venerdì 30 gennaio 2015

il Fatto 30.1.15
Il giurista Stefano Rodotà
“La sinistra non rinasce intorno al Quirinale”
intervista di Salvatore Cannavò


La scelta di Mattarella è una buona scelta, si tratta di una persona rigorosa. Renzi è stato abile, ma questo non cambia la natura dei problemi a sinistra”. È netto quanto pacato Stefano Rodotà, in questo commento a caldo sulla partita presidenziale. Ma l’intervista serve soprattutto a fare il punto sulle prospettive della sinistra italiana dopo la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia.
Matteo Renzi lancia la candidatura di Sergio Mattarella.
Ne do una valutazione molto positiva. L’ho visto all’opera in Parlamento e devo testimoniarne l’estremo rigore.
Come mai Renzi si è mosso in questo modo?
Mi sembra abbia cercato di evitare la decomposizione del suo partito. Non può permettersi di sfaldarlo. Mattarella, inoltre, gli consente di intercettare un’area più ampia esterna al Pd.
L’operazione modifica i termini del confronto a sinistra e il modo in cui si riorganizzerà?
Il successo di Renzi, se si verificherà, non cambia il segno delle sue politiche. Sulle questioni sociali non ci saranno modifiche rilevanti.
Perché?
C’è stato un passaggio non trascurabile negli ultimi mesi: lo scontro tra Renzi e il sindacato. L’atteggiamento del ‘ce ne faremo una ragione’, irridente e sbrigativo, pone la questione dei ‘corpi intermedi’ e quindi della democrazia. L’assenza di opposizione politica è stata surrogata dall’opposizione sociale.
La sinistra, dopo la vittoria di Tsipras, cosa deve fare?
La centralità è sociale. Senza sottovalutare il rapporto con le istituzioni. È ancora d’attualità il tema dell’‘altra politica’, di cui c’è un gran bisogno. Il successo di Tsipras dice che la pratica sociale è decisiva per costruire una politica di sinistra improntata alla solidarietà, ai diritti, in grado di collegare grandi temi di dibattito con le pratiche più concrete.
Lei ha definito “zavorre” i partiti e partitini della sinistra.
Non mi attraggono gli annusa-menti, gli aggiustamenti, i negoziati di piccole forze politiche e penso che serva un cambio di passo radicale. Non si può costruire una forza politica traghettando quel che resta del Prc, di Sel, della lista Tsipras. Tutti devono rimettersi in gioco attraverso le pratiche sociali.
È questa la proposta della coalizione sociale?
Come diceva ieri Maurizio Landini, non so se la parola ‘coalizione’ sia la più adeguata. Ma l'aggettivo è quello giusto. Penso a diverse soggettività che si muovono già su temi definiti. Ad esempio il reddito minimo o di cittadinanza, con la Basic Income Network, i comitati per i beni comuni, il lavoro fatto da molti sindaci sui beni di proprietà comunale. Penso alla giunta Pizzarotti a Parma. E poi occorre recuperare il tema dell’acqua pubblica, dopo il referendum vinto, e le leggi di iniziativa popolare, come quella per abolire l’articolo 81 della Costituzione, la campagna Miseria ladra promossa da Libera, Emergency, il sindacato. Tutti questi soggetti possono stare in ‘rete’ attraverso punti convergenti.
Sel ha proposto un “coordinamento delle sinistre”.
La proposta di coordinamenti con la ‘doppia tessera’ non mi convince per nulla.
Cofferati può essere compreso in questo disegno?
Nel caso di Cofferati io vedo fatti nuovi interessanti che rimettono in discussione equilibri consolidati. Dobbiamo costruire uno spazio, anche organizzativo, in cui chi vuole lasciare le gabbie di appartenenza possa farlo liberamente.
Tempi e proposte per il futuro?
In tempi brevi serve un’iniziativa pubblica comune in cui tutti questi soggetti si mettano insieme. Con iniziative ma anche strumenti organizzativi. Non si può delegare a chi c’è già, serve costruire qualcosa di nuovo.
È una strada percorribile anche dal M5S?
Sì, senza l’assillo di dover per forza fare una proposta anche a loro. Definiamo terreni e pratiche di iniziativa, senza lanciare sfide. Sul reddito minimo, don Luigi Ciotti ha incontrato Beppe Grillo, vediamo cosa succederà. Dovremo creare piattaforme civiche interattive sapendo utilizzare la “rete” in maniera partecipativa e non autoritaria. E superare costruzioni artificiose e create a tavolino. Non hanno mai funzionato.

il Fatto 30.1.15
Vendola, tra Tsipras e la Castellina

Il leader di Sel Nichi Vendola è andato ieri a Palazzo Chigi per incontrare il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio. Sull’agenda ufficiale c’era la questione dei fondi strutturali per la Puglia di cui, ancora per qualche mese, Vendola è ancora governatore. Sullo sfondo l’elezione del capo dello Stato: “Mattarella rompe il patto del Nazareno”, dice Vendola. Quindi l’ex magistrato avrà i voti di Sel, quando saranno decisivi dalla quarta votazione. Ma intanto i vendoliani votano Luciana Castellina: la storica giornalista del manifesto nei giorni scorsi era ad Atene con la “brigata kalimera” dei supporter italiani di Syriza. È stata anche gratificata dalla partecipazione a un aperitivo con Tsipras, il nuovo riferimento di Vendola. Dopo il Quirinale continuerà la ricerca dello “Tsipras italiano”. Che sicuramente non sarà Vendola.

il Fatto 30.1.15
Il Nazareno
Prima dei patti viene la dignità
di Maurizio Viroli


Credo che non sia scritto in alcuna dichiarazione, ma per me è il più importante fra i diritti. Parlo del diritto alla dignità, quel sentimento interiore di piccola stima nei confronti di noi stessi per quel che abbiamo fatto e facciamo, e per quel che siamo. Proprio perché sentimento interiore che emerge dal dialogo con la nostra coscienza e non dall’opinione degli altri, e ancora meno dal riconoscimento delle Costituzioni e delle leggi, nessuno, tranne noi stessi, può toglierci la dignità. Ma è vero anche che ciascuno di noi porta con sé nel mondo il dato di essere italiano o italiana. Essere italiani oggi vuol dire essere sottoposti alle decisioni prese da un delinquente cacciato dal Parlamento in combutta con un giovanotto che asseconda il suo desiderio di continuare a essere arbitro della politica italiana, con l’avallo di una pletora di servi dell’uno e dell’altro incapaci di dire semplicemente “No!, le indecenze dei vostri incontri segreti non mi riguardano, il mio solo commento è il disprezzo”. La dignità, ecco quello che ci ha tolto e ci toglie il patto fra Berlusconi e Renzi. Con quel loro accordo ci hanno detto e dicono ogni giorno, con il sorriso sprezzante di chi sa di poter fare ciò che vuole, che l’onestà, la rettitudine, la lealtà alla Repubblica non valgono assolutamente nulla. Conta essere evasori fiscali, sodali di corruttori di giudici, sostenitori di collusi con la mafia. Queste sono le persone con le quali si può eleggere il capo dello Stato, suprema magistratura di garanzia, riformare la legge elettorale, riscrivere la Costituzione. Se sei una persona onesta e credi nella libertà repubblicana, nell’Italia di Renzi e di Berlusconi vali meno di niente. Ti deridono. Coprono le loro ripugnanti azioni con argomenti ispirati ai triti luoghi comuni della necessità politica. “Ci vuole una legge elettorale che assicuri solidi governi mediante generosi premi di maggioranza”; “bisogna abolire il Senato elettivo per semplificare e accelerare il processo legislativo”, gridano a gran voce. Sono balle che non troverebbero ascolto in nessun consesso civile. La prova più eloquente che non c’è alcun bisogno di togliere di mezzo il Senato per legiferare è il fatto stesso che questo governo legifera, eccome. Delle due l’una: o Renzi mente quando sbandiera che il suo governo ha “fatto” tante leggi; o mente quando proclama che con l’attuale Costituzione è praticamente impossibile legiferare. In termini di filosofia politica, quella che mi onoro di insegnare da trent’anni fuori d’Italia, ovviamente, il comportamento di Renzi e dei suoi si fonda sul presupposto di poter ingannare i cittadini a suo piacere. Tanto non la capiscono. O fanno finta di non capire?
SONO DUNQUE due i motivi per i quali ci dobbiamo vergognare: essere di fatto governati da un delinquente assecondato da un giovinotto, essere trattati come deficienti. Quel che più avvilisce e indigna è che nessuno compie un passo deciso per uscire dalla palude, formare un partito di dignità repubblicana e civile, alzare una bandiera. Cosa aspettate, persone perbene che state a soffrire nel Pd e fate ormai fatica a guardarvi allo specchio perché sapete che non valete nulla e vi trattano da poveri idioti? In politica una delle virtù essenziali è la capacità di cogliere l'occasione. Orbene, l’occasione è adesso. Se aspettate che vada al Quirinale il burattino di Renzi e Berlusconi, e poi disfino la Costituzione, sarà troppo tardi per qualsiasi efficacie azione politica. “Dove eravate?”, vi chiederanno, e vi chiederò, quando Renzi e Berlusconi disfacevano pezzo a pezzo la Repubblica? Non saprete rispondere e sarete finiti una volta per tutte. Perdere una lotta politica non è una tragedia; perdere la dignità sì. Se poi, per miracolo o per un momento di illuminazione di Renzi non andrà al Quirinale un prodotto dell’accordo con Berlusconi, tanto di guadagnato per la Repubblica. Ma in questo caso bisognerebbe chiedere a Renzi perché ha aspettato tanto a rompere con Berlusconi e perché gli ha concesso tanti favori?

Repubblica 30.1.15
Il fantasma dei Fratelli Muratori
Pochi osano nominare pubblicamente la muta presenza minacciosa della massoneria nel torneo del Quirinale
“Le personalità molto importanti fin dai tempi dello scandalo P2 non sono iscritte a logge nazionali, ma a super-logge sovranazionali assai esclusive le Ur-Lodges”
di Alberto Statera


TUTTI ci pensano, ma pochi osano nominare pubblicamente la muta presenza minacciosa della massoneria nel torneo del Quirinale. Il Convitato di pietra, tuttavia, è tradizionalmente vigile e solerte quando si tratta di scegliere le alte cariche dello Stato, figurarsi quando si seleziona la più alta. Ma se chiedi al nuovo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Stefano Bisi, toscano come Matteo Renzi e come il plenipotenziario berlusconiano Denis Verdini, per chi tra i candidati sta lavorando la più grande e importante obbedienza italiana ti senti rispondere che «il GOI non tratta questioni di politica, l’elezione del presidente della Repubblica non rientra tra i compiti del Gran Maestro, che si occupa della gloria del Grande Architetto dell’Universo e in questi giorni di molte installazioni di Maestri Venerabili in ogni parte d’Italia. Ogni parola in più sul Quirinale verrebbe strumentalizzata». Per cui non ce la dice, nonostante il fatto che degli almeno 48 nomi di quirinabili che fin qui si sono fatti (escluso per pudore Giancarlo Magalli), almeno tredici sono considerati in odore di massoneria.
Per la verità, da quando ha contratto il Patto del Nazareno con il piduista Silvio Berlusconi (noto appassionato di simboli esoterici) un certo effluvio insegue lo stesso Matteo Renzi, suo padre Tiziano e alcuni fiduciari del giglio magico fiorentino. Il presidente del Consiglio ha tuttavia garantito: «Non sono massone, la mia è una famiglia di boy scout», ignorando probabilmente che il fondatore britannico dello scoutismo Robert Baden Powell era un autorevole massone. Per carità, non è una prova, come mai furono provati i sospetti di affiliazioni massoniche di precedenti presidenti della Repubblica, come Einaudi, Saragat, Ciampi (che ha smentito con forza il professor Aldo Mola, storico della massoneria) e persino Pertini. Percentuale peraltro eventualmente non solo aleatoria, ma comunque esigua, se è vero quanto andava dicendo Francesco Cossiga: dei 48 presidenti americani solo tre non sono stati massoni e due dei tre sono stati ammazzati.
Già nella sua fase pre-picconatoria, Cossiga rivendicava con fierezza e con chiunque l’appartenenza a una famiglia di massoni e la sua con il grado di “33” a una misteriosa Loggia internazionale. Vedeva massoni dappertutto e si considerava un esperto della materia, come di aggeggi elettronici e spionistici: «Gelli — disse in un’intervista pubblicata nel libro “Fratelli d’Italia” — è stato sostenitore della candidatura di Pertini. Nelle ultime votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica arrivò ai massoni, deputati e senatori, una circolare di Gelli perché votassero Pertini, il quale era circondato di massoni: il suo grande elettore Teardo, socialista, presidente della regione Liguria era piduista».
In effetti, nel discorso di fine d’anno del 1981, il presidente più amato affrontò lo scandalo della P2 rassicurando sulla lealtà delle istituzioni, con queste parole: «Poi si è aggiunta a tutte queste preoccupazioni, italiane e italiani, la questione della P2. Mi si intenda bene, perché non voglio che ancora una volta il mio pensiero sia travisato. Quando io parlo della P2 non intendo coinvolgere la massoneria propriamente detta, con la sua tradizione storica. Per me almeno, una cosa è la massoneria, che non è in discussione, un’altra cosa è la P2, questa P2 che ha turbato, inquinato la nostra vita».
Anche Giorgio Napolitano, figlio dell’avvocato Giovanni che fu un alto grado della massoneria napoletana, ha subìto il venticello. Il 13 giugno 2010 nella trasmissione televisiva “In mezz’ora” Lucia Annunziata chiese se il presidente della Repubblica potesse essere un massone sotto il profilo dei valori all’allora Gran Maestro del Grande Oriente Gustavo Raffi. Il quale rispose appassionatamente: «A mio avviso sì, per umanità, distacco, intelligenza, per avere levigato la pietra, per averla sgrezzata, lo dico in linguaggio muratorio, in questo senso sì». Anche per Ciampi, in un’altra occasione, usò il linguaggio «muratorio»: «Se devo ragionare sotto il profilo del weltanschauung lo considero un fratello», pur smentendo l’appartenenza del presidente al Goi.
Certo, fin dai tempi di re Vittorio Emanuele e di Umberto I, la massoneria, se non al vertice, non è mai mancata nell’alta burocrazia quirinalizia, come in tutte le alte burocrazie più “nobili” dello Stato. Ma è ancora kingmaker presidenziale?
Non vi faremo i nomi degli almeno tredici possibili candidati considerati massoni o amici della massoneria. Sia perché non c’è modo di provarlo, dal momento che, nonostante i numerosi annunci contrari, le liste degli affiliati restano riservate. Sia perché le personalità molto importanti fin dai tempi dello scandalo P2 non sono iscritte a logge nazionali, ma a super-logge sovranazionali assai esclusive dette Ur-Lodges. Almeno così sostiene Gioele Magaldi, scissionista del Grande Oriente che ha fondato il Grande Oriente Democratico e che in un suo monumentale libro ne cita diverse: dalla Three Eyes alla Pan Europe, dalla Edmund Burke alla Leviathan e alla Thomas Paine. Se uno aspira al Quirinale, insomma, non milita nelle rissose loggette italiane, ma naviga nel vasto mondo di potenti planetari, dove le relazioni sono alte e la riservatezza blindata.
La tesi di Rino Formica, ex ministro socialista che di elezioni presidenziali ne ha viste tante, è che in realtà l’unica elezione al Quirinale condizionata effettivamente dalla massoneria italiana fu quella del paglietta napoletano Giovanni Leone, perché fu messo a disposizione della risicata maggioranza un piccolo ed essenziale pacchetto di voti di parlamentari massoni, su richiesta di Ugo La Malfa per sbarrare la strada a Pietro Nenni. Lucidissimo e ironico a 84 anni, Formica sghignazza sul fatto che le massonerie italiane sono ormai fatte di «quattro sfessati». Secondo lui, «di fronte ai nuovi intrecci dei grandi poteri occulti, in Italia c’è stata una proliferazione di pseudo-massonerie dai comportamenti deviati, che hanno trasferito il metodo massonico in consorterie di potere e affari. Ciò che prima era incardinato in un mondo esoterico, politico alto, civile e riservato, ora dà luogo a una totale confusione tra metodo massonico e istituzioni. In fondo, è il metodo di Renzi, che, se lo lasciamo fare metterà al Quirinale un vigile urbano », dopo aver trattato per mesi la prima poltrona della Repubblica con il piduista pregiudicato Berlusconi e il suo attendente pluri-inquisito Verdini.
Niente di nuovo in fondo, se all’inizio del 1900 Ernesto Nathan, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia e sindaco di Roma diceva di molti suoi fratelli in massoneria: «Più che del bene altrui troppi ve ne sono preoccupati dei vantaggi che la loro qualità può portare; nella vita politica essi hanno recato un elemento dissolutore: il reciproco appoggio per fini disinteressati ha finito per diventare mutua assistenza per interessi che giova far prevalere».

La Stampa 30.1.15
La scommessa di Renzi balla su venti voti di scarto
Punta tutto su Mattarella scaricando Forza Italia. L’assenso di Bersani
di Carlo Bertini


La scommessa è forte: i numeri per eleggere Sergio Mattarella alla quarta votazione ci sono ma la misura per superare la fatidica soglia di 505 voti è stretta, una ventina di sì in più al netto della quota «fisiologica» di franchi tiratori messa in conto. Nella war room del premier si fanno i conti, l’adrenalina per una mossa politica fin qui vincente è palpabile, c’è chi è convinto del soccorso azzurro sottobanco di una ventina di dissidenti, ma c’è chi si preoccupa più di altri.
Si gioca sul filo di un’operazione che ricalca «il Napolitano uno», spiega Renzi, quell’elezione del 2006 in cui il capo dello Stato fu eletto senza Forza Italia. Il premier, pur disposto a tendere una mano, non confida troppo in una retromarcia di Berlusconi: non dispera di tener in piedi il patto del Nazareno ma si interroga su quale sia piuttosto il vero disegno di Angelino Alfano.
Minacce e blandizie
Con Berlusconi ogni strada viene battuta, il primo segnale minaccioso assai è compiuto alle sette del mattino, quando Raffaele Cantone, il magistrato anti-corruzione varca la soglia di Palazzo Chigi e quell’incontro con il premier viene fatto filtrare sapientemente alle agenzie. Il segnale è che se non passerà Mattarella, sarà quello e non altro il punto di arrivo. «Non c’è Casini che tenga, se lo tolgano dalla testa». Gli ambasciatori fanno di tutto, ad un certo punto sembra che l’ex Cavaliere possa ammorbidirsi, ma i segnali che arrivano da Letta e Verdini non sono positivi. Anche l’incontro a tu per tu tra Renzi e Berlusconi che tutti si attendono e che addirittura potrebbe sbloccare un voto al primo colpo come fu con Cossiga o Ciampi non si tiene. Insomma vicolo cieco che magari si riaprirà con un segnale, qualcuno ipotizza un appello pubblico da parte di Renzi. «Ci sono le condizioni perché Berlusconi possa rientrare e certo si può tendergli una mano», dice uno dei tre del cerchio stretto, il fiorentino Francesco Bonifazi.
Il sospetto su Angelino
Ma quel che colpisce è che i più duri siano gli alfaniani, come se Angelino volesse intestarsi la leadership di un muro contro muro dagli esiti poco prevedibili pure sugli equilibri di governo. In serata chi vive gomito a gomito con Renzi a Palazzo Chigi scuote il capo. «No, Berlusconi non ci ripensa e i numeri sono scarsini, speriamo bene. Patto del Nazareno infranto? Vediamo, certo da lunedì se tutto va bene ci sarà un altro presidente, si apre un’altra fase». E se va male con Mattarella, dopo la sesta o settima votazione si passerà ad un altro schema, che comprende appunto nomi come Grasso o Cantone, ma non altri. Ma l’interrogativo che dalla mattina non trova risposta nelle menti di tutto lo stato maggiore è quale sia il rendiconto politico di Alfano. «Perché ha riunito Berlusconi e tutto lo stato maggiore di Forza Italia? Come se si stesse intestando lui il fronte anti-Mattarella. A che scopo?», si chiedono a Palazzo Chigi.
Come blindare il Pd
Renzi ha già il quadro chiaro quando arriva dunque al centro congressi dietro via Margutta all’ora di pranzo determinato a giocarsi la partita a modo suo. Sa che sulla carta i numeri sono così delineati: 445 voti del Pd, 34 di sel, 32 di Scelta Civica, 13 di centristi, 32 delle autonomie e 15 di Gal, più una decina di ex grillini, in totale 581 voti. Tenendo conto del 10 per cento fisiologico di franchi tiratori si arriverebbe a 520, solo 15 in più del necessario. Ha già parlato con tutti, da Vendola ai capi-corrente del suo partito, che deve a tutti i costi blindare. E compie quello che a detta dei suoi detrattori «è un capolavoro di bravura», un discorso che mette a tacere le speranze di chi poteva illudersi di sostenere la corsa di altri cavalli e che racconta al meglio i contorni politici di questa candidatura. L’obiettivo di tenere unito il Pd, placare le ansie di chi temeva un Presidente troppo filo renziano, è raggiunto con «una candidatura autorevole di un uomo con la schiena dritta, capace di dire dei no anche a quelli che lo hanno indicato. Un arbitro e non un giocatore», così la presenta Renzi ai grandi elettori: che si spellano le mani con maggior o minor enfasi al sentir pronunciare quel nome. Bersani annuisce convinto di aver sponsorizzato «un fior di galantuomo che si dimostrerà autonomo».
Lacrime di gioia degli ex Dc
L’avvertimento che può aprirsi il baratro delle urne suona chiaro quando dice «se falliamo non sarà una normale sconfitta parlamentare, quindi niente giochini». Sfotte gli ex Dc « Mattarella è uno dei pochi che ha avuto il coraggio di dimettersi», che gongolano e si commuovono: la Bindi non trattiene le lacrime quando Renzi ricorda, insieme al profilo che «Sergio è un uomo che ha vissuto anche con dolore personale la stagione delle stragi di mafia. Un uomo della legalità, della battaglia contro le mafie e della politica con la P maiuscola». Quando termina va a complimentarsi e lui le dice «stai tranquilla non dobbiamo votare insieme neanche stavolta perché tanto io non voto».

Corriere 30.1.15
Franchi tiratori: l’incubo resta (due anni dopo)
In Aula tra battute e rime baciate
di Gian Antonio Stella


«Cucù!» Silvio Berlusconi barcolla sorpreso: Matteo Renzi, a quanto pare, gli ha rifilato lo scherzo che lui, anni fa, aveva fatto ad Angela Merkel. Solo che quello, pur esponendo l’allora premier alle ironie di mezzo mondo, era una sorpresa innocua. Questa no. Questo «cucù» può essere letale. Non solo per la battaglia quirinalizia ma per i suoi stessi destini politici. Certo, lui non può ammettere se non a mezza bocca di sentirsi bidonato da quel ragazzo al quale aveva perdonato perfino di aver detto che lui, l’ex Cavaliere, poteva essere suo nonno.
E dunque contiene la collera con quelle parole che un tempo, al debutto in politica contro i «faniguttùn», quando era insofferente ogni sfumatura del politichese, sarebbero state molto più dure: «Non siamo noi a non aver rispettato il patto ma Renzi». E poi: «Questa situazione segna comunque un altolà al patto del Nazareno». Traduzione: adesso salta tutto. Forse. Chissà. Probabilmente. Dipende dal senso di isolamento…
Sia chiaro: la storia delle elezioni del presidente della Repubblica è costellata di tali incidenti di percorso da consigliare estrema cautela nelle previsioni di una facile vittoria mattarelliana. Basti ricordare quanti leader, entrati papi nel conclave parlamentare, sono usciti cardinali. E bastonati, a volte, solo per una manciata di voti. E dopo il tormentone di due anni fa nessuno ha il fegato di dare per già fatta l’elezione di Sergio Mattarella. Resta valida la diagnosi di Carlo Donat-Cattin chiamato a suo tempo da Aldo Moro a bloccare l’elezione di Giovanni Leone: «I mezzi tecnici», rispose, «sono solo tre: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori». Sempre lì. Sullo sfondo .
Solo Wikipedia, nel pomeriggio, per l’incursione di un hacker ferocemente buontempone, dà la cosa per fatta: «Il 29 gennaio 2015 Sergio Mattarella diventa presidente della Repubblica con 679 voti alla prima votazione, raggiungendo la maggioranza qualificata grazie all’appoggio del Partito democratico, di Forza Italia e di Giancarlo Magalli». Man mano che passano le ore, però, l’incubo di una riapparizione di quelli che Bettino Craxi chiamava «una razza di deputati bastardi che affiorano nelle zone paludose del nostro ordinamento parlamentare», sembra (sembra!) sciogliersi nelle manifestazioni di ottimismo, i sorrisi, le pacche sulle spalle, le battute distensive delle diverse anime del Partito democratico e di tutta la costellazione del centrosinistra.
Ignazio La Russa la butta sul ridere: «Ho fatto un tweet: “dal patto del Nazareno siamo passati al patto del menga”». Sottinteso goliardico: intraducibile. Censura. Sfreccia via, ghignando, Maurizio Gasparri. Nella scia di poeti parlamentari come il risorgimentale Giovanni Prati, Gabriele d’Annunzio, Trilussa e Mario Luzi, si è scoperto lui pure una vena artistica e si è messo ad armamentare intorno a rime baciate che libera nell’aere a Un giorno da pecora . Ecco l’ultima: «Tutto è pronto, addobbi e sale / per la sfida Quirinale. / Nazareno, Mattarella, / scegli questo oppure quella. / A dozzin stanno lì fuori / schiere di manovratori / e gli illusi sono tanti / di apparir determinanti. / Poi c’è Sergio Mattarella, / pronto al balzo sulla sella, / ma al momento sono ancor tanti / gli aspiranti e i questuanti».
Al di là della poesiola, il vicepresidente del Senato detta all’Adnkronos parole di fuoco: «Renzi, come in altre occasioni, preferisce l’arroganza. Sarà il difetto che lo porterà nel tempo alla sconfitta». I renziani che leggono il dispaccio ridacchiano: «Nel tempo! Nel tempo!» Per ora, a vedere come i protagonisti di tutte le lancinanti battaglie intestine di questi mesi dentro il Pd su tutte ma proprio tutte le iniziative renziane, gironzolano per il Transatlantico ostentando sorrisi e serenità, pare che la vittoria (fatta la tara alla scaramanzia) l’abbiano davvero già in tasca .
E pare una vittoria di tutti. Gongola Giuseppe Fioroni che tanto invocava sul Colle un inquilino cattolico. Gongola il trentino Lorenzo Dellai, l’ideatore della Margherita, che nel 2001 scatenò la guerra contro «l’amico Sergio» che era stato paracadutato dal partito a farsi eleggere nel collegio sicurissimo sulle montagne dolomitiche: «Non possiamo venire a sapere che uno si candida qui, com’è accaduto, dal Giornale di Sicilia ». Sia chiaro, ammicca oggi, «tra tutti quelli che ci potevano imporre Sergio era il migliore. E dopo aver posto la questione di principio della nostra autonomia non gli facemmo mancare il nostro sostegno». «La raccolta delle firme sì, però», ridacchia Gianclaudio Bressa, «Se non fosse stato per noi che venivano da fuori…». Ma gongola anche lui. Come Stefano Fassina, che pure da mesi è con Renzi ai ferri corti: «Questa volta Matteo ha fatto la mossa giusta. Di unità per tutto il partito». Vuol dire che quando arriverà in aula alla Camera l’Italicum l’opposizione interna sarà un po’ più conciliante e non pretenderà nuove modifiche? «Qualche modifica dovrà essere fatta senz’altro…», ma perché litigare oggi?
Rosario Crocetta, il governatore della Sicilia, sprizza euforia: tre lustri dopo la botta micidiale del sessantun parlamentari a zero incassata dalla destra trionfante berlusconiana, l’isola che si riconosce nel Pd potrebbe ritrovarsi con due palermitani, Mattarella e Grasso, ai vertici dello Stato: «Per noi, se si passa Sergio, è una svolta storica. Lui lo sa, cos’è la mafia. Non ne ha sentito parlare così, genericamente. Suo fratello Piersanti, assassinato da chi non voleva che la Sicilia cambiasse, è morto tra le sue braccia. E bene ha fatto Renzi a ricordarlo». I siciliani, scommette, «lo voteranno tutti. Tutti. Anche i berlusconiani».
Dall’altra parte, sventagliate di battute invelenite. Ecco Daniela Santanchè, che si dice schifata da quello che bolla come un tradimento degli accordi. L’altra pasionaria berlusconiana, Michaela Biancofiore, si è sfogata dicendo di avere «l’impressione sgradevole» che Renzi abbia «deciso che tutto il resto del mondo non gli serva più» e di aver capito che «gli piace fare il furbetto». Lei rincara: «Sono fiera di appartenere ad un movimento politico di uomini che quando danno una parola la mantengono e rispettano i patti. Provo tristezza per chi sta con i quaquaraqua». Augusto Minzolini ride: «Glielo avevo detto, a Berlusconi, che finiva così. Gli avevo detto di puntare su Prodi, per spaccare la sinistra. Oggi mi ha detto: avevi ragione tu. Tardi…». Maurizio Sacconi spiega che no, non si fa così e che lui e i parlamentari del Nuovo centrodestra resteranno fermi e compatti sul no alla candidatura imposta: «Ormai è chiaro che in prospettiva andiamo verso una specie di cancellierato: il capo dello Stato non può sceglierselo l’aspirante cancelliere».
Maria Elena Boschi è convinta invece che no, non è detto che il terzo giorno il centrodestra resterà arroccato sulle posizioni di oggi: «Tre giorni, in politica, possono essere un’era geologica…». E Buttiglione? Che farà, a prescindere dalle decisioni dei suoi amici di partito, l’ex segretario che vent’anni fa spostò un pezzo del Partito popolare a destra? Un ventennio basta e avanza, per fare pace. Ma certo, allora, lo scontro con Sergio Mattarella, convintissimo che andasse confermata la scelta storica della Dc degasperiana del «partito di centro che guarda a sinistra», fu durissimo. Tanto da spingere Mattarella, generalmente così freddo e razionale da guadagnare il nomignolo «On. Metallo», a lanciarsi in quella che viene ricordata come l’unica battuta della sua vita: «El general golpista Roquito Butilione...» .

Repubblica 30.1.15
L’incubo di un bis dei 101
Congiure, bugie e franchi tiratori tutti gli incubi dell’ultima notte
Nell’attesa della votazione di domani mattina, che potrebbe essere decisiva, ciò che Renzi deve temere è che i suoi avversari nel Pd tentino la rivincita, e che Alfano e Berlusconi non cerchino di far saltare il banco
di Concita De Gregorio


PAURA , molta paura. Trenta ore - a contare da adesso - non passano mai. Due notti - a contare da ieri - possono portare nei sonni di mille persone qualsiasi sogno, o di incubo. Se si tratta di eleggere il presidente della Repubblica possono logorare il più degno dei nomi, il più nitido dei disegni. Matteo Renzi avrebbe voluto la quarta votazione stasera, dalle sette a mezzanotte. Subito, si chiuda subito. Gli addetti alla buvette di Montecitorio erano già allertati: turno extra di piadine e supplì, straordinario garantito. Invece no, le sabbie mobili delle procedure che tutto ingoiano e rallentano hanno inflitto all’Uomo dell’Attimo – così lo chiamano, Renzi, in tanti anche fra gli amici: il mago della gestione dell’attimo – la consueta tortura. Bisogna aspettare domani. Sperare che nella notte nessuna idea brillante visiti le menti degli sconfitti, dei forzati, dei presidenti mancati e dei loro sostenitori, dei king maker di sempre al momento rigidi nei sorrisi di circostanza. Bisogna sperare che nessuno “faccia politica” come si faceva una volta, sorride Cirino Pomicino, che non ci siano riunioni notturne di congiurati, che la sinistra Pd non trovi la via della rivincita, che Alfano e gli Ndc si arrendano alla convenienza di restare al governo, che Berlusconi veda infine il tornaconto possibile, magari sul piano del decreto fiscale ancora in ballo e di quel 3 per cento di franchigia per gli evasori che lo metterebbe in salvo. Bisogna che non ci siano franchi tiratori, insomma, capaci da destra da sinistra o dal centro di far perdere a Sergio Mattarella il galantuomo quel che ieri sera aveva in tasca. Il Quirinale. I Cinque stelle ci hanno messo del loro, hanno aiutato. Una possibilità avevano: quella di buttare fra i piedi di Renzi le candidature di Prodi o di Bersani. L’hanno mancata, come di consueto. Imposimato, che richiesto di ritirarsi ha detto no, esclude di nuovo i grillini dalla capacità strategica di scelta politica. Il rischio ora è tutto interno al vecchio/ nuovo sistema dei partiti. I democristiani, i comunisti. I cattocomunisti.
Bisogna rispolverare il lessico novecentesco per un candidato che Giorgia Meloni chiama “giurassico” e che ad un altro esponente del secolo scorso oggi in visita al Palazzo, Paolo Pillitteri ex sindaco socialista di Milano e cognato di Bettino Craxi, strappa un sorriso estatico: «È stupendo vedere come la Terza Repubblica per realizzarsi abbia bisogno della Prima». Battute a josa, nell’acquario dei milleenove grandi elettori vestiti a festa. Al Bano e Romina a Sanremo, Raffaella Carrà in prima serata, Sergio Mattarella al Quirinale e trent’anni in meno, per decreto, per tutti. Sorride Anna Finocchiaro, in smagliante procinto di farne sessanta. «Magari… Ma va bene così. Mattarella è un gran bel nome, tiene insieme il Pd tutto intero. È difficile non votarlo, anche nel centro destra è una sfida per tanti». Per tanti, non per tutti. Pierferdinando Casini, un altro dei presidenti del giorno prima, alla domanda “è una buona idea?” risponde: «È un’idea». Poi aggiunge sornione: «Se capisco qualcosa di politica Mattarella avrà almeno settanta voti in più del necessario. La partita è chiusa». Quindi si volta verso Franco Giordano, parlamentare di Sel: «Cosa ridi tu? Guarda che comunque dovrai votare un democristiano… ». Un democristiano, sì. Un cattolico di sinistra di quelli che fecero e fanno impazzire l’area più conservatrice della destra cattolica: gli eredi di Buttiglione, oggi al governo. Comunione e Liberazione soffre come sotto tortura. Maurizio Lupi, ministro di Renzi, scivola via dai capannelli e lascia che dicano di lui che non si occupa troppo di Quirinale, ha in vista la campagna elettorale per sindaco di Milano. Esultano i siciliani, tutti, con alleanze ed entusiasmi imprevisti. Crocetta fa campagna a destra, Bobo Craxi – a suo tempo eletto a Trapani – ricorda quando il centrosinistra mandò Mattarella a farsi eleggere a Bolzano, lo definisce «il più cattivo tra gli uomini miti», «un non professionista dell’antimafia», «un capolavoro di Renzi». Denis Verdini sfila via scurissimo in volto, il patto del Nazareno osserva un turno di riposo, anche l’ex tesoriere Ds Spo- setti oggi è meno intervistato del solito.
Gli uomini del momento sono altri, la geografia è all’improvviso cambiata: Alfano torna a consigliarsi con Berlusconi, Vendola torna a scambiare fitte opinioni con Renzi. Il presidente del Consiglio, incassata a metà la legge elettorale, promette a Sel che si sta per aprire la “stagione dei diritti”. Volete o non volete stare con noi? Maggioranze variabili, rimpasti di governo possibili. Agli uomini di Sel Renzi ha chiesto di leggere con attenzione le 127 pagine di riforma sulla scuola. «Non abbiate pregiudizi », ha detto. «Noi non abbiamo pre-giudizi, tu non darci un pre-testo », ha risposto Vendola. Che rivendica, comunque, la fine di una fase: «Il Nazareno è finito. Si apre, si può aprire una stagione nuova». La magia di Renzi sarebbe avere una maggioranza per il governo, con Alfano. Una per il presidente della Repubblica, una terza per le prossime riforme – “la stagione dei diritti” – con Sel. Pippo Civati profetizza che alla fine, pur di non rimanere fuori dai giochi, anche Berlusconi voterà Mattarella. Magari senza votarlo, lasciandolo passare come accadde a Napolitano la prima volta. Angelo Sanza, vecchio democristiano, è più prudente e meno ottimista. «Ha fra 560 e 580 voti. Pochi per stare tranquillo».
Molto dipenderà da altri tavoli. Si tratta per il segretario generale, per esempio: Frattini, forse? Nessuno starà tranquillo, stanotte. Girano fotocopie degli articoli dell’intervento di Mattarella contro un concerto di Madonna, anno 1990, con commenti che lo paragonano allo schiaffo (presunto) di Oscar Luigi Scalfaro alla signora scollata. Mattarella come Scalfaro. Per Berlusconi c’è materia per restare insonne. Per un certo Pd pure. Non si sa mai come va a finire, coi miti. Entrano grigi, escono a colori. Una notte ancora. State sereni.

Il Sole 30.1.15
All’appello mancano circa 100 schede bianche
Fumata nera. Sono state 538 invece delle 661 attese
Oggi altre due votazioni sempre con il quorum dei due terzi
di Mariolina Sesto


Roma Come da previsioni, il primo scrutinio per l’elezione del dodicesimo capo dello Stato dà come esito una fumata nera. Il quorum di 673 voti (cioè la maggioranza dei due terzi) non è stata raggiunta da nessun candidato. E a ricevere il numero maggiore di voti è il magistrato campano Ferdinando Imposimato, il candidato dei Cinque Stelle scelto ieri attarverso le quirinarie sul blog di Grillo.
Ma a fare la parte del leone sono state, come da copione visti gli input dei principali partiti, le schede bianche. Ne sono state totalizzate 538. E sono state poche rispetto a quelle attese. Considerando infatti che Pd, Fi e Area popolare avevano dato mandato ai loro grandi elettori di non scrivere alcun nome sulla scheda, le bianche avrebbero dovuto essere 661. Ne sono quindi mancate all’appello 123. Anche tenendo conto di eventuali assenti (su 1009 aventi diritto hanno votato in 975, quindi in 34 non si sono presentati), è lecito pensare che ci siano stati un centinaio di “traditori”. È vero che alla prima votazione e sapendo che non era quella determinante, gli elettori si saranno sentiti un po’ più liberi nel voto ma comunque rimane un elemento sul tavolo. Tra i risultati del primo scrutinio, i nove voti a Prodi, i cinque a Bersani e i due alla Finocchiaro e i cinque a Mattarella potrebbero essere riconducibili al Pd. Civati aveva espressamente annunciato il suo voto per il Professore. E lo stesso vale per gli otto voti totalizzati dal senatore dem Massimo Caleo, ammalato, frutto di una sorta di “dedica” da parte di colleghi a lui vicini.
Altri nomi sono serviti invece come strumento di conte interne ai partiti. Questo lo scopo della candidatura Rodotà che ha ottenuto 23 voti ed è servita a pesare la componente degli ex M5S disponibili a votare per Mattarella alla quarta votazione.
In altri casi, il nome prescelto da un partito ha avuto un successo inaspettato, catalizzando più voti di quelli che aveva sulla carta. Vittorio Feltri, ad esempio, candidato ufficiale di Fdi e Lega poteva contare su 48 voti e ne ha ottenuto uno più; Luciana Castellina, invece, candidata di bandiera di Sel poteva contare su un bacino di 33 voti e ne ha presi 37.
Successo anche per il candidato dei Popolari per l’Italia Gabriele Albertini: cinque i grandi elettori riconducibili a questo raggruppamento capeggiato da Mario Mauro, eppure i voti sono stati 14.
Relativamente tanti anche i voti cosiddetti “dispersi”, tra schede nulle e preferenze singole. C’è poi chi ha organizzato una conta-divertissement (11 voti) sul conduttore di “Un giorno da pecora” Claudio Sabelli Fioretti, molto conosciuto tra i parlamentari per la sua trasmissione satirica su Radio 2. A Emma Bonino, infine, la dedica dei socialisti di Riccardo Nencini che la votano 25 volte. A questo punto l’appuntamento è per questa mattina alle 9 e 30 con la seconda votazione, nel pomeriggio la terza e domattina l’attesa quarta votazione con quorum ridotto da 673 a 505.

La Stampa 30.1.15
Papa Sergio (zero tituli)
di Massimo Gramellini


Al confronto Monti era il carnevale di Rio. Ho guardato e riguardato l’unica intervista a Sergio Mattarella disponibile su YouTube, ambientata su un divano a fiori non vivacissimi. In quattro anni ha ricevuto zero commenti. Questo è il primo. Argomento della conversazione, il ruolo della cultura. Il Presidente designato della Repubblica parla per sei minuti senza mai variare il tono della voce né muovere un muscolo del volto. A metà, per alleggerire, racconta una storiella del quarto secolo avanti Cristo. La sua dialettica è un riuscito mix tra la verve di Forlani e l’immediatezza di De Mita. «Credo che il bombardamento commercializzato di modelli di vita cui oggi siamo sottoposti abbia agevolato e accresciuto, se non la tendenza, il pericolo di un abbassamento dei valori di riferimento». Intendeva dire, con qualche ragione, che le tv di Berlusconi ci hanno lietamente rimbecillito. Però, vuoi mettere. Oltre a Epitteto e Aristippo, che non sono due nazionali brasiliani, cita l’amato san Francesco. Non è difficile immaginare che le sue prime mosse sul Colle sarebbero il distacco delle prese dei televisori e l’abbassamento della statura dei corazzieri per risparmiare sulla stoffa delle divise. Dimezzerebbe i costi, gli sprechi e gli aggettivi, imponendo la dieta Bergoglio a tutto il Quirinale. Da cittadino un Presidente così mi entusiasma. Da giornalista mi getta nella disperazione più cupa. Per dirla alla Mourinho, Mattarella ci darà «zero tituli». Confido nell’effetto inebriante della carica, ma nel dubbio comincio a ripassare Aristippo.

Il Sole 30.1.15
Cattolico di sinistra. La militanza giovanile nell’Azione cattolica
Un credente in privato ma laico nella vita politica
di Carlo Marroni


Nessuno, Oltretevere, dirà mai pubblicamente che il possibile ritorno di un cattolico al Quirinale è una cosa buona. Con Papa Francesco – ma anche con Matteo Renzi, va detto – le cose sono cambiate. Ma due sere fa, ad un ricevimento all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, i cardinali e monsignori presenti erano – sottovoce - concordi nell’esprimere vivo apprezzamento per la candidatura di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Anche se non mette mai piede dentro i Sacri Palazzi. Già perché il candidato del Pd al Quirinale ha alle spalle una storia di cattolico praticante a ventiquattro carati, ma è distante anni luce dall’archetipo del politico habituè delle gerarchie, di cui in anni recenti è sorta una nuova genìa.
Mattarella proviene dal mondo cattolico ma ha sempre tenuto distinto questo piano dall’attività politica attiva, come del resto fece il fratello Piersanti. Insomma, un credente in privato ma “laico” nel pubblico. Non si conoscono sue amicizie particolari in Segreteria di Stato o nella Curia Romana, anche se negli anni – specie quando fu ministro della Pubblica istruzione – ha incontrato alti prelati. La sua storia personale è legata soprattutto alla militanza giovanile nell’Azione cattolica, lo storico braccio laicale dei vescovi italiani. Muove i primi passi di attivismo alla scuola San Leone Magno di Roma, dove diventa responsabile dei giovani: sono anni di grandi passioni politiche, l’organizzazione è una fucina di politici futuri, come lo fu per Piersanti, il fratello ucciso dalla mafia nel 1980 e di cui Sergio raccolse l’eredità, pur essendo molto diverso di carattere. In famiglia la formazione religiosa è costante e anche “coraggiosa”: la domenica – racconta nel suo recente Piersanti Mattarella (San Paolo) il giornalista di «Avvenire» Giovanni Grasso – la famiglia andava alla messa dai padri rosminiani a San Giovanni a Porta Latina, in un periodo in cui le opere di Antonio Rosmini erano ancora all’Indice del Sant’Uffizio; d’estate partiva in vacanza sulle Dolomiti nella comunità di don Rossi, fondatore del Movimento Pro Cititate Christiana, uno dei più avanzati del cattolicesimo di sinistra.
Ma è a Palermo – dove era vissuto da bambino nella casa del padre Bernardo, frequentata dal giovane Giorgio La Pira – che inizia l’attività politica, incrociando figure che rimarranno fondamentali. In testa il cardinale Salvatore Pappalardo, simbolo della lotta alla mafia, ma anche i gesuiti del Centro Pedro Arrupe, e in particolare i padri Bartolomeo Sorge ed Ennio Pintacuda. Saranno loro i teorici della svolta palermitana, anche se successivamente i due religiosi romperanno tra di loro i rapporti per divergenze di opinione sulla nascita della Rete di Leoluca Orlando: Mattarella resterà legato a padre Sorge, ex direttore di «Civiltà cattolica», la rivista di cui Mattarella è tuttora assiduo lettore.
Sono anni delicati per la Dc, da poco guidata da Ciriaco De Mita, unificatore del mondo della sinistra dc cui Mattarella ha sempre fatto riferimento come seguace del pensiero di Aldo Moro. Sono gli anni della revisione del Concordato da parte del governo Craxi: da parte italiana uno dei protagonisti del nuovo accordo con la Santa sede fu Giuliano Amato mentre da parte vaticana l’allora monsignor Achille Silvestrini, uno dei pochi altri prelati di Curia con cui Mattarella ha un rapporto di reciproca stima. Quando diviene evidente la crisi irreversibile della Dc, è la comune matrice cattolica-democratica a mettere insieme il gruppo “Carta ‘93”, che tenta di rilanciare una base programmatica a sostegno di Martinazzoli. Mattarella resterà sempre legato a questo mondo della miglior tradizione del cattolicesimo politico, anche se stringerà legami personali con esperienze diverse, come Sant’Egidio, e in particolare con il suo fondatore Andrea Riccardi, che due anni fa andò a Palermo alla commemorazione dell’assassinio del fratello.

Corriere 30.1.15
Mattarella va, il patto del Nazareno vacilla
La scelta e lo strappo
di Massimo Franco


C’ è già chi parla malignamente di rivincita della Prima Repubblica e della Democrazia cristiana. Ma se domani Sergio Mattarella sarà eletto capo dello Stato, la vulgata dovrà essere corretta; meglio, riequilibrata. La sua designazione da parte di Matteo Renzi suggerisce semmai una lettura meno manichea e ideologica del passato; e permette di rivisitarlo con un senso della storia meno influenzato dai luoghi comuni: Mattarella incarna ciò che di meglio ha espresso quella stagione moderata della politica italiana. Le sorprese sono sempre possibili: il Pd è maestro di lotte fratricide, come dimostra la competizione di circa due anni fa che approdò alla conferma di Giorgio Napolitano.
Ma la logica porterebbe a dire che il segretario-premier è riuscito a trovare un profilo insieme alto e condivisibile dall’intero partito, e non solo. Mattarella è una personalità agli antipodi rispetto a Renzi, eppure proprio questo rappresenta un elemento di merito per chi lo ha proposto. Si dirà che ha prevalso l’esigenza di tenere unito il Pd. E questo c’è: sarà essenziale per centrare il risultato e non aprire giochi al buio. Non a caso, il ruolo di ricucitura di Pier Luigi Bersani può risultare decisivo per arginare i franchi tiratori. Se regge l’intesa, l’abilità renziana va sottolineata. Rimane da capire il ruolo che il centrodestra si assegna.
M entre tra gli ex comunisti Berlusconi ha spesso scelto uomini con cui dialogare — D’Alema innanzitutto, ma per qualche tempo anche Veltroni —, i cattolici di sinistra sono da sempre in conflitto con i suoi referenti politici, fin da prima della discesa in campo: dorotei e socialisti. E loro non hanno mai nascosto di provare nei suoi confronti una distanza antropologica prima che politica.
Sergio Mattarella non è soltanto il ministro che si dimette perché Andreotti ha posto la fiducia sulla legge Mammì, che salvaguarda il monopolio di Arcore sulle tv private; è il dirigente del Partito popolare europeo che definisce «un incubo irrazionale» l’ingresso di Forza Italia nel Ppe, appoggiato dallo stesso Kohl.
La sobrietà del personaggio agli occhi di Berlusconi diventa noia; la sua passione per la giustizia, giustizialismo. Quel che per l’uno è una virtù, per l’altro è un vizio. Per questo, e non soltanto perché ieri mattina l’ha trattato male al telefono, Berlusconi è davvero risentito con Renzi. Che ha tenuto insieme il Pd e individuato una figura moralmente inattaccabile che difficilmente gli farà ombra, almeno dal punto di vista mediatico. Ma ha capovolto lo schema con cui aveva governato per un anno, in sostanziale accordo con Forza Italia.
Enrico Letta, ieri insolitamente loquace, si augurava che l’ex Cavaliere ci ripensasse, e finisse per sostenere o almeno non ostacolare Mattarella: «La legge Mammì è storia di venticinque anni fa. Anch’io vengo dalla sinistra Dc; eppure Berlusconi ha votato il mio governo. Fare politica significa cambiare. Dicono che Mattarella alla Corte costituzionale si è sempre opposto alle istanze di Berlusconi? E come fanno a dirlo? I giudici costituzionali si esprimono in segreto». Un ripensamento in effetti è sempre possibile, sollecitato da Confalonieri e Gianni Letta, oltre che dai centristi affezionati ai loro posti di governo e preoccupati da una rottura con Renzi. Ma Berlusconi dovrebbe davvero far violenza a se stesso.
Non è affatto detto che, se salirà al Colle, Mattarella si rivelerà un presidente apertamente ostile all’ex premier, come Scalfaro (che non veniva dalla sinistra Dc). Il processo che preoccupa di più Berlusconi è quello sulla compravendita dei senatori, dove non ci sono «olgettine» che negano, ma un parlamentare, Sergio De Gregorio, che sostiene di aver ricevuto denaro in cambio del passaggio da sinistra a destra, dalla risicata maggioranza di Prodi (lui sì ex dc di sinistra) all’opposizione. In caso di condanna, un gesto di clemenza proveniente dalla parte lesa sarebbe più praticabile e utile per Berlusconi di un impossibile salvacondotto generale.
Si apre uno scenario lungo sette anni, in cui gli umori e le attitudini del Quirinale, di Palazzo Grazioli e di Palazzo Chigi possono incrociarsi ed evolvere in modi oggi imprevedibili. Resta il fatto che oggi Berlusconi si è sentito tradito dall’uomo che percepiva come il proprio autentico erede politico. È probabile che i due facciano pace. Renzi se lo augura, anche perché — a differenza di Scalfaro, di Prodi, di Fini e di altri — non ha ancora sperimentato cosa significa avere contro la macchina editoriale berlusconiana.

La Stampa 30.1.15
Prove di terremoto politico
di Federico Geremicca


La storia recente, intendiamo le trappole in cui sono inciampati appena due anni fa Franco Marini prima e Romano Prodi poi, non induce a facili ottimismi: ma se la candidatura di Sergio Mattarella domani supererà la prova del voto, ecco, l’elezione del nuovo presidente della Repubblica sembra caratterizzarsi – a parte tutto il resto – come il primo atto di un possibile cambio di fase politica dagli sviluppi pericolosamente incerti. Infatti, arrivato davanti a un bivio vero e dovendo scegliere tra il suo partito e la prosecuzione del contestato dialogo con Berlusconi, Matteo Renzi ha scelto il Pd.
E la cosa, in tutta evidenza, potrebbe esser gravida di conseguenze sul profilo e lo sviluppo della legislatura...
Sergio Mattarella, dunque. Un uomo della Prima Repubblica, un signore di quasi 74 anni, un politico (ex politico?) poco smart e dai valori tradizionali e solidi. Un dirigente della fu Dc col quale Matteo Renzi avrà scambiato qualche battuta tre o quattro volte in vita sua. Non un amico, insomma. E nemmeno un possibile Presidente col quale fosse facile immaginare una naturale sintonia politica. Eppure, Matteo Renzi ha scelto lui. Verrà tempo, in caso di elezione al Quirinale, per provare a spiegare con più attenzione le possibili ragioni di questa decisione: per ora, conviene fermarsi all’annuncio di terremoto politico che la possibile ascesa di Sergio Mattarella al Colle sembra prefigurare.
Il Pd che si ricompatta (o sembra ricompattarsi); il Patto del Nazareno che si frantuma, rivelandosi per quel che forse è sempre stato (almeno nell’idea di Renzi); un pezzo di maggioranza di governo (il partito di Alfano) spiazzato e in difficoltà; il cammino delle Grandi Riforme (quella del Senato e quella elettorale) che pare complicarsi ulteriormente. E sullo sfondo, naturalmente, il solito allarme per possibili elezioni anticipate: che nessuno vuole, ma che è comodo e facile evocare di fronte ad una mossa che per tempi e modi ha spiazzato praticamente tutti.
Protagonista e regista dell’intera operazione (non ancora coronata da successo, va annotato) è Matteo Renzi: un giovane politico che nemmeno due anni fa era null’altro che il sindaco di una media città italiana e che si è trovato – anzitempo – a cimentarsi con quello che viene considerato l’esame di laurea per un leader di spessore: l’elezione del Presidente della Repubblica. Vittima di questa operazione appare, al momento, Silvio Berlusconi: da vent’anni «padrone» del centrodestra e convinto che l’abbraccio col giovane premier potesse costituire la premessa e la garanzia per un allungamento della sua vita politica. Chi ieri ha parlato con l’ex Cavaliere, racconta di un uomo prima di tutto sorpreso: e poi profondamente deluso. «Renzi ha tradito i patti», anzi il patto dei patti, il cosiddetto e famigerato Patto del Nazareno.
Nessuno ha mai saputo davvero cosa prevedesse quell’intesa: tutti, al momento, possono invece osservare che cosa abbia finora prodotto: una legge elettorale vantaggiosa per il Pd e suicida per Forza Italia; il declino elettorale del «partito azzurro» e la sua disintegrazione come soggetto politico unitario; un soccorso parlamentare che ha spesso tolto dai guai l’esile maggioranza di governo; e un Presidente della Repubblica – se Sergio Mattarella dovesse esser eletto domani – che Berlusconi (e Alfano) pare non vogliano, incredibilmente, votare. Se il Patto del Nazareno ha prodotto questo (come in effetti ha prodotto) molti «professionisti del retropensiero» dovranno forse rivedere le cose dette e scritte...
Ci sarà tempo per ragionarci. Per ora meglio stare a quel che potrebbe accadere: l’elezione, appunto, di Sergio Mattarella. Il nome, secondo alcuni, forse non entusiasma (come non entusiasmò quello di Napolitano...) ma probabilmente – considerate le divisioni dentro e tra i partiti – non c’era al momento soluzione migliore. Domani potrebbe essere il giorno buono, ma non è detto: dipenderà solo e soltanto dalla tenuta del Pd. Dovesse andar bene, per Renzi sarebbe un successo notevolissimo. I guai, magari, cominceranno dal giorno dopo...

Repubblica 30.1.15
Quel che resta del Nazareno
I tre rischi (calcolati) del premier
Lo strappo con Berlusconi, i rapporti con Alfano e la tenuta del Pd nello stress test del Quirinale
di Stefano Folli


AVER scelto Sergio Mattarella come candidato autentico e non fittizio al Quirinale rappresenta per Renzi un rischio calcolato, ma pur sempre un rischio. Prova ne sia che al momento il patto del Nazareno è parecchio sbrindellato e l’irritazione di Berlusconi non è una sceneggiata a uso dei media. La verità è che il premier ha fatto prevalere la coesione del suo partito, il Pd, rispetto alla fedeltà passiva verso un’intesa con Forza Italia da cui aveva già ricavato il massimo.
La riforma elettorale ha superato a Palazzo Madama lo scoglio più arduo, la riforma costituzionale del Senato è in cammino, circa a metà delle quattro letture: in teoria Berlusconi può vendicarsi buttando tutto all’aria, come sta minacciando di fare, ma quale sarebbe il suo guadagno? In fondo Renzi rimane, nonostante lo strappo sul Quirinale, il più affidabile punto di riferimento per l’anziano leader del centrodestra.
Certo, è esistito un tempo in cui Berlusconi si concedeva dei colpi di testa clamorosi quanto ben meditati e finalizzati: come quando sul finire degli anni Novanta buttò all’aria la Bicamerale di D’Alema. Ma da allora è passata molta acqua sotto i ponti. Nella politica di oggi la parte dello scacchista imprevedibile tocca a Renzi e Berlusconi dovrà in qualche misura adattarsi. A meno di non voler smentire del tutto se stesso e le scelte dell’ultimo anno, come già gli sta rimproverando il dissidente Fitto. La verità è che nel patto non c’era tutto e sul Quirinale non era «già tutto deciso», come hanno sostenuto per giorni con sufficienza i difensori del dogma nazareno. Renzi si è affrancato con destrezza da un abbraccio scomodo quando ha visto che il prezzo da pagare (lo sfilacciamento del Pd) diventava troppo oneroso. Lo accusano di essersi messo, scegliendo Mattarella, nelle mani dei suoi avversari, cioè i conservatori e i «frenatori» della sinistra. Anche questo fa parte del rischio calcolato, ma è troppo facile criticare in via preventiva il candidato alla presidenza, da cui ci si attende soprattutto — come ha detto proprio Renzi — che sia il garante di un equilibrio complessivo al vertice delle istituzioni, ben sapendo che «la Costituzione non è intangibile ».
Ancora un rischio calcolato: la posizione dei centristi di Alfano stretti fra la permanenza al governo e l’intesa tattica con Berlusconi. È il punto più delicato della vicenda. Senza dubbio il gruppo Ncd-Udc non ha la minima intenzione di abbandonare l’esecutivo, e del resto un conto è la maggioranza di governo e un altro è la maggioranza parlamentare che esprime il presidente della Repubblica. Tuttavia è anche una stranezza che il ministro dell’Interno e il presidente della commissione Esteri della Camera (Casini) non votino il capo dello Stato. Per ora la questione si risolve con la scheda bianca alla quarta votazione, la stessa scelta annunciata da Berlusconi. Regge quindi la convergenza con Forza Italia, ma senza che da essa nascano nuovi equilibri (e pensare che fino a pochi giorni fa qualcuno prevedeva un «rimpasto» per allargare la maggioranza a esponenti berlusconiani): un’altra contraddizione che dovrà risolversi a breve.
Infine c’è il rischio che riguarda lo stesso Pd. Renzi ha reso più compatto il partito con Mattarella, ma ora serve la verifica dei numeri. Sulla carta alla quarta votazione il candidato sarà eletto anche senza l’apporto dei centristi. Ma è evidente che Renzi spera fino all’ultimo di allargare la platea del consenso. Per ragioni di ordine istituzionale e anche per il legittimo timore dei franchi tiratori. Ieri il primo, inutile scrutinio ha dato un responso non del tutto tranquillizzante. Sepolti sotto la montagna di schede bianche ci sono circa 130-150 voti dispersi. Per cui le schede non votate risultano inferiori — e di molto — alla somma di Pd, Forza Italia e sigle centriste (circa 750). In altri tempi sarebbe stato un segnale di battaglia. Oggi forse è solo un caso, ma la partita del Quirinale non è affatto chiusa. Renzi, se vorrà evitare di inciampare all’ultima curva, dovrà essere molto vigile nelle prossime ore.

Corriere 30.1.15
Il premier a capo di tre maggioranze:
Silvio? alla fine non romperà. Presto smaltirà la sua rabbia
La preoccupazione per la quota di voti dispersi alla prima «chiama»
di Maria Teresa Meli e Francesco Verderami


Grazie a un ex dc, Renzi fa pace con gli ex pci, blinda la «ditta», si prepara ad accompagnare il suo prescelto al Colle e si ritrova con tutte le carte del mazzo in mano. Comprese le elezioni anticipate. Non era mai accaduto che un presidente del Consiglio diventasse il capo di tre diverse maggioranze: quella di governo, quella del patto del Nazareno e quella del Quirinale. Certo, Mattarella non è stato ancora eletto, ma è inevitabile che da ieri il leader del Pd debba guardare oltre l’elezione del capo dello Stato.
Il premier d’ora in avanti si troverà a coltivare i nuovi rapporti che ha costruito (con Sel) e a gestire quelli che si sono logorati con l’alleato di governo (Alfano) e con l’alleato di opposizione (Berlusconi). Il modo in cui ha cambiato schema di gioco ha spiazzato i suoi interlocutori, e la conversazione con Berlusconi non dev’essere stata amabile. Tuttavia Renzi ritiene che il rapporto con il leader di Forza Italia non si sia rotto, «mi ha detto che comunque l’intesa sulle riforme rimane valida. Ora — ha spiegato ai dirigenti del partito — si prenderà qualche giorno per smaltire la rabbia. Dopo si ripartirà». Una conferma rispetto a quello che aveva preventivato, e cioè che il Cavaliere non si sarebbe posto sulle barricate per la scelta di Mattarella, che si sarebbe «limitato a marcare il dissenso con la scheda bianca».
Se per questo, il leader di Forza Italia — che non accetta mai la sconfitta — ieri mattina sembrava tentennare, come fosse addirittura intenzionato a votare a favore del candidato di Renzi: un moto dell’anima o una reazione istintiva? Per non sbagliarsi, i dirigenti azzurri hanno fatto pressing su di lui: «Non possiamo votarlo», gli ha detto più volte Ghedini. Il prezzo politico che Berlusconi sta pagando è molto alto: tra Fitto che chiede l’azzeramento dei vertici di Forza Italia e la Lega che lo irride e avoca a sé il primato nel centrodestra, gli è rimasta solo l’intesa con Alfano, che ha tenuto fede al «patto sul Quirinale» stretto tra le forze che si rifanno al Ppe. È il primo embrione del progetto di ricostruzione dell’area moderata che si rifà all’Ump francese.
Anche con il ministro dell’Interno Renzi è ai ferri corti. Immaginava che Ncd alla fine avrebbe votato a favore di Mattarella, «e secondo me Alfano sbaglia se vota scheda bianca. Per certi versi mi dispiace, perché con la posizione che ha assunto rischia di perdere consensi». Il segretario del Pd, dopo averci provato di persona, gli ha inviato numerosi ambasciatori che hanno tentato di fargli cambiare idea. E nei loro ragionamenti non è mai mancato un cenno al «rischio di una crisi di governo»...
Ma il leader del raggruppamento di Area Popolare contesta al premier il cambiamento di schema, e alla riunione con i grandi elettori ha spiegato il suo «no a logiche ancillari»: «Non siamo cadetti di Berlusconi, figurarsi se diventiamo cadetti di Renzi». La scheda bianca permette ad Alfano di presidiare un’area che va ancora ricostruita, e mette nel conto la possibilità che si incrini l’asse con Renzi. Il punto è che la situazione si fa complicata nell’esecutivo, e come se non bastasse il Cavaliere ieri — per uscire dalle secche — lo ha messo in difficoltà con le sue dichiarazioni che anticipavano addirittura l’apertura della crisi da parte di Ncd. «Berlusconi non ha titolo per parlare di questioni di governo», ha detto il responsabile del Viminale per parare il colpo: «E il patto di governo non è in discussione. Piuttosto toccherà al premier fare il vigile urbano, per evitare incidenti agli incroci».
Sono gli «incroci» delle tre maggioranze distinte e distanti che il segretario del Pd ha costituito e che oggi lo rendono il dominus nel Palazzo. «Ma se Renzi pensa di andare avanti con le tre maggioranze va a sbattere», dice il bersaniano Gotor. Sarà, intanto il primo obiettivo del leader democrat — quello fondamentale — è di concludere l’operazione Quirinale portandosi dietro tutto il suo partito. E su questo è ottimista: «Ho ricompattato il Pd, anche se nessuno lo credeva possibile. Persino Fassina è con noi. Fino ad ora è stato un capolavoro». Poi, ripetendolo quasi come un mantra, Renzi dice di credere nel «senso di responsabilità di tutti i parlamentari democratici».
Ma ora lo attende la prova del voto a scrutinio segreto, «ora si va alla prova di forza in Aula e dobbiamo stare attenti, controllare quante saranno le schede bianche e quelle disperse, perché non possiamo permetterci nessun errore». E infatti, dopo la prima chiama, è stato analizzato il risultato. I voti andati dispersi sono stati un po’ troppi, e bisogna verificare se si tratta di una sorta di «libera uscita» momentanea o se dietro c’è dell’altro. In fondo, questo rimane pur sempre il «Parlamento dei 101» .
In più, c’è da considerare la possibile reazione di tutti quei quirinabili che speravano di essere «il prescelto» e che invece vedono sfumare le loro aspettative. La dote di voti di Renzi è elevatissima, ma va capito se tutti i suoi avversari riuscirebbero a diventare una «massa critica» capace di far saltare l’elezione del capo dello Stato al quarto scrutinio. Sarebbe un evento tanto clamoroso quanto improbabile. Per cautelarsi dai franchi tiratori il premier si sta muovendo su due fronti. Il primo è mediatico: quando la Boschi dice che «altri si preparano a votare Mattarella», si tentano di dissuadere i malintenzionati. Il secondo è politico: al Nazareno sono convinti che «nel segreto dell’urna qualcuno di Forza Italia voterà con noi. O Berlusconi o Fitto»...

il Fatto 30.1.15
Silviostaisereno per il Colle
La mossa di Renzi di candidare Mattarella frega l’amico del Nazareno
Ora occhio ai numeri
di Wanda Marra


All’unanimità l’assemblea approva la candidatura”. Deleghe alzate, l’assemblea dei grandi elettori Pd vota la candidatura proposta da Matteo Renzi di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica. Bisognerà aspettare sabato per capire se davvero la partita a poker giocata dal premier si riveli vincente, ma stando all’oggi, sembra proprio che il gioco di blandizie e di minacce, i ricatti e le promesse, le trattative costanti e i depistaggi stia funzionando. Pd ricompattato (o magari annientato), B. tradito e battuto, maggioranza umiliata.
A MONTECITORIO, i parlamentari Pd arrivano alla spicciolata. C’è Lorenzo Guerini, che ha il sorriso da un angolo all’altro della bocca. Ci sono i Giovani Turchi, come Orfini e Orlando, che nascondono il disappunto (fino all’ultimo hanno lavorato per Amato), c’è Bersani, che dice che questa scelta cancella i 101, c’è Enrico Letta, che riappare dopo un anno (“sono molto contento”). La Bindi si commuove, Fioroni s’intesta la candidatura e Franceschini subisce lo smacco (Mattarella è un cattolico non scelto da lui). “Alla quarta Mattarella lo voto anch’io”, dice persino Civati. Il Pd è capace di grandi tradimenti, le 36 ore che mancano per la quarta votazione, quella che dovrebbe essere decisiva, potrebbero aprire delle falle. Servono 505 voti e i numeri sono risicati (i renziani ne contano al massimo una cinquantina di scarto senza FI), ma l’atmosfera è più di cedimento collettivo che di rivolta.
Abito scuro e cravatta rossa, Renzi va diritto: “Votiamo Mattarella alla quarta sabato mattina”. E ancora: “Non ci deve essere spazio per i giochini del dopo. Se si sceglie un candidato si vota quel candidato”. La riunione è in streaming: Renzi parla al paese. Ecco i motivi per scegliere Mattarella: “È un uomo della legalità, della battaglia contro le mafie è stato ministro dei Rapporti con il Parlamento”. E poi: “Pochi dc hanno avuto come lui il coraggio di dimettersi”, riferimento a quando, nel 1990, rassegnò le dimissioni dal governo Andreotti in protesta contro la legge Mammì, fatta per le tv di Berlusconi. Ancora: “È il padre della legge elettorale che porta il suo nome, quella dei collegi”, e quasi quasi diventa un antesignano dell’Italicum, nell’immaginario del premier. “Da ministro della Difesa, ha vissuto in prima linea la vicenda dei Balcani e ha abolito la naja”. Ecco, lo standing internazionale. “È giudice costituzionale. Noi stiamo cambiando la costituzione, lui è un difensore della Costituzione”. Infine ricorda al Pd che quello era uno dei nomi di Bersani a Berlusconi: “Possiamo ripartire da ciò che era avvenuto nel 2013”. Non manca la minaccia: questo è “un passaggio molto importante del nostro partito e della legislatura”. “Un capolavoro politico”, commentano amici e detrattori. “Ha fatto la rete nella quale ci tiene tutti imbrigliati”, commenta un altro.
Mattarella non era la prima scelta del premier. Avrebbe preferito qualcuno più fidato, magari Padoan. Ma alla fine è il male minore un “signor nessuno” sufficientemente grigio da non fargli ombra. E poi, Renzi, è soprattutto uno che vuole vincere. Comunque. E dunque, ha costruito questa candidatura pezzo per pezzo. Trattando dall’inizio con Area Riformista e con i cattolici. Determinante per lui è stato il rischio di dover convergere su Amato (“si è mosso il mondo per fare pressioni”, commentava un renziano a microfoni spenti): non l’avrebbe retto con l’opinione pubblica. E sarebbe stato comunque troppo forte. Martedì la decisione finale. Con o senza Berlusconi. Il Patto del Nazareno? “Riguarda la legge elettorale e le riforme”, per dirla con la Serracchiani. Carta straccia, all’occorrenza. Matteo è convinto che l’ex Cavaliere alla fine dirà di sì. E vuoi mettere, passare per quello che spinge in un angolo il Caimano?
IERI MATTINA ha ricevuto Raffaele Cantone a Palazzo Chigi, la “renzata”. “O votate Mattarella, o presento Cantone, e si va tutti a votare”, mandava messaggi il premier ai parlamentari ancora ieri durante il voto. Mentre continua a trattare con Berlusconi sulla “roba”, sicuro che non ha la forza di sfilarsi. E che comunque vada non lo farà sulle riforme. “Deve scegliere se perdere male, o perdere bene”, i commenti dei suoi. E poi, Renzi è pronto a controllare con la dicitura del voto gli alfaniani, ai quali, se non si comportano come devono, toglierà qualche ministero. È magnanimo abbastanza da creare qualche posto di governo per i bersaniani. Sullo sfondo, il partito della nazione, nel quale il premier segretario aspetta i transfughi di FI, i centristi in dissenso con Alfano, gli uomini di Sel che alla quarta voteranno con il Pd, così come i transfughi dei Cinque Stelle. A sera, davanti alle schede bianche che sono solo 538, qualche timore serpeggia nel quartier generale di Matteo. Ma se B. tiene il veto, pare che Fitto sia già pronto a votare con Renzi per umiliarlo. E pare che anche il Movimento 5 Stelle voglia cercare la sua parte di merito. Per Matteo, il piano B. è solo uno: schiantare Parlamento e legislatura. Se proprio deve morire Sansone, moriranno tutti i filistei.

il Fatto 30.1.15
E Silvio non sta sereno
di Antonio Padellaro


Se fosse il primo tempo di una partita diremmo che Matteo Renzi ha stravinto, che Silvio Berlusconi ha straperso e che il M5S non è neppure sceso in campo. Il profilo politico-presidenziale dello schivo e silenzioso Sergio Mattarella, già esponente della sinistra dc con trascorsi antiberlusconiani, giudice costituzionale, fratello di Piersanti ucciso dalla mafia a Palermo non poteva non compattare l’intero Pd o meglio rimettere in riga la minoranza interna dei Bersani e dei Fassina che forse non aspettava altro.
Per ascendere al Colle, Mattarella non avrà invece i voti di Silvio Berlusconi, che adesso si sente turlupinato dal premier-compare, situazione che ricorda l’“Enrico stai sereno” di lettiana memoria.
Al centro di tutto c’è naturalmente il Patto del Nazareno, anche se non è chiaro di cosa si dolga il pregiudicato. Non può dire la verità, confessare cioè che la combutta prevedeva anche l’inciucio sul Quirinale, cosa nota da tempo ai lettori del Fatto e che la Prestigiacomo ha candidamente ammesso ai microfoni di Sky.
Ma non può neppure tagliare il ramo a cui è aggrappato, l’accordo con Renzi (la parte occulta soprattutto). Che l’affranto ex Cavaliere ha lì per lì proclamato ufficialmente rotto, salvo poi spedire il fido Toti in tv a precisare soavemente che “lo spirito è stato rotto, il patto no”.
Tra i renziani si dà per certo che alla fine il povero B. tornerà all’ovile e si ipotizza perfino un ripensamento sul candidato Mattarella, come avvenne nel 1999 con Carlo Azeglio Ciampi. Infine, la partita vittoriosa di Renzi registra il nuovo autogol dei Cinquestelle costretti (?) dalla rete a votare Imposimato quando invece quei 120 voti se riversati su Romano Prodi (secondo alle Quirinarie) e sommati ai nove in libera uscita dal Pd sarebbero stati un cuneo piuttosto fastidioso nella strategia di Renzi.
Il secondo tempo si gioca sabato e il quorum sceso a quota 505 sarà sufficiente a eleggere Mattarella con le sole schede del centrosinistra. Non si vede infatti come, dal doppio inutile scrutinio odierno, possa germinare la fronda di 80 voti necessari per rovesciare il pronostico. Che prevede il trionfo di Renzi, la ritrovata pace tra i nazareni e un’incognita sul Colle.

Corriere 30.1.15
Le lacrime di Bindi e i complimenti di Letta
Soddisfatto anche Bersani, per una volta minoranza e renziani uniti. Ma restano ruggini tra gli ex ds
di Monica Guerzoni


ROMA Rosy Bindi piange felice e, mentre i renziani con i cellulari immortalano le lacrime, fa pace con il premier: «Se questo è il nuovo metodo si può fare della strada assieme...». Bersani è contento, perché ha ricucito con lo stesso filo di sutura i rapporti con Renzi e la ferita dei franchi tiratori: «Ci ho lavorato, Mattarella è una bella figura e spero che Forza Italia non perda l’occasione. L’altra volta è mancata la lealtà, ma ora i grandi elettori dovranno mettercela, per il Paese, per il Pd e anche per me. Me lo devono un po’, no?». Enrico Letta riappare e si complimenta: «Spero che anche i più riottosi facciano prevalere la spinta all’unità. Il metodo di Renzi? Il risultato mi sembra buono». Scene da un nuovo Pd, che prova a cancellare la macchia dei 101 e apre un nuovo capitolo della sua storia, nel nome di un’unità così evidente da generare, assieme all’euforia, mugugni e sospetti incrociati.
La scena del miracolo è un centro congressi scelto per far dimenticare il Capranica del 2013, teatro della funesta ovazione che incoronò (fintamente) Prodi. Questa volta si vota la relazione di Renzi e lo sventolare unanime di tessere dice che, salvo colpi di scena, Mattarella salirà sul Colle. Lo voterà persino Civati, che si è battuto per Prodi. Il rimpianto dei prodiani stride con l’euforia di «popolari» come Fioroni, che dopo una paziente tessitura spodestano gli ex ds dal Quirinale. Lo stato d’animo a sinistra è un po’ quello di Ileana Argentin: «Dispiace che il Pd non riesca a eleggere un ex segretario, Bersani, Veltroni o Fassino».
I «giovani turchi», che puntavano su Amato, l’altra notte hanno discusso fino all’una prima di arrendersi a un cattolico. E adesso c’è chi a sinistra insinua che i grandi elettori di Orfini e Fassino potrebbero far mancare voti. Verducci smentisce: «Sosteniamo Mattarella». Qualche vecchia ruggine correntizia resiste, eppure il segno della giornata è l’unità. I veltroniani sono delusi? Walter twitta «scelta giusta». La terna di Bindi era Prodi-Mattarella-Veltroni e la presidente dell’Antimafia dà atto a Renzi del mezzo capolavoro, sperando che si compia anche l’altra metà: «È stato bravo a dire che non ci sarà un altro candidato, ha giocato bene. Un risultato di tutti, se lo roviniamo succede una catastrofe».
Ottimismo e cautela vanno a braccetto. «Prima vedere cammello...», scherza il renziano Ermini. Il bersaniano Gotor rivendica lo strappo sulla legge elettorale: «Abbiamo sventato un presidente scendiletto». Se qualcuno trama, Bersani si tira fuori: «Nessuno farà scherzi. Il lavoro del partito è più in discesa se va a buon esito questa soluzione, che mostra un Pd capace di trovare una linea unitaria. Ora i temi del governo corrono con le loro gambe». Se tutto va bene Renzi ricompatta il Pd e blinda la legislatura, magari con qualche nuovo innesto dalla minoranza. E se Bersani non andrà al governo perché «è un numero uno», come dice Zoggia, per la Finocchiaro sarebbe pronto un ministero.

Repubblica 30.1.15
E Bersani media “È il mio favorito fin dal 2013 mi fido del premier”
di Goffredo De Marchis


Feci subito il nome di Mattarella a Berlusconi e lui disse no e preferì Marini. Ora teniamoci prudenti, ma se va dritta ne sarò felice
Non ho mai pensato di impiccarmi a un nome di sinistra. Per il capo dello Stato io non guardo alle culture di appartenenza

ROMA Bersani mediatore, Bersani che passa da una telecamera all’altra, Bersani che assapora una possibile vittoria anche non se è più lui a guidare la Ditta e il dividendo lo incasserà Matteo Renzi e il Pd non più suo. «Non è finita finchè non è finita — dice l’ex segretario in un corridoio laterale di Montecitorio —. Ma la mia soddisfazione per l’eventuale elezione di Mattarella non è un mistero per nessuno ». Era la sua prima scelta nel 2013. «Feci subito quel nome a Berlusconi quando ci incontrammo per trovare un candidato condiviso ed eleggerlo alla prima votazione. Berlusconi anche allora disse di no, preferendo Marini». Era la sua scelta anche adesso che non conduce più le danze. Più di Amato, forse, «perché io non guardo alle culture di appartenenza quando si sceglie una figura come il capo dello Stato. Ovvero non ho mai pensato di impiccarmi a un nome di sinistra. Andavano bene tutt’e due». Ma la sua preferenza è sempre andata all’ex dirigente della sinistra Dc. Che due anni dopo sembra vicino al traguardo. Bersani spiega di non voler analizzare adesso cosa è cambiato dal 2013 al 2015, perché oggi si può fare quello che allora fu impossibile o peggio, si rivelò una pasticcio clamoroso. «Non è ancora fatta ed è giusto tenersi un margine di prudenza », dice scottato dalla tremenda catastrofe dei 101 traditori di Prodi, che impallinarono il Professore per impallinare lui. L’ex segretario però si muove in queste ore dando la netta impressione di voler evitare il bis, malgrado Renzi sia un avversario interno e quasi tutto li divide. «Stavolta di Matteo mi fido. È andato oltre i confini del Nazareno e lo dimostra la reazione di Berlusconi. Ora il problema ce l’ha l’ex Cavaliere».
Quindi la mattina presto in Transatlantico media con Nichi Vendola, già ben disposto a convergere su Mattarella dalla quarta votazione. Approfitta dei microfoni che lo seguono, delle tv che lo invitano per una ospitata volante per catechizzare la minoranza. «Se siamo tutti responsabili ce la facciamo, poi Berlusconi farà quello che vorrà. Secondo me perde un’occasione pazzesca a tirarsi fuori». Per anticipare i franchi tiratori tira in ballo se stesso. «L’altra volta non ci fu lealtà nei mie confronti. Perciò adesso la devono anche a me. Possiamo raffigurare un Pd che sia davvero al servizio del Paese».
La fiducia in Renzi è cresciuta dopo il colloquio di mercoledì, durato appena mezz’ora, a differenza di quello successivo con Berlusconi seduto a Palazzo Chigi per ben due ore. «Sono stato poco perché è andato benissimo. Mi ha detto che puntava tutto su Mattarella, in continuità con la mia scelta del 2013. Che il patto del Nazareno si poteva scansare in questo frangente e che l’importante era tenere unito il Pd». Musica per le orecchie dell’ex segretario. Che ora non vuole immaginare scenari, nuove maggioranze o uno spostamento dell’asse a sinistra grazie ai voti di Sinistra e libertà, future correzioni dell’Italicum e delle riforme. «Non è il momento, aspettiamo sabato». Prudente. Come lo sono i renziani, del resto. Il braccio destro del premier Luca Lotti ieri solcava il Transatlantico osservando i capannelli di deputati, soprattutto quelli del Pd. Per vedere se le correnti si riunivano, se si creava l’atmosfera della trappola.
Bersani intanto dava una mano, cercando argomenti per non avere sorprese dal gruppo democratico. Tra un collegamento tv e l’altro perdeva le due “chiamate” al seggio e recuperava grazie a una deroga della presidenza. «Con Mattarella si chiuderebbe la ferita dei 101», diceva in video a SkyTg24 allontanando definitivamente un fantasma ormai invecchiato che ha avuto però tanto spazio tra i militanti. Salutava Enrico Letta, sorridente e disponibile con i giornalisti dopo un lungo silenzio. «Mattarella? Una decisione giusta, la stessa che avevamo preparato due anni fa. Significa che la legislatura ha avuto un’evoluzione...». Bersani in effetti pensa che i nodi siano venuti al pettine: che la “bolla” grillina è scoppiata, che il Parlamento de-berlusconizzato dalla “non vittoria” del Pd ha prodotto qualche buon risultato. E sicuramente l’elezione di Mattarella è quello che all’ex segretario piace di più.

Il Sole 30.1.15
La scommessa vinta (per ora) del premier sui 444 voti del suo partito
di Lina Palmerini


Questa volta non è solo Renzi che ci mette la faccia. Su Sergio Mattarella ieri si sono spesi i principali esponenti del Pd da Bersani a Veltroni, Cuperlo e la Finocchiaro. Su questa elezione c'è la faccia di tutto il Pd.
Non è solo il precedente del 2013 la forza del leader Pd ma è la forza di un percorso che ha portato tutti i “capi” corrente a esporsi su Sergio Mattarella come “il” candidato del Pd, quello più unitario, dietro cui non si nasconde nessun altro nome, nessuna opzione B. Il vice segretario Guerini in uno dei suoi colloqui sembra che abbia detto che dopo Mattarella c'è la “matteata” - cioè un nome come quello di Cantone che proprio ieri è stato a Palazzo Chigi - ma è chiaro che quello è lo scenario della disperazione, dell'azzardo. Uno scenario alternativo a quello che ha invece scelto il premier che in questa circostanza ha dato prova di realismo politico mirando a un solo obiettivo: la compattezza del Pd. A differenza di Bersani che fece un percorso a zigzag, prima strizzando l'occhio ai grillini eleggendo i presidenti Grasso e Boldrini, poi a Berlusconi, proponendo per il Colle Marini, e poi rovesciando lo schema con Prodi, Renzi ha tirato dritto. E la sua prima scelta - che ieri ha detto essere anche l'ultima - sono quei 444 voti di cui è portatore il suo partito.
Nell'elezione del capo dello Stato i voti non si pesano ma si contano, ed è alla dote Pd che il leader ha mirato, ben sapendo che nessuno degli altri protagonisti politici poteva garantirgli quel numero. Non Berlusconi che ne ha 130 e ne potrebbe perdere tra i 30 e i 40 di Fitto, non Alfano che ha una parte di Ncd che flirta con l'area renziana, non il centro di Casini che sembra possa lentamente virare sulla scelta di Mattarella in nome di una tradizione democristiana. E dunque quell'unico colpo che Renzi poteva sparare sul Quirinale l'ha indirizzato su quel numero: 444. E poi ha tessuto una tela insieme a Guerini per agganciare altre forze politiche che potessero anche sostituire i voti del patto del Nazareno: i 32 voti di Scelta civica più i 16 di Per l'Italia, i 34 di Sel, i dissidenti grillini e il gruppo misto vicino alla maggioranza. Insomma, ha capito che solo il numero magico del Pd, così alto, poteva diventare una forza di gravità, una calamita intorno cui costruire una candidatura che passasse alla quarta votazione. Di un presidente eletto solo con la maggioranza assoluta Renzi ne aveva parlato fin dall'inizio come se avesse messo nel conto di poter perdere i voti di Forza Italia.
E così sembra. Ieri la tattica di Berlusconi e Alfano è stata quella di muoversi come un'alleanza, una resurrezione di quel centro-destra andato in pezzi con la condanna del Cavaliere e la sua uscita dal Senato. Il palcoscenico, del resto, è quello del Quirinale, uno dei più visibili e prestigiosi per alludere a una nuova operazione politica in vista delle regionali e anche di una legge elettorale che premia la lista e quindi le aggregazioni e non le coalizioni. Calcoli collaterali che lasciano aperto il dubbio sul patto del Nazareno e sulla sua sopravvivenza anche dopo l'elezione di un presidente fatto senza o addirittura contro Berlusconi.
In pochi credono che il rapporto tra Renzi e l'ex Cavaliere possa rompersi ma intanto il premier lo ha sacrificato in nome del suo partito. L'unità di 444 vale - oggi - più del voto futuro sull'Italicum alla Camera o della riforma del Senato. Renzi continua a mirare gli obiettivi a breve termine, ora è il Quirinale tra un paio di settimane saranno di nuovo le riforme. Intanto mette tutto il suo partito, i capi corrente, alla prova. Una prova che sabato potrà essere di ritrovato orgoglio o di rinnovata incoscienza.

il Fatto 30.1.15
La legge Salva Berlusconi
La “manina” sospesa del 3 per cento
di Carlo Di Foggia


Il silenzio imposto è assordante, tanto da aver coperto i (pochi) passaggi tecnici. Quelli sul decreto fiscale – con i contestati cavilli salva Berlusconi e salva banche – si sono chiusi, almeno nei passaggi preliminari.
Il dossier con le valutazioni di chi quel decreto lo ha scritto (salvo poi vederselo stravolto a Palazzo Chigi) - la commissione tecnica riunita dal Tesoro e presieduta dal giurista Franco Gallo - è stato infatti presentato al ministro Pier Carlo Padoan. Poi la consegna del silenzio decretata dal premier ha avvolto tutto. Le date aiutano. Il giorno è venerdì 16 gennaio, assicura chi ha seguito i lavori. Il contenuto: la bocciatura delle modifiche inserite dalla “manina” di Matteo Renzi con l’assenso dei vertici legislativi di Palazzo Chigi. Il giorno successivo, in un'intervista al Sole 24 Ore Padoan però spiega di essere ancora “in attesa di riceve le considerazioni e i suggerimenti della Commissione”. “Quando le riceverò farò le mie valutazioni”, rassicura il ministro. A distanza di due settimane le “valutazioni” del ministro non sono arrivate. Silenzio totale, non solo dagli uomini più vicini a Padoan, ma anche da Palazzo Chigi. Nessuno degli esperti – tra cui si conta personale dell'Agenzia delle Entrate e uomini del dipartimento delle Finanze – ha avuto una risposta ai rilievi formulati.
E il premier non si è mosso da quanto spiegato all'indomani del caso esploso sulla famosa norma che salva chi evade o froda il fisco sotto il tre per cento del reddito dichiarato, cioè quel comma che avrebbe cancellato la condanna a quattro anni per frode fiscale restituendo l’agibilità politica all’ex Cavaliere: tutto verrà ridiscusso nel consiglio dei ministri del 20 febbraio prossimo.
PIÙ IN LÀ DEL PARERE, la Commissione coordinata dal presidente emerito della Consulta non si è spinta. A mettere mano al testo sarà Palazzo Chigi. Per questo, e perché un atto ufficiale di nomina della Commissione non è mai arrivato, il silenzio del Tesoro ha colpito tutti. Perché non diffondere un parere tecnico? In via XX Settembre c’è il riserbo più totale. Nel documento le modifiche introdotte in extremis da Renzi vengono respinte. La bocciatura è ampia: dal tre per cento, al cavillo (comma 4, articolo 4) che salva chi froda il fisco con operazioni di finanza strutturata - come i derivati - se inserite nelle scritture contabili (ne beneficerebbero gli ex ad di Unicredit e Intesa). Ma la lista è lunga, e raccoglie parte dei rilievi molto critici elaborati dal pool dei reati finanziari della Procura di Milano. È il caso, ad esempio, del comma che complica ostacola la repressione quando “l’effettività dei flussi finanziari sia parte delle modalità di perpetrazione della frode fiscale”, o l'articolo 10 quater, “inadeguato” a contrastare la “compensazione fraudolenta con crediti inventati”. Di questo silenzio - nota chi ha seguito i lavori - ne ha pagato il prezzo il ministro del Tesoro: “La posizione di Padoan è uscita indebolita, anche nella corsa al Quirinale”.
Proprio la battaglia per il Colle e il dialogo con Berlusconi - che in queste ore sembra compromesso – aiuta a comprendere il silenzio tombale imposto finora dal premier. La possibilità di ripresentare il 20 febbraio prossimo la norma del tre per cento ha pesato nelle trattative sull'Italicum, e ora è l'ultima garanzia di tenuta del patto del Nazareno. Che il cavillo fosse “ad personam” è indubbio. La norma, “scritta da un grande studio legale” era infatti “un cliché già ai tempi di Giulio Tremonti”, raccontano informati dirigenti del Tesoro. Emissari del Cavaliere lo avevano chiesto più volte all'allora titolare del ministero, “nella stessa forma di quella poi infilata in extremis a Palazzo Chigi alla vigilia di Natale”. Tentativi più volte falliti per l'opposizione di Tremonti, preoccupato di rendere credibili le entrare derivanti dalla lotta all'evasione, evitando cioè espedienti in antitesi con le linee guida avanzate dalle istituzioni internazionali.

Repubblica 30.1.15
Tra la via Emilia e i boss, l’innocenza perduta della mia terra
di Carlo Lucarelli


FINO a poco tempo fa c’era un solo posto in Italia in cui si diceva ancora che la mafia non esiste, ed era il Nord, in particolare l’Emilia Romagna.
L’idea che qua fossimo diversi e che la nostra diversità offrisse una barriera insormontabile al radicamento mafioso era così forte dal mettere al bando chiunque ne parlasse e con le stesse accuse rivolte a chi trent’anni fa ne parlava per il sud: procurare un immotivato allarme e screditare ingiustamente il territorio. Roberto Saviano, Beppe Sebaste e tanti altri giornalisti e scrittori — compreso il sottoscritto — bollati da prefetti, politici e anche alcuni magistrati come visionari e paranoici, deformati da una concezione esageratamente e volutamente noir di questa nostra isola così felice.
Eppure.
Eppure da tempo ogni operazione antimafia di carattere nazionale finiva per avere numerosi arresti anche in Emilia Romagna, e quasi sempre con conti correnti sequestrati a San Marino.
Eppure storici, studiosi e associazioni come Libera — solo per citarne una — lanciavano allarmi continui su una situazione attentamente monitorata e che da tempo vedeva praticamente le sedi sociali di ‘ndrine calabresi e della mafia di Casal di Principe stabilirsi in provincia di Reggio Emilia e di Modena.
Eppure da tempo chi si fosse trovato a parlare con sindaci, amministratori o imprenditori delle nostre zone così diverse e così felici, si sarebbe sentito dire, timidamente, ecco, io veramente avrei un problemino.
Senza contare incendi di macchine nei cantieri, intimidazioni di amministratori, persone incaprettate nei bauli di auto bruciate e un giornalista come Giovanni Tizian — per citare l’esempio più noto — minacciato di morte e costretto a vivere sotto scorta, proprio qui da noi.
Ma perché qui da noi avrebbe dovuto essere tutto così diverso?
È dai tempi dell’inchiesta in Sicilia di Sonnino e Franchetti — 1876 — del rapporto Sangiorgi e del libro di Colajanni su Il Regno della Mafia — 1900 — che sappiamo come le mafie abbiano sempre trattato col potere politico ed economico diventandone parte loro stesse. E andando sempre a cercare i soldi là dove stavano.
Qui da noi, in Emilia Romagna, i soldi c’erano e un po’ ce ne sono ancora. E tra tanta, tantissima gente per bene, tra tante associazioni sindacali, cooperative, imprenditori e lavoratori attenti, che non scenderebbero mai a compromessi, c’è anche qualcuno che in nome del pragmatismo tipicamente attribuito agli emiliani romagnoli ha accettato soldi e lavoro senza farsi troppe domande. Bancari, imprenditori, amministratori, i primi che hanno pensato ma in fondo sono solo affari hanno aperto falle enormi in quella nostra presunta barriera di diversità.
In fondo sono solo affari. In fondo qui non ammazzano nessuno. Cioè quasi nessuno, ma comunque gente loro. In fondo qui non chiedono il pizzo. Cioè quasi, ma comunque solo a gente immigrata dal sud. In fondo lavorano in fretta e bene.
Cioè, bene no, ma non importa, il mondo è quello che è. Alla fine, si tratta soltanto di soldi.
Sappiamo che non è così. Lo sappiamo da tanto tempo. Mi ricordo un convegno nei primissimi anni ‘90, per esempio, in cui l’allora presidente della Commissione Antimafia Luciano Violante parlò della presenza mafiosa in questa Emilia Romagna così apparentemente diversa. State cercando l’animale sbagliato , disse. Cercate la piovra, come al sud, e invece dovreste cercare un pescecane, che non controlla il territorio militarmente ma si mangia politica ed economia. Morale, etica e salute. Futuro.
E invece abbiamo continuato a cercare la piovra e visto che non la trovavamo abbiamo continuato a parlare di tentativi di infiltrazione mafiosa , soltanto tentativi. Qualcuno di noi ci ha fatto inchieste sopra e qualcuno ci ha anche scritto romanzi, molto credibili, ma si sa, i romanzi sono solo romanzi, soprattutto se noir.
E così qualche mese fa mi sono trovato ad assistere all’udienza di un processo a Bologna, quello nato dall’inchiesta “Black Money”, che cerca di far luce su ‘ndrangheta e gioco d’azzardo tra Emilia e Romagna, e tante altre cose tra cui le minacce di morte a Giovanni Tizian.
Sono seduto tra il pubblico e accanto a me ho due veterani di processi di quel genere, profondi conoscitori di mafie, come Attilio Bolzoni e Lirio Abbate, a cui tante volte ho chiesto aiuto per farmi raccontare personaggi e luoghi, dove sta quella borgata, quanto dista da Palermo o da Catania, come è fatta quella strada a Corleone.
Ecco, in quel processo si parlava di luoghi che stanno a pochi chilometri da dove vivo, e quella volta a spiegare ad Attilio e Lirio come era fatta quella strada e dove stava quel parcheggio, ecco, quella volta ero io.
Quando me ne sono accorto ho provato un senso di doloroso stupore.
E poi mi sono chiesto: ma perché me ne stupisco. Perché ce ne stupiamo.
Perché ora, quando l’ennesima retata arresta più di cento persone attorno a casa nostra.
Perché non prima, quando era già così evidente?

La Stampa 30.1.15
Pillola dei 5 giorni dopo solo con ricetta medica, si va verso la conferma
Dovrebbe invece essere cancellato l’obbligo del test di gravidanza prima della prescrizione del farmaco

qui

La Stampa 30.1.15
Grecia
Il premier visto da Costa-Gavras: “Pragmatico, non un sovversivo”
“Vuole far uscire il Paese dalla fame, non dall’Europa”
intervista di Leonardo Martinelli


Dietro al Panthéon, ai margini del quartier latin, a Parigi, tutti sanno che Costa-Gavras, quell’affabile signore di quasi 83 anni (ma ne dimostra molti meno), vive al di là di uno strano portone verde, in fondo nel cortile. Greco naturalizzato francese, è il mitico regista di film come Z-L’orgia del potere e Missing. «Lo scorso maggio me ne stavo a casa – racconta – e ricevetti una telefonata: una piacevole sorpresa». Dall’altra parte del filo, Alexis Tsipras: «Era di passaggio a Parigi. Mi disse che voleva conoscermi». Si ritrovarono al Mavrommatis, ristorante greco ovviamente.
L’incontro al ristorante
«La prima domanda che gli posi fu: vi presentate come sinistra radicale, ma cosa vuol dire per te “radicale”? Lui rispose: significa ritornare alle radici della Grecia, la cultura e la democrazia. Già lì tirai un sospiro di sollievo». Tsipras non è uno sterile sovversivo, né un veterocomunista: Gavras ci tiene a sottolinearlo. «Me lo disse anche quella sera: non vuole uscire dall’Europa, né per forza dall’euro. Il problema è che il debito pubblico della Grecia è enorme: non riusciranno mai a rimborsarlo. E poi la responsabilità di quel debito è dei politici greci che l’hanno contratto ma anche del signor Barroso e della signora Merkel: hanno consentito che gli europei continuassero a vendere di tutto ai greci, anche forniture militari, sempre a credito».
La caduta del ceto medio
In tutti questi anni il regista ha viaggiato spesso nel suo paese di origine. «Ai tempi dell’illusoria crescita economica, se una famiglia voleva partire in vacanza, la banca proponeva subito di prestarle i soldi. Se voleva comprare la Mercedes, uguale. Avevano subìto la povertà, saltarono subito su quella che sembrava una buona occasione. Oggi il ceto medio non ha neanche i soldi per pagare il riscaldamento».
Quella sera di maggio Costantino (il suo vero nome) e Alexis fecero le ore piccole a discutere mentre Andreas, il padrone del Mavrommatis, serviva un piatto dietro l’altro: «Tsipras è simpatico, ascolta molto e fornisce lunghe spiegazioni». Dicono che sia un figlio di borghesi che vuole fare il rivoluzionario... «Anche Lenin era figlio di borghesi. E poi non è il criterio che utilizzo per giudicare una persona». Lunedì si sono sentiti al telefono: «L’ho felicitato», dice Costa-Gavras. Se all’inizio era un po’ diffidente «è perché in Francia Tsipras veniva sempre associato a Jean-Luc Mélenchon, che a me non piace per nulla». Il leader dell’estrema sinistra: lui sì, un po’ vetero... «Mélenchon dice che, se Tsipras ci è riuscito, adesso vincerà anche lui. Non ha capito che la gravità della crisi in Grecia è incomparabile con quella della Francia».
Costa-Gavras è sempre stato un regista impegnato e di sinistra. Ma allergico alle etichette partitiche, costantemente fuori dagli schemi. Condannò il totalitarismo di destra in Grecia in Z-L’orgia del potere, nel 1969, ma l’anno dopo anche quello comunista della Cecoslovacchia in La confessione. Negli anni settanta frequentava Roma, perché lavorò con lo sceneggiatore Franco Solinas. «Conobbi allora un certo Giorgio Napolitano. Io ero abituato ai comunisti qui a Parigi: brave persone, per carità, che difendevano degli ideali. Ma che per l’Urss nutrivano una fede religiosa. Poi vidi Napolitano e mi dissi: vedi che perfino un comunista può essere fedele servitore del suo stato».

Corriere 30.1.15
Apologia di terrorismo a 8 anni: Ahmed scuote la Francia
Secondo i legali il bambino sarebbe «indagato». La scuola: «Abbiamo solo segnalato frasi anomale»
di Stefano Montefiori


Parigi L’unica cosa accertata è che Ahmed, 8 anni, alunno di seconda elementare in una scuola di Nizza, all’indomani della strage a Charlie Hebdo si è rifiutato di osservare il minuto di silenzio e ha detto in classe «sono dalla parte dei terroristi». Mercoledì è stato convocato in commissariato e interrogato assieme al padre.
Per il resto, dell’accaduto esistono due versioni molto diverse: sadismo degli insegnanti e prova dell’ossessione antimusulmana di cui è preda la Francia dopo le stragi del 7-9 gennaio, secondo l’avvocato della famiglia e il Ccif (comitato contro l’islamofobia); oppure, giusta reazione di maestro e direttore della scuola, preoccupati che il bambino possa avere ripetuto frasi ascoltate in famiglia o altrove. Dopo ore di polemiche durissime ieri pomeriggio il governo, tramite il ministro dell’Educazione nazionale Najat Vallaud-Belkacem, ha preso posizione a favore della scuola: «Lo dico con forza, non solo l’équipe scolastica si è comportata bene, ma il suo lavoro di controllo, pedagogico e sociale è utile e merita il nostro ringraziamento».
Le due versioni restano interessanti e ugualmente drammatiche e dicono molto sulla tensione di queste settimane. L’avvocato della famiglia, Sefen Guez Guez, noto a Nizza per le sue battaglie legali contro il sindaco di destra Christian Estrosi, mercoledì ha reso pubblica la vicenda twittando dal commissariato con lo pseudonimo S. Ibn Salah.
Secondo la ricostruzione sua e del Ccif, il bambino sarebbe indagato con il padre per «apologia di terrorismo»; il giorno dopo l’attentato il maestro lo avrebbe portato dal direttore, nella classe accanto, e questi gli avrebbe ordinato per tre volte davanti a tutti di dire «Je suis Charlie» (la frase di solidarietà con le vittime, ndr ), minacciandolo anche di non dargli la solita dose di insulina (Ahmed è diabetico). Poi, mentre Ahmed giocava con la sabbia nel cortile della ricreazione, il direttore gli avrebbe detto «smettila di scavare, tanto non troverai il mitra che ti servirebbe per ucciderci tutti». L’avvocato ha anche denunciato il direttore della scuola perché avrebbe sbattuto la testa del bambino e lo avrebbe schiaffeggiato. Il padre invece è stato denunciato dal direttore per «intrusione nell’istituto scolastico», solo perché sarebbe entrato per incitare Ahmed, sotto choc, a non restare chiuso in bagno e ad andare a giocare con i compagni.
Secondo la ricostruzione della scuola e, in parte, delle autorità, Ahmed avrebbe detto invece con grande chiarezza «bisogna ammazzare tutti i francesi, io sono nel campo dei terroristi, i musulmani hanno fatto bene, i giornalisti meritavano di morire»; il bambino si sarebbe rifiutato di partecipare anche alla marcia di commemorazione delle vittime, non sarebbe indagato per apologia di terrorismo ma solo il padre sarebbe stato denunciato, e non perché entrò a scuola preoccupato ma perché minacciò a più riprese gli insegnanti; nel cortile non c’è sabbia, e quindi la frase sul mitra sarebbe impossibile. Smentita anche la minaccia dell’insulina. Fabienne Lewandowski, vicedirettrice della sicurezza pubblica del dipartimento Alpi Marittime, ha detto a Francetv Info che «le frasi del bambino erano molto strutturate e ben costruite. Perché è arrivato a dire parole simili? Chi lo ha influenzato? Un bambino di quell’età che pronuncia frasi del genere deve essere segnalato».

La Stampa 30.1.15
Se la Francia ha paura di un bambino
di Domenico Quirico


Ahmed è francese e musulmano. Ripetiamolo per non dimenticarlo: francese e musulmano. Ahmed ha otto anni. Lo hanno portato in commissariato gendarmi di quella République che ha inventato l’eguaglianza, la Rivoluzione, i diritti umani, quasi tutto. Se non fossero veri, potrebbero grottescamente esser sbucati dal racconto di Pinocchio: fermato, il bambino, «ope legis» perché nella sua scuola aveva rifiutato di unirsi alla universale deprecazione dell’orrendo attentato contro il settimanale satirico «Charlie Hebdo».
Richiesta evidentemente estesa anche ai minori. Il sospetto per le quinte colonne, gli infiltrati, le cellule dormienti, si propaga oltre gli orli del fatto, così come una macchia di inchiostro si espande sulla carta assorbente, acida e nera. Ahmed dunque è il luccichio minorile di quell’ altra Francia, adulta, che non ha sfilato nei boulevard e che resta pericolosamente ostile e rabbiosa. Il terribile silenzio di quelli che non dicono niente, il silenzio di coloro che sanno di essere perduti.
Hanno denunciato, per proprietà transitiva, il padre: per apologia di terrorismo. La legge (purtroppo! devono aver pensato i tutori dell’ordine repubblicano) non consentiva di proseguire nella punizione del mini terrorista. Che cosa diventerà quel bambino, ora che la realtà l’ha così brutalmente gettato al di la dello specchio, ora che gli tocca riconoscere la insensatezza speculare del mondo? Gli sarà ancora possibile guardare con meraviglia che è la vera magia dell’infanzia? La prima partita della vita l’ha perduta. O forse davvero il passaggio dalla innocenza alla saggezza avviene nel momento in cui ci accorgiamo che non tutti ci vogliono bene… Si impone qualche considerazione sul senso di colpa. Nell’Ottocento la Francia è stata protagonista della scienza positivistica che tendeva a dissolvere l’idea di colpa. L’uomo non era responsabile dei suoi delitti che venivano ricondotti alle tare fisiche, alla ereditarietà, alla educazione, all’ambiente. Tutto questo poteva chiudersi in una massima: anche il colpevole è innocente. Oggi viviamo in un sentimento opposto, si tende ad imputare a ognuno le colpe che non ha commesso: della sua razza, del suo popolo, della sua classe, dei suoi padri, della sua religione. Il principio è: anche l’innocente è colpevole. Un soffio di colpevolezza, di rimorso senza perché, esce da tutto il mondo totalitario che abbiamo attraversato e ahimè! stiamo attraversando.
Questa colpa totalitaria è il fondamento tragico delle epurazioni moralistiche. Il boia è sempre puro, l’assassinato sempre colpevole.
I gendarmi che hanno così puntigliosamente condotto al commissariato il precoce «terrorista» (e il maestro che ha li ha convocati) ignorano di avere dei precursori. Non sanno che la rivoluzione siriana, poi diventata guerra civile e ghiotta occasione di incubazione proprio del fanatismo islamista, ha avuto come miccia proprio l’arresto di alcuni ragazzini da parte dei «mukhabarat», i servizi di sicurezza del regime di Bashar Assad. Colpevoli di aver scritto su un muro «Bashar vattene!», slogan orecchiato durante una manifestazione contro il regime. «Terroristi potenziali»: sentenziarono immediatamente i gendarmi siriani, meglio prevenire: e li portarono al commissariato.
La domanda è: cosa ci distingue da loro, dai lanzichenecchi del califfo, dagli assassini del fanatismo, dalle guardie pretoriane del totalitarismo islamico e loscamente laicista? Non le parole scritte sulle costituzioni o nei discorsi dei politicanti, sono stinte, vuote, non basterebbero. Ci distinguono un sostantivo e un verbo: la capacità di distinguere. Tra il terrorista e un bambino per esempio, tra la vittima e gli assassini. E l’applicare il diritto che è misura e ragione e non la sharia della colpa collettiva.

il Sole 30.1.15
Le Pen cavalca il ritorno del nazionalismo
Il FN non gioca più destra contro sinistra, ma rilancia il mito francese dell’autonomia assoluta
di Marco Moussanet


Tra le tante voci entusiaste che lunedì scorso si sono alzate in Francia per inneggiare alla storica vittoria di Syriza ci sono quelle di Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen. I leader, veri o potenziali, di due schieramenti politicamente opposti ma entrambi portatori di un messaggio anti-europeo intriso di populismo e demagogia.
Mélenchon guida il Front de gauche, movimento a sinistra del partito socialista creato in occasione delle elezioni presidenziali del 2012. Il suo sogno è quello ci riuscire a riunire l’estrema sinistra movimentista, i comunisti, i frondisti del Ps e i verdi per creare un’alternativa credibile al partito del presidente François Hollande e del premier Manuel Valls. Se in cinque anni il Pasok è passato dal 43% a meno del 5% e Tsipras dal 4% al 36% perché in Francia non potrebbe accadere lo stesso? Tanto più che sulla carta i numeri di partenza sono interessanti: questa coalizione, stando ai risultati delle europee dell’anno scorso, partirebbe da una base elettorale di circa il 17 per cento.
In realtà si tratta davvero solo di un sogno. Lo scenario sociale francese non è certo quello greco e manca quindi la spinta di un malessere così profondo – vicino alla rivolta - da consentire il superamento dei tanti, troppi steccati (ideologici, culturali, personali) che dividono le possibili componenti di quella che sembra più un’armata Brancaleone che un soggetto politico in grado di rappresentare un’alternativa agli occhi dell’elettorato.
Ben diverso è il caso della Le Pen. In quattro anni – da quando cioè, il 16 gennaio del 2011, ha sostituito il padre Jean-Marie alla guida del Front National – ha rivoltato come un guanto il partito dell’estrema destra francese. Ha cacciato o marginalizzato i nostalgici dell’Algeria coloniale e i fascisti duri e puri, ha aggiunto un solido capitolo sociale ed economico a un programma fino ad allora incentrato quasi esclusivamente sui temi della lotta all’immigrazione e della sicurezza, ha costruito un forte radicamento territoriale in realtà (agricole e operaie) spesso trascurate dai partiti tradizionali, ha aperto le porte a una nuova generazione di quadri (a livello nazionale e locale) che si sentono affrancati dal peso ingombrante del vecchio Front National.
Ed è riuscita a far passare il messaggio che la nuova contrapposizione sulla scena politica francese non è più quella, anacronistica, tra destra e sinistra. Bensì quella tra “patrioti” ed “europeisti”. In quest’arena, lei ovviamente incarna la rivolta del popolo contro i diktat di Bruxelles, l’orgoglio e la dignità dei francesi rispetto alle imposizioni dei tecnocrati della Commissione. E ai discorsi di tutte le anime belle che vantano i meriti del multiculturalismo, del multietnico, del multireligioso.
Il risultato è abbastanza impressionante. Alle legislative del giugno 2012 il Fronte ha ottenuto il 13,6% dei voti e due deputati (entrando per la prima volta in Parlamento nonostante un sistema maggioritario penalizzante e le anomale alleanze destra-sinistra ai ballottaggi). Alle comunali del marzo 2014 ha conquistato undici città. Il 28 settembre scorso, in occasione del rinnovo parziale del Senato, ha ottenuto due posti alla Camera Alta. Ma soprattutto alle europee dell’anno scorso il Front National è diventato il primo partito, con il 25% dei consensi.
L’obiettivo a breve è ora quello di consolidare e rafforzare le posizioni alle elezioni provinciali di marzo (con l’obiettivo di vincere in sei dipartimenti) e di strappare una o due regioni in dicembre. In vista ovviamente dell’unico appuntamento elettorale che conta davvero in Francia: le presidenziali del 2017. Tutti i sondaggi dicono che la Le Pen dovrebbe arrivare nettamente in testa al primo turno, con il 28-31 per cento. Stando a una rilevazione shock di fine 2014, se il suo avversario al ballottaggio dovesse essere Hollande potrebbe anche andare a sedersi all’Eliseo.
E da lì cercare di contrattare un recupero di sovranità che di fatto sancirebbe la fine del progetto europeo. Minacciando in caso contrario un referendum per sancire l’uscita di Parigi dall’Europa.
È molto probabile che questo non accadrà, che la Le Pen nel 2017 non vincerà. Perché alla fine la maggioranza dell’elettorato – spaventata da una simile prospettiva e non esasperata come quella greca – le sbarrerà la strada (destra e sinistra stanno peraltro già immaginando una grande coalizione anti-Front National). E perché lo stesso partito, cresciuto e cambiato molto in fretta, è attraversato da tensioni (quelle interne alla famiglia Le Pen, quelle sui tanti omosessuali nel gruppo dei più stretti collaboratori di Marine, quelle sulla violenza degli attacchi alla comunità musulmana) che non gli consentono di trasmettere la necessaria immagine di compattezza e di rassicurante solidità.
Rimane soprattutto irrisolta la questione cruciale della mutazione genetica da partito extra e anti sistema – garanzia fino a oggi di successo – a forza politica di governo. Come testimonia un piccolo episodio di questi giorni, che ha scatenato molte polemiche anche all’interno del Fronte: il premio come sindaco dell’anno assegnato a Steeve Briois (anche lui omosessuale) da una giuria di giornalisti politici per l’elezione a primo cittadino di Hénin-Beaumont, roccaforte frontista del Nord-Est. Un vero evento sul quale nessuno avrebbe scommesso anche solo un anno fa.
Ma non c’è alcun dubbio che il Front National sia ormai un soggetto politico centrale e la Le Pen pensa che questo problema verrà superato dai fatti, con la dimostrazione sul campo che il Fronte è già in grado di governare, che il fosso è già stato saltato. Per farlo, deve assolutamente ottenere la guida di altri enti locali, una tappa vitale nella prospettiva del 2017. E si getta quindi con tutta la forza di cui è capace (tanta) in ogni competizione, continuando a parlare alla pancia degli elettori più che alla loro testa. Non c’è d’altronde giorno in cui non le vengano serviti degli assist. Dalla decisione di Bruxelles di chiedere alla Francia il rimborso di aiuti all’agricoltura per un miliardo ai sondaggi secondo cui il 51% dei francesi ritiene che la religione musulmana non è compatibile con i valori della società francese.
Certo, il giudizio pressoché unanime degli osservatori è che la Le Pen non si sia mossa con la consueta abilità nei terribili giorni degli attentati parigini (fino alla mancata partecipazione alla marcia repubblicana dell’11 gennaio). Ma il tasso di adesione alle tante manifestazioni pro-Charlie in tutto il Paese è stato inversamente proporzionale al peso elettorale del Fronte. E i prossimi appuntamenti con le urne ci diranno se la Francia vera è quella dell’unità nazionale che è scesa in piazza o quella silenziosa che è stata a casa e voterà la Le Pen.

Corriere 30.1.15
Le guerre dell’Islam,  responsabilità occidentali
risponde Sergio Romano


Sono passati oltre 13 anni dall’attentato alle Torri gemelle e non è cambiato nulla. Anzi, la minaccia del fanatismo islamico è enormemente aumentata. È nato il Califfato e si sta diffondendo a macchia d’olio: Isis e Boko Haran controllano un territorio vasto più della Francia. Senza dimenticare altre propaggini, come quella in Libia, a poche miglia dalle nostre coste. A tutto ciò, si aggiunge il proliferare dei «cani sciolti», pronti a uccidere in nome del Profeta e a immolarsi per la «giusta causa». Che cosa non abbiamo fatto che invece avremmo dovuto fare? Dove abbiamo sbagliato? Che cosa dovremmo fare?
Monica Alessandri

Cara signora Alessandri,
Credo che occorrerebbe rovesciare la sua domanda: che cosa abbiamo fatto che non avremmo dovuto fare? La lista è piuttosto lunga e comincia con l’Afghanistan che gli americani invasero il 7 ottobre 2001, quasi un mese dopo l’attacco alle Torri gemelle. L’operazione era giustificata. Il regime talebano di Kabul ospitava il responsabile dell’attentato di New York e rifiutava di consegnarlo agli americani o espellerlo dal proprio territorio. Ma dopo una vittoria iniziale e l’inutile caccia a Osama bin Laden nelle montagne afghane, gli Stati Uniti decisero di ritirare buona parte del loro contingente permettendo così che i talebani, dopo essersi riorganizzati, tornassero in campo e trasformassero l’Afghanistan, per molti anni, in un nuovo campo di battaglia.
Il vero obiettivo americano era l’Iraq di Saddam Hussein, invaso nella primavera del 2003. Anche in questo caso la vittoria militare fu rapida. Ma dopo avere debellato le forze di Saddam, gli americani sciolsero l’esercito iracheno e il partito Baath, condannando alla disoccupazione alcune centinaia di migliaia di persone. La decisione creò un vuoto istituzionale che il nuovo governo iracheno non riuscì a colmare, e una massa di malcontenti che andarono a ingrossare sia i ranghi del nazionalismo sunnita, sia quelli delle formazioni islamiste.
Per più di un decennio, cara signora, vi sono stati nel Medio Oriente allargato due grandi campi di battaglia, vale a dire luoghi che si prestano ad attrarre e addestrare volontari, palestre di guerra dove gli elementi più fanatici competono per la leadership scavalcandosi a vicenda sul terreno della crudeltà e della ferocia. Non è tutto. Un terzo campo di battaglia si è aperto in Libia dopo l’operazione punitiva contro Gheddafi, voluta soprattutto da Francia e Gran Bretagna, nella primavera del 2011. Anche in questo caso un’apparente vittoria militare ha avuto per risultato un Paese ancora più caotico e ingovernabile di quanto fosse nella fase che precedette l’inizio dei bombardamenti. Anche in questo caso le democrazie occidentali hanno contribuito ad aggravare, con le loro scelte politiche, il malessere e la turbolenza del mondo musulmano.

il Sole 30.1.15
La nebbia che avvolge le sorti del Califfato
La guerra al nuovo terrorismo. Nonostante la riconquista di Kobane, Isil controlla ancora ampie parti di Siria e Iraq
di Alberto Negri


Il Califfato vince o perde? Per alcuni è alla disperazione e gli americani sottolineano che seimila raid aerei hanno decimato le truppe di Abu Bakr Baghdadi. Ma l'Isil non appare così in rotta, nonostante la sconfitta subita da parte dei curdi a Kobane. Continua a far male, a ricattare l'Occidente e gli stati musulmani, tenendo sotto tiro la Mesopotamia con la più stretta applicazione della sharia. Non solo: dal Sinai alla Libia, dal Maghreb al Sahel, conta nuove affiliazioni di jihadisti che issando la bandiera nera come fosse un franchising di successo conquistano terreno e moltiplicano gli attentati terroristici.
In Occidente, soprattutto dopo i massacri di Parigi, si guarda al Medio Oriente con lenti deformanti che non sono le stesse degli arabi. Ci domandiamo, per esempio, se l’Isil sia popolare o impopolare e come riesca ancora ad avere il controllo di ampie zone della Siria e dell’Iraq senza un sollevamento degli stessi sunniti che afferma di volere difendere dagli sciiti di Baghdad e dal regime alauita di Damasco. Ma non tutti, purtroppo, la pensano come gli eroici curdi di Kobane, anzi.
Per capire il fenomeno del Califfato è interessante quanto afferma il segretario generale dell’opposizione siriana (Soc) Yahya Maktabi. «I bombardamenti in Siria della coalizione anti-Isis danneggiano l’opposizione moderata in quanto sono visti dalla popolazione come del tutto slegati agli obiettivi della rivoluzione contro il regime di Damasco e incentrati esclusivamente sulle esigenze di sicurezza dei Paesi partecipanti. Il fatto che le stesse aree finiscano per essere bombardate il mattino dalla coalizione e la sera da Assad complica le cose e spinge molti a vedere gli estremisti del Califfato come i veri oppositori del regime, sfilando il tappeto sotto i piedi dei moderati». Forse non tutto quel che dice Maktabi è esatto ma è già una spiegazione più approfondita di quelle correnti.
Il Medio Oriente rigurgita di interrogativi senza risposta che corrispondono ad altrettante guerre o conflitti interni. Che accade sul Golan tra Hezbollah e Israele? Ce la farà l’Egitto a tenersi in piedi e a contenere i jihadisti in Sinai? Cosa avverrà in Siria e Iraq se il Califfato sarà sconfitto? Come verrà divisa la Mesopotamia? E dove va la Turchia? Accetterà mai Ankara uno stato curdo? Ci saranno ancora attentati dei jihadisti in Europa? Il petrolio scenderà ancora? Si farà l’accordo sul nucleare con l’Iran che potrebbe cambiare i dati di tutta la regione? Per nessuna di queste domande c’è una risposta soddisfacente. Non ne ha una neppure il leader più potente di tutti, Barack Obama, che vaga per il Medio Oriente ascoltando le lamentele dei sauditi su Assad e l’Iran e presto si vedrà arrivare in casa Netanhyau senza neppure averlo invitato. Ma non basta l’autosufficienza energetica per avere una geopolitica efficace ed essere ancora dei leader mondiali incontrastati.

Repubblica 30.1.15
Il Leone del Kurdistan “Vogliamo il nostro Stato”
A Kirkuk con Kosrat Rasul Ali, una delle figure leggendarie delle battaglie
dei peshmerga, oggi in prima fila nella guerra contro l’Is
“I leader occidentali ci dicono: grazie, combattete per noi”
di Adriano Sofri


KIRKUK A CHE punto è la guerra con l’Is? Nel Kurdistan iracheno, il più efficace punto di osservazione, si hanno impressioni diverse. I confini della regione autonoma, allargati a Kirkuk, sembrano saldamente tenuti dai peshmerga curdi: ma il territorio riguadagnato in Iraq è solo l’1 per cento, secondo il comando Usa. Lo Stato Islamico tenta ancora attacchi ambiziosi, come a Gwer, avamposto della capitale Erbil: attraversato di sorpresa il fiume Zab, gli assalitori sono stati respinti e hanno lasciato sul campo 200 morti. 120 sono caduti fra i difensori curdi (la cifra fornita ufficialmente è molto più bassa). «Tra i morti dell’Is — dice Jasim Mohammed Kharend, agricoltore e peshmerga — c’erano quattro stranieri non circoncisi, dunque non erano musulmani». Si parla molto di una controffensiva della coalizione per Mosul, e si fa la data della primavera: la preparazione dell’esercito arabo-iracheno «ha ancora bisogno di mesi».
Nel governo di Erbil più impellenti sono le voci su una resa dei conti con l’Is a Qamishli, capitale del Rojava, la regione curda siriana. La sconfitta del Califfato a Kobane non fa piacere alla Turchia, che già vede accantonare la cacciata di Assad (questo è uno smacco per tutti): Erdogan si è affrettato a riescludere una regione autonoma curda in Siria. Ma Qamishli, se è al confine turco, è anche vicinissima a quello curdo-iracheno, sicché i peshmerga, diversamente che a Kobane, non avrebbero bisogno di lasciapassare per intervenire accanto all’Ypg (l’esercito nazionale del Kurdistan siriano). Il Kurdistan (formalmente) iracheno affronta un paio di problemi di fondo, oltre all’inadeguatezza irrisolta degli armamenti. Nello Shingal (Sinjar in arabo), dove l’avanzata dell’Is fece strage di yazidi e ne rapì bambine e donne, i combattenti curdo-siriani dell’Ypg e curdo-turchi in esilio del Pkk, politicamente affini, furono i protagonisti del soccorso, rimediando a un brutto sbandamento iniziale dei peshmerga. Oggi premono per una propria amministrazione cantonale, che il Kurdistan vede come una sottrazione inaccettabile alla sua integrità territoriale.
La controversia rinnova la minaccia di un conflitto fra curdi, dannazione di questo gran popolo senza Stato. E resta il cuore del problema del Kurdistan iracheno, ancora diviso in due grandi partiti-dinastie, il Pdk, radicato a Erbil e Dohuk, e il Puk, le cui roccaforti sono Suleimania e Kirkuk. Già protagonisti di una sanguinosa guerra civile fra il 1994 e il 1998, oggi governano insieme, ma conservando le rispettive prerogative, milizie comprese. La prodezza dei peshmerga aveva a che fare con una condizione di lotta partigiana largamente superata, anche se di prodezza c’è sempre bisogno, e l’addolcimento della vita cittadina non le si addice.
Il Kurdistan, mi dice Kosrat Rasul Ali, deve avere una forza armata unitaria e regolare. È uno dei personaggi leggendari che queste parti infelici del mondo ancora ospitano, scampato a una quantità di battaglie e di ferite, di cui porta i segni; e vi ha perso due bambini. Sta giocando una partita a scacchi con un avversario giovane e mi chiede di lasciarlo concludere: è lui, “il leone del Kurdistan”, a perdere, senza prendersela.
Parliamo delle armi, comprese le italiane: sono davvero ferri vecchi? Ride: può darsi, dice, ma buone lo stesso. Tutto è buono. Daesh (acronimo arabo che sta per Stato Islamico) combatte con armamenti evoluti. Certo che c’era bisogno dei bombardamenti: noi non abbiamo nemmeno un aereo. Perderanno, dice. Hanno potuto fare la loro avanzata da smargiassi perché il conflitto fra sciiti e sunniti aveva distrutto un esercito iracheno che era stato forte.
Chiedo: ma vi accontenterete di riprendere il vostro territorio, a costo di avere una lunghissima frontiera con un vicino come l’Is? La risposta, senza i suoi precedenti, sarebbe da sbruffone: «Se facessero sul serio, in 48 ore posso liberare Mosul. Le difese del-l’Is sono concentrate in due punti, a sud-ovest di Mosul e nella direzione di Shargat e Tikrit. Bisogna attaccarli in più punti. Conosco il terreno: dove hanno piazzato la principale fortificazione, Kasik, feci il mio servizio militare, nel ‘75». E i famosi “boots on the ground”, ossia l’intervento di terra? «Se lo fanno sono i benvenuti, altrimenti dovranno bastare curdi e iracheni. La maggioranza dei sunniti sta ancora dalla parte dell’Is, per il momento... almeno di giorno», ride. «Nel 1991, erano molti i curdi pro-Saddam, e di notte stavano con noi: ora è la volta dei sunniti sotto l’Is. Alla fine io liberai Erbil nel ‘91, senza colpo ferire. Noi veniamo dalla guerriglia, combattevamo in 4 mila contro 200 mila o più. È una scuola di coraggio e di dedizione. Ma senza un esercito regolare non avremo mai uno Stato. Col presidente Barzani abbiamo appena deciso, nel villaggio di Suhaila: arruoleremo i volontari, tra i 18 e i 22 anni, cui dare una buona paga e armi moderne, perché sia un esercito curdo, e non una milizia di partito. I nostri grandi veterani saranno d’accordo, hanno orgoglio ma anche lucidità. Le nostre rivalità sono una versione del perenne settarismo di famiglia socialista».
Be’, dico, se vuoi ti racconto un giorno qualunque del Pd italiano: e voi del Puk vi siete fatti portare via Suleimania da una scissione. Ho visto però che i commenti che deplorano queste divisioni aggiungono spesso: “A parte Kosrat...”. «Mi rispettano perché sono figlio di nessuno». Gli faccio la mia solita domanda: in questa liquidazione di confini, voi mirate a farvi il vostro Stato, o riuscite a immaginare una nuova geografia confederata del Medio Oriente, come l’Europa dopo il 1945? Le due cose, dice, Stato e Confederazione. Ma per lui lo Stato viene prima. «Con l’appoggio di Stati Uniti, Europa e Israele, e oggi sembra che se ne vadano persuadendo, potremo avere l’indipendenza. Si può lasciare un popolo di 50 milioni senza uno Stato? ».
Intanto succedono cose imbarazzanti: la coalizione si incontra a Londra e non invita il Kurdistan. Ufficialmente c’è l’Iraq. Però l’Is insulta i curdi come «i cani degli infedeli»: e oltretutto i cani qui sono tristemente malvisti. I capi degli infedeli, da Renzi, il primo a venire, alla ministro della Difesa tedesca Ur- sula von der Leyen, qui assidua, continuano a congratularsi: «Voi combattete per noi». Cortocircuiti diplomatici, sui quali Barzani alza le spalle: «Stiamo ancora aspettando l’invito di Londra».
Sono tornato a Kirkuk, posta della partita sul petrolio: in agosto era rischioso, ora è una trasferta tranquilla. Il mercato brulica di gente animali e veicoli di ogni sorta. La suggestiva Cittadella è sempre in rovina, ma riaperta al pubblico. La pipeline con il Mediterraneo turco (e un giorno, chissà, curdo…) si raddoppia, e la produzione va, benché ridotta dal mercato e dallo stato pietoso degli impianti. La Exxon ha allungato le mani sul futuro (gli italiani esclusi perché stanno a Bassora). L., liceale sedicenne, dice che sì, lei e le sue amiche parlano molto del Daesh, si dicono che devono essere pronte a fuggire. Chiedo a Kosrat di Kirkuk: tornerà in discussione, quando l’Is fosse debellato? Il ritorno di Kirkuk al Kurdistan è un fatto compiuto, dice. «Saddam distrusse i villaggi curdi e finanziò l’insediamento di famiglie arabe, che continua ora per l’immigrazione di sunniti in fuga: i curdi sono la maggioranza, ma si sono ridotti. Purtroppo fra gli arabi c’è un forte sciovinismo, come c’era fra i serbi. Io paragono quello che è successo in Iraq dopo Saddam alla ex Jugoslavia. E penso che il peggior governo curdo per noi valga più del miglior governo arabo-iracheno». Parliamo del Pkk: sono curdi, sono oppressi, dice. «Per quanti errori abbia fatto, Ocalan è in galera da quindici anni. Sono grandi combattenti, e senza di loro in agosto l’Is non sarebbe stato fermato sul Sinjar. A Kobane abbiamo pareggiato le cose». In una caserma vicina al fronte, uno dei pochi generali curdi di formazione accademica, nell’esercito iracheno, spiega che la rivalità fra Pdk e Puk spinge perfino all’accaparramento delle armi. Gli istruttori sono utili, dice, ma occorre tempo, e i peshmerga sono abituati alle armi di produzione russa: gli Rpg, per esempio, molto meno efficaci dei razzi anticarro Milan, di brevetto tedesco. L’Is ha combattenti sperimentati nella lunga pratica siriana, militari di professione iracheni, e mercenari. Gli dico che sono sorpreso della libertà con cui qui parlano delle operazioni militari: ride, ormai si sa tutto, fra cellulari e internet. Infatti: quando la fotografa comincia a fotografare i peshmerga, si mettono a turno in posa con lei per i loro telefonini, per immortalarsi su Facebook, in una pausa fra uno scontro a morte e un altro.

il Sole 30.1.15
Gelo tra Obama e Netanyanu, incognita in più per la regione
di Mario Platero


Non c’è limite al peggio, come sappiamo. Una massima che vale per i rapporti fra Barack Obama e Benjamin Netanyahu che da ieri, da freddi si sono congelati.
Lo sviluppo c’è stato dopo le rivelazioni del New York Times sull’ira di Obama e dei suoi per la decisione «unilaterale» e non condivisa di Netanyahu di andare a parlare al Congresso in seduta plenaria della questione nucleare iraniana a marzo. Secondo fonti della Casa Bianca raccolte dal New York Times, la decisione del premier israeliano senza informare l’Amministrazione rappresenta una gravissima violazione dell’etichetta diplomatica. Di più c’è un attacco frontale contro Ron Dermer, l’ambasciatore israeliano a Washington, accusato dalla Casa Bianca di manipolazione e di voler favorire «gli interessi politici personali di Netanyahu invece di quelli dello stato di Israele». Netanyahu infatti si presenterà alle elezioni pochi giorni dopo il discorso. Non si arriverà a definire Dermer come persona “non grata” a Washington, ma di certo alla Casa Bianca si suggerisce che un cambiamento sarebbe appropriato. La Casa Bianca ha anche anticipato che, per non interferire con le elezioni in Israele, Obama non vedrà il primo ministro durante la sua permanenza a Washington in occasione del discorso.
E ieri la vicenda si è complicata sul piano interno. I repubblicani e alcuni editorialisti come Jennifer Rubin sul Washington Post accusano l’Amministrazione di aver strumentalizzato il discorso di Netanyahu per aggregare un voto democratico sufficiente a bloccare il progetto di legge Menendez-Kirk, che prevede sanzioni contro l’Iran se non si faranno passi avanti sul negoziato per il disarmo nucleare e che potrebbe, secondo l’Amministrazione, far fallire i negoziati con Teheran per il disarmo nucleare. In effetti alcuni democratici si sono schierati al fianco di Obama, ma il rischio di una spaccatura nella tradizionale posizione bipartisan a favore di Israele è minimo. È difficile immaginare che parlamentari democratici non si presenteranno al discorso di Netanyahu che rappresenta l’alleato più importante degli Usa in Medio Oriente. E proprio ieri la proposta Menendez-Kirk è passata alla commissione bancaria al Senato con una maggioranza di 18 a 4 alla quale hanno contribuito sei democratici. Fra questi il senatore Bob Casey della Pennsylvania che ha sottolineato quanto sia preoccupato dall’Iran: «L’attacco di Hezbollah contro Israele dei giorni scorsi è stato certamente condotto con il beneplacito di Teheran e questo mentre in teoria stanno negoziando con noi», ha detto Casey che ha poi aggiunto di essere favorevole a posticipare il voto di riconciliazione finale dopo il 24 marzo, una delle scadenze importanti nel negoziato con gli iraniani.
È chiaro che l’intervento di Netanyahu sarà una provocazione e finirà con l’influenzare il dibattito sulle sanzioni che Obama cerca di bloccare. Ma la reazione pare eccessiva e forse persino controproducente per lui. La Casa Bianca dimostra di avere nervi poco saldi anche nell’attacco contro l’ambasciatore israeliano. Obama non sopporta che Dermer, nato in America, naturalizzato israeliano, divenuto uno dei più ascoltati consiglieri politici di Netanyahu, abbia dialogato direttamente con il presidente della Camera John Boehner senza mai avvertire la Casa Bianca. Ma Dermer fa l’innocente, si sorprende dell’attacco e si giustifica: «L’invito è venuto da Boehner, che io sappia doveva essere lui informare il Obama di questo appuntamento».

La Stampa 30.1.15
“Noi israeliani con l’incubo di Hezbollah”
Nei kibbutz-fortini del Golan: “Così Hezbollah ci assedia”
Fra gli abitanti in prima linea: temiamo i tunnel come a Gaza
di Maurizio Molinari


A 350 metri dal confine libanese sorge il kibbutz di Maayan Baruch dove gli abitanti vivono con l’incubo dei tunnel di Hezbollah. L’agguato con i razzi antitank al convoglio militare israeliano lungo la vicina strada 999 dimostra che i guerriglieri filo-iraniani sono sul piede di guerra e per Philip Pismanick, veterano della sicurezza del kibbutz, bisogna prepararsi al peggio. «I pericoli vengono dal cielo e da sottoterra» dice, dentro uno dei bunker in grado di ospitare trenta persone.
Ognuno dei 700 residenti ha diritto a tre quarti di metro quadrato di spazio. «Abbiamo costruito un quartiere di rifugi» spiega Pismanick, nato ad Atlanta in Georgia, «perché questo kibbutz viene bombardato dal 1947, prima lo facevano i libanesi, poi lo ha fatto l’Olp e ora sono gli Hezbollah».
Scavatrici nella roccia
Durante la guerra del 2006 sono caduti 16 razzi ma nelle ultime 48 ore Hezbollah ha cambiato arma: lancia colpi di mortaio perché sa che le batterie di Iron Dome non li intercettano. «Non possiamo perdere tempo a indovinare che cosa ci tireranno contro - aggiunge Ortal, volontaria nelle unità di emergenza e madre di una bimba di 9 mesi - e dunque abbiamo rinforzato al massimo i bunker». Ora sono ricoperti da grandi massi perché quando un proiettile cade «le rocce si spezzano e disseminano mentre il cemento può essere perforato».
Ma il pericolo maggiore viene da sottoterra. Yoram, capo della sicurezza, lo spiega così: «Sappiamo che Hezbollah sta scavando tunnel sul modello di quanto fatto da Hamas a Gaza, per questo l’esercito li cerca». Il riferimento è a quanto sta avvenendo a Zarit, nella Galilea Occidentale, dove da 48 ore i militari perlustrano il terreno cercando tunnel Hezbollah. Pismanick parla di «situazione nuova» perché «finora si pensava che scavare tunnel nel terreno roccioso fosse quasi impossibile» ma «adesso sappiamo che esistono macchine ad aria compressa in grado di scavare qualsiasi terreno, procedendo un metro al minuto».
Tutti armati
Ciò spiega perché Yoram ha organizzato una copertura 24 su 24 ore di ogni angolo del kibbutz, gestita dai residenti d’intesa con soldati e polizia. «Se sbucano dai tunnel e iniziano a sparare - dice Pismanick - la difesa è il primo membro del kibbutz che incontrano, deve essere armato e pronto». È in questo clima che cova irritazione con il governo di Benjamin Netanyahu per non aver lanciato una massiccia rappresaglia dopo l’uccisione di due soldati nell’area delle Fattorie di Shebaa, fra i confini con Libano e Siria.
Nel kibbutz di Snir, a ridosso del luogo dell’agguato, Yosi Hashalomi è furente: «Viviamo qui da sempre, conosciamo gli Hezbollah, la risposta deve essere poderosa altrimenti tornano a colpire». Shosha Tzuella, guida per turisti, rincara la dose: «Netanyahu doveva rispondere spianando le posizioni Hezbollah in un’area di 20 km». Snir è un kibbutz di matrice socialista, gran parte dei residenti votano a sinistra, ma su Hezbollah criticano Netanyahu da destra. «Sono terroristi e devono essere trattati come tali, senza sconti né fidarsi di impegni che violeranno» aggiunge Asa, 65 anni, in cui nonno tedesco arrivò in Galilea dopo la Notte dei Cristalli del 1938.
Attacchi sofisticati
Se a Maayan Baruch prevale la paura dei tunnel ed a Snir la rabbia contro il governo, nel villaggio di Nevè Ativ vive un ex ufficiale che dà una lettura più militare. Kobi Marom è l’ex comandante della brigata dell’Hermon, ha avuto per anni la guida della difesa di questi confini, e per spiegare cosa pensa ci accompagna sulla cima innevata del monte più alto della regione. «Hezbollah ha una nuova strategia - dice, indicando i luoghi di cui parla - lancia razzi dalla Siria verso di noi per estendere il fronte di conflitto, puntando a colpire hotel o turisti, mentre dal Libano compie attacchi di guerriglia, sofisticati, per portare il scompiglio nelle nostre retrovie». Sono le avvisaglie del nuovo conflitto che Hezbollah vuole combattere.

Corriere 29.1.15
Israele, il bottiglia-gate preoccupa Netanyahu: la moglie intascava i soldi (pubblici) dei vuoti
di Davide Frattini

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Repubblica 30.1.15
La Cina rivoluziona i piatti in tavola “Addio al riso mangiate patate”
Anche grano e mais sono da millenni gli alimenti base del popolo Ma adesso costano troppo
di Giampaolo Visetti


PECHINO RISO addio. Si apre in Cina l’era della patata. L’annuncio dei leader comunisti scuote 1,3 miliardi di cinesi: il tubero importato dall’America Latina sotto la dinastia Ming diventerà l’alimento base della loro dieta quotidiana. Non è la rivoluzione di Mao, ma dal piatto al paesaggio i cambiamenti promettono di risultare ancora più profondi. Per millenni i cinesi hanno vissuto con tre prodotti: riso, grano e mais. Anche il loro stomaco, assicurano gli scienziati, si è adattato a questa immutabile classifica biologica. Ora però non possono più permettersi il lusso dei cereali. Il riso richiede troppa acqua, il grano troppi terreni, il mais troppi anti-parassitari. Anche il tè, amante del fresco e dell’umidità, diventa un eccesso e viene soppiantato dal rustico caffè. Sconvolgimento del clima, boom demografico e meccanizzazione dei campi spingono così l’invasione asiatica dell’umile patata, apripista di agricoltura e alimentazione straniere.
Simbolo della tavola americana, i cinesi hanno sempre considerato il “fagiolo di terra” un sotto- prodotto per gente povera e di montagna. Il governo invece spiega oggi che è «ecologica, economicamente competitiva e ricca di sostanze preziose».
L’ordine “meno riso, più patate” cambierà il profilo del Paese e la temuta «occidentalizzazione della Cina», politicamente scorretta, risulta così, per necessità, gastronomicamente auspicata. Nel paniere cinese del Duemila, grazie al denaro, finiscono per la prima volta anche latte, cacao, carne rossa, vino e perfino il quasi ignoto zucchero. La vera rivoluzione però è quella imposta sottoterra. Secondo il ministero dell’Agricoltura la coltivazione della patata dovrà più che raddoppiare, arrivando entro due anni a 13 milioni di ettari. Ogni cinese consuma oggi 37 chili di tuberi all’anno, rispetto ai 56 di Usa e Gran Bretagna, o ai 63 di germanici e russi. Pechino ha deciso che il deficit sarà colmato entro il 2020.
Sconvolgere l’alimentazione popolare non è semplice nemmeno per un regime autoritario. La propaganda, non senza autoironia, assicura però che questa volta «è davvero per il bene collettivo». La patata soppianterà riso e grano perché resiste meglio a freddo, siccità, sbalzi di calore e terreni sterili, o avvelenati. Scopre cioè di essere il vegetale perfetto per ciò che anche l’Asia è diventata: alte rese economiche, basse pretese ambientali. Per il partito offre inoltre «valori nutrizionali superiori ai concorrenti» ed è «l’alimento ideale della contemporaneità». Tutti convinti, tranne la gente. Un sondaggio della tv di Stato rivela che il 74% dei cinesi non pensa affatto di rinunciare agli amati cereali, base per pasta, pane al vapore e zuppe. Nel Sud i terrazzamenti delle risaie sono l’icona del paesaggio e ancora ritmano giorni e digestione di milioni di contadini. Nelle regioni centrali e del Nord, grano e mais occupano il 66% delle campagne e servono a sfamare anche polli e maiali, spina dorsale della cucina han. Funzionari rossi e mercati globali si chiedono così se la Cina sia pronta per sconvolgere tavole e campagne, adottando la patata quale prodotto del futuro.
Per l’esplosiva classe media è anche un problema d’immagine. L’obbligo di patata suona quale minaccia d’austerità, come se la seconda economia del mondo imponesse il ritorno ai razionamenti delle carestie maoiste. Il governo assicura invece che tutto il pianeta sta adattando le colture alla crescente imprevedibilità del clima.

Corriere 30.1.15
La scure di Pechino sul patron di Alibaba «Vende falsi in Rete»
Agenzia governativa accusa il sito fondato da Jack Ma
di Guido Santevecchi


PECHINO Nuvole nere oscurano improvvisamente la nuova stella dell’ecommerce mondiale: la cinese Alibaba è stata accusata di permettere sulle sue piattaforme la vendita di prodotti contraffatti o che non soddisfano gli standard nazionali di sicurezza e di aver consentito pubblicità ingannevole. Tutto scritto in un dossier firmato dall’Agenzia statale cinese di controllo sull’Industria e il Commercio, vale a dire da un organo del governo di Pechino. I numeri dell’indagine sono gravi: solo il 37 per cento dei prodotti offerti su Taobao e Tmall sarebbero autentici, il resto non a norma, scadente o falso.
Almeno 279 milioni di consumatori e 8,5 milioni di venditori usano i due siti principali di Alibaba per l’ecommerce. Il libro bianco con le contestazioni è un bruttissimo colpo per il mito del geniale Jack Ma, il fondatore e presidente esecutivo del colosso che a settembre dell’anno scorso è sbarcato a Wall Street battendo tutti i record di capitalizzazione con una Ipo (Offerta preliminare di acquisto) che ha fruttato in un solo giorno 25 miliardi di dollari. L’accusa del controllore statale rischia di bruciare miliardi di dollari: appena il dossier è stato pubblicato, mercoledì, il titolo ha perso il 4 per cento, scendendo a 98,45 dollari. C’è molto di inusuale e oscuro in questo caso. È eccezionale che il governo di Pechino attacchi una delle aziende che hanno portato il nome della Cina nel mondo, un campione nazionale della new economy. Finora il controllore cinese aveva preso di punta solo grandi gruppi stranieri come Microsoft, Apple o case automobilistiche. Jack Ma ha sicuramente ottime relazioni con la nomenclatura del partito (anche troppe, secondo un’inchiesta del New York Times che ha individuato diversi figli di dirigenti politici con partecipazioni e interessi nell’azienda).
Poi c’è un problema di tempi. Il lavoro degli ispettori governativi era pronto già a luglio, ma non è stato diffuso per non danneggiare la quotazione di Alibaba sui mercati finanziari internazionali (questo lo ha sottolineato la stessa agenzia di controllo). Forse oggi Jack Ma non è più il beniamino del partito-Stato? «Lo hanno voluto rimettere al suo posto», ha commentato con la Associated Press l’analista Gil Luria di Wedbush Securities.
Il dossier ha acceso uno scontro verbale dai toni forti. Nel documento governativo si legge che Alibaba era stata avvertita, ma che ha consentito «a un foruncolo trascurato di diventare un bubbone rovinoso». L’agenzia scrive ancora di «aver cercato di svegliare Alibaba dal suo narcisismo, di fare grande attenzione alla serietà del problema rilevato e uscire dal suo arrogante stato mentale».
Neanche Alibaba ha misurato le parole della sua replica. Una reazione straordinaria contro un organo governativo in Cina. In un comunicato sul suo sito ha fatto il nome del funzionario statale che ha firmato il rapporto, il signor Liu Hongliang, accusandolo di «comportamento scorretto, irrazionale e fondato sul pregiudizio». Poi un secondo intervento, firmato da Jack Ma sul suo blog: «Taobao ha radunato un battaglione di 300 tecnici per dichiarare guerra alla contraffazione e continuerà a reclutare personale in tutto il Paese, cercando alleanze con i governi, i detentori di diritti di proprietà intellettuale e i consumatori» e mettere offline i prodotti falsi. Taobao sopporterà questa ingiustizia, questa responsabilità, l’accetterà e la risolverà». Alibaba aveva annunciato a dicembre di aver rimosso 90 milioni di prodotti sospettati di falso dalle sue piattaforme di ecommerce e di aver speso 160 milioni di dollari nella battaglia anticontraffazione a partire dal 2013.

Repubblica 30.1.15
La mia sciarpa così simile a un chador
Rispetto e speranza Il discorso al Nonino
di Martha Nussbaum


VIVIAMO in un periodo che è una vera sfida per l’umanità come mai lo è stato in anni recenti, un periodo che mette alla prova i valori della comprensione umana, il reciproco rispetto, e la compassione. Voglio dire solo poche cose sul fatto di vivere in tempi che mettono alla prova, in particolare, i nostri valori del rispetto e della tolleranza, dato che una terribile politica di xenofobia e odio ha preso, sfortunatamente, una spinta enorme dagli orribili crimini commessi dai terroristi in Francia.
Dovrei dire che preferisco la parola “rispetto” alla parola “tolleranza”, perché “tolleranza” suggerisce una gerarchia, in cui una maggioranza accondiscende a vivere con persone che non è detto che le piacciano. Ora: ritengo che dobbiamo fronteggiare il nostro difficile futuro con cinque propositi, tutti molto ardui da mantenere in un periodo di paura. È il dovere più solenne del nostro sistema educativo, sia a livello di scuola che di università, promuovere questi valori, ed è anche il dovere dei giornalisti: Intelligenza; Coerenza di principi; Immaginazione; Lavoro di squadra; Speranza.
Intelligenza prima di tutto . Dobbiamo cercare i fatti, e giudicare in base ai fatti. Non dobbiamo farci trascinare spaventati da voci irresponsabili a trascurare le prove o a giudicare secondo rozzi stereotipi. Tutti dovremmo imparare molto dalle varietà dell’Islam nel nostro mondo, in modo da capire chiaramente quanto malata e anomala sia la versione fornita da questi terroristi, e da sapere come possiamo trattare i nostri concittadini musulmani con rispetto. La maggioranza deve studiare anche la propria storia: per esempio, dovremmo essere consapevoli, quando parliamo di idolatria, che i divieti contro l’idolatria sono rilevanti sia nel Giudaismo che nella Cristianità Protestante, come pure nell’Islam, e sia nel Giudaismo che nella Cristianità questi divieti hanno portato a terribili atti di violenza – per esempio durante la guerra civile inglese, quando i Puritani distrussero l’arte rappresentativa nelle chiese e uccisero coloro che l’avevano prodotta. Dovremmo anche studiare le nazioni musulmane in cui l’Islam ha subito una trasformazione liberale illuminista: in particolare l’India e l’Indonesia, le due più grandi popolazioni musulmane del mondo. Coerenza di principi . Dovremmo giudicare gli altri esattamente come giudichiamo noi stessi, e sottoporci alle stesse regole che imponiamo agli altri. Se mettiamo al bando un tipo di abito musulmano sulla base del fatto che è lungo e ingombrante e quindi un rischio per la sicurezza, allora ci dovremmo preoccupare allo stesso modo di Martha Nussbaum, che cammina lungo Michigan Avenue a Chicago nel suo solito abbigliamento invernale, che copre non solo tutto il suo corpo ma anche la sua faccia tranne gli occhi – e anche questi sono coperti da speciali occhiali da sole che proteggono dal vento. I terroristi di solito cercano di mescolarsi con la folla: gli attentatori della maratona di Boston indossavano berretti da baseball e portavano degli zaini. Quindi il pensiero che siamo più sicuri se demonizziamo quelli che sembrano diversi non è solo offensivo, è stupido.
Ma nella nostra ricerca della coerenza dovremmo andare oltre la protezione della nostra stessa sicurezza verso la dignità e il rispetto. Permettetemi un esempio un po’ frivolo – ma non tanto frivolo, dato che lo sport ha una profonda influenza sulle culture, ed è un luogo centrale in cui i valori morali vengono o non vengono rispettati. La National Football League negli Stati Uniti ha recentemente annunciato che avrebbe imposto una multa a un giocatore musulmano perché pregava dopo una giocata particolarmente bella, inginocchiandosi a terra. C’è una regola che vieta di mettersi a terra dopo una giocata, non ho idea del perché, e hanno detto che aveva violato quella regola. Ma i giocatori e i tifosi hanno immediatamente puntualizzato che i pii giocatori cristiani erano sempre stati esentati da quella regola, essendo loro stato permesso di inginocchiarsi a terra in preghiera; e giustamente hanno chiesto che lo stesso trattamento fosse riservato al giocatore musulmano. Sono felice di dire che la lega ha fatto marcia indietro. Ecco quello che intendo con coerenza di principi, e il bisogno che ci sia si vede dovunque guardiamo nelle nostre società pluraliste, ma non sempre viene rispettato.
Immaginazione . Noi tutti nasciamo con la capacità di vedere il mondo da punti di vista diversi dal nostro, ma di solito questa capacità viene coltivata in modo molto ineguale e ristretto. Impariamo come appare il mondo dal punto di vista della nostra famiglia o gruppo locale, ma ignoriamo punti di vista più distanti. Per diventare buoni cittadini del nostro mondo complicato, dovremmo cercare di vedere il mondo da molte posizioni diverse. Informati dalla nostra conoscenza della storia, dobbiamo chiederci come le scelte che facciamo in quanto votanti e cittadini influenzino le vite di molti tipi diversi di gente, e non possiamo farlo bene senza vedere il mondo dal loro punto di vista. Coltivare l’immaginazione è uno dei compiti più importanti del sistema educativo, ecco perché dobbiamo rafforzare, e non tagliare, i programmi di storia, letteratura, e filosofia (perché spero mi permettiate di insistere che la filosofia è una disciplina immaginativa).
Lavoro di squadra . Viviamo con gli altri, ma spesso semplicemente esistiamo fianco a fianco, o, ancora peggio, vediamo gli altri come concorrenti da sconfiggere. I valori umani non possono prevalere nel nostro tempo pericoloso a meno che la gente non si unisca per trattare i problemi del genere umano. E devono unirsi in modi che implicano la non-gerarchia, il rispetto, e la reciprocità. Infatti, il lavoro di squadra implica tutti i miei tre primi valori: perché la vera reciprocità con gli altri richiede decisioni intelligenti; richiede che rispettiamo le norme della coerenza di principi; e richiede un’immaginazione in costante ricerca.
Speranza . Quest’ultimo valore sembrerà strano a molti. Da dove potrebbe venire la speranza in un periodo così desolato? E perché mai dovremmo sperare? Bene, Immanuel Kant ha detto che quando non vediamo margini per la speranza abbiamo il dovere morale di coltivare la speranza in noi stessi, in modo da massimizzare i nostri sforzi in nome dell’umanità, e cogliere ogni opportunità di far progredire i valori positivi che il mondo ci può offrire. Non ha detto molto, tuttavia, in merito a da dove la speranza dovrebbe e potrebbe venire, e ha fatto sembrare il dovere di sperare come un lavoro cupo. Tuttavia, vorrei suggerire che la speranza è sostenibile solo attraverso la gioia e il piacere della vita.

Repubblica 30.1.15
Roland Barthes. Barthologie
L’avventura di Roland tra i frammenti del pop
Un secolo fa nasceva il pensatore francese che indagò per primo i miti della contemporaneità
di Maurizio Ferraris


“SI fallisce sempre nel parlare di ciò che si ama” era il titolo del saggio che Roland Barthes aveva appena concluso per un convegno italiano su Stendhal e Milano, il 26 marzo 1980, quando fu investito da un furgoncino. Ricordo che uscì su La Repubblica. Barthes aveva sessantacinque anni non ancora compiuti, e oggi ne avrebbe cento, età non implausibile, visto che Lévi-Strauss quando è morto nel 2009 di anni ne aveva 101. Ma non era vero che di ciò che si ama si deve tacere. A Barthes è riuscito tantissime volte di parlare dei suoi amori: della madre e della fotografia come sopravvivenza della vita dopo la morte (La camera chiara), della stupidità e del suo potere seduttivo e commovente (L’ovvio e l’ottuso), e soprattutto della vita di tutti i giorni.
Se gli scritti più accademici oggi ci appaiono datati, Miti d’oggi è forse il testo più attuale, di una attualità tanto più stupefacente visto che i fenomeni di cui si occupa sono vecchi di sessant’anni.
Dipinti in questi testi più o meno brevi troviamo temi come il vino rosso e la bistecca con le patate fritte come alimenti identitari francesi, la Citroën DS (“déesse”, dea) come Nautilus e nuova cattedrale, il Tour de France come epopea, il catch come spettacolo sordido e adorato, i romani che sudano vaselina tutte le volte che pensano nel Giulio Cesare di Mankiewicz. Definire il settimanale femminile Elle “ vero tesoro mitologico” non è affatto inappropriato, specie da parte di chi dedicherà un libro al sistema della moda con la stessa serietà con cui gli etnologi studiavano i sistemi elementari di parentela.
Nelle Mythologiques Lévi-Strauss classificava i miti esotici, nelle Mythologies ( questo il titolo originale di Miti d’oggi, molto più esplicito e meno circoscritto di quanto non risulti nella traduzione, che vuole attualizzare l’eterno) Barthes classifica i miti di casa sua, o più propriamente i suoi miti. Così, le pagine che Barthes dedica, poniamo, allo stereotipo dello scrittore in vacanza, con Gide che risale il corso del Congo leggendo Bossuet, o dello scrittore che corregge le bozze, o riordina le memorie o gli appunti («E quello che non fa niente lo confessa come una condotta veramente paradossale, una prodezza d’avanguardia»), sono perfette e feroci soprattutto perché non sono diverse dal modo in cui Barthes si ritrae in pubblico. Si pensi, ad esempio, a quando, in Barthes di Roland Barthes , ci parla della “gioia di classificare” che riempie le sue vacanze nel sud-ovest della Francia, aggiungendo una propria foto in calzoni corti e sigaro tra i denti.
Dunque, a ben vedere, si parla solo di ciò che si ama. Bisogna aver visto un bel po’ di incontri di catch, letto innumerevoli réportages di l’Equipe, e possedere l’integrale di Paris Match, per poter parlare con tanta competenza di lotta, ciclismo o cucina. Bisogna aver sfogliato tante pagine di posta del cuore per poterne condurre analisi non meno impeccabili (e molto più partecipi) di quelle dedicate alla Fedra di Racine e per contaminarle con Proust e con Goethe nei Frammenti di un discorso amoroso . E il fatto che Barthes se la prenda proprio con i miti della piccola borghesia indica indubbiamente una scelta statistica (Madame Bovary è più diffusa che Oriane de Guermantes), politica (formatosi sui testi di Brecht, avrebbe trovato inammissibile decostruire i miti del proletariato), ma soprattutto affettiva. La “fragilità mentale della piccola borghesia francese” di cui spesso ci parla non è un segno di disprezzo, ed evoca piuttosto uno spavento, un timore per sé, pressappoco come quando Baudelaire annota «Oggi, 23 gennaio 1862, ho subito un singolare avvertimento, ho sentito passare su di me il vento dell’ala dell’imbecillità ».
Anche Barthes avrebbe potuto dire «Madame Bovary c’est moi!», Elle era forse una lettura della amatissima madre, Henriette Binger, la cui scomparsa, nell’autunno del 1977, lo aveva fatto precipitare in un lutto da cui non si sarebbe più ripreso: «No, il lutto (la depressione) è tutt’altro che una malattia. Da cosa si vuole che guarisca? Per trovare quale stato, quale vita?». Aveva ragione Gide: non c’è niente di più premeditato della sincerità, il che è un altro modo per dire che dallo stereotipo non si esce. Barthes ha amato i suoi miti e ne ha scritto come pochi altri hanno saputo fare. È del resto difficile parlare di un mito senza condividerne qualcosa. Lo stesso culto della scrittura senza autore, alimentato dal Barthes strutturalista e contestato nella pratica di una scrittura autorialissima è, dopo tutto, la consapevolezza, che è di Lévi-Strauss non meno che di Flaubert, per cui è negli stereotipi di Bouvard e Pécuchet o nei turbamenti di Cappuccetto Rosso che si nasconde una potenza collettiva ri- spetto a cui qualsiasi presa di posizione individuale appare vana come una goccia nel mare.
Questa, in fin dei conti, è la differenza tra l’analisi della cultura popolare svolta da Barthes e la critica della cultura di Adorno, una differenza che va tutta a vantaggio di Barthes. Adorno decreta che la sola musica è la dodecafonia, Barthes ragiona invece sull’immediatezza emotiva e corporea dell’ascolto delle canzonette («Ma pensa se le canzonette/ Me le recensisse Roland Barthes!», cantava Guccini in Via Paolo Fabbri 4-3, senza considerare che forse Barthes le avrebbe trovate troppo dotte e autocoscienti). Adorno definisce l’utente delle rubriche astrologiche come “il tipo di donna anziana coatta e isolata”, Barthes, che non si sarà perso un numero di Astra , ci vede il grado zero della letteratura, sia pure (e rieccoci) piccoloborghese.
Qui sta il grande insegnamento di Barthes. Il pop, ben lungi dall’insegnarci l’originalità, l’avanguardia (non è affar suo), ci mette sulla strada dell’ovvio e dell’ottuso, e ci insegna che, molto prima che creatori di miti, ne siamo fruitori più o meno consapevoli, e soprattutto ne siamo il frutto. Il mito non è qualcosa che si possa guardare dal di fuori. È il mondo in cui viviamo e da cui, semmai, dobbiamo cercare di distaccarci con una riflessione critica. Senza presumere di esserne indenni, salvi o immuni. Lo sapeva meglio di chiunque altro questo frequentatore dei Deux Magots o del Select, della Coupole o di Bofinger, dove, non abbiamo difficoltà a immaginarlo, avrà ordinato bistecca con patate fritte.

La Stampa 30.1.15
Caravaggio flop all’asta: il “Ragazzo che sbuccia la frutta” resta invenduto da Christie’s
Era stato stimato da i 3 e i 5 milioni di dollari, ma non ha trovato compratori

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