giovedì 29 gennaio 2015

La Stampa 29.1.15
La foto mancante
di Massimo Gramellini


Continuano a vedersi, ma a non farsi vedere. Ogni amore proibito finisce per lasciare una traccia fotografica. Invece la relazione clandestina più chiacchierata d’Italia resta avvolta nel buio come un vertice del Cremlino ai tempi del Pcus. Eppure Renzi e Berlusconi non fanno della ritrosia l’elemento fondante del loro carattere. Da sempre Berlusconi abita la vita pubblica alla stregua di un gigantesco studio televisivo in cui si muove con il celebre sorriso celentanoide stampato sopra il fondotinta. Quanto a Renzi, accetterebbe di scattare un selfie anche con un palo della luce (che non gli facesse ombra). Entrambi amano la politica a fumetti che comunica attraverso la potenza evocativa delle immagini. E sanno che l’assenza di tracce visive dei loro incontri furtivi non fa che accrescere i sospetti di chi li osserva dall’esterno pensandone tutto il male possibile. Allora perché si rifiutano di farsi ritrarre, non dico mano nella mano, ma almeno uno accanto all’altro? 
Forse una risposta va cercata proprio nel ruolo sacrale che gli amanti del Nazareno affidano all’immagine. Se ormai una cosa esiste davvero solo quando viene immortalata da un flash, la coppia «Father and Son» trova più conveniente non esistere. L’ex direttore di Canale 5, Massimo Donelli, ha suggerito ai due burattinai di farsi fotografare mentre guardano insieme davanti alla tv l’elezione del «loro» Presidente della Repubblica. Temo resterà deluso. L’insolita riluttanza di entrambi nasconde ragioni politiche, ma anche più intime. Per Renzi potrebbe trattarsi persino di un refolo di imbarazzo. Per Berlusconi di un problema di inquadrature.

Ne ha parlato questa mattina Pagina 3 su Rai Radio 3
«De Bortoli però sembra irremovibile dall’idea di lasciare a fine aprile»
il Fatto 29.1.15
Rizzoli, trasloco a Segrate
La trattativa tra Mondadori e Rcs per iul grande polo del libro: insieme sfiorerebbero il 40 per cento del mercato
di Silvia Truzzi


La frase è questa: “L’editoria è uno strano mestiere. Usa lo spirito per fare soldi, e i soldi per fare lo spirito”. Solo che di questi tempi (secondo Nielsen, il 2014 si è chiuso con un -3,3%, dato che però non tiene conto di eBook e Amazon) fare soldi è difficile. Non è un dettaglio (oppure sì, volendo dare retta ad Aby Warburg, “Nei particolari c’è Dio”) chi quella frase l’ha pronunciata, ovvero Gian Arturo Ferrari, ex ad, reinsediato lunedì scorso sul trono di Segrate come vicepresidente. Il cambio al vertice esecutivo di Mondadori (fuori Riccardo Cavallero, dentro Enrico Selva Coddè, ingegnere, filosofo, per sei anni direttore generale di Einaudi) è il completamento di una manovra iniziata lo scorso autunno con lo scorporo della divisione libri dell’azienda guidata da Marina Berlusconi. Mossa che è anche la premessa per una grande operazione di cui si sussurra da qualche mese: non ancora una trattativa, ma ben più di un pour parler tra Mondadori e Rizzoli.
Il primo e il secondo gruppo editoriale stanno pensando di stringere un’alleanza per rafforzarsi: insieme sfiorano il 40 per cento del mercato trade, il 25 per cento della scolastica. La filosofia, si parva licet, è quella che ha portato Random House e Penguin a una mega-fusione da 2,5 miliardi di sterline. Nulla che possa preoccupare più di tanto l’Antitrust, comunque una concentrazione di quote di mercato da tenere d’occhio. La formula di questa alleanza è naturalmente allo studio. Non è pensabile che Mondadori abbia qualche interesse a una mera fusione. Lo spin off dell’area libri, il business più redditizio, mira allo sviluppo. Traduzione: se Mondadori s’imbarca in quest’avventura, lo fa per comandare. Senza dire che le condizioni di partenza dei due contraenti non sono paragonabili. Nel 2013 i libri Mondadori hanno registrato ricavi per 334,3 milioni di euro e un margine operativo lordo di 46,2 milioni di euro; nello steso anno Rcs libri segna ricavi per 251,8 milioni di euro, con un margine operativo lordo di 4,2 milioni di euro. Nei primi nove mesi dell’anno scorso, ultimo dato parziale, il fatturato di Segrate è stato 238,9 milioni (con un margine operativo lordo di 35,8 milioni), mentre i numeri corrispondenti di Rcs sono155,4 milioni e un margine di 1,3 milioni. Le due redditività non sono comparabili. La cosa avrebbe anche una conseguenza politica, perché la famiglia Berlusconi diventerebbe anche il più importante editore di libri.
Ma nessun discorso può essere fatto senza considerare il momento delicatissimo che Rcs mediagroup attraversa (al 30 settembre, il risultato netto era -93,1 milioni).
LA BATTAGLIA DI SOLFERINO. Da qui ad aprile si chiariranno molte cose. Intanto la vexata quaestio sulla governance, chi comanda davvero (e dunque chi ci metterà più soldi). Le banche premono, chiedono di ridurre le perdite, vendere l’argenteria: sono loro i maggiori sponsor del “dialogo” con Segrate. Ogni anno bisogna dismettere qualcosa per tappare i buchi: nel 2012 il gruppo aveva detto adieu a Flammarion, casa editrice francese, comprata all’alba del millennio e ceduta a Gallimard per oltre 200 milioni. Chi comanda metterà anche una parola definitiva sulla direzione del Corriere della Sera. Alla Fiat, che vuol fare la parte del leone e portare Mario Calabresi da Torino a Milano, potrebbe essere chiesto un ulteriore impegno: vuoi fare il socio di maggioranza, allora sali al 30 per cento e scegli il direttore (sul tavolo, potrebbe esserci un compromesso con Della Valle sulla presidenza , realizzando il sogno di Luca Cordero di Montezemolo). Ipotesi, questa, che vedrebbe confermato l’ad del gruppo, Pietro Jovane. La vendita dei libri servirebbe a finanziare lo sviluppo del brand Gazzetta dello Sport, magari in un senso commercialmente più aggressivo, la produzione di eventi in campo sportivo, dopo l’operazione GazzaBet. Ma non è affatto detto che Fiat sia intenzionata ad aumentare le proprie quote. E per quanto riguarda la direzione del Corriere della Sera, tutto può ancora accadere. Intanto bisognerà capire chi sarà il nuovo inquilino del Colle e pure se sono fondate le voci di una proroga di Ferruccio de Bortoli, magari come direttore editoriale in ticket con Luciano Fontana. De Bortoli però sembra irremovibile dall’idea di lasciare a fine aprile. È comunque da escludere che possa continuare la convivenza forzata con l’attuale management , che lo ha elegantemente dimissionato con nove mesi d’anticipo. Sul toto-nomi per via Solferino continuano a fiorire le ipotesi più disparate, peggio che per il Quirinale (qui è più complicato perché non ci sono più patti, né di sindacato né del Nazareno). Oltre al direttore de La Stampa Mario Calabresi, si parla di Paolo Mieli (oggi presidente di Rcs libri), di Enrico Mentana, Carlo Verdelli e di alcune firme del Corriere come Antonio Polito e Massimo Franco. Insieme al più accreditato di tutti: Aldo Cazzullo.
CESSIONE DEI CARTELLINI. Proprio Cazzullo, autore Mondadori, sta per cambiare casacca. E passare almeno temporaneamente a Rizzoli (qualcuno dice anche per rafforzare la sua candidatura alla direzione di via Solferino) con il prossimo saggio sulla Resistenza, dopo il fortunato La guerra dei nostri nonni (uscito per Le strade blu di Segrate nel 2014). Ma non è l’unico trasloco: Rcs ha appena presentato alla rete dei venditori il nuovo libro-omaggio alla regina dei salotti romani, Maria Angiolillo. Qualcuno è saltato sulla sedia perché il volume è firmato da Candida Morvillo, ex direttrice di Novella 2000 e autrice Rcs, e da Bruno Vespa, icona dei libri Mondadori: una cosa impensabile fino a pochi mesi fa. 
si ringrazia Giovanni Senatore
Più tardi pubblicheremo una clip dalla trasmissione di questa mattina su Radio 3

il Fatto 29.1.15
L’intervista Il progetto di Landini
“Basta con i partitini: sinistra sociale per battere Renzi”
di Salvatore Cannavò


La domanda obbligata a Maurizio Landini, dopo la vittoria di Syriza in Grecia, la poniamo in forma rovesciata.
Perché lei non sarà lo Tsipras italiano?
Perché mi chiamo Maurizio Landini e faccio il segretario della Fiom e un’esperienza come quella greca non è riproducibile in Italia. Semmai il modello più interessante per la nostra situazione è quello spagnolo di Podemos. Landini ci riceve nel suo studio e fa bella mostra dell’ultimo libro di Papa Bergoglio: “È quello che oggi in Italia fa il discorso più di sinistra”. Il problema oggi è proprio quello della scomparsa della sinistra.
Un giudizio drastico.
Un giudizio vero. La politica si è trasformata in logica di potere e non in strumento di partecipazione. La crisi colpisce tutti, anche i partiti della sinistra se è vero che il 60% non va a votare.
Quindi?
Occorre andare oltre la sinistra classica perché la storica distinzione “destra-sinistra” rischia di non parlare più alle condizioni vere delle persone, ai loro bisogni materiali. Penso che occorra andare a una sinistra sociale.
Che cosa significa?
Innanzitutto riunificare situazioni sempre più frammentate e che non si parlano. Unire, sul piano sindacale, le varie forme del lavoro anche quelle che non sono rappresentate dal sindacato che, infatti, deve rinnovarsi profondamente. E sul piano politico offrire un luogo comune a tutti coloro che oggi sono privi di rappresentanza: il lavoro, la lotta per i beni comuni, contro le mafie, contro la miseria, per la democrazia. Ce ne sono tante ma non hanno un luogo comune.
È il concetto di “coalizione sociale” di cui parla Stefano Rodotà?
Sì, anche se non so se “coalizione” sia il termine giusto. Ma la direzione è quella.
Si tratta di un progetto che si pone anche il problema elettorale?
Oggi io penso a una messa in rete in cui ognuno mantiene il proprio ruolo ma tutti insieme si costruisce un progetto comune. È chiaro che se una iniziativa si mette in piedi, una risposta a quella domanda occorrerà darla.
Di coalizioni e alleanze si parla da sempre, non si è mai prodotto nulla.
Ma oggi siamo di fronte a una novità enorme. Io per la prima volta faccio il sindacalista senza lo Statuto dei lavoratori. Il vuoto politico a sinistra è evidente, la volontà di Renzi di non fermarsi e di andare avanti con le sue politiche è chiara. Non è più tempo di testimonianza. Se si gioca si gioca per vincere.
Siamo di nuovo, come a fine ‘800, al sindacato che fa nascere nuovi partiti?
Il sindacato non deve trasformarsi in un soggetto politico ma se uno, cioè Renzi, pensa di cancellare il sindacato e le soggettività sociali, si sbaglia. Deve attendersi una reazione.
Pensa che Renzi e il Pd non siano più recuperabili?
Nel loro dibattito non interferisco. Ma le politiche di Renzi non hanno più nulla di sinistra: Jobs Act, precarietà, libertà di licenziare, depenalizzazione della frode fiscale. Come si fa a dire che è sinistra? Si sta introducendo il concetto per pur di lavorare si accetta qualsiasi condizione.
Messa così, sembra peggio di Berlusconi.
Sì, non c’è dubbio. Siamo al tentativo di ridisegnare le relazioni sociali.
Renzi è l’avversario da sconfiggere?
Assolutamente sì. L’alleanza a cui penso deve ambire a progettare un altro modo di governare, di produrre e di organizzare la partecipazione democratica. A partire dall’Europa.
E del coordinamento delle sinistre che propone Vendola?
Le iniziative alla sinistra del Pd sono tutte legittime e le rispetto. Ma quello che propongo è altro.
Cofferati dice di volere un “partito radicato”
Sollecitazione utile. Grillo esalta “la rete” mentre il sindacato organizza le persone in carne e ossa. Mettere insieme le due cose sarebbe già una novità. Ho letto che Sergio vuole fare un’associazione. Spero possa partecipare a questo progetto. I partiti, però, hanno perso credibilità.
Quali passaggi sono previsti?
Noi faremo una grande consultazione nella Fiom e poi la proporremo a tutti. Una grande consultazione democratica nazionale su un progetto e un programma.
Che pensa del Quirinale?
Che la precarietà è dannosa anche per il Quirinale. Se due anni fa avessero eletto Stefano Rodotà, com’era possibile, non saremmo in queste condizioni.

Corriere 29.1.15
Anche Giordano Bruno merita la riabilitazione
di Rosario Sorrentino


Come medico non posso che amare Galileo Galilei, l’uomo che inventò il metodo sperimentale e rivoluzionò il mondo e l’idea di futuro; ciò nonostante le mie emozioni e la mia ammirazione sono soprattutto per Giordano Bruno, l’uomo libero che decise di morire su un rogo infame — proprio lui che quel fuoco l’aveva sempre avuto dentro di sé.
Non entrerò qui nel merito della profonda e arcinota ingiustizia che il filosofo ha dovuto subire. Bruno è stato e rimane un simbolo indistruttibile di forza e di straordinaria energia. Lui non a caso soprannominato «filosofo on the road», itinerante, inquieto, fastidioso e ribelle, più scienziato di tanti scienziati pavidi e sottomessi che corteggiavano il potere. È stato uno di più grandi e impertinenti pensatori del Rinascimento, e andrebbe preso a esempio proprio da quei giovani così a corto di modelli autentici e portati a coltivare la propria rassegnazione perché spesso suggestionati, vinti da un «futuro che ormai non c’è».
È la stessa vita di Bruno a suscitare forti emozioni e ci convince che ciò che può motivare la nostra esistenza, le nostre scelte, le nostre decisioni, possa essere l’idea, la passione di lasciare una testimonianza, un’impronta del nostro passaggio, per tentare di rendere il mondo migliore. Questo però a patto di una piena consapevolezza della volontà di andare oltre l’ordinaria amministrazione, accettando i rischi delle proprie scelte, con il desiderio di incidere, influire sul corso e sugli eventi del nostro tempo.
Giordano Bruno se ne andò con parole, rivolte ai suoi carcerieri, che rimangono scolpite nella memoria dell’umanità: «Forse voi che pronunciate questa sentenza avete più paura di me che la subisco». Poi fu messo a tacere per sempre. Vorrei che papa Francesco concludesse una volta per tutte la dolorosissima vicenda di Bruno con la sua più completa e convincente riabilitazione. Solo lui può farlo.

Corriere 29.1.15
Bergoglio e la società senza padri
«Assenti e troppo presi da sé»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO Una «società di orfani», una «società senza padri», perché non ci sono oppure cercano un rapporto «alla pari», da amici, ed è come se non ci fossero. Si è passati «da u n e s t re m o a l l ’a l t ro » , d i ce Francesco. «Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la latitanza.
I padri sono talora così concentrati su se stessi, sul lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani». Nell’udienza di ieri il Papa ha sviluppato un tema che gli sta molto a cuore. «Vorrei dire a tutte le comunità cristiane che dobbiamo essere più attenti: l’assenza della figura paterna nella vita dei piccoli e dei giovani produce lacune e ferite che possono essere anche molto gravi», avverte Francesco. «E in effetti le devianze di bambini e adolescenti si possono in buona parte ricondurre a questa mancanza, alla carenza di esempi e di guide autorevoli, alla carenza di vicinanza e amore da parte dei padri. È più profondo di quel che pensiamo il senso di orfanezza che vivono tanti giovani».
È interessante notare che Bergoglio ha una devozione particolare per San Giuseppe, «uomo forte e silenzioso», padre putativo che «custodisce e a c c o m p a g n a G e s ù n e l s u o cammino di crescita» e rappresenta «il modello dell’educatore». A San Giuseppe era dedicata la chiesa di Flores, il quartiere di Buenos Aires dove è na- to, la stessa nella quale sentì la sua vocazione. L’inizio solenne del suo pontificato è avvenuto il 19 marzo, festa di San Giuseppe educatore. Nella stanza 201 a Santa Marta tiene sul tavolo una statua del santo che dorme, «e quando ho un problema, una difficoltà, io scrivo un foglietto e lo metto sotto San Giuseppe, perché lo sogni; questo gesto significa: prega per questo problema!».
Francesco chiede spesso: giocate con i vostri figli, perdete tempo con loro? «Un papà mi diceva: quando vado a lavorare dormono, quando torno la sera lo stesso. Ma questa non è vita, è disumano», raccontava tempo fa. Così ieri ha ripercorso il passaggio dalla figura «autoritaria» al suo opposto. Si dice che la figura del padre, «specie nella cultura occidentale», sia ormai «simbolicamente assente, svanita, rimossa». Il che, ha ricordato, è stato considerato all’inizio come una «liberazione dal padrepadrone». In alcune case «regnava in passato l’autoritarismo o addirittura la sopraffazione». I figli trattati «come servi». E ora siamo all’opposto: «I figli sono orfani in famiglia, perché i papà sono spesso assenti da casa ma soprattutto perché, quando ci sono, non si comportano da padri, non dialogano, non adempiono il loro compito educativo, non danno ai figli, con il loro esempio accompagnato dalle parole, quei principi, valori, regole di vita di cui hanno bisogno come del pane». A volte «sembra che i papà non sappiano bene quale posto occupare» e allora «nel dubbio si astengono e trascurano le loro responsabilità, magari rifugiandosi in un improbabile rapporto “alla pari”. È vero che tu devi essere “compagno” di tuo figlio, ma senza dimenticare che tu sei il padre!». Lo stesso problema si vede pure nella «comunità civile, con le sue istituzioni», ha concluso Francesco: «Così i giovani rimangono orfani di strade sicure da percorrere, di maestri, di ideali. Vengono riempiti di idoli ma si ruba loro il cuore; sono spinti a sognare divertimenti e piaceri, ma non si dà loro il lavoro; illusi col dio denaro, sono negate loro le vere ricchezze».

Corriere 29.1.15
Lo psicanalista  junghiano Luigi Zoja
«Un rapporto da fratelli non può funzionare Serve il coraggio dei no»
«Sono perfettamente d’accordo con il Papa.
Anzi, scherzando con il mio editore argentino, gli ho proposto di chiedere al Pontefice la prefazione al mio libro»
intervista di Riccardo Bruno


Luigi Zoja, psicanalista junghiano, quindici anni fa ha scritto Il gesto di Ettore, un caposaldo nell’analisi tra padri (assenti) e figli, testo ancora molto letto e tradotto. «Ettore si sfila l’elmo, prende in braccio il figlio e prega che diventi più forte di lui — spiega Zoja —. Nella mitologia non c’è solo Edipo, il padre castrante, ma anche la figura di un genitore forte e positivo». Papa Francesco parla di figli «orfani», perché vivono in famiglie con padri assenti. «L’atteggiamento della madre è radicato nella biologia, e in tutte le culture varia di poco. Quello del padre è invece variabilissimo: non basta avere il ruolo fecondante, bisogna riconoscere e alimentare il proprio figlio, fisicamente ma anche affettivamente e culturalmente. Il padre era tradizionalmente preposto a una funzione secondaria, a dire dei no, a insegnare a limitare i bisogni. E questo sta venendo meno».
Eppure sempre più padri cambiano i pannolini, svolgono compiti prima esclusivi delle madri. «È vero e anch’io l’ho fatto con i miei tre figli. È molto bello e ti gratifica. Credo che in parte derivi dal senso di colpa dopo secoli di patriarcato e di abusi, come se si sentisse il bisogno di essere accettati». E questo è positivo? «Sì, è positivo. E rispetto a quindici anni fa è un fenomeno che si ulteriormente rafforzato».
E allora perché i padri sono sempre più assenti? «Perché non viene coperta o è sottovalutata l’educazione, la fase dell’adolescenza. Per esempio, il padre, soprattutto con i figli maschi, deve essere in grado di canalizzare l’aggressività dei giovani».
E deve proporsi come modello. Ma in una società competitiva come la nostra, non è allora meglio che si dedichi alla carriera piuttosto che stare troppo a casa? «Quando scrivevo il libro la mia figlia più piccola mi rimproverava che non l’aiutavo a fare i compiti».
E adesso immagino che sia orgogliosa di lei... «Se non ti dedichi alla carriera chissà che un giorno tuo figlio non ti rimproveri di essere stato un pappamolla, che per colpa tua non potrà comprarsi una casa. In effetti l’equilibrio è delicatissimo». Francesco invita anche a evitare di mettersi «alla pari». «Deve esserci comunicazione ma senza eccedere, il padre deve mantenere la sua figura di rispettabilità. Non bisogna creare una “società di fratelli”, ma recuperare anche una verticalità nei rapporti. Lasciandoci alle spalle la società patriarcale abbiamo finito per buttare anche il bambino con l’acqua sporca». Anche in questo è d’accordo con il Papa.
«Sì, ma anche lui deve stare attento. I termini Papa e papà, non a caso, hanno la stessa radice.
Bergoglio cerca di essere alla mano, ma a mio avviso a volte è al limite. Se il Papa diventa un amicone rischia di perdere autorevolezza. Così come un papà».

il Fatto 29.1.15
Il caso calabrese
Lanzetta, l’ex ministro invisibile resta disoccupata: caos nel Pd
di Enrico Fierro


Dopo l’elezione del capo dello Stato, Matteo Renzi si tufferà nel dossier Calabria. Ormai è una questione di principio. O lui o loro. O il rottamatore o le vecchie volpi della politica calabrese targata Pd, vecchi ras pasciuti dentro la grande melassa dell’inciucio trasversale, forgiati da anni di accordi, “accurduni” e accordicchi. Lo hanno preso in giro e il ragazzo di Rignano proprio non lo può sopportare. Ieri sera, dopo una giornata turbolenta di mezze voci fatte filtrare da Palazzo Chigi sui maldipancia del premier e del suo entourage per le scelte non proprio cristalline operate nella composizione della giunta regionale calabra, ha parlato Maria Carmela Lanzetta.
LEI, LA MINISTRA invisibile (etichettata così dai suoi nemici interni al Pd), la farmacista sindaca di Monasterace assurta suo malgrado al ruolo di simbolo dell’antimafia, pronuncia un chiaro e netto no al suo ingresso nella giunta regionale di Mario Oliverio. “Non ci sono le condizioni di chiarezza sulla posizione dell’assessore Nino De Gaetano”. Stop. Qualche elemento in più è però necessario per aiutare il lettore a districarsi nella jungla della politica calabrese. Nino De Gaetano è stato consigliere regionale in Calabria di Rifondazione comunista, prima di passare armi e bagagli al Pd, fa una bella campagna elettorale nel 2010. Manifesti e santini, tanti, in ogni casa di Reggio, anche nel covo che Giovanni Tegano, uno dei big-boss della ‘ndrangheta, usava per la sua latitanza. Compare Giovanni sosteneva la candidatura del giovane rivoluzionario, e non era il solo, perché anche dai compari di San Luca, si legge nell’inchiesta “Il Padrino”, erano arrivate promesse di appoggio. La Squadra mobile di Reggio chiede l’arresto del politico, i magistrati respingono, De Gaetano non ha ricevuto nessun avviso di garanzia, anche se nelle settimane scorse il procuratore Federico Cafiero de Raho ha detto che sono in corso accertamenti. Alle ultime elezioni De Gaetano non viene candidato, ma non per i santini in odore, piuttosto per l’applicazione rigida della regola dei due mandati. Poco male, sessanta giorni dopo, l’ex consigliere si rifà con la nomina ad assessore alle infrastrutture e ai trasporti. Un passo indietro e andiamo a dicembre, alla data dell’unico incontro che Matteo Renzi ha con Mario Oliverio. I due non si piacciono, Oliverio è la quintessenza della vecchia politica, consigliere regionale già negli anni Ottanta, è stato deputato per più legislature prima di diventare presidente della Provincia di Cosenza e infine governatore della Calabria. In più è dalemiano con ascendenze cuperliane, ma quello che più conta è che Oliverio è il rappresentante di un sistema di potere che mette insieme vecchi pezzi del fu Pci, da Peppe Bova a Reggio a Nicola Adamo a Cosenza, con pezzi del potere politico targato centrodestra, in primo luogo i potenti fratelli Gentile, Tonino, senatore, e Pino, eterno consigliere regionale.
Nell’incontro Renzi chiede un ruolo importante in giunta per la Lanzetta, ministro troppo in ombra per il turbo-renzismo. Oliverio accetta, ma da quel momento non si fa più sentire. Fatto il favore al premier, per il resto pretende mano libera. Stacca il cellulare e non risponde neppure a Lorenzo Guerini, il braccio destro di Renzi. Muto fino a domenica sera, quando annuncia la giunta, c’è la Lanzetta, simbolo dell’antimafia, e c’è De Gaetano con la sua storia di santini elettorali custoditi dal boss Tegano. Troppo per la ministra e ancora di più per Renzi, che affida a Graziano Del Rio il compito di far filtrare il disagio di Palazzo Chigi. Prima con una serie di sms ad Oliverio, poi con dichiarazioni all’Ansa, nelle quali si sottolinea come “l’impegno di Palazzo Chigi per la legalità al Sud e in Calabria sia una scelta esplicitata dalla presenza di Nicola Gratteri per la commissione sulle norme antimafia e del prefetto De Felice nominato presidente della Commissione vittime della mafia”. QUANTO BASTA alla ministra Lanzetta per pronunciare il suo non ci sto più. Il resto è un clima politico da guerra di tutti contro tutti nel Pd calabrese. Oliverio ha nominato presidente del Consiglio regionale Tonino Scalzo, rinviato a giudizio per lo scandalo dell’Arpacal, e vice Pino Gentile, ras di Cosenza, dei quattro assessori della giunta, tre sono indagati per i rimborsi ai gruppi regionali.
Il rinnovamento può attendere, i codici etici di Rosi Bindi e dell’Antimafia meglio buttarli nel cestino.

La Stampa 29.1.15
La leggenda dei beni sequestrati alla mafia
Poco personale, nessun registro, abbandono e confusione Viaggio nello sfascio dell’Agenzia calabrese che dovrebbe gestirli
di Niccolò Zancan


Ci si potrebbe fermare qui, un passo oltre la porta della Agenzia nazionale per i beni confiscati alle mafie. Al cospetto delle parole del direttore amministrativo Massimo Nicolò (165 mila euro di compenso annuo, di cui 14 mila di premio di risultato). «Siamo in pochi», dice. «Vede dottore, tutti sparano a zero contro di noi. E ci sono problemi quotidiani, non si può negarlo. Ma in quanti siamo oggi al lavoro?». Sono in 37, a fronte di 55 mila beni confiscati in Italia. «Non ce la facciamo - dice - non possiamo farcela. Siamo dentro un gigantesco imbuto burocratico. In teoria, la legge ci darebbe la possibilità di assumere 100 persone, ma sono costi a carico delle amministrazioni di provenienza. Si rifiutano di darci il personale. Oppure lo richiamano indietro, quando lo abbiamo appena formato. Non siamo neppure riusciti a chiedere il bilancio consuntivo del 2013. Siamo pochi e tutti ci additano. Ma non ci danno i mezzi per lottare. Una scatola vuota? Diciamo che siamo una scatola da riempire».
Le sorprese
Ci si potrebbe fermare qui. Dentro questa palazzina gialla sgraziata, con le bandiere arrotolate, i corridoi vuoti, un silenzio spettrale. Ma sarebbe un errore. Ci perderemmo diverse sorprese. Quelle che un sostituto procuratore di Catanzaro, Vincenzo Luberto, definisce provvedimenti manifesto. «Sono leggi inventate con l’unico scopo di mettere in scena delle belle intenzioni, mentre nel concreto si fa esattamente l’opposto». Luberto sostiene che le cose in Calabria, tutte quelle che riguardano la lotta alla ’ndrangheta, si ispirino a questa principio: «Fare finta di...». «Voi giornalisti - dice Luberto - guardate sempre il dito e vi perdete la luna». E quale sarebbe, la luna? «Prendiamo il caso del processo al clan Muto di Cetraro, il re del pesce: 22 condanne definitive. Grandi titoli sulla costituzione di parte civile della presidenza del Consiglio. Era la prima volta che succedeva in Italia. Un segnale forte. Era il 2006». E poi? «Sono passati otto anni. Nessuno è andato davanti al giudice civile a chiedere l’effettiva quantificazione del risarcimento. Lo Stato italiano poteva recuperare soldi dalla famiglia in questione, ma non lo ha fatto».
La Calabria è un pozzo di notizie. Ed è vero quello che ha dichiarato il procuratore generale di Torino Marcello Maddalena, durante l’apertura dell’anno giudiziario: «L’impressione è quella di un sistema allo sbando. Riuscire a ripristinare la legalità nei confronti delle grosse organizzazioni mafiose è impresa quasi impossibile». Su 59 beni sequestrati a Torino, 58 sono ancora nelle mani degli illegittimi proprietari. Beni che l’Agenzia con sede a Reggio Calabria nemmeno conosce. Mancano i collegamenti. Il sito Internet non è aggiornato. Spesso il telefono squilla a vuoto. Il direttore amministrativo Nicolò è l’unico ad aver accettato di rispondere alle nostre domande: «Al telefono, almeno nella sede principale di Reggio, io rispondo sempre e fino a tarda sera. Lavoro dodici ore al giorno. Ma è più che probabile che nelle succursali, i pochissimi impiegati lascino alcuni orari scoperti. Quanto a sapere, effettivamente, quali siano i beni confiscati, allora... Noi ci rifacciamo ad una vecchia banca dati del demanio che, senza voler parlare male di nessuno, beh...». Nessuno sa. Nessuno ha la mappa. I tempi burocratici italiani applicati alla materia dei beni sequestrati giocano a grande vantaggio dei mafiosi.
Piccole storie calabresi significative. Dopo anni di battaglie giudiziarie, il Comune di Lamezia Terme era riuscito a farsi assegnare un alloggio sequestrato alla famiglia Benincasa, nel quartiere ad alta densità ’ndranghetista di Capizzaglie. Lo ha ristrutturato e dato in gestione alla cooperativa Progetto Sud per ospitare dei rifugiati politici. Ma la corte d’Appello ha restituito il bene alla famiglia, che ora ci abita con impianti nuovi e infissi ammodernati con soldi pubblici.
Gli investimenti
A due passi dal Castello Aragonese di Reggio Calabria, quasi di fronte al Tribunale, c’è un palazzone lasciato a metà. È lì da cinque anni, come una specie di monumento. Era stato sequestrato a Gioacchino Campolo, detto il re dei video-poker. Mezzo centro storico era suo. Il villino che ospitava in affitto la sede di Forza Italia. Il palazzo prestigioso in via Malacrinò, dove c’era la sede del Tribunale di Sorveglianza. Così come il «Super Cinema» sul lungomare, ormai chiuso da più di dieci anni e mai riconvertito. Non è facile trovare imprenditori che vogliano investire soldi su beni dal futuro tanto incerto.
Anche il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, usa parole definitive: «La gestione non funziona. Manca la cognizione di quali siano i beni sequestrati, dove si trovino e la destinazione. È una ricchezza che lo Stato lascia nelle mani dei mafiosi». Ci sono tre proposte di legge per modificare l’Agenzia. Si discute se portare la sede a Roma o lasciarla a Reggio Calabria. «Il problema è politico» dice un impiegato a fine turno, con aria abbacchiata. Ecco, ancora la luna. La politica.

Corriere 29.1.15
Il boss, gli amici, i politici arruolati «Questi voti ti porteranno in cielo»
di Giovanni Bianconi


Il boss e l’intermediario chiamarono il politico un giorno di tre anni fa, il 21 febbraio 2012. Seduto accanto a Nicolino Sarcone — considerato il capo del gruppo di ‘ndrangheta al centro dell’indagine dei carabinieri, all’epoca già sotto processo per mafia — Alfonso Paolini, cutrese trapiantato in Emilia, telefonò a Giuseppe Pagliani, reggiano e capogruppo del Pdl nel consiglio provinciale. «Io ho una cosa per te e per noi... ci dobbiamo vedere urgentemente — disse Paolini —... Se no qua troviamo un altro cavallo...». Ma Pagliani era la prima scelta: «Vogliamo te». L’invito fu subito accettato e Paolini promise: «I voti ti porteranno in cielo... guarda... però devi essere tu a consigliare e dire quello che bisogna fare».
Poi ci fu una riunione nell’ufficio di Sarcone, dove Pagliani andò «senza farsi scrupolo» di incontrare un imputato di ’ndrangheta; finché il 21 marzo non fu organizzata una cena allargata con Sarcone, altri imprenditori ora accusati di essere «esponenti di vertice del sodalizio criminoso», Pagliani e altri politici locali. È in quell’occasione, dice adesso il procuratore di Bologna Roberto Alfonso, che «si consacrò e definì l’accordo tra la politica e l’organizzazione mafiosa».
«Vogliono usare il Pdl»
Uscito dal ristorante, poco dopo mezzanotte, Pagliani chiamò la fidanzata Sonia: «Mi hanno raccontato testimonianze pazzesche su tangenti che le cooperative si facevano dare da loro per raccogliere lavori... Ho saputo più cose stasera che in dieci anni di racconti sull’edilizia reggiana! Perché questi sono la memoria dell’edilizia degli ultimi trent’anni... A Reggio han costruito tutto». Poi le raccontò il programma che gli avevano esposto i commensali: «Vogliono usare il Pdl per andare contro la Masini (Sonia Masini, all’epoca presidente della Provincia, ndr ), contro la sinistra, anche per la discriminazione. Dice “fino a ieri noi gli portavamo lavoro, eravamo la ricchezza di Reggio, oggi ci hanno buttati via come se fossimo dei preservativi usati”. Capito amore?». La fidanzata commentò: «Eh, la povera Masini fa meglio a fare le valigie!». E Pagliani: «Adesso gli faccio una cura come Dio comanda!... La curetta giusta».
Gli inquirenti sottolineano che dopo la cena cominciò una «serie di attacchi» contro la presidente della Provincia, in particolare per l’affidamento di un appalto; «tema in sé del tutto lecito — scrive il giudice che ha fatto arrestare l’uomo politico, oggi consigliere comunale — se non fosse che Pagliani lo solleva violentemente con il l ’arrière pensée ( pensiero segreto, fine recondito ndr ) discendente dalla comunanza di interesse con la cosca del Sarcone». Consapevolmente, secondo i pubblici ministeri antimafia, «una battaglia gestita e voluta da un gruppo di criminali» viene trasformata in «battaglia politica».
Il confino e la faida
Il seguito dell’indagine e l’eventuale processo diranno se questa impostazione, al limite del dimostrabile, è corretta e reggerà al vaglio di altri giudici. Tuttavia il peso della malavita calabrese in questo spicchio di Emilia non è una novità e anzi ha radici antiche, che un politico locale non può non conoscere. Una storia che risale al 1982, quando il tribunale di Catanzaro spedì un bidello della scuola elementare di Cutro al confino nel comune di Quattro Castella, provincia di Reggio Emilia; si chiamava Antonio Dragone ed era il capo della cosca di ‘ndrangheta a Cutro. Prese in affitto una stanza a pensione e cominciò a far salire dalla Calabria parenti, amici e compari, avviando i traffici più disparati, dalla droga alle estorsioni, per poi espandersi agli appalti pubblici. Crebbero gli affari, ma anche i sospetti, che portarono in carcere prima Dragone e poi suo nipote Raffaele, lasciando mano libera a uomini di fiducia che presto si rivelarono concorrenti, come Nicolino Grande Aracri, detto «Mano di gomma». Il quale lentamente conquistò una posizione egemone che divenne incontrastata dopo l’omicidio di Antonio Dragone, assassinato a colpi di kalashnikov e calibro 38 a Cutro, nel maggio 2004. Con quel delitto finì una faida, e mille chilometri più a nord la ‘ndrangheta trapiantata nel cuore dell’Emilia poté riprendere i suoi affari e le sue infiltrazioni nei mondi della politica, dell’imprenditoria, ma anche degli apparati statali e dell’informazione.
Poliziotti amici
Ambienti non più incontaminati da tempo, notano gli inquirenti sottolineando, fra l’altro, rapporti degli affiliati con esponenti delle forze dell’ordine. Per esempio un ispettore di polizia, ora indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, che agevolava pratiche e soffiava informazioni utili; o un agente già autista del questore di Reggio, accusato di minacce a una giornalista perché non si occupasse più di un paio di personaggi.
Insomma, comportamenti abituali nella Calabria in mano alla ‘ndrangheta erano diventati tali anche in Emilia dove, scrivono i pm bolognesi, «si potrebbe dire che gli ‘ndranghetisti raramente fanno la fila». Proprio perché «hanno qualcuno che fissa loro appuntamenti, li “riceve” all’ingresso della Questura, li conduce all’ufficio competente e cura di accelerare la definizione... Sono “solo cortesie”, pensano evidentemente gli uni e gli altri, e si frequentano con molta “normalità”, condividendo momenti di svago (pranzi e cene) e interessi vari (i cavalli)». Come tramite tra ‘ndranghetisti e forze di polizia i pm citano «Alfonso Paolini, che dispone di una agenda di contatti certamente molto estesa ed efficace». È lo stesso che telefonò al consigliere provinciale Pagliai. E il cerchio si chiude.

Corriere 29.1.15
E De Luca si difese «Sabotaggio è una parola nobile»
di Marco Imarisio


«Ma quindi il processo lo fanno per davvero?». Gli inviati dei quotidiani francesi e inglesi si sorprendono all’ingresso in aula del procuratore aggiunto Andrea Beconi. Temevano di essere venuti a Torino per nulla, convinti che alla fine ci sarebbe stato un ripensamento. L’imputato scrittore è già arrivato da una mezz’ora, passata a fare foto con militanti No Tav e sostenitori assortiti che innalzano i cartelli «Je suis Erri» e fanno la coda per l’autografo sul libro dove racconta la vicenda che lo riguarda. C’è un’azienda di abbigliamento tecnico per la montagna che ne ha comprato una fornitura intera per regalarlo ai passanti fuori dal tribunale. Lui ha ricambiato indossando maglione e pantaloni della succitata azienda, e davvero sembra l’unico a suo agio, con un modo di fare tra l’ascetico e il sornione, e quest’ultimo aggettivo va inteso come un pudico eufemismo. Ai colleghi stranieri è stato difficile spiegare il senso di questo dibattimento. L’impeto patriottico di ribattere ai loro sguardi compassionevoli citando le vicende giudiziarie dello storico David Irving e del comico Dieudonné frana miseramente davanti a una evidente disparità dei fatti. Un conto è negare l’Olocausto o fare sfoggio di antisemitismo. L’invito non meglio specificato al sabotaggio della Tav fatto in un’intervista del 2013 è ben più modesta faccenda. De Luca lo ha capito ed evita con garbo ogni rimando alla tragedia di Charlie Hebdo. «Qui sono imputato da solo, ma fuori da quest’aula isolata è l’accusa» proclama, e preso dall’euforia del momento infila qualche castroneria, del tipo «sabotaggio è una parola nobile». Ma anche in aula l’accusa non sembra certo circondata da un’aura positiva, al punto che quando prende la parola il procuratore Beconi si fatica a capire chi sia il vero imputato. «Qui non si sta cercando di comprimere un diritto fondamentale come la libertà di manifestare il proprio pensiero, e nemmeno di entrare nella diatriba sul Tav» è il suo esordio. «Va solo verificato se è stato commesso un reato». E in quel periodo ipotetico pare già di cogliere un mezzo intendimento. L’avvocato Alberto Mittone, che denunciò De Luca per conto della società che si occupa della Torino-Lione, insiste sul passato militante dello scrittore e la difesa va sul velluto nel ricordare che questo è un processo a una frase e non alla biografia della persona che l’ha pronunciata. Segue ricorso di massa al vocabolario per studiare ogni possibile significato del termine sabotaggio. Chiudiamola in fretta, che è meglio per tutti.

Corriere 29.1.15
A Roma il registro delle unioni civili
La Cei insorge: minaccia alla famiglia
Il sindaco Marino: battaglia sui diritti, ma serve una legge. L’opposizione: provocazioni
di Maria Rosaria Spadaccino


Roma Per alcuni è un «fatto storico», per altri è un «lutto cittadino». Ieri a Roma è stato istituito il registro delle unioni civili. Le coppie di fatto etero e gay potranno registrare la loro unione in Campidoglio e vedersi riconosciuti i diritti e servizi previsti. Era uno degli obiettivi della giunta guidata da Ignazio Marino. «Si tratta di un risultato atteso da tempo, che pone la nostra città sempre più in prima linea sul fronte dei diritti degli individui e del riconoscimento dei legami affettivi, stabili e duraturi — commenta il primo cittadino —. Tante amministrazioni italiane, oggi, attendono una legge nazionale che finalmente sancisca i diritti uguali per tutti di fronte all’amore».
Non è stato facile per Roma, città che ha nel suo cuore lo Stato del Vaticano, fare questo passo. L’opposizione capitolina (centrodestra) ha cercato, in tutti i modi, di bloccare la delibera. Un ostruzionismo antico che fa arrivare Roma buona ultima (dopo 160 città): prima hanno fatto Palermo, Torino, Bologna, Padova, Cagliari, tra le altre. «Erano vent’anni che ci stavamo lavorando — spiega Vladimir Luxuria, attivista ed ex-deputata —. Il sindaco Walter Veltroni ci aveva provato anche lui, ma era stato impossibile, oggi è un giorno di festa».
E infatti l’approvazione della delibera è stata celebrata con palloncini colorati, girotondi intorno al Marc’Aurelio, urla di gioia, abbracci appassionati soprattutto da parte della comunità glbt (gay-lesbian-bisexual and transgender), anche se il registro avvantaggerà pure le coppie etero, come ricorda Gianluca Peciola, capogruppo capitolino di Sel, uno dei promotori della delibera. «A Roma ci sarà un unico registro per le coppie di fatto e le famiglie gay anche con figli».
Ma l’aspirazione del primo cittadino va oltre l’istituzione del registro. «La Capitale spera di poter contribuire a sbloccare le titubanze dei legislatori che, da troppi anni ormai, eludono un pieno riconoscimento dei diritti giuridici e civili di tutte le coppie, indipendentemente dal loro orientamento sessuale», dice Ignazio Marino, particolarmente impegnato nella lotta per i diritti civili.
Fu lui a volere la trascrizione nei registri dell’anagrafe capitolina dei matrimoni gay celebrati all’estero. Un atto che lo aveva visto opporsi, insieme ad altri sindaci, alle disposizioni del ministro Angelino Alfano. E in relazione al quale la Procura, di recente, ha aperto un fascicolo di indagine.
Questa ostinazione del primo cittadino riceve il plauso del sottosegretario alle Riforme, Ivan Scalfarotto. «L’istituzione del registro delle unioni civili da parte del Comune di Roma è un ulteriore passo sul cammino di civiltà che l’Italia ha intrapreso», osserva. «Grazie a Ignazio Marino e al gruppo del Pd, Roma è una città più civile e moderna», ha twittato il presidente del Pd, Matteo Orfini.
Il centrodestra, ricompattato nell’occasione, attacca: «Questo registro non ha alcun valore giuridico è solo un’autentica provocazione», dice il senatore Maurizio Gasparri, di Forza Italia. Durissima la posizione della Cei: «È un attentato al matrimonio come istituzione prevista dalla Costituzione e una minaccia alla famiglia», ha commentato alla Radio Vaticana monsignor Enrico Solmi, vescovo di Parma e presidente della Commissione per la Vita e la Famiglia della Cei. E ha aggiunto: «Le priorità sono altre. Il Comune di Roma ha calato la maschera e mostrato la vera finalità dei registri delle unioni di fatto che è quello di avallare i “cosiddetti” matrimoni gay e introdurre in modo indiretto questa possibilità che in Italia non è data per legge».
Una posizione che Mara Carfagna, responsabile del dipartimento diritti civili di FI, analizza in questi termini: «Delibere come quella di Roma dimostrano la necessità di affrontare una riflessione scevra da pregiudizi volta al riempimento di un vuoto normativo».

Repubblica 29.1.15
Il pretore di famiglia
Hanno firmato le sentenze più innovative degli ultimi anni in tema di adozioni, affidi, fecondazione assistita, genitori single e omosessuali
Ecco chi sono i giudici che stanno riscrivendo i nostri diritti civili e dove vogliono arrivare
di Maria Novella De Luca


HANNO firmato alcune tra le sentenze più innovative degli ultimi anni. Adozioni, affidi, fecondazione assistita, genitori single, genitori omosessuali, e storie di bambini “nuovi” i cui diritti sono ancora tutti da scrivere. Giudici e giudici minorili, che oggi raccontano cosa c’è dietro quelle scelte difficili, controverse, sensibili. Perché da Roma a Catania, da Bologna a Torino, è nelle aule dei tribunali italiani (e non in Parlamento) che sta cambiando, sentenza dopo sentenza, il nostro diritto di famiglia. È il 29 agosto scorso, in piena estate, quando il giudice Melita Cavallo, presidente del tribunale per i minori di Roma, concede alla mamma non biologica in una coppia lesbica, l’adozione della figlia della partner. E decide che la bambina avrà il doppio cognome. Scrive Cavallo, una carriera in prima linea nella difesa dei minori, fuori e dentro le famiglie, prima a Napoli poi a Roma. «L’omogenitorialità è una genitorialità diversa, ma parimenti sana e meritevole di essere riconosciuta in quanto tale ». La sentenza viene definita storica, e mentre la legge promessa da Renzi giace da qualche parte mai discussa, la decisione dei giudici romani diventa, di fatto, la prima stepchild adoption italiana. Racconta oggi Melita Cavallo: «Per noi il punto focale è il benessere del minore. E in quella coppia omogenitoriale la serenità della bambina era evidente, così come era evidente la sua relazione con la mamma non biologica. L’articolo 44 della legge 184 sulle adozioni lascia la facoltà ai giudici di inquadrare nei “casi speciali” le situazioni in cui i vincoli affettivi tra bambino e adulto vanno salvaguardati. Non riconoscere questa possibilità ad una persona, soltanto perché omosessuale, avrebbe significato una discriminarla, violando la nostra Costituzione».
Ma basta mettere insieme non più di sei o sette sentenze, nel giro di poco più di un anno e mezzo, per capire ciò che sta accadendo. E il varco che il lavoro dei magistrati sta aprendo, nella società, nel diritto, nel grande ambito delle nuove famiglie, mentre le leggi sui diritti civili giacciono abbandonate nelle secche del Palazzo, affossate dai veti politici incrociati. Se nel 2013 il tribunale per i minori di Bologna, presieduto da Giuseppe Spadaro riconosce ad una mamma single l’adozione (avvenuta in Usa) di una bambina, e concede un affido familiare ad una coppia di maschi gay di Parma, nell’aprile del 2014 su spinta dei tribunali di Catania, Firenze e Milano la Corte Costituzionale abolisce il divieto di fecondazione eterologa. Per l’Italia è una rivoluzione: cade l’ultimo paletto di una legge detestata, la legge 40. Francesco Distefano, è stato uno dei giudici che ha rimesso alla Consulta la decisione sull’illegittimità del divieto di eterologa. Laico convinto, classe 1962, lettore di Sciascia e Saramago, dice che quella sentenza è stata un momento di «grande orgoglio professionale».
«Il tribunale di Catania è stato il primo ad appellarsi alla Corte, eravamo partiti dal caso di una donna affetta da menopausa precoce, abbiamo sollevato il diritto di uguaglianza, alla salute. Pensare che oggi in Italia l’eterologa è legale, grazie anche al nostro lavoro, è una bella soddisfazione». Ex pretore di Bronte, Francesco Distefano dice però che per lui ogni sentenza è fondamentale. «Dall’autorizzazione ad una minorenne ad abortire, ad un ragazzo troppo giovane che chiedeva di cambiare sesso, ai diritti di un migrante, ho sempre la consapevolezza che un giudice può cambiare, con un tratto di penna, il destino di una persona. Ed è una immensa responsabilità».
Ma è sempre nella primavera del 2014 che la decisione di un altro tribunale, questa volta è Grosseto, con uno strappo in avanti impone al Comune la trascrizione di un matrimonio gay avvenuto nel 2012 a New York. La storia di Stefano Bucci e Giuseppe Chigiotti diventa nazionale e dà il via in tutta Italia alle trascrizioni di nozze celebrate all’estero. Una stagione che si conclude con l’ happening romano in Campidoglio, quando il sindaco Marino trascrive i matrimoni di ben 16 coppie. Gran parte di queste trascrizioni vengono poi cancellate dai prefetti, ma il varco è aperto: quei simil matrimoni restano negli occhi e nelle immagini di tutti.
Giuseppe Spadaro è dal 2013 il presidente del Tribunale per i minori di Bologna. Tribunale che ha firmato una serie di sentenze innovative in tema di diritto di famiglia. Calabrese di Lametia Terme, genitore di quattro figli, dice che essere padre occupandosi di giustizia minorile «è un valore aggiunto perché ogni decisione deve essere presa partendo dal punto di vista dei bambini». E il lavoro di giudice «si impara a fare con il tempo, come quello di padre ». Ma per Giuseppe Spadaro non spetta ai Tribunali disegnare diverse forme familiari. «È un ruolo che spetta solo al legislatore. Tuttavia, è innegabile che la società attuale sia alle prese con una nuova concezione di famiglia. In Italia però mancano leggi per tutelare questi nuclei, spesso con figli, che si sono formati all’estero. E da questo punto di vista abbiamo sempre cercato finora di mettere in primo piano l’interesse del minore». Dall’affido di una bambina ad una coppia gay, al riconoscimento di un’adozione a una mamma single, sono tante le sentenza che a Bologna parlano di “nuove famiglie”. Spiega Spadaro: «Nel caso dell’affido ad una coppia gay non si è dato vita ad alcun provvedimento creativo: a differenza dell’adozione, la famiglia affidataria può essere sia un single sia una coppia. Non si esclude esplicitamente che gli affidatari possano essere una coppia omosessuale: escluderlo significa discriminare sulla base delle tendenze sessuali e ciò non è consentito dalla nostra Costituzione».
A differenza di quanto deciso dal Tribunale per i minori di Roma, di fronte alla richiesta di una stepchild adoption i giudici di Bologna hanno scelto di rinviare gli atti alla Corte Costituzionale. «Il nostro fine — conclude Spadaro — è di comprendere come un giudice, in questi casi, possa, anzi debba tutelare i minori coinvolti. Che tipo di tutela possiamo accordare a bambini nati in altri Stati, dove sono legittimi istituti come l’adozione omosessuale? I figli dei gay sono o no bambini, ossia doni di Dio come tutti gli altri? Vuole o no intervenire il legislatore? ».

Repubblica 29.1.15
Quando le leggi vanno piano accelerano i magistrati
di Chiara Saraceno


ERA già successo nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, quando la giurisprudenza iniziò a smantellare alcuni capisaldi del diritto di famiglia di origine fascista che il Parlamento tardava a modificare, nonostante il dettato costituzionale lo obbligasse teoricamente a farlo. Così, ad esempio, una celebre sentenza del 1968, in nome del principio costituzionale della parità tra i coniugi, sancì che una moglie che non seguiva il marito “ovunque questi decidesse di fissare la propria residenza” non poteva essere considerata colpevole di abbandono di tetto coniugale. I processi di emancipazione femminile che stavano cambiando la quotidianità dei rapporti uomo-donna, insieme alla mobilitazione pubblica del movimento delle donne, non consentivano più di risolvere i conflitti coniugali sulla base di vecchi schemi. Lo stesso sta succedendo oggi per quanto riguarda sia i rapporti tra persone dello stesso sesso, sia l’accesso alla filiazione. Nel primo caso, nel perdurare colpevole di un silenzio del legislatore, sono state le corti internazionali e nazionali a costringere l’Italia a dare riconoscimento di status “famigliare” alle coppie dello stesso sesso sposate (o unite in unione civile) all’estero, ai fini, innanzitutto, del diritto al ricongiungimento famigliare del coniuge straniero, ma in linea di principio anche in altri settori. Nel campo della filiazione, la giurisprudenza è intervenuta su molti aspetti. Per quanto riguarda la filiazione tramite tecniche di riproduzione medicalmente assistita, sono state le corti a smantellare l’obbrobrio della legge 40, riuscendo là dove era fallito il referendum abrogativo. Per quanto riguarda il terreno dell’adozione, diverse pronunce hanno allargato, in nome dell’interesse del minore, i criteri che definiscono chi può adottare, consentendolo, in casi sempre precisi e particolari, a singoli e a coppie dello stesso sesso, fino a consentire al partner dello stesso sesso l’adozione del figlio/a del proprio compagno/a anche se questo è ancora in vita e non solo se e quando questi muoia.
Come negli anni Sessanta del Novecento, dietro queste decisioni innovative c’è la presa d’atto dei cambiamenti culturali e sociali in atto da parte di giudici che, senza modificare le norme, ne offrono una interpretazione adeguata alle circostanze attuali. Se del caso, sollevano anche problemi di costituzionalità sollecitando a intervenire la magistratura più alta. Come negli anni Sessanta del Novecento, i movimenti di opinione più o meno organizzati giocano un ruolo non irrilevante in questo fenomeno, nella misura in cui sollecitano e insieme rendono visibili nel dibattito pubblico i cambiamenti culturali e di comportamento cui si riferiscono questi giudici innovatori nelle loro decisioni. Sia chiaro, le decisioni innovative dei giudici e delle corti in materia di famiglia non possono essere ricondotte all’esistenza di un movimento o di una iniziativa organizzata entro la magistratura. Non c’è nessun “complotto” e nessun movimento organizzato dei magistrati a questo scopo, anche se il dibattito all’interno dei magistrati è vivace e ricco. Aggiungo che, se le singole decisioni di singoli giudici fanno giurisprudenza, influenzando decisioni successive, esse possono sempre essere ignorate o rovesciate da un altro giudice, salvo che non sia intervenuta la Corte Costituzionale (come nel caso della legge 40 sulla riproduzione assistita). In altri termini, se il legislatore continua a non intervenire, i cittadini saranno sempre costretti a ricorrere a un giudice per far valere quelli che ritengono loro diritti, sperando nella forza persuasiva della giurisprudenza innovativa e di non incappare, invece, in giudici che hanno opinioni diverse e contrarie.

Corriere 29.1.15
Asse in tensione per il tentativo di imporre il candidato dem
di Massimo Franco


La confusione è inevitabile. Ma nelle pieghe di consultazioni febbrili rimane un punto fermo: l’asse tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. E l’accelerazione impressa alla trattativa, e forse alla sequenza delle votazioni, sembra metterlo in tensione. Eppure, più ci si avvicina al voto per il Quirinale di oggi pomeriggio, più la strategia del premier e del leader di Fi tendono a convergere. Si sono visti ieri e si incontreranno di nuovo per individuare insieme il nome da proporre al Parlamento come capo dello Stato. E spunta quello di Sergio Mattarella, giudice costituzionale ed ex ministro: anche se Berlusconi nicchia e resiste. Anche l’idea di far votare scheda bianca nei primi tre scrutini è figlia della volontà comune di trovare entro sabato il candidato o la candidata vincenti.
La tattica comporta qualche rischio. Il timore è che nell’urna le schede bianche si trasformino in preferenze per personalità ostili all’«asse del Nazareno». Per questo i tempi si accorciano. L’insistenza con la quale Berlusconi abbraccia Renzi, definendolo esponente di una sinistra diversa dal passato, risponde alla volontà di evitare scarti del Pd. Ma non è chiaro se nella descrizione del profilo fatto ieri all’assemblea dei parlamentari di Fi, l’ex premier abbia delineato la soluzione davvero condivisa, o quella che lui preferisce.
Il vero problema sono le tensioni nei rispettivi partiti. I colloqui a palazzo Chigi tra Renzi e l’ex segretario Pierluigi Bersani, vero capo della minoranza del Pd, si spiegano su questo sfondo. Se non ottiene il placet degli avversari interni, il presidente del Consiglio rischia di diventare prigioniero di una candidatura determinata da Fi. «Saremo indispensabili per eleggere il capo dello Stato», sostiene Berlusconi.
Si coglie una certa perentorietà, nelle sue parole: come se sapesse che alla fine «a nessuno conviene rompere»; e che forse in questa fase a Renzi conviene ancora meno. Spiegando ai suoi parlamentari che il premier avrebbe accettato i «no» di Fi su alcuni candidati, Berlusconi disegna una strategia tendente a chiudere la trattativa quanto prima. Il tentativo berlusconiano è di riscrivere il «patto del Nazareno» su basi più o meno paritarie. Ufficialmente, si descrive il faccia a faccia tra i due come un confronto tra candidature destinate ad elidersi.
Renzi insiste per Sergio Mattarella. Berlusconi gli contrappone un altro giudice, l’ex premier Giuliano Amato. Avere proiettato la sfida su sabato, o forse venerdì pomeriggio, quando dalla quarta votazione si potrà eleggere il capo dello Stato con la maggioranza assoluta, e non con quella di due terzi, può facilitare la soluzione. Ma gli appelli del Pd a «sanare le ferite del 2013», devono passare l’esame del Parlamento.

Corriere 29.1.15
Bersani media. La minoranza resta inquieta
Il sì a Mattarella: era nella mia rosa già nel 2013. Ma Fassina e gli altri: perché escludere Prodi e Pier Luigi?
di Monica Guerzoni


ROMA Nel giro ristretto dell’ex segretario raccontano che Pier Luigi Bersani sia entrato nello studio del premier a Palazzo Chigi con l’animo costruttivo del «cavalier servente» leale e responsabile, che ha cuore il Paese e l’unità della «ditta». E che però non si sia affannato a togliere le castagne dal fuoco a Matteo Renzi, offrendo soluzione al dilemma tra Mattarella e Amato. Su entrambi Bersani ha offerto disponibilità piena a «dare una mano» e quando Matteo ha detto di preferire il primo, Pier Luigi ha dato il via libera: «Non ho obiezioni, nel 2013 era nella mia rosa».
Mezz’ora dopo il leader della minoranza era già fuori, in piazza Colonna. «Abbiamo cominciato a ragionare» e «abbiamo ragionato bene» vuol dire che l’incontro è filato liscio, anche se il percorso che porta al Quirinale può sempre riempirsi di ostacoli e pericolose buche: «La strada è ancora lunga, ci sono ancora alcuni giorni...». Uno spazio-tempo nel quale i rumors dei palazzi hanno infilato, via via, dubbi e preoccupazioni, tentazioni e sospetti. Davvero Stefano Fassina ha sondato i cinquestelle su una possibile candidatura di Bersani? L’ex viceministro smentisce infastidito: «Io non ho rapporti con il M5S, non li ho mai avuti». E poi, in tv da Enrico Mentana: «È una notizia inventata, che mi fa venire qualche sospetto».
Chiarito che tra la minoranza e i cinquestelle non ci sono stati contatti, la suggestione di un Bersani che torna in pista per tirar fuori il Pd da una eventuale palude che rischiasse di inghiottirlo, grazie anche ai voti di Sel, continua ad aleggiare tra i fedelissimi. Cosa accadrebbe se Renzi dovesse proporre Mattarella oggi all’assemblea del gruppo e, magari per colpa di Berlusconi, la candidatura del giudice costituzionale naufragasse? Nell’entourage di Bersani non confermano che lui abbia avanzato proposte nel colloquio con Renzi, né che abbia caldeggiato Veltroni (o Fassino) come subordinate. Pertanto, se il premier fosse costretto a cambiare in corsa la rotta, Davide Zoggia non esclude sorprese: «Il M5S ha messo nella rosa Prodi e Bersani. La tenuta di quel gruppo va verificata per vedere se c’è una volontà vera di arrivare al voto». Se dovessero rientrare in gioco gli ex segretari del Pd, Fassina ritiene che Bersani abbia le carte più in regola di altri: «Perché mai bisognerebbe escluderlo? È tra i candidati più autorevoli». Chissà, forse anche lui stessa pensa che uno spiraglio esista ancora... «Non mi aspettavo di essere nella lista dei cinqustelle — risponde a un giornalista del Fatto quotidiano Bersani, che due anni fa Grillo e Casaleggio non vollero mandare a Palazzo Chigi — Ma guardi un po’, vada a chiederglielo com’è questa cosa...».
Ad agitare le acque è anche il tam tam sul nome di Prodi. In diversi coltivano ancora il sogno di chiudere la ferita di due anni fa, quando l’ex premier fu acclamato dall’assemblea plenaria «dem» e subito tradito dagli ormai celebri 101 franchi tiratori.
A Palazzo Madama il «capo» dei dissidenti bersaniani Miguel Gotor, che sta vivendo «ore più dure e dense di quelle scandite dall’orologio», sarebbe felice di votare Mattarella o Amato, eppure non esclude che il professore abbia chance: «Se il M5S vota Prodi ne prendiamo atto e vediamo i numeri. Bersani? Rispetta il disagio di Renzi, ma il Pd non può vedere Prodi come un rischio». C’è il veto di Berlusconi... «Il fatto che Prodi da opportunità tradita sia visto come un rischio — risponde Gotor — la dice lunga sulla mutazione genetica del Pd».
Mattarella sembra destinato a uscire papa dal conclave già sabato mattina o persino venerdì sera, visto che Renzi vuole chiudere i giochi con un giorno di anticipo. Ma che la partita possa ancora incartarsi lo confermano i movimenti della minoranza dem. Tra gli onorevoli bersaniani c’è chi ha fatto i conti per pesare le forze in campo: «Renzi ha 149 deputati. L’Area riformista di Speranza ne ha 88, la metà dei quali bersaniani. Cuperlo 23, Civati 5, Orfini 31, Letta 10...». Il pallottoliere ruota e scandisce i tormenti dell’ala sinistra.
Perché Bersani è tornato al centro dei giochi? Non sarà una trappola? Una voce sussurra l’idea che «Mattarella serve a stoppare Prodi e verrà affossato». Magari per far largo, al quinto o sesto scrutinio, a un uomo di Palazzo Chigi come Padoan. Tra i sostenitori di Mattarella c’è chi evoca i franchi tiratori che nel 1992 impallinarono Leone su richiesta di Moro e chi vede complotti: «Sta andando tutto troppo liscio... Magari Mattarella passa e siamo tutti contenti, ma io sento puzza di bruciato».

Repubblica 29.1.15
La quadratura del cerchio che tiene unito il Pd
La coesione del partito per Renzi è più importante del patto del Nazareno
di Stefano Folli


ALLA fine la scelta ha preso forma. Nessun patto di ferro; nessun nome segreto concordato fra Renzi e Berlusconi, come i cultori di fantapolitica avevano ipotizzato; nessun coniglio estratto a sorpresa dal cilindro del prestigiatore. Più semplicemente la logica politica ha prevalso. E la logica indicava a Renzi una priorità: ricostruire la coesione interna del Pd, del quale il premier è pur sempre il segretario. E l’unità non poteva essere un mero artificio retorico, tanto meno la pretesa che tutti si uniformassero alle decisioni del capo, quali che fossero.
Così è emerso il nome di Sergio Mattarella. All’inizio era soprattutto un modo per arginare la spinta a favore di Giuliano Amato, protagonista la minoranza di Bersani e D’Alema in sostanziale sintonia con Berlusconi. Su questo Renzi vedeva profilarsi il rischio di una sconfitta campale. Si dirà: perché non ha proposto egli stesso il nome di Amato, personalità autorevole in linea di continuità con Napolitano, uomo di grandi relazioni internazionali, conoscitore come pochi della macchina istituzionale e amministrativa? La risposta ufficiale è che Amato è impopolare, troppo legato nel sentire collettivo alla Prima Repubblica, non compatibile insomma con il renzismo giovanilista. Si poteva peraltro immaginare che, proprio nella scelta del nuovo capo dello Stato, il premier volesse affrancarsi dal modello del «rottamatore». Ma così non è, forse anche perché eleggere Amato al Quirinale vuol dire comprimere il ruolo del presidente del Consiglio in molti campi, soprattutto sul palcoscenico europeo e nei rapporti con gli Stati Uniti.
Ecco allora che Mattarella è diventato strada facendo un candidato vero e solido. Senza dubbio la predilezione di Renzi andava ad altri profili, da Padoan a Delrio: figure da lui meglio conosciute anche sul piano personale. Ma poi si è convinto che il riservato uomo di diritto, rigoroso nella difesa della Costituzione, ex ministro della Difesa di D’Alema, oggi giudice della Consulta, fratello del Piersanti ucciso dalla mafia a Palermo, rappresentava la quadratura del cerchio. Nonostante la proiezione internazionale certo non paragonabile a quella di Amato: ma anche questo, in definitiva, è un pregio agli occhi del presidente del Consiglio che tiene a tessere lui certi contatti.
L’operazione impedisce che il Pd si disgreghi in una lotta intestina; evita — almeno questa è la speranza — che nelle prime tre votazioni, e all’ombra delle schede bianche, lieviti una candidatura spontanea in grado di mettere in imbarazzo il premier-regista. Duecento e più voti a Romano Prodi o anche, chissà, a Pierluigi Bersani finirebbero per mettere in crisi tutte le strategie volte a chiudere la partita senza danni. L’annuncio di Mattarella, che pure non sarà gettato subito nell’arena di Montecitorio, dovrebbe far rientrare nei ranghi i dissidenti, in modo da preparare il terreno all’elezione del giudice nel corso della quarta votazione.
Con quale maggioranza? Renzi si è voluto bruciare i vascelli alle spalle. Toccato dal sospetto di una certa ambiguità nel dualismo fra i due principali candidati, ha rotto gli indugi e fatto sapere che «si comincia e si arriva con Mattarella». Come dire, tutta la posta su un numero. I voti del Pd più Sel più transfughi grillini e qualche cespuglio potrebbero essere sufficienti. Ma ovviamente il premier ha bisogno che Alfano e Casini, al momento contrari, decidano di confluire sul candidato siciliano, la cui cultura affonda le radici nella sinistra cattolica. E soprattutto egli lascia la porta aperta a Berlusconi. Il quale è stato preso alla sprovvista dalla scelta, tanto è vero che ancora nel pomeriggio di ieri diceva a tutti che «non c’è ancora un nome». Il patto, insomma, è servito a poco o niente. Anche se nel futuro della legislatura resta viva la prospettiva di una convergenza fra Pd e berlusconiani sulle riforme (e non solo). Renzi ha fatto sapere a tutti, ai suoi e al centrodestra, che il Nazareno non è morto, ma certo non è una diarchia: funziona quando la guida è a Palazzo Chigi e non a Palazzo Grazioli.

Repubblica 29.1.15
D’Alema: “Tocca al segretario tenere insieme i democratici”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA A piazza Farnese fa un freddo cane. È la vigilia dei giorni della merla e pure del voto per il Quirinale. È quasi ora di cena. Sotto la fondazione di Italianieuropei la scorta di Massimo D’Alema attende intirizzita. Una signora attraversa il cortile, scherza sul nuovo Presidente. «Se fanno Veltroni, qua succede un casino...». Immagini Massimo D’Alema alle prese con il rebus del Colle, e invece: «E invece sbaglia. Io ormai mi interesso d’altro ».
Presidente D’Alema, ormai ci siamo: si vota il nuovo Capo dello Stato.
«Non me ne sto occupando. Questa è una bella serata per passeggiare in piazza Farnese...».
Poche ore, eppure la situazione sembra ancora molto confusa.
«Sara pure così. Vedremo cosa succederà».
Cosa deve fare Renzi per tenere unito Pd in ore così travagliate?
«Dovete chiederlo a lui. Tocca a lui e a chi dovrà votare il nuovo Presidente in Parlamento».
D’Alema posa la sua ventiquattrore sul sedile posteriore dell’auto. Sale.
«Si fa il nome di Mattarella, Presidente...».
Tentativo vano, la portiera stronca la conversazione.

Repubblica 29.1.15
Renzi: “Il candidato è Mattarella”
Fassina: “Un nome che già due anni fa era nella nostra rosa”
“Non è la proposta della minoranza dem Io sponsor di Bersani? Fantasie dei grillini”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Sono ragionevolmente ottimista». Il momento è davvero delicato se anche Stefano Fassina - l’ex sottosegretario all’Economia liquidato da Matteo Renzi con un “Fassina, chi?” e ricambiato con un “Matteo? Faceva il portaborse di Pistelli” e il sospetto che il premier nel 2013 possa avere capeggiato i 101 contro Prodi - pesa le parole. Alla sinistra del Pd sta bene il nome di Sergio Mattarella, il giudice costituzionale, ex vice premier con D’Alema e più volte ministro.
Fassina, è il nome di Mattarella la prima scelta della minoranza dem?
«Mattarella non è il nome della minoranza, tuttavia fu fatto anche due anni fa da Pier Luigi Bersani nel voto per il Quirinale del 2013. Era nella “rosa di nomi” che l’ex segretario presentò».
Però rimase lettera morta?
«La volta scorsa non fu speso. Ma è una figura di alto profilo e in grado di unire».
In grado di unire il Pd. Però di dividere Renzi da Berlusconi?
«Credo che abbia tutti i requisiti per una condivisione ampia perché è una personalità di esperienza politica, per il servizio che ha svolto nelle istituzioni da ultimo alla Corte costituzionale. E viene da una storia familiare di impegno contro la mafia».
A lei piace proprio perché è un candidato “N.N”, No-Nazareno?
«È stato sempre escluso che il Patto del Nazareno comprendesse il presidente della Repubblica. Ci vuole certo il consenso di tutti, anche di Forza Italia. Come ha detto Renzi nell’incontro con i deputati dem alla Camera però, il Pd non mette veti ma non accetta veti da nessuno. Sono d’accordo».
Per voi di sinistra dem ci sono altri nomi in pole position?
«Noi non abbiamo una nostra lista. I nomi sono il frutto della discussione dentro il partito. Il criterio fondamentale che il presidente della Repubblica deve soddisfare è garantire l’autonomia del Parlamento».
In genere quando si entra Papa si esce cardinale. Non teme che il tam tam pro Mattarella in realtà lo bruci?
«Dobbiamo aspettare la riunione dei Grandi Elettori per ascoltare le proposte. L’unico che ha titolo a tirare le fila è il presidente del Consiglio».
È vero che lei è andato dai 5Stelle per sponsorizzare Bersani?
«No, è una notizia inventata. Mi fa sospettare la strumentalità nell’utilizzo dei nomi di Prodi e di Bersani da parte dei 5Stelle».
Il metodo usato da Renzi è inclusivo?
«È quello scelto dalla direzione del partito».
Eviterà i franchi tiratori?
«Spero proprio di sì. I franchi tiratori li abbiamo avuti due anni fa, nonostante Bersani fosse stato altrettanto inclusivo».

Repubblica 29.1.15
Ferrara, addio al Foglio dopo 19 anni “Tifo Nazareno, è politica stile Craxi”
Matteo e Silvio somigliano al leader del Psi perché sono spregiudicati e hanno visione. Che farò? Resto nel branco, ai margini della foresta
intervista di Alessandra Longo


ROMA Da oggi Il Foglio è firmato dal giovane collega Claudio Cerasa. Da oggi Giuliano Ferrara è un ex direttore che rassicura i lettori orfani: «L’elefantino resta nel branco sia pur ai confini della foresta». E’ di buon umore, difficile immaginarlo pensionato. Ha fatto le ore piccole per una festa di congedo, pretende di essere creduto quando dice: «A 63 anni bisogna imparare a morire. L’età conta e io non sono uno che ama la fitness».
Ferrara, cosa fa un Elefantino ai bordi della foresta?
«Prende le distanze dalla vita affollata e dai suoi ritmi tremendi, si riappropria dello spazio personale. Il Foglio è forse la cosa più bella che ho fatto nella mia vita ma è giusto dargli una prospettiva. A Natale ho avuto l’intuizione. Ho capito che questo era il momento di lasciare. Cerasa non ne sapeva niente, è quasi svenuto. E’ bravo, giovane, sexy. Non aveva senso perdere altro tempo».
Poi lei non sparisce vero?
«Assolutamente no. Sarò sempre un fervente tifoso del giornale. Mi sono trasferito in un ufficietto provvisorio. Ieri (oggi, ndr) ho portato a passeggio le mie canine, e poi, dopo la riunione di redazione, sono andato a leggermi il Wall Street Journal e il Financial Times. Articoli sui greci, posizioni opposte: andiamo a trattare o li meniamo...» Arrivato al ventesimo e ultimo anno di direzione, lei dice: “Non mi pento di niente”, anzi, lo dichiara in francese: “Je ne regrette rien”. Mi dica un momento basso della sua didal rezione, ci sarà pure stato.
«Momento basso? Neanche uno, zero. So di darle un dispiacere ma tra i momenti alti, che sono stati tanti, metto la campagna sull’aborto».
Vincino la disegna da oggi in poi dimagrito. Sostiene che era la gestione de Il Foglio ad appesantirla. Qualche nuovo incarico in vista?
«Non mi preparo a nulla. Sono un sessantenne, glielo ho detto, ho soldi da parte, le mie canine, e ho un innato senso dell’uscita. Sono andato via dal Pci in piena carriera, ho rinunciato a La7 dopo la campagna sull’aborto, alla Rai, con i suoi funzionari impiccioni, e a Radio Londra... Sono sempre andato via al momento giusto».
Craxi, Berlusconi, adesso Renzi. Lei, in politica, ha bisogno di subire la fascinazione...
«Tre personalità accomunate mio modo di vedere le cose, estasiato e ironico. Non ho mai pensato che Craxi fosse Garibaldi, Berlusconi uno stinco di santo e Renzi uno esente da terribili difetti. Però mi piace la leadership che agisce, che incide, la spregiudicatezza, la menzogna swiftiana».
Ha sostituito Berlusconi con Renzi?
«Berlusconi è un vecchio amico. Vedo Renzi come il suo erede ».
Patto del Nazareno e inciucio si assomigliano?
«L’Italia si costruisce dal connubio tra Cavour e Rattazzi, il fascismo firma il Concordato, la Repubblica nasce sotto l’egida di Togliatti, c’è stato il compromesso storico, che ha dato anche i suoi frutti positivi, sconfiggendo il terrorismo. La politica è questo: patti, compromessi, spregiudicatezza nella cornice di una visione. Il Nazareno fa parte di tutto ciò».
Un nome secco per il futuro presidente della Repubblica.
«Mi rifiuto di giocare al borsino. Il nome non conta. Conta il metodo: il nuovo capo dello Stato sarà scelto dal capo della maggioranza d’intesa con il principale esponente dell’opposizione ».
L’opposizione dentro il Pd rimarrà così o si va verso una scissione?
«L’opposizione dentro il Pd non esiste, è sfilacciata, attraversata da interessi personali, da chiacchiere vagamente di sinistra. Alla prima prova seria, importante, sulla legge elettorale, è stata scavalcata dall’abilità di Renzi. Sono tutti figli di Bersani che ha collezionato sconfitte».
Lei l’ha proposto come presidente della Repubblica...
«Mi è simpatico. L’ho fatto per scherzo, era una chiacchiera divertente ».
La vittoria di Tsipras può influenzare il Pd di Renzi?
«Tsipras è il contrario di Renzi. Lui ha fatto un governo macho, Renzi un governo femmina. Lui si è legato ad una destra antisionista, Renzi, con il Patto del Nazareno, ad un mite democratico come Berlusconi. Tsipras è un comunista allegro e conservatore, vuole mantenere la Grecia così com’è. La sua vittoria è transitoria, mostrerà la corda».
Torniamo al Foglio. La famiglia Berlusconi si sta economicamente defilando.
«Sicuramente Il Foglio non è in cima ai loro pensieri e piano piano usciranno. L’elefantino, dai bordi della foresta, veglia sul giornale e sta già cercando nuovi investitori».

Repubblica 29.1.15
Michaela Biancofiore
“Matteo ci ha usati, noi votiamo Bersani”
intervista di C. L.


ROMA «Sì, l’impressione sgradevole è che il signor presidente del Consiglio abbia deciso che tutto il resto del mondo non gli serva più. Ha ottenuto quel che gli serviva e ora...».
E ora vi scarica così, onorevole Michaela Biancofiore? E il patto del Nazareno?
«Siamo stufi del suo “Silvio stai sereno”, abbiamo capito che gli piace fare il furbetto».
E quando l’avreste capito?
«L’altro giorno, quando dopo l’approvazione dell’Italicum grazie ai nostri voti determinanti al Senato, il ministro per le Riforme Boschi ha pronunciato quelle parole sorprendenti, ingenerose, infauste».
La riforma elettorale passata grazie alla sola maggioranza?
«Esatto. Bisogna saper far di conto. Fanno il paio col Renzi che va dicendo di non volere veti da noi sul Colle».
Lo potrà pur dire, con oltre 400 grandi elettori, o no?
«È azzardato, perché non è detto che i grandi elettori pd gli rispondano come crede. Perché un patto è un patto. Anche dal punto di vista giuridico significa “incontro tra due parti”, non funziona con uno che detta una sua volontà e l’altro che dovrebbe subirla. Temo che il premier abbia un’idea sui generis di contrattazione che non coincida affatto con la figura di un presidente della Repubblica che sia realmente rappresentativo di tutti».
Non giriamoci intorno, Sergio Mattarella proprio non vi sta bene.
«Premetto. Non ho parlato con Berlusconi, parlo a titolo personale. Certo è che se davvero la soluzione è quella lì...»
Se è quella lì?
«Ma è una evidente provocazione. Allora, a provocazione rispondiamo con una provocazione: noi puntiamo su Bersani»
Forza Italia su Bersani?
«Personalmente farei così, non credo che rifarebbe l’errore di due anni fa, quando si è suicidato pur di non fare accordi con noi. E poi potrebbe realizzare la pacificazione nazionale necessaria per chiudere un ventennio di accanimento giudiziario contro Silvio Berlusconi».
Perché non Prodi, a quel punto?
«Perché Bersani è il vero vincitore delle ultime elezioni, non certo Renzi o altri. I parlamentari pd sono qui grazie a lui. E poi sarebbe un presidente che almeno qualcuno ha votato, dopo anni di accordi di palazzo».
L’intesa sta per essere stracciata, dunque?
«Confido ancora nell’intelligenza di Renzi e spero punti davvero su un presidente largamente... Amato, scelto dalla maggioranza dei grandi elettori».

Repubblica 29.1.15
Anche Bersani e Prodi nelle quirinarie M5S per tentare la sinistra Pd
Nove candidati al voto sul blog. Ma i grillini sono divisi Di Battista: “Dobbiamo spezzare il patto del Nazareno”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA Sono nove i candidati alla presidenza della Repubblica per i quali stamattina, dalle 9 alle 14, gli attivisti del Movimento 5 stelle voteranno sul blog. Uno è Romano Prodi, suggerito dai pochi deputati pd che hanno risposto alla mail inviata loro da Grillo e Casaleggio. Gli altri - Pier Luigi Bersani, Raffaele Cantone, Nino Di Matteo, Ferdinando Imposimato, Elio Lannutti, Paolo Maddalena, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky - sono venuti fuori durante una riunione fiume in cui ognuno ha detto la sua. Un’assemblea congiunta tra deputati e senatori dov’è risultata evidente - quasi fosse sceneggiata - la spaccatura in atto da giorni dentro il direttorio. Perché se Luigi Di Maio, pur non facendo nomi, ha invitato al pragmatismo, Alessandro Di Battista e Carlo Sibilia sono stati più espliciti. Il primo ha parlato della necessità di contrastare un patto del Nazareno definito «massonico» con la candidatura di Pier Luigi Bersani («serve un nome che dia uno schiaffone a mr Bean»). Il secondo considera opzioni possibili Prodi e Bersani, ma anche Sergio Cofferati. La tattica di gettare una mina nel campo del Pd - però - non convince l’assemblea. I pochi convertiti al realismo sono Riccardo Fraccaro, Angelo Tofalo, Federico D’Incà («Prodi non va giù a nessuno, non va giù neanche a me, ma propongo di fare una videointervista a Rifkin che è stato suo consulente e di metterla sul sito»). Poi il senatore Maurizio Buccarella: «Se la Rete ci indica Prodi o un altro nome che non è il nostro ideale ma è funzionale a rompere il sistema, votiamolo, per cortesia». La maggior parte però è sulla linea di Roberto Fico e Carla Ruocco. Cominardi esplode: «È da dissociati votare Prodi mentre facciamo i referendum sull’euro!». E Pesco: «Sono indignato per l’inserimento di Prodi in lista». Poi sognano: Imposimato, Paolo Savona, Gino Strada, Cantone, Nino Di Matteo, Salvatore Settis, l’antitav Perino, lo scrittore Erri de Luca. Giulia Grillo dice di non amare i nomi di magistrati «per la divisione dei poteri», poi propone Cantone. Dalila Nesci lancia Roberto Benigni «è amato dal popolo, anche se lo abbiamo attaccato per i suoi guadagni». Paolo Bernini - serio - dice: «Dovremmo votare Giancarlo Magalli, è stato volontario nei vigili urbani e commendatore». La rosa viene stilata a streaming chiuso. In lista era entrata anche Lorenza Carlassare, che però - a Repubblica Tv - si dice grata ma declina: «Serve un politico ».
L’assemblea, mossa rivendicata dai leader del direttorio in contrasto con le critiche ricevute dai fuoriusciti (ai 9 deputati di ieri si è unito il senatore Francesco Molinari), non è però dirimente. Gira voce di un contatto con i bersaniani, interessati alla candidatura dell’ex segretario pd da far crescere alla seconda votazione (anche se Stefano Fassina nega ogni incontro). Più in generale, un esponente del direttorio spiega che la scelta della rosa consente di tenere aperte altre possibilità, dopo che su Prodi non sono arrivati i consensi sperati dalla minoranza pd (i voti di Sel e fittiani erano già incassati). Per questo, sul blog è scritto chiaro che i vertici si riservano di fare votazioni lampo nel caso spuntino nomi su cui poter convergere. Il deputato Brescia lancia addirittura un suo sondaggio personale su Mattarella (nome venuto fuori anche in riunione). Ed è su di lui, che si sono detti disponibili - parlando con Renzi - i fuoriusciti Walter Rizzetto, Mara Mucci e Marco Baldassarre. Dicono di parlare a nome di 25 persone. Altri ex trattano per conto loro. Trentacinque voti che Renzi coltiva da settimane. Di Maio, però, ci crede ancora, e a sera su Facebook incita i suoi: «C’è chi voterà con il cuore e chi con la testa, io vado di testa. Chissà che non segniamo in zona Cesarini».

Corriere 29.1.15
Obama, lo chef e la trasparenza necessaria al Colle
di Gian Antonio Stella


Chi prenderà il posto di Sam Kass, il celebre chef di Barack Obama che si è dimesso per stare vicino alla moglie? Sinceramente: non ce ne importa nulla. Ma il prossimo rapporto della White House, siatene certi, metterà online nome, cognome, ruolo, stipendio. Tutto. Così si usa, lì.E ti chiedi: non sarà arrivato il momento, tanto più dopo i misteri, le nebbie, le trappole, i veleni di questi giorni di conciliaboli nelle segrete stanze, che il futuro inquilino del Quirinale spalanchi alla massima trasparenza anche il Colle? Sia chiaro: negli ultimi anni sono stati fatti molti passi avanti rispetto alla blindatura top secret di ogni voce di spesa quirinalizia. Blindatura rimasta intatta anche negli anni di presidenti, diciamo così, riottosi ai riti come Sandro Pertini o Francesco Cossiga e perfino in quelli di Carlo Azeglio Ciampi, che pure aveva fatto del contenimento delle spese una ragione di vita.
Anche l’ultima Nota illustrativa trasmessa il 9 gennaio scorso nel pieno dell’onda emotiva per le stragi parigine al giornale Charlie Hebdo e al negozio kosher, e dunque schiacciata nelle pagine interne se non addirittura ignorata dai giornali, contiene elementi di trasparenza in linea con quanto Giorgio Napolitano aveva annunciato all’atto dell’insediamento.
Comunicò allora, il presidente, di aver deciso di «autorizzare forme di pubblicità delle scelte fondamentali contenute nel bilancio interno». Ma solo sulle voci «compatibili con la riservatezza che caratterizza, in base alla prassi costantemente seguita dal 1948 a oggi, una documentazione contabile sottratta a controlli esterni, in forza dell’autonomia organizzativa riconosciuta all’organo costituzionale della presidenza della Repubblica dalla Costituzione e dalla legge 9 agosto 1948, n. 1077, istitutiva del segretariato generale, come affermato dalla Corte costituzionale e dalla dottrina». D’altra parte, fece trapelare, sarebbe stato indelicato verso i predecessori mostrare il bilancio integrale assumendo la parte, un po’ antipatica, del primo della classe.
Fatto sta che, nove anni dopo, probabilmente per le resistenze interne al Palazzo, quella apertura iniziale è stata seguita da allargamenti significativi ma ancora lontani rispetto alla trasparenza di altre residenze di capi di Stato. Valga ad esempio il bilancio online di Buckingham Palace che (certificato da un revisore esterno!) riporta perfino la marca e l’annata delle bottiglie di vino presenti in cantina e i passeggeri che c’erano a bordo di questo o quel volo di Stato.
È una questione centrale, la trasparenza, nel mondo anglosassone. Lo dimostra, come dicevamo, il sito www.whitehouse.gov/briefing-room/disclosures/annual-records/2014 dove la Casa Bianca pubblica uno per uno i nomi dei dipendenti. Spiega anzi la home page che la relazione con l’elenco viene consegnata dalla presidenza degli States al Congresso fin dai tempi di Bill Clinton, nel lontano 1995, e che viene divulgata «coerentemente con l’impegno del presidente Obama per la trasparenza».
Trovi tutti i 456 dipendenti, nel rapporto. Dalla A di Yohannes Abraham alla Z di Jeffrey Zients, «assistente del Presidente della politica economica». E come tale pagato con il massimo stipendio previsto: 172.200 dollari. Pari, al cambio medio 2014 calcolato dalla Banca d’Italia (1,3285) a 129.619 euro.
Puoi perfino ordinarli in ordine di paga, quei 456 dipendenti. E scoprire, insieme con la presenza di decine e decine di nomi d’origine italiana (da Brendan Bertagnoli a Max Sgro, da Kristie Canegallo a Lisa Monaco, tra le più strette collaboratrici di Obama) che lo stipendio minimo, come quello preso dall’assistente Elias Alcantara, dall’addetta all’ufficio stampa Jessica Allen e dall’analista Brian Roberts per un totale di 34 persone, è di 42.420 dollari: 31.930 euro lorde. Poco più, secondo l’Aran, Agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazioni, dello stipendio medio di un dipendente pubblico italiano.
A prendere la busta paga più alta, quei 172.200 dollari di cui dicevamo, sono in ventidue: da Antony Blinken (assistente del Presidente e vice consigliere per la sicurezza nazionale) ad Anita Breckenridge (assistente del Presidente e vice capo del personale), da Katy Kale (assistente del Presidente per la gestione e l’amministrazione) a Cecilia Muñoz (assistente del Presidente e direttore del consiglio di politica interna) fino a Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale o Valerie Jarrett, che di Barack Obama è la più anziana e la più intima dei consiglieri.
Certo, il meccanismo negli Stati Uniti è assai diverso che da noi: se ti sei fatto un nome lavorando alla Casa Bianca, puoi andare poi sul mercato privato con un tale bagaglio di prestigio e conoscenze da guadagnare a volte cifre altissime. E così hanno fatto buona parte degli stretti collaboratori iniziali di Obama, che uno dopo l’altro se ne sono andati per andare a occupare posti molto meglio pagati. Resta il fatto che quei 456 impiegati del White House Office, stando ai dati ufficiali, costano 37.780.000 dollari pari a 82.850 dollari pro capite. Cioè 62.363 euro. E che lo stipendio massimo, tra i collaboratori più stretti dell’uomo più potente del mondo, è poco più della metà del tetto di 240 mila euro, contestatissimo, voluto da Matteo Renzi per i più alti dirigenti dei nostri Palazzi. Quirinale compreso.
Immaginiamo le obiezioni: sono situazioni diverse, Paesi diversi, poteri d’acquisto diversi, tradizioni storiche diverse… Tutto vero. Ma venti anni dopo quella scelta imposta alla Casa Bianca possiamo aspettarci o no una svolta radicale anche da noi? Dicono i sondaggi che, dopo anni di progressiva erosione, non solo è crollata la fiducia dei cittadini nei confronti di un po’ tutte le istituzioni (per non dire dei partiti: soltanto il 3% si fida di loro) ma perfino il Quirinale, calato in poco tempo dal 71 a 44% di popolarità nonostante una figura di spicco come Napolitano, è ammaccato.
Ecco, se gli uomini al vertice delle nostre istituzioni vogliono riconquistare la fiducia dei cittadini, fiducia che ci serve quanto l’ossigeno, tutto possono fare, tranne che mettersi di traverso a una maggiore trasparenza. Gli italiani devono fidarsi? Vengano messi in condizione di poterlo fare.

il Fatto 29.1.15
Napoleone, le sedute spiritiche e i cecchini del Quirinale
di Antonio Padellaro


In questi giorni la minoranza del Pd ostile a Matteo Renzi e la minoranza di Forza Italia in dissenso con Silvio Berlusconi (Fitto), e forse anche Beppe Grillo, riflettono sul seguente dilemma: è meglio giocare d’anticipo votando fin dai primi scrutini un candidato comune ostile al patto del Nazareno (Romano Prodi su tutti) o è meglio attendere che il prescelto dal suddetto patto da sabato venga progressivamente logorato dai (loro) plotoni di cecchini in agguato? È una vecchia questione che già si pose nel 1971, ai tempi del sesto presidente quando il leader dc, Amintore Fanfani, partì in quarta convinto di farcela, ma dopo un Vietnam durato 23 scrutini, dovette arrendersi all’outsider Giovanni Leone. In quell’occasione si registrò una pioggia di schede nulle che recavano i più variopinti insulti nei confronti dell’Aretino (celebre la più creativa: “Nano maledetto non sarai mai eletto”), segno che la somma di molte inimicizie personali può diventare nel segreto dell’urna un boomerang micidiale nei confronti di chi pensa di avere la vittoria in tasca (vero, Renzi?). Qualcosa di simile accadde pure nel maggio del 2006 a Massimo D’Alema, sul cui nome sembravano poter convergere i voti della sinistra (l’Ulivo) e quelli della destra del Cavaliere, che non aveva dimenticato l’entente cordiale nata in Bicamerale. Avvenne che la candidatura D’Alema, lanciata troppo in anticipo, finì per evaporare sui giornali prima ancora di arrivare nell’aula di Montecitorio. Fu eletto Giorgio Napolitano rimasto abilmente nell’ombra fino al giro decisivo. A dimostrazione che il candidato nascosto può vincere in volata se esce dal gruppo al momento giusto. Esiste naturalmente la strategia opposta. Francesco Cossiga, per esempio, eletto nel 1985 ottavo presidente della Repubblica al primo scrutinio. Così come Carlo Azeglio Ciampi divenuto subito il decimo inquilino del Quirinale nel 1999.
Da oggi, perciò, oltre agli schieramenti in campo si confrontano due strategie belliche. La prima, quella attendista, si richiama al generale russo Michail Illarionovi› Kutuzov, principe di Smolensk che davanti all’offensiva della Grande Armata napoleonica in un primo tempo ripiegò abbandonando Mosca per poi procedere a una guerra di logoramento che grazie alla vastità del territorio, al rigido inverno e alla resistenza popolare trasformò l’invasione francese in una rotta. Sul lato opposto gli strateghi dell’interventismo immediato convinti molto prosaicamente che, come dicono a Roma, chi mena per primo mena due volte. La versione più raffinata si rifà invece all’Arte della guerra di Sun Tzu, elaborata tra il VI e il V secolo a. C., che al paragrafo 17 del capitolo primo, così recita: “Con l’espressione creare le circostanze intendo che deve agire rapidamente secondo ciò che è vantaggioso e assumere il controllo dell’operazione militare nel suo insieme, organizzando le giuste mosse tattiche”. ( “Rapidamente”: Renzi prenda nota).
LA LINGUA DEI NUMERI
Franco Evangelisti, fedele scudiero di Giulio Andreotti, sosteneva di poter prevedere alla virgola i risultati delle assemblee democristiane degli anni 70, divise in molteplici correnti, fidandosi della sua personale conoscenza degli uomini. Qualcosa di analogo ha detto Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd, convinto che i gruppi parlamentari democratici non abbiano segreti per lui. Più prudente, il suo principale, Matteo Renzi, ha chiesto ai grandi elettori del suo partito di votare scheda bianca nei primi tre scrutini con il quorum a quota irraggiungibile: 673 su 1009 aventi diritto. Ciò per evitare colpi di mano che potrebbero indirizzare l’elezione del nuovo capo dello Stato in una direzione incontrollabile: appunto i 200-300 voti che le fronde di sinistra e di destra potrebbero far confluire su Prodi. Se tuttavia il premier non riuscisse a piazzare subito il colpo annunciato da settimane (“sabato avremo il nuovo presidente”) per effetto di una prima massiccia incursione di franchi tiratori, la situazione potrebbe ingarbugliarsi e non poco. Partirebbe la caccia ai cecchini individuabili nelle aree di dissenso di Pd e Forza Italia con vari sistemi: dalle minacce (mancata ricandidatura alle prossime elezioni) alla blandizie (promesse di carriere e prebende) con effetti di nervosismo e incarognimento generale. Chiedere di “firmare” la scheda per autenticare agli occhi dei capi la propria disciplina di partito non servirebbe a granché. Nel 2013 il nome di Franco Marini fu scritto da chi voleva farsi riconoscere con le più svariate combinazioni, ma la trovata non evitò a Franco Marini, Marini Franco, F. Marini, Marini F. la solenne trombatura.
“Stanotte ho partecipato a una seduta spiritica, ma non è uscito il nome di Pertini”. Sul momento non capii e pensai davvero che un gruppetto di cosiddetti grandi elettori si fosse ritrovato attorno a un tavolo ballonzolante.
MASSONERIE IN GIOCO
Poi mi fu chiaro che il senatore democristiano che avevo scelto come gola profonda (scrivevo allora per il Corriere della Sera) mi aveva fatto dono di un segreto massonico e che non c’erano medium da consultare, ma gran maestri. Mi voleva dire che le logge non avrebbero mai votato colui che non si era piegato al fascismo (sei condanne, due evasioni) e che certamente una volta sul Colle avrebbe mandato a quel paese grembiulini e compassi. Che in seguito Francesco Cossiga andasse dicendo il contrario, la massoneria sponsor di Pertini, non sembra argomento probante, anzi, vista la ruggine tra i due. Era l’estate del 1978, la P2 impazzava e il burattinaio Licio Gelli teneva saldamente i fili di tutte le trame di potere. Sandro Pertini alla fine la spuntò e fu eletto, al sedicesimo scrutinio, settimo presidente della Repubblica italiana. Tre anni dopo, la magistratura poté entrare nella villa di Castiglion Fibocchi acquisendo gli elenchi che sbaragliarono il complotto piduista. Tuttavia, le massonerie di vario conio (quella tradizionale è la più innocua se confrontata con le lobby finanziarie e le cricche mafiose) non hanno mai cessato di esercitare il loro peso sulle decisioni della politica e lo stanno facendo sicuramente anche in queste ore, brigando trasversalmente. Del resto, non è stato Ferruccio de Bortoli a evocare sul Corriere della Sera nel settembre scorso “lo stantio odore della Massoneria”, a proposito anche delle manovre avviate per trovare il successore di Napolitano? Molti, infine, s’interrogano sulle preferenze di Obama, della Merkel o di Putin, ma resta scolpito nel marmo ciò che disse Alcide De Gasperi agli albori della Repubblica quando (come ricorda Marco Damilano sull’Espresso) definì decisivo nella scelta per il Quirinale “il partito di coloro che dispongono del denaro e della forza economica”.

Il Sole 29.1.15
Il primum vivere di Renzi è stata la compattezza del Pd
Il dilemma di Berlusconi: con un Renzi più debole a rischio il suo ruolo
di Lina Palmerini


Il primum vivere di Renzi è stata la compattezza del Pd. La scelta di Sergio Mattarella per il Colle risponde innanzitutto a questo obiettivo: non dividere il partito. Il punto ancora aperto è il veto di Silvio Berlusconi che rimane.
Oggi il premier e l’ex Cavaliere torneranno a vedersi ma finora la priorità di Renzi è stata quella di “salvare” il Pd, di evitare una frantumazione del partito e ripercorrere lo stesso sentiero che fu di Pier Luigi Bersani. Sul nome di Sergio Mattarella si riconosce anche la minoranza del partito, dunque, garantisce al premier un pacchetto di voti sicuri (circa 575) e soprattutto una navigazione meno avventurosa se fatta con un candidato divisivo tra i democratici. Resta il «no» di Silvio Berlusconi e, quindi, la possibilità che salti quel patto del Nazareno che in più di una circostanza ha garantito a Renzi i voti per fare le riforme: l’ultima volta la scorsa settimana sull’Italicum.
È vero che ieri c’è stato il veto dell’ex Cavaliere ma il ragionamento che il premier gli ha fatto a Palazzo Chigi potrebbe avere una logica anche per lui: se il Pd va in frantumi sul Quirinale anche la leadership di Renzi tramonta e Berlusconi si ritroverebbe con un interlocutore diverso. Un interlocutore del Pd che forse non darebbe all’ex Cavaliere la centralità che ha recuperato in questi mesi con il patto del Nazareno. Un nuovo leader - dopo Renzi - potrebbe facilmente tornare a emarginarlo, a metterlo nell’angolo della scena politica con l’opposizione interna di Forza Italia che, a quel punto, avrebbe gioco facile a farlo fuori. Uno scenario con conseguenze politiche e non solo. Conseguenze economiche per le sue aziende e magari anche giudiziarie.
Allora la domanda che si porrà l’ex Cavaliere in queste ore suona così: è più conveniente avere un alleato a Palazzo Chigi o al Quirinale? Al Colle Berlusconi non potrà mai avere un “suo” candidato, allora meglio proteggere Renzi. È questo il calcolo di convenienze per Berlusconi. E, in fondo, si è già dato una risposta se solo si scorre quello che è accaduto nei mesi scorsi e – l’ultima volta – la scorsa settimana al Senato: Berlusconi ha “prestato” a Renzi i voti della salvezza dell’Italicum. Senza i numeri di Forza Italia la nuova legge elettorale sarebbe finita sotto il tiro della minoranza interna del Pd e quindi sarebbe cominciata la “discesa” di Renzi. Dunque se davvero Berlusconi voleva indebolire Renzi - anche in vista della partita sul Colle - l’avrebbe fatto una settimana fa. Il calcolo, evidentemente, è stato diverso. Ed è stato quello per cui - oggi - è l’attuale segretario del Pd gli offre una scena politica, un margine d’azione, un potere negoziale all’interno di Forza Italia e con Alfano e i centristi. L’ex Cavaliere sa che sul Quirinale non può fare banco.
In questo scenario potrebbe però arrivare un imprevisto o una sorpresa. La possibilità, cioè, che oggi alla prima votazione si cominci a votare il nome di Romano Prodi spinto da Grillo e dalla sinistra. Un treno che potrebbe partire e che potrebbe essere difficile da fermare per il Pd e per il premier. Intanto Renzi ha deciso di accelerare sulle votazioni: non più tre entro venerdì ma quattro. Sperando che sui giornali esca solo un giorno di impasse e non due. E che alla quarta si riesca a votare il nuovo presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Sempre che non spuntino nuove candidature “spontanee”.

Il Sole 29.1.15
L’anomalia italiana del voto a oltranza
di Roberto D’Alimonte


L’Italia è uno dei pochi casi, tra i 28 Paesi Ue, in cui il capo dello Stato non è eletto dai cittadini. La cosa non è molto nota ma è così. In sette Paesi la carica è ereditaria: Gran Bretagna, Paesi Bassi, Svezia, Danimarca, Belgio, Spagna sono monarchie.
Il Lussemburgo è un granducato. In 14 paesi sono i cittadini a eleggere direttamente il Capo dello stato. Solo in sette paesi, tra cui l’Italia, l’elezione è indiretta: Germania, Grecia, Ungheria, Lituania e Malta. In sintesi, nella stragrande maggioranza dei paesi dell’Unione (21 su 28) il capo dello stato o non è scelto o è eletto direttamente dai cittadini. La repubblica ceca è l’ultimo paese passato dalla elezione indiretta a quella diretta (nel 2012).
I 14 paesi caratterizzati dalla elezione diretta non sono omogenei tra loro per quanto concerne i poteri del capo dello Stato. Ci sono casi di paesi in cui il presidente è una figura poco più che simbolica. E ce ne sono altri in cui i suoi poteri sono molto significativi. È il ben noto caso francese. Ma anche quello meno noto del Portogallo. Ma il punto che ci interessa cogliere non è questo. Molti in Italia pensano che l’elezione indiretta del capo dello stato sia sempre e comunque preferibile all’elezione popolare. Guardare fuori dai nostri confini serve a mettere in discussione convinzioni tanto radicate quanto prive di fondamenti empirici.
Soffermiamoci sui paesi dove vige l’elezione indiretta. Italia, Germania e Grecia sono i casi più interessanti. In Germania il presidente è eletto a scrutinio segreto da una assemblea federale composta dai membri del Bundestag e dai rappresentanti eletti dai parlamenti dei Länder in numero pari a quello dei membri del Bundestag. In totale si tratta di circa un migliaio di grandi elettori. Nelle prime due votazioni la regola è la maggioranza assoluta. Nella terza votazione, che è l’ultima, vince il candidato che raccoglie il maggior numero di voti.
Il sistema greco è il più complicato. Sono i 300 membri del parlamento a eleggere il presidente. Nelle prime due votazioni occorre la maggioranza dei due terzi (200 voti). Alla terza votazione la maggioranza richiesta si abbassa a tre quinti (180 voti). Se nessun candidato viene eletto il Parlamento si scioglie e si torna a votare. Ed è esattamente quello che è successo recentemente. Dopo le nuove elezioni il nuovo Parlamento potrà eleggere il presidente con una maggioranza di tre quinti al primo scrutinio oppure con la maggioranza assoluta (151 voti) al secondo scrutinio. Se nessun candidato arriva a questa soglia i due candidati più votati vanno al ballottaggio.
Il caso italiano è più simile a quello tedesco. Come è noto, l’assemblea dei grandi elettori è composta da deputati, senatori e delegati regionali. In totale questa volta i membri sono 1.009. Si vota a scrutinio segreto. Nelle prime tre votazioni occorre la maggioranza dei due terzi (672 voti). Dalla quarta votazione basta la maggioranza assoluta (505 voti). La differenza sostanziale tra la nostra procedura e quella in vigore in Germania e in Grecia è che in questi paesi esiste una norma di chiusura. In Germania con il terzo scrutinio l’elezione si conclude. In Grecia il processo è molto più lungo ma anche lì alla fine c’è un ballottaggio che pone fine alle votazioni. Da noi in teoria si può continuare a votare all’infinito.
Nonostante il fatto che i numeri in Europa siano a favore della elezione popolare l’elezione indiretta del presidente ha un senso. Tanto più che con l’Italicum si introduce una specie di elezione diretta del premier. C’è da dire però che l’elezione indiretta pone una grossa responsabilità sulle spalle della classe politica. In passato abbiamo visto casi clamorosi di malfunzionamento del sistema. Per esempio nel 1992 (ma non solo), quando ci vollero ben 16 scrutini prima di eleggere Oscar Luigi Scalfaro. Vedremo come andrà a finire questa volta. Da questo pomeriggio si vota.

Repubblica 29.1.15
L’amaca
di Michele Serra

CHI ci credeva più, in mezzo alla gran confusione del mondo, che esistessero i buoni e i cattivi? Ai curdi di Kobane, e soprattutto alle loro meravigliose donne in armi e in festa, dobbiamo questa rivelazione. La sensazione di festeggiare davvero una vittoria del bene sul male non è frequente, e a volte si rivela solo un abbaglio ideologico che gli anni si incaricano di smentire. Questa volta no, un esercito di giusti e di liberi ha respinto un esercito di lugubri fanatici, la parola “liberazione” scintilla in tutta la sua semplice potenza. Per giunta, circostanza non comune negli ultimi anni, le armi occidentali hanno fiancheggiato (miracolo!) la parte giusta, a costo di irritare la Turchia che è ampiamente sospettata di parteggiare, in chiave anticurda, per il Califfato.
Nell’ottimo, emozionante reportage a fumetti di Zerocalcare sul numero scorso dell’ Internazionale, la comunità curda di Kobane e dei campi profughi emerge per valore politico ben prima che militare: una comunità di musulmani “riformati” che ha abolito i matrimoni combinati, riconosce pari diritti alle donne, adotta l’autogestione, coltiva la tolleranza. Che l’Isis nutra odio contro quella comunità è perfino ovvio. Un Islam civile e “moderno” distrugge l’idea stessa di “guerra di civiltà” che piace tanto ai fanatici di quella parte e di questa.

Il Sole 29.1.15
Il saggio Guerra santa e santa alleanza (Il Mulino) di Manlio Graziano, della American Graduate School di Parigi
Come cambia la politica mondiale delle religioni
di Armando Torno


Il mondo globalizzato ha rimesso in discussione il rapporto religione-politica? Sembrerebbe di sì: lo sostiene un osservatore qualificato quale Manlio Graziano, della American Graduate School di Parigi. Lo studioso indica nuovi percorsi di indagine nella geopolitica delle religioni, disciplina non particolarmente in auge in Italia, che registrò comunque numerosi entusiasmi nell’America di George W. Bush (2001-2009). Il quale, è il caso di ricordarlo, durante i due mandati alla Casa Bianca amava autodefinirsi «il presidente più religioso della storia», sostenendo che la fede era diventata «parte centrale» della sua vita. «Ogni mattina comincio la mia giornata in ginocchio e con le mani giunte», dichiarò. I democratici sostennero che con il suo mandato fu eliminata l’illuministica e romantica linea di demarcazione tra Stato e Chiesa; molti suoi oppositori interpretarono le operazioni militari Usa, che seguirono l’attentato di New York dell’11/9, come una sorta di crociata divina contro il terrorismo.
La tesi di Manlio Graziano, ora esposta nel saggio Guerra santa e santa alleanza (tradotto in questi giorni da Il Mulino), è possibile sintetizzarla in termini semplici: le religioni tradizionali, sovente interpretate con una prospettiva parziale che ha posto in primo piano negli ultimi tempi soltanto l’Islam e le correnti fondamentaliste comunque richiamanti questa fede, nel corso degli ultimi decenni sono tornate ad avere un peso politico. Un ritorno sul quale si sono costruite diverse e variegate teorie internazionali, quali lo “scontro di civiltà”, o talune congetture per trovare ragioni a diversi conflitti in corso, molti dei quali non analizzati dai nostri media (nel mondo potrebbero essere una ventina circa, anche se sovente sono chiamati con altri nomi e per cui sentiamo un interesse marginale).
Graziano non esita a rilevare che si è sostanzialmente formata, a due secoli di quella del Congresso di Vienna, una nuova Santa Alleanza tra le principali confessioni religiose che desidera dare vita a una morale globalizzata. Né dimentica, tra le mille possibili, due risposte a chi si pone un quesito del genere di un santo come Giovanni Paolo II, il cui peso politico non necessita di spiegazioni. Nel 2000 il pontefice dichiarò: «Potremo, insieme, costruire il futuro e la storia dell’umanità». E aggiunse nel 2005: «La legge di stabilità dell’uomo, dai parlamenti, da ogni altra istanza legislativa umana, non può essere in contraddizione con la legge di natura, cioè, in definitiva, con l’eterna Legge di Dio».
Il percorso potrebbe essere, dopo i grandi progetti di emancipazione dell’Illuminismo, quello che va dalla «morte di Dio» (strillata da Nietzsche ma già presente nel primo romanticismo tedesco) al «ritorno di Dio», o meglio a una «rivincita di Dio». Il tentativo di laicizzare la politica, al di là di ogni fede, sembra un sogno del passato. E questo anche se il Novecento ha cercato di concretizzare tale intento. Nel secolo scorso, difficile dimenticarlo, si è avuta la prima costituzione che prevedeva uno Stato ateo (è il caso dell’Albania comunista) o l’insegnamento pubblico dell’ateismo. Quando crollò l’Urss, un quarto di secolo fa, le cattedre che cercavano di dimostrare l’inesistenza di Dio erano circa una novantina, collocate sia in territorio sovietico che negli Stati socialisti satelliti. Cominciarono a essere attive nel 1964, mese più mese meno, durante i giorni burocratici di Brežnev, giacché né Krusciov né l’ex seminarista Stalin resero attivo il decreto che le autorizzava.
Che aggiungere? Semplicemente che il peso politico delle religioni non significa un aumento di fede, né successo delle manifestazioni liturgiche. Sta accadendo altro. Di certo gli sforzi compiti dalle cattedre sovietiche oggi sembrano svaniti e non resta un’opera che riesca a testimoniare tutta quella fatica. Anzi, per un russo attempato, ha avuto più incidenza la distribuzione di alcuni libri di d’Holbach con la Pravda, avvenuta alla fine degli anni 60, dei congressi dei filosofi atei (il Piccolo trattato di ateismo, del ricordato barone d’Holbach, successo del quotidiano sovietico, è stato tradotto da Il Melangolo).
Marc Fumaroli scriveva nel 2003 che Il Genio del cristianesimo di Chateubriand, opera brillante ma apologetica e consigliata già nell’800 dai confessori, «è oggi guardata a distanza e con annoiata condiscendenza». Einaudi che l’ha pubblicata prima di Natale, nella magnifica cura di Mario Richter, l’ha quasi esaurita.

Corriere 29.1.15
Il pragmatismo di Tsipras e i paraocchi della Gauche
di Gianluca Mercuri


In settantadue ore, appena arrivato al potere, Alexis Tsipras ha fatto tre cose: si è alleato con un partitino di destra xenofobo, omofobo e vagamente antisemita; ha formato un esecutivo che confina le donne nel sottogoverno (ma anche lì giusto briciole: sei posti su 40) e ha detto all’Europa che Atene non vuole neanche sentire parlare di nuove sanzioni alla Russia di Putin, che sarà pure un autocrate ma alla nuova Grecia può tornare utile in funzione anti-troika.
    Qualunque governo avesse esordito così, quel che resta dell’eurosinistra «pura» sarebbe insorto. Ma ad Alexis, a quanto sembra, si concede tutto: perché ha tolto polvere alle vecchie bandiere issandole fino alla vittoria e ha ridato speranze a tutte le gauche estreme escluse (o autoesclusesi) dai governi. Comprese quelle italiane. Compresa quella italiana che del partito del premier sarebbe parte fondante, ma considera il premier di destra se non il clone di Berlusconi.
   Ecco, Berlusconi: con il fascistoide Kammenos si può parlare, trattare e governare, con il capo del centrodestra italiano — che, come provò a spiegare D’Alema 15 anni fa, viene scelto dal centrodestra italiano — non si possono fare patti, ovviamente non ad Arcore ma nemmeno al Nazareno. «Al massimo in Parlamento», come se lì ogni eventuale scambio opaco o indicibile non si potesse nascondere.
   Il vizio di fondo è schierarsi per partito preso e non sul merito delle cose: non è affatto detto che il syrizismo sia la malattia senile del massimalismo, può darsi che il pragmatismo di cui dà prova Tsipras ci sorprenda anche quando tratterà con Bruxelles. Ma questo a chi sta con lui a prescindere non importa: si sta con Tsipras perché è dei nostri e basta, così come Berlinguer era un santo sia che scegliesse il compromesso storico sia che virasse sull’alternativa democratica. Un compagno è per sempre, il resto — tutto il resto — è solo tradimento.

Il Sole 29.1.15
Lezioni greche
Il rosso e il nero
Chissà che cosa avrebbe detto Norberto Bobbio di fronte alla nascita di un governo come quello che si è formato in Grecia tre giorni fa?
di Luca Ricolfi


Chissà che cosa avrebbe detto Norberto Bobbio di fronte alla nascita di un governo come quello che si è formato in Grecia tre giorni fa?
Nello schema di Bobbio, esposto in modo organico nel suo fortunatissimo libro di vent'anni fa (Destra e sinistra, Donzelli 1994), quel che è successo ad Atene non poteva succedere. Perché il nuovo governo non è semplicemente rosso-nero, ossia di sinistra e di destra, ma è un’alleanza fra un partito di estrema sinistra, Syriza di Alexis Tsipras, e un partito radicale di destra, Anel di Panos Kammenos. E nello schema di Bobbio destra e sinistra estreme hanno un solo elemento in comune: il rifiuto della democrazia. Destra e sinistra estreme, in altre parole, convergono solo sul piano dei mezzi, mentre sul piano dei fini restano irriducibilmente nemiche, perché la sinistra vuole ridurre le disuguaglianze, mentre la destra le accetta. Dunque un'alleanza fra destra e sinistra è concepibile solo fra le loro versioni moderate, nella misura in cui entrambe accettano di annacquare i loro fini ultimi, come accade quando si forma un governo di grande coalizione, o di unità nazionale, o di “larghe intese” come si usa dire dalle nostre parti. Mentre è inconcepibile fra destra e sinistra estreme, perché esse sono “programmaticamente non annacquanti” (si può dire così?), e disprezzare la democrazia non è un elemento sufficiente a formare un governo.
Quel che sembrava inconcepibile invece è successo. Per la prima volta in un Paese europeo, di cultura politica occidentale, anzi nel Paese che la politica e la democrazia come le concepiamo in occidente le ha inventate, sinistra e destra non stanno insieme dall’opposizione, come ovunque succede quando si forma una grande coalizione fra sinistra e destra moderate, ma stanno insieme in un governo, ossia in un luogo in cui si può stare insieme solo se si condividono dei fini.
Ma qual è il fine comune di Syriza e Anel?
Non ci vuole molto a scoprirlo, perché è un fine dichiarato, esplicito: il rifiuto della supervisione europea, ossia dei sacrifici imposti al Paese dalla Troika (Bce, Commissione europea, Fondo monetario). Dunque lo schema di Bobbio è saltato, perché nel XXI secolo (ma in realtà fin dagli ultimi decenni del Novecento) destra e sinistra radicali non solo possono convergere sul piano dei fini, ma non sono certo accomunate dal rifiuto della democrazia, come lo furono in passato fascisti e comunisti.
La convergenza di destra e sinistra estreme sui fini, per alcuni studiosi, non è una novità assoluta.
Esiste un importante filone di pensiero politico e storiografico che ha sottolineato con forza le radici comuni del fascismo e del comunismo non solo sul piano del metodo (il rifiuto della democrazia parlamentare), ma anche sul piano intellettuale e dei contenuti politici: derivazione dal socialismo rivoluzionario, paternalismo, primato dello Stato sull’individuo, regolazione collettivistica dell’economia, politica sociale, apertura al mondo del lavoro.
Tutti elementi di convergenza sostanziale segnalati fin dagli anni ’60 e ’70 da Eugen Weber, James Gregor e soprattutto Zeev Sternhell, l’autore di Né destra né sinistra, uscito per la prima volta in francese nel 1983. Il punto, però, è che quel che è successo in Grecia nulla ha a che fare con le affinità, che pure ci sono state e ci sono, fra fascismo e comunismo. Nel governo di Atene non siedono fascisti e comunisti, accomunati da qualche “programma sociale” comune. Nel nuovo governo greco siedono esponenti della sinistra e della destra radicali, accomunati dalla ferma volontà di non rispettare gli impegni assunti dai precedenti governi moderati di sinistra e di destra. È successo in Grecia, potrebbe succedere anche altrove, in qualsiasi Paese europeo in cui l’ostilità alle autorità sovranazionali che dettano, o condizionano pesantemente, la politica economica interna abbiano a superare una certa soglia: la soglia del 50% dei consensi, o anche semplicemente la soglia di voti che permette di avere la maggioranza dei seggi (il 40%, secondo la nostra nuova legge elettorale).
Oggi ci sembra impossibile, come nota Massimo Gramellini sulla Stampa (te lo vedi “Nichi Vendola a Palazzo Chigi sotto braccio a Ignazio La Russa” ?), ma è solo perché i nostri occhi sono rivolti al passato, prigionieri di riflessi pavloviani, che nella sinistra radicale ci fanno vedere “i comunisti” e nella destra radicale “i fascisti”.
No, non è così. Destra e sinistra radicale stano insieme per due ottimi motivi, quello di avere un nemico comune, le autorità europee, e un obiettivo condiviso, liberarsene al più presto. Il problema, semmai, è: per andare dove?
Qui pare evidente che l’orizzonte è molto diverso. La sinistra radicale vuole smantellare l’Europa di Bruxelles per costruire un’Europa più democratica, con un Parlamento vero, e un governo espressione dei popoli che lo hanno eletto. La destra radicale, non solo in Italia, sogna un’Europa delle nazioni, con meno immigrati e più autonomia dei singoli Stati. Il problema, temo, è che entrambi i sogni, almeno in Grecia, sono destinati a scontrarsi con la dura, pietrosa realtà dei conti economici. Il nodo Grecia sarà sciolto piuttosto in fretta e lo sarà in uno dei pochi modi possibili: sconto sul debito, salvataggio, default, uscita dall’euro. Quanto ai sogni, ci vorrà molto più tempo per capire dove i popoli europei decideranno di andare.

Il Sole 29.1.15
L’altolà alle privatizzazioni
No al Pireo cinese
di Vittorio Da Rold


Atene. Privatizzazioni addio per tenere unito il partito. In tre giorni il nuovo governo Tsipras ha messo in soffitta, con l’assenso dei Greci indipendenti, partito nazionalista di destra che lo sostiene, la vendita dei “gioielli di famiglia” dello Stato.
Si tratta di un tesoretto stimato complessivamente in circa 22 miliardi di euro, dei quali finora Atene ha incassato solo una piccola parte. Un tuffo nel passato verso l’autarchia economica, uno schiaffo alla troika, ma forse una scelta necessaria per la coesione del partito.
Nel primo consiglio dei ministri dopo le elezioni, il ministro dell’Energia Panagiotis Lafazanis ha dichiarato che bloccherà immediatamente il piano di privatizzazione del 30% della compagnia elettrica DEH la più grande public utility del Paese, di cui lo Stato ellenico controlla una quota di maggioranza, e della compagnia di distribuzione dell’energia elettrica (Admie). Congelata anche la vendita del 67% del Porto di Pireo, un’operazione già avviata per la quale erano rimaste in corsa quattro società, tra cui la cinese Cosco. Rinviata anche la prevista cessione a privati del 35,5% di Hellenic Petroleum, la maggiore raffineria del Paese. Una mossa che era scritta nel Programma elettorale di Syriza, ora diventato piano del governo Tsipras.
Che ci sarebbe stata una inversione di rotta nella politica economica del Governo era nell’aria: ma la velocità e la determinazione degli annunci ha sorpreso tutti gli osservatori.
Ora però si apre la partita su come il Governo greco voglia ammodernare il Paese, quali politiche industriali e di rilancio dell’economia voglia intraprendere. Certo questa decisione ha raffreddato gli entusiasmi degli investitori internazionali che guardavano con sempre maggior interesse ai prezzi bassi delle società greche in rampa di lancio per le privatizzazioni.
«Gli investitori che hanno visto sparire il 15% del valore delle azioni greche dopo che gli elettori hanno scelto un governo determinato a rinegoziare i debiti del Paese possono aver reagito in modo esagerato», ha detto il premio Nobel per l’economia Robert Shiller, che ha invitato ad investire in Grecia perché «il prezzo dei titoli greci è sotto qualsiasi livello abbia mai visto negli Stati Uniti».
Anche Pinco e l’hedge fund Greylock Capital Management hanno detto che la vittoria di Syriza non ridotto il loro appetito verso i bond decennali greci nonostante il rendimento abbia raggiunto il 10,4% rispetto allo 0,37% del Bund.
Al di là di queste dichiarazioni Tsipras potrebbe aver agito così per pagare delle cambiali fatte alla sinistra minoritaria del suo partito, così da poter mantenere una coesione di fronte al negoziato con i creditori internazionali.

Il Sole 29.1.15
Tsipras ha vinto ma il caso greco è tutt’altro che chiuso
risponde Guido Gentili


Caro Gentili, martedì 27 gennaio lei ha ben sottolineato in “ Amore a prima vista” di quanta opportunistica versatilità, è caratterizzata la classe politica italiana.Tutti sul carro del vincitore, a prescindere da reali convinzioni e appartenenze politiche, abbandonando sacrali paradigmi e convertendo feticismi politici, pur di apparire all’avanguardia del pensiero di Tsipras, con il solo fine di accattivarsi simpatie elettorali, cavalcando il must del momento. Ma agendo così si mistifica la realtà e si ingannano i popoli. È verissimo, la cura da cavallo deliberata dalla troika, ha cancellato i basilari diritti di uomini e donne, il germe dell’austerity ossessiva e fine a se stessa ha prodotto solo disperazione e ha accelerato un processo di autodistruzione, nato anni prima. La Grecia aveva già intrapreso uno spontaneo cammino di auto-distruzione (welfare insostenibile di stampo scandinavo, evasione fiscale alle stelle, economia eccessivamente centralizzata, corruzione, sovvenzioni statali a pioggia...), il tutto abilmente camuffato con una maquillage contabile degno del miglior baro. Assodato tale atteggiamento autolesionista, sarebbe opportuno evitare qualsiasi deresponsabilizzazione “selvaggia” da parte dell’intero establishment europeo. Solidarietà e comprensione per il popolo greco si, ma con un sottostante di serietà, perché sono in gioco le risorse (dei contribuenti europei) e la reputazione dell’intera Europa. Di conseguenza, auspichiamoci ragionevoli soluzioni, ma iniziamo a modificare programmi elettorali (promettere ciò che è insostenibile e che ha portato al dissesto le finanze greche è fare un torto alle nuove generazioni) che non portano a nulla di concreto, se non ad un’ulteriore illusione ottica (per il popolo greco) di un futuro dignitoso, ma che di dignitoso possiede solo una vaga parvenza. Ai nostri cari rappresentati del popolo sarebbe bene augurare equilibrio e moderazione, ricordando loro che, salendo sul cavallo in corsa, a volte si perde l’equilibrio.
Lettera firmata

Premesso che la vittoria di Tsipras e di Syriza è la prova che la democrazia per fortuna esiste e funziona, condivido le sue osservazioni. Sulla quasi comica salita della nostra classe politica sul carro di Tsipras ho già detto.
Quanto al negoziato tra Grecia e Europa è chiaro che esiste uno spazio – e un interesse comune - per rivedere le condizioni di un’intesa rivelatasi sbagliata. Ma non si può cancellare il fatto che il “modello” greco era fallito prima dell’arrivo della Troika. E va rilevato che le prime mosse di Tsipras – come il piano delle ri-nazionalizzazioni- sono sì coerenti con il programma col quale Syriza ha stravinto le elezioni ma ripropongono ricette che avevano già affossato la Grecia. Dunque, occhi ben aperti, perché il caso greco tutto è meno che chiuso, in tutti i sensi.

Corriere 29.1.15
Professore e blogger
Varoufakis e la valuta virtuale di Dota
Il nuovo ministro delle Finanze della Grecia di Tsipras dal 2012 è consulente di Valve per la gestione dell’economia del portale Steam e degli acquisti digitali “in-game”
di Riccardo Meggiato

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La Stampa 29.1.15
Il dirigente che imbarazza Podemos
Juan Carlos Monedero, numero tre del partito in testa ai sondaggi in Spagna, è sotto accusa per due vicende legate alla sua carriera accademica. Stranezze nel suo curriculum
di Francesco Olivo

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Corriere 29.1.15
Gli Obama in visita
Michelle Obama senza velo in Arabia Saudita, pioggia di critiche
La first lady non si è piegata al rigido protocollo sull’abbigliamento femminile

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Corriere 29.1.15
Un soldato delle Nazioni Unite, lo spagnolo Francesco Javier Soria Toledo è rimasto ucciso dal fuoco israeliano, Madrid chiede un’inchiesta
Unifil protesta per l’«errore di mira»
La missione impossibile del comandante italiano: vigilare e mediare con pochi poteri
di Francesco Battistini


Perché voi israeliani non state più attenti, se dovete rispondere agli Hezbollah? E perché voi dell’Onu non controllate i missili che gli Hezbollah vi piazzano sotto il naso? Quando si telefonano tra Naqoura e Tel Aviv, fra il comando delle forze onusiane in Libano e i generali all’ombra delle Azrieli Towers, le domande sono sempre le stesse; le risposte, regolarmente evasive; i toni, spesso duri. È andata così anche ieri: raccomandando «massima moderazione», il generale Luciano Portolano ha in realtà preteso chiarimenti sulla morte di Francisco Toledo, l’ufficiale spagnolo ucciso da un mortaio israeliano.
Un errore di mira, chiaro: c’era da reagire agli sciiti che avevano appena ammazzato due soldati di Tsahal. «L’ennesimo episodio che innervosisce tutti, dice un diplomatico italiano: «Questa missione sta nell’area più calda, a due passi dalla Siria, con un mandato limitatissimo. E l’ordine è di voltarsi dall’altra parte».
L’aria a sud del Libano si rifà pesante e la missione Unifil – 10mila caschi blu di 37 Paesi, 1.100 italiani, il comando per la terza volta a un nostro generale – si ritrova con la solita coperta leggera della risoluzione 1701 approvata dopo la guerra del 2006: vigilare, supportare, se proprio va male scappare.
L’escalation preoccupa, anche se i razzi degli sciiti erano tutto meno che inattesi: a metà gennaio, dopo l’esecuzione del superpasdaran che addestrava gli Hezbollah, il grado d’allerta è stato elevato. Ogni mese, Portolano incontra ufficiali libanesi e israeliani perché «teniamo aperti tutti i canali». Poi però c’è un patto non scritto fra noi e gli Hezbollah: «Loro sanno che devono lasciarci stare – rivela una fonte italiana –. Infatti non ci attaccano mai direttamente: quando ci sono state le autobombe, erano di gruppi sunniti che volevano visibilità. I problemi li abbiamo di più con gl’israeliani». I quali non hanno mai risparmiato critiche alla missione: «Hezbollah viola ogni giorno la risoluzione Onu – ha ripetuto un alto ufficiale a Maariv – e lo fa sotto il naso di Unifil. Gli sciiti non possono avere armi in quell’area, eppure le hanno. Armi con le impronte digitali dell’Iran».
Fra razzi e mortai, il difficile equilibrio su cui si regge Unifil dovrebbe comunque durare: «Hezbollah non ha interesse a usare ora i Fajr che tiene sotto il Litani, a fare scoprire i tunnel che sarebbero stati scavati lungo il confine». E a due mesi dal voto, Netanyahu non può desiderare avventure rischiose. «I nuovi Fajr non sono i ferrivecchi di Hamas» l’ha avvertito l’alto ufficiale: possono colpire ovunque e «Iron Dome non può intercettarli tutti».
Gl’israeliani stanno già addestrando piccole unità rapide d’autodifesa. Perché dal Libano ci si aspetta il peggio e dall’Onu non ci si aspetta niente: «Pur di non avere grane dagli Hezbollah – accusa la stampa israeliana – Ban Ki-moon ha prorogato fino al 2018 l’inchiesta sull’assassinio di Rafik Hariri, il presidente libanese». Dodici anni per non avere un colpevole. «E tutti sanno chi è stato»

Il Sole 29.1.15
Un contingente di 1.200 italiani opera nel Paese


«L’Italia, nell’esprimere forte preoccupazione per le gravi tensioni lungo la linea di demarcazione tra Libano e Israele, auspica che si ponga fine ad atti di violenza e azioni militari nel sud del Libano e che si torni alla normalità secondo le regole della Risoluzione Onu 1701». Lo ha detto il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, come riferisce la Farnesina, commentando gli scontri avvenuti ieri che rischiano di portare a un’escalation di violenza simile a quella che nel 2006 proseguì per più di un mese con successivi attacchi da entrambe le parti.
Gentiloni ha avuto un colloquio telefonico con il comandante di Unifil, il generale Luciano Portolano e con il collega spagnolo José Manuel Garcia-Margallo. Nel corso della telefonata Gentiloni ha acquisito informazioni aggiornate sugli scontri che a partire dalla tarda mattinata hanno coinvolto l’area orientale del territorio in cui opera la missione Unifil e nel corso dei quali ha perso la vita un casco blu spagnolo. Al collega spagnolo, Gentiloni ha espresso le condoglianze del governo italiano.
Uno dei contingenti più numerosi – con circa 1.200 donne e uomini dispiegati – è quello italiano che tuttavia opera in una zona diversa, più a Ovest, da quella dei combattimenti di ieri mattina.

Corriere 29.1.15
il sanguinoso gioco delle vendette incrociate
di Franco Venturini


La politica mediorientale è notoriamente complessa, ma l’attacco degli Hezbollah libanesi che ieri è costato la vita a due soldati israeliani e a un «casco blu» spagnolo supera i livelli consueti e contribuisce a spiegare perché il barometro regionale continui a segnare burrasca.
Il «partito di Dio» ha colpito nel Sud del Libano, in quella zona delle Shebaa Farms che israeliani, siriani e libanesi si contendono dalla guerra del 1967. Gli sciiti hanno sparato per primi usando missili anti-carro, gli israeliani hanno risposto con l’artiglieria, e il caporale spagnolo dell’Unifil II (forza di pace dell’Onu, che comprende 1.100 nostri militari ed è comandata dal generale italiano Portolano) ha avuto la sfortuna di trovarsi in mezzo.
Nulla di inedito (purtroppo) se non si trattasse di una vendetta per quanto accaduto altrove, sulla parte siriana delle alture del Golan, il 18 gennaio scorso. In quella occasione un drone presumibilmente israeliano colpì e uccise almeno sei militari. Ma il punto che spiega la furia di Hezbollah è che non si trattava di militari qualsiasi. Alcuni erano combattenti della formazione sciita che da tempo appoggia Assad in territorio siriano, e tra loro c’era il popolarissimo figlio del comandante Imad Mughniyeh ucciso nel 2008. E poi, era morto nientemeno che un generale iraniano di nome Mohammad Alì Allahdadi, che secondo le assicurazioni di Teheran in quel luogo non doveva proprio trovarsi.
Umiliata e offesa (anche lei aveva negato di agire in quella zona), Hezbollah dovette sicuramente incassare una potente lavata di testa dei suoi tutori iraniani. Dov’era dunque finita la decantata impermeabilità alle spie israeliane, visto che il drone sapeva benissimo come, dove e quando colpire? E poi, quali successi potevano vantare gli Hezbollah proprio mentre i fratelli sciiti si impadronivano di gran parte del potere nello Yemen? La «guida» Hassan Nasrallah doveva recuperare terreno nei confronti di Teheran, e l’attacco delle Shebaa Farms è stato considerato il compromesso migliore: un colpo duro, ma non tanto da rischiare una nuova guerra tra Israele e Libano come quella del 2006.
L’opinione prevalente è che gli israeliani continueranno a reagire come stanno già facendo, ma che non si arriverà a un bis di quel devastante conflitto. Hezbollah è troppo impegnato in Siria. In Israele si vota il 17 marzo, e mentre la reazione fa gioco a Netanyahu una guerra vera e propria lo danneggerebbe. E tuttavia, gli stessi protagonisti devono rendersi conto che giocano con il fuoco, più che mai nel momento in cui l’atteggiamento occidentale verso Bashar Assad sembra diventare assai meno intransigente per la semplice ragione che il nemico principale nell’area non è più lui, bensì l’Isis e il suo «califfato» in pericolosa estensione.
Gli Stati Uniti, dopo aver assistito per quattro anni allo scempio siriano senza intervenire, sono a corto di opzioni: i ribelli «buoni» controllano poco territorio e sono privi di una vera capacità militare, gli altri sono cattivi (qaedisti) o cattivissimi (Isis). Il compromesso con Assad guadagna terreno per semplice pragmatismo. E il fronte sciita si rafforza, da Damasco a Hezbollah e a Teheran, con Mosca che cerca di riequilibrare l’Ucraina giocando le sue carte diplomatiche.
Forze iraniane combattono già in Iraq in oggettiva alleanza con i bombardamenti Usa e i peshmerga curdi. Forse senza volerlo, l’Isis disegna una nuova geopolitica. In attesa di vedere come andrà a finire il negoziato con Teheran sui programmi nucleari. E quali saranno, non soltanto per quanto accaduto ieri, le risposte di Israele .

Repubblica 29.1.15
Il gioco dei tiri incrociati che blocca l’intesa con l’Iran e rimette in pista Assad
di Bernardo Valli


LA Siria è il teatro di vari conflitti in cui alleati e avversari si scambiano i ruoli. I nemici, dichiarati o di fatto, possono essere amici secondo lo scontro in cui sono impegnati. È la guerra dei tiri incrociati. Il missile che ieri ha ucciso due soldati israeliani e ne ha feriti sette, nell’area nota come la Fattoria Shebaa (o in Israele come Monte Dov), è stato sparato dagli hezbollah libanesi. I quali sostengono al tempo stesso in quanto sciiti il regime di Damasco e quindi combattono i jihadisti sunniti dello Stato Islamico, principale forza ribelle. Ma quest’ultimo, lo Stato Islamico, è anche il bersaglio degli attacchi aerei della coalizione guidata dagli americani. Americani e hezbollah hanno dunque un obiettivo comune. Lo stesso vale per i sauditi impegnati nella coalizione americana contro lo Stato Islamico. Questo non toglie che i missili degli hezbollah piovano pure sugli israeliani, strettamente legati agli Stati Uniti. E che l’Arabia Saudita, potenza sunnita, sia la principale avversaria araba dell’Iran sciita, di cui gli hezbollah sono stretti alleati.
Questo è soltanto un aspetto del mosaico di conflitti di cui bisogna tracciare i contorni e precisare le cause per tentare di capire quel che accade in Medio Oriente. L’uccisione dei due soldati, nell’area della fattoria Shebaa, in prossimità delle alture del Golan, ricorda quel che accadde nel 2006. Allora un missile colpì una pattuglia di confine, tre soldati furono uccisi e due presi prigionieri. Nel tentativo di liberarli altri cinque israeliani persero la vita. Così si accese una guerra durata un mese. Il bilancio finale fu di mille morti libanesi e centosessanta israeliani. C’è il rischio che quel conflitto riprenda?
Israele ha reagito con tiri di mortaio che hanno ucciso un militare spagnolo dell’Onu (a qualche chilometro c’è il contingente italiano), ma soprattutto il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato una risposta più dura. Ha detto che Israele «sa rispondere con la forza» a coloro che lo sfidano uccidendo i suoi cittadini. Il lancio micidiale del missile delle milizie sciite libanesi è avvenuto nove giorni dopo l’incursione aerea, attribuita agli israeliani, in territorio siriano che ha fatto cinque morti. Tra i quali il figlio di un capo hezbollah. Oltre ai libanesi fu ucciso un generale iraniano. Israele si aspettava una risposta. Un alto ufficiale di Teheran aveva avvertito che «il tuono si sarebbe fatto sentire » molto presto.
Il conflitto tra israeliani e Hezbollah è un capitolo a parte, ma risente della situazione generale in Medio Oriente. E anche dei riflessi che essa ha nelle capitali vicine e lontane. Anzitutto la guerra civile in Siria, che in quattro anni ha fatto più di duecentomila morti, negli ultimi mesi ha subito un cambiamento radicale e drammatico. Lo Stato Islamico (o Califfato), inesistente all’inizio, occupa ormai circa la metà del paese, mentre le forze ribelli moderate e “laiche”, sulle quali contavano gli americani per mettere fine alla dittatura di Bashar el Assad, sono state ridimensionate. Non sono più in grado di minacciare il regime di Damasco.
La posizione di Assad si è rafforzata. Al punto che quando il segretario di Stato John Kerry lo invita a cambiare politica, non gli intima più come un tempo di abbandonare il potere. Non sarebbe realistico. Assad non può essere un alleato degli Stati Uniti, poiché resta un raìs infrequentabile per le migliaia di vittime che ha fatto il suo regime, forse anche usando i gas tossici. Ma di fatto l’aviazione americana e quelle degli alleati occidentali e arabi scaricano le loro bombe sulle zone occupate dallo Stato Islamico esattamente come l’aviazione di Assad. I bersagli sono gli stessi. Entrambi, Obama (e i suoi alleati) e Assad hanno un nemico comune, pur essendo loro stessi nemici, ma senza combattersi direttamente. Ed è ormai opinione comune che se le truppe governative di Damasco non presidiassero una larga parte del paese, i jihadisti del califfato avrebbero un successo inarrestabile e «catastrofico ». Non si vince una guerra che implica il controllo del territorio senza una fanteria, con la sola aviazione. E le milizie che gli americani preparano in Iraq e in Siria saranno operative soltanto tra qualche mese. Per ora i soli soldati validi che si battono a terra sono i curdi e gli sciiti, quest’ultimi spesso inquadrati e armati dall’Iran.
La guerra dei tiri incrociati costringe gli americani a puntare su un fronte comune per combattere lo Stato Islamico, che rappresenta la minaccia maggiore in Medio Oriente. Un fronte politico che includa la Russia e l’Iran, principali alleati di Assad, e la Turchia e l’Arabia Saudita che sono i suoi principali avversari. È indicativo che le Nazioni Unite tentino di creare le condizioni per una trattativa tra le forze, governative e ribelli, impegnate nella battaglia di Aleppo. Sarebbe un inizio di dialogo da estendere poi a tutto il paese. Dal tavolo dell’ipotetico negoziato dovrebbero essere esclusi soltanto i jihadisti del Califfato. I tagliatori di teste non possono diventare interlocutori. Tutti gli altri gruppi ribelli, quelli moderati appoggiati dagli americani e quelli islamici, dovrebbero avere diritto a una seggiola. Sarebbe come avviare un dialogo con Bashar el Assad.
Il recupero dell’Iran provoca molte reticenze tra gli alleati dell’America. E questo pesa sul conflitto che potrebbe riesplodere tra israeliani e Hezbollah. Benjamin Netanyahu è in aperto contrasto con Barack Obama. Ai primi di marzo parlerà al Congresso di Washington, invitato dalla maggioranza repubblicana, senza mettere piede alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato. Sempre in marzo si voterà in Israele e per il primo ministro la visita a Washington, senza neppure una stretta di mano con il presidente e il segretario di Stato, farà parte della sua campagna elettorale. Obama non è popolare a Gerusalemme e a Tel Aviv, ma in questa stagione non è apprezzato in particolare il veto che ha posto alle nuove sanzioni all’Iran proposte dai repubblicani. Poiché sempre in primavera dovrebbe aprirsi la nuova conferenza sul nucleare iraniano, Obama pensa che non sia opportuno cominciare dando uno schiaffo agli interlocutori con cui si spera di concludere un accordo. Netanyahu, per il quale la minaccia nucleare iraniana è un argomento chiave nella campagna elettorale, potrà esortare il Congresso americano a raccogliere i due terzi dei voti necessari per annullare il veto presidenziale. Se ci riuscisse apparirebbe come il primo ministro che ha sconfitto il presidente americano in patria. E ha contribuito a sventare un accordo sul nucleare iraniano, sul quale spera Obama, e che ai suoi occhi non sarebbe invece sufficiente per evitare nel futuro un arma atomica in mano agli ayatollah.
La guerra dei tiri incrociati, che spesso appare una mischia indecifrabile, ha riflessi nelle grandi capitali. Obama cerca di raggiungere con l’Iran il più difficile accordo degli ultimi decenni, e Netanyahu invece lo teme. Sul terreno, nella mischia mediorientale, un conflitto con gli hezbollah, importante appendice della Teheran degli ayatollah, toglierebbe valore alle carte dei diplomatici. L’Arabia Saudita non è lontana dalle posizioni di Netanyahu. Essa teme, come Israele, una riammissione in società dell’Iran. Nella tenzone tra sciiti e sunniti che pesa sulla guerra in corso in Iraq e in Siria, i primi, gli sciiti, acquisterebbero peso. Non a caso Barack Obama ha dato tanta solennità alla sua visita al nuovo re d’Arabia. Doveva rassicurarlo.

Il Sole 29.1.15
Un nuovo conflitto avrebbe conseguenze inimmaginabili
di Ugo Tramballi


Nei dettagli è solo una faida senza fine. Sia gli israeliani che Hezbollah, gli uni colpendo gli altri, ogni volta possono dire di aver compiuto una vendetta: la settimana scorsa i primi avevano ucciso un capo hezbollah e un generale iraniano, ieri gli sciiti libanesi hanno colpito due soldati israeliani. Così da mesi, di risposta in risposta, in un conflitto tenuto sempre sotto traccia.
Ma se si alza lo sguardo, alle spalle della faida c’è una regione il cui caos arriva fino alle terre controllate dall’Isis. E davanti a questa mischia, nell’immediato futuro, c’è il pericolo di un nuovo conflitto del quale non possiamo immaginare la potenzialità distruttiva né le conseguenze.
Israele e Hezbollah avevano interrotto la loro guerra nell’estate del 2006, limitandosi a sottoscrivere un fragile cessate il fuoco. La milizia sciita libanese era riuscita a lanciare su Israele migliaia di razzi e gli israeliani avevano raso al suolo l’intero Libano del Sud, provocando seri danni alle strutture del Paese anche più a Nord. Il bilancio delle perdite dell’una e dell’altra parte fu pesantissimo. Ma le conseguenze rimasero circoscritte all’instabilità del Libano e del governo israeliano che perse consensi interni, in seguito agli errori dello stato maggiore. Le guerre con il Libano non hanno mai portato fortuna ai leader israeliani.
Oggi, nove anni più tardi, la situazione è molto diversa. Non è più solo la faida fra israeliani e Hezbollah, con il resto dello sfortunato Libano che ne paga le spese. Dalla Libia all’Iraq si combattono molte guerre diverse ma con alcuni pericolosi denominatori comuni. Nel Sinai a Sud, sul Golan a Nord e forse ormai anche a Gaza, i qaedisti sono già ai confini d’Israele.
C’è la speranza che israeliani e Hezbollah abbiano interesse a restare dentro i limiti della faida: a Gerusalemme si vota fra un mese; nei Territori occupati i palestinesi stanno conducendo un’Intifada minore ma pericolosa; fino ad ora Israele ha sempre tenuto le distanze dal caos siriano nel quale sarebbe fagocitato da una nuova guerra nel Libano Sud. Hezbollah già combatte in Siria e Iraq: sta consumando uomini e risorse materiali. La sopravvivenza del regime siriano è vitale per gli sciti libanesi, la guerra a Israele per ora no. Ma gli animi sono eccitati e l’ostilità è profonda.
Negli altri sanguinosi conflitti mediorientali l’Italia si è sempre responsabilmente chiesta se e come partecipare: se inviare una forza di pace in Libia; se limitarsi in Iraq a un aiuto militare e umanitario, senza partecipare ai bombardamenti delle postazioni dell’Isis. In Libano non esistono dubbi di questo genere: abbiamo già sul campo una forza di 1.200 donne e uomini inquadrati nell’Unifil, i caschi blu dell’Onu incaricati di tenere separati israeliani e palestinesi. Anche il comandante dell’intera forza Unifil - meno di 13mila uomini di 36 Paesi, impiegati in varie forme – è un parà italiano, il generale Luciano Portolano. Se israeliani e Hezbollah decidessero di riprendere la loro guerra, nessuna forza potrebbe fermarli.

Corriere 29.1.15
«Ho combattuto per anni, ora basta. Voglio tornare sui banchi di scuola»
Centinaia di bambini soldato rilasciati dalle milizie in Sud Sudan L’Unicef ha mediato per loro, adesso lavora al reinserimento
di Alessandra Muglia


La sua voce è bassa ma intensa: «Avevo dieci anni quando degli uomini armati mi hanno prelevato da scuola e obbligato a seguirli, ho combattuto con loro per quattro lunghi anni. Come mi sento? Non ho più paura, non voglio più fare il soldato, voglio andare a scuola e diventare medico».
Tace l’orrore e dà spazio al sogno Miron, nome di fantasia di uno dei 280 bambini che hanno deposto le armi, rilasciati dai ribelli del Cobra, fazione delle milizie dell’«Esercito democratico del Sud Sudan» che ha firmato un accordo di pace con il governo. E ora è festa grande a Gumuruk, il villaggio nella regione petrolifera di Jonglei, tra le più colpite dalla sanguinosa guerra civile che sta dilaniando il più giovane Stato del mondo, con migliaia di morti e due milioni di sfollati in due anni di scontri tra governativi e ribelli. E’ qui che i piccoli soldati sono stati liberati martedì con la mediazione dell’Unicef. La festa continua sabato quando altre centinaia di baby soldati deporranno l’uniforme. E proseguirà nelle prossime settimane: nel giro di un mese a tremila piccoli combattenti verrà restituito quel che resta dell’infanzia.
Molti di loro — d’età per lo più compresa tra gli 11 e i 17 anni — si sono uniti ai Cobra per disperazione, per difendere comunità e familiari dalle pesanti discriminazioni perpetrate dal governo di Juba verso il loro gruppo etnico, i Murle. Molti sono stati costretti ad assistere a scene truci che almeno ai bambini dovrebbero essere risparmiate. E qualcuno è arrivato sporcarsi le mani di sangue. «Hanno ucciso mia sorella, mio zio e altri familiari — racconta un tredicenne appena tornato in libertà — Così mi sono unito ai Cobra e ho ucciso uno con la pistola. Adesso voglio andare a scuola, non ci sono mai stato». «Ora so cosa significa fare il soldato, è una cosa sporca», dice un altro.
«La maggior parte dei bambini rilasciati ci ha parlato delle torture e delle botte subite – riferisce al Corriere John Budd, in forza all’Unicef nel Sud Sudan - . Alcuni hanno assistito all’uccisione dei propri familiari. Molti hanno detto di essere stati coinvolti nei combattimenti».
Per riuscire a far pace con l’inferno che si portano dentro ci vorrà tempo. A Gumuruk l’Unicef ha allestito un centro di primo intervento per garantire loro cibo, acqua, vestiti, medicine e il supporto psicologico di cui hanno bisogno per iniziare a immaginarsi un futuro. Nel frattempo sono state avviate ricerche per capire se i loro familiari sono ancora vivi, oltre a programmi di inserimento scolastico.
Ma migliaia di bambini restano ancora impegnati al fronte: oltre 12 mila, per lo più maschi secondo l’agenzia dell’Onu, sono stati reclutati soltanto lo scorso anno dalle forze governative del presidente Salva Kiir, di etnia dinka, e dai miliziani del suo ex vice, Riek Machar, di etnia nuer (maggioritaria), destituito nel 2013 con l’accusa di aver tentato il colpo di Stato, mentre lui si considera vittima di un’epurazione per aver annunciato la sua candidatura alle presidenziali.
Il Paese africano è uno dei sette Stati interessati da «Children, Not Soldiers», la campagna internazionale sponsorizzata da 40 Paesi, tra cui l’Italia, con un obiettivo ambizioso: porre fine al reclutamento e all’impiego dei bambini nei conflitti da parte delle forze armate governative entro la fine dell’anno prossimo. Questo rilascio di massa di baby soldato in Sud Sudan dà qualche speranza. Anche al sogno di Miron.

Corriere 29.1.15
Nelle viscere della capitale
A Pechino c’è un’altra città. Sottoterra
di Guido Santevecchi


PECHINO Ci sono circa seimila rifugi antiaerei a Pechino, scavati sotto i palazzi a partire dal 1949, l’anno della fondazione della Repubblica popolare, quando la Cina era isolata e temeva un attacco dagli «imperialisti». Ora la Cina è la seconda economia del mondo, ha quasi tre milioni di milionari (in euro) e quasi 300 miliardari nell’elenco di Fortune . Ma i rifugi ci sono ancora e sono diventati il «mondo di sotto» di Pechino, dove centinaia di migliaia di giovani e lavoratori migranti vivono e inseguono i loro sogni con un’incredibile forza d’animo. Sono quelli che mandano avanti l’industria dei servizi nella capitale della fabbrica del mondo, ma non hanno abbastanza soldi per pagare l’affitto di un appartamento decente. La loro casa è una stanza senza finestre, dieci metri quadrati, nei sotterranei dei grandi palazzi. Qualche sociologo li ha chiamati «le Formiche», ma per la gente sono «la Tribù dei Topi».
Il posto, uno dei seimila, è a venti minuti dal cuore commerciale della capitale. Si chiama Ding Fu Zhuang: «Villaggio della Felicità Eterna». Un palazzone rettangolare di 11 piani come tanti qui, grigio, davanti un giardinetto bruciato dal gelo. Sul retro, una targa con la scritta «Rifugio antiaereo», anche in inglese. Basta scostare le coperte messe per proteggere l’ingresso dal vento freddo, scendere quattro rampe di scale. Sono 34 gradini che portano a una serie di corridoi: ecco il mondo di sotto, la casa della Tribù dei Topi. Quelli che per risparmiare sugli affitti impossibili e indecenti hanno deciso di vivere sottoterra, al buio, senza riscaldamento, sono un milione secondo uno studio indipendente; «solo 281 mila» se si crede all’ultimo censimento delle autorità che risale al 2014. I Topi non sono brutti, sporchi e cattivi: nella maggioranza sono ragazzi diplomati venuti dalla provincia per fare fortuna. Hanno lavori normali, dalla parrucchiera al contabile, all’impiegato hi-tech, anche giovanissimi insegnanti. Per tutti il salario d’ingresso è molto basso e non possono permettersi di pagare un affitto normale: ci dicono che in questo brutto palazzo un monolocale costa 3.500 yuan al mese (500 euro). Un giovane diplomato guadagna 4.000 yuan: è fuori mercato. Per questo la Tribù dei Topi è nelle viscere di Pechino, nei rifugi, anche nelle cantine.
C’è qualche rischio a scendere quei 34 gradini con una macchina fotografica e un taccuino in mano, perché a chi riscuote gli affitti non piace la pubblicità. I corridoi sono bui e freddi, però puliti. A metà percorso si passa una porta in acciaio con un maniglione a ruota: siamo nel cuore del vecchio rifugio antiaereo. In fondo si vede una luce: viene da un gabbiotto, dentro c’è un tizio che mangia e guarda la tv. È il signor Wang, il manager di questo posto, espressione sospettosa. Recito la storiella che mi è stata suggerita: «Ho vissuto a Pechino per anni, ora debbo partire per un po’ e ho bisogno di uno spazio per lasciare sei o sette valigie e una mezza dozzina di scatoloni, si può fare?». Wang prende una chiave e fa qualche passo verso la porta con la scritta 002. Apre: «Ecco qui, l’hanno lasciata libera da poco». Ci sono due brande e un tavolo, niente finestre, soffitto neanche troppo basso. Saranno dieci metri quadrati. Quanto costa? «Fa 450 yuan al mese, pagamento ogni mese, niente anticipo». 450 yuan sono circa 60 euro. Ma ci si può fidare a lasciare qui le cose? «Certo, io sto sempre lì nella portineria a controllare chi passa, qui ci vive solo gente tranquilla, colletti bianchi o persone che fanno piccoli affari», dice Wang. E quanta gente? «I corridoi sono lunghi, ci sono tante stanze, una novantina di famiglie, cento persone direi». Affare fatto, ci vediamo domani con i soldi. «Fate presto, ho sempre richieste nuove».
Il manager-custode torna a mangiare e ci lascia il modo di dare un’occhiata approfondita in giro. Un grande manifesto avverte sui divieti: niente coperte elettriche, bollitori per l’acqua, pentole a pressione. Le porte sono tutte numerate; i bagni comuni sono stati puliti questa mattina ma serve lo stomaco forte per avventurarsi. Qua e là scarpiere e pile di padelle. È mezzogiorno, gli abitanti dell’albergo dei topi sono tutti fuori al lavoro, ma da una porta socchiusa spunta il volto di una ragazza. Sta mangiando zuppa di riso fredda. Sorride e ci fa entrare. Dentro, un computer acceso, un materasso a una piazza e mezza, una sedia, una pila di scatole, qualche pentola, foto di riviste di moda attaccate alla parete e un orsacchiotto di pezza chiuso nel cellophane. «Mi chiamo Liu, ho 24 anni, sono venuta con mio marito dallo Henan sette mesi fa. Facciamo i programmatori di pc, non si guadagna male, 4 mila yuan al mese a testa (1.200 euro in due). Ma ora sono incinta, per questo sto a casa» (l’orsetto è per il bimbo). La casa di Liu, in questo sotterraneo, costa 700 yuan al mese «perché oltre allo spazio mi danno la luce e il collegamento Internet». Il riscaldamento non c’è, io ho il cappotto e la sciarpa e mi sento gelare. Zhou dice che ci si abitua presto.
Chi abita qui? «Alcuni sono buoni amici, ci sono insegnanti, contabili, tecnici di postproduzione cinematografica, musicisti, ragazzi simpatici che risparmiano e cercano sempre di migliorare». Liu sorride: «Non siamo diversi dagli altri, vestiamo come loro, pensiamo come loro e tra qualche anno, quando avremo risparmiato abbastanza, vivremo di sopra, alla luce del sole, anche noi». Pechino ha 21,5 milioni di abitanti, di questi, circa 8 milioni sono lavoratori migranti venuti dalle province, 368 mila solo l’anno scorso. Molti non avranno mai una casa con le finestre.

Corriere 29.1.15
Usa, wi-fi libero per legge il web è ormai un diritto
di Massimo Sideri


Vietato vietare il collegamento a Internet: la Federal Communication Commission (in sostanza l’authority che vigila sulle comunicazioni negli Stati Uniti) ha espressamente vietato ad alberghi e hotel di bloccare le reti wi-fi dei propri clienti con il fine — è facile intuirlo — di caricare sul loro conto il servizio Internet offerto dalla casa.
Al di là della popolarità della notizia destinata ad essere accolta con entusiasmo da chi viaggia per lavoro o per turismo vale la pena spendere qualche considerazione sul diritto a Internet che ha pochi paragoni per come si sta imponendo (nel mondo occidentale). È possibile vietare l’ingresso in alcune aree delle automobili. È considerato lecito che un ristoratore impedisca di portarsi il cibo e addirittura anche la vitale acqua nei suoi locali. In alcuni spazi e situazioni — sempre meno a dire la verità — è anche ammesso imporre il silenzio delle suonerie degli smartphone. Eppure vietare in qualche maniera più che la connessione e la navigazione in quanto tale il diritto stesso ad essere «connessi» sta assumendo i connotati di un tema quasi ideologico. Chi tocca Internet si brucia.
Negli Usa, in particolare, il diritto alla rete si intreccia anche con il primo emendamento della Costituzione e il diritto di espressione. La stessa Twitter — appellandosi allo stesso emendamento — ha fatto causa all’amministrazione Obama. Non è un caso che Internet sia considerato una creatura Usa, nonostante sia solo in parte vero: Vincent Cerf inventò con Robert Khan il protocollo Internet che permette alle macchine di dialogare tra di loro. Ma il World Wide Web, che nella sostanza permette a noi esseri umani di dialogare con le machine, è stato inventato da un informatico britannico, Tim Berners-Lee. Considerazioni storiche a parte, il diritto a essere connessi è destinato ad allargarsi a macchia d’olio e anche gli altri Stati sembrano Repubbliche basate sempre più su Internet. Pane e Internet.

La Stampa 29.1.15
Quirinale, qui il re si fa a pezzi
Tra mitologia e archeologia, il colle che prende il nome da Romolo-Quirino ucciso e smembrato dai senatori è il luogo del potere personale monarchico soppresso e ridistribuito nell’assemblea politica
di Silvia Ronchey


Il Quirinale è al centro dell’attenzione di tutti in questi giorni. Ma non tutti sanno che prima di essere abitato dai Papi e dai Re d’Italia, e infine dai Presidenti della Repubblica, quel colle era un luogo di auspicio e sacrificio, dove il potere veniva ritualmente smembrato e redistribuito.
Secondo Varrone il Quirinale era chiamato così perché ospitava il tempio di Quirino, sotto il cui nome, racconta Dionigi di Alicarnasso, veniva venerato con sacrifici annuali Romolo, «che aveva superato la natura umana» ed era diventato un dio. Il patrizio Giulio Proculo, suo vecchio amico, lo aveva incontrato su quel colle dopo che era stato ucciso e fatto a pezzi dai senatori, raccontano Cicerone e Plutarco. Mentre saliva in cielo, ricoperto di armi scintillanti, gli aveva rivelato la sua natura divina e ordinato di costruire lì il suo tempio.
Dio della guerra terminata
Ovviamente il dio Quirino esisteva già prima di Romolo: era il dio delle curie, l’insieme degli abitanti dei sette colli originari, una federazione di rioni libera e priva di re che prima della fondazione di Romolo si chiamava Septimontium.
Quirino proteggeva i Quiriti, gli abitanti pacifici colti nell’atto di riunirsi nell’assemblea popolare, il comitium: specificamente i cittadini e non i guerrieri. Il dio del Quirinale aveva qualcosa di Giano, il dio primordiale del Gianicolo. Ma era, nella definizione di Andrea Carandini, «un Giano tribale aggiornato in senso curiale-quiritario», era «il dio della collettività». Era anche un dio della guerra, ma in un senso speciale: non il signore della guerra in atto, come Marte, ma di quella terminata, come indica la cadenza invernale della sua festa, i Quirinalia, poiché la guerra seguiva il ciclo della natura e onorare un dio armato nella stagione più breve dell’anno voleva dire onorare la fine della guerra.
I due mirti sacri
«Te o padre Quirino venero e Hora di Quirino» recitava un’antica preghiera tramandata da Ennio, che implorava il dio della guerra (e la moglie Hora) di fare la pace. «Santo Quirino» lo chiamava, invocandolo, Marziale. Le sembianze della sua statua, venerata nel sacellum del Quirinale, sono riprodotte in una moneta romana del 56 a.C., un denario di Caio Memmio: il dio cinto di fronde ha i capelli fluenti sul collo, una lunga barba e grandi occhi sgranati.
Con la creazione del culto di Quirino si compì sul Collis Quirinalis il mistero di fondazione della teologia politica romana. Racconta Plinio nella Storia naturale che il suo tempio, votato e consacrato alla fine del IV a.C., ai tempi della seconda guerra sannitica, da Lucio Papinio Cursore padre e figlio, era ombreggiato da un bosco sacro, un lucus, in cui crescevano due mirti sacri, uno chiamato patrizio, l’altro plebeo, che verdeggiavano a turno, a seconda che l’autorità del senato crescesse oppure si affievolisse e «la sua grandezza decadesse in senilità marcescente».
Racconta Livio che il senato di Roma talvolta si riuniva proprio lì. C’era un rapporto speciale di Quirino e del Quirinale con l’assemblea dei senatori che avevano smembrato il primo re di Roma per evitare che accentrasse su di sé il potere. «L’uccisione di Romolo è la premessa perché gli aristocratici sopportino la monarchia», hanno scritto gli storici.
La maledizione di Cicerone
Quello che ancora oggi chiamiamo «il colle più alto» in realtà non lo è né lo è mai stato: lo hanno confermato le indagini geologiche e le prospezioni al georadar durante la recente campagna di ricerca di Andrea Carandini. Ma aveva nell’antico Septimontium un’indiscussa eminenza simbolica che avrebbe conservato per tutta la storia della città. Che un fulmine colpisse il tempio di Quirino, come riferito da Livio, era il più funesto dei presagi. Narra Cassio Dione che durante la guerra civile romana, nel 49 a.C., mentre lupi e gufi vagavano funesti per la città, un incendio lo incenerì. Fu allora che Cesare, durante la sua ricostruzione, sembrò trasfondersi nella figura bifronte, sacrificale e divina, che vi si venerava: prima in Romolo e poi in Quirino.
Sul Quirinale c’era la casa di Tito Pomponio Attico, l’amico e sponsor di Cicerone, che veniva chiamata la «Tanfiliana» e gli era stata lasciata in eredità da uno zio, più raffinata che lussuosa, come racconta Cornelio Nepote, e con un meraviglioso parco. Nella primavera del 45 Cicerone scrisse ad Attico tre lettere in cui commentava in modo apparentemente sibillino, in realtà crudo e sprezzante, la piega che stava prendendo l’autocelebrazione di Cesare. La sua statua quell’anno, dopo la vittoria di Munda, era stata dedicata nel tempio di Quirino, mentre una serie di cerimonie lo accostano ritualmente a Romolo in quanto rifondatore della città. Cicerone scriveva di augurare a Cesare l’influsso di Quirino, ossia di fare la fine di Romolo, piuttosto che quello della dea Salute, cui era dedicato il tempio contiguo. Un auspicio che prenderanno quasi alla lettera i congiurati alle idi di marzo dell’anno dopo, creando involontariamente il presupposto della monarchia di Augusto.
Un sovrano disinnescato
Cos’è allora Quirino, cos’è il Quirinale? Quirino è Romolo ucciso, è il potere personale monarchico soppresso, smembrato e redistribuito nell’assemblea politica. Sul Quirinale il corpo del re morto si trasforma e moltiplica nella collettività e solo così può essere venerato. Solo un re in effigie può regnare, un re disinnescato e sublimato. Quirino è, in seguito, l’ombra di Cesare ucciso. Solo una volta sacrificato il dittatore può trasformarsi in dio della guerra terminata e proteggere la città-Stato, poi l’impero, dal suo sacello. Ogni sovrano che successivamente presidierà quel «colle più alto», quel culmine sacrale della Roma caput mundi, esposto ai presagi degli uccelli e alle folgori di Giove, sarà a sua volta l’ombra di un re che solo se ucciso può rendere la sua monarchia accettabile.
Nel sottosuolo dei giardini del Quirinale si trovano ancora le fondamenta del tempio colossale, largo quanto il Foro di Cesare. Sul rilievo del frontone Romolo e Remo, inabissati sotto il Giardino all’inglese o altrove nell’ex lucus ora presidiato dai corazzieri, siedono a ricevere gli auspici ex avibus, e gli uccelli danno i loro segni, fortunati per l’uno, sfortunati per l’altro. Mentre le votazioni per il Presidente della Repubblica si preparano, i due gemelli allevati dalla lupa continuano a presiedere, nello spazio più oscuro del colle sacro, agli augùri e ai malauguri, ai voti e agli auspici del comitium che esprime ancora oggi il suo più simbolico rappresentante politico nel simulacro sacrificale di un non-re.

Corriere 29.1.15
Devi fidarti della percezione se vuoi davvero capire te stesso
Il saggio del filosofo Lambert Wiesing edito da Marinotti sulla fenomenologia della visione
Il rapporto tra l’io e il mondo viene prima dei meccanismi di comprensione e interpretazione
di Gillo Dorfles


L’interpretazione dei modi del cogliere la realtà, in tutte le fasi del loro sviluppo,
costituisce un’illuminazione folgorante del nostro rapporto con l’universo

Se tutto il nostro modo di essere al mondo e di comunicare col prossimo è legato indissolubilmente al nostro modo di percepire, ciò non toglie che la qualità dei nostri percetti rimane quasi sempre oscura e comunque ambigua. Se non disponessimo degli occhi, delle orecchie, del tatto, non ci sarebbe possibile avere coscienza della nostra stessa esistenza, né di quella degli esseri che ci circondano; ma l’esatta entità dei nostri percetti è molto spesso incerta e persino incomprensibile; ed è per questo che soltanto uno studio approfondito dei meccanismi percettivi ci permette di renderci conto della facoltà delle nostre possibilità conoscitive e dei nostri rapporti col prossimo. Quello tuttavia che è fondamentale nel processo della percezione è soprattutto il fatto di esserne coscienti e di renderci conto fino a che punto possiamo «fidarci della stessa». Giacché è proprio questo elemento della capacità conoscitiva dell’uomo, che continua a essere alla base di ogni constatazione della sua stessa personalità.
Ecco allora come lo studio della percezione, in tutte le fasi della loro presenza, costituisce una folgorante illuminazione del nostro modo di essere nel mondo. È ovvio che buona parte di uno studio della percezione sarà rivolto alla constatazione della autonomia della stessa; ma è solo in un secondo tempo che appare chiaro quello della trasformazione di un semplice dato sensoriale in una immagine cosciente e trasmettibile al prossimo. Quello che rimane il punto dolente della percezione, a prescindere da ogni sottile discorso «fisiopsicologico» sulla strutturazione dei nostri organi di senso, è l’effettiva entità dell’elemento trasmettitivo al prossimo della nostra percezione e di quella di tutte le altre persone.
Il problema della percezione mi ha sempre affascinato e non è un caso, se negli anni Cinquanta, ebbi la buona volontà di tradurre il grosso trattato di Rudolf Arnheim ( Art and Visual Perception ) che venne a costituire una vera e propria bibbia della percezione, per tutti coloro che ne erano alla ricerca; per molti anni, rappresentò il manuale più completo per comprendere i meccanismi percettivi, non solo riguardo all’Arte, ma in genere al mondo che ci circonda. Questa capacità percettiva sottostà a dei meccanismi che molto spesso vengono ignorati o trascurati.
Uno studio molto accurato e sottile dei problemi percettivi viene oggi a perfezionare le nostre conoscenze su questo fondamentale quesito: Il Me della percezione. Un’autopsia (Christian Marinotti edizioni) di Lambert Wiesing, professore dell’Università di Jena che ha compiuto un’analisi illuminata sui problemi fondamentali della nostra percezione, prendendo in considerazione i vari aspetti della stessa, soprattutto dal punto di vista soggettivo e fenomenologico. Lo stesso non ha trascurato il problema delle diverse forme percettive, come quella iconica ad esempio, soprattutto analizzando le condizioni della possibilità e della conseguenza del rapporto tra noi e la realtà che ci circonda.
A questo proposito, la fenomenologia dell’autocoscienza diventa un elemento fondante per comprendere fino a che punto la percezione costituisca la base della nostra coscienza e della nostra possibilità di trasmetterne al prossimo l’esistenza. È ovvio che buona parte di uno studio della percezione sarà rivolto all’analisi dei nostri organi di senso da un punto di vista fisiologico per la comprensione dei meccanismi che ne sono alla base. Ma una volta assolta la fase elementare della percezione, tutto quanto riguarda il meccanismo auto rappresentativo e fenomenologico delle nostre immagini sensoriali, non potrà che essere devoluto allo studio accurato del percetto. Tuttavia, quello che rimane il punto fondamentale della percezione, a prescindere da ogni sottile disquisizione sensoriale e immaginative, è quello di fare un taglio netto tra il semplice atto sensoriale, legato al relativo organo di senso, e la sovrapposizione e sopracostruzione immaginifica dovuta alla nostra sensorialità e alla nostra facoltà imaginativa.
Nel suo trattato, Lambert Wiesing fa un’ampia escursione sulle varie tappe del fenomeno percettivo, tenendo conto soprattutto dell’interpretazionismo come elemento fondamentale della percezione umana, che permette di accrescere il semplice fatto sensoriale con un elemento sovrastrutturale che aggiunge e spesso trasforma radicalmente quello che era la primitiva immagine sensoriale.
Per questo possiamo affermare che la corporeità del percipiente costituisce una conseguenza della stessa percezione e che quindi lo stesso fattore può trasformarsi a seconda della corporeità del singolo soggetto. In definitiva, potremmo concludere con le parole dell’autore, affermando che «la percezione ci costringe a essere coscienti della sua presenza in un mondo la cui esistenza non è frutto della nostra immaginazione, ma di una effettiva presa di coscienza dovuta all’elemento rappresentativo».

Corriere 29.1.15
Analogie tra le due guerre mondiali del Novecento
«Nuova guerra dei trent’anni»
Uno slogan che fa torto alla storia
di Giuseppe Galasso


«Nuova guerra dei trent’anni»: la formula facile e semplificatrice con la quale si assimilano alla guerra del 1618-48 le due guerre mondiali del Novecento porta in sé il peccato originale di tutte le analoghe formule, che sembrano illuminare il panorama storico con un drastico spot (come quella del Novecento quale «secolo breve») che fa torto insieme alla storia, perché i secoli non configurano nessuna categoria interpretativa, e al Novecento, che, con la stessa logica, può essere ritenuto lungo o lunghissimo.
Intanto, un paragone fra le vicende belliche del Seicento e del Novecento non regge neppure sul piano fattuale. Quelli del Seicento furono trent’anni di guerra davvero continua, specialmente in Germania, che ne uscì devastata. Nel Novecento, invece, fra il 1918 e il 1939, chiuse le guerre fra Polonia e Russia e fra greci e turchi del 1920-21, non ve ne furono altre in Europa, tranne la guerra civile spagnola del 1936-39.
Più dei fatti conta, tuttavia, il loro significato storico-politico, ma neppure per questo pare possibile parlare per il Novecento di una nuova guerra dei trent’anni. Un motivo unificante, ben maggiore di tutti gli altri, vi fu pure nel Seicento, e fu la contesa tra Francia e Spagna per l’egemonia in Europa. Il motivo unificante delle due guerre del Novecento fu, a sua volta, l’«assalto al potere mondiale» della Germania, prima imperiale e poi nazista, e anche in questo caso gli altri motivi di guerra nell’Europa del tempo appaiono secondari. Ciò premesso, il parallelismo però cessa.
Le due guerre del Novecento ebbero, infatti, connotati profondamente diversi tra loro. Nel Seicento la guerra fu tutta europea. In nessun caso la posizione dell’Europa nel mondo era messa in causa. La lotta fra cattolici e protestanti era, in fondo, una contesa tra fratelli, ciascuno dei quali pretendeva di essere l’erede legittimo, l’autentico titolare dello stesso patrimonio di fede e di dottrina. Non fu così nel Novecento.
Certo, la Seconda guerra mondiale cominciò nel 1939 come una nuova guerra europea, ma nel 1941, con la partecipazione degli Stati Uniti e del Giappone, prese tutto un altro avvio e si trasformò in una guerra effettivamente mondiale, dalla quale fu ben presto chiaro che la posizione dell’Europa nel mondo sarebbe stata radicalmente cambiata. Neppure la Gran Bretagna, determinante per l’esito della guerra, resistette al declassamento europeo che ne conseguì, mentre l’altra potenza europea vittoriosa, l’Unione Sovietica, ne uscì come potenza mondiale ben più che europea. Fra il carattere mondiale della guerra del 1914-18 e quello della guerra 1939-45 la differenza, sul piano geopolitico e bellico, è tale che, al confronto, la prima guerra quasi non pare aver diritto al titolo di mondiale.
Si aggiunga, a ciò, l’elemento ideologico. Anche nella prima guerra lo si vede in campo, ma nella seconda lo si vede ingigantito e radicalizzato, con ben altra influenza sul corso delle ostilità, e, per giunta, con un’estensione tale da riuscire discriminante nella politica mondiale fin quasi alla fine del Novecento. Né ciò può sorprendere in alcun modo. Tra il 1918 e il 1939 vi era stato l’esplosivo dilagare del totalitarismo, che cambiò nel profondo sia il volto e la struttura politica europea che la natura dei conflitti a cui diede luogo. Li trasformò, infatti, in gran parte in guerre civili, combattute o latenti, che nel caso del comunismo si convertirono apertamente in guerre sociali, condizionandone fortemente gli svolgimenti e gli esiti.
Due guerre diverse, dunque, per significato storico e per la portata delle loro conseguenze, ben più di quanto il riferimento alla secentesca «guerra dei trent’anni» non faccia supporre o non implichi.

Corriere 29.1.15
Quando la fede dei sudditi era quella del sovrano
risponde Sergio Romano


Nel diluvio di parole profuse sull’attentato a Charlie Hebdo mi sarei aspettato di trovare un riferimento (o addirittura una proposta in tal senso, da parte di qualche politico nostrano) al principio «cuius regio eius religio» sancito nella pace di Augusta a proposito dei rapporti fra cattolici e riformati. Questo principio era stato applicato «ante litteram» dai reali di Spagna dopo la reconquista: musulmani ed ebrei o si convertivano al cattolicesimo o lasciavano la Spagna. Molti ebrei trovarono rifugio presso la Sublime Porta (ancora oggi a Istanbul non mancano i cognomi ebraici) e nel Maghreb dove in alcune città esiste un quartiere ebraico.
Gualtiero De Monti

Caro De Monti,
Qualche chiarimento anzitutto sul significato di quel principio e sul contesto storico in cui venne adottato. La Pace d’Augusta fu conclusa nel 1555 tra l’imperatore Carlo V e i principi tedeschi dopo tre decenni durante i quali l’intera area germanica era stata sconvolta da guerre civili fra cattolici e luterani. Per mettere fine al conflitto fu deciso che la religione di uno Stato sarebbe stata quella del suo sovrano («di chi è la regione, di lui sia la religione»). La formula ci sembrerebbe oggi autoritaria e illiberale, ma aveva allora alcuni meriti. Riconosceva politicamente il movimento protestante. Ammetteva l’esistenza di Stati protestanti nell’ambito del Sacro Romano Impero. Spegneva il dissenso all’interno dei singoli Stati, ma lasciava ai singoli credenti la possibilità di trasferirsi là dove il loro culto sarebbe stato ufficialmente riconosciuto.
Una maggiore tolleranza, in quell’epoca, sarebbe stata difficilmente immaginabile. I sovrani regnavano «per grazia di Dio» ed erano tutti, anche quando non avevano formalmente quel titolo, «difensori della fede». Poteva un sovrano cattolico, in quelle circostanze, contare sulla lealtà dei suoi sudditi protestanti? Poteva un sovrano protestante essere certo che i suoi sudditi cattolici non avrebbero preso partito per il Papa ogniqualvolta la Chiesa Romana avesse cercato di imporre le proprie strategie? Conviene ricordare, caro De Monti, che la Chiesa, allora, non era soltanto la custode di una verità rivelata. Era anche, a tutti gli effetti, una potenza europea. La diffidenza per i papisti di Enrico VIII e di Elisabetta d’Inghilterra o quella della monarchia francese per gli ugonotti non erano, nel clima politico europeo del Cinquecento, prive di qualche fondamento.
Il caso della Spagna è in parte diverso. Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia avevano creato, in nome della cristianità, uno Stato nuovo in cui vivevano due consistenti minoranze religiose. La conversione al cattolicesimo, in quelle circostanze, era la manifestazione di lealtà che i sovrani chiedevano ai loro nuovi sudditi. Ma l’espulsione avrebbe provocato uno sradicamento molto più drammatico di quello delle popolazioni tedesche che, dopo la pace di Augusta, si sarebbero trasferite da un luogo all’altro dello stesso mondo germanico.
È certamente vero che molti ebrei spagnoli trovarono accoglienza nell’Impero Ottomano. Ma non sarebbe giusto dimenticare che altri trovarono riparo nei Paesi Bassi e nella Repubblica di Venezia dove, fra le sinagoghe del ghetto, esiste ancora una Schola Spagnola.

Corriere 29.1.15
Hitchcock, i campi di sterminio e l’orrore che lascia senza parole
di Aldo Grasso


Non mi era mai successo di faticare così tanto a trovare le parole per descrivere cosa ho visto. Termini come orrore, abisso, inferno non riescono a rendere lo smarrimento che si prova nel vedere Memory of the Camps , il documentario sui lager nazisti cui ha collaborato anche Alfred Hitchcock. Forse è una delle più grandi testimonianze visive dell’aggressione dei nazisti contro gli ebrei, dell’uomo contro se stesso, un’attestazione dello sprofondare delle cose, del fuoco che le suscita e di quello che le divora (Rete 4, martedì, ore 23.15).
Nel 1945 Alfred Hitchcock venne chiamato dall’amico Sidney Bernstein per visionare e ottimizzare la postproduzione del materiale girato dagli operatori sovietici e dalla British Army Film Unit nei lager di Auschwitz, Dachau e soprattutto nel campo di concentramento di Bergen-Belsen aperti dopo la liberazione. Il suo ruolo tecnico era quello di Treatment Advisor. Il contenuto dei filmati fu così scioccante da costringere Hitchcock ad allontanarsi dal progetto e dai Pinewood Studios per una settimana. Così almeno si racconta.
Nell’immediato dopoguerra gli alleati decisero di non proiettare Memory of the Camps per facilitare il ritorno alla normalità: l’atrocità della detenzione, i corpi scheletrici, i superstiti che vagano inebetiti per il campo in cerca di una mano amica, i morti accatastati, la dismisura del male sarebbero stati insopportabili, un ostacolo alla riconciliazione. Cinque delle sei pellicole sono state quindi dimenticate negli archivi dell’Imperial War Museum di Londra. Nel 1980, il filmato è stato scoperto in un contenitore arrugginito da un ricercatore americano e poi trasmesso nella sua versione grezza e incompleta al Festival di Berlino nel 1984, senza la sesta bobina. Memory of the Camps è il luogo incancellabile dove ci porta l’itinerario dell’odio, è la memoria dei giorni che ci trasciniamo dietro, il ricordo delle grandi convulsioni della storia che non finiscono mai.