soldi: come mostra un illuminante grafico elaborato da Alberto Bagnai per il suo blog ( goofynomics.blogspot.it  ), l’esposizione degli istituti tedeschi, francesi e olandesi in attività greche si misurava in centinaia di miliardi di dollari all’inizio del 2008 e ora è stata sostanzialmente azzerata.
COME CI SONO RIUSCITI? Un’operazione così vasta e duratura che solo ora comincia a mostrare le prime crepe ha bisogno di un apparato ideologico solido che la giustifichi. Ovviamente l’ha avuto: la colpa è dello stato e delle mani rapaci della politica. Il racconto della crisi non ha dovuto che seguire questo assunto iniziale con un addendo morale: colpevolizzare i debitori. Per riuscirci, a volte è bastato usare fatti veri piegandoli al corso del racconto, altre volte si sono inventate vere e proprie balle. Alcune tra queste le elencò puntigliosamente sul Fatto Quotidiano, già nell’agosto 2011, Vladimiro Giacchè: “I greci lavorano troppo poco: prima della crisi i greci lavoravano in media 44,3 ore alla settimana, la media Ue è di 41,7 ore”; “i greci sono sempre in vacanza: i lavoratori greci hanno 23 giorni di vacanza all’anno, i tedeschi 30”; “i greci hanno stipendi troppo elevati:il livello salariale medio in Grecia è pari al 73% della zona euro”; “i greci hanno sono tutti baby-pensionati: i lavoratori maschi vanno in pensione in media all’età di 61,9 anni, in Germania a 61,5 anni”; “in Grecia c’è un’eccessiva presenza dello Stato nell’economia: tra il 2000 e il 2006 il rapporto tra spesa pubblica e Pil era sceso dal 47% al 43% e si era sempre mantenuto al di sotto del livello tedesco” (e anche il numero dei dipendenti pubblici sul totale degli occupati era nella media Ue). Non solo, e qui la fonte è ancora Bagnai, la produttività del lavoro in Grecia tra il 1999 e il 2007 cresceva a ritmi sostenuti, superiori a quelli tedeschi.
Niente di nuovo sotto il sole: “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato” (George Orwell).

Corriere 25.1.15
Il giallista Markaris: «Le promesse di Alexis? Irrealizzabili»
«Spregiudicato e opportunista, vuole solo vincere. L’Ue cerca la sua stella polare? Dovrà cercare ancora»
intervista di Andrea Nicastro


DAL NOSTRO INVIATO ATENE È facile innamorarsi di Syriza. Viene spontaneo come quando il gracilino della compagnia decide di affrontare un prepotente gonfio di muscoli. Visto da sinistra, poi, il partito di Alexis Tsipras pare l’alternativa che mancava alla freddezza dei conti che hanno diretto l’Europa negli anni della Crisi. Strano, quindi, che Syriza non piaccia a gran parte dell’intelligentsia greca. Non solo a destra, ovviamente, ma a scrittori e musicisti con il cuore a sinistra. Il primo ad esporsi è stato il vecchio Mikis Theodorakis, il compositore di Zorba il greco . «Voterei Syriza, ma solo se si impegnasse esplicitamente ad abolire il memorandum con l’Europa che incatena la Grecia». Poi è intervenuto Apostolos Dioxadis, l’autore di «Zio Petros e la Congettura di Goldbach»: «Fanfaroni, impreparati, opportunisti, assetati di potere». Ora anche Petros Markaris, il padre del commissario Charitos, autore di una splendida tetralogia sui disastri provocati dalla recessione, anche lui si schiera contro.
Perché, Markaris?
«Il confronto frontale tra Syriza e l’attuale partito di governo Nea Dimokratia sta spaccando un Paese che non ha più classe media. Ormai siamo al “noi o loro”. L’ho sentito dal ’49 al ’75 con la guerra civile e la dittatura: noi o loro. Non va bene, è irresponsabile. Sento anche dire che è arrivata finalmente la rivincita per la sconfitta nella guerra civile. Stupidi».
Proprio non le piace la risposta greca all’austerity?
«So che la politica europea è in grande crisi e cerca ovunque una stella polare per uscire in piedi dalla crisi. Mi spiace, ma bisognerà cercare ancora. Syriza è un partito senza principi, disponibile anche a candidare gente di destra purché porti voti. Non mi aspetto niente di buono».
Preferisce i responsabili dei drammi che lei racconta nei suoi gialli?
«No, infatti non ho ancora deciso chi votare».
Forse le sue critiche appartengono ad un’era in cui destra e sinistra definivano il mondo in ogni aspetto. Oggi è diverso.
«Davvero? Facciamo finta che Syriza non sostenga di essere di sinistra, anzi di estrema sinistra. Consideriamo solo che già domani, il suo leader Alexis Tsipras dovrà trattare con la Troika. Come farà a mantenere tutte le promesse che ha fatto? Come assumerà i licenziati, cancellerà le tasse, aumenterà i salari e le pensioni? Tsipras sa di promettere l’impossibile, perché il suo obbiettivo è solo vincere, non affermare ideali di sinistra».
Anche nel ’68 si diceva «vogliamo l’impossibile».
«I greci hanno già vissuto questo film, nel 1981, quando Andreas Papandreu venne eletto promettendo di uscire dalla Nato e dalla Comunità Europea per puntare ai Balcani. Non è successo nulla».
Però è restato al governo per anni.
«Perché Papandreu aveva il controllo assoluto del suo partito e Tsipras no. Papandreu aveva denaro da distribuire a pioggia, Tsipras ha solo debiti».
Preferisce il clientelismo alle ambizioni di oggi?
«Gradirei politici responsabili, non venditori di barzellette. Vorrei un programma realistico per difendere il Paese. Anche perché, prima di votare, penso al mito del labirinto: ci entri facilmente, ma poi non riesci a uscire».
Dentro aspetta il Minotauro. Chi è? Angela Merkel?
«Basta colpevolizzare la Germania. Non è da sola in Europa. Cosa fanno gli altri?».
Infatti Syriza cerca alleati.
«Non ne ha il tempo e mantenere le promesse porterebbe inevitabilmente all’uscita dall’euro. Così quando l’Ue si sarà, speriamo, riformata, la Grecia sarà fuori».
Cosa deve fare l’Europa?
«Le forze democratiche europee sono schiacciate sul discorso economico e ignorano la società. Invece, sfortunatamente, ora è la destra ad offrire una soluzione politica della crisi. Le Pen in Francia, ad esempio, ma anche in Germania, qui o in Italia. Sarà disgustoso, immorale, ma è un discorso politico e sul medio termine potrebbe anche prevalere. E la colpa sarà anche del miope opportunismo di Syriza».

Corriere 25.1.15
Davos scommette sul compromesso «Bruxelles si accorderà con Tsipras»
Finanzieri e imprenditori: la trattativa con Atene durerà mesi, ma la soluzione si troverà
di Giuseppe Sarcina


DAVOS Panos Katsampanis, 28 anni, co-fondatore di una società di marketing, è uno dei due soli greci presenti a Davos su 2.500 partecipanti. La vede così: «Diciamo che fino a oggi il partito Syriza è stato in grado di mettere in luce le contraddizioni della politica europea. Ma da domani sarà l’Europa a far esplodere le contraddizioni di Syriza».
L’ultima giornata del World economic forum cade alla vigilia delle elezioni politiche in Grecia. A Davos, il favorito, Alexis Tsipras, 40 anni, leader della Coalizione della Sinistra-Fronte sociale unitario (Syriza), non è vissuto come un alieno. Il mondo della finanza e degli affari, pragmaticamente, sta già facendo i conti con il nuovo scenario. I banchieri e gli imprenditori, per cominciare, hanno preso nota del messaggio portato qui dai leader politici. La cancelliera tedesca Angela Merkel e il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, hanno dichiarato pubblicamente che non esiste l’ipotesi che la Grecia possa uscire dall’euro. In una sessione più defilata il premier finlandese, Alexander Stubb, ha elencato le tre opzioni a disposizione dell’Unione Europea di fronte alla vittoria di Tsipras. Primo: continuare come prima. Secondo: concedere qualcosa ai greci senza intaccare i principi di fondo. Terzo: cacciare Atene dall’eurozona. Lo stesso Stubb, uno dei fautori più accesi del rigore finanziario, ha scartato le ipotesi estreme. Non è più possibile chiedere altri sacrifici al popolo greco. Non è pensabile amputare l’eurozona senza mettere a rischio tutta la costruzione. Resta allora solo l’ipotesi del negoziato. Soluzione largamente condivisa a Davos, come conferma anche Martin Wolf, commentatore del Financial Times e da sempre protagonista del Forum: «Sì, praticamente tutti sono convinti che ci saranno tensioni, ma che Bruxelles sia già pronta a negoziare». Non sarà una trattativa semplice. E qui pochi pensano che sarebbe giusto tagliare semplicemente il debito, come chiede Tsipras. Lo svedese Anders Borg, già ministro delle finanze e oggi consulente d’impresa, sostiene che il mondo degli affari non si aspetta a breve contraccolpi economici o turbolenze sui mercati.
Cornelis van Zadelhoff, olandese, fondatore della società immobiliare che porta il suo nome, si considera «l’imprenditore della strada», più attento al business che alla politica: «I greci capiranno la necessità di rimanere insieme in Europa. Sono convinto che neanche la sinistra voglia il caos». Molto, però, dipenderà da come si imposterà il negoziato e, particolare non secondario, da quanto tempo durerà. E allora torna utile la sintesi del giovane imprenditore Panos Katsampanis. Syriza dovrebbe vincere, ma secondo i sondaggi per governare avrà bisogno di alleati. La coalizione potrebbe risultare un arcipelago di posizioni contraddittorie, anche se sembra difficile che possa prevalere la linea oltranzista. Bruxelles, dicono a Davos, potrà avanzare un’offerta sensata, accettabile per la maggioranza del popolo greco. Per esempio concedendo una drastica dilazione sul rimborso dei prestiti. Ci vorrà la pazienza di stare al tavolo anche tre o quattro mesi. Ma alla fine si troverà un compromesso.

il Fatto 25.1.15
Bella Ciao è l’inno mondiale contro le oppressioni (ma non ditelo al Pd)
di Silvia Truzzi


NEL 2011 il consiglio d’amministrazione della Rai vietò di far eseguire Bella ciao sul palco dell’Ariston (Sanremo è Sanremo perché è davvero lo specchio del Paese). Il venerdì ci sarebbe stata la serata commemorativa per i 150 anni dell’Unità d’Italia, e Gianni Morandi voleva Bella ciao tra i brani che avrebbero dovuto simbolicamente ripercorrere la storia d’Italia. “È il canto delle mondine”, disse stupito del casino che si era creato dopo l’annuncio. Gianmarco Mazzi – che di quell’edizione era il direttore artistico – propose di affiancare Giovinezza, per questioni di par condicio. Né l’una né l’altra furono eseguite, causa veto politico di Viale Mazzini. Allora si disse che c’era una certa differenza perché Bella ciao era l’inno della Resistenza, Giovinezza la canzone simbolo del Fascismo. Ma siccome le censure trovano sempre il modo di aggirare l’ostacolo, negli ultimi anni Bella ciao si è presa una rivincita mondiale. A cominciare proprio dal 2011: a Zuccotti Park, la intonarono gli indignados di Occupy Wall Street. François Hollande la usò per chiudere la campagna elettorale delle Presidenziali 2012: gli portò fortuna, sconfisse Sarkozy. E molto probabilmente la stessa cosa succederà in Grecia: Alexis Tsipras l’ha cantata dopo l’ultimo comizio prima del voto di oggi. A Istanbul nel 2013 divenne l’inno dei manifestanti di Gezi park, contro il premier Erdogan. In ottobre, a Hong Kong, Franco Mella, un sacerdote italiano, intonò al megafono Bella ciao e i ragazzi della rivoluzione degli ombrelli si misero a cantare con lui. La canzone del partigiano morto per la libertà ha salutato i vignettisti Tignous e Charb, uccisi nella strage di Charlie Hebdo. Huffington Post ricorda anche precedenti più domestici: Michele Santoro, in tv dopo l’editto bulgaro.
E NATURALMENTE Don Gallo: fu la colonna sonora del suo commovente corteo funebre. La cantava sempre, come diceva lui, “in una mano il Vangelo, nell’altra la Costituzione”.
La cosa buffa è che mentre una canzone italiana – sul sito dell’Anpi si trova la storia dettagliata – diventa la bandiera mondiale contro le oppressioni, il più grande partito della sinistra italiana si è ormai definitivamente “nazarenizzato”. Non da oggi, ovviamente: ora è solo tutto molto più chiaro. Ieri un articolo di Repubblica, citando un libro del 2005 (Bella ciao. Canto e politica nella storia d'Italia di Stefano Pivato, Laterza) ricorda che “la sua storia e la sua memoria ‘la accreditano come la canzone che unifica le speranze e le attese della democrazia’”. L’inno dei costituenti. Solo che quelli nuovi, quelli che dovrebbero riscrivere le regole, lo fanno con patti segreti.
Ve lo immaginate il lupetto di Rignano sull’Arno che chiude la sua campagna elettorale con Bella ciao? Al massimo potrebbe dire ciao bella alla Boschi. Senza contare che agli amici Silvio e Denis verrebbe un colpo apoplettico e, se la riconoscesse (il che non è detto), anche al compagno di governo Angelino. Che poi, perfino la versione delle mondine s’addice poco al partito del Jobs Act: “Il capo in piedi col suo bastone o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao, il capo in piedi col suo bastone e noi curve a lavorare”.

il Fatto 25.1.15
Alba Dorata, la violenta minaccia nera sulle urne
Il partito dell’ultradestra è in salita, col 6% potrebbe diventare la terza forza del parlamento
7 dirigenti in carcere per associazione a delinquere
di Cosimo Caridi


Atene La sorpresa che uscirà dalle urne greche potrebbe arrivare dall’ultradestra. Dopo mesi di perdita di consensi in molti davano per spacciata Alba Dorata, partito neonazista guidato dal leader incarcerato Nikos Michaloliakos. Negli ultimi sondaggi, invece, ha ritrovato il segno più, superando il 5%.
IL VOTO FASCISTA è difficile da rilevare: alle elezioni del 2012, Alba Dorata raccolse 2 punti percentuali in più di quanti gliene attribuivano i sondaggi. Oggi, con solo il 6% dei voti, potrebbe diventare la terza forza in Parlamento, obiettivo dichiarato dagli stessi dirigenti del movimento. L’emblema del partito, il meandro nero su sfondo rosso (che fa discutere per la somiglianza alla svastica), sventola sulla palazzina a cinque piani nella periferia nord di Atene. Davanti alla porta blindata siedono dei ragazzi: pantaloni stretti, felpa, occhiali da sole e cappellino. Telecamere e macchine fotografiche non sono benvenute. “Siamo stati attaccati da tutto il sistema: politici, giudici e anche dai media”, spiega un ventenne mentre scruta i tre schermi con le immagini delle telecamere che controllano l’isolato. Al muro sono appese quattro maschere antigas e lunghe torce nere, più simili a manganelli che a pile elettriche. Salendo ai piani superiori la diffidenza cresce: giovani con le maglie gonfiate di muscoli chiudono le porte al passaggio degli “estranei”.
Sono 7 i dirigenti di Chrysi Avghi (Alba Dorata) in carcere per associazione a delinquere. Altri tre sono ai domiciliari e a due di questi è stato vietato d’intervenire anche telefonicamente a qualsiasi attività pubblica del partito. Nikos Michaloliakos, leader storico di Alba Dorata, non è nuovo alle galere. Ex militare delle forze speciali, fu congedato dopo essere finito in carcere (per la quarta volta) per trasporto illegale di armi da fuoco. Nel settembre 2013, 36 membri del partito, tra cui tutti i massimi dirigenti, furono arrestati per l’assassinio del rapper antifascista Pavlos Fyssas. Lo scorso ottobre, 70 persone, tra cui i 18 parlamentari di Alba Dorata, sono state rinviate a giudizio per quell’omicidio.
AL QUARTO PIANO della sede due tavoli sono altarini dove sono conservati i vestiti macchiati di sangue dei due “camerati uccisi dai terroristi” nel novembre 2013. Una motocicletta, con due persone a bordo, si ferma davanti a una delle sedi di Alba Dorata, uno scende e apre il fuoco. Due trentenni perdono la vita e un terzo viene gravemente ferito. L’attentato è stato rivendicato da una sigla della galassia anarco-comunista. Nonostante, o forse proprio per la spirale di violenza in cui vive Alba Dorata, il partito guadagna consensi e alle Europee del 2014 ha preso il 9,4% delle preferenze.
“FINO a qualche anno fa tutto andava bene, c’erano i soldi. Oggi l’economia è bloccata, le persone sono tornate alle proprie radici e hanno capito che devono salvare la nazione”. Costas Alexandrakis portavoce del partito, ha i capelli rasati e un sorriso nervoso. “Non interessano a nessuno le banche, la Ue, il Fondo Monetario Internazionale. Adesso tutti gli europei vogliono salvare il proprio paese ed è per questo che i partiti nazionalisti stanno crescendo”. Ogni accostamento con Salvini o Le Pen sarebbe affrettato. In Grecia la popolazione è esasperata, non si fida della politica che ha portato il paese ad accettare la Troika, ma la ricerca dei colpevoli non è mai finita. “Tutti gli immigrati irregolari – continua Alexandrakis – lascino la Grecia, non sono un nostro problema”. Alba Dorata gode di largo consenso tra chi più ha subito la crisi. Il partito ha organizzato, non solo in campagna elettorale, decine di distribuzioni di cibo nelle periferie del paese. Secondo i suoi detrattori, tanti, le attività svolte da Chrysi Avghi servono a creare delle aree in cui a controllare il territorio, con il beneplacito delle forze dell’ordine, sono gruppi paramilitari legati al partito. Proprio nel rapporto con gli organi di sicurezza si è concentrata l’attenzione delle autorità nel 2013, quando, a settembre si parlò di un tentativo di colpo di Stato organizzato dal movimento. Come la crisi ha creato il fenomeno Tsipras cresciuto dal 4% al 36% (dato atteso per oggi) in poche tornate elettorali, Alba Dorata ha approfittato del malessere della società civile per realizzare una rete, sotto la nuova svastica, che va ben oltre i propri elettori.

il Fatto 25.1.15
Svizzera addio al segreto: ai pm i conti Ior
Respinto il ricorso della banca vaticana
Lugano trasmette nomi e bonifici a Roma. E ora molti correntisti tremano
di Marco Lillo e Valeria Pacelli


Alla fine lo Ior ha perso la sua guerra legale in Svizzera. La Procura di Roma ha ricevuto nei giorni scorsi una busta proveniente da Lugano con tutti i bonifici in entrata e uscita che disegnano la vita di una parte importante della clientela della banca del Vaticano nel biennio 2006-2007 quando l’era della trasparenza sbandierata oggi Oltretevere era di là da venire. Tutti i movimenti del conto dello Ior in Svizzera, compresi i bonifici di qualche cliente che aveva scelto di farsi bonificare i soldi dall’Ubs per impedirne la tracciabilità in Italia, saranno ora a conoscenza dei pm Nello Rossi e Stefano Fava.
Tutti i movimenti in entrata e in uscita dei clienti dello Ior che gradivano operare in Svizzera grazie al conto Ior acceso all’Ubs sono ora sul tavolo dei pm romani.
Probabilmente il panico si sta già diffondendo tra i correntisti che avevano il conto allo Ior in quegli anni e che hanno svolto in prima persona o per qualche amico che non voleva apparire operazioni tramite la banca svizzera Ubd. A distanza di oto anni potrebbero emergere scheletri nell’armadio svizzero dello Ior che ormai tutti davano per sepolti. I pm, dopo un braccio di ferro durato dieci mesi, potranno ora ricostruire gli intestatari dei sotto-rapporti del conto calderone dell’Istituto per le opere di religione alla faccia del leggendario segreto bancario elvetico. In realtà questo caso dimostra che la Svizzera ha cambiato atteggiamento in materia di lotta al riciclaggio mentre è proprio in Vaticano che, nonostante l’avvento di Papa Francesco, resta la volontà di tutelare la riservatezza a scapito delle indagini. La decisione della Corte svizzera presieduta dal giudice Jean Fonjallaz suona come uno schiaffo al Vaticano.
IL 28 AGOSTO scorso, lo Ior guidato da poco più di un mese dal presidente Jean Baptiste De-Franssu si oppose a consegnare gli estratti conto richiesti . L’indagine partiva dal trasferimento di fondi sospetti effettuato da Giovanni Morzenti, un imprenditore famoso per essere stato presidente della Federazione italiana sport invernali, condannato per un’altra vicenda a dicembre scorso alla pena di 4 anni e 7 mesi di reclusione per concussione e risultato in contatto con Claudio Scajola prima dell’arresto dell’ex ministro da parte della Dia di Reggio Calabria. Morzenti secondo l’accusa usava lo schermo del conto Ior di monsignor Gaetano Bonicelli, 91 anni, suo concittadino di Vilminore di Scalve (paesino in provincia di Berhamo di 1.500 abitanti) già vescovo di Siena. Il Fatto ha visionato la sentenza della Prima Corte di diritto pubblico del Tribunale federale del 19 dicembre 2014 dove è ricostruita la battaglia giudiziaria persa dall’avvocato svizzero dello Ior, Paolo Bernasconi, e vinta dal procuratore ticinese John Noseda.
“La Procura di Roma”, si legge nella sentenza, “l’11 marzo 2014 ha presentato alla Svizzera una richiesta di assistenza giudiziaria”. I pm Fava e Rossi seguono la traccia di un bonifico di 360 mila euro avvenuto il 24 aprile del 2006 verso il conto Ior di Bonicelli, usato da Morzenti per le sue operazioni. I magistrati romani vogliono sapere tutti i movimenti dal gennaio 2006 al dicembre 2007 del conto intestato allo Ior presso l’Ubs.
IL PROCURATORE generale del Ticino, John Noseda si dice favorevole e il 28 luglio 2014 ordina la trasmissione degli estratti conto e della lista dei delegati con le firme. Lo Ior impugna dinanzi alla Corte dei reclami del Tribunale penale federale che accoglie solo la richiesta meno importante per lo Ior e annulla la trasmissione della lista dei delegati. Per il resto è una Caporetto per lo Ior. Anche se senza i nomi dei delegati ma con tutti i nomi dei beneficiari ultimi dei bonifici che transitano sul conto Ior all’Ubs, l’estratto conto può andare a Roma a Piazzale Clodio. Lo Ior tenta la carta estrema e con un ricorso al Tribunale federale chiede di fare almeno una cernita dei documenti. Infine “in via subordinata chiede di consegnare soltanto gli atti attinenti al mese precedente e quello successivo al 28 aprile 2006”.
Il 19 dicembre però la Procura di Roma ha vinto su tutta la linea. Il ricorso è stato respinto e ora l’estratto con i moviment del biennio 2006-2007 del conto Ubs intestato allo Ior numero 506 (…) 77 –N è sul tavolo dei pm. Spulciando quelle decine di fogli i pm potranno conoscere non solo i movimenti di Morzenti e Bonicelli ma anche quelli di decine di altri correntisti italiani oggi ignoti. I loro soldi, formalmente depositati allo Ior, sono infatti stati girati fisicamente sui conti intestati allo Ior presso le banche straniere. Il conto calderone acceso alla Ubs e intestato allo Ior – sul quale ora la Procura ha piena visibilità per due anni – potrebbe schermare altri traffici come quelli di Morzenti.
Ai tempi dell’ex Segreterio di Stato Tarcisio Bertone era stata introdotta la trasparenza ma con un limite temporale: le uniche informazioni fornite allo Stato italiano sarebbero state quelle sui movimenti dei correntisti Ior successivi all’entrata in vigore della nuova legge antiriciclaggio voluta da Papa Ratzinger. Tutti i movimenti precedenti all’aprile del 2011, anche se un po’ loschi, sarebbero rimasti al riparo del muro della irretroattività. Paradossalmente proprio per una decisione della patria del segreto bancario quel muro ora comincia a scricchiolare.

il Fatto 25.1.15
Larghi inciuci
L’Italia di Renzi: un Paese senza casa e senza volto
di Furio Colombo


In televisione (Ballarò, 20 gennaio), vedi un curioso faccia a faccia fra il ministro Lupi, che c’è sempre, parla sempre e sa tutto, e una giovane ragazza madre, con due bambini e uno in arrivo, che sta fronteggiando uno sfratto esecutivo. Quando toccava al ministro di parlare (lui ha sequenze lunghe, senza punteggiatura, come nel romanzo di Balestrini Vogliamo tutto) veniva elencata, con velocità e precisione, una catena di miracoli, case, casette, grattacieli, quartieri, nuove città. Quando toccava a lei, che aveva già tolto il materasso dalla branda e lo teneva con fatica un po’ sollevato, la ragazza ripeteva, con una sua disperazione pacata: “Sì, ma io intanto dove vado a vivere?”. La casa è un problema tragico in Italia. Pendono sulla vita e il destino di tante famiglie 150 mila sfratti subito. C’è un governo moderno, in Italia, che crede nelle soluzioni dei problemi, non nell’assistenzialismo pietoso. E dunque quei 150 mila sfratti saranno eseguiti tutti e subito, anche per incentivare la costruzione di nuove case e remunerare secondo giustizia i proprietari. E c’è un governo riformista in Italia, che le cose le fa subito. Per farle, le annuncia. Ed ecco che entra in scena il ministro Lupi e racconta.
NON SI PUÒ accusarlo di mania dell’annuncio, il ministro deve pur dire che cosa intende fare, tanto più che parla veloce come gli annunci dei pericolosi effetti collaterali delle medicine. Il problema è il non fare. Ma attenzione, non si tratta di malafede. Si tratta della naturale differenza fra il tempo di parlare e il tempo di agire. L’unico punto di malafede è passare all’incasso dopo il dire invece che dopo il fare. Tu dici che in questo modo, dopo due o tre scherzi del genere, paghi in perdita di fiducia e di voti. E poiché nessuno sembra avere questo timore, e anzi annuncia a vuoto successi mai visti, a questo punto diventa chiaro che il problema della casa è allo stesso tempo la rappresentazione più chiara e drammatica di ciò che è urgente, umano, indispensabile alla vita delle persone, e non si fa (benché valanghe di soldi si rovescino su Alta Velocità, armi inutili e autostrade spacca-ambiente).
Ma è anche efficace metafora di ciò che sta succedendo ai cittadini in politica: sono senza casa. Il giovane e deciso Matteo Renzi ha realizzato, con procedura d’urgenza, lo sfratto esecutivo di quanti, dislocati o orientati nel Pd, credevano di abitare a sinistra. Via, fuori, non interessano, sono i veri anziani anche se hanno 18 anni. Il passato (dal New Deal a Obama) non ha più senso. Il futuro sono Reagan e la Thatcher. E in questo mondo rovesciato, tipo Alice nel Paese delle Meraviglie, il cappellaio matto sfila con la Merkel a Firenze, intento a paragonarsi a Michelangelo, senza raccogliere la minima ironia da chi, giustamente, protegge il proprio lavoro di giornalista sempre in pericolo. Anche perché, in circostanze internazionali, Renzi parla una lingua globalizzata causa di un buon umore utile all’esito degli incontri, e mette in chiaro due cose. Primo: qui non c’è trippa per gatti di sinistra. I Fassina e Cuperlo saranno anche molto gentili nel chiedere, i Bersani si adeguano “per disciplina” prima ancora di sapere a che cosa, ma nessuno si aspetta che abbiano qualcosa da dire o possano farlo. Secondo: Renzi e Verdini, entrambi disturbati da una massa frantumata e indisciplinata di persone che pretenderebbero di mettere becco, sono sicuri che un partito finisce lì, al loro livello.
Gli altri, che siano dentro il Parlamento, dentro il partito, o legati ancora alla vecchia abitudine di dire “noi”, si tolgano dalla testa di avere opinioni o consigli da dare o di menarla con la loro pretesa di partecipare alle decisioni. Come tanti proprietari, Renzi e Verdini preferiscono la casa vuota (ce ne sono decine di migliaia in Italia e, come vedete, la metafora della casa rimbalza continuamente sulla realtà) perché in tal modo non si deve minacciare o mandar via nessuno, e non c’è pericolo che qualcuno si metta in testa di contare qualcosa per il solo fatto di avere una tessera (scoraggiata) o di essere titolari di un voto.
LA NUOVA definizione di partito è la zona di comando, non i cittadini, simpatizzanti o no. Il tramite, usato con una decisa sfrontatezza degna di Berlusconi, è un’informazione in cui la politica parla solo di se stessa e quasi solo del suo leader, che a volte torna e ritorna con la stessa frase nello stesso telegiornale, o viene tradotto in italiano da voce sovrapposta, mentre sta parlando in una lingua nuova e coraggiosa della quale anche i traduttori professionali più esperti hanno poche notizie.
Dunque il sogno del partito leggero e della casa vuota si sono realizzati. Non dimenticate che molti luminari della politica a sinistra hanno teorizzato molto presto che tocca ai professionisti decidere e agli altri seguire, qualunque fosse il loro grado di competenza. Gradatamente coloro che avrebbero potuto interferire con la decisione dei soli esperti, i professionisti della politica, sono andati via. Renzi è un ardimentoso. Però ha trovato un partito non ancora liquido ma molto molle, non ancora “ larghe intese” (e poi “partito unico della Nazione”) ma già molto incline a una strana vita condivisa con chi rigetta la Costituzione.
È stato facile liquidare o spingere al muro chi era già così vicino a cedere, in base a non si sa quale pacificazione, che non esiste in politica, perché si chiama rinuncia di ideali e princìpi e, nel nostro caso, dell’Intera Costituzione. È come se Obama avesse accettato di non proteggere il diritto delle donne all’aborto, nella sua nuova legge sulla salute, pur di votare insieme ai repubblicani. Adesso la casa è vuota e gli italiani sono senza casa. Quando vivono e quando votano.

La Stampa 25.1.15
Il cameraman personale di Matteo Renzi
Le immagini patinate con Angela solo dal cameraman di Palazzo Chigi
In casi particolari le riprese per le tv resteranno off limits
di Fabio Martini


C’è una telecamera-ombra che da qualche mese, silenziosamente, accompagna Matteo Renzi. E’ la telecamera di palazzo Chigi, “guidata” da un operatore dell’ufficio stampa e che segue il presidente del Consiglio in tutte le sue trasferte. Un’usanza non solo italiana, anche se ogni tanto, ecco il tocco originale, l’ingresso in alcuni luoghi viene interdetto alle telecamere delle tv e le uniche immagini sono quelle prodotte da palazzo Chigi, che poi provvede a “regalarle” a chi vuole. Immagini che restano a disposizione anche dei cittadini sul sito di palazzo Chigi, www.governo.it.
L’off limits si è materializzato due sere fa: Matteo Renzi ha accompagnato Angela Merkel in visita al museo degli Uffizi e le telecamere delle televisioni pubbliche e private non sono state fatte entrare. C’era solo quella di palazzo Chigi e successivamente - dopo apposito montaggio e scelta delle immagini - si è provveduto a far pervenire il “pacchetto” alle emittenti interessate. Immagini suggestive, inevitabilmente “patinate”, che tutte le tv hanno preso e poi trasmesso nei vari tg.
Sono rarissime le occasioni nelle quali l’accesso è totalmente off limits, circoscritto soltanto all’operatore di palazzo Chigi. Per esempio nelle visite alle scuole. Inizialmente non c’erano limitazioni all’accesso, ma dopo l’”incidente” di Siracusa (la canzoncina per il premier), è cambiato registro e le uniche immagini accessibili sono quelle girate da palazzo Chigi. 
Soltanto immagini ufficiali in occasione della visita, ai primi di gennaio, del presidente del Consiglio negli Emirati Arabi Uniti, dove gli operatori di Rai e Sky non sono mai riusciti a inquadrare Renzi e le uniche immagini dell’incontro con il Principe Ereditario sono state quelle fornite da palazzo Chigi, non si è capito se per ragioni di protocollo. Qualche problema, molto interno, anche in occasione del discorso pronunciato dal presidente del Consiglio all’Europarlamento di Strasburgo. In quel caso palazzo Chigi aveva preso il “segnale” del Parlamento, ma poichè la regia strasbrurghese indugiava sui contestatori (Salvini in particolare), è stato chiesto a Roma di utilizzare un proprio segnale, concentrando la telecamera sul presidente del Consiglio.
Foto selezionate ed ufficiali sono anche quelle rilanciate su Instagram da Filippo Sensi (portavoce del presidente del Consiglio) che ogni tanto “fissa” immagini di lavoro, di ministri e dirigenti del Pd, colti in pose evocative. 
Novità della stagione renziana che non hanno nulla a che fare con tentazioni censorie - se non altro per la quantità ridotta di occasioni - ma che segnalano una vocazione del premier e del suo portavoce Sensi a dare una forte impronta al “racconto”, un plot che va incoraggiato, ogni tanto, con l’utilizzo di immagini esclusive ed “ufficiali”. 

il Fatto 25.1.15
Merchant Bank Palazzo Chigi
Quel regalo alla banca di papà Boschi
La riforma delle banche popolari fa guadagnare soprattutto quella dell’Etruria
Il vicepresidente è il padre della ministra che non si è astenuta
La Consob indaga
di Davide Vecchi


Una manina da Londra ha gettato una rete a Piazza Affari e pescato a strascico le Popolari con un tempismo perfetto: giorni prima dell’approvazione della riforma voluta da Matteo Renzi che abolisce il cosiddetto voto capitario e le trasforma in società per azioni. Un tempismo che ha già svegliato la Consob, ora impegnata a ricostruire gli scambi. Un’operazione di verifica non certo semplice, perché dalla piazza inglese si stendono anche le reti dai paradisi fiscali, e che rischia di causare guai decisamente seri all’esecutivo Renzi nel caso tra i vari investitori internazionali attivi sul mercato individuasse il fondo Algebris di Davide Serra, amico, foraggiatore nonché guru finanziario del premier.
IL FONDO speculativo dell’ex manager Morgan Stanley ha infatti base a Londra. La banca che ha maggiormente beneficiato dello strascico anglosassone è la Popolare dell’Etruria e del Lazio, di cui vicepresidente è Pier Luigi Boschi. Sì, il papà di Maria Elena, ministro delle Riforme nonché direttore generale della fondazione Open che negli ultimi anni ha ricevuto 150 mila euro proprio da Serra. I cerchi, spesso, si chiudono
Il ministro ha partecipato alla seduta del 20 gennaio in cui è stato approvato il testo del decreto legge sulle popolari, mostrando il fianco a polemiche su un evidente conflitto di interessi. Caso vuole che pochi giorni prima Movimento 5 Stelle, Sel e una parte del Pd abbiano ritirato fuori e riproposto una legge presentata nel novembre 2013 che all’epoca piaceva tanto anche a Matteo Renzi. Una proposta di legge avanzata da Pippo Civati per introdurre il conflitto di interessi e il conseguente divieto di partecipare al voto “qualora il coniuge, la persona stabilmente convivente, un parente o un affine entro il secondo grado sia preposto alla cura ai sensi del comma 4 (in qualità di rappresentante, amministratore, curatore, gestore, procuratore, consulente o in altra posizione analoga, ndr) di un interesse economico privato tale da poter condizionare l’esercizio delle funzioni pubbliche inerenti alla carica ricoperta”. La proposta, come nel novembre 2013, è stata messa in un cassetto.
Intanto da Londra compravano. Salvando la popolare dell’Etruria, dove oltre al padre lavora anche il fratello di Maria Elena, Emanuele. Gli acquisti sono iniziati il 15 gennaio. Il decreto, battezzato “investment compact”, è stato annunciato a mercati chiusi il 20 gennaio ma le indiscrezioni erano iniziate a circolare sin dal 16 e il 19 l’agenzia di stampa Reuters ha anticipato il piano nei dettagli.
IN QUATTRO GIORNI la Banca Popolare dell’Etruria ha registrato un balzo del 66 per cento, nonostante i ripetuti stop alla negoziazione per eccesso di rialzo, mettendo fine così ad anni di profonde difficoltà che l’hanno portata sull’orlo del commissariamento. Nel gennaio 2010, un’azione valeva 10,69 euro, mentre il 12 gennaio scorso ha registrato il minimo storico: 0,358 euro.
Non che i vertici non abbiano tentato di rivitalizzare l’istituto, anzi: le hanno provate tutte. Un aumento di capitale da 100 milioni appena un anno fa, poi il tentativo (fallito) di fusione con la popolare di Vicenza, la ricerca (andata a vuoto) di nuovi soci di peso per trasformarsi in Spa. Tutto inutile. Tanto che il Cda a novembre ha approvato i conti consolidati dei primi 9 mesi chiusi con una perdita netta di 126,1 milioni. E appena un mese dopo la pop ha presentato un durissimo piano di ristrutturazione, annunciando 410 esuberi e tagli al personale per 32 milioni di euro, oltre alla creazione di una bad bank nel tentativo di liberarsi dei crediti deteriorati. Non solo, dal 2012 la banca è stata al centro di due ispezioni della Banca d’Italia che si sono concluse nel novembre 2014 con una multa complessiva di 2,54 milioni di euro. La maxi sanzione è a carico di 18 tra componenti ex componenti del collegio sindacale e del cda, tra cui Pier Luigi Boschi. A lui gli ispettori di via Nazionale hanno comminato una sanzione di 144 mila euro per “violazioni di disposizioni sulla governance, carenze nell’organizzazione, nei controlli interni e nella gestione nel controllo del credito e omesse e inesatte segnalazioni alla vigilanza”. Da inizio 2013, inoltre, la sua posizione, come quella degli altri amministratori dell’istituto, è al vaglio delle procure di Arezzo e Firenze.
LONDRA DUNQUE, ma anche Palazzo Chigi. Sarebbe importante sapere come si è sviluppato l’iter del decreto. Ieri il Corriere della Sera ha ricostruito che inizialmente il provvedimento era contenuto nel ddl Concorrenza, parcheggiato al ministero per lo Sviluppo economico e in attesa di seguire il normale iter parlamentare. Renzi ne ha prelevato a sorpresa l’articolo sul voto capitario e l’ha inserito nel decreto Investment compact. Chi era al corrente di quanto stava facendo il premier? Mario Gerevini ieri dal Corriere ha chiesto “per quante mani è passato il testo?”. Ma soprattutto: in quali è finito?

il Fatto 25.1.15
Il digitale può attendere. Renzi fa un regalo a Mediaset
Il Milleproroghe rinvia il “DVB T2”. Il biscione può tenersi tutte le frequenze
di Carlo Tecce


Periodo di manine, la settimana che va da Natale a Capodanno: oltre al goffo tentativo di ripulire la fedina penale di Silvio Berlusconi con la norma del 3%, il governo ha consegnato un bel regalo a Mediaset. Per adesso, s’accontenta la proprietà, e non direttamente il proprietario.
CON UNA POSTILLA inserita nel decreto milleproroghe (adesso in Parlamento), un calderone che certifica le inefficienze italiane, Palazzo Chigi ha rinviato di un anno e mezzo l’immissione sul mercato di televisori (o impianti esterni) che ricevono trasmissioni in tecnologia Dvb T2, il digitale terrestre di ultima generazione. Ha detto sì a una proposta di Federica Guidi, ministro dello Sviluppo economico. Poi nessuno se n’è accorto. E pazienza se una legge di Mario Monti, che recepiva le indicazioni della Conferenza di Ginevra, avesse fissato la partenza per gennaio 2015. La questione non è commerciale, ma puramente televisiva, e riguarda con prepotenza il Biscione. Perché l’esordio del Dvb T2 è necessario per avviare la riorganizzazione di un gruzzolo di frequenze, che Cologno Monzese utilizza, collocate su banda 700, una ridotta che l’azienda difende con qualsiasi mezzo e che va assegnata agli operatori telefonici. Il passaggio a Dvb T2, che amplifica la capacità di trasmissione, è in grado di provocare un brutto danno al Biscione: i concorrenti potrebbero aumentare i canali e Mediaset li potrebbe perdere, un guaio per l’offerta a pagamento che occupa tantissimo spazio.
Fu proprio il governo di Berlusconi a spingere per il trasloco dal vecchio analogico al nuovo digitale per incassare una plusvalenza di reti e ottenere due risultati ancora preziosi: arginare i rivali del satellite e indurre la Rai a investire 500 milioni di euro senza apportare benefici agli indici d’ascolto. Il digitale interessava al Biscione, non a Viale Mazzini, che sopravvive con la logica dei tre grossi riferimenti generalisti, Rai1, Rai2 e Rai3. Più di una volta, i vertici di Cologno Monzese hanno intimato ai governi di non toccare la banda 700. I motivi: centinaia di milioni di euro sperperati; Canale 5 & C. non avrebbero l’agio di un vasto spettro e, detto senza perifrasi, a Mediaset conviene che il precario equilibrio televisivo rimanga immutabile. “Almeno sino al 2030” ha suggerito Gina Nieri, consigliere d’amministrazione di Mediaset e dirigente di fiducia di Fedele Confalonieri. La banda 700, destinata agli imprenditori telefonici, non deve essere sottratta agli editori televisivi per ritorsione o per penalizzare Mediaset, non è un provvedimento calibrato su misura contro Berlusconi: è vitale per incentivare internet veloce. Lo prevede la Commissione Europea e lo ripete la Conferenza di Ginevra.
IL GIOVANE Matteo Renzi, campione di selfie, riprende massime che l’anziano ex Cavaliere ha ormai abbandonato: vuole la burocrazia espletata a casa, vuole che si dialoghi con la posta elettronica, vuole che internet sia accessibile ovunque, dai sobborghi di periferia ai più sperduti paesini di provincia. Allora perché Renzi ha accolto il comma Guidi, un ministro non immune alle costanti pressioni dell’Autorità di Garanzia Agcom sempre sensibile a Mediaset?
Il posticipo di un anno e mezzo imposto al Dvb T2 può benissimo ripetersi oppure no. L’ex Cavaliere è un uomo che va tenuto in sospeso, e il fiorentino l’ha capito.
Per Mediaset il favore è perfetto, dà margine per pianificare il futuro senza assilli. Il momento è confuso, c’è da vendere Mediaset Premium, da recuperare un po’ di denaro per assorbire i 700 milioni spesi per la Champions League. Ci sono i destini che s’incrociano con l’ex nemico Rupert Murdoch e l’agognata Telecom da sedurre. E il governo smentisce se stesso: internet veloce non è una priorità. Forse perché non fu sottoscritta al Nazareno.

La Stampa 25.1.15
“Immunità per gli 007”. Il nodo che blocca il decreto anti terrorismo
Sì al permesso di soggiorno per gli informatori stranieri
di Francesco Grignetti

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Corriere 25.1.15
Spese militari: il ruolo delle lobby intorno alla Difesa
Il mutuo per navi da guerra con gli interessi al 30 per cento
Per la flotta soldi in bilancio ci sono, ma per l’acquisto si era immaginato un finanziamento. L’impegno per i caccia F-35 e quello per gli Eurofighter
di Sergio Rizzo

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Corriere 25.1.15
Torna lo scontro con la politica (e tra le toghe)
di Giovanni Bianconi


La sintesi più efficace del dibattito in corso sulla stato della giustizia sta in ciò che è accaduto ieri a Bologna, alla cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario. L’esponente «laico» di indicazione «grillina» del Consiglio superiore della magistratura, Alessandro Zaccaria, ha detto che il Csm «vuole essere parte attiva delle riforme, perché se si aspetta il governo o non arrivano oppure si vede di che qualità sono». Ha ribattuto la vice-presidente della Regione Elisabetta Gualmini, renziana convinta, che «le riforme della legislazione le propone il governo e sono approvate dal Parlamento», quindi il Csm non c’entra. Terzo incomodo nel botta e riposta il «padrone di casa», presidente della corte d’appello Giuliano Lucentini, secondo il quale rispetto ai tempi dei governi Berlusconi sono cambiati i toni ma non la sostanza della «delegittimazione dei giudici». Lo scontro tra giustizia e politica, insomma, non sembra placarsi, così come quello interno alla magistratura. A Milano — dove tutti i procuratori aggiunti (tranne uno in ferie) si schierano al fianco del capo Bruti Liberati, in segno di plateale solidarietà nella disputa con Robledo — il presidente della corte d’appello se la prende con i colleghi di Palermo che non hanno risparmiato, «alla Repubblica e alla magistratura» la testimonianza di Giorgio Napolitano nel processo sulla presunta trattativa fra Stato e mafia. E a Palermo il «reggente» della corte invita la «società civile» a non schierarsi sempre e solo dalla parte dei pubblici ministeri, poiché bisogna sostenere anche i giudici che a volte assolvono «per carenze degli organi investigativi e requirenti». Sono scaramucce, dirette o a distanza, che manifestano un certo malessere anche nei rapporti tra toghe. Fermo restando che i disagi maggiori restano nei confronti del governo e di un presidente del Consiglio che, per dirla con il procuratore generale di Torino Maddalena, «non ha trovato di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica». Chiaro riferimento al taglio delle ferie deciso per decreto; un provvedimento «che ancor ci offende» e nulla ha a che vedere con i tempi lunghi della giustizia. Lo dicono quasi tutti, in ogni città d’Italia, così come quasi tutti sottolineano che la riforma della responsabilità civile è sbagliata, e gli altri progetti in campo sostanzialmente inutili. «Ben misera cosa» riassume un po’ brutalmente il pg facente funzioni a Milano. L’Associazione magistrati continua a rimproverare al governo un «approccio non sufficientemente meditato», e puntuale arriva il rimbrotto di Cicchitto: «Continuano a fare polemica politica» (mentre gli avvocati accusano simultaneamente governo e toghe, e i radicali continuano a denunciare «lo Stato criminale per il trattamento inumano nelle carceri e l’irragionevole durata dei processi»). Come se fosse sempre tutto uguale a prima, in una contrapposizione inevitabile. L’altro ieri il primo presidente della Cassazione non ha esitato a criticare la politica ma anche «alcuni atteggiamenti della magistratura che non può non interrogarsi sulle sue corresponsabilità» nella crisi di fiducia nella giustizia. Invitando tutte le istituzioni ad «allargare l’orizzonte per guardare oltre e dimostrare di saper accettare la sfida dei tempi». La speranza è che non resti solo un auspicio, rituale come l’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Corriere 25.1.15
Foglietti strategici e controllo militare. I due toscani dietro il negoziato
La trattativa di Lotti e Verdini, entrambi ostili alla minoranza pd


ROMA Poi, alla fine, arriverà il tramonto di martedì: e Silvio Berlusconi varcherà, per la seconda volta, il portone di largo del Nazareno.
Ma le ore in cui si decide tutto sono queste.
È un lavoro diplomatico e politico complesso. Occorrono astuzia e cinismo, sveltezza, freddezza e cattiveria.
Molti millantano, giurano d’essere dentro ai giochi.
Bluffano.
Per rinnovare gli accordi di base del celebre patto e stabilire chi possa essere il nuovo presidente della Repubblica, buttare giù qualche candidatura più credibile e solida di altre e quindi trattare, ricattare e promettere a nome e per conto del Cavaliere e del premier, sono in queste ore al lavoro due sole persone.
Soltanto due.
Luca Lotti e Denis Verdini (in rigoroso ordine alfabetico).
Provate ad avvicinarvi a Lotti e a chiedergli quanto si senta potente: vi prenderà sottobraccio, i boccoli biondi con dentro uno sguardo gelido, e vi spiegherà con parole dolci e il tono persuasivo che non bisogna mai andare dietro a ciò che scrivono i giornali, i giornalisti inventano, lui è solo un semplice sottosegretario alla Presidenza, certo la sua grande amicizia con Matteo Renzi gli permette forse di sapere qualcosina in più e così, lentamente, proprio perché sei tu, mezza parola qua, mezza là, comincerà a fingere di rivelarti in via eccezionale qualche informazione riservata. Chi gli crede, va a sbattere regolarmente.
Fate la stessa domanda a Verdini. Quanto si sente potente? Coraggio, non faccia il modesto.
Il senatore Verdini ti osserverà immobile come il personaggio d’un film di Sergio Leone e resterà muto, lo sguardo che è un miscuglio di compiacimento e disprezzo, un uomo di potere che non nega di avere potere, ma che non proverà neppure per un istante a dimostrare di esserti amico; lo vedrai allontanarsi nel corridoio e ti resteranno impressi i suoi mocassini di camoscio blu con le nappine e il suo orologio d’oro massiccio.
Lotti ha 32 anni, Verdini 63. Entrambi sono toscani: Lotti di Montelupo, Verdini di Fivizzano. Detestano partecipare ai talk-show, rilasciare interviste, essere contraddetti (un mese fa, a Palazzo Grazioli, fecero appena in tempo a togliere dalle manone di Denis il terrorizzato Brunetta. Che, però, gli aveva anche detto: «E non sputare quando parli!»).
Verdini ha un controllo quasi militare del suo esercito (una volta, durante un voto, ordinò a Cicchitto di restare in Aula e trattenere la pipì), conosce a memoria tutti i fittiani ribelli e, in tanti anni, ha sbagliato una sola volta: quando spiegò al capo che Alfano se ne sarebbe andato con quattro gatti, e quelli invece furono abbastanza per tenere in piedi il governo Letta al Senato.
Lotti, che ha meno esperienza, s’aiuta ancora con i foglietti: questo è renziano, questo fa il furbo, questo è bersaniano, con questo ci parlo domani, questo lo faccio chiamare dalla Boschi. Mentre Verdini lavora in totale solitudine, dopo aver mandato in frantumi il «cerchio magico» berlusconiano — sparita, da settimane, Mariarosaria Rossi; la signorina Francesca Pascale che posa solitaria su motociclette da dark-lady; Capezzone ormai d’osservanza fittiana: «Per caso viene anche Denis?» — ecco, mentre Verdini li ha limati via tutti, Lotti continua a collaborare, sul piano delle strategie, con il ministro Maria Elena Boschi. Di lei, si fida. Ma solo di lei (quando Renzi entrò a Palazzo Chigi, il gruppo del «Giglio magico» era più folto: Delrio, Nardella, Bonafè...).
Come avrete intuito, nonostante uno possa essere il figliolo dell’altro, Luca e Denis hanno molto in comune: compresa, ovviamente, l’enorme ostilità della minoranza del Pd. Ci sono bersaniani che parlando di Lotti usano termini irriferibili. Mettono su facce allibite, ti dicono che loro guidavano dicasteri mentre Lotti allenava la squadra di calcio femminile del suo paesino. E, appena possono, ti raccontano il solito aneddoto (trovatene altri, please).
«Sai come sono diventati amici lui e Renzi? Allora, era il giugno del 2006 quando Matteo, che all’epoca era presidente della Provincia di Firenze, manda un sms a un suo consigliere. Sull’sms, c’è scritto: “Quel Luca che m’hai presentato alla festa della ceramica, ha mica voglia di fare esperienza in Provincia? No, perché se ha le ‘palle’, come mi hai detto, in poco tempo te lo formo a dovere”. Capito da che razza di scuola politica arriva Lotti?».
Commentando invece le vicende giudiziarie di Verdini — rinviato a giudizio nell’inchiesta P3 e per la gestione della banca Credito cooperativo fiorentino — una volta Rosy Bindi quasi si sentì male. «Scusate... se continuo a parlare, svengo».
Ultima cosetta: martedì, né Verdini né Lotti parteciperanno all’incontro del Nazareno.
Sublime, chicchissima dimostrazione di potere.

Corriere 25.1.15
Paita, polemica sul «finto» lavoro E il Pd a Genova le detta le condizioni
di Erika Dellacasa


GENOVA Con fatica il Pd ligure sta cercando di superare le lacerazioni aperte dalle primarie vinte da Raffaella Paita contro Sergio Cofferati ma il percorso sembra disseminato di piccoli ordigni: l’ultimo a esplodere è relativo all’assunzione nel 2007 di Paita da parte di un’azienda di archiviazione dati molto vicina al partito, come riportato da alcuni giornali. L’11 giugno 2007, un giorno prima di essere nominata assessore nella giunta del neosindaco di La Spezia, Massimo Federici, Paita viene assunta come impiegata dalla Sti spa, non lavora nemmeno un giorno e non percepisce alcuno stipendio ma da quel momento i contributi (5.000 euro) vengono — come previsto per legge — versati dal Comune. Paita dopo nove mesi si licenzierà. Le assunzioni di comodo per avere una copertura previdenziale a spese della comunità non sono una novità fra i pubblici amministratori ma Paita respinge questo sospetto: «Non avevo neanche trent’anni, quando ho visto che l’incarico di assessore era l’inizio di una carriera politica duratura ho dato le dimissioni — spiega —. Il mio è un esempio di onestà e coerenza». Tuttavia la notizia intorbida un clima non ancora sereno. Non solo alcuni circoli genovesi hanno chiesto l’annullamento delle primarie dopo le accertate irregolarità ma i civatiani sono usciti dalla segreteria del Pd a La Spezia e ieri non hanno partecipato alla direzione del partito a Genova. Direzione che si è conclusa con un documento votato all’unanimità la cui sintesi è un appoggio unitario ma condizionato a Paita. Tutto il Pd con lei, quindi, ma impegnandola su una serie di punti, primo fra tutti «nessuna alleanza con forze e/o esponenti politici di centrodestra» e «condivisione nelle direzioni provinciali dei criteri per la composizione di eventuali liste civiche in coalizione col Pd». Tradotto: non vogliamo ex Pdl mascherati in liste civiche. Paita incassa l’appoggio e risponde con un più sfumato «no a partiti che si richiamino nel nome e nei valori alla destra». La direzione genovese ricorda alla candidata che a Genova non ha vinto (il 35% contro il 65% di Cofferati) e che si deve «recuperare un rapporto di fiducia con l’elettorato». Alla fine, l’abbraccio del Pd (civatiani esclusi) con Paita c’è stato anche se non molto affettuoso. Resta sempre più isolato Cofferati: ieri al suo nome il Guardasigilli Andrea Orlando, che lo aveva sostenuto, ha letteralmente voltato le spalle.

il Fatto 25.1.15
Il Mattinale di Fi: “Evviva, siamo ritornati centrali”


È IL NUMERO del sabato, quello riassuntivo della settimana appena trascorsa. E “la sintesi”, scrive Il Mattinale, foglio del gruppo di Forza Italia alla Camera, è la “nostra ritrovata centralità”. Fanno riferimento al voto sull’Italicum: il governo Renzi non è andato sotto solo grazie ai voti dei senatori forzisti, visto che nel Pd ci sono state quasi 30 defezioni. “Grazie all’eterno Berlusconi – scrive Il Mattinale – un atto di saggezza e follia insieme che sposta l’asse, cambia il paradigma della politica”.
Prosegue la nota: “Restiamo fedeli al sì dato da Berlusconi al patto del Nazareno e all’Italicum 2.0 nonché all’impianto della riforma costituzionale specie riguardo al superamento del Senato, non più eletto direttamente dal popolo”. Conclude Il Mattinale: “Piantiamo sul campo delle riforme la nostra non inutile bandiera. Che resti agli atti”.

il Fatto 25.1.15
La deputata Pd Ileana Argentin
“Matteo non ci ascolta, è come il Marchese del Grillo”
di Paola Zanca


Ha già votato contro il Jobs Act. Si riconosce nella Sinistra dem di Gianni Cuperlo. Sulla “lista fedeltà” pubblicata dal Foglio, accanto al suo nome, c’è un “no”. E Ileana Argentin non si tira indietro. “Per me Matteo Renzi è come il marchese del Grillo”.
Quando diceva “Io so’ io e voi nun siete un cazzo”?
Nel nostro partito ci sono seri problemi perché abbiamo un segretario che non ascolta. Io non voglio dividere, né uscire dal Pd. Ma voglio il partito che abbiamo costruito , non un'altra cosa.
Quali sono le differenze?
Ero nella commissione Valori, quando è nato il Pd. E ora vedo un partito che va verso il centrodestra, che è totalmente plasmabile in base alle occorrenze e alle convenienze.
Succederà anche sul Quirinale?
Io in Parlamento sono arrivata con le primarie, sono stata la donna più votata a Roma. Per cui non ho nessuna intenzione di accettare compromessi, se non di qualità.
Domani vedrete Renzi.
Voglio un Presidente serio, non un fantoccio. Se Renzi propone criteri di scelta condivisibili non spezzeremo il partito. Se, invece , per esempio viene con una donna di sinistra, pensando di farci contenti...
Finocchiaro non la votereste?
Sarebbe un po’ complicato. Ma non farò il franco tiratore. Lo dirò apertamente.
Non ci sarà un bis dei 101?
Non lo so. E non so nemmeno, come ha detto Fassina, se fosse Renzi il loro capo. Ma certo, all’epoca nel partito c’era solo una frangia estrema, ed erano loro. E poi non posso non notare che è stato tutto molto veloce: l'elezione del Capo dello Stato, il governo Letta, l'arrivo di Renzi. Per me un disegno politico c'è stato.
La rottamazione è avvenuta in fretta.
Ho anche condiviso tante sue battaglie. Quella sui giovani, per esempio. Ma attenzione: io ho 50 anni e mi sento una giovane per la politica, mica ho iniziato a 20 come loro! È vero, anch’io sono in Parlamento perché sono quella in carrozzina, ma mi auguro di essere arrivata qui anche perché ho un percorso alle spalle... questi sono stati catapultati qui dopo il liceo!
Lei Matteo Renzi lo stima?
Come premier ci sta provando, ma come segretario non va: è un anno e mezzo che tento di parlargli. E come me, non ha mai dato udienza a tanti altri colleghi.
Forse adesso che ha bisogno dei vostri voti si accorgerà di voi. Anche solo per paura.
Guardi, voi lo sottovalutate... Renzi è uno talmente pieno di sé che si permette di dire in continuazione “Fassina chi?”. Lui ha un accordo con Forza Italia, non gliene frega niente dei nostri voti. Se in prossimità della quarta votazione dovesse accorgersi che c’è qualcosa che non va, forse, allora... altrimenti, non ci si fila proprio.
E voi, avete paura?
o non ho niente da perdere. E mi sono stancata di essere trattata come l’handicappata che si occupa degli handicappati. Rappresento i cittadini. E la mia unica paura è che ci ritroveremo con un grande partito al centro, da cui resteranno fuori solo le ali estreme. Non è certo quello che avevamo immaginato per il futuro del centrosinistra.

il Fatto 25.1.15
Barca: “Il Pd non parla più di cultura politica“


ANCHE SE il Partito democratico “è un punto straordinario di incontro di culture: socialcomunista, cattolica o cristiano-sociale, e liberale-azionista“, oggi al suo interno non si parla più di “cultura politica“. Lo ha sottolineato ieri Fabrizio Barca, economista e politico, già ministro della Coesione territoriale del governo Monti, durante la kermesse Human Factor, a Milano. “Abbiamo smesso di discutere di cultura politica, e questo ha pesato per un partito che, nei momenti peggiori sta al 25% dei consensi, un pezzo fondamentale dello schieramento di centrosinistra. Abbiamo avuto bisogno di Papa Francesco per tornare a ragionare. Eh no, ragazzi, dovevamo pensarci prima“. “Veniamo dall’insuccesso del modello socialdemocratico e del suo welfare. Il movimento degli anni 60 era anche il rifiuto di servizi universali perché erano uguali per tutti. Dall’attenzione alla persona siamo passati all’attenzione all’individuo e all’egoismo: non era nella nostra testa, ma è successo”.

Corriere 25.1.15
Insulti sul web a Civati: vattene. La replica: sto sereno


Polemiche e insulti via web. Il giorno dopo aver lanciato l’ipotesi di un candidato «Non Nazareno» al Quirinale, Pippo Civati viene attaccato sul suo blog (in un post a ripresa dell’analisi di Massimo Gramellini) e sulla sua pagina Facebook. Molti — oltre un centinaio — i commenti. C’è chi accusa l’esponente dem di essere «destinato al Limbo... senza infamia e senza lode», chi gli dice «vattene», chi parla di «un autogol comunicativo». Altri, invece, difendono le scelte del ribelle dem, che a sua volta replica alle offese: «Sto sereno. Me lo dico da solo... Se pensano di spaventare le persone o di far loro cambiare idea così, non hanno capito». Civati poi contrattacca: «Ho posto una questione politica, se è vietato, vuol dire che è già un’indicazione di come si vuole fare il Pd».

il Fatto 25.1.15
Insulti a Civati in Rete: “Sto sereno me lo dico da solo”


Tante critiche - e qualche insulto - sul blog di Pippo Civati in calce al post in cui l’esponente più “radicale” della minoranza dem risponde a Massimo Gramellini, reo di averlo punzecchiato nel suo Buongiorno per la proposta di presentare un candidato al Colle Non-Nazareno. Il succo, in breve, è: “Ha ragione Gramellini”. I commenti, infatti, si concentrano sulla 'contraddizione civatiana’ di criticare i vertici del Pd senza però “lasciare la poltrona”. E qui si scatena un dibattito accesissimo tra i follower di Civati che da una parte lo esortano a "non mollare" - sulla pagina Facebook di Renzi, nota una sostenitrice, ci “sono più insulti di quelli che ti stai beccando qui” - mentre dall’altra spingono a uscire dal Pd per fondare un nuovo partito - prima Tsipras poi Civati - o entrare in Sel, “così possiamo iniziare a lavorare”. Ma c'è anche chi gli dà del "Bertinotti 2" o gli dà del "comico". Civati risponde così: “Sto sereno, me lo dico da solo”.

Corriere 25.1.15
I voti dei 29 ribelli in Senato: campioni d’infedeltà tra i dem

Fedeli alla linea: non a quella del partito, però, ma a quella dei dissidenti. I 29 senatori dem che hanno sostenuto il documento di Miguel Gotor sull’Italicum, per ridurre il numero di capilista bloccati, sono un fronte abbastanza compatto che in Aula, anche su altri temi, ha votato contro le indicazioni di partito più dei colleghi. Il doppio, secondo i dati di Openpolis : se la media dei voti ribelli nel Pd è di 46 (il totale dei voti contrari alla linea del gruppo rispetto al numero dei senatori che lo compone), tra i 29 dissidenti il dato arriva a quota 91. Alla prova dell’Aula, i dem si mostrano comunque disciplinati: il «tasso di ribellione» medio di Palazzo Madama è di 134 voti dissidenti per senatore.
Fanno parte del gruppo dei 29 i cinque senatori che nel Pd guidano la classifica dei voti contrari, da quando Renzi è al governo, alla linea del partito: Lucrezia Ricchiuti, Walter Tocci, Maria Grazia Gatti, Corradino Mineo e Felice Casson.

il Fatto 25.1.15
Sanno fare solo gli spiritosi
Gli intellettuali scomparsi
di Paolo Di Paolo


“Buongiorno ragazzi, oggi affronteremo l’esemplare coraggio degli intellettuali all’inizio del ventennio renzusconiano, l’epoca che seguì il ventennio berlusconiano. Prendete l’antologia, troverete la riproduzione di un bellissimo articolo dello scrittore Giorgio Montefoschi pubblicato sul Corriere della Sera del 22 gennaio 2015. Un articolo che dimostra in modo indiscutibile come, all’alba di quella nuova era, i letterati fossero fondamentali nel dibattito pubblico, intelligenti e soprattutto coraggiosi”.
Così qualche professoressa del futuro potrebbe trovarsi a illustrare ai propri alunni lo splendente camaleontismo di certi valorosi pensatori. Cosa fa Montefoschi? Prende di mira una frase, suppongo ironica, del dissidente Pd Pippo Civati (“I miei genitori vorrebbero che uscissi dal Pd, ma io resisto”) e ne fa il perno di un corsivetto sarcastico. Legittimo, per carità. Se non fosse che dietro alla caricatura c’è una precisa visione del mondo: “Civati – scrive Montefoschi – ha fatto le primarie (e le ha sontuosamente perse), fa una strenua battaglia politica e ha le sue idee. Idee che, sostanzialmente, si possono concretizzare in un no a quasi tutto. In particolare alle decisioni che vengono prese dalla maggioranza del partito di cui fa parte: preferenze, soglie di sbarramento, alleanze, patti, proposte, 80 euro, inciuci, candidati”.
SAREBBE OPPORTUNO chiedere a Montefoschi – in assoluto – come si possa dire sì a tutto questo, ma il punto è un altro. Lo scrittore non sembra disposto a contemplare l’idea di dissidenza, di fronda interna : gli piace il partito del pensiero unico? No, neanche questo. Ha l’aria del tipico spettatore sessantenne arreso al proprio stesso cinismo. Non ha nessuna intenzione di contribuire a una discussione: osserva, e ghigna. Tanto a lui cosa cambia? Scrive romanzi fuori dal tempo, scrive sul Corriere. Cari ragazzi del 2015, ecco gli intellettuali italiani sbarcati dal Novecento nel nuovo secolo. Imparate. Hanno frequentato Moravia, letto Sartre e Camus, e oggi – nel cuore di questo sfolgorante e promettente gennaio – fanno gli spiritosi. È tutto quello che possono. Bel paesaggio di camaleonti che non hanno niente da perdere.
Il pensiero critico è in pensione. Dal germe del dubbio si sono vaccinati per tempo. Anche da quello dell’autocritica e dell’esame di coscienza. Gli intellettuali sono in ferie, sosteneva Tabucchi. Ma parlava della Lisbona sotto Salazar. Nei nostri tempi meno cupi, nessuno li ha mai visti al lavoro. E come i vecchietti che passano davanti ai cantieri, si fermano per due chiacchiere inutili e vanno via. Peccato che gliele pubblica il Corriere della Sera. Funziona sempre la vignetta del geniale Altan: “Siamo sull’orlo del baratro” dice uno. L’altro risponde: “Goditi il panorama”.

il Fatto 25.1.15
Uniti nelle critiche
Sotto accusa la “Giustizia” di Renzi
di G. B.


Milano Nei discorsi inaugurali dell’anno giudiziario, a Milano ma anche in tante altre sedi giudiziarie, non sono mancati gli accenni polemici nei confronti della riforma della giustizia avviata dal governo di Matteo Renzi. Duro l’intervento dell’Avvocato generale dello Stato di Milano, Laura Bertolè Viale, contro la norma salva-Berlusconi, proposta e poi “congelata” da Renzi, che stabilisce delle percentuali di evasione fiscale sotto le quali non scatta la punibilità: “La clausola chiamata giornalisticamente anche ‘licenza a delinquere’ avrebbe quale effetto principale quello di creare una sostanziale differenza di trattamento tra i contribuenti di minori e quelli di maggiori dimensioni, aumentando in maniera abnorme la forbice di tolleranza”. Bertolè Viale ha criticato anche la scelta del governo Renzi di aumentare le pene per la corruzione, lasciando però come stanno le norme su “concussione, corruzione specifica, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita. E che fine ha fatto la tanto pubblicizzata riduzione di pena per chi collabora alla scoperta del reato e la riparazione pecuniaria a favore della pubblica amministrazione pari alla somma illecitamente corrisposta?”. È “un ben misero condensato” rispetto ai “propositi iniziali” anche il disegno di legge sulla prescrizione. Quanto all’introduzione del nuovo reato di autoriciclaggio, “trionfalmente approdato nel nostro sistema penale e preceduto da un vero e proprio battage pubblicitario”, Bertolè Viale afferma che “un piccolo comma, il quarto del nuovo articolo, vanifica tutti i primi tre commi, laddove dichiara che non sono punibili le condotte per cui il denaro i beni o altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale”.
A Torino, il procuratore generale Marcello Maddalena ha citato George Orwell, l’autore della Fattoria degli animali: “Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano”. Così la prima riforma del governo Renzi nel campo della giustizia “è stata quella che ha brutalmente e malamente ridotto le ferie dei magistrati: una riforma che non solo per i contenuti, ma anche per il modo in cui è stata attuata, addirittura con decreto legge, e per i commenti sprezzanti che l’hanno accompagnata, ancor ci offende. Il primo grande rimedio del nuovo governo”, ha aggiunto Maddalena, “è consistito nel costringere i magistrati a lavorare di più, magari nella prospettiva, sicuramente non nell’auspicio, che facciano la stessa fine di Gondrano. Come se la colpa principale del dissesto dell’amministrazione della giustizia dipendesse dalla scarsa operosità dei magistrati, quando invece è da anni pacifico che la produttività della giustizia italiana è fra le più alte d’Europa”.
Critiche al governo anche dal presidente della Corte d’appello di Bologna Giuliano Lucentini: “Sconsolante accostamento” quello tra lentezza della giustizia italiana e ferie dei giudici. Del resto, è un Paese in pericolo “quello in cui i suoi giudici sono delegittimati”. Sono cambiate le cose – si è poi chiesto, senza nominarlo – dai tempi di Silvio Berlusconi? “Certo, non siamo più additati come disturbati mentali, non si dice più che taluni di noi, quelli impegnati in ben noti processi, sono mafiosi, criminali, irresponsabili, però le cose sono sostanzialmente rimaste quelle di prima: è cambiato solo il metodo, diventato mediaticamente più sottile”.
Boccia le proposte del governo anche il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, intervenuto a Milano: “Sulla corruzione, l’aumento delle sanzioni è la soluzione più facile, ma non la più efficace. Possono infatti scoraggiare i propositi di collaborazione, se non ci saranno anche strumenti più efficaci d’indagine e incentivi che rompano il patto tra corrotto e corruttore”.

La Stampa 25.1.15
Medicina, le scuole di specializzazione rimangono senza specializzandi
Le associazioni in rivolta: “Il modello della graduatoria nazionale si sta dimostrando fallimentare, il Ministero lo riveda”
di Lorenzo Vendemiale

qui

Corriere 25.1.15
Se i traumi infantili diventano una patologia
Anche abusi e abbandoni entrano nel manuale che raccoglie le forme del malessere psichico
di Silvia Vegetti Finzi


Ogni nuova edizione del Dsm ( Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders ), ora siamo alla quinta, pubblicata da Cortina, rappresenta una finestra aperta sul malessere psicologico di un’epoca. Per quanto l’inevitabile generalizzazione lo renda discutibile, questo manuale viene usato da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, sia nella pratica clinica sia nella ricerca scientifica, per cui ogni integrazione merita di essere considerata uno stimolo alla conoscenza e alla cura. Un compito che si è riproposto il convegno «Il Dsm scopre le esperienze traumatiche», che è stato organizzato due giorni fa dal Centro Tiama (Tutela Infanzia Adolescenza Maltrattata) all’Auditorium don Giacomo Alberione di Milano.
La diagnosi e la terapia dei traumi psicologici ha una lunga storia, per lo più correlata ai disturbi presentati dai reduci di guerra. Ma già in Freud la persistenza del trauma e la coazione a ripetere inconsciamente emozioni negative che si vorrebbero dimenticare, assume il valore di un funzionamento mentale generale, esteso a esperienze molto lontane dai campi di battaglia.
In ambito psicologico, consideriamo trauma un evento improvviso, di segno negativo, cui il soggetto reagisce con un blocco del pensiero. La diagnosi e il trattamento di questo tipo di traumi è fondamentale negli interventi di emergenza richiesti da catastrofi collettive: terremoti, alluvioni, attentati. Ma una nuova sensibilità sta prendendo in considerazione anche traumi individuali come maltrattamenti infantili (anche precocissimi), abusi sessuali, stati di abbandono, bullismo scolastico, mobbing sul luogo di lavoro.
Perché un evento sia considerato mentalmente traumatico occorre che la vittima lo abbia vissuto con passività, che si sia sentita impotente, incapace di reagire e persino di pensare, che abbia preferito dimenticare l’accaduto piuttosto che accoglierlo nella mente affrontando il dolore che la rielaborazione comporta. In questi casi, anche anni dopo, la tensione tende a scaricarsi attraverso sintomi psicosomatici (insonnia, anoressia, irrequietezza, incapacità di attenzione e concentrazione) o comportamenti asociali (aggressività verso se stessi o gli altri, isolamento, blocco decisionale). Il soggetto traumatizzato è vittima di ricordi immagazzinati nella memoria come frammenti di percezioni e di emozioni insensati e incomprensibili, schegge impazzite che ledono il senso di sé nell’ambito della sicurezza, dell’autostima e della responsabilità. Spesso la vittima, specie i bambini, preferisce assumersi la colpa della violenza subita pur di salvaguardare le persone dalle quali dipende la sua sopravvivenza. Per poter procedere a una terapia occorre quindi che la persona traumatizzata sia disposta ad affrontare un percorso inizialmente destabilizzante e, a tratti, doloroso. Si tratta infatti di rivivere l’evento rimosso in una situazione protetta, ove sia possibile tradurre il caos emotivo in pensieri e parole condivisi e organizzarlo in una narrazione dotata di significato e di senso.
Le metodologie sono molte, spesso integrate, ma lo scopo è lo stesso: ridare alla persona traumatizzata fiducia in se stessa, capacità di gestire la sua vita e di affrontare eventuali traumi futuri.

Corriere 25.1.15
Quando Blair scriveva: «Caro Gheddafi» Gli 007 inglesi coinvolti nelle torture
di Fabio Cavalera


LONDRA Una lettera imbarazzante. «Caro Muammar». «Dear Mu’ammar». Il 26 aprile 2007 Tony Blair, all’epoca primo ministro, su carta intestata «10 Downing Street» scrive a Gheddafi. «Spero che lei e la sua famiglia stiate bene». Fra i due c’è intesa.
Da almeno cinque anni, dal 2002, i servizi segreti britannici e i servizi segreti di Tripoli stanno collaborando per identificare, catturare e deportare a Tripoli gli oppositori del regime rifugiati all’estero. Londra ha interesse a coinvolgere la Libia nelle strategie antiterrorismo. La Libia di Gheddafi ha interesse a mettere in silenzio i dissidenti. Per cui le intelligence operano a braccetto, col via libera dei governi. È realpolitik, si dice. Ma puntellata da azioni odiose: rapimenti e torture.
Tony Blair è esplicito: «L’eccellente cooperazione dei vostri ufficiali con i colleghi britannici sono un omaggio alla solidità delle relazioni bilaterali. Sono determinato a sviluppare ulteriormente la partnership». Chiusura con inchino: «I migliori saluti, sempre vostro Tony Blair».
Le inconfessabili relazioni fra Blair e Gheddafi, fra gli 007 di Regno Unito e Libia, sono messe nero su bianco in centinaia di documenti abbandonati negli uffici governativi di Tripoli, nel settembre 2011, dopo la caduta del Colonnello. E il Guardian li pubblica chiedendo un’inchiesta perché risulta ormai «innegabile il coinvolgimento nelle torture» sia dell’MI5 sia dell’MI6, i due rami dell’intelligence di sua maestà. Nuovi imbarazzi per l’ex primo ministro laburista: i fatti risalgono ai tempi della sua lunga permanenza a Downing Street.
Salta fuori adesso, questo «tesoro», dagli atti del ricorso che sei cittadini libici, la vedova di un ex leader dell’opposizione a Gheddafi, e altri cinque cittadini britannici ma con origini libiche e somale hanno presentato all’Alta Corte di Londra, definendosi vittime di «maltrattamenti, detenzione illegale, esercizio arbitrario di pubblici poteri». Il governo avrebbe preferito chiudere la questione distribuendo risarcimenti fra i due e tre milioni di sterline. Ma la storia non si è chiusa. Anzi. I documenti, che erano finiti nelle mani di Human Rights Watch, sono stati allegati al dibattimento. E aprono, essendo autentici, un capitolo tutto da esplorare sulle deportazioni da Londra a Tripoli (fra il 2002 e il 2007), sulle torture e sulle responsabilità politiche di chi ha coperto le operazioni.
Dalle carte emergono diverse certezze. Che gli 007 dell’MI5 e dell’MI6 agirono con la controparte libica per identificare la rete estera della dissidenza. Che gli 007 libici furono addirittura chiamati «in territorio britannico» per intimidire gli oppositori ai quali era stato garantito asilo politico da Londra. Che l’intelligence britannica collaborò al rapimento di due leader anti Gheddafi e delle rispettive famiglie (comprese una bambina di 6 anni e una donna incinta) per trasferirli in Libia. Che furono eseguiti interrogatori sotto tortura. Che sia l’MI5 sia l’MI6, per conto dei libici, tennero sotto controllo 79 dissidenti, divenuti cittadini britannici, alcuni poi sequestrati e rispediti a Tripoli.
Il Guardian ne ha chiesto conto a Tony Blair. Che cosa sapeva? Il suo ufficio ha risposto così: «Tony Blair si è sempre opposto all’uso della tortura. La lotta al radicalismo islamico è una lotta di valori e agire contro quei valori — come con l’uso della tortura — è non solo sbagliato ma anche controproducente». Difficile che ciò basti a chiudere il caso.

Corriere 25.1.15
La «fase 3» di Putin. L’Europa ha davvero un fronte orientale
di Luigi Ippolito


Primo, i fatti sul terreno. L’attacco lanciato dai separatisti filorussi sulla città di Mariupol apre la terza fase del conflitto per l’Ucraina. Dopo l’annessione della Crimea lo scorso marzo e la battaglia per il Donbass iniziata in estate, ora il tentativo consiste con ogni probabilità nell’aprire un corridoio di terra fra la penisola nel Mar Nero e i territori dell’Ucraina orientale in marzo alle forze alleate di Mosca. Gli stessi obiettivi del Cremlino, in questo caso, conoscerebbero un salto di qualità: dal mantenimento di un «conflitto congelato» in grado di condizionare le scelte internazionali di Kiev a una effettiva partizione dell’Ucraina. In queste ultime settimane l’Europa si è giustamente concentrata sulla minaccia dell’Isis e sul terrorismo di matrice islamista. Ma c’è un secondo fronte che investe il nostro Continente e dove ormai da mesi si combatte una guerra guerreggiata. Sono in primo luogo i Paesi dell’Europa orientale a essere angosciati da quanto accade sul loro uscio di casa. Ma polacchi e baltici sono europei a tutto tondo: e lo sono in particolare in questa fase, quando la presidenza del consiglio è nelle mani di Donald Tusk, ex premier di Varsavia, e la presidenza di turno dell’Unione tocca alla Lettonia. È forse proprio da qui che si può provare a ripartire, con un’iniziativa diplomatica che spezzi la logica del confronto militare. La soluzione del conflitto non può essere affidata alla forza delle armi: i reparti ucraini non hanno la capacità di imporsi sul terreno e i loro momentanei successi non fanno che rilanciare l’azzardo di Putin, che non può permettersi di perdere la faccia lasciando che le milizie filorusse siano sopraffatte. Ma dall’altro lato non è questo il momento per intempestive concessioni che finiscano per ricompensare l’aggressione. La cornice l’ha fornita la cancelliera Merkel, che anche sulla questione russa tiene con saldezza la barra della politica europea: nel discorso dell’altro giorno a Davos, ha chiarito che non è il caso di pensare a un allentamento delle sanzioni al Cremlino e che l’annessione della Crimea (e ciò che ne è seguito) costituisce una violazione dell’ordine e dei principi europei. Occorre piuttosto esercitare ulteriori pressioni su Putin perché rispetti gli accordi raggiunti a Minsk nel settembre scorso e garantire in ultima analisi all’Ucraina la possibilità di decidere liberamente del proprio destino. Assicurando alla Russia che una prospettiva europea per i suoi ex vassalli non è una strategia di accerchiamento ma una promessa di partnership futura vantaggiosa per tutti.

La Stampa 25.1.15
Quando le reginette di bellezza fanno più rumore dei negoziati
L’ultima polemica per il selfie di un’israeliana accanto a una libanese
di Francesca Paci


Quante divisioni ha oggi Miss Mondo? La domanda, attribuita a un lontano Stalin a fuoco sul potere del Vaticano, rimbalza da Beirut a Tel Aviv dopo la virulenta polemica scatenata dal selfie della reginetta di bellezza israeliana Doron Matalon in posa accanto alla collega libanese Saly Greige. Quando Doron ha postato su Instagram la foto delle ragazze in concorso a Miami per la più sexy dell’universo s’è scatenato il pandemonio. I connazionali di Saly hanno invaso il web di messaggi furiosi per la di lei prossimità con la nemica sionista, Doron si è giustificata definendo l’immagine la prova della pace possibile, la protagonista in panne ha farfugliato qualcosa consapevole della suscettibilità del suo Paese dove la già popolare attrice Haifa Wehbe può mandare in visibilio i fan col solo vagheggiare un flirt di gioventù col leader di Hezbollah, Nashrallah.
Guerra e pace in passerella
Dai raid del 19 gennaio sul Golan siriano, Israele e Libano, che si guardano in cagnesco dal conflitto del 2006, sentono sinistro il tam tam di un’altra guerra. La tensione è alle stelle e, sebbene pochi siano davvero interessati al voto odierno dei giudici della Florida, i sorrisi gemelli delle due fanciulle hanno dato la stura a paure e sospetti: può la cultura pop scavalcare la politica tessendo una diplomazia alternativa (o anche accentuando una crisi?). L’interrogativo non è nuovo a Tel Aviv dove nel 1999 il titolo di più bella del reame toccò a Rana Raslan, prima e unica araba-israeliana incoronata reginetta nel Paese in cui gli arabi-israeliani sono quasi un quarto degli abitanti e vengono percepiti come la quinta colonna della sfida demografica palestinese. Solo tre mesi fa Jessica Steinberg si chiedeva sul «Times of Israel» se, accettando la delegata palestinese, i padrini di Miss Mondo 2015 si apprestassero (anche loro) a riconoscerne la patria.
Il potere della bellezza
Da Eva a Mata Hari passando per Elena di Troia, la Storia racconta il potere geopoliticamente destabilizzante della bellezza. Ma i social network paiono averne moltiplicato gli strali, anche perché nel vuoto globale di leadership politica e intellettuale basta l’occhiolino di una ragazza copertina per accendere gli spot su un tema altrimenti poco sexy. Così capita che l’ex Miss Turchia 2006 Merve Buyksarc indagata per aver postato su Instagram una poesia ironica nei confronti del presidente Erdogan faccia discutere del giro di vite imposto da Ankara sul dissenso assai più delle decine di attivisti e reporters arrestati per articoli o proteste anti-governative.
Da Miss a Miss Portavoce
La bellezza comunica, e senza grossi equivoci. La replica degli organizzatori di Miss Francia 2014 a un Alain Delon dimissionario dalla giuria del concorso per le polemiche seguite al suo endorsment al Front National di Le Pen era per esempio esplicito: il titolo andò alla métisse Flora Coquel, franco-beniniana e fierissima di rappresentare «la République cosmopolita».
In altri casi il messaggio segue vie più tormentate. Dopo le 215 vittime causate dalla guerriglia islamista contro le selezioni di Miss Mondo 2002 a Kaduna la Umma iniziò a interrogarsi su quella avversione fondamentalista alla bellezza femminile che invece il Profeta amava. La risposta, una delle tante possibili, arrivò 11 anni dopo a Giacarta con la terza edizione di Miss Mondo Musulmana vinta da Obabiyi Aishah Ajibola, velata, ottima conoscitrice del Corano e nigeriana.

Miss Israele Doron Matalon (la prima) accanto a Miss Libano Saly Greige

Corriere 25.1.15
Ricordare la Shoah ma non dimenticare le radici di un popolo
di Roberto Della Rocca

Rabbino, Direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

Mentre il calendario delle manifestazioni a ogni edizione si fa più affollato gli interrogativi si moltiplicano. A quindici anni dall’istituzione del Giorno della Memoria dobbiamo riflettere sugli effetti che questa iniziativa ha messo in moto e contribuire ad evitare che questa occasione si consolidi, specialmente per i più giovani, in un rito vuoto, retorico e noioso. La ricorrenza del 27 gennaio è riuscita a diffondere nella nostra società una sensibilità e una consapevolezza in precedenza sconosciute e coinvolgendo, in modo particolare le giovani generazioni, anche grazie al meritorio lavoro delle scuole e degli insegnanti. Eppure è forte la sensazione che il cammino da compiere sia ancora lungo e complesso.
Uno degli aspetti più inquietanti di questa celebrazione è l’immagine dell’ebreo che ne scaturisce: un’immagine di vittima, facente parte di un passato, un’immagine che non include quegli aspetti vitali e normali, ovvero relativi ad una vita comune scandita dalla quotidianità. Questa immagine dell’ebreo, del tutto parziale e per questo deviante, lontano dalla realtà odierna, non aiuta a comprendere la ricchezza e la complessità della storia e dell’identità ebraica.
Una certa celebrazione mistica del popolo ebraico, come vittima della Shoah, procede spesso, in modo parallelo, a un misconoscimento dell’ebreo come attore e protagonista nella storia contemporanea. A una sovraesposizione dei cadaveri disincarnati degli ebrei fa spesso da pendant il tentativo di oscuramento del popolo ebraico nella sua specificità.
Una pericolosa degenerazione che contagia anche alcuni stessi ebrei che, sentendosi oggetto di attenzione per un giorno all’anno, privilegiano un vettore identitario, quello della religione della Shoah, che seppur drammatico costituisce un impegno meno oneroso rispetto a una militanza ebraica proattiva e autoreggente. In questo senso la celebrazione della Shoah rischia di trasformarsi, anche per gli stessi ebrei, in una sorta di scorciatoia identitaria. È paradossalmente più facile sentirsi ebrei per via di un nonno deportato ad Auschwitz che assumersi l’impegno di una ricerca costante delle proprie radici attraverso lo studio e la pratica in un vissuto quotidiano.
Questa immagine dell’ebreo diventa pericolosa quando essa viene utilizzata per dimostrare altre tesi e non tanto, quindi, quando viene presa, magari temporaneamente, come punto di partenza per porre domande e capire di più. Questa immagine diventa un elemento fondante, semplice e alla portata di tutti, destinata ad altri scopi, strumentalizzata per sostenere quelle tesi negazioniste e antisemite, e, in alcuni casi, contro la legittimità dello Stato di Israele. L’immagine della vittima nazista viene infatti accorpata e identificata all’immagine della vittima «israeliana» per una strana proprietà transitiva, da cui ne consegue che «gli israeliani si comportano come dei nazisti nei confronti dei propri fratelli palestinesi». Congetture e sillogismi che in alcuni casi si moltiplicano al fine di alleggerire i sensi di colpa per un passato con cui si continua a non voler fare i conti. Come fronteggiare queste degenerazioni?
Di fronte all’indifferenza, di fronte a questa immagine dell’ebreo e alle congetture ideologiche che da essa scaturiscono, credo sia necessario interrogarci sull’efficacia, ma anche sulle finalità della didattica della Shoah: cosa significa e che cosa comporta trasmettere la Shoah? Quali risultati vogliamo raggiungere? Basta informare? E che cosa vogliamo che si generi da questa giornata: solidarietà, commozione, responsabilità, consapevolezza o impegno etico e politico?
Possiamo dire con certezza che l’informazione sulla Shoah non manchi, anzi: esistono ormai valanghe di libri, filmati, trasmissioni televisive, incontri, convegni e visite ad Auschwitz. Il problema e la domanda diventano allora come questa informazione venga trasmessa e in che modo possa suscitare interesse, sensibilizzare e riguardare chi ascolta, educare, affinché questa informazione sia un’occasione per costruire una coscienza etica attiva e quotidiana. Quale ruolo deve avere la Memoria? Come può essere educativa? Qual è il nostro dovere di fronte a queste constatazioni e domande? Come anche ci insegnano fiumi di letteratura ebraica, per essere educativa una memoria deve svolgersi al presente e deve quindi poter rispondere alle domande del singolo e del gruppo nella sua contingenza.
Se una politica educativa basata su un’informazione pura o basata sulla semplice commozione non hanno saputo sensibilizzare l’altro, è perché forse non abbiamo ancora fatto lo sforzo di porre questa storia in un contesto presente, più ampio e comune, partendo dalle idee, dalle immagini, dai racconti di chi ci ascolta e dall’attualità, per poterle tessere insieme e trasformarle in maniera duratura e significativa.

«Conosco benissimo la famiglia di Bibi, una famiglia di combattenti onesti e di israeliani veri. Certo che è l’uomo giusto, Nethanyahu va benissimo per Israele»
La Stampa TuttoLibri 24.1.15
“Hannah Arendt non ha capito nulla”
“Ha scritto tante belle cose, ma su Eichmann sbagliò: non era la banalità del male, bensì un demonio”
intervista di Francesca Sforza


Per molti, se non per tutti quelli che lo hanno sentito nominare, Benjamin Murmelstein era il controverso rabbino capo di Vienna che diventò decano dello
Judenrat (il Consiglio ebraico) del campo di concentramento di Theresienstadt nel 1944, e che a differenza dei suoi due predecessori, morti assassinati dai nazisti, sopravvisse fino all’età di 84 anni, trascorrendo a Roma gli anni successivi alla guerra. Per quei molti si tratta ancora oggi di un uomo senza dubbio intelligente e scaltro, ma in definitiva un collaborazionista, uno di quelli che secondo Primo Levi avrebbe permesso ai nazisti di dire: «Non siamo più sporchi di voi». Non la pensa così Claude Lanzmann, l’autore delle 10 ore di film Shoah, ma anche l’intellettuale irriverente di Les Temps Modernes, compagno di Sartre e dichiarato amante di Simone de Beauvoir, una vita di battaglie partigiane e libertarie. E non è la sordità che avanza, né il whisky fuori orario, né la bizzosità tipica degli irriverenti che invecchiano a fargli velo: Lanzmann, 89 anni, è convinto che Benjamin Murmelstein sia stato, più di ogni altra cosa, «vittima della stupidità dei suoi correligionari». Lo abbiamo incontrato a Roma, dove nei giorni scorsi ha presentato L’ultimo degli ingiusti, versione scritta - pubblicata da Skira - del documentario-intervista girato nel 1975 e presentato nel 2013 al Festival di Cannes. Un lungo dialogo tra lui e Benjamin Murmelstein, dove quest’ultimo ha la possibilità di dare la sua versione dei fatti, con poche interruzioni e un blando contraddittorio, suggellato dall’ultimo scambio di battute: «Non mi sono mai tirato indietro di fronte al pericolo – dice Murmelstein a Lanzmann –. Lei è l’ultimo pericolo, spero, che mi si presenta davanti. E non ho paura neanche di lei». Risposta: «Lei è una tigre».
Claude Lanzmann, come mai ha atteso quasi quarant’anni per rendere pubblico prima il documentario e oggi il libro dell’incontro tra lei e Murmelstein, nel 1975 a Roma?
«Murmelstein è stata la prima persona che intervistai per Shoah, ma poi andando avanti nelle riprese mi sono reso conto di non poterlo integrare nel film, la storia meritava uno spazio a sé. Poi è passato del tempo, facevo fatica all’idea di rientrare in quella storia, ero stanchissimo, per lungo tempo ho fatto resistenza. Poi però mi sono detto che di quella vicenda non sarebbe rimasta nessuna traccia, e che la perdita sarebbe stata enorme. E così mi sono deciso».
C’è chi le rimprovera di essere stato troppo indulgente con l’uomo che redigeva i rapporti per Eichmann. Cosa risponde?
«Che sono degli idioti. Gente modesta che non ha còlto la portata del dilemma di Murmelstein: salvare il maggior numero di ebrei possibile in una condizione estrema. E così fece: grazie a lui 123 mila ebrei si salvarono. Murmelstein era così intelligente da capire i meccanismi della psicologia nazista, giocando d’anticipo e prevedendo le loro mosse. Come quella volta in cui comprese che se a Theresienstadt si fosse saputo dell’epidemia di tifo Eichmann avrebbe dato fuoco all’intero campo. Fece cambiare i cartelli sanitari, e ogni nuovo caso di tifo venne catalogato con “diarrea”. Un colpo di genio che salvò il campo e tutti quelli che vi si trovavano».
Di Murmelstein si diceva anche che era l’unico ebreo pingue di Theresienstadt, tanto che lo chiamavano «Murmelschwein», il «porco»...
«Idioti, di nuovo. Ma quale porco, era uno coi piedi per terra, uno che non smarrì mai la lucidità, un pragmatico puro. Non a caso non si paragonava all’Orlando Furioso né a Don Chisciotte, ma a Sancho Panza: quando gli altri tiravano contro i mulini a vento lui trovava le soluzioni».
Che cosa l’ha affascinato di più?
«Il coraggio, l’imponenza, la presenza scenica in senso lato. Non ero solo io a trovarlo affascinante, furono molte le donne che si appassionarono per lui, anche alcune note attrici israeliane. Ebbe molte amanti».
La versione di Murmelstein prevede tra l’altro una critica aspra all’espressione di Arendt «la banalità del male». Qual è la sua opinione al proposito?
«Aveva ragione Murmelstein, perché Eichmann non era affatto banale, era un demonio. Hannah Arendt ha scritto tante belle cose, ma tra quelle non c’è il libro sul processo Eichmann, dove scrisse un mucchio di stupidaggini, del resto l’intero processo fu una buffonata».
C’è qualcosa che oggi chiederebbe a Murmelstein e che allora non gli chiese?
«Certo che no, perché dovrei?»
Lei come spiega che gli israeliani volessero impiccare Murmelstein e che il rabbino capo di Roma Elio Toaff si rifiutò di dargli sepoltura al cimitero ebraico? Tutti stupidi?
«Idioti, idioti e ancora idioti. Come dimostra del resto il processo che Murmelstein subì da un tribunale cecoslovacco, che lo scagionò completamente da tutte le accuse. E i cechi non erano teneri, sa quanti ne hanno condannati ... Quel rabbino di Roma, poi, che infamia, potessi lo ucciderei...».
Senta, cosa pensa del nuovo antisemitismo che si aggira per l’Europa, rivede qualcosa di quello passato?
«Sì, la variabile islamica mi preoccupa, penso tra l’altro che l’Italia sia in certo modo anche più antisemita della Francia, in un modo diverso cioè...»
Anche lei si sente Charlie?
«Certamente, li conoscevo bene i ragazzi di Charlie Hebdo, è stata una tragedia enorme, e non sono d’accordo con chi dice che esageravano con le loro vignette, la satira è satira, non c’entra nulla con la politica».
In Israele fra poco si andrà alle elezioni, crede che Benjamin Nethanyahu sia la persona giusta per governare il paese in questa fase?
«Conosco benissimo la famiglia di Bibi, una famiglia di combattenti onesti e di israeliani veri. Certo che è l’uomo giusto, Nethanyahu va benissimo per Israele».

Corriere La Lettura 25.1.15
Scuse alleate per non colpire Auschwitz
di Danilo Taino


«Avremmo dovuto scagliarci su Auschwitz e le linee ferroviarie. Dio ci perdoni per questo tragico errore», confessò il senatore americano George McGovern, che era stato pilota dei bombardieri che rasero al suolo le città tedesche e le industrie belliche nei territori controllati dai nazisti. Tra queste la fabbrica della Ig Farben, che impiegava manodopera proveniente dal vicino lager. Perché dunque l’attacco non avvenne, sebbene gli stati maggiori alleati sapessero con sicurezza da fine giugno 1944 che ad Auschwitz-Birkenau era in atto il più atroce degli stermini? Attorno a questa domanda ruota la bella inchiesta storica Bombardate Auschwitz (Il Saggiatore, pp. 178, e 16) scritta da Arcangelo Ferri, giornalista Rai appassionato e brillante. La risposta è duplice. Da un lato l’antisemitismo presente anche nei Paesi democratici frenava l’iniziativa dei politici che non volevano dare un appiglio alla propaganda nazista, che li accusava di condurre una guerra in favore degli ebrei. Dall’altro considerazioni «tecniche», secondo le quali non si potevano distogliere energie dagli obiettivi militari; e poi, anche volendo, i grandi bombardieri non erano adatti ad attacchi di precisione, mentre quelli medi non avevano l’autonomia di volo sufficiente. Scuse che non reggono all’analisi dei fatti, perché un attacco alle ferrovie e al campo, dove in quel secondo periodo del 1944 era pianificata la morte di 125 mila ebrei ungheresi al mese, non avrebbe inciso sull’enorme potenza di fuoco alleata e perché azioni di precisione erano già state compiute con successo in Francia. Notizie circostanziate giravano già dal 1943, ma la burocrazia dei ministeri e degli apparati militari ebbe la meglio sulle generose dichiarazioni di Churchill e Roosevelt. Un nome merita la maglia nera, l’americano Samuel Miller Breckinridge Long, che dopo aver respinto una nave carica di ebrei, vinse il braccio di ferro con il segretario del Tesoro, Henry Morgenthau, e con John Pehle, capo del War Refugee Board, paladini dell’intervento.

Corriere 25.1.15
I preziosi dragomanni tra politica e affari
risponde Sergio Romano


Il libro dello storico inglese Bernard Lewis «Le origini della rabbia musulmana. Millecinquecento anni di confronto tra Islam e Occidente» (ed. Mondadori) propone una visione unitaria della multiforme vicenda del mondo musulmano e dei suoi rapporti problematici con l’Occidente. Per quanto concerne i testi a noi pervenuti, l’autore lamenta la scarsa precisione delle traduzioni, per le quali occorreva conoscere allo stesso livello l’arabo e una lingua occidentale. Cosa che, secondo l’autore, sapevano fare molto bene i dragomanni, unici nella storia ad avere assicurato buone e fedeli traduzioni, molto utili per lo sviluppo di relazioni commerciali. Chi erano questi personaggi sconosciuti ai più? A quanto pare, sembra che fossero ben più che semplici interpreti.
Teresiana Eliodeni

Cara Signora ,
Il dragomanno è un interprete, personaggio indispensabile per i rapporti dei Paesi europei con un grande Stato, l’Impero Ottomano, dove la classe dirigente parlava turco e una larga parte dei sudditi parlava arabo: due lingue di cui gli Stati cristiani, con poche eccezioni, non coltivavano lo studio e la conoscenza. Per molto tempo la necessità di una traduzione fu favorita dall’esistenza nel Mediterraneo di una lingua franca, quasi sempre l’italiano, conosciuta più o meno bene da tutti coloro che avevano frequenti occasioni di viaggiare e commerciare fra le due sponde. Nel suo capitolo sui dragomanni (testo di una conferenza pronunciata alla British Academy nel maggio 1999) Lewis ricorda che l’italiano, come lingua d’intermediazione, venne usato fino agli inizi dell’Ottocento. Fu scritto in italiano, per esempio, il firmano con cui venne dato a Lord Elgin il diritto di trasportare in Inghilterra parecchi marmi del Partenone. E fu scritto in italiano il trattato fra Russia e Turchia di Küchük Kaynarja, firmato nel 1747. Al momento della firma esistevano quindi tre versioni (italiana, russa e turca), di cui la prima era quella riconosciuta da entrambi i Paesi come testo ufficiale.
Sulla assoluta corrispondenza dei testi, soprattutto nel caso delle comunicazioni diplomatiche correnti, era lecito tuttavia avere qualche dubbio. I dragomanni erano spesso prigionieri di guerra convertiti all’Islam, ebrei, armeni, greci del Fanar (il quartiere dove risiede il Patriarca di Costantinopoli), tutti generalmente noti in Europa come «levantini». Vivevano in Turchia, dipendevano dalla benevolenza dei loro datori di lavoro ed erano poco inclini a pregiudicare la propria vita trasmettendo con le loro traduzioni messaggi irrispettosi e sgraditi. Accadeva così che il dragomanno addolcisse l’imperiale arroganza con cui il Sultano trattava, quanto meno a parole, i capi degli Stati europei, e cercasse di attenuare la durezza di certe risposte occidentali.
Il declino dei dragomanni cominciò quando i governi occidentali preferirono affidare il compito della interpretazione a giovani funzionari che avevano appreso l’arabo o il turco nelle scuole di lingue orientali create in Europa fra l’Ottocento e il Novecento. In Italia, per il ministero degli Esteri, fu creato un ruolo degli interpreti e successivamente, con un Regio decreto del 1940, quello dei commissari tecnici per l’Oriente. Erano i dragomanni dello Stato italiano.

Corriere 25.1.15
Il San Francesco ritrovato: una «Vita» per fugare i misteri Assisi, povertà e peregrinazioni
di Paolo Di Stefano


André Vauchez, specialista di storia della santità medievale, afferma che, nel suo campo, si tratta della scoperta più importante dell’ultimo secolo. E non c’è da dubitarne. Ne ha dato notizia ieri «Le Monde» , in un ampio servizio di Catherine Vincent. Il titolare della ricerca è il medievista Jacques Dalarun, autore di numerosi saggi su San Francesco e su Santa Chiara, un’autorità nel campo degli studi francescani. A lui si deve il ritrovamento di una vita inedita del Poverello di Assisi.
La scoperta riapre la «questione francescana» e dunque ci costringe a fare un passo indietro per ripercorrere in breve una storia piuttosto accidentata che ci riporta agli antichi dissensi nell’ordine dei Minori, tra «conventuali» e «spirituali», da cui venne fuori una moltiplicazione di biografie del fondatore, tutte «politicamente» orientate a restituire un’immagine tendenziosa del santo e dell’Ordine. Nel 1260 (Francesco era morto nel ‘26) il Capitolo generale aveva affidato a San Bonaventura il compito pacificatore di scrivere una vita ufficiale del santo: la Legenda di Bonaventura, che si rivelerà contraddittoria e piena di fantasticherie, sarebbe stata approvata nel 1263 con l’impegno di distruggere le vite non ufficiali per mettere fine alle controversie.
L’autodafè fu purtroppo accuratamente eseguito gettando nello sconforto i futuri studiosi di fonti francescane. Ma nel 1768 fu rinvenuta una Vita prima di Francesco composta nel 1228, su sollecitazione di Papa Gregorio IX, dal francescano e fine scrittore Tommaso da Celano (1220 circa-1265), che aveva conosciuto il fondatore dell’Ordine. L’opera di Tommaso tendeva però a esaltare la figura del potentissimo frate Elia, ministro generale dell’Ordine. La delusione di molti seguaci impose al successore di Elia, Crescenzio da Jesi, di affidare nel 1244 allo stesso Tommaso una Vita secunda (ritrovata nel 1806) con la collaborazione di tre frati compagni di Francesco. Ne venne fuori una biografia incerta e inattendibile, sia nelle lacune che nelle interpolazioni. La decisione di espungere i miracoli avrebbe costretto Tommaso a rimediare, nel 1253, con un Trattato dei miracoli .
Ora, Dalarun ha trovato una redazione intermedia tra la prima e la seconda Vita . Si tratta di una ricerca avviata nel 2007, quando Dalarun pubblicò, attribuendola a Tommaso e datandola tra il 1237 e il 1239, una Leggenda umbra che raccontava gli ultimi due anni della vita del santo, cioè dall’episodio delle stimmate sulla Verna. Il sospetto era che si trattasse di un frammento di una vita più ampia, fino ad allora ignota. Infatti. Nel settembre scorso, lo studioso riceve una mail di un frate dal Vermont, Sean Field, che gli segnala l’imminente vendita all’asta di un manoscritto nel sito di una prestigiosa galleria di New York, Les Enlumineurs .
Il codice, detenuto da una private continental collection , contiene una Vita di San Francesco che include la Leggenda umbra . Il prologo si trova online. Nel decifrarlo, Dalarun scopre che l’autore dichiara di aver scritto la Vita prima: si tratta dunque niente meno che di Tommaso da Celano , il quale precisa che a raccontargli tutto è stato il famigerato Elia. Tommaso aggiunge inoltre che siccome alcuni lamentano che la Vita prima è troppo lunga, gli è stato chiesto di compendiarla: ed eccone il risultato, una Vita intermedia tra la prima e la seconda. A quel punto, Dalarun si rivolge alla direttrice del dipartimento Manoscritti della Biblioteca Nazionale di Francia, che afferra al volo l’importanza della scoperta e per 60 mila euro compera quella che diventerà la vera Vita secunda.
Il volumetto, 120 x 82 mm, contiene diverse altre opere, tra cui una serie di sermoni, le Ammonizioni di San Francesco e un commento del Padre Nostro. L’origine italiana (probabilmente un convento francescano dell’Italia centrale) di questa sorta di «biblioteca tascabile» è fuori discussione, secondo Dalarun, e la sua compilazione si colloca nel decennio 1230. Un’équipe di studiosi è al lavoro. Nel giro di un paio d’anni se ne saprà di più.

La Stampa 25.1.15
Nell’Egitto dei faraoni la prima Occupy
In un papiro conservato a Torino la più antica documentazione di uno sciopero: per diversi mesi gli operai della Valle dei Re fecero sit-in nelle tombe perché Ramesse III tardava a retribuirli
di Maurizio Assalto


«Oggi gli uomini della squadra hanno oltrepassato i cinque posti di blocco della tomba, gridando “Abbiamo fame! Sono già passati 18 giorni di questo mese!”, poi sono andati a sedersi nel retro del tempio funerario di Menkheperre».
Non fosse per la presenza della tomba, del tempio funerario, verrebbe da pensare a una manifestazioni di indignados, a una qualche esotica Occupy; mentre lo slogan «Abbiamo fame!» evoca piuttosto il ricordo delle ricorrenti rivolte per il pane nei Paesi del Maghreb, o magari le rivendicazioni della Francia prerivoluzionaria - quelle che ispirarono lo sciagurato sarcasmo attribuito a Marie Antoinette. Invece siamo in Egitto, Menkheperre è uno dei nomi del faraone Thutmosi III, vissuto trecento anni prima dei fatti narrati, e l’epoca in questione è all’incirca la metà del XII secolo a.C. O, come si datava allora, il 29° anno di regno di Ramesse III, più precisamente il decimo giorno del secondo mese di peret (l’inverno: una delle tre stagioni degli antichi Egizi), ossia gennaio.
«Abbiamo fame»
Così riporta diligentemente Amennakhte, scriba della tomba in costruzione per il faraone nella Valle dei Re, a Ovest di Tebe. Le sue annotazioni, che seguono giorno per giorno lo svilupparsi della vertenza, si possono leggere in uno dei testi più preziosi conservati al Museo Egizio di Torino, il cosiddetto Papiro dello sciopero: la più antica testimonianza al mondo di una astensione dal lavoro - se non la prima, certo uno delle prime, a giudicare dalle reazioni smarrite e contraddittorie delle autorità, palesemente impreparate a fronteggiarla.
Ai lavoratori che facevano sit-in perché da 18 giorni aspettavano la consegna delle razioni alimentari loro dovute, lo scriba e i sei funzionari subito accorsi non seppero fare altro che esortarli a riprendere il lavoro. Ma i dimostranti non cedettero: «Andatevene via, abbiamo delle ragioni da esporre al faraone». E quella notte la trascorsero nella tomba.
Il giorno dopo, riporta Amennakhte, «sono di nuovo passati, hanno raggiunto il varco del muro meridionale del tempio di Wesermaatre-setepenre» (Ramesse II), e qui qualche cosa hanno ottenuto, dalle mani dello scriba Pentaweret: 28 razioni di un certo tipo di focaccia dolce, 27 di un altro tipo, per un totale di 55. Ai dimostranti deve sembrare una presa in giro: s’ils n’ont plus du pain, qu’ils mangent de la brioche… E la reazione non si fa attendere.
Giorno 12, dopo aver passato la notte a manifestare davanti al tempio di Ramesse II, i dimostranti penetrano nell’interno, affrontati da Pentaweret e dai responsabili dell’ordine pubblico. Il capo della polizia Mentmose non sa come agire, si impegna a far venire il sindaco di Tebe. Qui il papiro è tormentato, in parte mutilo. Sul posto arrivano altri emissari dell’amministrazione per ascoltare le richieste dei lavoratori, e questi lo ripetono a chiare lettere: «È a causa della fame e della sete se siamo arrivati a questo punto: non abbiamo vestiti, né unguenti, né pesci, né verdure. Ditelo al faraone, il nostro signore perfetto, ditelo al visir, il nostro superiore [una sorta di primo ministro, ndr], così che ci siano consegnate le provviste».
La giornata lavorativa
Il fatto è che le provviste scarseggiavano. Ramesse III, sul trono da 29 anni, era un grande faraone, aveva respinto le incursioni dei Popoli del Mare, restaurato i templi, restituito al suo popolo l’orgoglio nazionale. Però tanti successi non erano stati senza prezzo: l’economia egizia stentava a riprendersi, le risorse di grano si stavano esaurendo. I preparativi per la Heb-Sed, il solenne giubileo del 30° anno di regno, diedero il colpo definitivo. E i primi a rimetterci, come sempre accade, furono i lavoratori.
Contrariamente all’ostinata leggenda che li vorrebbe tutti schiavi (questa condizione era limitata ai prigionieri di guerra e ai condannati per delitti di particolare gravità), nell’antico Egitto i lavoratori non se la passavano troppo male. In particolare gli addetti alle necropoli reali - artigiani altamente specializzati che annoveravano cavatori, tagliapietre, scultori, pittori, architetti, ingegneri, scribi - godevano di un trattamento di indubbio favore. Quelli che lavoravano nella Valle dei Re erano alloggiati nel villaggio di Sed-Maat, Sede della Maat, ossia della Verità (oggi Deir el Medina, sul lato occidentale del Nilo, davanti a Luxor), un microcosmo fornito di tutti i servizi, dalle scuole al tribunale all’assistenza medica. Da un altro documento conservato all’Egizio di Torino, il Giornale della necropoli di Tebe, sappiamo che lavoravano a decadi, con tre giorni di riposo per ognuna, otto ore al giorno per un totale di 168 ore al mese: lo stesso di un operaio di oggi (che, quando il mese lavorativo è di 22 giorni anziché 21, addirittura li supera di 8 ore). Non avevano ferie, ma le festività religiose e civili erano numerose, e potevano assentarsi dal lavoro per motivi di salute o di famiglia (lutti, ma anche l’impegno di preparare la birra, o perfino, come veniamo a sapere a proposito di un certo Tenermontu, per le botte ricevute dalla moglie). Il salario - non esistendo la moneta - era corrisposto in natura, in misura diversa a seconda delle funzioni, in grano, orzo, verdure, carne, tessuti e unguenti.
Torniamo agli scioperanti di Deir el Medina. Alla fine del 12° giorno, il terzo di astensione dal lavoro, le razioni del primo mese di peret sono finalmente consegnate. Ma intanto sta finendo il secondo senza che si veda niente. Le agitazioni riprendono, anzi non si sono mai interrotte. Si va avanti nel caos in un alternarsi di ordini inascoltati, promesse, minacce, con il capo della polizia Mentmose che cerca di calmare gli animi. Il giorno 16 arriva l’ok alla distribuzione di mezzo sacco di orzo per ognuno. Oggi si direbbe che il rattoppo è peggio del buco: i dimostranti oltrepassano di nuovo i posti di blocco e danno vita a una fiaccolata notturna. Le autorità sono preoccupate, il giorno 17 le razioni del secondo mese vengono distribuite. Amennakhte precisa: «7 sacchi e mezzo ai capisquadra, 3 e tre quarti agli scribi, 5 e due quarti agli operai…».
«Indignati» ante litteram
Per qualche tempo la vertenza sembra risolta. Ma il mese successivo si torna al punto di prima. I lavoratori sono ancora sul piede di guerra, nuovo sit-in nella tomba (di Ramesse II?) e questa volta, di fronte alla polizia che fa la voce grossa, uno di loro, un certo Mose figlio di Anakhte, risponde per le rime che se proveranno a trascinarlo via lui non andrà a dormire prima di avere messo a punto un piano per saccheggiare una tomba. La situazione rischia di sfuggire di mano, adesso le rivendicazioni non sono più soltanto salariali: «In verità», spiegano due rappresentanti sindacali, Qenna figlio di Ruta e Hay figlio di Huy, «non è per la fame che abbiamo oltrepassato i blocchi: abbiamo qualche cosa da far sapere al faraone, qualche cosa di brutto è stato commesso in questa sede». E così i dimostranti si rivelano davvero «indignati» ante litteram.
L’allusione è ai casi di corruzione e malversazione che sono frequenti in quell’epoca non meno che nella nostra. In aprile, primo mese di shemu (estate), la mobilitazione è sempre in corso, e il giorno 16 l’operaio Penanuke rilascia una dichiarazione esplosiva: denuncia che un certo Weserhat e lo scriba Pentaweret rubano materiale lapideo dalla tomba di Ramesse II, e che lo stesso Weserhat tiene nella sua stalla un bue con il marchio del tempio funerario del medesimo faraone, e che ha commesso adulterio con tre signore di cui il denunciante non si fa scrupolo di spiattellare i nomi, una della quali era la moglie del suo degno compare Pentaweret. E minaccia di andare a riferire tutto al faraone e al visir.
Il papiro non ci dice come andò a finire. Sappiamo però che durante tutta la XX dinastia, nei secoli successivi, gli episodi di corruzione, le ruberie, le difficoltà economiche e i conseguenti tagli salariali e gli inevitabili scioperi divennero endemici. Tutte cose che suggeriscono facili confronti. Come avrebbe osservato Tucidide molto tempo dopo, nel proemio della sua storia, l’anthrópinon, ossia la natura umana, non cambia mai. Tutto il mondo è paese. E, come ci ha insegnato Croce, tutta la storia è storia contemporanea.

Corriere La Lettura 25.1.15
L’eterno conflitto : dai romani al califfato
Il III secolo d.C. fu definito l’«età dell’angoscia», ora ci frastorna lo scontro di civiltà Ma è il solito urto tra privilegiati e diseredati, che talvolta emerge con furore mistico
di Luciano Canfora


All’inizio del XXI secolo è nato, contro ogni aspettativa, un «Califfato» che profetizza la fine dell’Occidente, così come nell’ultimo ventennio del secolo XX il khomeinismo profetò la fine dell’Urss. Nel momento più acuto della lunga crisi dell’impero romano (III secolo d.C.) sorse una unità statale possente, che staccò pezzi significativi dalla compagine dell’impero: Siria, Egitto, Asia Minore. Fu il regno di Zenobia di Palmira, che costrinse l’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) a una dura guerra per riconquistare l’Oriente e in particolare l’Egitto, al prezzo — tra l’altro — della distruzione di un intero quartiere di Alessandria e della sua mitica biblioteca.
Difficile indicare un più drammatico simbolo di «decadenza». Quasi un secolo dopo, uno storico siriaco che scriveva in latino ed era rimasto pagano, Ammiano Marcellino, rievocava la terribile e distruttiva vicenda di Alessandria nel XXII libro delle sue Storie . Oggi alcuni pensano che il mondo stia vivendo un nuovo «terzo secolo»: sta davvero finendo una civiltà?
Ogni epoca ha udito paventare o profetare la decadenza. Questo potrebbe portare a concludere che la decadenza non esiste e che, semmai, è la proiezione dell’allarme di alcuni o di molti, o anche dell’«angoscia» di una parte, più sensibile e più pensante.
L’allarme cresce al cospetto di grandi rivolgimenti. Nell’età delle guerre civili romane, Lucrezio ravvisa un indizio di decadenza persino nella realtà fisica: un tempo la terra produceva corpi più grandi, giganteschi. Molti anni fa, Santo Mazzarino, in un piccolo libro geniale, La fine del mondo antico (1959), apriva l’ultimo capitolo con i versi di Verlaine: «Io sono l’impero alla fine della decadenza, che guarda il passaggio dei grandi barbari bianchi, componendo acrostici indolenti» (1883). Qui torna il motivo della grandezza dei corpi. I popoli nuovi sono anche fisicamente «più grandi», e l’impero in decadenza li osserva indolente. Aggiungiamo che ciò che appare «decadenza» ad alcuni protagonisti o testimoni non è affatto tale per altri. Quelle che, nella prospettiva dell’assetto imperiale romano, e nella percezione dei suoi ceti dirigenti, nonché di una parte della storiografia moderna, erano le «invasioni barbariche», nella storiografia germanica sono le «migrazioni di popoli»: fenomeno dunque positivo che sta alla base della compenetrazione latino-germanica da cui nasce il mondo moderno.
Crisi acute — all’apparenza irreversibili — scandirono la storia della compagine romana ben prima del «fatale» III secolo. Orazio, testimone diretto del riaprirsi delle guerre civili dopo la morte di Cesare, prevede, nell’ Epodo XVI , che i barbari verranno ad abbeverare i loro cavalli in Campidoglio. Analoga fu la percezione, tra i contemporanei, dell’anno 69 d.C., tra la morte di Nerone e l’avvento di Vespasiano: riesplose allora la guerra civile e parve profilarsi il fallimento non solo della dinastia giulio-claudia, ma della costruzione augustea come tale. E così dalla crisi esplosa alla morte di Commodo (180-192), emerse, nel sangue, la dinastia severiana; e, all’estinguersi di questa, un «semibarbaro», Massimino il Trace (235-238), salì sul trono dei Cesari.
Non sarà inutile ricordare che proprio la vicenda del breve e devastante governo di Massimino, drammatizzata da Erodiano nella Storia dopo Marco , fu — insieme all’esperienza della rivoluzione russa — tra gli spunti che misero in moto la fantasia storiografica di uno dei grandi del Novecento: Mikhail Rostovtsev. Per lui — ormai esule — nell’opera sua più celebre, la Storia economica e sociale dell’impero romano (1926), la rivoluzione russa del 1917 aveva rappresentato l’analogo della sommersione della elevata civilitas ellenistico-romana da parte della semibarbara massa contadina.
La scansione per secoli, si sa, è sempre approssimativa. Nondimeno è lecito dire che la percezione del tramonto di un mondo e l’aspettativa di una nuova, salvifica, linfa spirituale furono sentimenti diffusi nel tempo che va dal sempre più stanco governo di Marco Aurelio (161-180 d.C.) alla rifondazione dello Stato ad opera di Diocleziano (284-305 d.C.). Perciò quel secolo fu definito da un grande storico irlandese, Eric Dodds (1893-1979), «età dell’angoscia», in un famoso ciclo di conferenze poi divenute libro (1964).
Ernest Renan si era spinto oltre e aveva parlato di fine del mondo antico già con Marco Aurelio. Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia di Dodds cercava di cogliere i patemi e le aspettative che accomunavano le varie correnti spirituali dell’epoca al di là della distinzione, non di rado arbitraria, tra «pagani» e «cristiani».
L’iniziativa di Eugenio La Rocca di dar vita, a Roma, ai Musei Capitolini, a una grande mostra, ricca di oltre 200 pezzi, dedicata appunto al «secolo dell’angoscia», non soltanto offre materiali di primaria importanza, illustrativi di quell’epoca, ma, com’è giusto, rimette in discussione la definizione stessa, così fortunata, di Dodds. La Rocca mette alla prova la tenuta storiografica di tale concetto nell’ambito storico-artistico. Dalla sua analisi risulta chiaro quanto sia deludente il meccanicismo di chi ha posto in relazione la «crisi del III secolo» con le nuove forme di espressione artistica, in particolare la ritrattistica e il gigantismo dei sarcofagi. Una impostazione così sanamente storicistica si coglieva già nel libro «giovanile» di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Storicità dell’arte classica (1943) di cui parlò Giorgio Pasquali, con schietto entusiasmo, nel «Corriere della Sera» del 24 giugno di quell’anno: «Per Bandinelli — scrisse Pasquali — l’ellenismo figurativo dura a Roma da Silla a Traiano; sotto Traiano comincia un’arte nuova, romana, che giunge sino a Teodosio». È dunque già nel II secolo, e sempre più dalla metà in avanti, che si produce una trasformazione profonda, che investe i più diversi ambiti: artistico, religioso, filosofico, politico. E prosegue ben oltre Diocleziano.
Lo stesso Dodds, in un precedente lavoro divenuto ben presto celeberrimo, I Greci e l’irrazionale (1950), aveva infranto l’incantesimo «apollineo»: aveva fatto emergere dalle nostre fonti, spesso, in precedenza, lette selettivamente o non capite, il magma cultural-religioso che, nel mondo greco, costituiva una sorta di realtà alternativa rispetto a quella razionale e luminosa su cui fa perno la lettura classicistica. Quel magma ebbe sue forme, si nutrì di culti misterici e di culti stranieri (Tracia e Frigia ne furono le due aree matrici) i quali guadagnarono terreno nei ceti cosiddetti «bassi», ma attrassero anche quelli «alti».
Di questa genealogia intellettuale, un ramo fu Il tramonto dell’Occidente di Spengler (1918), ma è giusto ricordare che l’intuizione di partenza era racchiusa nel memorabile ancorché indigesto saggio di Nietzsche sull’ Origine della tragedia , là dove l’allora filologo fissava, con un colpo d’ala, le due categorie sempre confliggenti del «dionisiaco» e dell’«apollineo». In momenti di grave crisi, quel magma fuoriesce come lava.
La prospettiva più aderente alla realtà è dunque quella che considera forze e pulsioni siffatte come stabilmente e «pericolosamente» latenti. L’«angoscia» non è appannaggio di un determinato secolo. Il nostro presente viene frastornato dalla dottrina del «conflitto di civiltà», e la cronaca apparentemente ne ribadisce la fondatezza. Ma, a ben vedere, si tratta dell’eterno conflitto tra l’alto e il basso, tra privilegiati e diseredati, che attraversa epoche e continenti; e che, quando i programmi etico-politici più razionali vengono sconfitti, si esprime come furore mistico-religioso-palingenetico.

Corriere La Lettura 25.1.15
«Solo un soprassalto salverà l’identità della Francia»
L’allarme di Alain Finkielkraut: prevale l’ossequio dell’Altro, l’antisemitismo dilaga
intervista di Stefano Montefiori


«Sotto la lente deformante del romanticismo verso gli altri, la nuova norma sociale disegna una Francia in cui l’origine non ha diritto di cittadinanza se non a condizione di essere esotica, e in cui una sola identità è tacciata d’irrealtà: l’identità nazionale». Ecco perché, secondo il filosofo Alain Finkielkraut, quella francese è un’identità infelice. È uno dei passaggi chiave di un saggio che, da quando è uscito in Francia nell’ottobre 2013, sta al centro del dibattito politico e sociale. L’identità infelice esce adesso in Italia per Guanda, e «la Lettura» ha incontrato il sessantacinquenne filosofo per parlare dei temi del suo libro — integrazione, immigrazione, Europa, Islam — alla luce degli attentati, e della grande marcia dell’11 gennaio, che ha visto scendere in piazza milioni di persone in tutta la Francia.
Alain Finkielkraut, qual è il suo giudizio sui fatti di Parigi?
«La manifestazione è stata enorme. Direi che i francesi, onorando le vittime del terrorismo, hanno sotterrato il dopoguerra. Un altro periodo di storia si apre, cambiamo epoca. Lo spirito del Sessantotto è morto».
Perché?
«Il Sessantotto e gli anni successivi sono stati, in Francia, una specie di combinazione di radicalismo e spensieratezza. Un radicalismo fondato sull’idea che la storia non potesse più essere tragica. Ed ecco che un nemico vero arriva a falciare i giornalisti di “Charlie Hebdo” , interpreti di quello spirito beffardo. Il popolo si mobilita per rendere loro un ultimo omaggio, che si accompagna con il canto della Marsigliese e la celebrazione dei poliziotti. Nel Sessantotto gridavamo: “Crs Ss!” (i Crs sono reparti della polizia, ndr ). L’11 gennaio invece le forze dell’ordine sono state applaudite. Perché avevamo bisogno di essere protetti».
Lei vede oggi all’opera in Francia un «partito del Soprassalto» e un «partito dell’Altro», ed è stato un precursore del primo. Può descriverlo?
«Per la prima volta i giornalisti, i media, raccontano l’ampiezza del movimento ostile a “Charlie”, quelli che anche in Francia dicono Je ne suis pas Charlie . Tutto questo esiste da tempo. Sappiamo dal 2002 che ci sono territori perduti della Repubblica. L’antisemitismo non è solo l’opinione dominante nelle nostre banlieue, ma un vero codice culturale, i professori non possono più insegnare la Seconda guerra mondiale. Questa realtà era taciuta per paura di essere tacciati di islamofobia. Adesso invece si è prodotto, e non so quanto durerà, un vero disvelamento. Questo è il partito del Soprassalto».
E il partito dell’Altro?
«Non ha detto la sua ultima parola. Il premio Nobel per la letteratura Jean-Marie Le Clézio ha appena pubblicato una lettera a sua figlia in cui sostiene che la vera guerra è quella che dobbiamo condurre contro l’ingiustizia. Il partito dell’Altro è questo movimento rousseauiano radicato nella nostra società, secondo il quale la fonte di tutti i mali del genere umano è la dominazione. Dunque, un dominato è innocente anche quando è colpevole, e un dominante è colpevole anche quando è innocente».
Chi vincerà?
«La battaglia ideologica è cominciata, non so ancora dire quale sarà il suo esito. Ma bisogna porre la questione dell’immigrazione. L’antisemitismo e il negazionismo regnano, oggi, nel mondo arabo-musulmano. Una stragrande parte dell’opinione pubblica egiziana è certa che i massacri dell’11 settembre siano un complotto del Mossad».
Crede che questo antisemitismo venga importato in Francia?
«L’immigrazione in Francia è soprattutto musulmana e araba. Più vivranno in Francia delle persone formate da questo tipo di discorso, meno sarà possibile fare loro intendere ragione. Se si continua così tra 20 anni, 30, diciamo tra 50 anni, gli ebrei qui non avranno più il loro posto».
Lei parla dell’immigrazione, eppure i terroristi islamici che hanno colpito a Parigi sono nati in Francia, non erano appena arrivati.
«D’accordo, sono nati in Francia ma sono figli dell’immigrazione. Viviamo in una specie di separazione territoriale e culturale, è quel che mostra molto bene il geografo Christophe Guilluy: il popolo autoctono non vive più in banlieue, ma al di là di essa, in quella che lui chiama la zona peri-urbana».
L’impressione, però, è che lo Stato francese non sia così debole: la legge sul velo, il divieto di burqa, la laicità ribadita.
«Queste leggi sono state denunciate — non solo da accademici americani come Martha Nussbaum o Charles Taylor, ma anche da tutta una parte di opinione pubblica francese — come islamofobe. Anche “ Charlie Hebdo” è stato accusato, negli ultimi anni, di razzismo e islamofobia. Il minimo sarebbe, oggi, farla finita con questa etichetta infamante».
Accanto a queste forme di separazione non pensa che molti musulmani siano integrati, a Parigi o in altre città?
«Certamente. Questa minoranza che si integra soffre del radicalismo islamico, si sentono sospettati e pagano per gli altri. Una cosa terribile. Ma si dice che gli integrati rappresentino l’immensa maggioranza… Non lo so. Se fosse così, la marcia dell’11 gennaio sarebbe stata in effetti il trionfo della diversità, cosa che non è stata. Era invece etnicamente molto omogenea».
Lei viene spesso rimproverato di alimentare un clima poco propizio all’integrazione, le sue previsioni di sventura sono definite profezie che si auto-avverano.
«Sì, certo, siamo io e gli altri come me a fabbricare l’islamismo radicale… Io cerco di seguire la grande indicazione di Péguy: dire quel che si vede e soprattutto vedere quel che si vede. Non minimizzo i rischi di razzismo. Sì, certamente, è un pericolo che si arrivi a trattare qualsiasi musulmano come un invasore, un nemico, un jihadista potenziale: sarebbe instaurare da noi lo spirito del pogrom. Bisogna lottare nel modo più implacabile contro simili derive. Ma è l’antisemitismo musulmano che oggi non si vuole riconoscere».
Come aiutare l’integrazione dei musulmani che sono già qui?
«Bisogna affermare che un certo numero di cose non sono negoziabili, ed essere intransigenti con chi rifiuta di stare al gioco. In particolare a scuola. La difficoltà è estrema, perché le nuove tecnologie vengono in aiuto all’oscurantismo. I giovani che evocano una montatura a proposito della strage a “ Charlie Hebdo” brandiscono lo smartphone come prova delle loro parole. Internet offre tutto, e io posso inventarmi la realtà di cui ho bisogno per essere quel che sono e continuare a credere a quel che credo».
Alain Finkielkraut, lei si è spesso lamentato del «pensiero unico» e del politicamente corretto, ma le sue idee ora sono più accettate. Di sicuro più di quanto non accadesse per esempio dieci anni fa.
«Nel 2005, quando rifiutavo di interpretare la sommossa delle banlieue come una rivolta contro l’ingiustizia della République, ero molto isolato. Lo sono meno oggi, certamente. La mia inquietudine è che la lucidità alla fine sta arrivando, ma quando forse è troppo tardi».

Corriere La Lettura 25.1.15
Tanta voglia di Leopardi
Poeta, filosofo, ma anche maestro di compassione
Il filologo Antonio Antonio Prete: troppo a lungo ridotto a «pessimista»
intervista di Paolo Di Stefano


Non ci si stanca mai di tornare a Giacomo Leopardi. Lo sa bene Antonio Prete, che da oltre trent’anni studia quel particolare rapporto tra meditazione e poesia che fa dell’opera leopardiana un unicum pressoché labirintico. Da Il pensiero poetante (1980) a Il deserto e il fiore (2004), Prete (che ha insegnato Letteratura comparata a Siena per lungo tempo) ha indagato nel laboratorio di Leopardi, insieme frammentario e progettuale, mettendone a fuoco l’incessante mobilità attorno a motivi ricorrenti come il desiderio, il piacere, la ricordanza, la critica alla civiltà, la finitudine e l’infinito, il rapporto con gli antichi, la lontananza dalla natura e la sua evocazione. Il giovane favoloso , il film di Mario Martone, ha portato sulla scena il poeta e l’uomo, secondo alcuni semplificandone la complessità quasi biologica.
Che cosa ne pensa, professore?
«Aver contribuito a mettere in dubbio lo stereotipo scolastico del pessimismo è un merito del film, che ha anche mostrato come in Leopardi l’abito critico, non rassegnato, fosse insieme vitale e corrosivo, affabile e ironico. La formuletta del pessimismo ha impedito di cogliere come la scrittura di Leopardi sappia tenere insieme la rappresentazione del tragico e la musica del verso, lo sguardo sulla finitudine del vivente e l’apertura costante del desiderio, oltre che la necessità dell’immaginazione. E tutto questo accompagnato da un amore sconfinato per il sapere. Un amore non astratto, ma rapportato sempre all’esistenza individuale, al respiro dei viventi, uomini e animali, al legame profondo che unisce tutte le forme della natura, dalle piante alla luna, dal ritmo della nostra vita quotidiana allo spalancarsi delle galassie».
Ciò non toglie che nel film ci siano alcuni elementi caricaturali.
«Il film non va considerato come un saggio critico o una ricerca biografica, ma appunto come film, nel ritmo del suo linguaggio, della sua finzione. Se ci si mette dal primo punto d’osservazione è facile mostrare alcune riserve, tra cui l’eccessivo indugio sulla deformità di Giacomo o la scarsa veridicità di personaggi come Silvia o Fanny o Ranieri».
A più di trent’anni dal suo «Pensiero poetante», com’è cambiata la prospettiva sulla poesia filosofica o filosofia poetica di Leopardi?
«Il proposito che m’ero posto scrivendo Il pensiero poetante era motivato dalla scena degli studi leopardiani come si presentava ancora negli anni Settanta, quando poesia e filosofia apparivano due cammini separati. Mi interessava invece leggere in Leopardi il reciproco interrogarsi di filosofia e poesia. Volevo cogliere la dimensione conoscitiva dentro la forma poetica e la presenza del poetico nel definirsi di un pensiero, dei suoi modi. Lo Zibaldone era il luogo, il mirabile “labirinto”, in cui quel pensiero, sempre in movimento, andava disegnando una mappa della conoscenza insieme corporale e fantastica, fisica e poetica. Oltre che una morale inappropriata alla sua epoca, fragile, disutile, fantasiosa. E una critica della civiltà, dei suoi aspetti di astrazione e di violenza. Una morale, e una critica, per la nostra epoca. Ma in tutta la scrittura leopardiana respira una conoscenza della condizione umana che non separa il tragico dalla leggerezza, la disillusione dal “sorriso” della poesia, il sapere del limite dal desiderio “illimitato”. Negli ultimi trent’anni la scena è cambiata moltissimo».
Gli studi su Leopardi si sono sempre divisi tra visioni opposte: non solo il poeta versus il filosofo, ma anche il romantico versus l’illuminista, il pessimista storico versus il pessimista cosmico, il progressivo versus il nichilista... Oggi?
«Gli studi sul pensiero leopardiano hanno avuto una grande fioritura: si sono indebolite le interpretazioni diciamo “a tesi”, cioè preoccupate di privilegiare un Leopardi materialista piuttosto che esistenzialista, neoilluminista piuttosto che romantico. Tutto questo ha lasciato il campo a indagini ravvicinate su aspetti e temi e figure del pensiero. Le tante traduzioni in lingue straniere hanno favorito e allargato le indagini. In un certo senso Leopardi ha cessato di essere solo un classico della letteratura: antropologi, linguisti, scienziati ne interrogano le idee. Diversi filosofi hanno attraversato la sua opera».
Tra i suoi interessi critici ci sono alcuni sentimenti, come la nostalgia, che derivano dalla lettura assidua non solo di Leopardi, ma anche di Baudelaire. Come vengono declinati in letteratura?
«Sono stato anche attratto dalla riflessione su alcuni sentimenti, sul loro linguaggio, sulla loro rappresentazione. Per la nostalgia mi interessava seguire, oltre che il passaggio da malattia a sentimento, il suo trasformarsi in lingua della narrazione e della poesia: in effetti la scrittura trasmuta l’impossibilità del ritorno, del nostos , che è l’assillo del nostalgico, e il suo algos , il suo dolore, in un nuovo tempo e ritmo, insomma dà presenza a quel che non ha più presenza, riesce a portare nella lingua una vita, e un sentire, che erano confinati nell’impossibile. La nostalgia nasce dal fatto che il tempo è irreversibile. Si può tornare a un luogo, ma non al tempo vissuto in quel luogo. Noi stessi siamo cambiati quando torniamo in un luogo, e quel luogo stesso non è più quello che abbiamo abitato. Ma questo impossibile ritorno invece, nella scrittura, si dischiude con una sua energia di vita e di rappresentazione: il tempo che non c’è più si fa tempo del raccontare, le immagini cancellate prendono movimento e lingua. Ecco perché bisogna tener vivo il senso della nostalgia, e non piegarlo nel rimpianto, ma liberarlo nella narrazione, anche orale. Siamo fatti di quel che non c’è più. Evocare quello che non c’è più dilata l’esistenza, il suo tempo e il suo spazio. Il suo linguaggio. Alla nostalgia regressiva si deve opporre una nostalgia creativa, attiva».
E la lontananza? Oggi sembrerebbe cancellata dalla tecnologia...
«Oggi è resa domestica, prossima, fruibile in ogni istante sul monitor e sul display (l’avverbio greco teēle , lontano, va a comporre la tecnica del nostro tempo, la telematica, la televisione, il telefono). Ho cercato di riflettere su figure come l’addio, l’orizzonte, il cielo, ma anche sulla nascita della cartografia fantastica, sul “vedere da lontano”, sulla domanda leonardesca relativa al come dipingere la lontananza. E questo per mostrare come la letteratura e le arti tengano aperto il tempo e lo spazio della lontananza, ne attraversino la profondità e l’estensione. Mentre il rischio oggi è che ci si illuda di vivere la lontananza, mentre semplicemente la si consuma. Non sopprimere la lontananza mi sembra un compito all’altezza della nostra epoca. Il che vuol dire tenere viva l’immaginazione, non subire la fascinazione oleografica del lontano esotico e mercantile. E televisivo».
Nell’ultimo suo libro, lei si concentra sulla compassione. Non le sembra un sentimento fuori moda?
«La compassione è un grande tema leopardiano: la relazione con il dolore dell’altro. Un sentimento che si svolge nella grande scena in cui tutti i viventi sono uniti dalla loro finitudine, dunque dalla sofferenza, ciascuno con la sua singolarità — di individuo, di specie — e con i suoi desideri, o con le sue ferite. Se la filosofia ha spesso mostrato gli aspetti ambigui, ipocriti, compiaciuti della compassione, la letteratura e le arti hanno invece rappresentato i modi del suo manifestarsi, hanno descritto la lingua, i gesti, la tensione conoscitiva propria di questo sentimento. Hanno mostrato come nel cuore del tragico — pensiamo alle guerre — e contro il furore dell’annientamento, contro la spietatezza, si possa levare, proprio a partire dallo sguardo sul dolore altrui, il tu di una prossimità o fraternità».
La letteratura dunque ci aiuta a essere più compassionevoli?
«Certo, la letteratura e le arti aiutano a percepire l’altro nella sua singolarità vivente e senziente, e dunque anche nel suo dolore. La compassione diventa riconoscimento del legame che trascorre tra tutti gli esseri viventi, compresi gli animali. Anzi proprio l’animale, con la sua innocenza, denuncia l’immensa rimozione che l’uomo ha compiuto nei confronti della sua presenza, del suo dolore. L’assenza di pietà è radice della violenza. La pietà è invece percezione dell’altro, e di sé. Oggi la spietatezza torna in campo in molte forme. È urgente opporle il senso della compassione».
Che cos’è che la spinge a scrivere poesie in proprio?
«Il fatto che la poesia è l’esperienza di una lingua intensiva, fortemente interiore, necessaria. E ha a che fare con l’impossibile: è vera, come diceva Baudelaire, “soltanto in un altro mondo”. La poesia, o meglio il poetico, è la sostanza ricorrente delle mie interrogazioni, e forse anche la ragione che mi spinge a scrivere: nella forma del saggio, del verso, del racconto eccetera. E anche nella forma della traduzione. Dove quel che è messo in campo è ancora il rapporto con l’altro. Nasce così un nuovo testo poetico, ma all’ombra dell’altra lingua».

«Nietzsche definì Leopardi «il più grande prosatore del XIX secolo»
Corriere La Lettura 25.1.15
Leopardi
Il più grande pensatore (e non solo) dell’800
Era uno di noi? No
di Emanuele Trevi


Senza mezzi termini, Nietzsche definì Leopardi «il più grande prosatore del XIX secolo». Credo che non si trattasse di una provocazione. Riconosceva in Leopardi qualcosa che gli assomigliava in maniera profonda e vincolante. Una prodigiosa capacità di sovvertire i luoghi comuni e le abitudini del pensiero in entrambi si era sviluppata nella più severa e conservatrice delle palestre mentali: la filologia classica. Un’indefessa attenzione al significato delle parole li aveva trasformati in eretici e in fin dei conti in emarginati. Furono talmente soli che la loro solitudine risalta più sul metro delle amicizie che delle inimicizie, perché anche coloro che li compresero e li ammirarono rimasero molto al di sotto delle vette che avevano raggiunto. Si può immaginare che Nietzsche, quando parla del «prosatore» Leopardi, non lo voglia contrapporre all’amato Stendhal, incapace di scrivere versi, né voglia dichiarare una preferenza per le Operette morali a scapito dei Canti . Il «prosatore», in qualunque maniera si esprima, è colui che antepone la verità dei fatti della vita a ogni forma di consolazione.
Questo amore della verità gli impedisce ogni forma di compromesso con il mondo, nel quale non ha chiesto di nascere e che di sicuro non è stato creato per lui. Ma soprattutto, l’esistenza, se considerata con occhi spogli da illusioni e ottimistiche chimere, non prevede nessun tipo di progresso. La vita naturale è cieca ripetizione, così come tutte le ideologie politiche che aspirano a una felicità collettiva poggiano su una premessa illogica. Come si può immaginare una «massa» di uomini felici, scrive Leopardi in una famosa lettera, se quella «massa» è composta da singoli individui, che non possono che essere infelici? Il 5 dicembre 1831, quando scrive queste parole a Fanny Targioni Tozzetti, Leopardi ha raggiunto il vertice della sua consapevolezza umana e filosofica. È davvero il più grande «prosatore», e pensatore, del suo tempo: un uomo che punta i piedi, che sa che il male è il male e che mai si potrà mischiare al bene in un’improbabile sintesi, religiosa o politica che sia. Che cosa resta da fare? Le soluzioni non possono che variare a seconda dei singoli caratteri.
Quanto a lui, ha deciso di imitare «i Turchi» con la loro sana abitudine «di sedere sulle loro gambe tutto il giorno, e guardare stupidamente in viso questa ridicola esistenza». Bisogna sempre stare attenti all’italiano di Leopardi, così vicino alle più pure sorgenti dei significati delle parole. Così, quando in una poesia definisce la vita «stupenda», significa che la vita suscita stupore. E il contemplare «stupidamente» il ridicolo dell’esistenza sarà tutt’altro che un atteggiamento stupido. Ma come poteva essere tollerato, questo impareggiabile «Turco», finito come un grano di pepe nella marmellata ottimista del suo tempo? E non si tratta solo dell’ingenuo e fervido Ottocento. La realtà è che ancora oggi quell’uomo spietato non lo possiamo tollerare. Continuiamo a interpretarlo tirandolo per la giacca. La gran parte della critica leopardiana è un immane tentativo di razionalizzazione e addomesticamento. In tutte le salse: incredibilmente, non sono mancate la socialista e addirittura la cattolica. Ma non è vero niente: lui non era dei nostri, non era come noi. Non ci teneva minimamente.

Corriere La Lettura 25.1.15
La libertà prima di tutto, vero Brecht?
di Roberto Galaverni


Una nuova edizione dei versi politici dell’autore tedesco, cantore del comunismo
Josif Brodskij riteneva Wystan Auden la mente più grande del XX secolo. Solo su un punto pensava che Auden fosse caduto in errore: nel considerare Bertolt Brecht (Augusta, 1898-Berlino Est, 1956) uno dei tre-quattro poeti maggiori del secolo. Senza dubbio Brodskij, prima internato poi espulso dalla Russia sovietica, aveva buoni motivi storici e biografici per avversare un poeta difensore e, in alcuni casi, celebratore del comunismo come Brecht.
Ma è vero che, anche più profondamente, la distanza tra i due si deve ricollegare a due diverse, forse inconciliabili concezioni della poesia, a due diverse estetiche, insomma. Una, quella a cui appartiene Brodskij, che vede nel procedimento creativo e nella poesia un momento d’indipendenza, diciamo pure di libertà, rispetto a qualsiasi predeterminazione ideologica; l’altra, quella di cui Brecht è stato il principale interprete novecentesco, che considera invece la poesia come un mezzo, una possibilità strumentale a cui si può ricorrere per contribuire a portare l’eguaglianza tra gli uomini.
Sto semplificando parecchio, ma se per Brodskij la libertà nasce con la poesia, per Brecht, diciamo, non si può parlare di libertà finché è necessario un intervento attivo anche della poesia in vista della sua costruzione.
Credo che questa alternativa torni ad affacciarsi ogni volta che si rilegge un poeta come Brecht. O così, almeno, è capitato a me nel rileggere le poesie che Enrico Ganni ha raccolto nelle Poesie politiche , uscite da poco per Einaudi. La poesia di Brecht, questa almeno è la mia esperienza, si fa leggere con una specie di spia d’emergenza accesa, come non capita con altri poeti. Non della sua statura, almeno. E questo di per sé dice già qualcosa della natura sui generis della sua poesia: l’insistenza ideologica, la divisione del mondo tra oppressori e oppressi, le affermazioni categoriche, senza mezze misure e senza ritorno, la voluta eliminazione della complessità psicologica e della particolarità individuale in favore di categorie e unità di misura sovra-personali, e via dicendo.
Se la veglia critica è una delle finalità che i versi di questo poeta si propongono, va riconosciuto allora che Brecht coglie molto spesso nel segno. Tanto più che questo suo verso che non vuol mai essere fine a se stesso, va di pari passo con alcune tra le sue qualità più riconosciute: il senso lungo del tempo, l’accordo dell’uomo coi ritmi della natura, lo stupore per la gentilezza degli uomini, la semplicità e insieme l’evidenza dei particolari — oggetti, situazioni, gesti — che costellano la sua poesia. In pochi poeti la materia, gli elementi, quelle che potremmo indicare genericamente come le cose, pesano così tanto.
A me pare, insomma, che tanto più nelle sue poesie più efficaci l’ideologia venga riportata, o meglio ancora nasca come a un livello elementare (così penso che Asor Rosa sia nel giusto quando nella sua introduzione sostiene che la visione di un mondo diviso tra sopra e sotto precede comunque la lezione del marxismo), quasi corrispondesse a una condizione di natura: «Io, Bertolt Brecht, vengo dai boschi neri./ Mia madre mi portò nelle città/ quand’ero nel suo grembo. E il freddo dei boschi/ fino a che morirò non m’abbandonerà».

Il Sole Domenica 25.1.15
L’anno della luce
Il 2015 fotone dopo fotone
Dall’«Ottica» di Ibn al-Haitham di mille anni fa all’ottica quantistica di oggi, inaugurata da Einstein nel 1905
di Vincenzo Barone


Sosteneva Aristotele che gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza. Lo dimostrerebbe il fatto che, tra tutti i sensi, quello che di gran lunga preferiamo è la vista, che più degli altri «ci fa acquistare conoscenza e ci presenta con immediatezza una molteplicità di differenze». Aristotele non aveva tutti i torti. La scienza, in fondo, è un tentativo (ben riuscito) di organizzare in uno schema di pensiero ciò che si vede, e di rendere visibile (all’occhio e alla mente) l’invisibile. Ma, per vedere, è necessario che un raggio di luce – o, se si preferisce, un fascio di fotoni, i quanti di luce – raggiunga i nostri occhi, o i nostri strumenti di osservazione. Non stupisce quindi che la luce sia da sempre associata al sapere e alla conoscenza, e che essa stessa sia uno dei principali oggetti di indagine scientifica.
Per queste ragioni di ordine culturale, ma anche perché le tecnologie basate sulla luce sono di fondamentale importanza per la vita degli individui e delle società, le Nazioni Unite hanno proclamato il 2015 «Anno Internazionale della Luce». Non sappiamo se casualmente o meno, due dei premi Nobel assegnati lo scorso autunno hanno a che fare proprio con la luce. Il Nobel per la fisica è stato attribuito a tre scienziati giapponesi, Isamu Akasaki, Hiroshi Amano e Shuji Nakamura, per la realizzazione dei primi led blu, che, associati ai led rossi e verdi, disponibili già dagli anni Sessanta, permettono oggi di avere delle fonti di luce bianca più luminose e più efficienti energeticamente delle tradizionali lampadine a incandescenza e a fluorescenza. Il Nobel per la chimica è andato ai ricercatori americani Eric Betzig e William Moerner e al tedesco Stefan Hell, per l’invenzione di un microscopio ottico ad altissima risoluzione, che permette di vedere – nel vero senso della parola – il nanomondo. Per certi versi, anche il Nobel per la medicina ha riguardato la luce e la visione, perché è stato assegnato agli studiosi che hanno scoperto le cellule nervose che presiedono all’orientamento spaziale, anche in condizioni di oscurità.
Un altro illustre scienziato, premiato con il Nobel nel 2001, Wolfgang Ketterle, aprirà domani a Torino le celebrazioni italiane dell’Anno Internazionale della Luce. Ketterle, che è stato tra i primi a realizzare uno stato ultrafreddo della materia dalle peculiari proprietà quantistiche noto come condensato di Bose-Einstein, usa la luce laser per raffreddare gli atomi fino alle più basse temperature mai raggiunte (meno di un miliardesimo di grado sopra lo zero assoluto). Assieme a lui, per il convegno Fundamental physics with light and atoms, organizzato dall’Inrim (Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica), sarà a Torino il fisico austriaco Anton Zeilinger, pioniere dell’informatica quantistica e autore del primo esperimento di teletrasporto con fotoni.
L’ottica quantistica e la fotonica, con le straordinarie possibilità di utilizzazione e di manipolazione della luce che offrono, rappresentano il punto di arrivo di un’affascinante avventura scientifica che ha avuto nel 1905 un momento di svolta. Fu in quell’anno che Albert Einstein (il cui padre, Hermann, produceva e installava impianti di illuminazione elettrica nell’Italia settentrionale), ipotizzò che la luce fosse costituita da corpuscoli quantistici, ribattezzati poi fotoni, e, con la teoria della relatività speciale, fece assurgere la sua velocità a costante fondamentale della natura (un trait d’union tra spazio e tempo) e a limite invalicabile. In seguito Einstein avrebbe dato un ulteriore notevole contributo alla scienza della luce, scoprendo il fenomeno dell’emissione stimolata della radiazione, che è alla base del funzionamento dei laser. Ma anche la relatività generale, di cui quest’anno si celebra il centenario, ha a che fare con la luce: prevede infatti che essa abbia un “peso”, che senta cioè l’effetto della gravità. Fu proprio l’osservazione dell’incurvamento della luce stellare a causa del campo gravitazionale del Sole, effettuata durante l’eclissi totale del 1919 da Arthur Eddington, a sancire il successo definitivo della teoria e a rendere Einstein universalmente famoso: «Tutte storte le luci in cielo», titolò un giornale dell’epoca.
Ripercorrendo a ritroso la storia scientifica della luce si incontrano altre date cruciali di cui ricorrono quest’anno gli anniversari. Nel 1865 il fisico scozzese James Clerk Maxwell pubblicò le sue famose equazioni, che rivelavano la natura elettromagnetica della luce; mezzo secolo prima, nel 1815, l’ingegnere francese Augustin-Jean Fresnel comunicava all’Accademia delle Scienze di Parigi i risultati dei suoi primi fondamentali studi sulle caratteristiche ondulatorie della luce. E non bisogna dimenticare, più indietro nel tempo, il decisivo apporto della scienza araba. Mille anni fa (anno più, anno meno) apparve una delle più importanti opere scientifiche di tutti i tempi, l’Ottica di Ibn al-Haitham (noto anche come Alhazen). Se per noi oggi la luce è un fenomeno della natura da studiare sperimentalmente, e l’occhio è il rivelatore di questo fenomeno e non la sorgente, come si credeva nell’Antichità, lo dobbiamo in gran parte proprio ad Alhazen (il quale precorse i tempi sotto molti aspetti, per esempio immaginando la propagazione non istantanea della luce).
Viaggiare nel mondo della luce, come ci invita a fare Piero Bianucci nel suo bel libro Vedere, guardare (che si apre con la costruzione di un occhio di cartone e si chiude sulla luce del Big Bang, proponendo nel mezzo un’affascinante galleria di argomenti, dalle illusioni ottiche alle celle fotovoltaiche, dai laser ai supertelescopi) significa non solo attraversare tutta la scienza, ma anche cogliere i tanti modi, talvolta nascosti, in cui la luce determina la nostra esistenza e quella di tutti gli esseri viventi. Niente di ciò che è attorno a noi sarebbe possibile se la luce del Sole, fotone per fotone, non innescasse un gigantesco processo di riciclaggio dell’anidride carbonica dell’atmosfera, immagazzinando energia in forma di zuccheri e rilasciando ossigeno (la fotosintesi). Difficile non rimanere sbalorditi davanti alla perfezione di questo meccanismo, e non convenire, con il grande fisiologo ottocentesco Jakob Moleschott, che in fin dei conti «la vita è aria intessuta con la luce».

Piero Bianucci, Vedere, guardare. Dal microscopio alle stelle, viaggio attraverso la luce , Utet, Novara,  pagg. 380, € 15,00.

Cerimonia inaugurale dell’Anno Internazionale della Luce: 26 gennaio, Palazzo Madama, Torino, ore 14.00
Convegno Fundamental physics with light and atoms , Inrim, Torino, 27 gennaio 2015. Il calendario degli eventi italiani dell’Anno Internazionale della Luce (Iyl 2015) è disponibile sul sito della Società Italiana di Fisica: http://www.sif.it/attivita/iyl2015

Il Sole Domenica 25.1.15
Biolinguistica
Come il cervello crea le parole
di Arnaldo Benini


Kenneth Wexler, professore di linguistica e scienze cognitive al Massachusetts Institute of Technology di Boston, aprirà il 26 gennaio a Pavia il convegno internazionale di biolinguistica (che è la ricerca na-turalistica del linguaggio) con una lezione sulla base cerebrale della sintassi e della semantica. Egli, da tempo, sostiene che il mistero, dibattuto per secoli dai filosofi, su come la mente produca e interpreti il linguaggio, va affrontato con la metodologia della scienza. Il linguaggio è una componente fondamentale della mente e ha tutte le proprietà del mondo biologico. Il suo studio è aggrovigliato dal fatto che il linguaggio interiore è la forma del pensiero e dell’autocoscienza impiegata in modo circolare dalla mente per studiare il linguaggio. La visualizzazione cerebrale (risonanze magnetiche, tomografie computerizzate, elettro – e magnetoencefalografie ed altro) consente di studiare il cervello in condizioni di normale funzionamento. Con questa metodologia si è visto, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’attività mentale, emotiva e razionale, è collegata non solo ad aree specifiche di particolari funzioni, come quelle del linguaggio (le prime ad essere scoperte nell’emisfero cerebrale sinistro) ma ad una rete di molte aree e nuclei, anche distanti l’uno dall’altro e non facili da identificare. Essi sono collegati fra loro da fasci lunghi e variabili. Quest’anatomia consente ad un organo piccolo come il cervello di assolvere ad una miriadi di funzioni diverse e molto complesse. Se all’intricata anatomia si aggiunge la diaschisi, descritta un secolo fa e oggi riscoperta, cioè l’effetto a distanza, e verosimilmente non costante, dell’attività di molte aree cerebrali, si capisce quanto gli eventi elettrochimici della coscienza, e quindi anche del linguaggio, siano complicati e fragili.
La biolinguistica localizza nel cervello le aree del linguaggio, anche se affidare i suoi vari aspetti ad aree cerebrali precise è ancora arduo. L’apparente facilità e spontaneità con cui parliamo e capiamo quel che leggiamo e quel che ci è detto, presuppongono meccanismi nervosi complessi, anche per riconoscere o dire una sola parola o una frase di un paio di parole. L’area frontale sinistra, considerata a lungo come specifica per la produzione sintattica e fonologica, è attiva anche quando il linguaggio si comprende. Essa coordina un’attività elettrochimica distribuita in diverse parti del cervello e in strutture come gangli, nuclei, colonne cellulari, circuiti, singoli neuroni, ognuna con un meccanismo suo. Riconoscere una parola comporta la coordinazione di vari processi nervosi: analisi delle caratteristiche acustiche, decodificazione fonetica, ricorso ad un dizionario depositato nella memoria, richiamo delle regole di pronuncia, significato e correttezza grammaticale, emotività. Capire e comporre la più semplice delle frasi (come «questa vicenda è un affar serio») comporta la delicata orchestrazione di dozzine di operazioni nervose. I meccanismi del linguaggio maturano con l’età, come, per Kenneth Wexler, avviene per i denti. Si capisce, ad esempio, che «Roberto spinge via Maria» e «Maria è spinta via da Roberto» hanno lo stesso significato a partire dal sesto anno di vita, quando il cervello è in grado di capire le forme passive. Per il biolinguista David Poeppel la sua disciplina vorrebbe capire come «il tessuto del pensiero», il cui strumento è il linguaggio, sia collegato col «tessuto della carne», cioé del cervello che produce pensiero e linguaggio. Egli ammonisce che «localisation is not explanation»; localizzare dove avviene un evento è importante per studiarlo, ma non é la sua spiegazione. Dei meccanismi dei lobi frontali, temporali e parietali grazie ai quali un’informazione è trasformata in un evento linguistico presente alla coscienza, non abbiamo, dice Poeppel, alcuna idea. Per i contenuti della coscienza autoreferenziale questa è la regola e non l’eccezione. Uno dei relatori del convegno di Pavia, Mirko Grimaldi, del Centro di ricerca sul linguaggio dell’Università di Lecce, sostiene che è tempo per un bilancio delle intersezioni fra linguistica (inter-faccia fra sintassi e semantica, processi fonetici, percezione del linguaggio) e scienze neurocognitive.
I temi del convegno, al quale partecipano corifei italiani e stranieri, trattano molti aspetti del linguaggio, da quello fondamentale di spiegare perché esso è solo degli esseri umani, alla sua genetica (secondo alcuni molto ristretta), ai vari eventi dell’apprendimento e della distribuzione nel cervello dei suoi molti aspetti. Importanti sono le comunicazioni sulla sua dissociazione funzionale nell’afasia da ictus, nell’autismo, nella dislessia e nella schizofrenia. Lo studio delle malattie del cervello aiuta la comprensione del suo funzionamento e quindi di come le si possano eventualmente curare.
ajb@bluewin.ch.

Il Sole Domenica 25.1.15
La memoria chimica di Levi
L’elenco inedito dei deportati del primo convoglio per Auschwitz e le analisi dello Zyklon B, il veleno usato nelle camere a gas
di Domenico Scarpa


Settantasei su novantacinque significa l’ottanta per cento: un elenco dattiloscritto di settantasei nomi, ciascuno accompagnato da una lettera dell’alfabeto a indicarne il destino. Era il 3 maggio 1971 quando Primo Levi consegnò quel foglio – completo di conteggi e di legenda esplicativa – al pubblico ministero Dietrich Hölzner del tribunale di Berlino Ovest, giunto a Torino per raccogliere la sua testimonianza. Si chiudeva la fase istruttoria del processo contro l’ex colonnello delle SS Friedrich Bosshammer, collaboratore diretto di Eichmann, accusato della deportazione di 3.500 ebrei italiani. Tra i luoghi di partenza di quei deportati c’era il campo di raccolta di Fossoli-Carpi: il primo convoglio prese la via di Auschwitz il 22 febbraio 1944, viaggiando cinque giorni e quattro notti. I dodici vagoni contenevano 650 persone, tra cui l’allora ventiquattrenne Levi; il più giovane, Leo Mariani, aveva due mesi, la più anziana, Anna Jona, ottantotto anni.
La sera del 26 febbraio, all’arrivo, meno di un quinto dei deportati furono selezionati per il lavoro forzato in Lager: novantacinque uomini più ventinove donne. Tutti gli altri furono condotti alle camere a gas.
A un quarto di secolo dai fatti, Primo Levi riuscì dunque a ricostruire l’identità e la sorte di settantasei uomini sui novantacinque che insieme con lui entrarono vivi in Auschwitz. «La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace», avrebbe scritto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati. E quell’ottanta per cento fu realmente un risultato straordinario, una vittoria in una prolungata battaglia contro l’oblio, a favore dell’esattezza dei fatti. Eppure, sarebbe sbagliato considerare un semplice exploit di mnemotecnica il documento inedito riprodotto in questa pagina.
Le cronache apparse nel maggio ’71 sui quotidiani torinesi riportano che Hölzner ricevette in dono da Levi una copia della versione tedesca di Se questo è un uomo, e che la allegò agli atti del processo Bosshammer. Fu un gesto giuridicamente pertinente; quel libro non era un semplice referto: era un’indagine sulla struttura e l’antropologia del Lager, radicata nel terreno dei fatti: al neutro orrore dei numeri davano senso i nomi delle persone, i loro comportamenti, i loro destini. Proprio come in Se questo è un uomo, sul foglio consegnato a Hölzner Levi restituiva il nome a 76 persone già declassate a numeri di matricola.
Il libro pubblicato da Einaudi che oggi raccoglie l’elenco del 1971 s’intitola Così fu Auschwitz. Gli autori in copertina sono due: a Levi si affianca Leonardo De Benedetti, il medico torinese nato nel 1898 che fu con lui durante il ritorno narrato nella Tregua: l’amico o fratello maggiore, l’«uomo buono», la persona dotata di «coraggio silenzioso» con cui Levi scrisse a Katowice, già nella primavera 1945, un rapporto sulle condizioni igienico-sanitarie di Auschwitz che rappresenta la prima testimonianza di carattere scientifico sui Lager resa da ex deportati italiani. Nei decenni successivi, Leonardo e Primo non avrebbero smesso di testimoniare: e più d’una volta, come in occasione del processo Bosshammer, l’uno accanto all’altro.
Così fu Auschwitz è una raccolta di scritti, in gran parte inediti o dispersi, che da oggi si colloca accanto a I sommersi e i salvati: non come un semplice retroscena di quel libro definitivo, ma come un’opera nuova, anzi innovativa e autonoma. Come un libro che porta alla piena evidenza una lezione di metodo: il metodo di Primo Levi, rispetto al quale persino parole come «testimonianza» e «memoria» finiscono per apparire insufficienti: o meglio, monche, perché non rendono giustizia ai modi in cui Levi seppe indagare per oltre quarant’anni i fatti di Auschwitz.
Un esempio concreto: soltanto oggi apprendiamo, grazie a due tra i documenti più remoti (risalgono al 1946-47), che Levi volle materialmente analizzare lo Zyklon B, il gas dello sterminio: «ricerche mie personali» afferma nella prima testimonianza, per poi specificare nella seconda, senza possibilità di equivoco, che «il veleno usato nelle camere a gas di Auschwitz, e da me esaminato», era una sostanza composta «da acido prussico, addizionato di sostanze irritanti e lacrimogene allo scopo di rendere più sensibile la presenza in caso di fughe o rotture degli imballaggi in cui veniva contenuta». Non dovette essere troppo difficile, nell’immediato dopoguerra e per un chimico reduce da Auschwitz, procurarsi una confezione di quella «preparazione chimica in forma di polvere grossolana, di colore grigio-azzurro, contenuta in scatole di latta». Più difficile per noi misurare la forza d’animo necessaria a eseguire l’analisi e a non farne parola, eccetto che in referti destinati alle aule dei tribunali, che solo oggi riemergono.
L’episodio dello Zyklon B rivela che il Levi analista di Auschwitz non fu solo un testimone, ma assunse il ruolo del ricercatore. La differenza è essenziale. Levi ha ricordato più volte che, subito dopo il ritorno a Torino, avvenuto il 19 ottobre 1945, cominciò a raccontare la propria storia spinto da una febbre di necessità: la imponeva a chiunque, anche durante un breve tragitto in tram. Tutto questo è vero ed è all’origine di Se questo è un uomo, ma è solo metà del vero. Dopo la liberazione, Levi non si limitò a consegnare una vicenda a chi fosse disposto ad ascoltarla: impiegò sistematicamente il suo tempo a raccogliere notizie sui compagni di deportazione, dedicandosi a salvare nomi e destini.
Così si spiega, molto prima di quel foglio datato 3 maggio 1971 per il processo Bosshammer, il contenuto della prima testimonianza che rese dopo il ritorno. Ritrovata qualche mese fa nell’Archivio Ebraico Terracini di Torino, la «Relazione del dott. Primo Levi n. di matricola 174517 reduce da Monowitz-Buna» consiste in un elenco di trenta persone coinvolte nella micidiale marcia di evacuazione da Auschwitz decisa dai tedeschi il 17 gennaio 1945.
Quando Levi lo scrisse, tra metà novembre e metà dicembre del ’45, ancora non si conosceva l’esito disastroso della marcia, cui sopravvisse appena un quinto dei prigionieri. Ma la «Relazione» appare sbalorditiva perché è il frutto di un lavoro di ricerca dei fatti, e di deduzione logica a partire dai fatti stessi, che si appoggia a sua volta sull’esame critico di informazioni raccolte da Levi in momenti e in ambienti diversi: ad Auschwitz dopo la liberazione del Lager, durante l’avventura del ritorno attraverso l’Europa, nella città di Torino poco dopo il rientro, da precoci scambi di lettere con ex compagni di deportazione come lui sopravvissuti.
Tutto questo si trova nella «Relazione» del ’45. Più un pudico calore umano che circola in ogni nome, in ogni informazione incolonnata su quei fogli, battuti a macchina con lo scrupolo di ordine connaturato in Levi. Il segno del suo stile si coglie in un colpo di barra spaziatrice: quello che separa il primo nome dell’elenco, «ABENAIM toscano» – un cognome, una provenienza: per chi andasse in cerca di lui – dalle parole «sapeva fare l’orologiaio». Non: orologiaio, oppure: era orologiaio, ma: sapeva fare. Un ricordo che è già un ritratto stagliato su uno spezzone di rigo: una qualità e un fatto umano, un’apposizione concreta, un segno particolare su un documento d’identità morale, un mestiere praticato bene per buona volontà.
Qui il Primo Levi testimone diventa, fin dal principio, il Primo Levi che sa fare mestieri più complessi: che non si limita ad accumulare dati ma li interroga, li incrocia, ne trae un aumento di empatia oltre che di conoscenza. È qui che Levi diventa, fin dal principio, il Levi che conosciamo: un uomo animato da raro interesse per ciò che gli uomini sono e sanno fare, un testimone e uno scrittore che «sapeva fare» anche lo storico .

Il Sole Domenica 25.1.15
Primo Levi
«Se io fossi Dio» ad Auschwitz
Jean-Claude Milner analizza le tredici righe di «Se questo è un uomo» sulla preghiera di Kuhn, l’ebreo devoto: e le cartesiane ragioni per cui il chimico rigettò quella preghiera
di Sergio Luzzatto


Tutti i lettori dell’opera di Primo Levi sanno quanto lo scrittore torinese fosse capace di cogliere la potenza del dettaglio. Quanto fosse abile nel riconoscere e nel soppesare anche la più piccola dose di umana o disumana materia dissolta nella massa molare del mondo. Era questa un’arte che il giovane chimico aveva applicato già negli inferi di Auschwitz, e di cui aveva fatto immediato tesoro di ritorno fra i vivi. L’esperienza restituita in Se questo è un uomo va considerata anche un «esperimento mentale» (come lo ha definito Massimo Bucciantini) volto all’identificazione e alla pesatura degli ingredienti costitutivi del campo di sterminio. La narrazione di Se questo è un uomo potrebbe essere letta, al limite, come niente più che un’implacata e implacabile collezione di dettagli antropologici.
Così, giunge opportuna l’inclusione di Levi nel libro che un linguista e filosofo francese, Jean-Claude Milner, ha titolato La puissance du détail. Un intero capitolo del volume è dedicato a un singolo passo di Se questo è un uomo: la mezza pagina di chiusura del capitolo dove si racconta di una «selezione» ad Auschwitz-Monowitz. Le tredici righe di «Ottobre 1944» in cui Levi introduce e congeda – fra gli scampati della sua baracca alla selezione per le camere a gas – la figura di Kuhn.
«A poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto. / Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più? / Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn».
Secondo Milner queste tredici righe contengono, nella forma breve tipica di Se questo è un uomo, l’alfa e l’omega del giudizio di Primo Levi sulla metafisica dopo Auschwitz. E li contengono a partire da una riflessione che risulta modellata sulle Meditazioni di Cartesio: una meditazione di fine giornata, nel silenzio propizio alla contemplazione di Dio, con il carattere di un ragionamento sillogistico, e con l’assunzione di responsabilità consistente nel ragionare di cose ultime dicendo «io». Senonché l’esito della meditazione di Levi è un Cogito rovesciato. Ha la forza (forza folle, tiene a precisare Milner) di uno sputo metafisico.
Occorrerà – prima o poi – rileggere tutto Primo Levi alla luce dei suoi pronomi personali: cercare un qualche sistema periodico nell’uso leviano dell’«io», del «tu», del «noi», del «voi»... E chi si metterà all’opera dovrà fare i conti, giocoforza, con la mezza pagina sul vecchio Kuhn e con quel periodo ipotetico, «Se io fossi Dio»: con l’impressionante occorrenza di un io che, da Dio consapevole della Soluzione finale, sputa a terra la preghiera dell’ebreo salvato. Per il momento, bisogna contentarsi di seguire Jean-Claude Milner, la sua lettura di tredici righe fra le più impegnative che Levi abbia mai scritto.
Il Dio verso il quale Kuhn eleva dondolante la sua preghiera, per averlo salvato dalla selezione e magari perché torni a salvarlo una prossima volta, corrisponde al prototipo stesso del genio maligno di Cartesio. Il campo di sterminio esclude infatti, ipso facto, un cartesiano «dubbio radicale». Al di qua di ogni possibile dubbio filosofico, Auschwitz esiste. E siccome Auschwitz esiste, il Dio d’Israele non può esistere altro che come grande ingannatore. Kuhn è pazzo a pregare un Dio simile. E Kuhn è cieco a non vedere Beppo il greco. Il quale, nell’interpretazione di Milner, non corrisponde soltanto al prototipo del «sommerso»: l’uomo in dissolvimento, il «mussulmano» che attende inerte di andare in gas. Beppo il greco vale almeno altrettanto da incarnazione stoica, ventenne figura della saggezza.
Nessuno più lontano di Beppo dagli altri greci deportati ad Auschwitz che l’autore di Se questo è un uomo ha evocato, in un capitolo precedente, con toni da epopea: «Ammirevoli e terribili ebrei Saloniki tenaci, ladri, saggi, feroci e solidali, così determinati a vivere e così spietati avversari nella lotta per la vita». Nella sua immobilità di morituro, Beppo ha la capacità di sopportazione e di astensione di Epitteto. E oltreché una figura stoica, Milner riconosce in lui una figura platonica. Coricato, muto, lo sguardo fisso, Beppo è il Socrate del Fedone. Ma con una differenza decisiva. Ad Atene, la morte di Socrate realizza il compimento della filosofia. Ad Auschwitz, la morte di Beppo nulla garantisce in materia di immortalità dell’anima. «Beppo figura la saggezza amputata del logos».
L’animata preghiera di Kuhn rimanda a una fede ormai possibile unicamente come fede cieca e ipocrita, farisaica: mentre la rassegnata inerzia di Beppo, la sua saggezza ormai priva di pensiero e di linguaggio, conserva almeno la dignità della ragione classica. E anche perciò Levi scrive Se questo è un uomo, non Se questo è un ebreo: perché «lo sterminio colpisce l’umanità attraverso gli ebrei; ma il punto d’umanità che lo sterminio raggiunge attraverso gli ebrei e negli ebrei prende immediatamente il nome di un greco». Insomma: il poco o nulla che resta della ragione di Atene rivela a Levi, nella baracca di Monowitz, tutta la follia di Gerusalemme. Kuhn è pazzo non perché prega, ma perché prega da ebreo. Beppo è saggio non perché attende la morte, ma perché la attende da greco.
Altrettante impressioni e conclusioni – queste di Jean-Claude Milner – che meriteranno di essere attentamente valutate, ed eventualmente criticate da lettori e cultori di Primo Levi. Qui resta da sottolineare l’interesse di una lettura “cartesiana” dell’episodio di Kuhn alla luce di un passo che Milner curiosamente rinuncia a citare, mentre dall’edizione del 1958 se ne sta lì, bene in vista se non ben chiaro, nella primissima pagina di testo di Se questo è un uomo: la descrizione che Levi ha proposto del suo mondo mentale di prima della deportazione, un mondo «popolato da civili fantasmi cartesiani».
Nel 1976, Levi avrebbe spiegato come i suoi fantasmi cartesiani d’ante-Auschwitz andassero intesi quali «sogni e propositi forse mal realizzabili, ma non confusi, bensì razionali e logici». È una definizione che perfettamente si attaglia – in fondo – anche al suo Cogito rovesciato di Monowitz. Al vertiginoso suo periodo ipotetico, «Se io fossi Dio», e al salivare suo rigetto della preghiera di Kuhn.

Jean-Claude Milner, La puissance du détail. Phrases célèbres et fragments en philosophie, Grasset, Parigi, pagg. 276, € 19,00

Il Sole Domenica 25.1.15
Sostenitori dello sterminio
Italiani brava gente?
di Raffaele Liucci


Ecco un libro urticante, soprattutto per i nostri connazionali ancora ben disposti a cullarsi nel «mito del bravo italiano». Ma per capire se un popolo è stato davvero più umano di altri, occorre certificarne il comportamento nei momenti decisivi della sua storia. Per far questo, Simon Levis Sullam focalizza la propria attenzione sul biennio 1943-45, crogiolo dell’Italia repubblicana. La sua analisi – tanto rigorosa quanto sobria, malgrado il tema dolorosissimo – s’articola lungo tre assi.
Innanzitutto, il libro offre un diorama capillare delle complicità italiane nello sterminio degli ebrei, attingendo alle ricerche più aggiornate. Benché molti siano tuttora persuasi che il nostro Paese sia rimasto fuori dal cono d’ombra dell’Olocausto, Levis Sullam documenta al di là di ogni ragionevole dubbio il ruolo determinante ricoperto nel genocidio dagli apparati dello Stato: partito fascista, Guardia Nazionale Repubblicana (carabinieri inclusi), forze di polizia, questure, prefetture, Ispettorato generale per la razza. Senza il loro concorso, difficilmente l’«invasore» tedesco avrebbe potuto eliminare 8.869 ebrei residenti in Italia (6.746 dei quali deportati fuori dai nostri confini). In quest’infamante casellario non mancano neppure i vari «delatori» partoriti dalla società civile, e il clero, che talvolta sostenne e omaggiò i carnefici (con buona pace di quanti oggi strologano sull’«Occidente cristiano e giudaico», come se fosse un’endiadi storicamente fondata).
Lo sguardo di Levis Sullam spazia lungo tutto lo Stivale. Dalla Svizzera «frontiera della speranza» (su cui erano appostate occhiute guardie di confine italiane) alla Firenze della famigerata Banda Carità, sino a Fossoli, il campo di transito verso Auschwitz gestito interamente da nostri connazionali. Ma l’autore torna spesso sulla sua città, Venezia, fra le «capitali» della Rsi. La sera del 5 dicembre ’43 l’ex Serenissima fu teatro di una delle maggiori «razzie» di ebrei da parte di militi «repubblichini», nelle stesse ore in cui un giovane e promettente pianista italiano, Arturo Benedetti Michelangeli, teneva un concerto alla Fenice (musiche di Scarlatti, Liszt, Brahms – Variazioni sopra un tema di Paganini –, Beethoven – Sonata op. 111 –, Rachmaninov e Weiss).
In secondo luogo, questo libro viviseziona la «zona grigia» degli uomini comuni nell’ingranaggio dello sterminio. Siamo nel cuore di tenebra del 1943-45, dove non spiccano soltanto collaborazionisti ideologicamente temprati, ma emergono anche solerti burocrati, portinai famelici, colleghi rancorosi, gendarmi ingolositi dai beni ebraici confiscati. Del resto, la delazione è «uno dei fondamenti della guerra civile», perché riguarda «i vicini prossimi, persino intimi». Fu praticata, ahimè, anche da alcune «vittime ebree», divenute a loro volta «esecutori del genocidio», come il triestino Mauro Grini (poi ucciso a San Sabba) e Celeste di Porto, una diciottenne popolana residente nel Ghetto di Roma. D’altra parte, l’Olocausto fu una catena di montaggio talmente parcellizzata che gli stessi attori non sempre furono consapevoli degli effetti reali (le camere a gas) delle proprie azioni persecutorie. Però l’«agnosticismo» di molti, in buona o cattiva fede, impedì il sedimentarsi di minuscoli granelli di sabbia in grado di inceppare anche il più oliato dei meccanismi.
Infine, terzo punto, il dilemma della rimozione di un passato tanto ingrato e impunito (nessuno sarà mai processato per aver partecipato alla politica antiebraica italiana, dal ’38 in poi). Levis Sullam lamenta la melensa retorica dei «giusti», oggi debordante, come se la storia fosse disseminata di salvatori di ebrei. Ma in realtà costoro furono soltanto una goccia, rispetto al mare magnum dei carnefici. Come mai questi ultimi caddero nell’oblio? Da un lato, prevalse l’Italia moderata, con la sua memoria indulgente del ventennio e del «buonuomo Mussolini» (secondo il brillante pamphlet di Indro Montanelli uscito nel ’46). Dall’altro, come abbiamo appreso dagli studi di Guri Schwarz, giocò la ritrosia della stessa comunità ebraica a calcare la mano sulle responsabilità nostrane. Forse concorsero, in questa rinuncia, il legittimo desiderio d’integrarsi nuovamente, nonché l’imbarazzo per il genuino fascismo di molti ebrei, prima del voltafaccia del duce.
Fatto sta che ancor oggi il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, nelle sue pubblicazioni ufficiali, loda il diffuso rifiuto sin dal ’38 dell’antisemitismo, «estraneo alle tradizioni italiane», nonché lo «spirito caritatevole» dimostrato verso gli ebrei dopo l’8 settembre ’43. Accadde invece l’esatto contrario: con le leggi razziali, l’antisemitismo italico – tutt’altro che peregrino – ottenne un formidabile riscontro nella società, mentre dopo l’Armistizio almeno la metà degli arresti di israeliti furono effettuati dai volenterosi carnefici di Mussolini. Alla faccia del «buonuomo»!

Simon Levis Sullam, «I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945», Feltrinelli, Milano, pagg. 150, € 15,00
Il libro sarà presentato a Milano martedì alla Libreria Feltrinelli di corso Buenos Aires 33, alle ore 18.30: interverranno, con l’autore, Gad Lerner e David Bidussa

Il Sole Domenica 25.1.15
Giustizia e fascismo
Quell’aula della Vergogna
di Donatella Stasio


Garibaldo Benifei ha 103 anni, è venuto da Livorno a Roma e si è seduto – postura eretta, chioma argentata e sguardo curioso – proprio dov’erano seduti, più di ottant’anni prima, i “giudici” che lo condannarono al carcere per aver difeso la libertà di espressione. L’aula è la stessa, al piano terra del Palazzaccio, sede della Corte di Cassazione, simbolo per eccellenza della giustizia ma profanato durante il ventennio fascista dal “Tribunale speciale per la difesa dello Stato”, composto da pseudo-giudici asserviti alle direttive del Duce, che aggredivano gli imputati, intimidivano i difensori, emettevano sentenze già scritte. In quest’aula furono processate 5.619 persone, 42 condannate a morte, 4.596 al carcere, anche a vita, per un totale di 27.735 anni di prigione. Vi entrarono e uscirono, in catene, 122 donne e 697 ragazzi, uomini come Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Sandro Pertini, e tanti altri “martiri della libertà”. Tra cui Garibaldo, uno dei pochi testimoni ancora vivi di quella «vergogna», che aleggia al Palazzaccio come una ferita alla giustizia mai rimarginata.
C’è solo una targa a ricordare la triste storia dell’aula della vergogna, affissa dagli avvocati romani a ridosso della Liberazione e dedicata «Agli uomini liberi che il Tribunale speciale mandava agli ergastoli o a morte». La Cassazione non ha mai fatto i conti con questa presenza ingombrante, pezzo di storia infamante per la giustizia. Solo alla fine del 2014 ha deciso di alzare il sipario e di rendere onore a chi pagò con la vita o con il carcere la difesa della libertà. Non senza un «senso di colpa» per aver lasciato trascorrere tanti anni, durante i quali quasi tutte le vittime della persecuzione fascista sono scomparse. Garibaldo è tra i pochi ancora viventi e con Ljubomir Susic, classe 1925, è tornato in quest’aula. «Ho avuto l’onore di partecipare per ben due volte, qui dentro, a un processo contro di me», esordisce nel suo abito scuro. L’accento livornese colorisce la voce chiara e priva di incertezze: «La prima volta era nel 1933, avevo 21 anni e la mia colpa era aver diffuso insieme ad altri giovani un volantino con la scritta «libertà, pane, pace», le nostre parole d’ordine. Combattevamo per la libertà, ma non con bombe e fucili. Volevamo solo parlare al popolo della democrazia, volevamo che i giovani aprissero gli occhi e capissero che il mondo doveva essere diverso. Eravamo tanti, anche se eravamo pochi. In aula mi portarono in catene e la prima volta mi andò abbastanza bene perché mi diedero solo un anno di carcere, anche se quando uscii la mia non era libertà ma oppressione. Perciò continuai l’opera già iniziata. Mi arrestarono di nuovo nel ’39 e per la seconda volta ho assistito al mio processo, finito con una condanna a 7 anni. Proprio lì – dice indicando un punto dell’aula – c’era un avvocato: cercava di fare il suo dovere, difendendo con veemenza gli imputati dalle accuse. Ma a un certo punto il pubblico ministero si alzò e disse: “La smetta, altrimenti insieme a loro ci metto anche lei”. Questo era il Tribunale fascista».
Istituito nel 1926, il Tribunale speciale tenne l’ultima udienza il 22 luglio 1943, appena tre giorni prima della caduta di Mussolini. L’imputato era un caporale del regio esercito che, per aver detto «Grazie a Dio la guerra l’abbiamo perduta, ora se trovo il Duce gli cavo gli occhi e l’uccido», fu condannato a 5 anni di carcere. Una sentenza che si collega idealmente alla prima, del 1° febbraio 1927 per fatti più o meno analoghi, a carico di due muratori condannati a 9 mesi per aver commentato il fallito attentato dell’anarchico Gino Lucetti a Mussolini con queste parole: «Mortacci sui, ’sto puzzolente ancora non l’ha ammazzato nessuno». «Paradossalmente, proprio nel momento del tracollo del fascismo, la pena dell’ultima sentenza fu molto più severa della prima, nonostante i fatti fossero simili, quasi a voler esorcizzare la prospettiva della fine ignominiosa di Mussolini», osserva Gianni Conti, giudice di Cassazione, durante il convegno rievocativo al Palazzaccio, presenti magistrati, avvocati, giuristi.
Affinché la storia non commetta gli errori del passato, bisogna coltivare la memoria. E dalla memoria della giustizia infamante esercitata in quest’aula, il primo presidente della Corte Giorgio Santacroce trae una conclusione, che è più un punto di partenza: «Voglio dirlo fuori dai denti: il problema più importante che abbiamo davanti resta quello di costituire un insieme di valori comuni, nazionali e democratici, dentro i quali si può stare a sinistra, si può stare a destra, si può stare dove si vuole con le proprie ideologie e con le proprie scelte di parte politica, che sono tutte legittime ed essenziali in democrazia. L’importante è stare “dentro”, all’interno di un tessuto comune di valori condivisi».
Valori incatenati nell’aula del Tribunale speciale ma che ora risuonano nelle parole di un ultracentenario: «Libertà e giustizia. Sono beni preziosi. Difendiamoli con tutte le forze. La vita di un popolo è questa».

Il Sole Domenica 25.1.15
Premio Nonino 2015
Maestra del nostro tempo
La buona scuola secondo Martha Nussbaum: più logica, pensiero critico, esperienze reali e immaginazione
di Armando Massarenti


Martha Nussbaum ha sempre accompagnato la sua opera di storica della filosofia antica a un forte impegno civile e a una elaborazione concettuale capace di incidere profondamente sul dibattito politico contemporaneo. Ciò accade per esempio per la teoria delle capabilities elaborata con Amartya Sen negli anni ’80 e poi sviluppata in una versione autonoma cui la filosofa americana ha legato una riflessione sul ruolo dell’educazione quale strategia fondamentale per riformare la società contemporanea. Proprio a lei ci siamo ispirati nel lanciare da queste colonne la proposta di introdurre nelle scuole italiane, nell’ambito di Cittadinanza e Costituzione, l’insegnamento obbligatorio della logica, disciplina indispensabile per la formazione del pensiero critico, affinché siano forniti ai cittadini di domani gli strumenti necessari per pensare con la propria testa, formulare opinioni corrette, accettare la pluralità dei punti di vista, provare empatia verso l’altro, o il diverso, sviluppare spiccate capacità deliberative.
In che modo dunque la logica e la retorica – ma anche, pensando ad Aristotele, l’etica e la poetica – possono fornire spunti e strumenti pedagogici a chi insegna oggi o, ancora meglio, a chi intende riformare il sistema educativo? E in quali pensatori del passato possiamo trovare spunti per affrontare i problemi di oggi?
«Tra i molti di diverse epoche e diversi luoghi che potrei citare – risponde Martha Nussbaum – tre mi sembrano importanti: Socrate nei Dialoghi di Platone; la lettera del filosofo stoico romano Seneca sull’ ”educazione liberale”; e la teoria e la pratica del filosofo ed educatore indiano Rabindranath Tagore».
«Socrate – spiega Nussbaum – ha sfidato la democrazia ateniese a condurre una “vita pensata”, a preoccuparsi delle ragioni che diamo per le nostre convinzioni, creando una cultura democratica della ragione e dell’argomentazione, piuttosto che dell’autorità e della pressione dei Pari. La sua sfida è rilevante oggi come allora, le democrazie moderne hanno gli stessi difetti della sua Atene. Ma una “vita pensata”, piena di riflessione e di ricerca, è difficile: implica l’imparare ad argomentare, a curare la precisione, la validità e la struttura logica. Non c’è miglior modo di imparare queste cose che studiare i primi dialoghi di Platone in uno spirito di pedagogia critica e aperta».
E in che modo possono contribuirvi Seneca e Tagore? «Nel primo secolo dopo Cristo, Seneca si trovava di fronte a una forma di educazione dominata dall’apprendimento passivo, in cui le persone assorbivano i testi canonici della loro cultura senza né comprensione né attività reali, e li chiamavano “studia liberalia”, cioè “adatti a un gentiluomo nato libero”. Seneca dice che dovremmo invece preferire gli “studia liberalia” nel senso di studi che ci rendono liberi. Con questo intendeva liberi dalla tradizione e dall’autorità. A tale scopo, raccomandava innanzitutto la filosofia, ma anche la letteratura e la storia. Tagore imparò da entrambi, ma era un poeta e nella famosa scuola che fondò nel 1905 a Santiniketan, usava le arti come mezzi fondamentali per la comprensione. Musica, teatro, danza servivano ad ampliare l’immaginazione degli studenti, così imparavano ad occupare posizioni diverse dalla propria. Mi sembra che questo esempio dia un contributo che manca agli altri due: il valore dell’emozione e dell’immaginazione e come coltivarle attraverso le arti. Artisti ed educatori di tutto il mondo frequentarono la scuola di Tagore, compresa Maria Montessori. Somigliava parecchio alla Scuola-laboratorio di John Dewey e forse i due si erano incontrati, ma non si sa esattamente».
Anche Aristotele pensava che l’apprendimento dovesse essere accompagnato da “esperienze” di vita capaci di dare un senso ai saperi per esseri umani, non per eruditi. E Dewey rimproverava i suoi amici riformatori perché non vedevano quanto la scienza potesse fornire il modello di esperienza più adatto a formare indipendenza di giudizio e rifiuto del principio di autorità. Eppure in molti, in Italia, tendono ancora a contrapporre saperi umanistici e saperi scientifici. «La scienza nel senso migliore e più profondo è profondamente immaginativa e rigorosa, quindi ha legami stretti con le materie umanistiche. Purtroppo, quello che molti imparano sotto quell’etichetta non è la scienza di base, ma un insieme di capacità imparate a memoria senza una vera comprensione. Questo è “arido” davvero, ma la scienza non lo è».
Sappiamo, però, che molta della filosofia antica puntava sulla memoria quale funzione cognitiva fondamentale per lo sviluppo della logica così come dell’esperienza delle arti, e non a caso Mnemosyne, la memoria appunto, era la madre delle muse e delle varie arti. La scuola di oggi ha dimenticato il legame strettissimo tra memoria e creatività e ha condannato la memoria, relegandola a un ruolo marginale, anzi sostituendola con strumenti tecnologici di supporto. Crede che sia una mossa giusta? «Non mi piace molto usare “antichi” per parlare solo degli “antichi Greci e Romani”. In fondo, ogni civiltà è stata antica e quindi c’è un antico pensiero africano, cinese ecc. I Greci credo che si affidassero alla memoria in gran parte perché molti erano analfabeti. E non è certo una cosa da incoraggiare nel mondo moderno. Quando la gente sa leggere, non deve mandare a mente un intero dramma di Shakespeare. Eppure potrebbe esserci un motivo per memorizzarne delle parti, se si vuol ascoltare meglio il ritmo della poesia. In matematica, le calcolatrici sono un vantaggio impareggiabile e forse bisognerebbe chiedere agli insegnanti di matematica se i bambini devono tuttora imparare a fare le somme. La memoria però è cruciale nel fornire un’architettura o un quadro generale a un pensiero più particolareggiato. Per esempio, la storia va imparata come un’intera narrazione e non solo guardandola a spizzichi e bocconi su Wikipedia. Qui la memoria ha ancora un ruolo. E le posizioni filosofiche vanno interiorizzate come una configurazione di argomentazioni e non mandando a mente solo una riga o l’altra di Platone. L’obiettivo deve essere sempre l’attività e la maestria, e queste sono spesso ostacolate da troppa memorizzazione, come Platone aveva già notato. Ma alcuni tipi di memorizzazione sono produttive».
Pensa che sia utile esercitare la competenza filosofica già nei bambini anche in tenera età? «Sì, dovrebbero pensare a come si arguisce, a quali sono gli argomenti giusti e così via. C’è parecchia ricerca in proposito: a cinque o sei anni sono già capaci di trovare errori in un ragionamento se il tema è adatto alla loro età e la pedagogia li attira».
Che equilibrio dobbiamo immaginare tra materie che – come il critical thinking, o la logica e la retorica – forniscono agli studenti strumenti universali per differenti usi e quelle materie che invece richiedono approfondimenti e acquisizioni di nozioni e conoscenze? «Conviene non specializzarsi troppo presto. È uno dei motivi che mi fanno preferire l’educazione universitaria delle “liberal arts”. Consente agli studenti di scegliere una materia principale, ma anche di imparare molto altro. È il modello dominante negli Stati Uniti, in Corea del Sud e in Scozia e vorrei che altri Paesi ne apprezzassero l’importanza».
Sa che l’Italia detiene un triste primato nella classifica Ocse dell’analfabetismo funzionale (functional illiteracy)? Non le pare una grande contraddizione che il Paese che nel mondo è visto come la culla della civiltà e della cultura sia così mal messo dal punto di vista della formazione dei propri cittadini? «Sono certa però che l’Italia non è prima al mondo in questa categoria! Nei Paesi in via di sviluppo c’è troppa gente che non ha neppure accesso alla scuola. In India, dove lavoro di più per lo sviluppo, il tasso di alfabetizzazione degli adulti è del 65% per gli uomini e di circa il 50% per le donne. Però gli italiani sembrano avere un problema serio. Non saprei chi ne è responsabile, ma immagino che sia l’educazione elementare. Una cosa che una nazione moderna deve fare è concentrarsi sui bisogni dei bambini con particolari difficoltà, per via della malnutrizione o della povertà, o della violenza fisica a casa, o perché in famiglia la lettura non è incoraggiata. Ogni Paese che accoglie immigranti deve anche provvedere a un insegnamento linguistico adatto ai loro bisogni».
Le neuroscienze cognitive di oggi ci mostrano una serie di errori sistematici che tendiamo a compiere in quanto esseri umani. In che modo i sistemi educativi possono fare tesoro di questo genere di studi? «Trovo quei risultati molto interessanti. Ci aiutano a resistere alla tentazione di spiegare tutte le nostre norme con le nostre origini evolutive. In alcuni casi, l’evoluzione ci ha attrezzati bene per perseguire obiettivi validi, alcuni dei quali però esigono una resistenza a quanto abbiamo acquisito durante l’evoluzione. Per esempio, l’evoluzione ci fa diffidare degli stranieri e dalla gente il cui aspetto è diverso dal nostro. Ma la natura non è una norma: dobbiamo chiederci per che cosa lottiamo e trovare il modo di arrivarci. Nessuno direbbe mai che, se ci vediamo male, pazienza, dobbiamo vivere come natura ci ha fatti. Non dovremmo mai dire una cosa del genere per la vita morale».
Esiste anche un analfabetismo dei sentimenti. Qual è il modo migliore per sviluppare non solo le capacità logiche e argomentative ma anche le passioni e i sentimenti, evitando nel contempo le trappole che essi comportano? «Certo. Nasciamo tutti con la capacità di vedere il mondo dal punto di vista altrui, per esempio, ma di solito la sviluppiamo in modo ristretto e selettivo, limitato alla nostra famiglia, al nostro gruppo locale. Ma quella capacità può essere sviluppata sistematicamente con l’educazione storica e artistica, così diventiamo capaci di vedere come appare il mondo da molti punti di vista diversi. Dobbiamo riuscirci per fare scelte politiche responsabili. C’è tanta ricerca su come la letteratura sviluppi questa capacità. Naturalmente questo tipo di empatia non ci dice quali sono gli obiettivi cui mirare, ma, qualunque essi siano, ci aiuta. Per formulare gli obiettivi giusti, abbiamo bisogno di un pensiero normativo rigoroso, in filosofia morale e politica, per avere un’idea di quali emozioni sono utili e quali non lo sono».

Il Sole Domenica 25.1.15
Satira del 1768: vedi alla voce «islamismo»
Armando Massarenti

«Islamismo - Religione sanguinaria il cui detestabile fondatore volle che la sua legge fosse stabilita dal ferro e dal fuoco. Si percepisce la differenza tra questa religione di sangue e quella di Cristo che predicava solo la dolcezza: il clero, di conseguenza, ha stabilito i santi dogmi, facendo ricorso a ferro e fuoco». Correva il 1768 quando veniva dato alle stampe il Piccolo trattato di ateismo, un dizionarietto denso di ironia e sarcasmo, ora edito dal Melangolo, composto dal filosofo Paul Heinrich Dietrich, barone D’Holbach, esponente di punta del materialismo francese. Ci sarebbero voluti ancora ventun anni prima che la Rivoluzione francese affermasse, a sua volta con la violenza, principi che spazzassero via i privilegi del clero e l’invadenza della religione nella politica della Francia di Luigi XVI. Erano tempi duri: tra le pagine, sempre ironiche, divertenti e spesso irriverenti, non mancano voci tristemente note alle orecchie dei cristiani di allora, come Eresia, Autodafè, Boia, Inquisizione. Da buon materialista, ciò che D’Holbach contesta non solo alla religione cristiana, ma a ogni religione in generale, è l’indimostrabilità della dottrina attraverso gli strumenti della ragione. Pertanto rivendica la necessità di una non ingerenza del pensiero religioso nella sfera della politica, della morale e della scienza – cui l’autore si riferisce specificamente nell’introduzione - che devono di necessità essere laiche. L’ideologia teocratica, qualunque essa sia, impone il silenzio della ragione – ecco cosa si legge alla voce «Curiosità: Peccato gravissimo!» - per far tacere la quale si ricorre anche alla violenza; mentre il vero credo religioso dovrebbe invocare una spiritualità piena di dolcezza non violenta, come quella predicata dal Vangelo. D’Holbach sfida spavaldamente l’opinione pubblica con una satira che arriva a essere irriverente, come nel caso di Abramo: «Padre dei credenti. Mentì, fu cornuto, si tagliò il prepuzio e mostrò tanta fede che, se un angelo non fosse intervenuto per fermarlo, avrebbe reciso la giugulare del figlio che il buon Dio, per scherzare, gli aveva chiesto di immolare». Ma le teocrazie non hanno il senso dello humour, e fu così che, il 16 febbraio del 1776, il volumetto fu condannato a far evaporare il suo spirito sul pubblico rogo.

Il Sole Domenica 25.1.15
Gnosticismo
La salvezza ha molte vie
Era considerata solo un’eresia cristiana, ma sono invece molte le dottrine gnostiche e tutte influenzate dalle religioni orientali
di Maria Bettetini


‘Al? pensava di aver trovato un tesoro. Rimosse la ciotola di ceramica che chiudeva l’orcio di terracotta rossa, vide balenare un colore simile all’oro. Con emozione vi infilò la mano, con delusione si accorse di avere trovato solo striscioline di papiro così antico da essersi disfatto e avere assunto un delicato color paglia, simile a quello dell’oro. Era il 1945, Muhamm? d ‘Al? al-Sammin si trovava sull’isola detta Elefantina, in un’ansa del Nilo, vicino al villaggio di Nag Hammadi e agli splendori di Luxor. Quei papiri, che per dieci anni dopo il ritrovamento caddero in mani inesperte, erano dodici codici e otto pagine, e contenevano il tesoro dei primi testi gnostici completi a disposizione degli studiosi: fino allora, si poteva conoscere lo gnosticismo (termine coniato nel Settecento), con l’eccezione di quattro codici molto frammentari, solo dalle citazioni dei numerosi nemici, da Plotino, che li confonde con i cristiani, a Tertulliano, ai Padri della Chiesa che lo combattono come perniciosa eresia. Giustino, Ireneo, Ippolito e molti altri combattono il dualismo gnostico, che per Agostino avrà il volto del manicheismo persiano. Ma probabilmente lo gnosticismo non è, o non è solo, un’eresia cristiana. Premessa la necessità innanzitutto di riconoscere “gli” gnosticismi, perché le dottrine furono moltissime con pochi punti in comune, noi da una parte abbiamo documenti che risalgono unicamente all’era cristiana, a partire dal II secolo, dall’altra in tutte le dottrine gnostiche è evidente l’influenza delle religioni orientali, nessuna esclusa. Un mistero che ha sempre esercitato molto fascino anche prima della scoperta dei papiri sul Nilo, si pensi al libro di Hans Jonas (due volumi pubblicati tra il 1934 e il 1954) per anni punto di riferimento per gli studiosi: l’idea del filosofo tedesco era uno gnosticismo parallelo al cristianesimo, un movimento culturale vicino a esistenzialismo e nichilismo, profondamente anticristiano e dai toni anche malinconici, quasi per intellettuali alla Sartre. Ora abbiamo qualche testo in più, e si possono formulare altre ipotesi, ancora però difficili da verificare.
È stato di recente tradotto in italiano un libro che si presenta come un “manuale” sui manoscritti di Hag Hammadi: non un’edizione né una traduzione (già uscita in molte lingue ormai), ma un testo approfondito di accompagnamento alla lettura. Un lavoro ottimo e documentato molto bene, non scevro però da ipotesi storiografiche tutte da dimostrare. Per esempio, quella che ritiene lo gnosticismo come ciò che ha permesso al cristianesimo di diventare la principale religione occidentale: non essendo chiara la distinzione tra cattolicesimo ufficiale e altre forme di cristianesimo nei primi tre secoli, ed essendo gli gnostici contrari al martirio, la loro sopravvivenza avrebbe garantito la continuità della religione cristiana, codificata solo dopo Costantino e Teodosio. Insomma, i cristiani “romani” andavano a farsi ammazzare, e meno male che quelli un po’ fané, gli gnostici, rimanevano vivi e salvaguardavano la fedeltà a Cristo. Un’ipotesi che si scontra per esempio sui numeri: i cristiani martiri furono nell’ordine delle centinaia, non tanti da sterminare un intero ramo della popolazione romana. A parte questo, il volume è ricco e illuminante, ad esempio per quanto riguarda le modalità di lettura dei testi dei papiri: andavano letti non al posto delle Sacre Scritture, ma insieme alle Scritture. Nel II secolo il corpus scritturale era probabilmente comune per gnostici e cristiani cattolici, differente ne era l’interpretazione. Anche con l’aiuto dei papiri, cerchiamo di comprendere meglio quale mondo, anzi, quali mondi si nascondano nella parola “gnosi”. Il suo significato è “conoscenza”, nel greco parlato da molti dei gruppi gnostici, anche se i papiri ci sono arrivati in copto, ma quasi certamente copiati dal greco in un monastero egiziano.
La conoscenza è infatti la via della salvezza, assicurata al fedele che la perseguirà per fuggire dal maligno mondo materiale. Un’altra idea presente nello gnosticismo tutto: dall’Uno discendono coppie di “eoni” maschio e femmina. In maniera diretta o indiretta, dalle prime coppie deriva l’eone femmina Sophia che da sola emana il Demiurgo o mezzo-creatore, emanazione cattiva, capace di creare solo cose cattive, come la materia e i corpi umani, orrende realtà se non fosse per la luce divina, donata dall’Uno divino agli uomini. Tra questi, possono liberarsi dal corpo solo «coloro che sanno» la verità delle cose e le modalità della liberazione. Queste, pur mirando al medesimo scopo, sono anche totalmente diverse tra le varie concezioni gnostiche. Il disprezzo del corpo infatti poteva richiedere astinenza sessuale (così gli encratiti), come anche dedizione a sfrenate pratiche, nella convinzione che non avendo alcuna dignità, non aveva nessuna importanza usare del corpo anche in maniera ripugnante, anzi non si dava alcuna ripugnanza nella pratica, visto che già la carne è il massimo abominio, così ritenevano i discepoli di Carpocrate e di Basilide, nonché i fibioniti e i cainiti, ossia coloro che veneravano Caino, Esaù, i Sodomiti e Giuda, in quanto si erano tutti opposti agli ebrei. Infatti un’altra conseguenza della basilare idea gnostica era l’avversione per il Dio dell’Antico Testamento, identificato con il maligno Demiurgo, da cui aveva origine l’antisemitismo di diversi gruppi: gli ofiti o naaseni, adoravano il serpente, colui che aveva donato la conoscenza ad Adamo ed Eva, salvandoli. Gesù non poteva certo essere detto uomo e Dio, molti erano docetisti, cioè ritenevano il corpo di Cristo solo un’apparenza (dal greco dokein), tutti rifiutavano la resurrezione, non solo di Gesù, che sarebbe tornato solo come luce sapienziale per i pochi eletti (coloro che sanno, appunto), ma naturalmente anche di tutti i corpi umani: perché ridare vita a ciò che si combatte e di cui ci si vuole liberare? Idee gnostiche si ritrovano nel corso di tutta la storia del pensiero, ovunque si parli di luce, eletti, pratiche salvifiche segrete, complotti e contatti segretissimi. Già in quei tempi alcuni gruppi sostenevano la presenza sulla terra degli eoni Cristo e Sophia (anche intesa come Spirito Santo), nei corpi di Gesù e di Maria Maddalena. A Dan Brown solo il merito di aver reso cheap un’intrigante narrazione religiosa datata quasi duemila anni.

Nicola Denzey Lewis, I manoscritti di Nag Hammadi. Una biblioteca gnostica del IV secolo, edizione italiana a cura di Matteo Grosso, Carocci editore, Roma, pagg. 448, € 28,00
Hans Jonas, Gnosi e spirito tardoantico, a cura di C. Bonaldi, Bompiani, Milano, pagg. 1.210, € 40,00
Per la traduzione dei papiri di Nag Hammadi: Testi gnostici, a cura di L. Moraldi, UTET Libreria, Torino, pagg. 760, € 13,90
Testi gnostici in lingua greca e latina, a cura di M. Simonetti, con testo a fronte, Fondazione Lorenzo /Mondadori, Milano, pagg. 598, € 30,00

Il Sole Domenica 25.1.15
Amica Sofia
Il diritto di pensare
di Dorella Cianci


Derrida scrisse un’opera dal titolo Du droit à la philosophie per contestare una riforma del governo francese che mirava a ridimensionare la filosofia nelle scuole francesi. Partendo da questa premessa, che per certi aspetti ha riguardato di recente anche provvedimenti governativi italiani, il gruppo Amica Sofia, partendo da un’intuizione del filosofo Livio Rossetti, ha deciso di riflettere sul diritto soggettivo assoluto che si divide in diverse subcategorie, fra cui quella della libertà di pensiero. Al forum si sono aggiunti filosofi di varie parti del mondo iniziando dal pensiero di Spinoza («nessuno può trasferire a un altro il suo diritto di natura, ossia la sua facoltà di ragionare liberamente e di giudicare ogni cosa») sino all’art. 21 della Costituzione it. («tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto»). Ma qual è la peculiarità del diritto alla filosofia? Di certo è importante legare il tema alla formazione dei bambini e degli studenti, i quali hanno bisogno di alcuni “attrezzi per la mente”, per citare Martha Nussbaum (vedi la sua intervista in Terza pagina). La filosofia, grazie all’autoesame socratico, entra in tutti i gangli vitali: è importante per un medico che deve decidere se dare la priorità ai diritti o ai bisogni del malato, è importante per un giudice che deve condannare, è importante per l’educabilità infantile che deve ribadire quanto sia necessario «rispondere a una domanda con un’altra domanda» (cf. Montesarchio). Il diritto a una vita pensata è stato compreso meno nei Paesi europei che hanno suddiviso rigidamente i curricula di studio al contrario della società americana. Da lì vengono infatti gli insegnamenti di Lipman, ma potremmo cominciare a tornare ad alcune fondamentali riflessioni della Montessori, che sottendono anche alla ricerca della Nussbaum. Il diritto alla filosofia è dare importanza al ragionamento, chiedendo che si agisca con la consapevolezza delle proprie azioni: per questo è importante chiedere al politico la nozione di giustizia, al comandante quella del coraggio, all’innamorato quella dell’amore.

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Il Sole Domenica 25.1.15
Quando l’io perde pezzi
di Antonio Pascale


Camus non aveva ancora trent’anni e già andava al dunque. Ne Il mito di Sisifo (1942) fece intendere un po’ a tutti che non era il caso di prendere troppo alla larga la domanda fondamentale della filosofia: perché non ci suicidiamo? Rispondere era nostro compito. Anche perché, a cascata, da quella domanda se ne producono altre: chi siamo e cosa facciamo qui? Certo, Camus – fa notare Paul Thagard (Il cervello e il senso della vita, Rizzoli) - la risposta l’ha data: non si è ucciso (è morto in un incidente automobilistico), ha avuto una vita ricca e piena di amicizie, il Nobel, è andato a letto con molte attrici francesi e in realtà, quella che ha pensato al suicidio è stata sua moglie. Tuttavia le domande restano e chi più chi meno ce le poniamo tutti. E le risposte? C’è una tradizione metafisica di supporto e pronta all’uso, ma altre discipline, come le neuroscienze, stanno offrendo evidenze sperimentali e punti di vista interessanti. Prima di tutto le domande andrebbero leggermente cambiate di segno. Non più: chi siamo, ma come funziona il nostro cervello. Non più perché siamo qui, ma come (attraverso quali passaggi evolutivi) siamo arrivati fin qui. Sembra poco ma è un cambiamento di paradigma, bisognerebbe provare a raccontarlo. Per questo è un peccato che le suddette discipline siano poco apprezzate dagli scrittori.
Una delle evidenze delle neuroscienze è che abbiamo bisogno delle emozioni per accendere il ragionamento (e anche il contrario, le emozioni possono causare bias), e gli scrittori costruiscono storie attorno alle emozioni. Cercare di capire come funziona e come si è evoluto il cervello è una pratica che richiede passione, metodo e inoltre ben si presta alla narrazione. Per esempio, il film Still Alice è tratto dal libro omonimo, scritto da una neuropsichiatra, Lisa Genova, pubblicato da Piemme (294 pag, € 16,90). Racconta di Alice Howland, psicologa, alla quale viene diagnosticata una forma precoce di alzheimer. Il romanzo ha un andamento classico e cronologico, dal settembre 2003 all'estate del 2005. Alice è sposata con John (fa il chimico), ha tre figli, tra cui Lydia che vuole fare l'attrice (creando scompiglio in famiglia). La narrazione procede e si raccontano le prime innocue dimenticanze di Alice (una parola durante un convegno, il blackberry al ristorante) fino a che Alice, correndo per vie usuali si perde e poi si perderà anche a casa sua, non riuscirà a trovare il bagno: una delle scene più toccanti. Dunque Alice ogni volta che perde un pezzo di se stessa cerca di rispondere (con quello che gli rimane) alla domanda: ma chi sono io ora che non ricordo dove sta il bagno di casa mia? chi sarò fra due giorni? Il cervello dimentica e il senso, i valori della vita, gli amori cambiano: tutto qui. Eppure – il libro lo dimostra- c'è ancora tanto da raccontare, da capire. Non per niente Still Alice è anche un’indagine sull’amore (belle le pagine tra Alice e John), sulle dinamiche quotidiane che contribuiscono a sostenere il nostro io, sui cambiamenti, quelli voluti e quelli dovuti al caso. E credo ci sia, nelle ultime pagine, una risposta alle domande di Camus: l’ Alice malata trova una struggente lettera che l’Alice sana le aveva indirizzato. Le racconta chi è stata, chi è ora, cosa dovrà fare visto che Alice non è più Alice. Sono solo poche righe ma c’è tanto, forse molto di tutto quello che ogni giorno, consciamente o inconsciamente, cerchiamo, e qualche volta troviamo e diciamo, chissà, illudendoci o meno: sono ancora io.

Corriere Salute 25.1.15
Chi vuole vivere per sempre (qui)
di Luigi Ripamonti


Negli Stati Uniti è appena stato presentato il film documentario «The immortalists», che descrive impegno e strategie di due scienziati nei loro laboratori in California e in Nevada per fermare l’invecchiamento. Nel film altri ricercatori sostengono che «far regredire l’invecchiamento sia come voler invertire la forza di gravità» e altri si chiedono se convenga davvero un mondo popolato da persone che vivono in media un migliaio di anni. Il tutto mentre qualcuno (non nel film ma su prestigiose riviste scientifiche) ripropone esperimenti di parabiosi in cui si mette in comune la circolazione di animali giovani e vecchi per verificare se e quanto i secondi se ne possono giovare.
Esagerazioni? Fantascienza?
Può essere, ma negare il crescente successo della medicina anti-età sarebbe negare l’evidenza. Del resto nessuno vuole invecchiare: chi dice il contrario forse mente anche a se stesso. Ma un conto è cercare di invecchiare bene, un altro pensare di smettere del tutto di invecchiare. Chi vorrebbe morire poi? Già adesso é dura, figuriamoci se fossimo costretti a morire come giovani in perfetta forma benché «antichi». E si prefigurerebbero scenari sociali tragicomici.
Immaginiamo già gruppi di neo-eternalisti candidarsi alle elezioni per garantire mille anni (minimo) di gioventù a tutti.
Il conflitto fra generazioni si giocherebbe fra schiere di giovani-giovani e giovani-antichi, con i secondi che avrebbero comunque la meglio, sia per rendite di posizione (vuoi mettere che rete di conoscenze in diversi secoli di vita sociale iperattiva?) sia per esperienza.
Per non parlare del problema demografico. Chi vorrebbe lasciare il posto a nuovi arrivati?
Si scatenerebbero assalti ai reparti di ostetricia, come immagina Giacomo Papi in «I primi tornarono a nuoto» (Einaudi).
E poi, alla fine, probabilmente, si dovrebbe arrivare alla morte programmata dallo Stato a un’età predefinita, come ne «Il mondo nuovo» di Aldous Huxley (Mondadori).
Giusto per dire che la letteratura si è già spesa parecchio sull’argomento, con conclusioni non proprio ottimistiche.
Se poi qualcuno si ostinasse a pensare che sarebbe comunque desiderabile vivere eternamente su questa terra, e non in un eventuale paradiso, potrebbe essere suggestiva la lettura di «Tutti gli uomini sono mortali» di Simone De Beauvoir (Mondadori), in grado di far cambiare idea anche ai più immarcescibili fan del film «Highlander».

Corriere Salute 25.1.15
Per l’ansia, farmaci o psicoterapia?
Esordio. Un’insicurezza diffusa già nell’infanzia
di Danilo di Diodoro


Ansie e insicurezze si affacciano già alla mente dei bambini. Diverse ricerche hanno dimostrato che circa il 70% dei piccoli mostra specifiche preoccupazioni. Un vero disturbo d’ansia generalizzata è riscontrabile in circa il 5% dei bambini, e infatti molti adulti ansiosi riferiscono che il loro disturbo é iniziato già nell’infanzia. Sono i dati di una revisione sull’ansia in età pediatrica, realizzata da Sarah Kertz dell’Harvard Medical School di Belmont e Janet Woodruff-Bordea del Psychological and Brain Sciences Institute di Loiusville (Usa), pubblicata sulla rivista Clinical Child and Family Psychology Review . A generare queste precoci ansie sono pensieri che cambiano durante lo sviluppo.
Fra i tre e i sei anni spaventa soprattutto l’idea
di creature immaginarie; tra 7e 14 anni ci si preoccupa delle prestazioni scolastiche e delle capacità di relazione interpersonale.

Corriere Salute 25.1.15
Aiuti più efficaci per chi è sempre in allarme
di D. d. D.


C’è un potente ansiolitico naturale all’interno del cervello. Si chiama neuropeptide Y e svolge la sua preziosa funzione principalmente in una piccola area cerebrale fortemente coinvolta nella regolazione dell’ansia: l’amigdala. Una ricerca pubblicata sulla rivista Biological Psychiatry indica ora che chi ha la fortuna di poter contare su una generosa dotazione di alcuni recettori del neuropeptide Y, i recettori Y1 e Y5, risulta molto meno esposto all’ansia rispetto ad altri individui. Questo è vero in particolare per il cosiddetto temperamento ansioso, quella forma di ansia cronica che affligge molte persone in maniera continuativa e che espone a un aumentato rischio di sviluppare anche reazioni di tipo depressivo, specie nei casi in cui si sia manifestato già in età precoce.
Meno evidente è invece la relazione tra questi recettori e le manifestazioni ansiose legate a condizioni specifiche di vita, come attacchi di panico, disturbo post-traumatico da stress, ansia sociale e fobie.
L’individuazione dei recettori Y1 e Y5 come responsabili del “governo” dell’ansia cronica è dovuta a studiosi americani guidati da Patrick Roseboom, dell’University of Wisconsin School of Medicine and Public Health, che hanno effettuato una ricerca neurobiologica sulle scimmie. Precedenti studi avevano dimostrato una significativa similitudine tra i sistemi di controllo dell’ansia nelle scimmie Rhesus e nell’uomo; in particolare, è stata studiata l’espressione dell’RNA messaggero che codifica lo sviluppo di questi due recettori.
«Sono risultati molto importanti, perché focalizzano l’attenzione su come dovrebbe essere il trattamento dell’ansia — dice il dottor John Krystal, editor della rivista Biological Psychiatry —. Deve mirare a promuovere il recupero psicologico dopo essere stati esposti a una condizione di stress, piuttosto che tentare di sopprimere la normale reazione di adattamento a situazioni potenzialmente minacciose».
In effetti, l’ansia è una condizione cognitiva e comportamentale utile per l’organismo, perché lo predispone ad affrontare situazioni potenzialmente pericolose. I problemi nascono quando non si riesce a “spegnere” la reazione ansiosa nel momento in cui non è più utile. «Uno stato di paura persistente può essere distruttivo — dice Krystal —. E i risultati di questa ricerca ci spingono verso nuovi trattamenti che promuovano il recupero, piuttosto che spegnere l’intensità emotiva della vita». Un riferimento, questo, all’azione degli attuali farmaci ansiolitici, che tendono a offuscare la percezione dell’ansia, ma anche a rendere più distaccati delle esperienze emotive, comprese quelle gradevoli. Se si riuscissero a creare nuovi farmaci capaci di mimare l’azione del neuropeptide Y sui recettori Y1 e Y5, si potrebbe controllare l’ansia cronica in maniera molto più naturale.
Negli ultimi decenni sono state scoperte diverse azioni dei neuropeptidi cerebrali, in particolare quella di modulazione della neurotrasmissione, il meccanismo attraverso il quale le cellule cerebrali comunicano tra di esse in punti di giunzione chiamati sinapsi. «Il neuropeptide Y è uno dei più diffusi nel sistema nervoso centrale e la sua larga distribuzione ne indica un ruolo in vari processi, come la regolazione dell’alimentazione, l’omeostasi energetica, i ritmi quotidiani — dicono Viktoria Kormos e Balazs Gaszner, farmacologo e anatomista dell’Università di Pécs, in Ungheria, in un articolo apparso sulla rivista Neuropeptides —. Ma è soprattutto lo stress ad avere una profonda influenza sul sistema del neuropeptide Y».
Ci si interroga, poi, su possibili cause genetiche dell’ansia cronica, come di altri disturbi psichici. «Sulla predisposizione ad ansia e depressione può influire l’assetto genetico di una molecola fondamentale per la regolazione del neurotrasmettitore serotonina, il “trasportatore della serotonina” — dice Francesco Bottaccioli, docente del Master di II livello in Psiconeuroendocrinoimmunologia dell’Università dell’Aquila e autore del libro Epigenetica e Psiconeuroendocrinoimmunologia (Edra, 2014) —. Nel 2003 si scoprì che ci sono due varianti del gene che comanda la produzione del trasportatore: una “corta” e una “lunga”. Si pensava che i possessori della variante corta fossero più predisposti all’ansia e alla depressione; studi successivi hanno dimostrato che sono più vulnerabili in un ambiente molto stressante, ma che in un ambiente più o meno normale sono addirittura avvantaggiati rispetto ai ‘lunghi’. Questo meccanismo è di tipo ‘epigenetico’: vuol dire che c’è una sorta di segnatura sul gene che ne regola al meglio l’espressione. La stessa cosa è stata dimostrata in neonati allevati in ambienti sfavorevoli: nel loro asse dello stress compare una segnatura epigenetica che li renderà più stressati e ansiosi. Ma la segnatura è reversibile: le cure materne o una psicoterapia possono cambiare la segnatura».

Corriere Salute 25.1.15
Donne «ipersensibili» ai pericoli per proteggere la specie
di D. d. D.


Il luogo comune vuole le donne più ansiose degli uomini e anche più esposte alla paura. Ma quanto c’è di vero in questa affermazione? Quali sono in proposito i risultati delle ricerche realizzate negli ultimi anni?
Una revisione della letteratura scientifica è stata svolta da due studiose americane, Carmen McLean ed Emily Anderson, rispettivamente del National Center for post-traumatic stress disorder di Boston e dello Yale University Child Study Center. La revisione, pubblicata su Clinical Psychology Review , indica che una differenza tra uomini e donne esiste rispetto alla paura, ma che non è generalizzata. Ad esempio, è provato che le donne hanno più frequentemente timore di animali repulsivi, come i serpenti, o anche di animali generalmente non pericolosi, come i cani. La differenza però tende ad annullarsi quando si prendono in considerazione animali davvero pericolosi, come leoni o squali. Rispetto a questi ultimi uomini e donne mostrano quasi lo stesso livello di timore. Nessuna differenza, infine, rispetto alla paura di trovarsi in spazi angusti, o a quella delle situazioni in cui si è costretti a socializzare.
Quando si entra nel vero e proprio territorio dei disturbi ansiosi, le donne risultano indubbiamente più esposte. Già tra bambini e bambine ci sono significative differenze: a sei anni le femmine hanno un rischio doppio rispetto ai maschi, una differenza che continua a manifestarsi durante tutto il periodo dell’adolescenza.
Le adolescenti sono afflitte da molte più preoccupazioni degli adolescenti, soprattutto da ansie di separazione. La prevalenza del disturbo d’ansia generalizzato è sei volte maggiore tra le adolescenti. In età adulta la differenza resta evidente, e infatti le donne sono molto più colpite degli uomini da agorafobia, disturbo d’ansia generalizzato, disturbi da attacchi di panico. Quest’ultimo tende a presentarsi in maniera diversa nei due sessi: le donne mostrano più frequentemente mancanza di respiro, tendenza a svenire, senso di soffocamento. Meno evidente lo scarto rispetto al fenomeno dell’ansia sociale.
Il differente profilo ormonale di uomini e donne è spesso indicato come una delle possibili cause della maggiore esposizione delle donne ad ansie e paure, proprio per il naturale andamento ciclico della secrezione ormonale correlata alla riproduzione. Gli studi sul campo citati dalle dottoresse McLean e Anderson mostrano un incremento dei fenomeni ansiosi nella cosiddetta fase luteinica, quella a ridosso della comparsa delle mestruazioni. Lo stesso vale per il periodo della gravidanza.
Un’altra differenza importante esiste sul versante dell’esposizione ai traumi psicologici. In generale gli uomini sono più esposti a eventi traumatici, ma sono le donne a trovarsi più frequentemente coinvolte in eventi traumatici per i quali è stata dimostrata dalle ricerche la capacità di indurre disturbi d’ansia. Si tratta di eventi quali le violenze sessuali, tentate o realizzate, e le violenze domestiche. Inoltre le donne sperimentano più frequentemente degli uomini crisi che coinvolgono importanti figure di riferimento affettivo, anche questa nota concausa dello sviluppo di fenomeni ansiosi.
Altri studi citati dalle ricercatrici americane forniscono tuttavia un’interpretazione in un certo senso incoraggiante per donne. C’è una ragione per la quale sono più esposte all’ansia e alle paure rispetto agli uomini e si tratta di una ragione “evoluzionistica”: le loro ansie rappresenterebbero una caratteristica psicologica che risulta utile alla riproduzione, una specie di livello di vigilanza più attivo che la natura avrebbe concesso esclusivamente alle donne, dal momento che sono impegnate nel compito di protezione e allevamento della prole, decisivo per la conservazione della specie.

Corriere Salute 25.1.15
Quando serve una cura fatta di parole e ascolto
di D. d. D.


Si chiama “Disturbo da ansia generalizzata” ed è quella forma di ansia persistente, difficile da controllare, che rende costantemente preoccupati, anche quando non ci sarebbero motivi. Alla preoccupazione si associano spesso irritabilità e sintomi somatici, quali la sensazione di stanchezza e la tensione muscolare.
Diversi studi hanno dimostrato che questo disturbo è più frequente in chi ha avuto difficili esperienze in età infantile e tra le persone che hanno la tendenza a mostrarsi timide e inibite di fronte alla nuove situazioni.
La persona ansiosa osserva l’ambiente circostante alla continua ricerca di possibili segnali di pericolo, di minacce incombenti. Si preoccupa a dismisura quando c’è da risolvere un problema, ha difficoltà a tollerare le situazioni di ambiguità e incertezza, è oppressa dalla sensazione di mancato controllo. Si tratta di un disturbo che può persistere ma che si può anche superare, seppure con un certo rischio di ricaduta: una ricerca pubblicata sull’American Journal of Psychiatry indica che il 60% delle persone ne soffre ancora dopo 12 anni dalla prima rilevazione; del 40% che lo ha superato, circa la metà torna a essere nuovamente preda dell’ansia nel giro di altri 12 anni.
Il decorso è più protratto tra le persone che hanno iniziato ad avere già da molto giovani i primi sintomi dell’ansia. Si tratta dei casi nei quali è più facile che si associno a questa condizione anche altri disturbi psichici, come la depressione, disturbi d’ansia ulteriori legati a specifiche condizioni di vita, e l’uso di sostanze.
A fronte di un’ansia tendenzialmente cronica, si cerca di ricorrere il meno possibile ai farmaci ansiolitici, più indicati per il trattamento di forme acute e transitorie. L’obiettivo diventa puntare su una psicoterapia. «Gli ansiolitici, come le benzodiazepine, possono indurre dipendenza e assuefazione, con il risultato che nel tempo il paziente può aumentarne la dose nel tentativo di ricercare gli stessi effetti. E quando il farmaco viene sospeso di solito l’ansia torna a salire — dice il dottor Paolo Migone, psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane —. Possono essere usate con qualche beneficio altre classi di farmaci, ad esempio certi antidepressivi, che a volte agiscono anche contro l’ansia, ma per ottenere risultati migliori non si può prescindere da una psicoterapia. Durante le sedute si cerca di comprendere se nella vita del paziente vi sono motivi alla base della sua ansia, e lo si fa in una situazione di sicurezza e rilassamento all’interno della relazione terapeutica».
«Vi sono vari approcci psicoterapici per l’ansia generalizzata, — prosegue Migone — molti dei quali sono diffusi anche in Italia, dove operano psicoterapeuti di orientamenti diversi. Dalla ricerca in psicoterapia fino a pochi anni fa risultava una maggior efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali, mentre recentemente emergono sempre più dati in favore anche di tecniche psicodinamiche. In media, comunque, i dati di cui disponiamo non fanno intravedere differenze significative tra diversi approcci nella psicoterapia dell’ansia generalizzata, come ha dimostrato una recente revisione della Cochrane Library. Anche la meta-analisi realizzata da Jonathan Shedler, professore di psichiatria all’University of Colorado School of Medicine, pubblicata su Psicoterapia e Scienze Umane , riporta dati in tal senso. Inoltre, stanno emergendo prove che chi intraprende un trattamento psicodinamico va meno incontro a ricadute. In ogni caso, si può affermare senz’altro, dati alla mano, che la psicoterapia è efficace nel trattamento dell’ansia più di quanto siano efficaci i farmaci antidepressivi nel trattamento della depressione».

Corriere Salute 25.1.15
Differenze
Cognitivo-comportamentale o psicodinamica?
di D. d. D.


La psicoterapia cognitiva è basata sulla ristrutturazione della modalità di pensiero, mentre quella cognitivo-comportamentale
dà anche indicazioni sul comportamento da seguire. L’obiettivo di entrambe queste forme di psicoterapia è quello di modificare i processi
di pensiero e, di conseguenza, le scelte e i comportamenti del paziente. Nella psicoterapia soltanto comportamentale vengono invece fornite unicamente indicazioni sui comportamenti.
A differenza delle precedenti, la psicoterapia psicodinamica prende in considerazione anche i pensieri inconsci del soggetto e mira a una ristrutturazione più profonda della personalità. Questo approccio ha quindi un orientamento psicoanalitico e la durata del trattamento è, di conseguenza, maggiore rispetto a quella cognitivo-comportamentale.