mercoledì 28 gennaio 2015

il Fatto 27.1.15
Sergio Cofferati

È una sfida anche al Pse
“Syriza, la sinistra che serve . Ora un nuovo partito”
intervista di Salvatore Cannavò

qui

il Fatto 27.1.15
Occhetto e i suoi eredi
“Tempo una legislatura e cadono sia Matteo che i Democratici”
intervista di Antonello Caporale

qui

La Stampa 28.1.15
Renzi incassa l’Italicum. Ma il Pd ormai è spaccato
I senatori dissidenti confermano la scelta e non partecipano Gotor attacca: un’altra soluzione non è stata neanche cercata
di Amedeo La Mattina


Il patto del Nazareno ha retto al giro di boa del Senato dove ieri sera la nuova legge elettorale è stato approvata con 184 sì contro 66 no e 2 astenuti (l’astensione a Palazzo Madama vale voto contrario). Ora passa alla Camera per il via libera definitivo. Ma in mezzo c’è la corsa per il Quirinale che dovrebbe chiudersi entro sabato, almeno nelle intenzioni di Renzi. Regalando l’Italicum nella versione voluta dal premier, Berlusconi intende passare all’incasso di una candidatura «amica» per il Colle e replicare per cerchi concentrici le larghe maggioranze che stanno funzionando per le riforme. In Fi c’è pure chi pensa che questo passaggio aprirà le porte a un nuovo governo con dentro ministri azzurri. Le votazioni di questi giorni, compresa quella ieri, hanno però messo in evidenza le profonde fratture nei due maggiori partiti (Pd e Fi), con tutto quello che ne può conseguire al momento del voto segreto per eleggere il nuovo capo dello Stato. I dissidenti a volto scoperto (altri si sono adeguati alle indicazioni dei loro gruppi) sono stati 24 senatori bersaniani guidati da Gotor, 4 di Ncd, 13 di Fi e 6 di Gal (questi ultimi 19 sono tutti vicini alle posizioni ribelle di Fitto). Sono usciti dall’aula o, rimanendoci, non hanno partecipato alla votazione. «E’ un numero destinato a raddoppiare quando nei prossimi giorni si tratterà di decidere per il Colle», assicura Minzolini.
Maggioranza sufficiente
Intanto Renzi si gode il successo. «E due. Legge elettorale approvata anche al Senato. Il coraggio paga, le riforme vanno avanti», ha scritto su Twitter, aggiungendo il consueto hashtag #lavoltabuona. Raggiante il ministro Boschi («sembrava impossibile qualche mese fa...», la quale con malizia ha fatto notare l’autosufficienza della maggioranza che sostiene il governo, nonostante «l’importante il contributo di Fi». I votanti in aula erano 252, la maggioranza richiesta era di 127 voti: ecco, i sì provenienti dal Pd più Area popolare (Ncd più Udc e Scelta civica) sono stati 130. Tre in più del necessario. Un’autosufficienza che è stata sottolineata anche dal capogruppo dem Zanda , che però è rimasto con l’amaro in bocca per la dissociazione dei senatori del suo gruppo. A suo giudizio avrebbero dovuto rivendicare i miglioramenti che loro stessi hanno ottenuto al testo della legge. Tra questi miglioramenti quello che più stava a cuore a Ncd erano le preferenze e Alfano le ha portate a casa (oltre allo sbarramento del 3%).
Fitto, no a soccorso azzurro
La maggioranza sarà pure stata autosufficiente nel voto finale, ma senza Fi non sarebbero passati tutti gli emendamenti voluti da Palazzo Chigi. Con il risultato, ha sottolineato Fitto, che questo modello elettorale avrà l’effetto di «spezzettare il centrodestra, impedire agli elettori di scegliere i candidati, concedere al Pd tutto quello che voleva». «Ringrazio molto i coraggiosi senatori che hanno lasciato l’aula marcando un giusto e pieno dissenso», ha detto Fitto. Critiche da Sel e dalla Lega. Sarcastico Calderoli: «Chiamatelo Italicum, stronzellum ma si capisce che appartiene alla specie dei suini e quindi del maiale. Se Berlusconi è tornato politicamente in vita lo deve a Renzi con buona pace del bipolarismo e del bipartismo... Francia o Spagna purché se magna».

La Stampa 28.1.15
Il conto di Silvio a Matteo
di Marcello Sorgi


C’è una contraddizione apparente tra la decisione di Berlusconi di votare a favore della legge elettorale approvata ieri in Senato, che può mettere in difficoltà il centrodestra, e quella di marcare la propria assenza, nelle stesse ore, alle consultazioni sul Quirinale che hanno tenuto il premier impegnato per l’intera giornata nella sede del Pd con le delegazioni di tutti i partiti, tranne il Movimento 5 stelle.
Ma appunto, si tratta solo di apparenza. Berlusconi s’è irritato quando ha capito che Renzi, con le consultazioni, intendeva diluire l’importanza del patto del Nazareno alla vigilia delle votazioni per eleggere il successore di Napolitano. Se al Nazareno ci vanno tutti, avrà pensato l’ex Cavaliere, che fino a due giorni fa deteneva l’esclusiva del «soccorso azzurro» al governo, la mia presenza di fronte all’amico Matteo non è più essenziale. Di qui la richiesta di un chiarimento, che potrebbe avvenire già oggi o domani, o nel peggiore dei casi non esserci e sancire la rottura.
Va detto subito che a quest’ultima possibilità al momento non crede nessuno. A differenza delle consultazioni di ieri, convocate a uso esclusivo delle telecamere, il patto tra il premier e l’ex premier, stipulato un anno fa, s’è dimostrato solido e ha influito sulla realtà, funzionando come un orologio e condizionando concretamente la politica italiana. L’appoggio di Forza Italia al governo non si è manifestato solo in occasioni strategiche, come il Jobs Act e la legge elettorale, in cui la minoranza interna del Pd era in grado di mettere Renzi in serie difficoltà. Ma anche nel giorno per giorno di un percorso istituzionale in cui il governo, in metà del Parlamento, non avrebbe avuto i numeri per governare se Berlusconi non glieli avesse garantiti, ora ordinando ai suoi senatori di votare a favore, ora di uscire dall’aula del Senato per facilitare l’approvazione dei provvedimenti con i numeri ballerini di cui il premier dispone, suo malgrado. Inoltre Berlusconi, non avvezzo, come si sa, a convivere con il dissenso, tanto da aver sopportato in passato varie scissioni, pur di non consentire un normale funzionamento democratico del suo partito, stavolta ha dovuto pagare il prezzo di un’opposizione interna ostinata e crescente, da parte di chi all’interno di Forza Italia lo accusa di essersi consegnato mani e piedi a Renzi.
Qui però l’apparenza finisce e comincia la sostanza. In cambio di cosa, infatti, l’ex Cavaliere si sarebbe convinto a una svolta così onerosa, se non in base a un tornaconto o per ricavarne un vantaggio? Ecco perché tutte le volte – e finora sono state sei – che Berlusconi ha varcato il portone di Palazzo Chigi, dopo l’incontro del 19 gennaio 2014 che segnò l’imprevedibile avvicinamento con Renzi, s’è parlato a ragion veduta di una sua riabilitazione politica. Se il premier è costretto a rivolgersi a un condannato per frode fiscale, che sta scontando la sua pena ai servizi sociali, ed è sottoposto a forti limitazioni della sua libertà personale, oltre ad aver patito la decadenza da senatore e la quasi completa esclusione dalla vita pubblica, vuol dire che riconosce di non poterne fare a meno, ma anche, implicitamente, che quel che Berlusconi ha subito è un problema da risolvere.
È ciò che l’ex Cavaliere ha pensato e la minoranza Pd non ha perso occasione di rimproverare al proprio leader. Il quale, prima ha fatto spallucce, sottolineando la forza dei risultati che il suo patto con il diavolo produceva. Poi, senza ammetterlo, deve aver cominciato a ragionare sull’eventualità che Berlusconi gli presentasse il conto, magari proprio in occasione del complicato passaggio del Quirinale. Un conto tra l’altro salato, che prevede una rilegittimazione nero su bianco del leader del centrodestra, stufo di essere a giorni alterni un reietto o un padre della patria, secondo se si allea con Renzi o torna a fare l’opposizione.
Ora, è da escludere che Renzi possa accontentare Berlusconi, impegnandosi, per esempio, ad abolire la legge anti-corruzione che ha segnato la sua decadenza da senatore, o addirittura convincendo il prossimo Presidente della Repubblica a nominarlo senatore a vita, come si sente di tanto in tanto dai fedelissimi dell’ex Cavaliere. Ma se non lo fa – e ci mancherebbe che lo facesse! – il patto del Nazareno si rompe. Alla fine, per non restare (o tornare) nella condizione da emarginato in cui ha vissuto per qualche mese prima della svolta renziana, e perdippiù in una scadenza delicata come quella del Quirinale, Berlusconi potrebbe decidere di votare lo stesso il candidato concordato e destinato ad essere eletto. Oppure riservargli lo stesso trattamento offerto a Napolitano al momento della prima elezione: non appoggiarlo, senza osteggiarlo. Ma è inutile nascondersi che il futuro delle riforme e del governo, dopo la rottura del patto, non sarebbe più lo stesso. E Renzi, che finora non è andato tanto per il sottile pur di realizzare i suoi obiettivi, in questo caso si accorgerebbe in ritardo di aver scherzato col fuoco.

Corriere 28.1.15
La legge elettorale rafforza il patto con gli azzurri
Ma la vera prova dell’unità del Pd sarà ora la sfida per il Colle
di Massimo Franco


L’approvazione della legge elettorale al Senato chiude un fronte insidioso per il governo. E consente a Matteo Renzi di presentarsi all’appuntamento del Quirinale, se non rafforzato, certo con un’incognita in meno. Il patto del Nazareno con Silvio Berlusconi continua a reggere. Il problema è che resiste anche la fronda del Pd, perché ieri 24 senatori hanno votato «no» all’Italicum; e si proietta sull’elezione del capo dello Stato, offrendo al leader di FI un supplemento di potere negoziale. Renzi insiste: bisogna chiudere entro sabato. Dunque, con Berlusconi.
Palazzo Chigi lascia capire che in caso contrario potrebbe saltare la legislatura. È un monito trasversale, ma forse anche un indizio di nervosismo. La determinazione a eleggere il capo dello Stato entro il 1° febbraio sa di esorcismo contro la prospettiva di andare oltre. Renzi è consapevole che in quel caso si incrinerebbe il patto del Nazareno con Berlusconi, aprendo nuovi scenari: per questo vuole far presto. Sulla carta, i numeri ci sono. E l’abbandono del Movimento 5 Stelle da parte di 9 deputati rimpolpa le truppe di riserva della maggioranza. Eppure, il sospetto che la scelta del presidente della Repubblica possa seguire un canovaccio imprevedibile rimane corposo.
Il premier doveva vedere Berlusconi ieri insieme con la delegazione di FI. Il colloquio ci sarà solo oggi, perché deve essere in grado di offrire il nome da votare insieme, imprigionato invece nella trama dei veti incrociati su gran parte delle candidature. Il mistero viene spiegato con l’esigenza di proteggerlo. Ma oppositori come il leader leghista Matteo Salvini sostengono che Renzi tiene le carte coperte perché non ha ancora in mano la soluzione. FI e Ncd pongono condizioni: vogliono che sia un politico, non un «tecnico». In più, serpeggia un filo di irritazione per la decisione del premier di consultare gli altri partiti nella sede del Pd.
L’iniziativa è stata interpretata con malizia dagli avversari: come se Renzi ritenesse che la designazione del capo dello Stato spetta in primo luogo a lui. Ironie a parte, la procedura rischia di mettere la data-ultimatum del 1° febbraio nel mirino di chi vuole far saltare il patto del Nazareno. Per il capo del governo, quel giorno dovrebbe rappresentare l’apoteosi della sua leadership e della capacità di saldare al massimo livello l’asse con FI. Di fatto, si cancellerebbe l’immagine di un Pd diviso, lasciata in eredità dalle votazioni della primavera del 2013. Ma non sono pochi a congiurare per rovinargli la festa; almeno, per rimandarla di qualche giorno.
Ieri il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, dopo l’approvazione dell’Italicum che adesso va alla Camera, ha dichiarato soddisfatta: «Qualche mese fa sembrava impossibile». E Renzi ha sottoscritto, chiosando: «Il coraggio paga». Eppure, sa bene che la vera scommessa sulla quale si gioca il futuro del governo e quello suo personale comincia domani, col Quirinale. L’esito dipenderà dalla capacità di convincere un Parlamento frantumato e a tratti ostile; e ancora prima, di assicurarsi il «sì» della grande maggioranza di un Pd che ne è lo specchio fedele.
Massimo Franco

Corriere 28.1.15
L’italia consegnata a una minoranza
di Paolo Cirino Pomicino


Caro direttore, abbiamo letto l’editoriale dell’ottimo Michele Ainis sulla legge elettorale (Corriere , 24 gennaio).
Aggiungerei questo. La nuova legge elettorale modifica profondamente il nostro sistema politico trasformandolo in qualcosa che non ha precedenti nelle democrazie europee. Sarà utile simulare ciò che accadrà all’indomani delle prossime elezioni politiche svolte con l’Italicum. La sera delle elezioni potremmo avere un partito che,toccando la soglia del 40% dei voti, avrà il 55% dei seggi (340 deputati) dell’unica Camera legislativa.
Se, invece, nessuno dovesse toccare quella soglia, si andrebbe al ballottaggio tra i due partiti maggiori. Il partito che dovesse prendere nel ballottaggio la maggioranza avrebbe sempre il 55% dei seggi. Per dirla in parole povere, il governo dell’Italia in questa maniera viene consegnato per sempre a una minoranza che rappresenterebbe, nel migliore dei casi, il 40% dei votanti (in caso di grande affluenza, tipo 70%, quel partito rappresenterà meno del 30% del Paese) diversamente, dopo il ballottaggio, ancora meno visto che nel secondo turno l’affluenza si riduce drasticamente. Ma non è finita. Quel partito che rappresentando poco meno o poco più un terzo del Paese avrebbe la maggioranza assoluta dei seggi, avrebbe anche un gruppo parlamentare a immagine e somiglianza del proprio segretario politico che da venti anni, in tutti i partiti, è il padre padrone che nominerà almeno cento deputati visto che i capolista sono nominati e non votati.
Non sfugge a nessuno che ciascun segretario politico nominerà i suoi fedelissimi che dovranno a lui e non ai cittadini lo status di parlamentare. Per concludere, un partito, minoranza nel Paese, sarà maggioranza assoluta nell’unica Camera rimasta con una selezione cortigiana dei deputati e sarà governato da un uomo o da una donna che sarà premier e segretario di partito diventando così padrone del governo e dell’Aula parlamentare e che nominerà da solo tutte le autorità di garanzia, compreso il presidente della Repubblica. Non sfugge a nessuno che — e in verità non è sfuggito ad Ainis nelle ultime righe del suo editoriale — il presidente della Repubblica non potrà più essere un arbitro ma dovrà gestire i suoi poteri in maniera più ficcante a cominciare dalla nomina dei ministri. Ma se il presidente della Repubblica sarà stato scelto in solitudine dal premier-segretario difficilmente lo potrà fare perché dovrà «servire» il dominus del Paese. Questo sistema, che non ha eguali in una Europa nella quale non c’è un premio di maggioranza del 15% e i cui governi sono per la stragrande maggioranza dei Paesi governi di coalizione, produrrà autoritarismi crescenti che porterà l’Italia ad essere ancora una volta un Paese a rischio. I fan di questo sistema enfatizzano la governabilità, ma se questo fosse l’obiettivo vero, la cultura politica offre una soluzione democratica, un sistema presidenziale con un parlamento largamente rappresentativo della società come contrappeso del potere presidenziale, un contrappeso che nell’Italicum non esisterà più. I prodromi di questa involuzione autoritaria sono tutti presenti nell’ultimo ventennio con la nascita dei partiti personali e la qualità della politica si è progressivamente dissolta con risultati che sono sotto gli occhi di tutti e che non possono non essere visti dai tanti democristiani, socialisti e liberali che pure hanno costruito la democrazia politica in Italia e che oggi sono colpevolmente silenti.
Un ultimo suggerimento ai lettori. Andate su internet e leggete cosa accadeva nel biennio 1923-1924 e rimarrete sconvolti per le somiglianze con il dibattito dell’epoca e con la legge Acerbo. Certo, oggi grazie a Dio, non c’è il fascismo ma l’eterna tentazione dell’uomo, l’autoritarismo, cambia spesso vestito a secondo delle stagioni e qualche volta viene scambiato per modernità.
Ex ministro Dc

Repubblica 28.1.15
Il rebus del Quirinale si sta complicando per l’aggressività dell’ex Cavaliere
Si avverte il profumo di un possibile contropatto anti-Renzi
La mitologia del Nazareno potrebbe avvicinarsi al suo tramonto
Perché il premier rischia di perdere il mantello di invincibile
di Stefano Folli


FINO a ieri la soluzione del rebus Quirinale poggiava su due scenari fra loro divergenti. Secondo il primo, il filo fra Berlusconi e Renzi era d’acciaio e portava appeso il nome del prossimo presidente della Repubblica: più o meno coperto, più o meno insospettabile, ma destinato a emergere al momento giusto spiazzando i dubbiosi dei diversi schieramenti. Lo spavaldo ottimismo del premier (scheda bianca nelle prime tre votazioni e poi alla quarta elezione sicura) accreditava questa ipotesi: un «patto del Nazareno» così solido e totalizzante da rendere irrilevanti le fratture all’interno del Pd, il partito di cui Renzi è il segretario.
Il secondo scenario racconta un’altra realtà. Il patto esiste ma reca evidenti segni di logoramento. Berlusconi non si accontenta più di essere il numero due di Renzi e dopo avergli dato l’Italicum con il premio alla lista anziché alla coalizione (senza peraltro che ieri i suoi voti siano stati determinanti) non ha voglia di regalargli anche un presidente della Repubblica scelto a Palazzo Chigi. Ne deriva che saremmo alla vigilia di uno scossone destinato a cambiare la geografia delle alleanze esplicite e soprattutto implicite. Quello che sta accadendo nelle ultime ore sembra accreditare la seconda fotografia rispetto alla prima, invecchiata all’improvviso. Renzi teme — e lo dice — un’intesa alle sue spalle fra la minoranza del Pd (D’Alema e Bersani) con Berlusconi per fare blocco sul nome di Giuliano Amato. Se fosse un timore fondato, e finora non ci sono prove che lo sia, le conseguenze non sarebbero di poco conto.
In primo luogo vorrebbe dire che l’elezione del presidente della Repubblica non passa più attraverso la regìa di Palazzo Chigi, ma percorre altre strade nei meandri della Roma politica. Eventualità possibile sulla carta, ma non indolore. Il presidente del Consiglio sarebbe posto di fronte a due scelte. O accetta l’accordo sottoscritto sulla sua testa da altri, compreso il vecchio alleato «nazareno», e subisce un danno forse irreversibile alla sua «leadership »; ovvero si mette di traverso, facendo appello alla maggioranza renziana del Pd, per far saltare l’accordo. Il che significa però prendere atto che il vecchio assetto fondato sulla convergenza con Berlusconi è finito alle ortiche. Doveva costituire l’asse della legislatura e invece non ha retto al passaggio più difficile e qualificante, la successione di Giorgio Napolitano.
Ognuna delle due ipotesi comporta più rischi che vantaggi. Nel primo caso, Renzi avrebbe perso la sua aureola di invincibile e, quel che è peggio, si troverebbe al Quirinale un capo dello Stato che non gli deve nulla. Il premier sarebbe molto indebolito e non in condizione di orientare la legislatura secondo la sua volontà.
Nel secondo caso, Renzi dovrebbe in un certo senso sfidare se stesso, oltre che la sorte avversa. Dopo aver coltivato per mesi la mitologia del Nazareno, avrebbe un drammatico bisogno di voltare pagina, cercando in fretta un «piano B». In un simile contesto il nome di Sergio Mattarella potrebbe (diciamo potrebbe) essere usato per fermare la candidatura di Amato. Naturalmente questo significa per il premier gettarsi nella mischia, diventando l’uomo che accetta fino in fondo la sfida all’interno stesso del Pd, mettendo e subendo «veti» a personalità istituzionali di primo piano. Conseguenza inevitabile: se Renzi emerge vincitore dalla battaglia, il patto con Berlusconi non esiste più e bisognerà costruire una nuova cornice per le riforme. E prima o poi anche per il governo.
Se viceversa il presidente del Consiglio dovesse perdere dopo aver combattuto, è chiaro che la sconfitta sarebbe clamorosa e potrebbe obbligarlo addirittura all’uscita di scena. Naturalmente esiste ancora la possibilità di una mediazione, ma fra poco potrebbe essere tardi. Forse lo è già. Sarebbe stato meglio per Renzi cominciare a mediare quando le acque erano più tranquille.

Repubblica 27.1.15
Walter Tocci
“Non è più tempo di interventisti ecco perché ci serve un tecnico”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA «Per il nuovo Presidente sono possibili due strade: un politico o un tecnico. Preferisco la seconda, ma posso accettare anche la prima. È meglio comunque decidere subito, piuttosto che cambiare percorso bruscamente». È il senatore del Pd Walter Tocci a immaginare l’identikit di un tecnico per il Colle.
Un “non politico” al Quirinale. Qual è il percorso?
«Dovrebbe essere il segretario a fare una proposta».
L’era dei tecnici, dopo Monti, sembra però tramontata.
«Abbiamo già dato. Il tecnico non deve essere un economista. Piuttosto, un costituzionalista o uno studioso dello Stato».
Chi corrisponde a questo profilo? Vengono in mente Amato, Cassese, De Siervo.
«Il Paese dispone in questo campo di tante personalità prestigiose. È giunto il tempo di raffreddare l'interventismo politico del Quirinale, magari necessario quando la politica ha dato segni di disorientamento. Ora la politica rivendica piena autonomia di scelta ed è il momento di un contrappeso di natura istituzionale. In questo schema un Presidente di garanzia costituzionale potrebbe contrastare la tendenza all'elusione delle regole (troppi decreti e deleghe governative) e indirizzare il Parlamento a scrivere poche leggi, ma chiare».
L’altro percorso prevede un Presidente politico.
«Per costruire un ampio consenso si potrebbe organizzare una vera consultazione. Ciascun parlamentare del Pd esprime la propria preferenza col voto segreto. Si forma una rosa di nomi dalla quale il segretario sceglie il candidato da proporre agli altri partiti. C’è un precedente storico: Aldo Moro fece votare a scrutinio segreto i suoi parlamentari».
E come finì?
«Scelsero Antonio Segni, che fu poi eletto al Quirinale. Certo, non fu un buon Presidente, ma la procedura decisionale era molto innovativa. Furono i democristiani a inventare le primarie per il Colle...».

Repubblica 27.1.15
Il ritorno di Sposetti sulla scena del delitto
di Sebastiano Messina


Lunedì 2-6 gennaio, Santi Timoteo e Tito
DI questa lunga vigilia delle presidenziali, quello che senatori e deputati ricorderanno a lungo saranno le interminabili votazioni in serie: sono tutti inchiodati allo scranno per votare – emendamento dopo emendamento – l’Italicum e la riforma della Costituzione. Oggi pomeriggio, a Palazzo Madama, il salone Garibaldi era deserto come il sabato mattina. E persino nel Transatlantico avvistare un deputato era diventato un evento. Erano tutti in aula. A un certo punto un piccolo assembramento, lento e compatto come una scolaresca in visita, si è diretto verso l’aula: erano i cronisti che assediavano Bersani per strappargli una dichiarazione, una frase, o almeno un segnale per Renzi. Ma l’ex segretario di Quirinale non voleva sentir parlare, e aveva voglia di commentare solo il successo di Tsipras, protagonista di una trionfale “non-vittoria” (149 seggi su 300) più fortunata della sua, che a quell’ora lo aveva già portato a giurare come premier.
Nel vuoto di questi saloni semideserti, un solo deputato può diventare primattore per cinque minuti. Come il grillino Fico, che alle domande dei giornalisti sul rifiuto di incontrare Renzi al Nazareno rispondeva con la posizione ufficiale dei Cinquestelle, aggiungendo però un finale melodrammatico: «Non torneremo sul luogo del delitto!». E invece ieri qualcun altro è tornato sul luogo del delitto: Ugo Sposetti. Pur essendo un senatore, ha passato il pomeriggio alla Camera. Proprio lì dove due anni fa – secondo i prodiani – organizzò la congiura dei 101 che bloccò l’ascesa del Professore al Quirinale, con una tempesta perfetta di telefonate ed sms. Lui stesso un giorno raccontò: «Mi hanno regalato il poster del film, La carica dei 1-01 . Bellissimo. L’ho appeso nel mio studio». Sposetti, lo sanno tutti, non è uno che ama perdere tempo. Lui che è stato il tesoriere dei Ds, il co-tesoriere dell’Ulivo e il co-tesoriere dell’Unione - prima di diventare il dominus della “Associazione Enrico Berlinguer delle fondazioni democratiche”, ovvero la holding delle 70 fondazioni- cassaforte che custodiscono tutti i beni dell’ex Pci Pds-Ds – è ormai la vera eminenza grigia della Ditta, l’uomo a cui per molti è difficile dire di no. Dunque cosa veniva a fare alla Camera, invece di stare al suo posto al Senato a votare l’Italicum? Mistero. Ha confabulato un po’ con Bersani. Ha chiesto a un compagno di partito com’era andata l’assemblea dei deputati con il segretario. Poi ha fatto due chiacchiere con i giornalisti, con la solita premessa: «A patto che non scriviate nulla. Con voi meno si parla, meglio è».
Naturalmente tutti ci siamo chiesti per quale candidatura – o contro quale candidatura – stesse lavorando. Ma se provavi a chiederglielo, Sposetti ti squadrava con la sua aria furba e navigata, e capivi che stava pensando: ma davvero, povero grullo, pensi che lo vengo a raccontare a te, quello che sto facendo? Poi ha avvistato il veltroniano Andrea Martella e gli è venuta un’idea: «Adesso vado da lui – ha annunciato, sorridendo sotto i baffi - e gli dico: senti, se quei voti che stai raccogliendo non ti servono più, io saprei consigliarti a chi darli… ». Così ci ha salutato in fretta, e si è allontanato verso il suo bersaglio.

Repubblica 27.1.15
Il gioco al rialzo del Cavaliere e le crepe del Nazareno
L’effetto Italicum sulla corsa al Quirinale rende più difficile individuare un candidato vincente
di Stefano Folli

OGGI il Senato approva la riforma elettorale, il cosiddetto Italicum, e per il presidente del Consiglio si tratta di un successo indubbio. Nel corso delle settimane la rete degli oppositori ha prodotto il massimo sforzo per impedire o ritardare la legge, ma alla fine ha prevalso il patriottismo di partito. Fra i dissidenti qualcuno è rientrato nei ranghi, come sempre accade quando il risultato della battaglia è ormai deciso.
Renzi ha quindi vinto, ma non senza ferite più o meno profonde. Il Pd è scosso, logorato da una lunga tensione, e fra il premiersegretario e la minoranza il rapporto politico è più o meno inesistente. Come si dice in questi casi, il fuoco cova sotto la cenere. Quel che è certo, il giorno in cui il centrosinistra si è spaccato, permettendo a Forza Italia di rendere decisivi i suoi voti, qualcosa è cambiato nella complessa costruzione politica di cui Renzi vuole essere l’architetto. Berlusconi è diventato più forte e il presidente del Consiglio invece lo è meno. Oggi arriva il successo del voto finale sulla riforma, ma il quadro in ogni caso non cambia.
D’altra parte il patto con il leader di Forza Italia, che in apparenza ha retto alle scosse, non sembra più granitico come poche settimane fa. La spiegazione è semplice: il Nazareno vorrebbe essere un sistema di potere, ma in realtà è soprattutto un’intesa su singoli punti; per funzionare ha bisogno che l’elemento guida sia Renzi, con Berlusconi in un ruolo subalterno. Se il rapporto cambia, cominciano i problemi. Lo si è visto sulla questione fiscale, quando Palazzo Chigi non è riuscito a far passare la famosa clausola del 3 per cento e ha dato l’impressione - magari solo l’impressione - di essere indotto ad agire da una volontà esterna e impaziente.
In altre parole, se Berlusconi è capace di rimettersi al centro del palcoscenico, il patto si rivela tutt’altro che inattaccabile: oltre un certo limite Renzi non può seguire il suo partner e quando lo fa il contraccolpo è tale da vanificare il risultato. Lo vedremo in questa settimana, ora che la riforma elettorale viene archiviata, almeno al Senato, l’attenzione e l’incertezza si spostano al Quirinale, il crocevia cruciale della legislatura. E qui, a maggior ragione, si ripropone il nodo: se il patto fosse quella cornice rigida che molti descrivono, non ci sarebbe alcun dubbio: il presidente sarebbe eletto alla prima o seconda votazione. In realtà si naviga in alto mare e con molta nebbia attorno.
Il fatto è che Berlusconi, forte anche dell’alleanza con Alfano, non resiste alla tentazione di alzare il prezzo poiché vede in qualche difficoltà il suo interlocutore (e sarebbe strano il contrario, con un Pd diviso, gonfio di frustrazione, e sei o sette candidati eccellenti alla presidenza che si guardano in cagnesco). Così i nomi continuano a girare in modo vorticoso, ma in forme sempre meno credibili. Risultato, si crea una curiosa contraddizione.
Da un lato, c’è l’ottimismo conclamato del premier che garantisce il presidente eletto sabato prossimo: quarto scrutinio, quorum più basso. Dall’altro non è chiaro come si arriverà al traguardo, visto che non s’intravede una verosimile griglia di accordo trasversale intorno a un nome e un volto. Quello che si vede è un patto del Nazareno che regge, sì, ma in cui Berlusconi chiede di più, ossia un capo dello Stato non espressione della sinistra. E in cui Renzi non è ancora sicuro di riuscire a riunire i democratici dietro la sua leadership. I malumori sono diffusi, benché silenti, e dopo la conclusione della riforma elettorale sembrano attendere l’occasione per manifestarsi. A questo punto, delle due l’una: o il premier è in grado di presentare entro pochi giorni un candidato del Pd in grado di suscitare la minore ostilità possibile, oppure gli serve un’idea per uscire dalle sabbie mobili che lentamente cominciano ad agguantarlo.

Il Sole 28.1.15
Il piano di Renzi per riorganizzare il Pd e la scelta per il Quirinale
di Lina Palmerini

Ci sono due spine nel fianco di Renzi: la minoranza del Pd e la magistratura. E c’è una novità nel pallottoliere di Palazzo Chigi, la scissione di ieri dei 5 Stelle. Tre fattori che incidono nella scelta del capo dello Stato. Il toto-nomi per il Quirinale gira a vuoto su figure che un giorno sono più politiche, un altro più di garanzia.
Gira a vuoto anche sugli outsiders e sulle composizioni diverse che ogni giorno assume la minoranza del Pd o di Forza Italia. Quello che resta stabile è il calcolo delle convenienze di Matteo Renzi. Un calcolo che si deduce anche da quelle che sono le sue vere spine nel fianco: da un lato la sinistra del partito e dall’altro il nuovo scontro che si è aperto con la magistratura. Di certo, un elemento decisivo sarà quello del rapporto tra Renzi e la sua minoranza che a giorni alterni inasprisce lo scontro o lo diluisce. Sembra che Renzi – in uno dei suoi colloqui di ieri con le forze politiche – abbia detto che dopo l’avvio di un nuovo pacchetto di riforme, tra cui un provvedimento sulla concorrenza, voglia occuparsi del partito e ricominciare a girare l’Italia. Questo cosa vuole dire? Sicuramente dare un assetto diverso al Pd anche se non si capisce verso quale direzione. In ogni caso, queste considerazioni entreranno nelle riflessioni sulla scelta del candidato per il Colle. E quindi è certo che la ricerca del profilo per il capo dello Stato non includerà un politico che possa ridisegnare il Pd dal Quirinale con una prospettiva diversa o addirittura contraria a quella di Renzi.
Insomma, è difficile immaginare una candidatura politica che non abbia una sintonia con Renzi su quel che dovrà essere il Pd nei prossimi mesi. Se spingerlo verso un’area più moderata o invece approfittare dell’effetto-Tsipras per “coprire” anche l’ala sinistra rimasta scoperta. E, pensare, per esempio, di allearsi o assorbire gli “scissionisti” del Movimento 5 Stelle e sostituirli con quella che oggi è la minoranza del suo partito. È interessante quello che è accaduto ieri con i dieci grillini che proprio alla vigilia delle votazioni per il capo dello Stato hanno deciso di abbandonare il Movimento per aprirsi alle trattative con il Pd. Forse da questo test sul Quirinale potrebbe nascere un percorso politico o addirittura una nuova area dentro il partito, si vedrà.
L’altro fronte scoperto, perfino più insidioso per Palazzo Chigi, è lo scontro con la magistratura. I toni davvero duri e inediti che si sono letti e ascoltati qualche giorno fa riportano ai tempi di Berlusconi e profilano un muro contro muro che è rimasto poco sui giornali solo perché scalzato dalle cronache sul toto-Quirinale. Ma la questione dei rapporti con la magistratura resta sul tavolo, e lo scontro è pronto a ripartire nel momento in cui sarà definita la casella del Colle. Dunque, anche nella scelta del nuovo capo dello Stato, il premier – e larga parte della classe politica soprattutto in Forza Italia – terrà conto di questo aspetto. Questo potrebbe portare a orientarsi su un profilo in grado di spegnere – o invece contrastare – un nuovo duello tra potere esecutivo e giudiziario che già ha attraversato altre fasi della politica. E che ha attraversato in modo molto diretto ed esplicito anche la presidenza della Repubblica se si pensa alla trattativa Stato-mafia e al conflitto tra Giorgio Napolitano e Procura di Palermo prima sulle intercettazioni poi sulla testimonianza che l’ex capo dello Stato ha dovuto sostenere al Quirinale. È plausibile che quindi a Palazzo Chigi e in larghe frange del Parlamento si consideri questo elemento nella scelta e nelle votazioni per il capo dello Stato.

La Stampa 27.1.15

Il patto del Nazarakis
di Massimo Gramellini
qui
il Fatto 28.1.15
Doppie morali
Compagni, perché Kammenos sì e Farage no?
di Andrea Scanzi


È curioso l’atteggiamento della sinistra italiana di fronte alla scelta tsiprasiana di governare con i greci indipendentisti. L’Anel è una forza conservatrice, nata da una costola di Nd. Una specie di Ncd ellenico, però più sveglia (ci vuol poco) e meno europeista. Un po’ come se, in Italia, Nichi Vendola governasse con Angelino Alfano: esempio forse sbagliato, perché Vendola ha già intrattenuto rapporti non proprio conflittuali con gente al cui confronto Alfano è Engels (Don Verzé, Archinà), ma che fa capire la situazione. Dopo aver vinto le elezioni senza maggioranza assoluta, Syriza ha subito stretto l’alleanza rosso-nera con Panos Kammenos. Suona bizzarro cantare Bella Ciao e poi governare con un leader noto per gaffe sugli ebrei, incitamenti al linciaggio, teorie complottistiche, antipatie per i tedeschi, posizioni anti-immigrati e allergie a divorzio e aborto.
Ricorda qualcuno? Sì, Nigel Farage. Con il quale, dopo le Europee, il M5S strinse una criticatissima - anche da questo giornale - “alleanza tattica”. Grillo ripeté che non si poteva fare altro, che i Verdi non erano disponibili, che se non fai gruppo a Bruxelles non conti nulla e che appartenere a quella macedonia euroscettica non avrebbe significato votare come Ukip. A dire il vero si spinsero oltre, ricoprendo di insulti chiunque osasse sostenere che Farage non era Gandhi, ma il talebanismo di certi 5 Stelle è noto. Quelle critiche erano giuste, come hanno testimoniato gli attriti tra M5S e Ukip (vedi voto sulla Palestina) o gli smottamenti interni al gruppo. Va però anche riconosciuto che, a Bruxelles, i 5 Stelle votano effettivamente senza vincoli nei confronti di Farage. Oltretutto, non essendo “né di destra né di sinistra”, potrebbero flirtare con chiunque.
Diverso il caso di Syriza, dichiaratamente di sinistra radicale, anche se poi Tsipras un giorno fa Marx, l’altro è in sintonia con Matteo Renzi e quello dopo si allea con Kammenos. I fatti dicono che ha preferito i 13 seggi dell’Anel ai 15 dei comunisti e ai 17 del centrosinistra. I novelli esperti di politica greca, in una continua arrampicata sugli specchi, ripetono che non si poteva fare altro perché per i comunisti “Tsipras non rappresenta nessun cambio” e il centrosinistra sarebbe entrato solo a patto di venerare la Troika. Tsipras ha scelto Kammenos perché è l’unico fortemente contrario al Memorandum tra Troika e precedente governo e perché anche in Grecia non mancano i Bertinotti e Turigliatto: meglio un fascistello fedele di un comunista bizzoso. Il rischio - così ragionando - è giustificare qualsiasi Patto del Nazareno, ma forse Tsipras ha fatto bene. Come forse fece bene il M5S.
DEL RESTO, almeno in Italia, il centrosinistra è più di destra della destra. E magari la scelta di Tsipras dimostra che gli steccati ideologici sono davvero superati e “il nemico del mio nemico è mio amico”. Sarebbe però bello se ci fosse uniformità di giudizio. Se sbagliava il M5S a stare con Fa-rage, sbaglia ancora di più l’ideologico Tsipras a stare con Kommenos, visto che lui ci governa pure: sai che idillio, quando si tratterà di votare su immigrazione e temi etici. Eppure i 5 Stelle hanno sempre la rogna mentre la sinistra ha sempre ragione. Ai tempi di Grillo-Farage, Vendola tuonò: “È un disvelamento, o, come direbbero i teologi, un’epifania. Si è dimostrato, per chi non l’aveva capito, che Grillo è quella roba lì”.
Ecco, compagno Nichi: onestà intellettuale minima imporrebbe che, se Grillo era “quella roba lì” (sciocchezza), anche Tsipras è “quella roba lì” (sciocchezza). E invece, dagli stessi statisti che giustamente provarono imbarazzo per la mossa dei 5 Stelle, non si odono ora analoghi j’accuse. Toh, che strano.

La Stampa 27.1.15
Tsipras sceglie un ultranazionalista per combattere l’Ue
“Come coalizione è un azzardo ma può funzionare contro l’austerity”
Civati: paragone difficile, è come se il Pd si alleasse con i 5 Stelle
di Roberto Giovannini


Filippo Civati, la sua gioia per la vittoria di Alexis Tsipras non è guastata dall’alleanza tra Syriza e i conservatori destrissimi del partito dei «Greci Indipendenti»?
«È una scelta che è un azzardo, ritengo. Dopo di che, in parte è anche fondata: la sfida di Tsipras è sulla lotta all’austerity, e da quel che capisco quel partito era l’unico partner che non avrebbe creato problemi. Ho visto che Formigoni, con molta ironia, fa confronti con le larghe intese italiane...»
Appunto: anche Renzi per fare le riforme, giustamente, fa il Patto del Nazareno. Tsipras sì, Matteo no?
«Intanto Tsipras ha vinto le elezioni, a differenza di Renzi. Che peraltro ha recuperato le larghe intese che c’erano con chi ha perso le elezioni, e deciso di farle durare per cinque anni. Sono paragoni del tutto inappropriati. Proprio volendo trovare una similitudine tra Grecia e Italia, se noi del Pd riuscissimo a trovare una forza politica disponibile a fare con noi una battaglia in una alleanza spuria, si dovrebbe pensare al M5S. Detto questo, ripeto, quello di Tsipras è un azzardo. Mi chiedo come farà a far marciare il governo su temi come l’immigrazione o i diritti civili. Ma in ogni caso quella tra Tsipras e Anel è un’alleanza programmatica limitata; da noi si è fatto un patto di legislatura per varare leggi e riforme su cui noi non siamo peraltro d’accordo».
Ci si chiede: in Italia si può ripetere l’operazione politica riuscita ad Alexis Tsipras?
«Non credo alle imitazioni. Oggi c’è ancora chi cerca di imitare Blair vent’anni dopo; prima si imitava Zapatero, ci si “obamizzava”, si confidava in Hollande... I suoi segreti sono stati un fortissimo radicamento sociale, e la capacità di unificare su una linea di nuova socialdemocrazia radicale un campo molto diviso».
E da noi? Serve una Syriza più moderata?
«Da noi bisogna ricostruire un centrosinistra che oggi non c’è, innanzitutto per indisponibilità del Pd e per la divisione della sinistra».
Ma lei è interessato a un nuovo soggetto politico?
«Io sono interessato a un progetto di governo per cambiare le cose in modo radicale in Italia e in Europa. Con questo governo non credo che sia possibile riuscirci. Serve un progetto di governo e un progetto di coesione sociale. C’è un lavoro politico da fare, prima ancora di trovare un ipotetico candidato premier o individuare un progetto di organizzazione. Chiusa la vicenda del Quirinale, lavoreremo a questo programma di governo da sottoporre al Pd e alle forze di sinistra e centrosinistra. Siamo in tanti ad avere dubbi rispetto alle scelte del governo, ma l’elaborazione non si è ancora completata».
Il Quirinale, diceva. Lei propone Prodi.
«Io ho fatto una proposta altissima - Romano Prodi - solo i maliziosi possono leggere come un attacco al Partito Democratico. Mi pare la persona più autorevole per rappresentare il Pd e il Paese. Secondo, Prodi è anche quel centrosinistra di cui parlavo, e che non c’è. E in Europa sarebbe un interlocutore molto scomodo per certe impostazioni di iperausterity».

Repubblica 27.1.15
La sinistra italiana e il vento dell’est
di Gad Lerner


TENIAMOCI forte perché ora si comincia a ballare per davvero, sul bordo di un debito pubblico che tutti sanno inestinguibile .
E A uscirne terremotata potrebbe essere quell’alleanza fra le due famiglie tradizionali della politica europea — popolari e socialisti — su cui si regge la Commissione Juncker. La Grecia fa ballare l’Europa mandando al governo una Coalizione della Sinistra Radicale (questo significa l’acronimo Syriza) che ha riscosso il consenso del ceto medio impoverito grazie all’esempio del suo volontariato di mutuo soccorso e con la promessa di un’economia fondata su principi umanitari: aumentare pensioni e salari minimi, bloccare il pignoramento delle case, diluire il pagamento dei debiti con lo Stato, restituire l’assistenza sanitaria ai disoccupati. Anche a costo di infrangere gli accordi stipulati dai governi precedenti con la Troika. Giungendo fino a stipulare un’alleanza con il piccolo partito di destra anti-euro Anel, l’unico denominatore comune essendo proprio questa scelta di indisciplina rispetto ai memorandum europei applicati dal predecessore Samaras.
In campagna elettorale Alexis Tsipras, divenuto ieri capo del nuovo governo di Atene, ha enumerato le ragioni per cui la Grecia rivendica il diritto a negoziare un’insolvenza che l’establishment europeo e il Fmi considerano devastante, perché incoraggerebbe altri paesi indebitati a seguirne l’esempio. L’arma proibita, e perciò non dichiarata da Tsipras, in caso di fallimento dei negoziati, consisterebbe nella decisione unilaterale di ristrutturare il debito greco. Ovvero di pagarne solo una parte. Molti esperti ritengono che ciò rimetterebbe in discussione l’attuale moneta unica europea.
Se questo è lo scenario che si annuncia a seguito del terremoto politico in Grecia, è evidente che la prima a esservi coinvolta sarà la sinistra riformista, il Partito socialista europeo che vede improvvisamente stravolti, invecchiati, i suoi paradigmi: ammansire i mercati finanziari rispettando la disciplina di bilancio, anche se ciò l’ha costretta malvolentieri a applicare una politica economica di austerità. La sequenza fino a ieri solo temuta, e da oggi divenuta probabile, è che alle elezioni d’autunno in Spagna vinca Podemos sulla stessa linea di ristrutturazione del debito che ha premiato Syriza. A quel punto anche il Portogallo potrebbe seguire. E l’Italia, inchiodata da un debito gigantesco che toglie ossigeno all’economia reale?
Alexis Tsipras e Matteo Renzi sono coetanei, quarant’anni appena compiuti. Volti nuovi accomunati da una pulsione di leadership finalizzata al ricambio di classe dirigente per fronteggiare l’emergenza economica in cui sono precipitate la Grecia e l’Italia. Pablo Iglesias, il candidato premier di Podemos, è ancora più giovane e radicale di loro. Qui finiscono le somiglianze, ma è evidente che i nuovi leader di un’Europa mediterranea indebitata, disoccupata e impoverita, pur nella reciproca diffidenza avranno bisogno l’uno dell’altro per farsi valere a Bruxelles, Berlino e Francoforte. Non a caso i socialdemocratici tedeschi della Spd, al governo con la Merkel, restano i più freddi di fronte alla vittoria di Syriza, che invece accende le speranze euromediterranee. Ma è proprio nei paesi del Sud Europa che — con l’eccezione dell’Italia — si è già sbriciolato il consenso dei partiti socialisti vincolati dalle larghe intese rispettose dei trattati vigenti. Lo stesso Partito democratico, forte del suo 40,8% di voti validi consepolitica alle europee del maggio 2014, non può che guardare con preoccupazione alla sorte del Pasok, il “partito fratello” greco, precipitato dal 43% del 2009 al 5% odierno. I sondaggi dicono che il Psoe spagnolo rischia di fare la stessa fine.
Il nostro Renzi, proteso com’è a occupare il centro del sistema politico italiano recuperando i consensi in libera uscita da una destra acefala, finora ha diffidato di Tsipras. Più volte si è negato a richieste d’incontro col leader di Syriza (come già fece Bersani prima di lui), forse per non infrangere il patto di lealtà con il Partito socialista europeo cui solo di recente ha fatto aderire il Pd. Suonava anzi come un vistoso distinguo l’incontro fiorentino di Renzi con la cancelliera Merkel, avvenuto lo stesso giorno in cui Tsipras concludeva la sua campagna elettorale trionfale. Ma ora cambia tutto. Renzi ha fondati motivi per muoversi con maggior cautela (l’enormità del nostro debito pubblico), e inoltre gli è estranea la formazione culturale anticapitalistica di Tsipras e Iglesias. Eppure gli si presenta un’occasione unica per andare oltre le timide richieste di flessibilità nell’applicazione dei trattati che hanno contraddistinto il semestre italiano di presidenza dell’Ue.
All’improvviso si avvia una ricomposizione degli schieramenti politici europei in cui la “rivolta” dei paesi del Sud potrebbe determinare esiti fino a ieri imprevedibili. Un cambio di baricentro negli equilibri interni alla sinistra socialista, ma anche nelle linee di indirizzo della Commissione. Com’era prevedibile, la vittoria elettorale di Syriza rilancia pure le aspettative dell’estrema sinistra italiana che punta a uno sfaldamento del Pd. Soffiano di nuovo venti di scissione, dimenticando che se Renzi ha assunto con voto plebiscitario la guida del Pd, ciò fu dovuto alla palese inadeguatezza della classe dirigente che lui ha sconfitto.
Per escludere la possibilità di una meccanica trasposizione in Italia del fenomeno Syriza, basterebbe riconoscere le peculiari caratteristiche che hanno favorito il radicamento di quel movimento nella realtà greca: niente a che vedere con l’antiguito grillina o col litigioso ceto politico della veterosinistra nostrana, di matrice ex Pci o estremista. Syriza deve la sua fortuna a una pratica di giustizia sociale dal basso maturata in risposta alla sofferenza sociale. Un’intera generazione di medici e infermieri volontari che hanno dato vita a ambulatori gratuiti; e poi mercati popolari di generi alimentari, mense, ricoveri notturni… In una parola, quella cultura umanitaria del mutuo soccorso che finora in Italia si è sviluppata lontano da una politica concentrata nelle lotte di potere.
Se l’esperimento greco non si risolverà presto nell’ennesima disillusione, esso potrà schiudere un’alternativa popolare ai movimenti nazionalisti e xenofobi che minacciano l’edificio dell’Unione. Ieri Le Pen, Farage e Salvini hanno salutato con favore la vittoria di Syriza, ma è evidente che l’estrema destra resta agli antipodi del solidarismo uscito vincente dalle urne a Atene. Come si augurano i neonazisti di Alba Dorata, inquietante terza forza della politica greca, i reazionari confidano in un rapido fallimento di Syriza. Se verranno smentiti dalla realtà, allora è verosimile che dal bacino di civiltà del Mediterraneo si rigeneri un nuovo europeismo solidale, contrapposto ai paradigmi fallimentari dell’austerity. È un azzardo, ma per il futuro dell’Italia non è affatto una cattiva notizia.

Corriere 28.1.15
L’Italia dei veti incrociati non trova l’accordo contro il rischio attentati
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Doveva essere approvato qualche giorno dopo gli attentati di Parigi, la strage nella redazione di Charlie Hebdo e nel supermercato kosher. Invece il provvedimento antiterrorismo più volte annunciato dal governo slitta ancora.
Tra veti incrociati sulle nuove norme e trattative per la scelta del capo dello Stato, Palazzo Chigi annulla la riunione del governo prevista per oggi e rinvia tutto alla prossima settimana, anche se nei giorni scorsi i ministri — ieri lo ha ribadito da Rabat anche il titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni — hanno più volte evidenziato la necessità di avere strumenti più efficaci per fronteggiare la minaccia jihadista.
Era stato il presidente del Consiglio Matteo Renzi, Il 20 gennaio scorso, ad assicurare pubblicamente «il varo di un decreto la prossima settimana». E invece niente da fare, nonostante le nuove norme prevedano anche l’impiego di 5.000 militari per la protezione degli obiettivi sensibili, misura ritenuta urgente e necessaria come è stato ribadito fino a qualche giorno fa.
Sono sostanzialmente due i nodi che non si riesce a sciogliere: l’organizzazione della procura antiterrorismo e i poteri da assegnare agli agenti segreti. Secondo l’ultimo testo, esaminato ieri e poi accantonato almeno per sette giorni, deve essere il Procuratore nazionale antimafia ad occuparsi anche dell’emergenza legata al fondamentalismo, attribuendo poi le deleghe per il coordinamento dei vari uffici giudiziari impegnati nelle inchieste a uno dei due «aggiunti». Una soluzione che però non soddisfa pienamente né i tecnici né i politici.
Controversa appare anche la concessione delle cosiddette «garanzie funzionali» — sia pur per un periodo limitato di un anno — agli uomini degli apparati di intelligence . In particolare il testo preparato dai capi degli uffici legislativi di Interno, Giustizia, Difesa e Palazzo Chigi, prevede la possibilità di effettuare colloqui con i detenuti — sempre autorizzati dal procuratore generale — «al fine di acquisire informazioni per la prevenzione dei delitti». E quella di utilizzare l’identità falsa «di copertura» anche in caso di testimonianza di fronte all’autorità giudiziaria.
Le misure sono ritenute indispensabili, a suscitare perplessità è la scelta di vararle per decreto. Non sono comunque questi gli unici ostacoli.
Anche se si trovasse l’accordo per andare avanti con procedura d’urgenza, c’è il timore che l’elezione del nuovo presidente della Repubblica crei problemi e spaccature all’interno della maggioranza e questo metta in pericolo l’eventuale conversione in legge del provvedimento che deve avvenire entro 60 giorni.
E ciò creerebbe gravi danni, tenendo conto che le nuove norme prevedono l’introduzione di un reato specifico per punire chi organizza viaggi all’estero per l’addestramento dei seguaci della jihad. E dunque non si può rischiare di contestare un illecito che dopo due mesi non esiste più.

il Fatto 28.1.15
No Tav

Il sociologo Marco Revelli
“Siamo tutti colpevol.i Processateci”
di Emiliano Liuzzi


Marco Revelli, piemontese, torinese, anti Tav, è storico, sociologo, autore di centinaia di pubblicazioni. Docente universitario. Un intellettuale, insomma. Contrario al Tav, anche lui. “Sì”, dice al Fatto, “anche io oggi mi sento sotto processo, proprio come Erri. Credo che quella contro di lui sia una follia giudiziaria, un fatto di costume, se vogliamo. È una brutta pagina, quella che si apre. E indica il decadimento di una città, Torino, di una regione, il Piemonte, e di un’intera popolazione, quella della Val di Susa, che è obbligata a disobbedire. Non ha scelta, deve difendersi”.
Anche lei Revelli fa sue le parole per le quali De Luca oggi va a processo?
Assolutamente sì. Mi sento alla sbarra, come e con lui. L’ho espresso anche io tante volte quel concetto. Il concetto di disobbedienza civile, come Gandhi ci ha insegnato. Ma non solo Gandhi.
Cosa avrebbe fatto contro la legge Erri De Luca?
Non lo so. Lo dobbiamo capire. Aspettiamo il processo anche per capire chi sono coloro che avrebbe istigato.
È stato un errore?
No. L’errore lo hanno commesso i magistrati.
Lei le ripete quelle parole?
Certo che sì, sono anche mie. Ma le ho ripetute più volte, in altre sedi, forse in altri termini, ma con lo stesso fine di Erri.
Tutti gli intellettuali oggi sono a processo?
Tutte le persone che usano l’intelletto per aprire la mente di quelli che sono più pigri o semplicemente disinteressati. Di quelli che non sanno. Questo è il mestiere dell'intellettuale e questo è quello che ha fatto De Luca.
Se venisse condannato sarebbe un brutto precedente?
Io vado addirittura oltre, dico che non può nemmeno essere un precedente il fatto che sia stato messo sotto inchiesta perché il Tav è un’aberrazione non ripetibile. Non potrà accadere.
Ma l'istigazione è sempre stata reato.
Ma non è istigazione quella di Erri. Non c’è stata nessuna istigazione. Ha invitato la gente a difendere la loro terra, è lo Stato che si è cacciato in un tunnel dal quale non riesce a uscire. E questa tormenta è finita col travolgere anche le parole molto sensate che ha espresso De Luca. Perché ha invitato alla disobbedienza, anche militare, contro un’opera che appartiene a un’altra epoca, che è contro gli interessi di tutti, da quelli della gente che lassù vive a quelli economici del Paese, per finire agli interessi dell’ecologia, dell’ambiente. Non stiamo facendo una battaglia contro lo Stato in quanto tale, ma contro un'opera che i governi hanno voluto. Questa è una differenza fondamentale.
Non è un cattivo maestro?
L’insegnamento cattivo, e mi dispiace dirlo, oggi arriva dalla parte opposta, dallo Stato. La Torino-Lione è nata in un mondo e in un tempo che non esistono più. Indifendibile.
Proviamo a pensare a una condanna nei confronti di De Luca.
Spero proprio che non sia così. Che a un certo punto si faccia strada la ragione. Erri non ha mai detto ‘armatevi e andate all’attacco’. Non ha detto niente di tutto questo. Ha invitato legittimamente a difendersi la gente da un grave errore che cammina sopra le loro teste. E questo è il suo mestiere di scrittore.
De Luca stesso, in un'intervista al Corriere della Sera, ha usato un paragone molto forte, ha detto “non è che Reinhold Messner, che istigava con il suo lavoro a scalare le montagne, è responsabile di tutte le morti in alta quota”. Concorda?
Sì, credo sia semplificata e pacata come risposta. Io sarei andato anche oltre.

La Stampa 28.1.15
La Corte dei diritti umani condanna l’Italia: diritto a un figlio anche senza legame biologico
Una coppia che si era vista negare il riconoscimento di un bambino nato da una madre surrogata in Russia: «Non è stato dimostrato che l’allontanamento fosse necessario»

qui

Corriere 28.1.15
Nuovi Lea: epidurale e fecondazione eterologa a carico delle Regioni
Mercoledì prossimo l'incontro Lorenzin-Regioni per la presentazione del nuovo piano
Aumentato il fondo: 470mln in più per nuove cure

qui

La Stampa 27.1.15
Bergoglio riceve in Vaticano un transessuale spagnolo
Una manifestazione del movimento transgender

qui

Corriere 27.1.15
Bagnasco contro i manuali gender «Si colonizza la mente dei bimbi»
Il monito della Cei. E sull’aborto: l’Europa vuole impedire l’obiezione
di Gian Guido Vecchi


ROMA «I libri dell’Istituto A.T. Beck, dal titolo accattivante “Educare alla diversità a scuola” e ispirati alla teoria del gender, sono veramente scomparsi dalle scuole italiane?». Il cardinale Angelo Bagnasco apre il consiglio permanente della Cei riprendendo le parole di Francesco di ritorno da Manila, la denuncia della «colonizzazione ideologica» che aveva fatto evocare al Papa la «gioventù hitleriana» e le imposizioni sui bambini compiute dalle «dittature del secolo scorso». I vescovi «saranno sempre in prima linea, a qualunque costo», avverte il presidente della Cei, «così come sul fronte della giustizia, dei poveri e dello stato sociale».
Nella sua prolusione, difatti, Bagnasco tocca anche diversi temi sociali, a cominciare dalla crisi («la lama del disagio continua a tormentare moltissime famiglie che non arrivano da tempo alla fine del mese») e dalla «urgenza che più di tutte oggi si impone: il lavoro e l’occupazione». Centrali, tuttavia, sono i temi della famiglia e dell’educazione. Già l’anno scorso i vescovi erano intervenuti sul caso degli opuscoli diffusi dall’«Ufficio nazionale anti discriminazioni» con il logo delle Pari Opportunità, che tra le altre cose sconsigliavano di leggere le fiabe ai bambini perché promuoverebbero solo la famiglia tradizionale.
Ora il cardinale argomenta: «Educare al rispetto di tutti è doveroso, e la scuola lo ha sempre fatto grazie al buon senso e alla retta coscienza dei docenti, ma qui siamo di fronte a un’altra cosa: si vuole colonizzare le menti dei bambini e dei ragazzi con una visione antropologica distorta e senza aver prima chiesto e ottenuto l’esplicita autorizzazione dei genitori».
Bagnasco prefigura, nel caso, il diritto all’obiezione di coscienza: «Non è inutile ricordare che — anche se la maggior parte dei genitori fosse d’accordo — chi non lo è ha il diritto di astenere i propri figli da quelle “lezioni” senza incorrere in nessuna forma, né esplicita né subdola, di ritorsione, come sta invece accadendo in qualche Stato vicino a noi». Perché «l’educazione della gioventù è talmente delicata e preziosa che non ammette ricatti o baratti di nessun tipo e in nessuna sede».
Il presidente della Cei cita il Papa: «Ogni minaccia alla famiglia è una minaccia alla società stessa».
Un tema che sarà approfondito nel convegno ecclesiale di Firenze, a novembre: «Qual è lo scopo della colonizzazione in atto? Forse capovolgere l’alfabeto dell’umano e ridefinire le basi della persona e della società? Si dice famiglia, ma si pensa a qualunque nucleo affettivo a prescindere dal matrimonio e dai due generi. Si parla dei figli come fossero un diritto degli adulti e un oggetto da produrre in laboratorio, anziché un dono da accogliere. In Europa si vuole far dichiarare l’aborto come un diritto fondamentale così da impedire l’obiezione di coscienza, e si spinge perché sia riconosciuto il cosiddetto aborto post partum ! Si discute di morte come qualcosa che dev’essere a nostra disposizione...».
Il cardinale Bagnasco parla anche delle «raccapriccianti aberrazioni» del fondamentalismo islamico, ricorda che «abbiamo gioito» per la manifestazione di Parigi ma anche i massacri dei cristiani e la mancanza di libertà religiosa nel «60 per cento» del pianeta: «Avremmo voluto che anche la protesta per questo continuo genocidio, l’affermazione del diritto inalienabile alla libertà religiosa, fossero stati pubblicamente proclamati dal mondo lì rappresentato».

Corriere 28.1.15
Narcisismo e cecità dei baroni uccidono l’università italiana
Autoreferenzialità, fobia digitale, concorsi «adattati»: è l’Italia che non vuole cambiare
di Gian Antonio Stella


«Mio padre era un professore universitario, ragion per cui aveva le abitudini tipiche dei professori universitari. Guardava tutti dall’alto in basso, non scendeva mai dalla cattedra, neanche in famiglia. Era una cosa che non sopportavo fin da quando ero bambino».
Tranquilli: l’ingombrante genitore del nostro scrittore non era senese, non era barese, non era bresciano e neppure foggiano o trentino. La testimonianza, infatti, è di Haruki Murakami, uno dei più celebri romanzieri giapponesi. Tutto il mondo è paese? Ma certo. Esiste tuttavia un Homo academicus specificatamente italiano. Al punto che Stefano Pivato, docente di Storia contemporanea a Urbino dove è stato anche rettore, autore di libri deliziosi a cavallo fra storia e costume come Vuoti di memoria , Il secolo del rumore , Il nome e la storia , ha deciso di dedicare a questa specie umana un feroce e divertito pamphlet.
Si intitola Al limite della docenza. Piccola antropologia del professore universitario , è edito da Donzelli, e dimostra che non sempre, come dice il vecchio adagio, cane non morde cane. In questo caso prof. morde prof. e rettore morde rettore. Come quello che, «magnifico di un’università del Nord in carica da ventotto anni» si levò furente all’assemblea della Crui dell’ottobre 2010 scuotendo i colleghi con parole di fuoco contro il limite di sei anni ai rettorati eterni voluto da Mariastella Gelmini e contro l’introduzione del codice etico. «L’etica si pratica, non si legifera!» Boooom!
C’era il pienone quel giorno, alla conferenza dei rettori. Troppo spesso però, secondo Pivato, l’ Homo academicus italicus somiglia a quel Bernardino Lamis protagonista d’una novella di Pirandello «descritto mentre tiene la sua “formidabile” lezione. Il docente è “infervorato” a tal punto che solo alla fine si accorge di aver parlato a un’aula priva di studenti».
L’ex rettore ne è certo: «Coinvolta in scandali di vario genere, l’università è, da tempo, sotto scacco. C’è però da chiedersi fino a che punto sia utile e produttivo reagire scompostamente e non piuttosto avviare una profonda autocritica che coinvolga prima di tutto una serie di attitudini». Come l’autoreferenzialità. Due che s’incrociano dicono: «Come stai?». Al contrario, «una certa tipologia di docente ha l’abitudine di salutarti con una formula piuttosto diffusa nell’ambiente universitario e, stringendoti la mano, senza chiederti nulla, ti dice “come sto io”. Insomma parla unicamente di se stesso».
E tutto va di conseguenza: «Il professore “come sto io?” se riceve da un amico o un collega un libro, calibra il suo entusiasmo dal numero delle citazioni che ha ottenuto nell’indice dei nomi». E «non parte mai dai problemi universitari, che riguardano in particolare gli studenti e attengono alla diffusione del sapere. Ma dai “suoi” problemi. Che sono al centro del mondo». E mosso da «uno smisurato ego», pubblica libri che non vende a nessuno, ma se lo incrociate «vi dice subito che il libro è giunto già alla terza o quarta edizione, e magari che sta entrando in classifica, pronto a scalzare i best sellers di Camilleri…».
Di più: «Spesso l’importanza del volume è sottolineata dal numero delle pagine che il docente “come sto io” mima allargando a dismisura le mani per darti l’idea del “tomone” che ha pubblicato. Come se l’importanza di un libro si misurasse a chili». E naturalmente il libro «fa giustizia di tutte le teorie e le ipotesi precedenti».
E se la grafomania fosse sfogata negli ebook? Ma per carità! «Un buon numero d’insegnanti, soprattutto quelli delle discipline umanistiche, non ha ancora dimestichezza con gli strumenti digitali. Anzi, oppone loro un vero e proprio rifiuto. La motivazione più ricorrente è quella che la scrittura con carta e penna riveste un fascino d’ antan che non può contaminarsi con la modernità». E per di più non sarebbero più possibili certi trucchetti per imporre l’adozione del proprio tomo agli studenti. Come quello di un docente che, per evitare che gli allievi si passassero i libri usati, ha fatto stampare il suo con un’accortezza: «L’ultima parte era costituita da una serie di pagine con domande ed esercizi che lo studente doveva compilare a penna e quindi staccare e consegnare al professore per la verifica. In questo modo, terminato l’esame, il testo, mancante della parte finale, non era più utilizzabile».
C’è chi dirà: «Uffa! Veleni». No: come giustamente recita la fascetta, quello di Pivato è un pamphlet malizioso, irridente ma tremendamente serio. Che getta sale sulle piaghe di un sistema universitario troppo spesso ostile a ogni riforma. Legato a riti e reverenze ampollose verso il Chiarissimo, l’Amplissimo, il Magnifico… Dove il rettore d’un ateneo privato al Nord può essere contemporaneamente il «magnifico» in «un’altra università del Sud a circa millecinquecento chilometri di distanza». Dove «il camaleontismo del professore mostra incredibili doti di adattamento ai meccanismi concorsuali» e l’imperativo è taroccare de Coubertin: «L’importante è partecipare ma soprattutto vincere».
Insomma, un luogo chiuso dove «i codici etici concretamente adottati dalle università affrontano tendenzialmente tutti i temi, ma per lo più in modo astratto». Dove esattamente al contrario che nei grandi atenei internazionali che sono un viavai di eccellenze, lo jus loci , il radicamento vita natural durante nel cantuccio della propria facoltà, «costituisce una delle regole più ferree». Dove le ore obbligatorie di lezione sono al massimo 120 l’anno contro le 192 in Francia, le 279 in Baviera, le 252 (ma fino a 360) in Spagna, le 240 in Gran Bretagna…
Abbiamo scommesso: c’è chi liquiderà il pamphlet, frutto di un grande amore ammaccato per l’università, come uno sfogo brillante ma fatto di mezze verità. E sbufferà: ma come, uno dei nostri che offre munizioni ai nostri nemici! Vadano a rileggersi Curzio Malaparte e la sua idea del patriottismo: «Un popolo sano e libero, se ama la pulizia, i panni sporchi se li lava in piazza».

La Stampa 28.1.15
Grecia, parla l’«uomo nero» di Tsipras:
“L’Europa? Prima ci aiuti a respingere i clandestini”
Il nazionalista Kammenos: dobbiamo pattugliare i confini
di Tonia Mastrobuoni

qui

Corriere 28.1.15
E il leader della destra nazionalista conquista la Difesa
Kammenos dovrà muoversi in uno scenario di tensioni con al centro il rapporto con la Turchia
di Maria Serena Natale


ATENE Tra i capi delle forze armate dei Paesi Nato siederà anche Panos Kammenos, il fondatore del partito nazional-populista e antieuro dei Greci Indipendenti che guiderà il ministero della Difesa nel nuovo esecutivo di Alexis Tsipras. Un leader della destra dura al timone della sicurezza nazionale, oltre 40 anni dopo la fine della dittatura dei colonnelli, il trauma storico all’origine dell’invalicabile separazione tra politica e mondo militare sulla quale poggia la democrazia ellenica. Kammenos ha chiesto e ottenuto l’incarico che lo porrà al centro dei sottili equilibri tra Mediterraneo ed Europa sud-orientale. Una regione instabile dove la Grecia è crocevia delle rotte diplomatiche e migratorie, stretta tra i nazionalismi dei Balcani, le tensioni della dorsale Nord Africa-Medio Oriente, le manovre strategiche dell’Alleanza Atlantica.
In questo contesto s’inseriscono le dispute con la Turchia sull’estensione delle acque territoriali nell’Egeo (Atene continua a denunciare provocatorie violazioni del proprio spazio aereo) e sul caso Cipro (il conflitto congelato tra le parti greca e turca divise dall’ultimo muro d’Europa). Il tutto unito alle recenti scoperte in mare di vasti giacimenti di idrocarburi e agli accordi per l’estrazione e il trasporto di gas nell’ambito del «Triangolo Energetico» Grecia-Cipro-Israele. È lo scenario sul quale dovrà muoversi il navigato Kammenos, che già nel 2007 aveva diretto il ramo Marina mercantile e Politiche dell’Egeo al ministero degli Interni (faceva ancora parte di Nuova Democrazia) e che è tra i più convinti sostenitori di un approfondimento delle relazioni con Mosca.
Un approccio che rientra nella tradizione della destra greca, legata alla Russia soprattutto dalla comune appartenenza alla Chiesa ortodossa. Su questo punto Tsipras non ha mai assunto una posizione netta. La linea del governo, affidata al pragmatico ministro degli Esteri Nikos Kotzias, sarà comunque improntata all’affermazione dell’autonomia diplomatica di Atene, un modo per ampliare gli spazi di manovra anche nelle difficili trattative sul debito con la Ue. Vanno in questa direzione le prime parole del segretario del premier che ieri ha criticato l’ipotesi di nuove misure restrittive verso Mosca avanzata da Federica Mogherini in una dichiarazione «non concordata con il nostro governo». Per ottenere l’influenza alla quale aspira, la Grecia punta sul ruolo di garante di stabilità nella politica estera e di sicurezza, un test anche per Kammenos. «È pragmatico e saprà adattarsi alla situazione — dice al Corriere Constantinos Filis, direttore delle ricerche all’Istituto Relazioni Internazionali —. E non dimentichiamo che i Greci Indipendenti hanno solo 13 deputati contro i 149 di Syriza».

Repubblica 27.1.15
il leader di Podemos Pablo Iglesias

“Nessuna apocalisse, da Atene nasce un nuovo europeismo democratico”
di Alessandro Oppes


MADRID . «Non c’è stata l’apocalisse che minacciavano, il sole è tornato a sorgere in Grecia». Camicia rossa e maniche rimboccate, il leader di Podemos Pablo Iglesias si presenta in una sala affollata da centinaia di giornalisti per celebrare il trionfo di Alexis Tsipras.
Iglesias, che cosa cambia a partire da ora?
«La vittoria di Syriza decreta ufficialmente il fallimento delle politiche di austerità, che no solo hanno provocato enormi sofferenze ai greci, ma si sono rivelate anche completamente inefficaci. I tre grandi problemi che affliggevano il Paese erano il debito, la disoccupazione e la disuguaglianza: non solo sono rimasti intatti, ma si sono aggravati. Finalmente la Grecia ha un presidente greco e non un delegato di Angela Merkel».
Sì, però ora arriva il momento di passare dalle parole ai fatti. Dovrà agire in un contesto europeo difficile, in parte ostile. «Tsipras è un patriota che naturalmente rispetterà gli obblighi internazionali della Grecia, ma facendo ciò che un democratico deve fare: mettere al primo posto l’interesse del suo paese e del suo popolo. E’ una buona notizia per il Sud-Europa che si faccia strada un nuovo europeismo, che dimostrerà che la sovranità deve essere nazionale e popolare, non può stare nelle mani di Davos o della Bundesbank o della troika».
Cominciano, però, le pressioni di chi dice che la Grecia non può esimersi dal rispettare gli impegni.
«Per poter pagare i debiti occorre riprendere il cammino della crescita, generare prosperità. Le politiche realizzare fino ad ora hanno solo contribuito a incrementare il debito, che in questi anni ha raggiunto in Grecia il 175 per cento del Pil. Ciò che propone Syriza è il discorso più coerente per il rilancio dell’economia. A quel punto potrà rispettare gli impegni».
In che modo un eventuale fallimento potrà avere conseguenze sulla scommessa spagnola di Podemos?
«Noi appoggiamo Syriza, siamo felici per la sua vittoria, ma non si possono fare parallelismi. La situazione della Spagna è molto diversa. Per fortuna, qui le conseguenze della crisi non sono state altrettanto forti. In più, la nostra è la quarta economia della zona euro: la Spagna non la si può minacciare come si è fatto con la Grecia».

Repubblica 27.1.15
Dopo la vittoria di Tsipras toccherà alla Spagna di “Podemos”
Ma perché questa rivoluzione democratica possa riuscire a modificare il corso delle cose bisogna che Renzi e Hollande dicano chiaramente che il trattato sui bilanci va modificato
Ora tutti uniti contro l’austerità la sinistra europea riparta da Syriza
di Thomas Piketty


IL TRIONFO elettorale di Syriza in Grecia potrebbe capovolgere la situazione dell’Europa e farla finita con l’austerità che mette a rischio la sopravvivenza del nostro continente e dei suoi giovani. Tanto più che le elezioni previste per la fine del 2015 in Spagna potrebbero produrre un risultato simile, con l’ascesa di Podemos. Ma perché questa rivoluzione democratica venuta dal Sud possa riuscire a modificare davvero il corso delle cose, bisognerebbe che i partiti di centrosinistra attualmente al potere in Francia e in Italia adottino un atteggiamento costruttivo e riconoscano la loro parte di responsabilità nella situazione attuale.
Concretamente, queste forze politiche dovrebbero approfittare dell’occasione per dire con voce alta e forte che il trattato sui bilanci adottato nel 2012 è stato un fallimento, e per mettere sul tavolo nuove proposte, tali da consentire una vera rifondazione democratica della zona euro. Nel quadro delle istituzioni europee esistenti, ingabbiate da criteri rigidi sul deficit e dalla regola dell’unanimità sulla fiscalità, è semplicemente impossibile portare avanti politiche di progresso sociale. Non basta lamentarsi di Berlino o di Bruxelles: bisogna proporre regole nuove.
Per essere chiari: a partire dal momento in cui si condivide una stessa moneta, è più che giustificato che la scelta del livello di deficit, così come gli orientamenti generali della politica economica e sociale, siano coordinati. Semplicemente, queste scelte comuni devono essere fatte in modo democratico, alla luce del sole, al termine di un dibattito pubblico e con contraddittorio. E non applicando regole meccaniche e sanzioni automatiche, che dal 2011-2012 hanno prodotto una riduzione eccessivamente rapida dei deficit e una recessione generalizzata della zona euro. Risultato: la disoccupazione è esplosa mentre altrove scendeva (sia negli Stati Uniti che nei Paesi esterni all’area dell’euro), e i debiti pubblici sono aumentati, in contraddizione con l’obbiettivo proclamato. La scelta del livello di deficit e del livello di investimenti pubblici è una decisione politica, che deve potersi adattare rapidamente alla situazione economica. Dovrebbe essere fatto democraticamente, nel quadro di un Parlamento dell’Eurozona in cui ogni Parlamento nazionale sarebbe rappresentato in proporzione alla popolazione del rispettivo Paese, né più né meno. Con un sistema del genere, avremmo avuto meno austerità, più crescita e meno disoccupazione. Questa nuova governance democratica consentirebbe anche di riprendere in mano la proposta di mettere in comune i debiti pubblici superiori al 60 per cento del Pil (per condividere lo stesso tasso di interesse e per prevenire le crisi future) e istituire un’imposta sulle società unica per tutta la zona euro (il solo modo per mettere fine al dumping fiscale).
Purtroppo, oggi il rischio è che i governi di Francia e Italia si accontentino di trattare il caso greco come un caso specifico, accettando una leggera ristrutturazione del debito del Paese ellenico senza rimettere in discussione alla radice l’organizzazione della zona euro. Perché? Perché hanno passato un mucchio di tempo a spiegare ai loro cittadini che il trattato di bilancio del 2012 funzionava, e oggi sono reticenti a ritrattare quanto detto. E quindi vi spiegheranno che è complicato cambiare i trattati, anche se nel 2012 gli bastarono sei mesi per riscriverli, e anche se è evidente che nulla impedisce di prendere misure di emergenza in attesa che entrino in vigore nuove regole. Ma farebbero meglio a riconoscere gli errori finché sono in tempo, piuttosto che aspettare nuovi scossoni politici, stavolta dall’estrema destra. Se la Francia e l’Italia oggi tendessero la mano alla Grecia e alla Spagna per proporre un’autentica rifondazione democratica della zona euro, la Germania non potrebbe fare a meno di accettare un compromesso.
Tutto dipenderà anche dall’atteggiamento dei socialisti spagnoli, attualmente all’opposizione. Meno falcidiati e screditati dei loro omologhi greci, devono tuttavia accettare il fatto che faranno molta fatica a vincere le prossime elezioni senza allearsi con Podemos, che stando agli ultimi sondaggi potrebbe perfino arrivare al primo posto.
E non dobbiamo pensare, soprattutto, che il nuovo piano annunciato dalla Bce basterà a risolvere i problemi. Un sistema di moneta unica con 18 debiti pubblici e 18 tassi di interesse diversi è fondamentalmente instabile. La Bce cerca di giocare il suo ruolo, ma per rilanciare l’inflazione e la crescita in Europa c’è bisogno di un rilancio della spesa pubblica. Senza di esso, il pericolo è che i nuovi miliardi di euro stampati dalla Bce finiscano per creare bolle speculative su certe attività, invece di far ripartire l’inflazione dei prezzi al consumo. Oggi la priorità dell’Europa dovrebbe essere investire su innovazione e formazione. Per fare questo c’è bisogno di un’unione politica e di bilancio della zona euro più stringente, con decisioni prese a maggioranza all’interno di un Parlamento autenticamente democratico. Non si può chiedere tutto a una Banca centrale. (Traduzione Fabio Galimberti)

Il Sole 28.1.15
Avanti populismi
Podemos parla spagnolo e sogna in greco
I movimenti di Iglesias e Syriza hanno lo stesso programma, ma a Madrid il salvataggio è stato più soft
di Luca Veronese


Partiti anti-sistema o anti-euro. Stanno ridisegnando la mappa politica dell’Europa assieme alla crisi economica. Il trionfo di Syriza è coerente con quanto si è visto alle europee di maggio e potrebbe avere ripercussioni in altri Paesi, a cominciare dalla Spagna, prima puntata di un’inchiesta che si occuperà anche di Gran Bretagna e Francia.
Il Regno Unito andrà alle urne in maggio e l’ascesa di Ukip, il partito anti-europeista di Nigel Farage, rischia di trasformare il voto in un referendum anticipato sulla permanenza o meno di Londra nell’Unione europea.
La Francia non ha scadenze elettorali più importanti, ma è il Paese nel quale un partito della destra radicale e anti-euro, il Front National di Marine Le Pen, è stabilmente in testa nei sondaggi dalla scorsa primavera.
Davvero può accadere? Davvero Podemos può riuscire a conquistare il governo in Spagna? Il movimento che ha raccolto la rabbia degli indignados sparsa nelle piazze spagnole può davvero replicare il trionfo di Syriza in Grecia? I sondaggi di oggi dicono che i numeri ci sono, che Podemos, dopo aver conquistato a sorpresa l’8% alle elezioni europee, è diventato la prima forza del Paese con oltre il 28% delle intenzioni di voto. Conservatori e socialisti seguono staccati, con poco più del 20 per cento: dopo trent’anni di alternanza alla Moncloa, rischiano di essere travolti dalla protesta anti-casta, dalla voglia di rinnovamento, dalle rivendicazioni democratiche di cittadini stremati dalla crisi economica e frustrati dalle conseguenti, odiatissime misure di austerity introdotte dal governo del popolare Mariano Rajoy e ancora prima da quello di José Lusi Zapatero.
«Più persone e meno banche, la rivoluzione è già iniziata. La vittoria di Syriza in Grecia - dice Pablo Igleias, 36 anni, leader di Podemos - è un messaggio molto chiaro per il governo di Rajoy : tic-tac, tic-tac, è iniziato il conto alla rovescia, presto conquisteremo il governo».
A fine marzo si voterà in Andalusia, la più grande regione del Sud, da sempre guidata da giunte di sinistra: lì si giocherà il futuro dei socialisti di Pedro Sanchez, il nuovo segretario, 42 anni, una sorta di Renzi di Spagna, meno gigione ma non meno deciso nel mandare a casa la vecchia guardia del suo partito, o di quello che del Psoe era rimasto.
Il 27 settembre le urne si apriranno in Catalogna per una consultazione che avrà tutto il sapore e il senso politico di un nuovo referendum per l’indipendenza della comunità autonoma più ricca del Paese. Sarà uno scontro - anche personale, quasi fisico, probabilmente decisivo - tra il governatore catalano, Artur Mas e il premier Rajoy. E lì si decideranno in un solo colpo le sorti della Catalogna e il futuro stesso dei popolari, almeno come partito di governo.
Le amministrative di due regioni chiave come Andalusia e Catalogna, daranno molte indicazioni nella lunga campagna elettorale che porterà alle elezioni di novembre per rinnovare il Parlamento nazionale. La Spagna che a metà del 2012 si è salvata dal default grazie soprattutto alla stabilità del proprio sistema di governo, oltre che al prestito di 41 miliardi dell’Unione europea, deve ora affrontare una nuova, se possibile, più turbolenta stagione politica.
Per popolari e socialisti l’avversario da battere è Podemos. E questa già è una mezza vittoria per gli indignati. «Le false promesse non possono risolvere i problemi del Paese, finiscono per generare nuove tensioni sociali», spiega Rajoy parlando di Syriza perché Podemos intenda. «Siamo noi la vera alternativa a Rajoy. Cambiare tanto per cambiare è spesso dannoso», ripete il socilista Sanchez marcando le differenza tra la Grecia e la Spagna.
Nel governo di Madrid, dopo anni difficilissimi, cresce la sensazione che sarà qualcun altro a godere dei benefici del «lavoro sporco che qualcuno però doveva fare», come dice un influente advisor del governo. «È strano constatare - dice lo stesso consigliere, vicino a Rajoy - come questi movimenti di protesta contro i partiti tradizionali e contro il nostro governo che trovano la loro origine nelle difficoltà che la gente ha dovuto affrontare nella lunga crisi economica e si nutrono di promesse e populismo, stiano montando porpio ora che i fatti ci danno ragione, ora che la ripresa nel Paese si sta rafforzando più che in ogni altra economia europea».
Rajoy e i suoi hanno introdotto riforme profonde come quella del mercato del lavoro, hanno dovuto ristrutturare il sistema bancario, risanare il bilancio pubblico. Ora, in questo anno elettorale si aggrappano ai dati economici, alla ripresa che è finalmente arrivata e si fa sentire anche nell’occupazione, nella vita delle famiglie. Dopo essere cresciuta dell’1,7% nel 2014 la Spagna potrebbe andare anche meglio nel 2015. «Per quest’anno abbiamo previsto un aumento del Pil del 2% ma se petrolio e cambi rimangono a questi livelli, avremo una crescita aggiuntiva di 0,5 punti. È una stima prudente, potremmo arrivare al 2,5 per cento», ha spiegato ieri il ministro dell’Economia, Luis de Guindos. Per il lavoro il 2014 è stato di certo l’anno della svolta: si è chiuso con quasi mezzo milione di disoccupati in meno e un tasso di disoccupazione del 23,7%, ancora altissimo ma oltre due punti percentuali più basso rispetto ai picchi della crisi. Perfino dal settore immobiliare, che con lo scoppio della bolla speculativa è stato una delle principali cause del travaglio spagnolo, arrivano segnali incoraggianti: riprendono i lavori, gli investimenti e si torna a cercare manodopera: 40mila i nuovi addetti nel 2014 dopo sette anni di tagli agli organici.
La Spagna non è la Grecia - sono tutti d’accordo su questo, popolari, socialisti e anche Podemos - ma sono ancora quasi cinque milioni e mezzo gli spagnoli senza lavoro. La ripresa c’è ma le conseguenze della recessione sono ancora più forti, più evidenti. I socialisti potrebbero essere già stati superati nel processo di rinnovamento. Mentre i popolari di Rajoy - sempre fedeli alla linea dettata da Bruxelles su indicazione di Angela Merkel - temono di essere puniti in nome dell’Europa, la loro migliore alleata negli ultimi anni, dalla quale avevano accettato anche un salvataggio soft, una presenza continua ma discreta della troika. Quell’Europa «delle banche e senza democrazia» - secondo la definizione di Iglesias - che molti spagnoli, come molti greci, vogliono cambiare. E giorno dopo giorno Podemos sta alimentando la speranza che «sì, si può fare». Resta da stabilire come.

Repubblica 27.1.15
Bodo Ramelow della Linke
“Cambiamo l’Ue senza cedere al populismo”
intervista di Andrea Tarquini


BERLINO «Il voto greco mostra che nella Ue è anche possibile un’inversione di tendenza rispetto allo svuotamento della democrazia da parte dei poteri finanziari e delle politiche d’austerità». Lo dice Bodo Ramelow, astro nascente della Linke, che in Turingia è il primo governatore postcomunista della Germania unita.
A caldo cosa dice del voto greco?
«Sono felicissimo del successo di Syriza: è l’inizio di un processo che porta a formulare posizioni chiare dal punto di vista del popolo, della gente, del Paese reale».
Ma adesso quali spazi di negoziato ha Tsipras, è possibile un compromesso con la Troika o no?
«Io sono prima di tutto ottimista perché in Grecia vince una politica orientata prima di tutto secondo le necessità primarie della gente greca. Dobbiamo pensare a un’altra architettura dei piani di risanamento. Finora abbiamo risanato solo le grandi banche europee, ora persino la Bce pompa liquidità per le banche, non in Grecia: è un errore capitale, salvare i titoli sovrani e le banche senza programmi di calo del debito».
Berlino sembra reagire duramente, che significa?
«Le minacce tedesche non hanno impedito a Syriza di vincere le elezioni. Spero che Tsipras presenti al più presto posizioni negoziali chiare. Impegnandosi certo anche a scovare i ricchi evasori ellenici».
Possibile, senza benevolenza di Berlino e Bruxelles?
«Ha vinto le elezioni, formulerà le sue posizioni negoziali, e devono smetterla di sparargli cannonate mentre tacciono sull’autocrate Orbàn».
La vittoria di Tsipras è una svolta per l’Europa?
«Stanno per votare in Spagna, Podemos ha grandi speranze. Questi movimenti liberal di sinistra non settari hanno adesso una nuova chance: non neutralizzare la voglia di cambiamento come invece ha fatto Grillo. I nuovi movimenti devono vincere sottolineando differenze costitutive dalla destra populista: Tsipras si batte per tutti, migranti compresi, Marine Le Pen e Salvini vogliono spaccare le società. Tsipras dà coraggio dicendo che nessun giovane può essere disoccupato e nessun bimbo può avere fame. Gli Stati nazionali devono rafforzarsi a fronte di politiche asociali, l’Europa deve fornire solo i minimi standard comuni».

Repubblica 28.1.15
Fidel: “Non mi fido degli Stati Uniti”
Lettera del líder máximo sul disgelo. Secondo la dissidente Yoani Sanchez “smentisce il fratello”
La portavoce del Dipartimento di Stato americano: “Segno positivo”. La figlia Alina torna in patria
di O. C.


MIAMI . Non cita mai Raúl per nome. Lo chiama «il presidente» che ha fatto «i passi pertinenti d’accordo alle sue prerogative». Ma precisa: «Non mi fido degli Stati Uniti e non parlo con loro». La lettera di Fidel Castro, letta l’altra sera a Cuba in tv durante il tg, ha sorpreso tutti. A occhio sembra la massima apertura che l’ex leader possa concedere alle iniziative di riavvicinamento allo storico nemico americano promosse dal fratello Raúl. Ma un’altra lettura sostiene invece che si tratta in realtà dell’espressione del suo dissenso. E, anche in questo caso, molto più in là non può andare perché, sempre nella lettera, Castro ammette di non avere più — dal 2008 e per ragioni legate all’età e alle condizioni di salute — alcun potere reale. La seconda lettura è l’interpretazione di Yoani Sanchez, la famosa blogger dissidente, che nella notte ha lanciato l’hashtag #DesmienteElHermano (smentisce il fratello) pensando probabilmente all’intervista concessa da Mariela Castro alla Cnn nei giorni della svolta, a metà dicembre, e nella quale la figlia di Raúl sosteneva che lo zio — Fidel — era «molto contento» di quello che stava succedendo. È difficile che sapremo prima o poi quale delle due interpretazioni è quella giusta. In effetti la lettera di Fidel Castro si può leggere in ogni modo e sembra una sorta di testamento dove egli difende la sua storia e al tempo stesso si smarca.
Apparentemente approva, ma afferma anche di non avere alcuna responsabilità nei progetti di Raúl, come a dire: «Andate pure avanti se lo ritenete giusto, ma se le cose vanno male io non c’entro niente».
L’ex líder maxímo della rivoluzione cubana, 88 anni compiuti lo scorso 13 agosto, non appare in pubblico esattamente da un anno, era il gennaio 2014. Dopo Natale si era sparsa la voce, l’ennesima, che fosse morto soprattutto perché non aveva ricevuto nessuno dei “Cuban Five”, le famose spie cubane rilasciati dagli Stati Uniti, che erano stati la sua ultima grande battaglia antiamericana. Altre voci sostenevano che era «molto arrabbiato» con Raúl e che, secondo la versione della Casa Bianca, era stato informato della svolta nelle relazioni con Washington soltanto a cose fatte, all’ultimo momento. Poi aveva scritto una lettera a Maradona, arrivato sull’isola per registrare un programma televisivo. Ora, approfittando di un anniversario, il suo ingresso all’Università nel 1945, quest’ultima lettera. La maggior parte degli osservatori esclude che le sue parole possano avere effetti negativi sulla leadership del fratello.
Anzi, sono destinate a rafforzare il sostegno popolare alla pace americana. Il primo commento di Washington è favorevole. «Sono un segno positivo», ha detto la portavoce del Dipartimento di Stato Jennifer Psaki. Fidel è fuorigioco, questa resta la sensazione più evidente. Come fuorigioco sono tutti i suoi collaboratori allontanati e sostituiti da Raul a partire dal 2008. Ma forse il segno più palese che molte cose sono cambiate è la notizia, diffusa sottovoce in questi giorni, che Alina, la figlia ribelle di Fidel, fuggita negli anni Novanta, sarebbe tornata sull’isola per assistere la madre Naty Fernandez, l’amante più nota dell’ex leader.

Corriere 28.1.15
Il giudizio tiepido di Fidel sul disgelo tra Usa e Cuba
di Rocco Cotroneo


Come nel suo stile ha aspettato qualche settimana, lasciato che si diffondessero (per poi svanire) le voci sulla sua morte, per dire infine come la pensa, nelle righe finali di un testo che parla d’altro. Come giudica dunque il pensionato 88enne Fidel Castro lo storico disgelo tra Stati Uniti e Cuba? Non troppo bene, ma è meglio una soluzione pacifica a qualunque conflitto o pericolo di guerra. «Io non mi fido della politica Usa, non ho mai scambiato una parola con loro — scrive agli studenti universitari cubani il padre della Revolución — ma non sono contrario alle trattative tra i popoli». Aggiungendo che il presidente cubano (il fratello Raul, ndr ) ha fatto il passo corretto, d’accordo con le sue prerogative e i poteri a lui concessi dal Congresso e dal Partito comunista.
Se a Cuba ci fosse una stampa indipendente, il giudizio di Fidel Castro sull’accordo tra Raul e Obama, sarebbe classificato come «tiepido». Anche quasi tutti gli osservatori esterni scorgono una presa di distanza abbastanza chiara dalla decisione di sedersi a trattare con il nemico storico. Fidel fa capire che lui non l’avrebbe fatto («mai scambiato una parola con loro»), ma allo stesso tempo ammette di non avere più il potere in mano (le prerogative ce le ha il fratello, dice) e si rende conto che i tempi sono cambiati.
Non a caso, partendo dalla guerra d’Angola per arrivare ai giorni nostri, il líder maximo cita la stretta di mano avvenuta tra Raul e Obama ai funerali di Nelson Mandela, il quale era un amico del presidente Usa, mentre i suoi predecessori — ricorda — appoggiavano i razzisti dell’ apartheid contro i combattenti cubani in Africa.
La lettera di Fidel Castro entra a buon diritto negli archivi della sua rivoluzione, ma è difficile che abbia ripercussioni politiche. Perché è improbabile che oggi nelle stanze cubane del potere esista una forte corrente «fidelista» in grado di fermare la linea di apertura e di riforme scelta da Raul Castro.

Corriere 28.1.15
Equivoci. Libertà, errori e fanatismo islamico
L’Islam non ci chieda di limitare la libertà
Non bisogna credere che il radicalismo musulmano sia mosso da ragioni religiose. Qual era per esempio la terribile blasfemia commessa dalla poliziotta uccisa a Montrouge?
di Ernesto Galli della Loggia

qui

La Stampa 28.1.15
Così cantano i jihadisti mentre marciano verso l’Occidente ignaro
Racconto come è nata la minaccia del Califfato e che cosa dobbiamo aspettarci
di Maurizio Molinari

qui

Corriere 28.1.15
La BBC sui terroristi detta linee guida orwelliane
di Stefano Montefiori


È molto interessante scoprire un passaggio delle linee guida della Bbc : «I giudizi di valore impliciti, di frequente, nell’uso delle parole “terrorista” o “gruppo terrorista” possono comportare un uso distorto, o suscitare presso il pubblico dubbi sulla nostra imparzialità». Il gigante dell’informazione britannico scoraggia quindi i propri giornalisti dall’usare l’espressione «terrorista», e suggerisce sostituti più neutri come «sparatore», «rapitore», «militante». Queste linee guida sono state applicate anche durante la copertura delle stragi a Parigi tra il 7 e il 9 gennaio. In questo modo l’imparzialità è forse salva, la verità e la decenza molto meno.
La questione si è riaperta dopo che il direttore del canale Bbc in lingua araba, Tarik Kafala, ha rilasciato tre giorni fa un’intervista all’ Independent . Il termine «terrorista» è «troppo connotato», dice Kafala. Per la strage a Charlie Hebdo, «abbiamo preferito dire che due uomini hanno ucciso 12 persone nell’attacco alla redazione di una rivista satirica». Che abbiano urlato «Allah Akbar» e «Abbiamo vendicato il profeta Maometto» è evidentemente un dato aggiuntivo, che si somma al precedente, ma non lo qualifica.
Quello della Bbc è un clamoroso caso di nuova lingua orwelliana, ma certe timidezze sono diffuse. Ancora tre giorni fa Laure Mandeville, corrispondente del Figaro dagli Stati Uniti, ha scritto sul Wall Street Journal per protestare contro l’insistenza dell’amministrazione Usa nel ripetere che gli attacchi di Parigi «non hanno niente a che vedere con l’islam».
Dal 7 gennaio il governo francese sottolinea, e fa bene, la distinzione tra pochi terroristi e la stragrande maggioranza dei musulmani. Ma questo non ha impedito a Manuel Valls di chiamare le cose con il loro nome: «La Francia è in guerra contro il terrorismo e l’islamismo radicale, non contro una religione», ha detto il primo ministro nel suo celebre discorso all’Assemblea nazionale. Più chiaro, e più onesto.

Corriere 27.1.15
Le molte contraddizioni Dell’Arabia Saudita
risponde Sergio Romano


È morto il Re dell’Arabia Saudita, del quale si dice che fosse un riformatore. Sarebbe interessante sapere quali riforme abbia messo in atto, in un Paese molto controverso, amico dell’Occidente (degli Usa in particolare) e (si dice) finanziatore di gruppi e regimi dell’estremismo islamico.
Elena Bonsanti

Cara signora Bonsanti,
Re Abdullah ha lanciato un piano di edilizia popolare per la costruzione di 500.000 unità abitative. Ha ridotto il vitalizio dei principi del sangue (circa 7.000). Ha invitato i suoi connazionali a pubblicare le loro lagnanze e proposte su una pagina di Facebook. Ha inviato all’estero, con generose borse di studio, parecchie migliaia di giovani uomini e donne. Ha autorizzato la prima elezione popolare dei consigli municipali. È molto per uno dei Paesi più conservatori del pianeta; è poco per coloro che attendevano qualche miglioramento, promesso dieci anni fa, della condizione femminile. Nonostante le aperture di Abdullah, l’Arabia Saudita è ancora il Paese in cui le pubbliche manifestazioni sono proibite, le donne non possono guidare l’automobile e l’arcigna polizia religiosa sorveglia il comportamento dei cittadini, esige il rispetto della legge coranica, impartisce punizioni ai trasgressori.
Queste contraddizioni appartengono alla natura del Paese. L’Arabia Saudita è il maggiore produttore di petrolio al mondo, è una potenza finanziaria attiva su tutti i mercati mondiali, ha una classe dirigente formata nelle università e nelle business school delle grandi democrazie. Ma è anche un regno tribale, nato nel deserto, governato da un sovrano che deve il suo potere a una investitura religiosa (è custode dei due maggiori luoghi santi dell’Islam, la Mecca e la Medina) e può contare sulla lealtà dei suoi sudditi soltanto se, nell’esercizio di questa funzione, rispetta le regole di una particolare setta religiosa dell’Islam sunnita, fondata nell’Arabia centrale da Muhammad Al-Wahhab verso la metà del Settecento.
Come ricco produttore di petrolio, il Paese dei Saud deve vivere nel mondo e con il mondo. Come custode dei luoghi santi è uno Stato teocratico. Come principale incarnazione della dottrina wahhabita e come Paese dotato di colossali mezzi finanziari deve essere generoso con i movimenti sunniti e, in particolare, con quelli che si oppongono alla crescita dell’influenza sciita nel mondo musulmano. E come Stato autoritario, infine, deve difendere il potere del sovrano contro qualsiasi tentazione democratica. Non è sorprendente, in questa situazione, che l’Arabia Saudita possa essere, a seconda delle circostanze, moderna e arcaica. La coerenza, cara signora, è un lusso che il regno dei Saud non può permettersi.

Corriere 27.1.15
Reportage In Iraq
Le yazide fuggite dai campi dell’Isis che rifiutano i figli dello stupro
Parlano le donne violentate
di Lorenzo Cremonesi

qui

Corriere 28.1.15
La strategia del presidente
Cina, la strada verso lo «xiismo» passa per i ritratti ad olio
Dilaga a Pechino un culto della personalità del presidente così massiccio che non si vedeva dai tempi di Mao: secondo gli analisti maschera una svolta neo-autoritaria
di Guido Santevecchi

qui

Repubblica 27.1.15
Germania, sondaggio shock: l’81% vuole dimenticare la Shoah
di Andrea Tarquini


BERLINO . Ricorre oggi la Giornata della Memoria, anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata rossa. Ultimo incontro del ricordo per i sopravvissuti: ovvio, gli resta pochissimo da vivere alla loro età. Ma i tedeschi quanto vogliono ricordare il loro crimine contro l’umanità che Karol Wojtyla definì “Il male assoluto”? Sempre meno: 81 su cento desiderano lasciarsi la Memoria alle spalle. Lo rivela un sondaggio della Fondazione Bertelsmann. E ben 58 su cento sperano che di Shoah non si parli più, che la Nazione riunificata 25 anni fa grazie alla rivoluzione polacca, al riarmo americano, a Gorbaciov, dimentichi con un “Schlussstrich”, tratto di penna da maestro che cancella gli errori. Dati allarmanti, cui ieri l’autorevole Sueddeutsche Zeitung e poche ore prima il quotidiano conservatore Bild dedicavano grandi titoli in prima pagina.
I dati coincidono con un presente in cui i nuovi nazionalisti xenofobi di Pegida riempiono le piazze, soprattutto all’est, il nuovo partito euroscettico Alternative fuer Deutschland è realtà stabile. Già dal 1949, l’anno in cui il primo cancelliere liberamente eletto, il democristiano Konrad Adenauer, e il capo dell’opposizione Spd Kurt Schumacher, fondarono la Repubblica federale col Grundgesetz, la costituzione pacifista scritta su consiglio britannico, i liberali (Fdp) rifugio di alcuni ex nazisti, chiesero «uno stop alla denazificazione » Si salvano i giovani: tra loro cresce dal 20 al 38 per cento la percentuale secondo cui la Shoah è rilevante per il presente. Ma i tedeschi con un’opinione positiva dello Stato d’Israele sono appena il 36 per cento. Dopo il duplice schiaffo di scelte della Bce e voto greco, si risveglia la certezza da differenza genetica, fin da Fichte, Kant, Hegel e Weber, d’essere migliori del resto del mondo. Das deutsche Wesen soll die Welt genesen, lo spirito tedesco deve guarire il mondo, si pensava qui alla vigilia della prima guerra mondiale.

Repubblica 27.1.15
Libby, 48 anni ora Londra ha la sua prima donna vescovo


GIORNATA storica per la chiesa d’Inghilterra che ieri, nel corso di una cerimonia nella cattedrale di York, ha consacrato la prima donna vescovo. Si tratta del reverendo Libby Lane, 48 anni — la nomina era stata annunciata il mese scorso —, ordinata vescovo di Stockport, nella zona di Manchester. La funzione religiosa è stata celebrata dall’arcivescovo di York John Sentamu che su Twitter si è detto «entusiasta». Presenti i vertici della chiesa inglese e circa mille persone. «Sarà un momento molto emozionante», aveva precedentemente dichiarato il reverendo Lane, spiegando che «quello che sta accadendo è una cosa straordinaria per me e per il mio futuro ministero, molte persone mi hanno aiutato, ma in realtà si tratta di un momento storico per la Chiesa».
Il 17 novembre scorso il Sinodo generale aveva introdotto la lunga e travagliata riforma che ha permesso anche nella chiesa d’Inghilterra, come già accade nelle altre chiese anglicane, la nomina di donne vescovo. Una mossa che chiude una tradizione secolare di vescovi esclusivamente maschili.

Corriere 28.1.15
Per John Hick l’unico dio ha molti nomi
di Massimo Nava


In tempi di profeti di sventure e previsioni dello scontro di civiltà, giunge a proposito il saggio di John Hick Dio ha molti nomi (Fazi, pp. 139, e 17,50), il grande teologo inglese, noto anche per posizioni controcorrente che suscitarono aspre critiche nelle gerarchie. È un libro profondo, ma di facile lettura, come se soluzioni a problemi immensi fossero alla portata di tutti, una volta sgombrato il campo dall’ignoranza, dal pregiudizio, dal fanatismo ideologico. Ed è un libro che andrebbe adottato nelle scuole e nei luoghi di preghiera di ogni confessione, soprattutto dopo la tragedia di Parigi.
Hick parte dalla constatazione che la realtà è cambiata, anche se molti fingono di non vedere o sognano impossibili ritorni al passato. La globalizzazione economica, l’immigrazione, l’integrazione europea e americana hanno messo a stretto contatto culture, esperienze spirituali e pratiche religiose che un tempo rimanevano distanti, circoscritte al proprio ambito d’influenza. Oggi bambini di ogni razza e convinzione frequentano le stesse scuole, vivono negli stessi quartieri e i loro genitori fanno la spesa negli stessi negozi. Religioni poco conosciute, a volte minate da ostilità reciproca e pregiudizio, si trovano a convivere, mescolandosi al dibattito sulle radici della società, sull’identità collettiva, sulla diversità. Dibattito senza via d’uscita, che alza la soglia dell’intolleranza ogni volta che le possibilità di confronto vengono ridotte o azzerate da fatti criminali, episodi di terrorismo, cronache dell’«invasione». E ogni volta che una provocazione intellettuale (è il caso del libro di Houellebecq) raggiunge più la pancia che il cervello dei lettori.
Fortemente influenzato dalla filosofia kantiana, Hick sostiene che sia possibile e auspicabile andare oltre la tolleranza e il dialogo fra le diverse fedi, per cogliere il senso ultimo di un’esperienza spirituale comune che superi millenni di dogmi. Allo stesso modo in cui l’universalità dei diritti umani dovrebbe conciliare culture e sistemi diversi, la teologia universale di Hick non pretende di annullare le diversità, bensì di togliere di mezzo le pretese superiorità di una religione sull’altra. A ben vedere — secondo Hick — dovrebbe sembrare assurdo che il Dio «signore e creatore di tutte le cose» non sia lo stesso per tutti, al di là delle tradizioni diverse nel corso dei secoli. Così come dovrebbe suonare assurdo — anche per i cristiani — che l’unico Dio abbia poi favorito una sorta di gerarchia dell’umanità, per cui alcuni miliardi di fedeli sarebbero esclusi dal paradiso. Hick ricorda il Concilio di Firenze del 1438, in cui si sostenne che «né pagani, né ebrei, né eretici o scismatici parteciperanno alla vita eterna, ma andranno al fuoco eterno».
Da allora, la Chiesa ha fatto passi giganteschi verso il dialogo interreligioso, ma l’ultimo passo, quello decisivo secondo Hick, è una reinterpretazione delle Scritture in chiave moderna, distinguendo fra valori etici del messaggio e sovrastrutture della tradizione. Un cammino immenso, che dovrebbe essere percorso anche dalle altre religioni, in grado di riconciliare gli uomini con la fede propria e degli altri, con la scienza e la tecnica, con l’insegnamento dei grandi maestri dell’umanità: Gesù, Maometto, Buddha, Mosè e i profeti.

Repubblica 28.1.15
Ciò che ho capito da Auschwitz
Pubblichiamo il testo del discorso pronunciato davanti ad alcuni sopravvissuti dell’Olocausto per la Giornata della Memoria a Cracovia
di Steven Spielberg


VOGLIO ringraziare i tanti sopravvissuti e i loro familiari per la possibilità di essere qui, a condividere questo momento con voi. Ha un grandissimo significato per noi, e per me personalmente è un grande onore. Cinquantatremila di voi hanno donato alla nostra fondazione le vostre storie di vita e di morte.
DA ALLORA mi sento come se appartenessi a ciascuno di voi. Tutti ci sentiamo così. Quando siamo giovani viviamo esperienze profonde, di cui sul momento non ci accorgiamo, ma che gettano le basi del nostro modo di concepire il comportamento umano, e più nello specifico il dolore e il trauma.
Ho detto in passato che una delle mie prime esperienze di apprendimento, uno dei miei primi ricordi, è di quando imparavo a leggere i numeri dai sopravvissuti dell’Olocausto che mi facevano vedere i loro tatuaggi: mia nonna e mio nonno insegnavano l’inglese, a Cincinnati, a dei sopravvissuti ungheresi, e io, con la mia mente da bambino, capivo che cosa dicevano quei numeri, ma di sicuro non riuscivo ad afferrare la loro importanza, non riuscivo a capire che si trattava in realtà di marchi indelebili di morte, sofferenze inimmaginabili, lutti inimmaginabili. Ma ora so che rintracciare le radici della mia identità di ebreo è un processo in continua evoluzione.
Innanzitutto l’apprendimento dei numeri, da bambino. Poi, da adolescente, il vedere l’antisemitismo in alcuni dei miei compagni di classe e in persone del mio quartiere, e ancora, da adulto, il mio arrivo qui a Cracovia per girare Schindler’s List . Se siete sopravvissuti all’Olocausto, la vostra identità di ebrei è stata minacciata dal Terzo Reich. La vostra identità è inondata di mortalità, e di atti di odio indicibili, ma è anche un’identità pervasa di resistenza e di un apprezzamento incomparabile per la vita, a dispetto di tutti quelli che hanno cercato di togliervela.
La vostra identità è nel coraggio che avete dimostrato raccontando le vostre storie. La vostra identità è nell’aver affidato a me e alla Shoah Foundation la custodia di alcune delle vostre storie. Voi sopravvivrete fintanto che i bambini potranno ascoltare le vostre parole, e anche ascoltare quello che dicono i vostri occhi, e potranno trasmettere i vostri messaggi al futuro e a tutte le generazioni a venire. Questa è la missione che ci siamo dati noi della Shoah Foundation.
Se siete nati ebrei dopo l’Olocausto, come me, la vostra identità potrà essere esplorata fino in fondo solo se sarete disposti a riconoscerla e ad abbracciarla, se sarete ansiosi di scovare ed estirpare ciò che ha evocato l’Olocausto e scatenato quelle e tante altre atrocità sotto forma di genocidio e terrorismo. L’Olocausto, e questa è una cosa che comprendiamo e rispettiamo, l’Olocausto, tranne che per voi e forse perfino per voi, è qualcosa di incomprensibile.
Ed è girando Schindler’s List qui a Cracovia e parlando con i sopravvissuti che ho cercato, personalmente, di comprendere l’Olocausto. Quando parlai con i sopravvissuti loro mi dissero che il pensiero del giorno in cui avrebbero potuto essere ascoltati, in cui avrebbero potuto condividere le loro storie e le loro identità, aveva dato loro sollievo. E io sono riconoscente a questi sopravvissuti, non solo per il loro coraggio di fronte al genocidio, ma perché cercando di aiutarli a trovare la loro voce sono riuscito a trovare la mia, di voce, sono riuscito a trovare la mia identità ebraica.
Se siete ebrei oggi, anzi se siete persone che credono nella libertà di religione, nella libertà di parola, nella libertà di espressione, sapete che come molti altri gruppi ci troviamo di nuovo a far fronte ai demoni eterni dell’intolleranza. Gli antisemiti, gli estremisti radicali e i fanatici religiosi che stimolano crimini di odio: tutte queste persone vogliono, di nuovo, spogliarvi del vostro passato, della vostra storia e della vostra identità, e anche ora, mentre siamo qui a parlare delle nostre storie personali e di quello che ha fatto di noi ciò che siamo, queste persone ribadiscono le loro tesi, per esempio con le pagine Facebook che segnalano gli ebrei con nome, cognome e indirizzo, a scopo di aggressione, e con gli sforzi crescenti per cacciare gli ebrei dall’Europa.
Il modo più efficace per combattere questa intolleranza e per rendere onore a coloro che sono sopravvissuti e a coloro che sono morti è di esortarci l’un l’altro a fare quello che i sopravvissuti hanno già fatto: ricordare e non dimenticare mai.
Assumersi questo compito è una responsabilità enorme. Significa preservare luoghi come Auschwitz, perché la gente possa vedere con i suoi occhi come le ideologie dell’odio possano diventare atti tangibili di omicidio. Significa condividere e sostenere le testimonianze di chi ha vissuto direttamente quell’orrore, perché possano perpetuarsi a beneficio degli insegnanti e degli studenti di tutto il mondo: le testimonianze offrono a ogni sopravvissuto una vita imperitura, e offrono a tutti noi un valore imperituro. E questo ci porta ad adesso, al settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz: nonostante gli ostacoli che dobbiamo affrontare, mi sento confortato dai nostri sforzi comuni per combattere l’odio. E la mia speranza per la commemorazione è che i sopravvissuti che sono qui e i soprav- vissuti di ogni parte del mondo possano star certi che stiamo rinnovando il loro appello a ricordare, che non solo faremo conoscere la loro identità, ma che facendo conoscere la loro identità contribuiremo alla formazione di una coscienza collettiva importante per le generazioni a venire. In questo anniversario dobbiamo sentirci tutti incoraggiati dalla consapevolezza che la nostra è una causa giusta, e faremo in modo che gli insegnamenti del passato rimangano con noi nel presente, per riuscire, ora e per sempre, a trovare modi umani per combattere l’inumanità. È un onore essere qui con tutti voi.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere 28.1.15
Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà sul riduzionismo
Che fatica esplorare il labirinto della mente
di Marco Rizzi


Il pensiero, le emozioni, le scelte sono l’immediato prodotto dell’attività delle reti di neuroni nel cervello o entra in gioco qualcosa d’altro che, nel corso dei secoli, è stato definito di volta in volta anima, coscienza, mente? Dalla risposta a questa domanda dipende quale sia la disciplina più adatta per studiare il comportamento umano: in un caso le neuroscienze, nell’altro invece la psicologia.
La prima prospettiva, che viene definita riduzionista, sembra affermarsi anche nell’opinione comune, considerando il consistente numero di pubblicazioni apparse in questi ultimi anni. A questo esito molto hanno contribuito le cosiddette neuroimmagini, cioè quelle rilevazioni strumentali del cervello che evidenziano le aree in cui si attivano i neuroni nell’esecuzione di un compito assegnato.
Opportunamente, uno psicologo, Paolo Legrenzi, e un neuropsicologo, Carlo Umiltà, invitano ad un approccio più cauto in un accessibile, ma accurato libro a quattro mani, Perché abbiamo bisogno dell’anima (Il Mulino, pagine 120, e 12). Pur dichiarandosi apertamente a favore di una visione riduzionista, i due autori riconoscono che le evidenze a sostegno di tale prospettiva sono molto meno solide di quanto si creda. In particolare, localizzare dove avvengano determinati processi nel cervello non fornisce strumenti per costruire un paradigma in grado di indagarli, né tanto meno di spiegarli.
Più radicalmente, gli autori sostengono come la separazione, o dualismo, tra mente (o come la si voglia definire) e cervello sia il meccanismo che ha permesso all’uomo di «funzionare» meglio nella sua interazione con gli altri e di costruire meccanismi sociali complessi. In questo modo, infatti, l’uomo riesce a dotare di senso il mondo in cui vive e può ragionevolmente prevedere il comportamento altrui, in quanto lo considera il prodotto di una «mente» simile alla sua.
Nella prospettiva evoluzionistica assunta dagli autori, si tratta dell’esito più rilevante del processo di selezione naturale, premiato proprio per la sua efficacia pragmatica. A loro giudizio, il programma riduzionista potrà ritenersi completo, se mai lo sarà, solo quando avrà spiegato i motivi per cui le persone, nella vita quotidiana, tendono ad essere dualiste e ne ricavano vantaggio. Nel frattempo, meglio continuare a utilizzare strumenti di indagine che sino ad oggi non sono risultati privi di efficacia nel comprendere i comportamenti individuali e collettivi.

La Stampa TuttoScienze 27.1.15
Carlo Rovelli
“La splendida incertezza che ci fa progredire”
Lezione al Festival di Roma: come la ricerca cambia gli strumenti per pensare (e risolvere) i problemi
intervista di Gabriele Beccaria


Avete dei dubbi sui dubbi generati dalla scienza? Giovedì scorso un celebre fisico, Carlo Rovelli, professore all’università di Aix-Marseille, ha fatto ordine tra i suoi dubbi professionali (quelli degli scienziati) e i dubbi altrui (i nostri).
La lezione al Festival delle Scienze di Roma si intitolava non a caso «La scienza ci dà certezze?» e, sempre non a caso, è l’autore di un fortunato saggio che si chiama «La realtà non è come ci appare», pubblicato da Raffaello Cortina, dove, spiegando la teoria della gravità quantistica, sottolinea due concetti. Il primo è che ciò che non sappiamo supera ciò che sappiamo, mentre il secondo è che la scienza ci ha abituato a convivere con idee scomode, come l’incertezza e la probabilità.
Professore, al Festival dedicato all’ignoto lei ha parlato dell’incertezza: che legame c’è tra i due problemi?
«Ho molto lavorato su questa lezione e sul suo messaggio. Il dubbio che spesso abbiamo è che l’incertezza sia forte su tutto. Ma è davvero così? La scienza, in realtà, significa imparare a gestire l’incertezza e a valutarla: lo dimostrano la teoria degli errori o il principio di indeterminazione di Heinsenberg, passando per la valutazione continua delle teorie».
Che cosa significa, quindi, valutare l’incertezza?
«Che il punto non è “sì” o “no”. Ma che esistono dei gradi: siamo più o meno certi di una “cosa”. La scienza ci fa arrivare al massimo del grado di certezza che ci è permesso e nel farlo è molto brava. Ci dà quindi le più forti certezze di cui disponiamo: che la Terra è rotonda o gira intorno al Sole: ne siamo più certi che del nostro nome di battesimo, che potrebbe essere stato trascritto con un errore».
Parlando dei «gradi» di conoscenza, ha citato Chuang Tzu e il suo dilemma: «Sono un filosofo che sogna una farfalla o una farfalla che sogna di essere un filosofo?». C’è una possibile soluzione?
«La certezza assoluta, in questo caso specifico, non l’abbiamo, ma ciò non significa che siamo prigionieri dell’incertezza assoluta: abbiamo conoscenze più o meno forti e altre perfino fortissime...».
Come vale questo paradigma nel suo campo di ricerca, la meccanica quantistica, dove le incertezze - teoriche e sperimentali - abbondano?
«Vale in modo particolare. La qualità che deve avere uno scienziato è saper distinguere tra ciò che sappiamo di convincente da ciò che sappiamo di meno convincente: uno studioso dev’essere sempre pronto a rimettere tutto in discussione. E non perché tutto è dubbio, ma perché tra molte cose certe ce ne sono molte altre da scovare: è come trovare l’assassino tra milioni di innocenti».
Questa logica, però, spesso si scontra con il senso comune: le discussioni tra studiosi spingono molti a credere che la scienza sia impotente e che le sue verità siano solo presunte: la conseguenza è un eccesso di incredulità e irrazionalismo. Come si rimedia all’equivoco?
«L’equivoco è pensare che la scienza sia solo una montagna di risultati acquisiti. La scienza è questo, ma è anche, fortunatamente, un vasto campo di incertezza in cui gli studiosi lavorano. E gli spazi esistono entrambi, più o meno separati. Quando si discute sulle cause del cancro o sui pericoli dell’intelligenza artificiale ci si muove sul margine tra i due territori: l’una e l’altra controversia nascono dal fatto che non sappiamo ancora quanto vorremmo. Sono due casi in cui la ricerca si muove in direzioni differenti. Altrimenti ci troveremmo in un vicolo cieco».
In effetti spesso dimentichiamo che la stessa storia della scienza è una sequenza di controversie più che di scoperte pronte e confezionate.
«Sì. È una storia di controversie dopo controversie. Succede anche in filosofia, ma nel caso della scienza molte discussioni sono state risolte: è la forza del suo pensiero, come dimostrano a livello storico la vicenda di Galileo oppure a livello filosofico il dibattito contro Heidegger: se ogni comunità ha i propri criteri di verità, la scienza è però in grado di far dialogare idee diverse e di arrivare a un consenso. Anche se ci si mette molto tempo».
Quindi succederà anche in fisica, con i «partiti» della teoria delle stringhe e della teoria della gravità quantistica, di cui lei è un sostenitore?
«I nostri due mondi “litigano”, ma prima o poi scopriremo se hanno torto tutti e due, se è possibile un compromesso o se solo uno ha ragione. Siamo ancora sull’orlo di un baratro. Ma avviene in molti campi: l’origine dell’Universo o della vita, la natura della coscienza o, come dicevo, il cancro. La montagna c’è ed composta da cose che non abbiamo ancora capito».
In che cosa sbagliate voi scienziati, se tante persone non credono alla vostra logica e alle vostre discussioni?
«L’incredulità è diffusa: negli Usa ci sono il creazionismo e il negazionismo climatico, mentre in Italia è noto lo scarso rispetto per il pensiero scientifico. Così si generano errori che le società rischiano di pagare a caro prezzo. È importante spiegare che la scienza non è la soluzione a tutti i mali, ma che è l’arma più forte per capire come stanno le cose e affrontare i problemi collettivi. Purtroppo noi ricercatori paghiamo ancora gli eccessi di trionfalismo di quella scienza che tra Otto e Novecento cambiò il mondo e allo stesso tempo non ci sforziamo di fare la necessaria distinzione tra le conoscenze “solide” e quelle che si stanno indagando. Alla radice dovremmo ricordare la significativa coincidenza tra la nascita della scienza e quella della democrazia. Accadde nello stesso luogo e nello stesso periodo: a Mileto, nel VII secolo a.C., con Talete e con il primo Parlamento della storia».
14 - Continua

La Stampa TuttoScienze 27.1.15
“E’ nell’Universo delle origini l’enigma delle particelle dimagrite”
La caccia alle “costanti” del cosmo e lo scenario delle 10 dimensioni
di Marco Pivato


L’Onu ha lanciato l’«Anno Internazionale della Luce e delle Tecnologie Basate sulla Luce». Non una cerimonia esotica, ma un vero e proprio appuntamento scientifico mondiale al quale anche l’Italia partecipa chiamando a raccolta, all’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica di Torino, l’Inrim, molti fisici di fama internazionale.
Ieri, dopo l’intervento del Premio Nobel per la fisica 2001 Wolfgang Ketterle (che il giorno precedente aveva tenuto una lezione a Palazzo Madama in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’«International Year of Light»), è stata la volta dei colleghi esperti, come lui, delle proprietà dell’impalpabile radiazione. La luce - intesa come espressione dell’intero spettro elettromagnetico - si irradia da miliardi di anni nell’Universo, portando con sé e fino agli occhi degli astronomi i segreti delle galassie, dell’origine del tempo e dello spazio, delle proprietà della materia e molte altre leggi arcane, pilastri del «cosmo» - nell’accezione greca del termine che lo intende come «ordine armonico» - ancora tutte da decifrare.
Protoni ed elettroni
Ci prova il professor Wim Ubachs, della Libera Università di Amsterdam che, ieri all’Inrim, ha tenuto la lezione dal titolo «La luce dell’Universo primigenio e la natura delle leggi della fisica». Dal suo laboratorio olandese del dipartimento di Fisica e Astronomia, Ubachs studia il viaggio nello spazio delle radiazioni elettromagnetiche emesse da antichi e lontanissimi corpi celesti come le quasar e cerca di capire in che modo interagiscono con la materia, estraendo informazioni sul funzionamento di questo «ordine» tanto armonico quanto misterioso che è il cosmo. Le sue teorie vogliono gettare un ponte tra le diverse visioni dell’Universo, per molti aspetti ancora contraddittorie o almeno incomplete, tracciate dalla fisica contemporanea.
Sostiene, per esempio, che la massa del protone oppure dell’elettrone, particelle subatomiche di cui tutti noi siamo costituiti, potrebbero essere diminuite nel corso del tempo: un «dimagrimento» di appena lo 0,002%, in 12 miliardi di anni, nel rapporto tra le masse delle due particelle. Ma cosa significa? Che, se la misura di Ubachs e colleghi è giusta, le leggi della fisica potrebbero non essere identiche in ogni parte dell’Universo come si è sempre assunto e le sue costanti non tanto più così costanti. Ce n’è per filosofi.
Ma prima di capovolgere completamente la visione dell’Universo, sinora salda quanto basta, c’è un altro modo di interpretare lo studio: la variazione delle masse delle particelle osservata da Ubachs è solo apparente ed è, in realtà, dovuta all’esistenza e all’effetto di numerose dimensioni oltre alle quattro «standard» che conosciamo.
Assieme alle tre dimensioni spaziali e a quella temporale l’Universo sarebbe infatti un coacervo di almeno 10 dimensioni raggomitolate su se stesse, ma non percepibili dall’uomo. La loro coesistenza potrebbe essere utile a comprendere molte delle «bizzarrie» della fisica ancora senza spiegazione: permetterebbe di conciliare, per esempio, la meccanica dei quanti e la Relatività generale. Una realtà fatta di dimensioni multiple, invisibili ma influenzabili a vicenda, non è comunque una teoria cervellotica.
La «natura delle leggi della fisica», per quel che ne sappiamo e in attesa di un nuovo Copernico o di un altro Einstein, non lo esclude affatto. Mentre Ubachs parla del «grandissimo libro sulla filosofia naturale scritto in lingua matematica», ammette che, benché i capitoli già vergati siano tanti, siamo appena alle prime pagine. E contemporaneamente alla ricerca, perentoria e sospesa, resta la domanda: «Perché queste leggi della natura e non altre?».
Per Ubachs non è una questione qualunque: «Si tratta del nodo centrale», incalza il professore. Benché furono Leibniz e Heidegger - tra i più noti - a porre questioni simili su base filosofica («Perché esiste qualcosa invece che niente?»), oggi se ne deve occupare la scienza. «Ciò che un tempo era dominio della speculazione - sostiene il fisico - ora è necessariamente materia per la fisica sperimentale e oggetto delle osservazioni degli astronomi».
La nanolitografia
Ma, fisica teorica a parte, l’«Anno Internazionale della Luce» è destinato a celebrare anche le «Tecnologie Basate sulla Luce». E anche qui Ubachs non è da meno, coinvolto, con il suo gruppo, nella realizzazione di una serie di applicazioni, questa volta piuttosto terrene e basate ancora sulle proprietà della luce. Il professore e il suo team sono tra i primi nel campo della nanolitografia ottica, che permette di realizzare, su sostanze sensibili alla luce, percorsi elettronici che costituiscono chip sempre più piccoli. «Si tratta - spiega - di oggetti microscopici che saranno il cuore futuro dei prossimi smartphone, tablet e computer. Consentiranno la miniaturizzazione sempre più precisa dei componenti di apparecchi iper-sofisticati e anche di tanti altri dispositivi per uso commerciale».
L’Onu ha lanciato l’«Anno Internazionale della Luce e delle Tecnologie Basate sulla Luce». Non una cerimonia esotica, ma un vero e proprio appuntamento scientifico mondiale al quale anche l’Italia partecipa chiamando a raccolta, all’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica di Torino, l’Inrim, molti fisici di fama internazionale.
Ieri, dopo l’intervento del Premio Nobel per la fisica 2001 Wolfgang Ketterle (che il giorno precedente aveva tenuto una lezione a Palazzo Madama in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’«International Year of Light»), è stata la volta dei colleghi esperti, come lui, delle proprietà dell’impalpabile radiazione. La luce - intesa come espressione dell’intero spettro elettromagnetico - si irradia da miliardi di anni nell’Universo, portando con sé e fino agli occhi degli astronomi i segreti delle galassie, dell’origine del tempo e dello spazio, delle proprietà della materia e molte altre leggi arcane, pilastri del «cosmo» - nell’accezione greca del termine che lo intende come «ordine armonico» - ancora tutte da decifrare.
Protoni ed elettroni
Ci prova il professor Wim Ubachs, della Libera Università di Amsterdam che, ieri all’Inrim, ha tenuto la lezione dal titolo «La luce dell’Universo primigenio e la natura delle leggi della fisica». Dal suo laboratorio olandese del dipartimento di Fisica e Astronomia, Ubachs studia il viaggio nello spazio delle radiazioni elettromagnetiche emesse da antichi e lontanissimi corpi celesti come le quasar e cerca di capire in che modo interagiscono con la materia, estraendo informazioni sul funzionamento di questo «ordine» tanto armonico quanto misterioso che è il cosmo. Le sue teorie vogliono gettare un ponte tra le diverse visioni dell’Universo, per molti aspetti ancora contraddittorie o almeno incomplete, tracciate dalla fisica contemporanea.
Sostiene, per esempio, che la massa del protone oppure dell’elettrone, particelle subatomiche di cui tutti noi siamo costituiti, potrebbero essere diminuite nel corso del tempo: un «dimagrimento» di appena lo 0,002%, in 12 miliardi di anni, nel rapporto tra le masse delle due particelle. Ma cosa significa? Che, se la misura di Ubachs e colleghi è giusta, le leggi della fisica potrebbero non essere identiche in ogni parte dell’Universo come si è sempre assunto e le sue costanti non tanto più così costanti. Ce n’è per filosofi.
Ma prima di capovolgere completamente la visione dell’Universo, sinora salda quanto basta, c’è un altro modo di interpretare lo studio: la variazione delle masse delle particelle osservata da Ubachs è solo apparente ed è, in realtà, dovuta all’esistenza e all’effetto di numerose dimensioni oltre alle quattro «standard»

Repubblica 27.1.15
Registrata nel cervello la voce dei pensieri
Uno studio italiano ha indagato l’attività dell’area del linguaggio
di Silvia Bencivelli


È LA voce dei pensieri, quella con cui rimuginiamo nella nostra testa e parliamo con noi stessi: la voce del nostro dialogo interiore, ma anche quella della lettura silenziosa. Per la prima volta è stato possibile registrarla direttamente nel cervello: osservarla trasformata nel disegno di un’onda e “leggerla” su un foglio di carta. Ma per farlo c’è stato bisogno di un gruppo eterogeneo di scienziati: Andrea Moro, linguista e direttore del laboratorio NeTS (Neurocognition, Epistemology and Theoretical Syntax) della Scuola superiore universitaria Iuss di Pavia, e il neurochirurgo dell’università di Pavia Lorenzo Magrassi, i due ideatori dell’esperimento, e un gruppo di ingegneri della stessa università.
Il risultato, spiegano i ricercatori nell’articolo uscito ieri sulla rivista Pnas, è che «la rappresentazione dei suoni è al cuore del linguaggio e non è soltanto il veicolo per l’espressione di qualche misteriosa attività simbolica della nostra mente». Perché mostra che quando si pensa in silenzio le aree cerebrali deputate al linguaggio lavorano un sacco, e lo fanno producendo onde elettriche del tutto uguali alle onde acustiche. Come se quella voce con cui parliamo tra noi e noi, a bocca chiusa, fosse davvero una voce. E come se noi la sentissimo realmente.
«Il linguaggio — spiega Andrea Moro — al di fuori di noi è fatto di aria, quella delle onde sonore, ma dentro di noi è fatto di onde elettriche, quelle dei nostri neuroni. Qui siamo entrati nel cervello e abbiamo visto che, quando pensiamo in silenzio, queste seconde onde assomigliano a quelle del suono. Significa che se pensi una parola il tuo cervello la “traveste” di suono. Ne risulta un linguaggio che esiste solo interiormente ma che ha la stessa forma di quello fatto di aria che esprimiamo con la bocca».
Insomma: la voce interiore non è un’illusione. Per “vederla” i ricercatori hanno preso sedici pazienti destinati al lettino del neurochirurgo. Cioè sedici persone a cui il chirurgo doveva asportare un pezzettino di encefalo e che, per migliorare la precisione della chirurgia, erano tenuti svegli e venivano invitati a svolgere piccoli compiti (ascoltare, parlare…) in modo da essere sicuri che il bisturi non stesse danneggiando le parti importanti del cervello. In questo modo, i ricercatori hanno avuto un accesso diretto alle aree del linguaggio e le hanno potute spiare mentre i pazienti pensavano a bocca chiusa, oppure facevano altre cose che non prevedevano l’uso del pensiero verbale. Ed è stato chiaro che quei neuroni, che si credevano esclusivamente deputati a parlare, stavano “risuonando” delle parole non dette ma pensate o lette in silenzio.
«È un lavoro robusto: sedici pazienti, un esperimento di quattro anni: — racconta Moro — ma la parte che, da linguista, mi emoziona di più è che da adesso possiamo vedere che cosa si dicono i neuroni. E quindi ricominciare a discutere su quanta e quale struttura del mondo esterno sia contenuta nella struttura del nostro linguaggio». In concreto, però, possiamo intanto dire che il risultato apre alla possibilità di vedere il contenuto verbale dei pensieri silenziosi: «quelli di chi ha subito un danno cerebrale, per esempio». Cioè di chi non riesce più ad articolare correttamente le parole a causa di una malattia o di un incidente, ma è ancora in grado di pensare: «potremmo leggere i pensieri che lui non riesce più a dire».
Ma potremmo leggere anche quelli di chi non vorrebbe dirti la verità e vorrebbe tenere per sé alcune informazioni. «Questo esperimento solleva questioni etiche enormi, anche spaventose, e spero che non aprirà mai a un futuro orwelliano in cui qualcuno senza scrupoli si intrufola nella testa della gente e ne legge i pensieri», conclude Moro. È un futuro remoto, in ogni caso. Per ora dobbiamo sapere che la voce dei pensieri esiste ed è una voce davvero, sebbene silenziosa e capace, almeno per ora, di parlare soltanto a noi.

Repubblica 28.1.15
La misura della coscienza
Quanto siamo coinvolti in quello che ci accade? Non tutti allo stesso modo
Da oggi si può capire con uno strumento il nostro stato cominciando dal sonno
Ecco come dicono le ultime teorie scientifiche
di Silvia Bencivelli


C’È, ma non si vede. Va e viene, e non si trova in nessun posto. La coscienza crea il nostro mondo, contiene colori, suoni, emozioni, pensieri, memorie. Ed è quello che rende “il cervello più grande del cielo”, come scriveva Emily Dickinson, perché gli permette di contenere il cielo e noi che lo stiamo guardando. Ma è anche uno degli argomenti che a lungo è stato tabù per gli scienziati, perché, studiando la coscienza, oggetto e soggetto della ricerca coincidono e siamo costretti ad ammettere che è la materia a generare la mente.
Perciò fino a pochi anni fa qualsiasi tentativo di avvicinare la coscienza con gli strumenti della scienza veniva preso per velleitario. Oggi, invece, più o meno da quando ci si è messo il Nobel Francis Crick alla fine degli anni Ottanta, è solo ambizioso. Ma una teoria della coscienza cominciamo ad averla. Nasce da un’intuizione di Giulio Tononi, neuroscienziato e psichiatra, direttore del Center for Sleep and Consciousness dell’università del Wisconsin. L’ha descritta lui stesso in un romanzo visionario e dal titolo complesso: “Phi — Un viaggio dal cervello all’anima”, uscito per Codice edizioni, con un blurb di Oliver Sacks che riconosce all’autore di aver dato “corpo e anima alle ultime frontiere della ricerca neuroscientifica”.
La teoria di Tononi ha una prima caratteristica chiave: parla di una coscienza misurabile. O meglio: di una qualità della coscienza, fatta di informazione, e di una quantità, riconducibile a un numero identificato dal simbolo Phi. Perciò è una teoria che può essere messa alla prova. Lo strumento per farlo è il “coscienziometro”.
«Al momento — spiega Tononi — il coscienziometro è uno strumento assai primitivo che usa uno stimolatore magnetico transcranico (una tecnica non invasiva che stimola il cervello da fuori, ndr ) e un gran numero di elettrodi. Si può ottenere così una misura dell’attività del cervello e da qui una stima della quantità di coscienza, cioè di Phi». Il coscienziometro è utilizzabile per capire il livello di coscienza in pazienti in stato vegetativo, ed è già allo studio a Liegi e a Milano dove ha mostrato di funzionare meglio di tutti gli altri indicatori. «Ma in più, ci permette di verificare la teoria e le sue previsioni».
Per capire come, partiamo dall’inizio. «La coscienza — prosegue Tononi — è presente quando siamo svegli e quando sogniamo. Scompare però durante il sonno senza sogni. Cioè se io ti sveglio poco dopo che ti sei addormentata, la tua coscienza riappare ma prima non c’era, perché non c’eri più tu». Quindi la coscienza può esistere per gradi. Ma quando c’è, siamo sicuri che ci sia: «La mia proposta è di affrontare la questione partendo da qui».
Le proprietà della coscienza possono essere descritte con cinque assiomi: «Primo: la coscienza esiste intrinsecamente, cioè non hai bisogno di conferme per sapere di essere cosciente. Secondo: è strutturata, ed è fatta di parti (colore, suono, spazio…). Terzo: ogni esperienza è quella che è, e non è miliardi di altre cose che sarebbero state possibili. Quarto: ogni esperienza è una e indivisibile. Quinto: la coscienza è una e una sola».
Sono assiomi apparentemente banali. Per di più il primo è stato affermato da Cartesio mentre l’ultimo risale a Kant. La teoria di Tononi però è capace di tradurli in termini matematici per arrivare a una definizione che ci permette di riconoscere quando un sistema fisico può essere definito cosciente. «Il risultato è che quanta più informazione integrata contiene un sistema, tanto più è alto FPhi». Come dire che il grado di coscienza non dipende solo dalla quantità di informazione che viaggia nel cervello, ma anche dall’integrazione di tutta questa informazione. Ed ecco la Teoria dell’Informazione Integrata (IIT).
Starebbe qui la differenza tra il nostro cervello e, per esempio, una macchina fotografica fatta da milioni di fotodiodi. Anche lì dentro viaggiano miliardi di informazioni: il sensore della macchina li mette insieme e fa una foto. Ma non creerà mai un sistema integrato capace di discriminare tra miliardi di immagini.
Il supporto fisico della nostra coscienza, comunque la definiamo, è però il nostro cervello. Cioè pura materia. E non è affatto ovvio ammettere che è qui che nasce la mente. Per i filosofi è l’annosa questione del dualismo mente corpo, inaugurata quattro secoli fa appunto da Cartesio. Ma per gli scienziati è tanto delicata che oggi il filosofo David Chalmers lo definisce The hard problem, il problema difficile. Come è possibile, dice Chalmers, che “l’acqua del cervello si trasformi nel vino della coscienza”? E la domanda è diventata tanto pervasiva nella nostra cultura da essere al centro dell’ultima opera del drammaturgo inglese Tom Stoppard.
Per Tononi, una risposta ci deve essere: «Io credo che si possa risolvere l’ hard problem partendo dalla fenomenologia». Ed è per questo che la coscienza si studia a partire dal sonno, cioè quando scompare e riappare.
Se sia questa la fine dello hard problem è difficile da dire. Intanto però la IIT ha avvicinato il neuroscienziato americano Christof Koch, allievo di Crick, con cui Tononi sta collaborando nella definizione di un nuovo panpsichismo. E nel romanzo, a studiarla è addirittura Galileo: «Galileo si era reso conto che per capire le proprietà degli oggetti è necessario rimuovere l’osservatore e adottare una prospettiva estrinseca. Ma a un certo punto noi stessi siamo diventati oggetto di ricerca. Per cui ho scelto di lasciare a lui il compito di reintegrare la soggettività nella scienza». Galileo lo fa con uno strumento opposto al telescopio: un qualiascopio, analogo onirico del coscienziometro. Quando lo punta verso il cielo si accorge che è vuoto di coscienza. «Poi però ci osserva una falena e lì vede una luce più grande di una stella. E tutti gli animali brillano di una coscienza. Finché Galileo non vede la costellazione più bella di tutte quando lo punta verso chi lo accompagna». Cioè verso il cielo contenuto nel cervello umano.

Repubblica 28.1.15
L’educazione all’attenzione è la nostra grande sfida
di Paolo Legrenzi


NELLA vita di tutti i giorni ci accorgiamo di essere più o meno coscienti di quello che succede intorno a noi, non foss’altro perché alle volte dormiamo, e non siamo consapevoli di nulla, e talvolta siamo distratti, e le cose ci sfuggono. Le ricerche mostrano che, per la maggior parte del tempo, se nessuno ci interrompe, noi non ci concentriamo su qualcosa, ma lasciamo che la mente vaghi formando lunghe catene di associazioni libere, quasi sognassimo un po’ anche di giorno. Concentrarsi su qualcosa è faticoso, e avviene di rado.
Benché si sia consapevoli del fatto che la nostra mente in momenti diversi funziona con livelli di attenzione differenti, noi non ci siamo mai posti il problema di misurare il livello di efficienza della coscienza. Le persone sono inclini a pensare che, se vogliamo, siamo in grado di sfruttare l’attenzione al massimo grado. Purtroppo le cose non stanno proprio così. Se ne accorse la prima volta, nel 1796, l’assistente dell’astronomo reale dell’osservatorio di Greenwich che venne licenziato dal suo capo, Lord Maskelyne. Quest’ultimo pensava che tutte le persone, quando stanne attente, sono capaci di rilevare con precisione il momento esatto in cui una stella passa in un determinato punto della volta celeste. Dato che le prestazioni dell’assistente erano sistematicamente diverse dalle sue, Lord Maskelyne lo licenziò, avendolo giudicato sbadato. L’assistente, che si credeva scrupolosissimo, cadde nella disperazione, tornò al suo paesello e poco dopo morì.
Questo fu l’atto di nascita ufficiale della misurazione della coscienza. Successe infatti che, pochi anni dopo, un astronomo tedesco, Bessel, venne a sapere di questo episodio e si stupì. Come mai i tempi dell’assistente erano sistematicamente diversi da quelli del capo? Si mise a fare misure sistematiche e scoprì quella che venne chiamata la “equazione personale”, e cioè una sorta di algoritmo che descrive le capacità di ogni persona nel prestare attenzione a quello che succede nell’ambiente. Questa scoperta ebbe sempre più applicazioni quando, con il progresso delle tecnologie, l’uomo dovette interagire con macchine di precisione, nelle fabbriche, e, purtroppo anche nelle guerre, essendo le armi sempre più sofisticate. Non solo si scoprì che la nostra attenzione può venire misurata, ma che può anche venire addestrata, come sanno bene i cacciatori e gli sportivi. Dato che dobbiamo tenere conto della disattenzione delle persone, si cercò sempre più di sostituire gli uomini con sistemi artificiali, in modo da eliminare gli errori dovuti a sbadataggini. E tuttavia, tanto più si è cercato di eliminare l’uomo, tanto più le cose sono diventate pericolose. Il meccanismo è quello descritto bene nel film “Il dottor Stranamore”, con Peter Sellers. In quel film si racconta che, ai tempi della guerra fredda, proprio per eliminare le sbadataggini, l’operatore umano era stato escluso dalle decisioni di avviare rappresaglie nucleari contro il nemico. E così quando un pilota pazzerello decide di bombardare la Russia, non si riesce a disinnescare la controffensiva automatica. Anche noi, nella vita di tutti i giorni, funzioniamo così. Per prestare attenzione a stimoli nuovi dobbiamo bloccare gli automatismi. Questo diventa sempre più difficile via via che l’intrusione di vari messaggi provenienti dalle fonti più diverse non ci lascia l’animo in pace. Noi siamo stati progettati per terminare un’attività quando l’abbiamo iniziata e quindi il dover saltabeccare qua e là con la nostra attenzione non solo danneggia le sue prestazioni ma, oltre un certo limite, crea ansia e stress. Ma questa è un’altra storia.

Corriere 28.1.15
25 biblioteche pubbliche da far girar la testa

qui