sabato 31 gennaio 2015

La Stampa 31.1.15
Lettere al direttore Mario Calabresi
Quel silenzio del Maestro e la porta chiusa per sempre
Il romanzo «L’ombra di Heidegger» parla del rapporto del filosofo tedesco col nazionalsocialismo
di Giorgio Roncolini

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La Stampa 31.1.15
Occidente il bello dell'edonismo
Il nostro vero valore è la relativa mancanza di valori: possiamo solo sperare che anche nel mondo musulmano si diffonda quella “fede debole” che ci è rimproverata
di Gianni Vattimo

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La Stampa 31.1.15
Gli italiani stregati da Papa Francesco
Eurispes, plebiscito per Papa Francesco
Il Rapporto 2015 indica un consenso che sfiora il 90%, mentre crolla la fiducia verso politica e magistratura
di Giacomo Galeazzi

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La Stampa 31.1.15
Da morti a risorti: il clamoroso ritorno dei democristiani
E un berlusconiano infuriato: “Sono cattocomunisti”
di Alberto Mattioli

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Corriere 31.1.15
Il ritorno della Prima Repubblica
«Risorgeremo come Lazzaro»
I dc e la profezia che si avvera
Paolo Cirino Pomicino: ««Neppure uno dei nomi presi in considerazione è figlio della Seconda Repubblica»
di Gian Antonio Stella

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il Fatto 31.1.15
Da Ciriaco ai dc renziani: la Lobby Bianca di Sergio
Prima che i “mattarelliani” diventino un esercito, ecco un breve elenco di amici e sponsor del candidato al Colle del premier: da Guerini in giù
di Marco Palombi


Gli sponsor di Sergio Mattarella aumentano di minuto in minuto e il loro numero, se oggi andrà come sembra, diventerà in breve legione. Pier Luigi Bersani, per dire, già s’intesta la candidatura al Colle ricordando che il candidato di Renzi era già nella sua short list nel 2013. Il Transatlantico, però, è un luogo spietato: conosce il potere e le sue interconnessioni e le dimostra a suon di capannelli e saluti. Il buon Bersani, ahilui, non è “mattarelliano”. Al contrario Francesco Saverio Garofani, uomo vicino al ministro Dario Franceschini, ieri s’è scoperto un sacco di nuovi amici e ha reagito come si suole: cominciando a concedere il saluto con più parsimonia.
IL NOSTRO infatti, ai tempi della spartizione delle spoglie democristiane tra Ppi e Cdu, fu il direttore con cui Sergio Mattarella e Gerardo Bianco tentarono di rifondare Il Popolo dopo un breve interregno targato Rocco Buttiglione. “Francesco è il suo figlio spirituale”, dice ora Franceschini, mattarelliano per interposto peones (Garofani, peraltro, fu brevemente famoso come cliente del Madoff dei Parioli e per aver usato lo scudo fiscale di Tremonti per rimpatriare dei soldi detenuti all’estero). Sorride intensamente, circondato da rinnovato capannello, anche Beppe Fioroni, uno degli organizzatori della cena che ha lanciato in maniera ufficiale la lobby bianca a favore di Sergio Mattarella ancor prima che Giorgio Napolitano lasciasse ufficialmente il Quirinale. Evocativa la sede scelta per la immaginiamo sobria riunione: il ristorante romano “Scusate il ritardo”, al Pantheon. Al tavolo, accanto a Fioroni, un uomo che non aveva bisogno del “mattarellismo” per scatenare i capannelli di Montecitorio: il vicesegretario vero del Pd (nel senso che l’altra è Debora Serracchiani), Lorenzo Guerini, già sindaco di Lodi e Dc doc, di scuola forlaniana, ma comunque passato al Ppi e alla Margherita proprio come Mattarella. Non lontani da Guerini, per restare ai renziani pro-Mattarella, al desco dei cinquanta e più penitenti democristiani sedeva pure Matteo Richetti, recentemente tornato nelle grazie del capo dopo aver rischiato l’ostracismo.
Non si può non citare - anche se in Transatlantico s’è fatto vedere solo giorni fa, quando Mattarella aveva pochissimi amici e ancor meno sponsor - Ciriaco De Mita, che per uno di quegli slittamenti che erano la vita stessa della Dc, finì per essere il capo corrente del forse prossimo capo dello Stato, nato invece mo-roteo. All’ex presidente del Consiglio, già “intellettuale della Magna Grecia” (copyright: Giovanni Agnelli), è bastato un giro in Transatlantico per compattare le truppe democristiane sparse praticamente in tutti i partiti: checché ne dicano i gruppi di appartenenza, Mattarella avrà i loro voti.
OVVIAMENTE, da contare, c’è pure Pierluigi Castagnetti, ultimo segretario del Ppi. Tutti dicono che sia stato lui a convincere Renzi a scegliere Mattarella e il nostro, come tutti i vincitori, lui non ha bisogno di vantarsi: è il capannello che parla per lui. Niente assembramenti di giornalisti e politici, anche perché se ne sta nella sua Firenze, ma anche un altro democristiano doc ha detto una buona parola per Mattarella è Giuseppe Matulli, ex deputato della sinistra Dc, proconsole di De Mita in Toscana, l’uomo sotto la cui egida è iniziata la carriera democristiana di Matteo Renzi. Inizialmente si era speso per Ugo De Siervo, altro dc caro al premier, ma Mattarella è sempre una persona di famiglia.
Tornando ai capannelli, invece, quanto prima li avrà indietro anche l’ex cda Rai Nino Rizzo Nervo, oggi a capo del Consorzio da cui dipende la “Scuola di giornalismo radiotelevisiva” di Perugia: il nostro fu assistente dell’attuale giudice costituzionale. A proposito di giuristi, poi, va citato anche il network attraverso cui sbarca il lunario Bernardo Giorgio Mattarella, figlio di, capo del legislativo della ministro Marianna Madia, docente di diritto amministrativo a Siena e alla Luiss, nonché membro del comitato direttivo dell’Irpa (Istituto di ricerche sulla P. A.), dove siede assieme a Giulio Napolitano, figlio di, suo coautore in diverse occasioni, sotto l’occhio benevolo dell’anziano maestro Sabino Cassese, quirinabile pure lui, ma senza la necessaria “Lobby Bianca”. Che poi, se a palazzo Chigi c’è un vecchio democristiano travestito da giovane democratico la lobby ha vita molto più facile.

La Stampa 31.1.15
Il declino degli ex comunisti traditi da gelosie e rancori
Fuori da tutte le poltrone rilevanti. Finocchiaro: “Ce la siamo cercata”
di Federico Geremicca


Ci sono tramonti e tramonti. Ce ne è di romantici, di infuocati, di languidi... Quello dell’anima diessina e post-comunista del Pd, è un tramonto triste e silenzioso: così inarrestabile ed evidente, però, da somigliare addirittura ad un’eclissi. Ad un declino.
La “ditta” di bersaniana memoria, perde colpi e posizioni. Non è un processo di oggi, è vero: ma oggi, mentre si va verso l’incoronazione di Sergio Mattarella - leader cattolico ed ex popolare - lo si può osservare in tutta la sua incontestabile evidenza. Il tramonto, il declino, si consuma in un’atmosfera mogia, fatta di soddisfazione troppo esagerata per esser sincera e di disappunto soffocato: il disappunto inconfessabile di chi non ha nemici con cui prendersela, per quanto di triste va accadendo. Un declino inevitabile? «Un declino da noi cocciutamente costruito», sussurra Anna Finocchiaro, aprendo la finestra sull’altro stato d’animo che serpeggia tra gli ex ds: la tentazione, cioè, dell’ennesimo regolamento di conti.
Non il capo del governo; non più (se Mattarella sarà eletto) il Presidente della Repubblica; non la guida del Pd, e nemmeno quella delle assemblee di Camera e Senato; non ministri di peso e nemmeno giovani leader che oggi appaiano in grado di ipotecare il futuro. Sostenere che gli ex ds - chiamiamoli la sinistra del Pd - siano ridotti ad una condizione di irrilevanza, sarebbe sbagliato: ma la spinta propulsiva di quella cultura pare essersi esaurita, «e forse c’è anche di peggio, purtroppo», annota Sergio Chiamparino, in un clima di fitta mestizia.
La sua annotazione è secca, ma accende il riflettore su un problema politico nient’affatto da poco: «Quando ci sono momenti di difficoltà, di divisione, non è mai sul nome di uno di noi che si riesce a ricostruire l’unità del centrosinistra - dice -. Successe vent’anni fa con l’Ulivo e con la scelta di puntare su Romano Prodi, succede di nuovo oggi con Sergio Mattarella. Dovremmo interrogarci sul perchè. Ma l’aria non mi pare questa...».
No, l’aria non pare questa. Sotto una cenere fatta di tristezza e disorientamento, infatti, arde la solita brace: quella dell’ennesima resa dei conti. «Sono divisivi - annota Beppe Fioroni -. Escluso Bersani, che pensa davvero alla ditta, dagli altri arrivano solo veti incrociati e manovre d’interdizione». Fioroni, forse, si riferisce ai colloqui intercorsi tra Renzi ed alcuni dei candidabili-presidente del Pd: alla fine degli scambi d’opinione, il segretario avrebbe avuto infatti la conferma che puntando su Veltroni o su Fassino, piuttosto che su Finocchiaro o Chiamparino, i gruppi parlamentari del Pd sarebbero letteralmente esplosi.
Gelosie e rancori ormai più che ventennali. E l’eterno duello D’Alema-Veltroni è solo l’epifenomeno di una tale situazione. E la “malattia” appare contagiosa, se solo si guarda al Vietnam in cui si è rapidissimamente trasformato il campo dell’opposizione interna a Renzi: cuperliani, bersaniani, civatiani, dalemiani, eccetera, eccetera, eccetera.
Matteo Renzi ha spesso approfittato delle divisioni interne alla minoranza del Pd. Stavolta, invece, qualche timore lo ha avuto. E se la frustrazione degli ex ds si tramutasse in nugoli di franchi tiratori? O ancora: e se di fronte al nuovo smacco prevalesse il solito muoia Sansone con tutti i filistei col quale due anni fa fu affondato (e mortificato) persino Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo? E’ vero che la quantità di voti che va convergendo sul nome di Mattarella (ieri anche quelli del partito di Alfano, oggi - magari - quelli di Berlusconi) è tale da metterlo quasi al riparo da brutte sorprese: ma se fidarsi è bene, non fidarsi è spesso meglio...
E così, ieri, “vedette renziane” hanno controllato addirittura i tempi di permanenza nella cabina elettorale dei parlamentari pd per vedere se qualcuno vi rimanesse un tempo eccessivo per una semplice scheda bianca. Renziani ed ex popolari, insomma, a controllare il voto degli ex diessini: il mondo alla rovescia, una mortificazione. E però le “vedette renziane” non hanno lavorato invano. Il rapporto poi sottoposto a Renzi, infatti, segnalava questo: in 42 sono stati in cabina un tempo eccessivo, non dovendo scrivere sulla scheda (da lasciare bianca) alcun cognome. Quarantadue: la metà dei quali riconducibile a esponenti della minoranza interna. Sarà stato un caso, chissà. Lo si capirà oggi, quando il tramonto degli ex ds potrebbe esser completo, e sulla Falce e sul Martello, e sulla Quercia e tutto il resto calerà il buio di una notte fredda e cupa...

Repubblica 31.1.15
La scomparsa degli ex comunisti
di Guido Crainz


OVE avvenga realmente, come è lecito sperare, l’elezione di Sergio Mattarella è un passo importante nella storia della Repubblica: nella sua vicenda più lunga e in quella degli ultimi vent’anni, in questa seconda Repubblica mai nata che forse oggi inizia a prendere forma.
LOè per le modalità in cui è maturata. E per lo scenario in cui si colloca. In seguito ad essa, con il centrosinistra al governo e con il Pd in un ruolo largamente dominante, nessuna alta carica delle istituzioni è ricoperta da figure che vengono dalla storia del partito comunista. Ma al tempo stesso quella storia, cui Napolitano pienamente appartiene, è stata parte importante di questa transizione, ha fatto in qualche modo da preparazione a questo esito. Esso deve molto, occorre ricordarlo sempre, anche al “senso della missione” di Giorgio Napolitano (sono le parole che egli dedicò qualche anno fa ai Costituenti). Non viene dal partito comunista Matteo Renzi, naturalmente, e non vengono da quella storia i presidenti di Camera e Senato: e forse proprio le modalità della loro elezione hanno dato un importante impulso a questo cammino. Non sono stati eletti con quella logica politica “pigliatutto” che aveva avuto largo corso nella prima e nella seconda repubblica, e non furono neppure frutto di quell’ equilibrio partitico aperto anche all’opposizione che era stato inaugurato felicemente, e finalmente, nel 1976 con l’elezione alla presidenza della Camera di Pietro Ingrao: equilibrio rotto poi dalle scelte del 1994 di Silvio Berlusconi (purtroppo imitate poi anche dal centrosinistra). Fu uno spirito diverso quello in cui maturò la scelta di Pietro Grasso e di Laura Boldrini, e portò per un attimo un soffio di speranza: presto soffocata da quel che avvenne, e che costrinse a fare appello al grande spirito di sacrificio di Giorgio Napolitano. Eppure un seme importante fu messo con quella elezione, e oggi va riconosciuto a Pierluigi Bersani di averlo saputo porre.
Anche per la storia del mondo cattolico l’elezione di Sergio Mattarella è in qualche modo una novità: non viene dal popolarismo prefascista, come era stato per Gronchi, e non ha vissuto l’aura della fondazione della Repubblica come Oscar Luigi Scalfaro. Viene da una storia recente, è testimone dei drammi e al tempo stesso della dignità della Repubblica: dall’assassinio mafioso del fratello al suo personale impegno nel trasformare la Dc siciliana (la Dc dei Lima e dei Ciancimino, cui seppe opporre il sindaco antimafia Leoluca Orlando). Sino alla rigorosa interpretazione delle leggi che lo portarono a dimettersi di fronte al diktat craxianberlusconiano sulla legge Mammì. Caso senza precedenti — è stato scritto —, quello di dimissioni collettive di ministri per coerenza politica, ma non è vero: avvenne anche ai tempi di Tambroni che alcuni ministri democristiani si dimettessero, in questo caso di fronte al sostegno determinante al governo del Movimento sociale italiano. Fecero prevalere le ragioni della democrazia, e furono sostituiti in un batter di ciglio anche allora. Mattarella rinvia inoltre all’avvio della transizione dal vecchio sistema dei partiti: alla legge elettorale poi abolita dal Porcellum, e anche a quella fedeltà al cattolicesimo democratico che è stato dato per morto con troppa facilità e che ha portato lui (e Rosi Bindi, e molti altri) a opporsi alle derive filoberlusconiane. Rinvia, Sergio Mattarella, alle origini del Partito democratico (Pietro Scoppola, che ne stese assieme a lui e ad altri il manifesto, oggi ne sarebbe lieto). Rinvia al ruolo importantissimo della Corte costituzionale nella nostra tormentata transizione. E fu anche ministro della Difesa nella difficilissima situazione della guerra e del dopoguerra del Kossovo: lo hanno dimenticato quegli imbarazzati esponenti del vecchio e del nuovo centrodestra che si sono appigliati sin alla sua presunta mancanza di esperienza internazionale. E si sono appigliati soprattutto «al metodo» seguito da Renzi, alla «imposizione» che essi avrebbero subito. Un’altra bugia dalle gambe corte: accanto al profilo di Sergio Mattarella è stato importante proprio il metodo che il segretario del Partito democratico ha seguito. Anche quel metodo fa sperare che la transizione abbia fatto un passo in avanti decisivo. Molti veti sono stati posti a Renzi nei colloqui che ha avuto — che ha voluto avere — con gli altri partiti: il nuovo presidente non doveva venire dalla storia del Partito comunista, doveva essere un moderato (meglio se cattolico, aveva aggiunto Alfano), non doveva essere un tecnico ma un politico, doveva essere un grande conoscitore delle istituzioni e della Costituzione, una figura di alto profilo (e non doveva essere persona troppo vicina a Renzi, e così via). Sergio Mattarella è tutto questo e più ancora: c’è da sperare davvero che oggi un voto larghissimo non consacri solo un nuovo presidente ma anche un modo di essere della Repubblica.

il Fatto 31.1.15
Ultimi sospetti democrat. Ma Renzi schiaccia tutti
Le minoranze interne paiono unite su Mattarella
La ricerca di consensi fuori dal partito serve anche a minacciare chi pensasse di fare scherzi
di Wanda Marra


I voti per Mattarella saranno 1010. Uno in più dei grandi elettori”. La battuta che circola in Transatlantico alle sette della sera, dopo la terza fumata nera, ma il sì di Alfano dato per scontato e la resa di Berlusconi, con l’indicazione a FI di votare scheda bianca, fotografa perfettamente il senso della giornata di ieri. La dinamica sembra un po’ quella dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, dove i personaggi venivano uccisi uno dopo l’altro. Questa volta sono gli avversari politici blanditi e annientati dal premier. Che si consegnano spontaneamente a Renzi. I voti stimati sulla carta per oggi da chi tiene i conti nel Pd sono tra i 630 e i 670. Ne servono 505. Sempre che qualcuno, magari nel Pd, nel segreto dell’urna, non scelga di guastare almeno un po’ la festa al premier. Un 10% di franchi tiratori sui 450 grandi elettori, è fisiologico.
Il thrilling, ieri, dura per tutta la mattinata. “Ma davvero è possibile che un gruppo decida di non entrare mentre si vota il presidente della Repubblica? ”, si chiede il responsabile Giustizia del Pd, il renzianissimo David Ermini. L’idea di FI a ora di pranzo sembra ancora questa. E con il no dell’Ncd il vantaggio per Mattarella è davvero risicato: ci vogliono 505 voti, sulla carta così ce ne sono 510 o 515. Ma la paura dura poco. Nonostante i malumori più o meno dichiarati di qualche sparuto dalemiano e la “franca” delusione dei veltroniani. Nonostante una consapevolezza: “In questo Parlamento sono in molti a odiare Matteo”, per dirla con un senatore dem. Però, più forte dell’odio è il timore: la minaccia di elezioni anticipate, se tutto non va come deve andare, e di mancate ricandidature, sembra funzionare alla grande. Fino alla prova del nove di oggi. Le malelingue raccontano di Ettore Rosato, vice-capogruppo Pd a Montecitorio, luogotenente di Franceschini, in genere molto scrupoloso nel controllare i lavori d’Aula, che ieri lascia correre. È il ministro della Cultura, quello guardato con più sospetto: il candidato è un Dc, ma non voluto da lui. Doppio smacco, per uno che qualche ambizione al Colle, ce l’aveva. Concitato, quasi nascosto, mentre nel pomeriggio confabula con Pier Ferdinando Casini. Altro Dc mortificato. Altre ambizioni quirinalizie rimaste deluse. Come quelle di Fassino, che i suoi li stressa.
CI PENSA Renzi a ridimensionare il dissenso. Alfano lo vede nel pomeriggio a Montecitorio: “Come può un ministro dell’Interno non votare un Presidente? ”, gli chiarisce. Ma lo convince a metà. Infatti, chiede aiuto a Giorgio Napolitano: usi la sua autorità per far ragionare Alfano (al quale poi l’ex Presidente telefona) e Casini.
Renzi non ha nessunissima intenzione di rendere la sconfitta degli alleati più indolore. Con Ncd è arrabbiatura ostentata. Per loro si pensa a un sistema di voto differenziato: se non seguono le indicazioni, qualche posto di governo salta. Magari quello di Lupi, che da buon ciel-lino Mattarella non lo vuole. Il fedelissimo Ernesto Carbone spara contro le sue “mire”: “Per fare il sindaco di Milano sta influenzando il povero Alfano”. In serata da Palazzo Chigi vanno sapere che i due si sono risentiti: “Clima sereno”. All’ex Cavaliere Matteo fa arrivare il messaggio: “Dai Silvio, facciamo ancora le riforme insieme”. Ma neanche lo chiama. Riunisce anche la delegazione del Pd (Guerini e Serracchiani, Orfini, Zanda e Speranza, più Lotti e la Boschi): tutti riportano un clima piuttosto disteso nelle varie correnti e sotto correnti. Qualche deputato, per evitare scherzetti e sospetti, aveva chiesto un sistema di controllo del voto. Il premier lo esclude: non vuol dare nessun segno di insicurezza. Alla fine della seconda chiama, ecco l’appello. Ecumenico. Ma niente di personale: “Siamo di fronte alla concreta possibilità che una personalità autorevole e stimata da tutti, un servitore dello Stato come Sergio Mattarella, diventi il presidente della Repubblica”. Rincara: “Non è una questione che riguarda un solo partito: la scelta del Capo dello Stato interpella tutti. Per questo auspico che si determini la più ampia convergenza possibile per il bene comune dell’Italia”.
PER UNA SERA anche Lorenzo Guerini, l’“Arnaldo” di Matteo, il Dc doc, perde il consueto aplomb. Il Presidente sarà un uomo della sua cultura politica. E lui ha trattato indefessamente per mesi. “Si parte da Mattarella e si arriva a Mattarella”, ha detto mercoledì sera davanti alle agenzie di stampa. Dichiarazione valutata imprudente in quel momento dallo stesso premier. Ma alla fine dovrebbe andare così. E nelle vesti di trionfatore si lascia andare a notare “l’irrilevanza politica del Movimento 5 Stelle”. Che forse voterà. O forse no. Un po’ di scaramanzia per l’ultima sera rimane. Tutti vanno a cena a finire di fare i conti. Ma l’ultima minoranza del Pd all’opposizione, quella dei bersaniani, spera di entrare al governo. E FI si deve accontentare della Boschi, soave come al solito: “Non abbiamo rotto il Patto”. Alla fine Renzi si troverà con un Presidente scelto da lui eletto alla quarta votazione, come andava dicendo da settimane, una maggioranza di governo sempre più obbediente e mortificata, il socio del Nazareno, più che indebolito, e un Pd addomesticato. Certo, restano i problemi dell’Italia. Per dirla con un giovane deputato: “È un genio. Del male”.

Corriere 31.1.15
Bersani su Mattarella: «Sergio fermerà certe sciocchezze incostituzionali»
«Sergio è un giurista, se tutto va, sarà un ottimo capo dello Stato. Renzi? Pensa ce l’abbia con lui ma non ho rivincite da prendermi. Noi vogliamo davvero aiutarlo»
intervista di Aldo Cazzullo

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Repubblica 31.1.15
La svolta unitaria del Pd ma la minoranza avverte “Sulle riforme cambia tutto sarà il Colle ad aiutarci”
Le accuse incrociate sui possibili franchi tiratori Sposetti: “Dico sì per disciplina di partito”
Giovanna Casadio e Goffredo De Marchis


ROMA Enrico Letta dice che Mattarella è «il Napolitano cattolico e per me quindi è il massimo ». Poche parole prima di tornare in aula a votare scheda bianca. Pier Luigi Bersani non vuole intestarsi alcuna vittoria, anzi sa che il dividendo maggiore va a Matteo Renzi. «Ma spero che adesso nel Pd si segua di più lo schema usato per il presidente della Repubblica e meno quello dell’Italicum. Se il Partito democratico è unito ha la forza spiega l’ex segretario - per guidare e per imporre le decisioni politiche». Senza Berlusconi, senza essere ostaggio del patto del Nazareno. «Se il Pd ragiona da Pd, cioè da perno politico del sistema come hanno voluto gli elettori - dice ancora - si possono fare delle belle cose». Che è un modo per rivendicare il successo dimezzato del 2013.
I 101 stavolta o sono molto ben nascosti o saranno un numero infinitamente più basso. «Al massimo il 10 per cento ossia 40», calcola il senatore Francesco Russo. Un “sabotaggio” fisiologico, malumori sparsi e personali, che consentono al braccio destro del premier Luca Lotti di passeggiare per il Transatlantico in pieno relax, di non guardare con sospetto tutti i capannelli di grandi elettori democratici che si formano nei corridoi. Le parole dei principali avversari interni di Renzi, Bersani e Letta, sono il via libera per un’elezione senza stress, lontana anni luce dal disastro di due anni fa con il tradimento nei confronti di Prodi. Certo, le voci non mancano. Qualcuno dice che c’è una fronda in preparazione da parte di alcuni senatori. «Ma non possono essere i 23 contrari alla legge elettorale. Loro hanno sempre separato i due piani», garantisce il bersaniano Alfredo D’Attorre. L’unico additato come sicuro dissidente è Ugo Sposetti, battagliero tesoriere dei Ds. Lui nega: «Voterò Mattarella, perché io credo nella disciplina di partito». Insomma, non è convinto. Tutti sanno che avrebbe preferito Giuliano Amato o la sua favorita Anna Finocchiaro, per la quale nutre una vera adorazione. Lo dice lui stesso e lo prendono in giro anche gli amici. «Vuoi trovare un anti-Mattarella doc? - scherzano il ministro Andrea Orlando e Nicola Latorre -. Vai da Sposetti ». E ridono. Il clima non è quello della trappola.
L’unità non è di facciata. Dai giovani turchi (tifosi di Amato) alla pattuglia veltroniana tutti capiscono che l’operazione politica di Renzi rafforza il Partito democratico. Eppoi, con la scelta di Sergio Mattarella, è difficile trovare punti deboli. «È una persona di primo livello, un uomo delle istituzioni», ha twittato Walter Veltroni, già giovedì mattina quando ha capito che la partita era chiusa. «D’Alema è un nemico di Renzi - spiega un dalemiano di ferro -. Ma non farebbe mai l’errore politico di azzoppare il premier danneggiando un suo amico come Mattarella ». Nel gruppo sorridente degli ex dc, Dario Franceschini, grande sponsor di Mattarella, rivendica il suo ruolo: «Sto attaccato a Matteo da tre giorni per preparare questo risultato. E una settimana fa lo ho accompagnato a conoscere Sergio». Lo ascoltano, al settimo cielo, gli amici certificati del possibile capo dello Stato: Piero Martino, Francesco Saverio Garofani, Alberto Lo Sacco, Antonello Giacomelli, Gianclaudio Bressa, Lapo Pistelli. Il senatore bresciano Paolo Corsini, che considera Renzi un usurpatore dello spirito originario del Pd, dissidente tra i più feroci a Palazzo Madama, s’inchina alla mossa di Palazzo Chigi. «Sono così contento che è come se dovessi votare Martinazzoli ». Ovvero il suo maestro.
Tutto liscio, allora? Nel caso di una sorpresa dell’ultima ora, i capi corrente indicano altri capi corrente come possibili organizzatori di trame. Ma il tono è quello del gioco semiserio, un po’ per mettere le mani avanti se arriva il disastro, un po’ per accreditarsi come mattarelliani della primissima ora. Già si ragiona sul dopo, come se il voto fosse scontato. Lo scossone al patto del Nazareno fa sperare la sinistra in un cambio di fase. Sulle riforme e non solo. Mattarella, ricordano molti di loro, è membro della Corte Costituzionale che ha bocciato il Porcellum, soprattutto per la questione delle liste bloccate, dei nominati. È sua la legge elettorale che è stata in vigore fino al 2005, il Mattarellum, dove il rapporto cittadini-eletti era garantito dai collegi uninominali, la battaglia della minoranza. «Ora ci sarà più spazio per la discussione», annuncia Gianni Cuperlo. «Da lunedì le riforme Matteo dovrebbe cominciare a farle solo col Pd», è l’auspicio di Rosy Bindi. Ma Renzi non vuole tornare indietro, ricominciare daccapo. «Noi andremo avanti con le riforme, Forza Italia non potrà sottrarsi, con Berlusconi ricuciremo », avverte Maria Elena Boschi. Il capogruppo Luigi Zanda si tiene stretta la maggioranza dell’Italicum: «Dobbiamo finire questa legislatura. Ci vuole una continuità». Come dire: viva il patto del Nazareno. Sul quale da oggi però vigila un nuovo capo dello Stato.

il Fatto 31.1.15
Il giurista Massimo Villone
“L’Italicum è incostituzionale Mattarella lo dirà”
di Silvia Truzzi


Cortocircuito numero uno: Sergio Mattarella, probabile futuro capo dello Stato, è anche il padre della legge elettorale che porta il suo nome e che è stata abrogata dal Porcellum. Cortocircuito numero due: Mattarella è membro della Consulta che l’anno scorso ha dichiarato incostituzionale il Porcellum, gettando un forte sospetto sulla legittimità del Parlamento eletto con quella legge e che ora si appresta a eleggere il capo dello Stato. Se Mattarella salirà al Colle, si troverà sul tavolo l’Italicum di cui molti costituzionalisti pensano assai male, perché riscontrano nel nuovo testo molti vizi del Porcellum. Tra loro c’è Massimo Villone, costituzionalista alla Federico II di Napoli ed ex senatore, prima con il Pds e poi con i Ds. Che spiega: “Assumendo di sapere per certo – e non è detto sia vero – che Mattarella in seno alla Consulta abbia votato a favore dell’illegittimità del Porcellum, ora si appresta a fare un altro mestiere”.
Cosa vuol dire?
Il presidente della Repubblica si attiva nel caso ravvisi la manifesta incostituzionalità di una legge. E può darsi che, se sarà eletto, Mattarella veda nell’Italicum questo vizio manifesto, ma può anche darsi di no. Se lo dovesse ravvisare però, ricordiamoci quali sono i poteri che la Carta conferisce al capo dello Stato: Mattarella potrà rimandare la legge alle Camere con un messaggio motivato, chiedendo una nuova deliberazione. Ma, secondo la dottrina prevalente, se il Parlamento dovesse riapprovare lo stesso testo, il capo dello Stato sarebbe costretto a promulgarla.
L’Italicum così com’è nella sua ultima formulazione, stride con quanto scritto dai giudici costituzionali nella sentenza 1 del 2014?
Non c’è dubbio. Intanto l’Italicum è un’emerita porcheria. E soprattutto a mio avviso è palesemente incostituzionale, confermando tutti i profili d’illegittimità ai quali la Corte àncora la decisione sul Porcellum, relativi alla rappresentatività delle assemblee e alla libertà e all’eguaglianza del diritto di voto, come “il più fondamentale dei diritti”. Sotto il profilo della rappresentatività, la Corte dice che si può limitare a beneficio della governabilità. Ma con un iperpremio di maggioranza e in aggiunta anche un ballottaggio, sono sicurissimo di avere la maggioranza. E allora le soglie, a che servono? Sono un limite inutile ed eccessivo, di cui non c’è bisogno, per garantire la governabilità. In realtà puntano a una semplificazione forzosa del sistema politico, che non è un fine costituzionalmente rilevante e bilanciabile con il voto, e anzi si pone in contrasto con l’art. 49 della Costituzione.
I capilista bloccati e le candidature plurime?
Anche qui c’è un problema di costituzionalità: pensiamo a una lista in cui io do una preferenza a Marco Rossi, e c’è un capolista che io non vorrei, ma che contribuisco inevitabilmente a eleggere. Il mio voto è ancora libero, ed eguale rispetto al voto di chi lo esprime volendo eleggere quel capolista? Così, se voto Marco Rossi a Milano e lui, che si è candidato anche a Roma, sceglie quest’ultima sede vorrà dire che eleggo chi non avrei voluto mentre magari a Roma accade il contrario. È un groviglio di elementi ognuno dei quali pesa sui principi enunciati dalla Corte. Con il vecchio Mattarellum c’erano due voti separati: quello di collegio e quello proporzionale con lista bloccata alla Camera. Di sicuro c’era una maggiore libertà.
Alla fine, stando alle simulazioni, praticamente solo il partito che vince avrebbe deputati eletti con le preferenze, gli altri sarebbero tutti eletti nel listino bloccato.
Un ulteriore argomento per dire che il voto libero e uguale sarebbe una mera finzione! Ricordiamoci poi che la legge elettorale vale per la Camera, ma s’intreccia con la riforma del Senato. Per com’è disegnato è un Senato dei nominati: così si colpisce ancora il principio di rappresentanza dei cittadini e si aggrava il vizio sistemico. Aggiungo: arriveremmo a un governo padrone del parlamento, grazie alla ghigliottina prevista nella riforma. Secondo me la Costituzione serve a limitare il potere, non a ingigantirlo a danno della partecipazione democratica.
Ha detto che il capo dello Stato non può fare più di tanto per bloccare le riforme, anche quando le ritiene incostituzionali. Però è molto diverso se l’inquilino del Colle, come è stato Napolitano, è molto favorevole. Lei pensa che Mattarella cercherà di fare argine?
Conosco Mattarella e penso che sia una persona per bene. La sua elezione sarebbe una buona premessa per il rispetto della Carta e per i valori che la fondano. Che possa davvero fare argine, dipende molto da quanto la politica si compatterà. Napolitano ha avuto tanto spazio perché sono stati i partiti, divisi e inerti, a darglielo: il capo dello Stato ha un peso inversamente proporzionale a quello dei soggetti politici. Tutto dipende da cosa sarà dello sciagurato patto del Nazareno.

Repubblica 31.1.15
Rosy Bindi
“Matteo mi ha fatto commuovere”
intervista di G. C.


ROMA «Mi sono commossa sì, fino alle lacrime. Ma avrei preferito che non se ne accorgessero...». Rosy Bindi parla di Sergio Mattarella e del vento che cambia. La presidente della commissione Antimafia nell’Assemblea dei Grandi Elettori dem di giovedì è andata ad abbracciare Renzi. Un gesto inatteso per una anti renziana.
Bindi, perché si vergogna della sua commozione?
«È stato un momento di debolezza...».
Ma cosa la commuove della candidatura di Mattarella?
«La commozione nasce per la storia comune del cattolicesimo democratico, non solo per la provenienza dalla sinistra Dc. E poi ho pensato alle vittime di mafia. Se Mattarella sarà eletto presidente della Repubblica, al Colle va un uomo il cui fratello Piersanti è stato ammazzato dalla mafia. È un riscatto per tutte le vittime di mafia».
L’agguato mafioso avvenne nel 1980.
«Sono passati 35 anni sia dall’omicidio di Piersanti Mattarella il 6 gennaio sia da quello per mano dei terroristi di Vittorio Bachelet il 12 febbraio del 1980. Una ragione per me di commozione in più».
Ha sentito Mattarella?
«Sì, gli ho telefonato. Teniamo incrociate le dita».
Renzi è stato bravo, lo ammette?
«Sì, certamente. Anche perché si è fatto aiutare. Il metodo di questi giorni si può trasferire a ogni scelta che deve fare il Pd e il governo». Ad esempio sulle riforme, su cui lei ha espresso più volte il dissenso?
«Certamente sulle riforme».
Ora che il Patto del Nazareno traballa, la sinistra dem diventa centrale?
«Il processo riformatore deve andare avanti, perché è vitale non mettere a rischio le riforme. Ci devono essere le condizioni perché nessuno sostituisca nessuno. Poi ragioniamo nel merito. Ho lavorato perché Ncd tornasse dentro nella partita per il Colle. Indispensabile a mio parere è appellarsi sia a Forza Italia che ad Alfano perché la qualità della candidatura di Mattarella merita che non si tirino indietro».
È diventata renziana?
«Resto bindiana. Non capisco questa riduzione a uno».
Si aspetta un cambiamento con Mattarella al Colle?
«È una candidatura eccellente, soprattutto in questo periodo perché è in grado di portare solidità istituzionale, moralità, sobrietà, grande equilibrio e fermezza».

Repubblica 31.1.15
La politica dei sassi di carta
È una buona notizia che sul voto per il Colle il Pd torni a marciare unito
Ma rispettare le differenze nell’era dei social network non è facile
di Nadia Urbinati


È DI buon auspicio che sul voto per il Colle il Pd torni a marciare unito. Certo, si tratta di una situazione una tantum, che non eliminerà il dissenso interno sulle scelte politiche sostanziali con il quale il nuovo Pd stenta ancora a trovare un modus vivendi. Ma qualcosa è avvenuto. E questo può cambiare quella che solo una settimana fa sembrava una casa divisa e piena di rancori. Sulla riforma elettorale, per esempio, avevamo assistito a una battaglia combattuta con un linguaggio povero di ragioni politiche e ricco di epiteti personali. Senza lesinare aggettivi, i protagonisti di quella competizione avevano imprecato contro i compagni di partito, trasformato per l’occasione in un’arena senza esclusione di colpi, un po’ come quella dei combattimenti di galli nell’isola di Bali raccontati da Clifford Geertz, dove lo spargimento di sangue serviva a marcare alleanze e fedeltà tra i membri della tribù.
Adattarsi alle differenze non deve essere facile in un partito che si è rifondato su una frattura tra rottamati e rottamatori, solco non facile da colmare. Sosteneva Schumpeter che la costruzione di una leadership di partito deve poter contare su un gruppo ristretto di fedeli, tra i quali non ci deve essere alcun dissapore visibile da fuori e che non deve farsi scrupolo di muovere gli “impulsi primitivi” del pubblico che guarda e giudica.
Chi studia le trasformazioni della politica nell’Italia del dopo Guerra fredda punta l’indice accusatore sul ruolo della televisione per aver contribuito ad imbarbarire l’agone politico. A questo concorre il piacere per lo stile vociano e papiniano che fa parte della nostra cultura nazionale, insofferente verso la politica pragmatica, quella per intenderci che si sforza di rivestire le emozioni e le passioni di ragionamenti e idee. L’era della videocrazia ha rinverdito questo costume.
Sosteneva Friedrich Engels che le elezioni hanno contribuito a trasformare la lotta degli interessi da violenta a pacifica, per cui al sasso vero si è sostituito il “sasso di carta” del voto. Un’arma che ha effetti non meno diretti sulla vita delle persone e che però li fa precipitare in un processo verbale di confronto ideologico che lascia all’avversario e al dissidente la possibilità di contestare e contendere la vittoria altrui, e la convinzione di riuscire comunque a condizionarne gli esiti. La lotta con i “sassi di carta” e con le parole che l’accompagnano è quindi molto più complicata da gestire del conflitto violento. Tutto questo è vero soprattutto nell’era della rivoluzione tecnologica dei mezzi di informazione e di comunicazione, che ha aperto le porte dell’opinionismo a tutti. L’attenzione all’audience è prevedibilmente più forte, proprio perché la misurazione del gradimento può avvenire in maniera istantanea. Come con il sasso di pietra, le parole gettate nell’arena dei nuovi media hanno effetti diretti e dirompenti.
L’immediatezza del riscontro di gradimento del pubblico trasforma il linguaggio, non solo il voto, in un “sasso” e le opinioni in armi formidabili di offesa. Leggendo i commenti dei lettori di Repubblica. itai vari articoli che raccontavano le dispute sulla legge elettorale nel Pd si è avuta l’impressione che questo sia lo stile praticato con consuetudine dentro e fuori il palazzo: e cioè che circoli largamente l’idea che chi non condivide deve tacere o lasciare. Tuttavia, nonostante la pratica generalizzata dell’arte gladiatoria, la mediazione non è per nulla un segnale di debolezza, anche perché la lotta politica fatta con le parole è comunque molto meno prevedibile negli esiti di quella violenta. Le impressioni e le emozioni mutano in maniera costante. E le parole della politica sono vincenti quando riescono a rappresentare in tempo reale questi mutamenti, a non essere superate dagli eventi. Per questo la rigidezza dell’unanimismo è di scarsissimo aiuto e di fatto controproducente, mentre la tolleranza e la scelta di un linguaggio sfumato si adatta meglio a un sistema politico nel quale, dopo tutto, nessuno ha il dono divino della verità assoluta. Si contano i voti perché si presume che la cooperazione di opinioni diverse e anche contrastanti possa contribuire a farci prendere decisioni migliori, che è appunto la posta in gioco della politica fatta con i “sassi di carta”.

La Stampa 31.1.15
Centrodestra sull’Aventino e ritorno
di Marcello Sorgi


La giornata del 30 gennaio, vigilia della quarta votazione e dell’elezione, che tutti danno ormai per scontata, di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, verrà ricordata per l’imprevista insurrezione del centrodestra a favore del candidato del Pd. Un mormorio, sfociato in aperta rivolta, contro la decisione annunciata dai capigruppo di Forza Italia Brunetta e Romani, di impedire ai loro Grandi Elettori di ritirare le schede e partecipare alla quarta e decisiva votazione, per far ricadere tutto l’onere dell’elezione sul centrosinistra e fargli scontare un maggior rischio di non raggiungere il quorum a causa dei franchi tiratori.
Se tutto ciò è potuto rientrare, è stato grazie all’iniziativa, assunta formalmente da Renzi, di chiedere pubblicamente un largo appoggio al nome di Mattarella. E a sorpresa, a spingere per un accordo tra il premier e il ministro dell’Interno è stato l’ex-Presidente Giorgio Napolitano, che da senatore a vita ha fatto nuovamente sentire il peso della sua esperienza e della sua moral suasion.
Così l’Aventino è stato rinnegato, dapprima, in aperta rottura del patto di consultazione, dal Ncd. E successivamente smentito da Berlusconi, che ha confermato la scelta della scheda bianca. Quanti dei suoi decideranno lo stesso di votare per Mattarella, è difficile dire, prima dello scrutinio.
Ma la sensazione è che nel segreto dell’urna si sommeranno i consensi di chi non accetta il «no» pregiudiziale al candidato con quelli di chi lo voterà solo per ribellarsi a Berlusconi e al modo in cui ha condotto la trattativa per il Quirinale. Accettando di pagare la pesante cambiale della legge elettorale, per poi motivare il proprio ritiro con il «tradimento» di Renzi e la violazione del metodo sancito dal patto del Nazareno.
Il gran rifiuto dell’ex-Cavaliere sarebbe stato più comprensibile se dalle consultazioni fosse uscito un candidato post-comunista o un ex-segretario del Pd. In fondo, nel 2006, Berlusconi si oppose alla candidatura di D’Alema e a Napolitano diede scheda bianca, senza stare a contare i franchi tiratori della sua parte che alla fine si schierarono per Re Giorgio. La non partecipazione al voto, invece, era stata usata due anni fa per isolare il centrosinistra nella tragica votazione in cui contro Prodi spuntarono i 101.
Ma di fronte a un moderato come Mattarella, ieri, molti dei parlamentari di Forza Italia e Ncd hanno fatto sentire la loro voce, costringendo l’ex-Cavaliere a ripiegare e a garantire che i Grandi Elettori sarebbero entrati in aula e avrebbero ritirato le schede, sia pure per depositarle bianche nell’urna. Era questa la libera uscita che senatori, deputati e rappresentanti delle regioni aspettavano per votare come gli pare.
Dopo la svolta e la contro-svolta di Forza Italia, anche Alfano ha capito che era indispensabile riaprire la trattativa. È stato Napolitano in persona, visibilmente presente nella lunga giornata di votazioni, ad adoperarsi per convincerlo dell’inaccettabilità della mancata partecipazione del ministro dell’Interno all’elezione del Presidente della Repubblica, o anche della semplice astensione: con la conseguenza, politicamente perniciosa, della spaccatura della maggioranza di governo, proprio nel momento in cui la sinistra radicale si riavvicinava al Pd. Conseguentemente, e sempre su consiglio di Napolitano, Renzi ha rivolto ad Alfano un appello formale, diramato dopo un lungo incontro tra i due, per la massima convergenza possibile sul nome del futuro Capo dello Stato: una corsia di salvataggio che il ministro e leader di Ncd non ha tardato a imboccare. La decisione di passare dalla scheda bianca al voto a favore di Mattarella, formalmente affidata nella notte all’assemblea dei parlamentari, in pratica era già presa da ore.
Alla fine Mattarella, da candidato di sfida del centrosinistra, è diventato il Presidente in pectore che oggi, nello spirito della Costituzione, sarà eletto da un ampio arco di forze politiche e da deputati e senatori di centrodestra che sceglieranno di disubbidire agli ordini dei loro partiti. Qualcuno si spinge a dire che anche Berlusconi, nella notte, potrebbe averci ripensato. Non è detto: ma non sarebbe neppure la più clamorosa delle giravolte a cui l’ex-Cavaliere ci ha abituato negli ultimi tempi.

La Stampa 31.1.15
Sconfitto sul Colle Berlusconi rischia anche in Forza Italia
Decine di grandi elettori azzurri pronti a seguire Renzi
di Ugo Magri


Dopo aver perso la partita del Colle, Berlusconi rischia oggi di farsi sfuggire di mano Forza Italia e di restare praticamente in pochi intimi, lui e il suo «cerchio magico». Se è vero il tam-tam della vigilia, frotte di «grandi elettori» forzisti sarebbero pronti a convergere stamane su Mattarella (che non amano) come gesto di rivolta contro i vertici del partito che li hanno condotti in questo cul-de-sac. Per cui ieri sera erano in molti a ipotizzare che l’ex Cavaliere fosse pronto a una capriola in extremis. E, vista la mala parata, impartire ordine di ritirarsi, trasformando la scheda bianca in un voto a favore di Mattarella... Alfano, Casini e Gianni Letta hanno tentato di convincerlo in tutti i modi che questa era la sola via di scampo, ma finora senza successo. «Non se ne parla nemmeno, ci rimetterei pure la faccia», è stata la risposta infuriata. Berlusconi sceglie di resistere ed eventualmente farsi travolgere, però con un sussulto di dignità.
Sotto un treno
Berlusconi sta come uno che in due giorni è precipitato da padre costituente, co-fondatore insieme a Renzi di un presunto Partito della Nazione, a condannato che deve tornare nel pieno delle trattative a Cesano Boscone per scontare la pena e seguire via telefono la Caporetto «azzurra». Sedotto e abbandonato, secondo il vecchio Bossi che si aggira a Montecitorio con un mezzo toscano penzolante dalle labbra. Profondamente offeso dal trattamento che gli ha riservato il premier, testimoniano le sue «pie donne», Carfagna in testa. Tradito dal premier e «ri-tradito» da Ncd, il cui ritorno a casa, prendono atto con sconforto ad Arcore, «è durato meno di 24 ore». E, adesso, pure con un partito che gli esplode come una bomba.
Resa dei conti
I 40 di Fitto sono inferociti contro il leader e «le badanti» (espressione dell’ex ministro) per aver messo Forza Italia al servizio del premier, salvo ricavarne una risata in faccia. Voteranno scheda bianca, ma se ci saranno defezioni nell’urna tutti penseranno subito a loro. E non soltanto a loro. Una trentina di «grandi elettori» che si richiamano a Verdini sono anch’essi con la bava alla bocca. Invocano un grande repulisti per motivi opposti ai fittiani ma ai fini pratici convergenti: accusano «cerchio magico» e capigruppo di avere indotto Silvio a rompere l’incantesimo del Nazareno, fino al delirio di ieri mattina quando un vertice Romani-Brunetta ha deciso che no, non sarà scheda bianca ma addirittura Aventino: nessuno stamane al voto per evitare i «franchi soccorritori», come li definisce spiritoso Gasparri (quelli che «votano nell’urna il candidato della sinistra in odio al Cav...»). È stato Berlusconi stesso a fermarli, appena uscito dalla comunità «Sacra Famiglia»: «Avevo detto scheda bianca e quella dev’essere», ha ribadito testardo fino a notte, nel tentativo di barcamenarsi tra gli opposti estremismi. Scuote la testa Minzolini: «Berlusconi va dicendo: “È tornato il teatrino della politica”. No, è tornata la politica. Che nel bene e nel male è proprio questa».

Repubblica 31.1.15
Il dietrofront sul Colle e l’anno zero del centrodestra
Il patto del Nazareno è stato smontato e riscritto portando la leadership politica nelle mani di Renzi
di Stefano Folli


L’ULTIMO tassello dell’operazione Mattarella è la nota di Matteo Renzi diffusa nel pomeriggio di ieri. Un auspicio, niente di più, alla «convergenza parlamentare» sul nome del designato perché egli la merita: è una figura degna, un servitore delle istituzioni e soprattutto non appartiene «a un solo partito». Poche parole, poco impegnative, senza concessioni sul piano politico. Costruite in modo di non dare il segno di una debolezza, di un timore improvviso alla vigilia del voto decisivo.
Nessun accenno, nemmeno indiretto, ai vecchi accordi parlamentari con il centrodestra (il patto del Nazareno, in linguaggio giornalistico). Ma un preciso obiettivo: recuperare i centristi di Alfano alla maggioranza di governo, impedire lo strano caso di un ministro dell’Interno che non vota il presidente della Repubblica. Obiettivo raggiunto perché il gruppo di Area Popolare (Ncd-Udc), al termine di una giornata di tormenti e mediazioni, non chiedeva altro se non una ragione formale per intraprendere il viaggio di ritorno. Le brevi righe di Renzi sono servite perfettamente allo scopo, dopo che il presidente «in pectore» Sergio Mattarella, che non è un parlamentare ma un giudice della Consulta, aveva rifiutato di farsi coinvolgere nel gioco degli appelli, a conferma di uno stile personale fondato sulla serietà dei comportamenti.
Sullo sfondo, al di là di Alfano, anche Berlusconi si è mosso. La nota di Palazzo Chigi gli ha permesso di tornare alla scheda bianca, rinunciando all’idea di non partecipare al voto, di fatto un auto-isolamento e una scelta ostile. Sarà una scheda bianca che assomiglia a un tacito «rompete le righe», nel senso che un certo numero di parlamentari di Forza Italia, al riparo del voto segreto, andranno in soccorso al vincitore. Anche così si riallaccia un filo verso destra. Adesso hanno poco senso le minacce berlusconiane, rese esplicite da Brunetta, di interrompere il lavoro comune sulle riforme. La rabbia comincia a sbollire e prevale la valutazione realistica delle convenienze. La prima delle quali suggerisce a Berlusconi di non perdere il contatto con Renzi, l’interlocutore privilegiato, ma anche l’unico, di ieri e di domani.
È chiaro che il famoso «patto»è stato smontato e riscritto dagli eventi: Berlusconi lo pensava come la premessa della diarchia, Renzi gli ha fatto capire che ormai la leadership politica è nelle sue mani. Ma il non aver spezzato tutti i fili è un atto di saggezza: il presidente del Consiglio evita di stravincere, Berlusconi sfugge alla tentazione autolesionista del «fronte del no». Quanto ad Alfano, con il ritorno a casa non gli sarà imputata la responsabilità di una crisi di governo e magari, chissà, delle elezioni anticipate: sarebbe stata una punizione sproporzionata per aver tentato di giocare, con forze esigue, un ruolo di primo piano nella scelta del capo dello Stato.
In effetti nella storia della Repubblica nessuno, fino a ieri, ha preteso di far coincidere in modo meccanico la maggioranza di governo con quella istituzionale che elegge il presidente. Né si sono mai innescate vendette e ritorsioni contro un «metodo» sgradito o un capo dello Stato diverso da quello immaginato. Il che non significa che gli strappi di questi giorni saranno privi di conseguenze politiche. Renzi, cioè il vincitore, dovrà continuare nella paziente opera di ricucitura. I rischi di destabilizzazione sono stati circoscritti e neutralizzati, anche grazie alla sorprendente opera mediatrice svolta da Napolitano, un presidente emerito che non ha intenzione di starsene con le mani in mano.
Ci sarà bisogno di una fase di riflessione nel mondo centrista e anche Berlusconi non potrà esimersi dal ragionare su quanto è successo. Le rendite di posizione non esistono, non c’è «patto» che possa garantire la difesa statica di certi interessi. In un certo senso oggi il centrodestra è all’anno zero e la vicenda Mattarella lo dimostra. Tutto lascia pensare che il giudice costituzionale sarà eletto stamane al Quirinale. Per l’Italia comincia il percorso verso una Terza Repubblica dai contorni ancora indefiniti.

il Fatto 31.1.15
Berlusconi e Angelino, Nazareni di complemento
Fi prima minaccia l’Aventino, poi ci ripensa
di Fabrizio d’Esposito


Succede alla sei della sera. La pioggia non cade più e Sergio Mattarella nei calcoli degli sherpa renziani supera il muro dei 600 voti. Dalle parti di Sel, dove i vendoliani sono raggianti manco dovessero votare l’erede di Che Guevara, ironizzano: “Magari prende 666 voti”. Il numero della Bestia. Non proprio il massimo per un cattolico praticante come Mattarella. Stavolta i 101 sono al contrario. Non franchi tiratori. Ma soccorritori. Addizione, non sottrazione. Dentro il Pd, Lorenzo Guerini prevede al massimo trenta defezioni isolate, per mal di pancia vari. Nulla di organizzato.
L’amaro pomeriggio del Nuovo Centro Destra
Nella noia e nell’attesa di un’elezione che appare ormai scontata, gli unici brividi arrivano da Ncd, il partitino ministeriale di Angelino Alfano. Un ultrà renziano di primissima fila, spavaldo, confida ai cronisti: “Domani mattina alle nove arriverà una dichiarazione congiunta di Berlusconi e Alfano che dicono sì a Mattarella”. In realtà, il ministro dell’Interno cede prima. Ed è proprio Renzi, in un colloquio teso, a rinfacciargli il delicato ruolo ricoperto al Viminale. “Ma ti rendi conto, tu sei il ministro dell’Interno come fai a non votare il capo dello Stato? Dovrai avere con lui un contatto costante”. Risposta: “Ma io sono un grande elettore, ho il diritto di decidere cosa fare”. I toni si alzano e “Angelino” cerca di fare la faccia feroce: “Matteo sinora ci hai sempre trattato con sufficienza. Se vuoi meritarti la nostra considerazione il primo passo fallo tu. Fai un appello e poi vediamo”. Le pressioni su Alfano sono tremende. Si fa vivo, con una telefonata, persino Giorgio Napolitano: “Nella tua posizione devi votare”. In cuor suo, l’ex delfino (senza quid) di B. sa che non schioderà mai dall’amata poltrona ministeriale ma deve conciliare il suo cerchiobottismo centrista con la rabbia berlusconiana e con le faide interne di Ncd. I socialisti di Cicchitto e Sacconi, per esempio, sono fuori dalla grazia di Dio. I più duri. Si sentono traditi da Renzi sul loro “compagno” Amato e non hanno dubbi. Rompere. La filorenziana Lorenzin è sul fronte opposto. Rimanere. Poi ci sono i democristiani del sud. I siciliani in primis, capitanati da Castiglione: “Sergio lo votiamo certamente”. Ed è a quel punto che si supera il primo ostacolo. Non più Aventino. Bensì scheda bianca. Una sorta di libertà di coscienza: “Chi vuol votare Mattarella faccia pure”. Gli alleati dell’Udc, Casini e Cesa, con cui Ncd ha fatto gruppi comuni, sono già d’accordo. La linea l’ha dettata, riferiscono, De Mita in persona: “Dobbiamo sostituire Berlusconi nel patto del Nazareno”.
L’attivismo di Gianni Letta
A dare man forte alla linea trattativista è soprattutto Gianni Letta. È lui che prende il posto di Verdini e tiene aperto un canale con il premier. Letta propugna la dottrina aziendalista di Confalonieri. Per la serie: “Silvio non ci conviene rompere, buttiamo giù il rospo Mattarella”. Il Condannato è ad Arcore, reduce dalla giornata di servizi sociali a Cesano Boscone. Ed è ancora sotto choc. Non si capacita del “tradimento di Matteo”. I sostenitori del mezzo sì a Mattarella (scheda bianca), se non di un voto a favore, gli sussurrano che in fondo “nel 1997, Mattarella non votò per l’arresto di Previti per l’inchiesta Imi-Sir”. È il tema del salvacondotto che ritorna. La fatidica Salvasilvio del 3 per cento e l’agibilità politica. Alle otto di sera, gli alfaniani non sono contenti del tiepido appello renziano e fanno slittare la riunione a stamattina. Berlusconi e Alfano si sentono in tardissima serata. La risposta al premier è prevista oggi. Due le ipotesi. Scheda bianca per entrambi. Oppure Ncd sì e Forza Italia scheda bianca.
Tramonta l’ipotesi fuga non i malumori
Tra gli azzurri, lo smarrimento da caos è totale. La minaccia dell’Aventino viene archiviata con sprezzo e con scherno dal capo dei ribelli pugliesi, Raffaele Fitto: “Non votare è un atto sudamericano”. Loro in aula ci saranno comunque. Tentati dal voto per Mattarella. Il toscanaccio Bianconi infierisce: “I nazareni dovrebbero dimettersi e fare il pellegrinaggio a Santiago de Compostela per espiare i peccati ai danni del centrodestra”. Vincenzo D’Anna, altro ribelle azzurro: “Io non prendo ordini da chi ha sbagliato tutto”. Nel frattempo undici senatori di Ncd, siciliani e calabrasi, di dichiarano pubblicamente per Mattarella. Pronostica un berlusconiano: “Se noi arriveremo a quaranta schede bianche sarà già tanto”. Nel voto a Mattarella si concentrano tre sentimenti: la vendetta antinazarena, l’umore antiberlusconiano di ritorno, l’orgoglio trasversale dei democristiani del sud. Nel Pd le uniche tensioni sono tra giovani turchi e bersaniani. Per i primi, Stefano Fassina rinfaccia a Miguel Go-tor di spargere voci false su franchi tiratori dei “turchi”: “Non è vero e tu stai mettendo le mani avanti ”. Già, il Pd. Ci saranno i traditori?

Il Sole 31.1.15
Le contraddizioni di Alfano
di Lina Palmerini


La scelta di Renzi su Mattarella aveva prodotto come primo effetto un apparente ritorno del bipolarismo, con un Pd compatto e un centro-destra, Forza Italia e Ncd, sulle barricate. Il problema, però, è che al momento il bipolarismo non c'è. Alfano è al Governo e il suo “strappo” lo ha messo al centro di troppe contraddizioni al punto di essere costretto alla retromarcia.
La mossa del leader Pd sul Colle è diventata un angolo per il partito di Angelino Alfano. Un angolo in cui è entrato spedito il leader del Nuovo centro-destra per cercare un asse con Silvio Berlusconi in vista delle elezioni regionali ma senza considerare le conseguenze che avrebbe comportato. E le contraddizioni, ieri, sono emerse tutte. Per questo il caso di giornata sono state le notizie che arrivavano da Ncd, prima di guerra, poi concilianti, poi di forte divisione tra i parlamentari, alcuni più vicini all’ex Cavaliere, altri più filo governativi. Una fibrillazione che è stata seguita forse più di quelle prodotte da Forza Italia proprio per gli effetti immediati che avrebbe avuto sulla maggioranza. E infatti lo strappo di Alfano contro il premier non avrebbe - poi - potuto giustificare la scelta di restare al Governo. Si può dire che i piani sono diversi, che un conto è governare, altro conto sono le istituzioni, ma se si apre una polemica direttamente con il capo del Governo per una scelta come quella sul presidente della Repubblica, logica vorrebbe che si traessero le conclusioni. Insomma, non si può accusare Renzi di non aver coinvolto una delle forze di maggioranza e poi restare in maggioranza. O l’uno, o l’altro.
L’errore è stato che Alfano ha imboccato sul Colle il bivio con Silvio Berlusconi in uno schema di bipolarismo ma senza che ci sia il bipolarismo. Ncd è in un Governo di “larghe” intese con il Pd e l’inversione a U sul Cavaliere portava a uno schema di uscita dall’Esecutivo e al ritorno all’opposizione ma il risultato è stato quello di rendere visibili proprio quelle divisioni tra “berlusconiani” e filo-governativi. E così è accaduto. In serata, una pattuglia di 11 senatori di Area popolare ha annunciato il voto su Sergio Mattarella esponendo il gruppo parlamentare a una prima scissione. E mettendo ancora più nell’angolo Alfano. Una strategia opposta a quella di Renzi che ha capito una lezione fondamentale sull’elezione del capo dello Stato: che il primum vivere di un segretario è tenere compatto il proprio partito e il pacchetto di voti di cui è portatore. E invece sia Alfano che Berlusconi, come in passato è stato per il Pd, si sono presentati all’appuntamento sul Quirinale con divisioni interne forti e visibili.
Ma non è stata solo questa contraddizione a spingere sull’otto volante Ncd dalla prima scelta per la scheda bianca fino alla spaccatura in serata con la maggioranza del partito favorevole al voto per Sergio Mattarella. Gli altri errori sono stati almeno due. Il primo è che Alfano non solo è al Governo ma è ministro dell’Interno, un ruolo delicato e centrale negli assetti dello Stato che rende quasi imbarazzante la scelta di non votare il futuro presidente della Repubblica. Come può il titolare di uno dei dicasteri più cruciali, quello che ha con un filo diretto con il Colle astenersi dalla votazione? O è un azzardo o un’ingenuità istituzionale.
Infine, ci sarebbe anche una questione meramente elettorale anche se non di poco conto. Se Sergio Mattarella verrà eletto sarà il primo siciliano al Quirinale, una “medaglia” per la Regione da cui proviene lo stesso Alfano e dove ha il suo bacino elettorale. Sarebbe piuttosto difficile per lui tornare a fare campagna elettorale in Sicilia senza aver contribuito a eleggere un siciliano come lui al Colle e per giunta un ex Democristiano. Nelle piazze e nei comizi sarebbe piuttosto difficile usare l’argomento del «metodo» di Renzi. Quando si cercano voti conta il risultato.

Repubblica 31.1.15
L’amaca
di Michele Serra


NIENTE e nessuno è in grado di irritare la destra profonda italiana quanto un cattolico di sinistra. Meglio, molto meglio i “comunisti”, veri o presunti, in funzione o fuori corso: quelli sono il nemico tutto d’un pezzo, da temere ma in fondo da rispettare come don Camillo faceva con Peppone. I “compagnucci di sagrestia”, come li chiamano ancora Libero e il Giornale, sono invece l’incarnazione di un tradimento indigeribile. La fede, a destra, dev’essere un baluardo identitario contro i rossi (vedi ancora Guareschi), e spenderla a sinistra, con equivoci pretesti di “impegno sociale”, è un’incomprensibile distorsione, è l’ibrido degenerato ben descritto dal termine “cattocomunista”, che a destra si pronuncia con vera e propria repulsione.
In questo senso Mattarella vale Prodi. Un test perfetto per capire se davvero la politica italiana è blindata dal patto del Nazareno oppure no, e quanto Berlusconi, a quel patto, si senta impiccato. Quanto al fatto che lo stesso Renzi sia, tecnicamente parlando, un “compagnuccio di sagrestia”, devotissimo a quel Giorgio La Pira che fu odiato e deriso, a destra, come pochi altri, si vede che è stato molto abile, fin qui, a tenerlo nascosto a Berlusconi, e forse anche a se stesso.

La Stampa 31.1.15
Renzi: capolavoro o errore strategico? /1
Massimo Cacciari:
“Ingannare l’avversario è una dote, ma non può permettersi passi falsi”


Professor Massimo Cacciari eleggere un Presidente al primo colpo sarebbe un successo politico indiscutibile, ma lo è anche dopo aver ripetuto per mesi che sul Capo dello Stato bisognava coinvolgere tutti e poi al momento decisivo imporre un candidato prendere o lasciare?
«Renzi ha dispiegato un efficacissimo machiavello e d’altra parte saper giocare l’avversario e saperlo ingannare, questa è una dote politica. L’uomo è animato da volontà di potenza delirante, e anche questo un pregio, purché non incappi in errori madornali, perché quando uno così sbaglia, difficile che poi trovi zattere di salvataggio. Finora Renzi ha commesso pochi errori madornali: quella di Mattarella è stata un’operazione intelligente, molto forte».
Si potrebbe dire: bravo Renzi, efficacissimo blitzkrieg ma è davvero capolavoro se perdi il tuo miglior alleato? Non rischia di archiviarsi, assieme al patto del Nazareno, anche il ventennio della Seconda repubblica?
«Il ventennio si è già chiuso da tempo. Già da anni Berlusconi politicamente non ha più nulla da dire. E d’altra parte a lui non conviene assolutamente votare contro il nuovo Capo dello Stato, gli converrebbe invece continuare come ha fatto negli ultimi tempi, per mettere a posto gli affari di famiglia».
Ma anche se Berlusconi proverà a rientrare, questa vicenda segnata dalla tattica e dal pubblico divorzio, non segna la fine di un rapporto politico?
«I due non sono affatto simili come si dice. Berlusconi è un galleggiatore, un personaggio molto da Prima Repubblica, con quella sua vocazione a piacere a molti; Renzi è un carrino armato, ha un modo di avanzare che non gli consente molti errori e per il bene dell’Italia speriamo che sia in grado di andare avanti, sia pure con questi straccetti di riforme. Avanti popolo! D’altra parte questo è il Paese...».

La Stampa 31.1.15
Renzi: capolavoro o errore strategico? /2
Giuliano Ferrara:
“Non è un Don Chisciotte ma un fiorentino furbo. Avrà anche svantaggi”


Giuliano Ferrara, quello di Renzi è una sapiente operazione tattica o un capolavoro politico?
«Si è svolta una schermaglia tattica molto tradizionale, con la differenza che stavolta non c’erano i partiti o le nomenclature ad incrociare le lance, ma sono state due persone a discutere un nome. Renzi aveva bisogno di qualcuno che fugasse l’impressione di un accordo cinico con Berlusconi ed è venuto fuori Mattarella, personaggio con una sua vena di intransigenza, ma che stando zitto dal 2008, da allora di lui non si conoscono le idee e comunque appare sopra le parti».
Per mesi Renzi ha ripetuto il refrain dell’accordo e al momento decisivo ha fatto l’opposto: tatticismo o qualcosa di più disinvolto?
«Renzi non passerà alla storia come un Don Chisciotte, non deve salvare l’onore del mondo, ma è un fiorentino che vuole salvare ghirba e fare le riforme. Berlusconi è un uomo molto pratico, crede alle strette di mano e si è sentito gabbato: è stato informato all’ultimo momento ed essendosi sentito messo con le spalle al muro, è rimasto incerto sul da farsi, col sospetto di aver subito un affronto eccessivo».
Su una vicenda come l’elezione del Capo dello Stato, consumata in questo modo così poco amichevole, come si può pensare che tutto torni come prima? In quel caso non sarebbe capolavoro...
«Se riuscirà ad eleggere Mattarella presidente, Renzi acquisirà dei vantaggi, ma anche degli svantaggi perché sarà dura ricostruire un dialogo, ma come disse il presidente Napolitano al principio di realtà non ci sono alternative: io non credo che questa vicenda segni la fine della base sulla quale si è costituita la legislatura e dunque anche la presa di possesso di Renzi sul governo».

La Stampa 31.1.15
Rino Formica:
Renzi: capolavoro o errore strategico? /3
“Né successo né boomerang. Il giovanilismo di Palazzo deve temere quello di piazza”


Onorevole Rino Formica, due settimane fa lei aveva previsto tutto: Mattarella contro Amato e Nazareno in crisi...
«Ma la politica è una scienza esatta...».
Siamo davanti ad un capolavoro di Renzi o a sapiente tatticismo?
«Non è questione di tattica o di strategia. Il Parlamento non gode più del rispetto che meriterebbe, perché lì oramai si ritrovano partiti che non ci sono più nella realtà di massa del Paese. Nelle votazioni di queste ore c’è qualcosa che ricorda il rito pre-funerario e voi che lo raccontate non avete la necessaria distanza per rendervi conto che la realtà sta evolvendo».
Renzi ha provato ad uscirne politicamente vivo e pare che l’impresa gli stia riuscendo, o no?
«Renzi e tutto il sistema politico erano davanti ad un bivio: affidarsi ad una personalità come Prodi o come Amato, gli ultimi che avrebbero potuto garantire una autoriforma del sistema, oppure....».
Sergio Mattarella è una personalità solida della “sua” Prima Repubblica...
«E’ una persona perbene, con un costume monacale, che ha vissuto una drammatica vicenda famigliare ed è dotato di dottrina costituzionale. Ma temo che lui possa essere l’ultimo Presidente della Repubblica che abbiamo conosciuto, potrebbe essere un Presidente provvisorio, che prima poi darà le chiavi ad un Presidente dotato di altri poteri. Come capitò in Francia con René Coty, che nominò De Gaulle presidente del Consiglio, affidandogli così le chiavi dell’Eliseo».
Un presidente chiamato Matteo Renzi?
«Il giovanilismo che ha agitato nel Palazzo prima o poi potrebbe determinare la rivolta dei giovani della piazza contro i giovani del Palazzo!».

il Fatto 31.1.15
La disfatta dei Cinque Stelle
di Luca De Carolis


Malconci. Spettatori a bordo campo, da dove oggi assisteranno all’elezione di Mattarella. Questa mattina (salvo ripensamenti notturni) i Cinque Stelle voteranno ancora il candidato di bandiera Ferdinando Imposimato, vincitore delle Quirinarie. Mero atto di presenza, a fronte di una disfatta politica. Nessuna convergenza su Mattarella, come speravano tre su cinque del Direttorio (Luigi Di Maio, Carlo Sibilia e Alessandro Di Battista) e parte dei parlamentari. Volevano proporlo al blog come nuovo nome per la quarta chiama, in una consultazione lampo. Ma i contatti con gli emissari di Renzi s’interrompono verso l’ora di pranzo. “Non c’è più margine per andare avanti” ammette il Direttorio. Valutazione subito condivisa da Milano, cioè da Casaleggio.
NON A CASO, alle 13.44 compare un post sul blog di Grillo, “Mattarella e l’uranio impoverito”. Lunga nota in cui si sostiene che l’ex Dc, ministro della Difesa nel governo Amato ai tempi della guerra in ex-Jugoslavia, “negò che la Nato avesse mai utilizzato proiettili all’uranio impoverito, o che questo fosse contenuto nei missili sparati in zona di guerra dalle navi Usa”. È il segnale della volontà dei diarchi Grillo e Casaleggio. “Renzi ha vinto la partita, tanto vale non contaminarsi” riconoscono. Si chiude: anche alla tentazione di gettare la carta Prodi alla terza chiama, previo ritiro di Imposimato. Per qualche ora però nel M5S si respira caos. Si-bilia annuncia su Facebook che “Mattarella se lo voteranno da soli”, ma aggiunge: “Stasera nell’assemblea congiunta delle 21 decideremo sul seguito delle votazioni”. Poco dopo Carla Ruocco, altro membro del Direttorio, chiarisce: “Il nostro candidato rimane Imposimato”. Diversi senatori sembrano non saperne nulla. Dal capogruppo Andrea Cioffi a Mario Giarrusso, definiscono come possibile un nuovo ricorso al web. Ma Di Maio dice al Tg2: “Se c’è un colpo di scena alla quarta, dalla quinta votazione siamo disposti a mettere sul piatto un altro nome”. Ossia alla quarta si vota Imposimato. È la conferma della distanza tra i due gruppi parlamentari. Mentre alcuni falchi lamentano: “Ecco a cosa ci ha portato la svolta strategica”. In serata, l’assemblea. Qualcuno propone la scheda bianca per coprire eventuali franchi tiratori. Ma si resta sulla rotta decisa. Oggi l’ultimo voto per il Colle: sperando che sia rapido.

Corriere 31.1.15
Elezioni del Presidente: indecisioni e lentezze
La goffa corsa al Colle che condanna i 5 stelle all’irrilevanza
di Marco Imarisio

qui

Repubblica 31.1.15
Caos M5S, in assemblea tutti contro tutti
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA . Il direttorio spaccato, il blog che dà la linea con un post contro Sergio Mattarella, parlamentari ortodossi infuriati con «chi vuole fare lo stratega senza esserne capace ». E un’assemblea alle nove di sera rigorosamente senza streaming, perché alla trasparenza c’è un limite, e il modo in cui è finita la partita è meglio non mandarlo in onda. Muore così il tentativo dei 5 stelle di incidere sul voto per il presidente della Repubblica. Scriveranno il nome di Ferdinando Imposimato anche alla quarta votazione. Non faranno un passaggio notturno sul blog per valutare la candidatura di Mattarella. Ieri mattina gli esponenti del direttorio stavano sondando questa possibilità. Hanno avuto molti colloqui con il Pd - con chi da mesi tiene con loro contatti riservati - ma sono rimasti divisi. A vincere è stata la linea del restare “puri”. Quella incarnata da Roberto Fico. A perdere, le grandi strategie targate Di Maio-Sibilia- Di Battista. Così, mentre ancora alla Camera alcuni parlamentari rilasciavano interviste in cui tutte le strade sembravano aperte, un post sul blog dettava la linea. Con la pubblicazione di un articolo contro la posizione di Sergio Mattarella ai tempi in cui era ministro della Difesa, e aveva negato la pericolosità dell’uranio impoverito e il legame con i numerosi casi di tumore nelle forze armate.
Improvvisamente, i parlamentari dichiarano i loro dubbi. Andrea Colletti parla di un «personaggio ben inserito nel sottobosco politico italiano». Carlo Sibilia di un presidente «gradito a Berlusconi». A sera, Di Maio dice al Tg2 che «un colpo di scena è sempre possibile» e che se così fosse «saremo pronti a mettere sul piatto un altro nome». Pensa a una quinta votazione, ma è una mossa disperata. Molti ortodossi sono arrabbiati con lui e con il suo tentativo di fare strategie trattando col Pd. Per sviare, insieme a Sibilia attacca gli ex. Parlano di una compravendita che sarebbe stata rivelata dalla deputata Paola Pinna (già cacciata) in un’intervista rubata trasmessa da Servizio Pubblico . Alessandro Di Battista - che non le parla da mesi - va a cercarla apposta in Transatlantico. L’unica battaglia rimasta è quella di delegittimare gli ultimi 10 fuoriusciti, con dichiarazioni che hanno come corollario insulti e minacce sui social network. E un clima di paura di cui la contestazione al Nazareno è stata solo il preludio.

il Fatto 31.1.15
Il prezzo del Colle
di Antonio Padellaro


Oggi Sergio Mattarella sarà eletto dodicesimo presidente della Repubblica oppure salta tutto. Come sempre a parlare saranno i numeri che nei tre scrutini con il quorum a quota 673 hanno già detto qualcosa. Che, per esempio, le schede bianche, di poco, ma sono progressivamente calate (538, 531, 513) mostrando qualche piccola crepa nel Pd. Che i voti dispersi e nulli, di poco ma sono cresciuti (81,87,97). Se si tiene conto che il quorum, da stamane, scende a quota 505 e che la carta Mattarella può contare sui circa 570 voti di Pd, Sel e centristi ma che la somma dei voti in libera uscita è 122, ecco che per il candidato siciliano la situazione non sembra del tutto rassicurante. Si comprendono perciò le pressioni di Matteo Renzi (spalleggiato dicono da Giorgio Napolitano) sul suo ministro dell’Interno Angelino Alfano affinché non faccia storie e metta i 75 voti di Area popolare a disposizione della causa comune. Cosa che puntualmente avverrà anche se con qualche defezione.
A quel punto e se i plotoni dei cecchini in agguato non si trasformano in armata è molto probabile che Mattarella ce la farà al quarto scrutinio, come del resto il premier aveva predetto. Ciò non significa che tutto sia andato liscio per il governo e per la sua maggioranza. Primo. Se Mattarella salirà al Colle con un margine di consensi modesto si presenterà come un presidente degno dell’incarico ma non certamente come un presidente forte e rappresentativo di tutto il Parlamento. È vero che anche Napolitano, la prima volta, non ebbe un plebiscito (543 voti su 990) ma si trovò ad affrontare un quadro politico meno frammentato e rissoso di quello attuale. Secondo. Eletto Mattarella, Renzi avrà portato a casa il risultato ma con molti cocci da riattaccare. Con Berlusconi, innanzitutto, che mentre Forza Italia è a rischio implosione ha bisogno di esibire come scalpo un Patto del Nazareno riveduto e corretto a suo favore. Senza l’appoggio del pregiudicato, infatti, Renzi rischia di non avere la maggioranza necessaria per l’approvazione definitiva dell’Italicum e di quell’impresentabile pasticcio che lui e la Boschi chiamano riforma costituzionale. Terzo. Anche il soccorso azzurro di Alfano avrà un prezzo e se lo statista di Rignano intendeva, come dicono, togliere qualche ministero al sopravvalutato partitino centrista, ora sarà lui ad abbassare le penne. Tutto questo se oggi le cose vanno bene per Renzi. Se vanno male, avremo tempo di parlarne.

Il Sole 31.1.15
Ora il Pd non sia un freno alle riforme
di Sergio Fabbrini


Certamente il partito (il Pd) che rappresenta il 45% dei grandi elettori del presidente della Repubblica non poteva non assumersi la prerogativa di proporre il suo candidato per quel ruolo. Nel farlo, tuttavia, è stato condizionato più dal suo passato che dal suo futuro.
Dietro il metodo e la strategia utilizzati per giungere alla candidatura di Sergio Mattarella (che è un ottimo candidato) si è manifestata una preoccupazione esclusiva da parte del Pd. Evitare il ripetersi del dramma dell'aprile 2013, quando il partito si divise tra diversi candidati, fino al punto da spaccarsi di fronte alla candidatura del suo fondatore, Romano Prodi. Ciò che successe in quel mese ha poi cambiato la storia del partito (e della legislatura appena nata). In quell’occasione morì il partito oligarchico dei capetti in costante rivalità, proprio per effetto della crisi di fiducia che era esplosa tra il partito e il paese. Il Pd di oggi è un partito radicalmente diverso da quello di allora. È un partito del leader divenuto inospitale verso la logica delle correnti e delle fazioni del passato. Inevitabilmente, il partito del leader ha presentato un unico candidato ai suoi grandi elettori, un candidato che rispondesse primariamente alla necessità di ricucire il rapporto di fiducia tra di esso e l’opinione pubblica. Ricostruire quella fiducia è, per Matteo Renzi, una condizione indispensabile per mantenere il controllo del governo. Per questo motivo, occorreva suturare la ferita del 2013, dimostrando agli elettori che lui è stato in grado di ri-portare ordine tra i suoi, evitando così gli errori dei suoi predecessori. D’altra parte, così succede anche in altri paesi. Negli Stati Uniti, ad esempio, i candidati presidenziali che emergono vincenti dalle primarie sono quelli che con più determinazione si sono distinti dai presidenti precedenti.
Ma se è comprensibile la preoccupazione che ha guidato la scelta di Matteo Renzi, è bene tuttavia non sottovalutarne le implicazioni sistemiche. Quella scelta è stata maturata all’interno del Pd, non già all’interno della maggioranza di governo, tanto meno all’interno della maggioranza parlamentare che ha finora sostenuto il processo delle riforme istituzionali. Naturalmente ogni problema ha una sua soluzione. Il governo quotidiano e la riforma del sistema possono basarsi su maggioranze diverse, così come l'elezione del presidente della Repubblica può scaturire da convergenze impreviste tra grandi elettori di partiti diversi. Tuttavia, è indubbio che una relazione virtuosa tra questi passaggi istituzionali avrebbe sicuramente favorito un loro esito positivo. L’elezione del presidente della Repubblica da parte di una maggioranza principalmente di sinistra avrà probabili conseguenze negative sulla fiducia reciproca tra il Pd e Forza Italia quando ripartirà (a breve) la discussione parlamentare sulla riforma del bicameralismo. È ovvio che le due cose sono distinte, ma è anche ovvio che nelle scelte di sistema la convergenza tra forze opposte costituisce una basilare condizione di legittimità.
Renzi e i suoi sanno che nel partito che sono riusciti a ricomporre in occasione dell’elezione presidenziale continuano ad agire gli avversari irriducibili delle riforme strutturali del paese. L’asse di sinistra che si è formato in occasione dell'elezione presidenziale non potrà dunque reggere la strategia riformatrice che riprenderà dopo l’elezione presidenziale. Quella strategia, per avere successo, richiederà il sostegno di forze esterne a quell’asse. Non solo per ragioni di legittimità, ma soprattutto per ragioni di necessità, Renzi non potrà concludere il processo riformatore senza il sostegno parlamentare delle forze modernizzatrici del centro-destra. Così, come si dice, si risolve un problema per crearne un altro. Per chiudere la vicenda del 2013 Matteo Renzi ha dovuto ricomporre il partito, ma la ricomposizione del partito può diventare una trappola quando riprenderà la riforma istituzionale ed economica. Da quella trappola si può uscire solamente avendo chiaro che i partiti sono un mezzo e non un fine. L'unità del partito non è un bene in sé, se è di ostacolo alla riforma del sistema. Il bene in sé è una democrazia italiana finalmente adeguata al XXI secolo, non un partito pacificato intorno alla preservazione di una democrazia che era già vecchia nel secolo precedente. Per troppo tempo, in Italia, si sono privilegiati i partiti alle istituzioni, gli interessi particolari a quelli collettivi. L’unità interna ai partiti è stata vista come il bene supremo cui sacrificare gli interessi del paese. Questo paradigma concettuale deve essere combattuto con forza, in quanto da esso sono derivati molti dei nostri problemi nazionali. I partiti che abbiamo oggi sono parte del problema, non della soluzione. Se le riforme andranno avanti, essi si divideranno di nuovo al loro interno. Un esito necessario se si vuole adeguare il sistema partitico alle esigenze del governo del paese (e non viceversa). Se Renzi e suoi sono consapevoli di ciò, allora è bene che ricostruiscano i nessi che collegano trasversalmente i riformatori dei vari schieramenti. Un lavoro che dovrà beneficiare dell’aiuto del nuovo presidente della Repubblica, in continuità con il lavoro svolto dal presidente precedente.

il Fatto 31.1.15
L’amico del padre
“L’omicidio di Piersanti lo ha cambiato”
di Giuseppe Lo Bianco


Palermo Sergio Mattarella? “L’ho conosciuto da ragazzino, abbiamo avuto frequentazioni e amicizia, che abbiamo tuttora. All’inizio non aveva alcun trasporto verso l’attività politica, era preso dai suoi impegni universitari, seguiva da lontano il fratello Piersanti, ma non era immedesimato. Dopo il suo assassinio ha avuto un risveglio impetuoso alla politica’’. I Mattarella, da Bernardo a Piersanti, il presidente ucciso nel 1980, Giovanni Cordio, 86 anni, li ha conosciuti tutti da vicino, dal dopoguerra fino al periodo in cui era vice segretario della Dc siciliana quando il segretario era Graziano Verzotto, l’uomo al centro dei misteri dei casi Mattei e De Mauro: “Ma mi occupavo solo del partito”, precisa, attingendo ai suoi ricordi di due generazioni di Mattarella. “Erano tutti morotei”, esordisce Cordio, che conobbe il patriarca Bernardo nel trapanese, nell’immediato dopoguerra: “Io sono di Salemi ed ero studente di liceo, lui era un avvocato molto vicino al cardinale di Palermo di allora e presidente di un’associazione della diocesi di Mazara del Vallo. Bernardo faceva parte di quel nucleo di ex popolari allievi di don Sturzo, con loro aveva collegamenti anche sotto il regime fascista, e si incontrava con l’onorevole Peppino Spadaro, punto di riferimento, per gli altri popolari, che viveva di nascosto a Roma. In Sicilia i leader erano lui e Salvatore Aldisio di Gela. Io seguivo con ammirazione e interesse le iniziative che organizzava per risvegliare la coscienza democratica dei siciliani, fino a quando morì inaspettatamente dopo un malore a Montecitorio”. Si disse subito dopo avere appreso la notizia del rapimento di un suo “figlioccio”, il figlio di Francesco Caruso, un ricco industriale del marmo molto amico di Bernardo Mattarella, rapito da un commando mafioso. “Ci fu molta speculazione politica – dice Cordio – avendolo seguito in molti luoghi devo dire che Bernardo era sostanzialmente integro, la malavita ondeggiava alla ricerca di protezione e di vantaggi ma lui si teneva lontano e non fu mai complice.
MORÌ perché conduceva una vita stressante e il giorno prima fu sorpreso da un acquazzone a Trapani: e nonostante fu visitato a Roma da un notissimo cardiologo, dovette affrettare i suoi giorni”. E per Cordio il vecchio Mattarella è estraneo anche da ogni coinvolgimento nel processo per la strage di Portella della Ginestra: “Uscì vittorioso e indenne da ogni accusa – continua Cordio – anche quella fu una montatura speculativa di partito. Ricordo che mi chiamarono a Milano a testimoniare, per una querela che Bernardo presentò contro una pubblicazione diffamatoria, tra i testimoni c’era anche il prefetto di Palermo e l’autore fu solennemente condannato”. Dalle “voci” sul padre, all’azione antimafia rigorosa del figlio Piersanti: “Tentò di ripulire la Regione sia da presidente che da assessore. Fu un’autentica vittima della mafia, per averla contrastata con iniziative note e poco note. Io ero nel suo staff con Luca Orlando, Raimondo Mignosi, Salvatore Butera, Rino La Placa, Mommo Giuliana”. E Sergio? È riservato, riflessivo, sensibile, i giornali lo hanno ben descritto. Ricordo che un giorno mi telefonò e mi disse di portare il suo saluto da vice segretario della Dc al congresso di Trapani. Con il padre e il fratello lasciano una testimonianza di dedizione, di libertà e di assoluto disinteresse personale al servizio delle istituzioni ed è una lezione che un po’ tutti noi abbiamo appreso”.

il Fatto 31.1.15
Ma oggi è “fil di ferro, statista e moroteo”
Quelli della nave del vincitore scoprono il grande uomo che non sapevano di avere: “Mite e parla solo di Costituzione”
di Emiliano Liuzzi


Era il più autorevole tra gli ignorati. Negli ultimi anni hanno avuto più prime pagine Scilipoti e Razzi che non Sergio Mattarella. Poi, all’improvviso gli italiani, quelli col pelo sullo stomaco e della “nave del vincitore”, hanno scoperto di avere in casa un grande statista, paragonabile solo a Roosevelt, Churchill, De Gaulle. Qualcuno lo aveva sempre saputo, si era dimenticato però. Commentatori in televisione, sempre dalla parte del vincitore, passati da Massimo D’Alema a Silvio Berlusconi, da Daniela Santanchè a Matteo Renzi. Tutti a idolatrare il candidato Mattarella. Alcune cose le hanno scoperte anche i parlamentari del Pd: “Grande giurista”, “uomo di ferro”, “combattente per la Costituzione”, “un voto al quale non si può che dire sì”.
UN RITORNELLO che si ripresenta sui grandi giornali. La Repubblica, nata combattiva, riesce in un titolo formidabile: “Dagli ex popolari (attenti a non nominare la Democrazia Cristiana ndr) agli amici del San Leone, il mondo riservato del giudice costituzionale”. Le premesse per un quadro perfetto, senza sbavature, un ritratto che non ammette nessuna criticità. Per intendersi: il quotidiano di Largo Fochetti nomina tutti, da don Luigi Sturzo a Giorgio La Pira, da Sabino Cassese a Benigno Zaccagnini, e quelle “giornate passate a discutere di diritto costituzionale con Leopoldo Elia”. Non è nominato, per esempio, Nicola Mancino, uno degli uomini più vicini a Mattarella. Perché Mancino di questi tempi si può ricordare, ma anche no. Scomodo, visto che Mancino è imputato nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia e Mattarella potrebbe essere convocato come testimone in quel processo. Meglio sorvolare sul duo Mattarella- Mancino che furono artefici della risurrezione della vecchia Dc nel dopo tangentopoli. Guai ricordare anche l’età, perché il messaggio di Renzi è quello che sia una scelta anche giovane.
Sulla stessa linea anche ilCorriere della Sera. “L’attesa del mite Sergio, ultimo moroteo”. “Guardate che ha dentro il fil di ferro”, è il messaggio del titolista tra virgolette, anche se la dichiarazione è del giornale, perché nessuno lo definisce fil di ferro. Solo l’articolista. Aldo Moro non è citato su Repubblica, ci pensa il corrierone a ricordare chi è davvero, ma nel pezzo di Moro neanche l’ombra. Sappiamo però che viveva in affitto, che la sua segretaria storica si chiama Leandra, ma poi non siamo certi di nulla, se non “che tifa Palermo, con una debolezza, pare, per l’Inter”.
ATTESTATI di stima incondizionata, in queste ore, arrivano da tutti i politici, di questo e quell’altro mondo. Alle 19.49 di ieri l’Ansa firmata dal sindaco di Roma Ignazio Marino: “Grandissima preparazione e persona molto seria”. Pietro Grasso, presidente supplente e tra le alte cariche dello Stato che un pensierino al Colle l’avevano fatto, si dice dispiaciuto “per non poterlo votare”. Oppure Walter Veltroni, anche lui candidato, che se la sbriga con una “persona di primo livello, un uomo delle istituzioni”. Tra i pochi fuori dal coro, Pupi Avati, al quale Mattarella non piace: avrebbe preferito il “cinefilo Veltroni”.
Ma citare tutti quelli che le agenzie hanno scovato è impensabile: Carmelo Barbagallo della Uil, Maurizio Ronconi per l’Udc in Umbria, il titolare del bar dove Mattarella va a prendere ogni tanto il caffè, il portiere della casa della famiglia a Palermo. Tra gli ultrà non poteva mancare il barbiere.

Il Sole 31.1.15
Sergio, il maestro Elia e i paletti costituzionali
«Per il Quirinale limiti invalicabili»
di Guido Gentili


«i limiti non valicabili posti dalla Costituzione ad una visione troppo estensiva del ruolo del Capo dello Stato». Sergio Mattarella, che non ha mai amato la ribalta mediatica, viene dipinto come “silente”. Tutto vero, ma fino a un certo punto. Perché ad una delle domande chiave che sfarfallano nella pancia del sistema dei partiti – se sarà eletto interpreterà il suo ruolo “alla Scalfaro” o sceglierà un profilo più neutro e comunque meno interventista?- lui una prima risposta l’ha forse già data.
Risposta tanto più significativa se letta oggi, visto che il programma delle riforme impostato da Matteo Renzi, e fin qui condiviso da Silvio Berlusconi, finirà per impattare di fatto anche sul ruolo del Presidente della Repubblica (in particolare con la nuova legge elettorale, che rafforza l’impianto maggioritario del nostro sistema politico).
Novembre 2008. Su «Europa», quotidiano dell’allora Margherita, Mattarella ricorda Leopoldo Elia, scomparso poche settimane prima. Elia era stato un grande giurista, giudice e poi presidente della Corte costituzionale, cattolico democratico e politico democristiano, ministro delle riforme del Governo Ciampi al tempo del varo della nuova legge elettorale chiamata “Mattarellum”. Con lui, Mattarella aveva condiviso in Parlamento molte battaglie, da quella, dopo decenni di tentativi, per la prima legge sulla Presidenza del Consiglio a quella del 2005 contro la riforma della Costituzione voluta dal Governo Berlusconi (e che sarà bocciata dal referendum popolare nel 2006).
Per Mattarella Elia è «un Maestro». Un anno prima, nel 2007, Giuffrè Editore aveva mandato in libreria due volumi tosti dal titolo «Poteri, garanzie e diritti a sessanta anni dalla Costituzione». Tra i contributi più autorevoli quello di Elia: un rapido saggio su una “Lettera” confidenziale che il giudice costituzionale Mario Bracci aveva scritto nel dicembre 1958, anche sull’onda della riforma costituzionale gollista appena varata in Francia, al Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
Su «Europa» Mattarella richiama proprio quel saggio e la riconferma di Elia di quei paletti «invalicabili» posti dalla Costituzione ad una visione «troppo estensiva del ruolo del Capo dello Stato». Già, perché Bracci (scrivendo al presidente Gronchi, accusato dal fondatore del Partito popolare don Luigi Sturzo di eccessivo interventismo) poneva un problema: «Spostare il regime nei limiti consentiti dalla interpretazione della Costituzione, e per quanto sia politicamente possibile, dalla tradizionale prevalenza del Parlamento, spesso velleitaria, alla prevalenza del Presidenza della Repubblica verso quel tipo originale di repubblica presidenziale, che è resa possibile dalla lettera e dallo spirito della Costituzione e che il corso degli avvenimenti rivelerà, plasmerà e renderà adeguata alle esigenze del Paese». Insomma, il Presidente ha già tutti i poteri necessari, compresi quello di indirizzo di politico e «la permanente minaccia dello scioglimento delle Camere».
Elia scrive di «ipervalutazione» delle possibilità di intervento del Quirinale e ricorda un altro costituzionalista, Carlo Esposito, che aveva ritenuto anche lui che «fuori dalla grandi crisi» , il Presidente della repubblica parlamentare «dovesse in ogni suo atto procedere in collaborazione col governo, lasciando la decisione finale a chi portava la responsabilità degli atti presidenziali».
Mattarella, nel 2008, è sulla linea di Elia e lo interpreta riaffermando i principi della Costituzione come argine alla visione «troppo estensiva» del mestiere del Presidente della Repubblica. Il messaggio è felpato, indiretto, caratteristico di una disquisizione giuridica di alto profilo in lessico democristiano. E parrebbe non bastare per rispondere alla domanda «se verrà eletto, Mattarella seguirà un sentiero modello Oscar Luigi Scalfaro o una strada alla Cossiga-picconatore o alla Pertini?».
In realtà il Maestro di Sergio Mattarella, Leopoldo Elia, nell’unico scritto richiamato dall’oggi candidato Presidente della Repubblica per ricordarlo, scrive che gli «sembra innegabile che, sia pure nel quadro di una funzione di ultima garanzia del sistema, Pertini e Scalfaro abbiano utilizzato vie e mezzi molto simili a quelli indicati da Bracci». Il quale però, come abbiamo visto, «ipervalutava» i poteri del Presidente della Repubblica e sottovalutava «la forza dei partiti maggiori».

Corriere 31.11.15
L’elezione dei presidente nei sistemi europei
risponde Sergio Romano


Monarchie e dittature a parte, potrebbe spiegarci come avviene l’elezione del capo dello Stato nelle altre Repubbliche? Dovrebbe essere logico e naturale che a scegliere la prima carica istituzionale del Paese fosse il popolo. Da noi, invece, decide una casta di mille persone. Caso unico o siamo in buona compagnia?
Franco Milletti

Caro Milletti,
Come è stato ricordato da Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore del 29 gennaio, il rapporto, per le repubbliche europee, è di 7 a 14. Sono 7 le repubbliche in cui il il capo dello Stato è eletto indirettamente: Estonia, Germania, Grecia, Italia, Lituania, Malta e Ungheria. Sono 14, fra cui Finlandia e Francia, quelle in cui è eletto dal popolo. Fra queste ultime vi sono quelle, come la Francia, in cui il capo dello Stato ha forti poteri e quelle, come l’Austria, in cui è una sorta di monarca costituzionale. Ma il modo scelto per la elezione non dovrebbe mai prescindere dalla Costituzione e dal ruolo che questa assegna al Primo ministro. In Italia, come ho cercato di spiegare in un’altra occasione, i costituenti hanno creato un ibrido in cui il presidente del Consiglio dei ministri è capo dell’esecutivo, ma il capo dello Stato ha prerogative (come lo scioglimento delle Camere) che in altri sistemi politici appartengono al Primo ministro.   Se nel contesto italiano decidessimo che il presidente della Repubblica deve essere eletto dal popolo, ne rafforzeremmo l’autorità e lo renderemmo ancora più interventista di quanto sia mai stato in passato. Siamo d’accordo con questa prospettiva? Siamo sicuri che il suo mandato, in questo caso, debba essere ancora settennale? Se il capo dello Stato, rafforzato dalla elezione diretta, resta al Quirinale per sette anni, è probabile che vi saranno periodi durante i quali dovrà convivere con un governo di altre tendenze. Le ricordo, caro Milletti, che in Francia, durante la presidenza Sarkozy, il mandato è divenuto, quinquennale (da settennale) proprio per ridurre la possibilità di quelle che a Parigi vengono chiamate «coabitazioni».
Segnalo infine che nel contesto italiano l’elezione diretta sarebbe in controtendenza con gli obiettivi che il presidente del Consiglio sta perseguendo con la nuova legge elettorale. Come Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, anche Matteo Renzi cerca di creare nel sistema italiano la figura del Premier e spera di riuscirvi con la nuova legge elettorale, recentemente approvata dal Senato. La legge prevede un premio di maggioranza per la lista che ottiene il 40% dei voti e un ballottaggio fra le due liste maggiormente votate se la soglia non viene raggiunta: due fattori che libererebbero gli italiani dall’incubo delle crisi ricorrenti, all’interno delle coalizioni, che hanno distinto la storia dei governi italiani fino ai nostri giorni.

il Fatto 31.1.15
Davide Serra ammette. Profitti con la riforma Renzi delle Popolari
Il suo fondo Algebris ha investito molto nel settore “da marzo 2014”
Con il decreto i prezzi sono volati
di Marco Franchi


Milano Non è un bello spettacolo che subito dopo il decreto” sulle banche popolari “si scopra che c’è chi lo sapeva” in anticipo “e ha speculato su questo”, ha detto ieri a Milano il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, durante il comizio che ha concluso il corteo dei bancari in sciopero per il rinnovo del contratto nazionale. La Camusso non ha fatto nomi ma in piazza della Scala fra sindacalisti e dipendenti hanno subito pensato che il riferimento fosse a Davide Serra, fondatore di Algebris e considerato un sostenitore del premier Matteo Renzi. Tanto che la Camusso lo aveva già attaccato durante la Leopolda quando il finanziere aveva suggerito al governo di intervenire sul comparto dei crediti incagliati dopo aver annunciato il suo ingresso nel settore, e aveva anche chiesto di limitare gli scioperi.
L’ULTIMA frecciata però è arrivata dopo che Serra nei giorni scorsi è stato infatti indicato da rumors di mercato come uno dei soggetti più attivi negli acquisti di azioni delle popolari. Voci cui lui stesso ieri ha replicato dalle pagine del Sole24Ore: “Investiamo sulle banche popolari da marzo 2014. Abbiamo popolari e in particolare abbiamo una specifica, grande posizione. La società sa cosa vogliamo e dove intendiamo arrivare. Ci siamo parlati, anzi siamo in dialogo costante. Non aggiungo altro”. A quale istituto si riferisce? Qualcuno ha pensato al Banco Popolare, altri a Ubi di cui in passato sembra essere stato azionista, mentre nelle sale operative si punta il dito su Bpm ovvero la prima candidata del mercato a diventare polo aggregante dopo la trasformazione coatta in spa.
Di certo, a cavallo dell’approvazione in Consiglio dei Ministri del decreto sulla riforma (martedì 20 gennaio), i titoli che si sono impennati di più erano stati quelli del Banco veronese, della Popolare milanese, Bper, Ubi e soprattutto l’Etruria (dove vicepresidente è il papà del ministro Maria Elena Boschi). Tanto da spingere Consob ad accendere un faro per verificare eventuali movimenti anomali. Le analisi, ha spiegato il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti rispondendo a una interrogazione parlamentare, “sono state condotte sia sui titoli sia sugli strumenti finanziari derivati aventi come sottostanti le medesime azioni”. L’indagine, ha continuato Zanetti, ha rivelato la presenza di intermediari con posizioni costituite in periodi antecedenti il 16 gennaio (giorno in cui una bozza del decreto ha cominciato a circolare) accompagnati da vendite nella settimana successiva. “In un solo caso tali acquisti hanno rappresentato la diminuzione di una posizione netta corta preesistente, mentre nella maggior parte dei casi essi appaiono costituire l’assunzione di posizioni lunghe”. Quanto alle vendite allo scoperto, “prima dell’annuncio della riforma delle popolari non si sono ravvisati movimenti significativi nelle posizioni nette corte sui titoli del settore né si sono ravvisati altri elementi che abbiano fatto emergere punti di attenzione sull’attività di vendita allo scoperto, con l’unica eccezione sopra menzionata, in relazione alla quale sono in corso i dovuti approfondimenti”.
NESSUNA irregolarità è ancora emersa, quindi. Nel pomeriggio di ieri una portavoce di Serra ha poi precisato che “Algebris Investments non ha fatto alcun acquisto di banche popolari nel 2015, né per conto del fondo Global Financials Fund né per altri suoi mandati di gestione”.
Se il finanziere decidesse di rivendere dal suo desk di Londra una parte dei titoli delle Popolari che ha messo nel suo carrello già fin dall’anno scorso, otterrebbe comunque lauti guadagni: nell’ultimo anno le azioni Bpm hanno messo a segno un rialzo del 77%, quelle del Banco di oltre il 21% mentre Ubi è salita del 14,5 per cento. Dimostrando di avere ottimo fiuto per gli affari e aumentando le sue quotazioni in termini di immagine e reputazione del suo fondo Algebris con la platea di investitori internazionali. Più effetto Serra di così.

Repubblica 31.1.15
Ercolano, ombre di camorra sulle primarie del Pd
di Conchita sannino


ERCOLANO . Un boom imbarazzante di iscrizioni al Pd, da quasi 300 a 1213. Una velenosa battaglia tra i candidati democratici per la corsa a sindaco del prossimo maggio ad Ercolano: l’uscente Vincenzo Strazzullo, il vicesindaco Antonello Cozzolino, e lo sfidante renziano Ciro Buonajuto, membro della direzione nazionale Pd. Gara che accende la caccia alle firme: magari anche con regole cambiate in corsa, come aveva denunciato lo stesso Buonajuto che si dice osteggiato dagli altri due. E ora la parola chiave: camorra.
Si chiama caso Ercolano, il rischio di definitiva debacle per le primarie Pd. Inquinamento che doveva restare sepolto, o sabotaggio per far saltare tutto? Nella città dello straordinario patrimonio archeologico, è in corso un’indagine conoscitiva. Accertamenti dei carabinieri, d’intesa con la procura. La data fissate per le primarie è l’8 marzo, ammesso che tutto resti immutato.
Trentasei cognomi sotto la lente. Distribuiti lungo 132 fogli zeppi di nomi e indirizzi. Dall’ufficio della pubblica accusa, pm Pierpaolo Filippelli, sotto il coordinamento dell’aggiunto Filippo Beatrice e la supervisione del procuratore capo Giovanni Colangelo, è arrivata la disposizione ai carabinieri di Torre del Greco, dopo voci ed allarmi, di acquisire le liste e scavare su parentele. Vicenda «delicatissima» confermano fonti investigative. Lì dentro spiccano cognomi che fanno tremare, gli stessi di cosche pericolose, ancorché decapitate dai blitz. I Papale, i Birra, i Durantini, i nipoti degli Ascione. Cognomi e anche indirizzi, vedi quel «vico Moscardino» da cui partirono alcuni commandi di killer.
Negli uffici dell’Arma, il segretario cittadino del Pd, Antonio Liberti, ha portato tutto il materiale. Al segretario provinciale, Venanzio Carpentieri aveva scritto la deputata Pd Luisa Bossa, ex sindaco anticamorra di Ercolano. «Ho chiesto che si fosse particolarmente attenti sul rischio infiltrazioni. Punto», dice. Una segnalazione sarebbe partita anche per l’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone. Per le primarie, è l’ultima batosta dopo le lacerazioni di Genova, il quadruplo rinvio di Napoli e il commissariamento a Castellammare, nel 2009, quando si scoprì che tra i tesserati c’era un killer di camorra.

Repubblica 31.1.15
Luigi Chiatti
Uccise due bimbi libero con lo sconto “Il mostro di Foligno fa ancora paura”
Nel 2004 dichiarò: “Uscirò tra vent’anni e tornerò a uccidere, ma farò più attenzione”
Il doppio ergastolo ridotto a vent’anni. Il sindaco: questa città ha già sofferto abbastanza per colpa sua
L’appello a Orlando: è pericoloso. Il padre di una vittima: voglio parlargli
di Giuseppe Caporale


FOLIGNO Grazie ad un pasticcio all’italiana, tra pochi mesi il mostro di Foligno sarà libero. Ventuno anni dopo il brutale omicidio di due bambini, Simone Allegretti, 5 anni e Lorenzo Paolucci, 12 anni, il 3 settembre prossimo Luigi Chiatti uscirà dal carcere.
Il serial killer che rapiva e seviziava i ragazzini della città umbra, nel 1994 era stato condannato a due ergastoli in primo grado, ma in appello aveva ottenuto un sconto di pena: 30 anni di reclusione per seminfermità mentale. Da quel momento in poi per lui sono scattati una serie di altri bonus. Nel 2006 ha ottenuto il beneficio dell’indulto (tre anni) e ora gli ulteriori sconti previsti dalla legge Gozzini (sei anni) gli spalancheranno definitivamente le porte del penitenziario di Prato.
Il giorno della sua scarcerazione definitiva il presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze, Antonietta Fiorillo, dovrà comunque emettere un parere sull’attuale pericolosità sociale di Chiatti. Ma anche dovesse ritenerlo ancora una minaccia, non potrà disporre il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, perché ad aprile queste strutture pubbliche saranno definitivamente abolite.
E non è tutto: al ministero della Salute vige il caos su come gestire la transizione. Nessuna regione italiana infatti ha attivato — come invece era previsto — le nuove strutture d’accoglienza: le R.e.m.s., residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza, che in base alla nuova norma saranno di competenza delle Asl.
Ed è probabile che nell’attesa saranno le case di cura private ad accogliere — previa gara d’appalto — i malati criminali. Almeno per qualche anno. Comunque, d’ora in poi saranno gestiti non più come detenuti, ma come pazienti. Senza polizia penitenziaria e sorveglianza, ma solo attraverso l’attività dei medici.
«La liberazione di Chiatti è il risultato di un pasticcio dietro l’altro del nostro sistema giudiziario » commenta amaro l’avvocato Giovanni Picuti, legale dei genitori delle vittime. «Nessuno oggi può dirci cosa accadrà, dove andrà. Tornerà a Foligno a vivere con i genitori? Il tribunale stabilirà una vigilanza? Siamo amareggiati e sconcertati. Eppure — ricorda il legale —contestammo tutto da subito. Prima lo sconto a 30 anni per la seminfermità: per noi era evidente che Chiatti era lucido, consapevole delle sue azioni, altro che matto. Per capirlo è sufficiente leggere i file del suo computer dove annotava i pedinamenti dei bambini di Foligno. Poi provammo ad opporci anche al beneficio dell’indulto. Ma è stato sempre tutto inutile. E ora, c’è anche la beffa dell’assenza di strutture idonee...».
Il sindaco di Foligno, Nando Mismetti, non nasconde la preoccupazione. «La sola notizia della liberazione rischia di scatenare il panico in città — spiega — la comunità ha vissuto un grave trauma. Ricordo che per mesi qui i bambini non uscivano più da soli... Ci fu chi assoldò la polizia privata. Quei crimini furono tanto efferati quanto inspiegabili...».
E quando il primo cittadino cita la comunità, non dimentica i genitori di Chiatti. «Anche quella famiglia è stata distrutta — spiega — Ermanno, il padre, oggi ha oltre novant’anni. Lui all’epoca della tragedia era un medico di famiglia con quattromila mutuati. Praticamente aveva in cura buona parte della città. Anche per lui e sua moglie è stato un shock».
E promette: «Chiederemo chiarezza su questa vicenda al ministro della Giustizia Andrea Orlando. La città non merita di soffrire ancora. La gravità delle sue azioni non ci consente di far finta di nulla». E c’è chi, invece, vuole incontrare il mostro di Foligno prima che esca definitivamente dal carcere.
Si tratta del padre del piccolo Lorenzo Paolucci, seviziato e ucciso nella casa di montagna dei Chiatti, a Casale.
«Devo parlargli — spiega Luciano Paolucci — Voglio capire se davvero è pentito di ciò che ha fatto, se è guarito. Dubito che in carcere l’abbiano curato. Io l’ho perdonato, perché lui da bambino fu violentato, come è emerso dagli atti del processo. Ma credo che scarcerarlo dopo appena 21 anni sia molto pericoloso. Lo stesso Chiatti confidò a una guardia carceraria alcuni anni fa: non fatemi uscire altrimenti colpirò ancora. L’agente penitenziario venne pure a testimoniare in aula. E poi ci sono le lettere che di recente ha scritto ad un ex detenuto, Sergio, suo compagno di cella e pedofilo pentito, dove racconta alcuni sogni che fa... Sempre sui bambini ».
Paiono cauti gli avvocati Guido Bacino e Claudio Franceschini, legali del serial killer che quando gli inquirenti gli davano la caccia lasciava messaggi nelle cabine telefoniche di Foligno firmandosi, lui stesso, “il mostro”. «Chiederemo una perizia per valutare il suo stato di salute. Quello che sappiamo è che in questi anni il ragazzo si è messo a studiare e a sostenere esami all’università di Firenze che è convenzionata con il carcere ». E ora, a 46 anni, Luigi Chiatti è pronto a uscire.

Corriere 31.1.15
Pillola dei 5 giorni dopo: verso la conferma dell’obbligo di prescrizione
Cadrebbe l’attuale obbligo di un test di gravidanza
L’Aifa deve decidere se accogliere la decisione europea che cancella la necessità di una ricetta per il contraccettivo

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Corriere 31.1.15
Cannabis dai medici di famiglia. In Toscana via alle terapie gratuite
Approvate le delibere. È coltivata a Firenze. Negli Usa il mercato è in ascesa
di Margherita De Bac


ROMA Sarà la Toscana a tagliare per prima il traguardo nella corsa alla cannabis terapeutica, il medicinale per il trattamento di vari tipi di dolore difficili da domare. La legge che introduce la rimborsabilità del più antico degli stupefacenti è di oltre due anni fa. Solo a settembre però sono state approvate le delibere attuative che ampliano la rosa delle patologie e semplificano le procedure.
In questi giorni, ultimo atto prima del passaggio alla pratica, verranno approvate dalla commissione Sanità piccole modifiche tecniche. La cannabis sarà prescritta anche dai medici di famiglia in presenza di un piano terapeutico degli specialisti e distribuita da tutte le farmacie, comprese le pubbliche. Il passo successivo sarà poter utilizzare l’erba coltivata e incapsulata a livello nazionale negli stabilimenti dell’Istituto chimico militare di Firenze. Cannabis terapeutica di Stato, secondo l’accordo firmato a settembre dalle ministre Lorenzin (Salute) e Difesa (Pinotti). Le serre sono già pronte, il tavolo tecnico previsto dal decreto ha cominciato a lavorare. Il via alla messa a dimora delle piantine entro l’anno, all’inizio in via sperimentale.
Ora i barattolini di infiorescenze (il Bediol) vengono importati dall’Olanda a caro prezzo. L’acquisto da parte delle Asl è complicato oltre che oneroso. E proprio ieri l’Associazione Luca Coscioni ha denunciato la sospensione delle importazioni: «C’è il concreto rischio che i pazienti debbano rinunciare all’unico cannabinoide prescrivibile per alcune patologie anche pediatriche». È partita un’interrogazione parlamentare alla Lorenzin.
Negli Stati Uniti c’è preoccupazione per il boom della marijuana medica, ammessa da 18 Stati e prossima a fare ingresso in almeno altri dieci. Secondo il Marijuana business daily, principale fonte di informazione per il mercato americano della cannabis non «ricreativa», il commercio autorizzato frutterà miliardi di dollari. A Wall Street vengono viste con molto interesse le aziende che producono sistemi per la crescita accelerata delle piantine. Secondo Coldiretti, associazione che rappresenta gli agricoltori «l’Italia non deve sottovalutare il fenomeno. La coltivazione permetterebbe di uscire dalla dipendenza dall’estero e avviare un progetto di filiera nazionale con potenzialità enormi sul piano occupazionale oltre che per il vantaggio dei malati». Al momento di lanciare l’accordo con il ministero della Difesa per l’autorizzazione ai campi dei militari, per stoppare ogni speculazione, la Lorenzin chiarì subito: «L’Italia sarà autosufficiente, noi ragioniamo in termini sanitari».
Almeno sette Regioni hanno dato una svolta al progetto di rendere realmente gratuiti i farmaci a base di cannabinoidi. Annunci con scarso seguito che hanno cambiato poco la vita dei cittadini.
In Toscana si è molto dato da fare Paolo Pini, responsabile del servizio di terapia del dolore all’ospedale di Pisa, 500 pazienti in trattamento, la maggiore casistica in Italia: «È un grande risultato. Servono da 30 a 120 euro al mese per il farmaco necessario in tante situazioni, ad esempio più efficace l’azione di altri antidolorifici e diminuire gli effetti collaterali». Ma il vero giro di boa sarà l’avvio della coltivazione fiorentina. «Oggi appena un decimo delle persone che ne avrebbero bisogno prendono le preparazioni a base di erba olandese», calcola Francesco Crestani, presidente dell’Associazione cannabis terapeutica.

La Stampa 31.1.15
Video di commiato su Internet, caffetteria e catering. A Valenza il tempio per la cremazione 2.0
Aperto da privati è fra i più grandi d’Italia. Attivo da novembre, domenica l’inaugurazione
di Giorgio Longo

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La Stampa 31.1.15
Grecia, il ministro (ultranazionalista) Kammenos preoccupa le comunità ebraiche
L’arrivo del leader “Greci indipendenti” alla guida della Difesa solleva interrogativi in Israele
Durante un’intervista in tv disse: «Gli ebrei non pagano le tasse»
di Maurizio Molinari

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Il Sole 31.1.15
Le parole e la realtà
Cosa insegna il caso Grecia
di Morya Longo


Alexis Tsipras, il nuovo premier greco, l’ha sempre detto: Atene non vuole uscire dall’euro. Eppure sui mercati finanziari il solo pensiero che questo possa accadere sta creando una serie di effetti a catena, che rischiano di mettere in ginocchio la Grecia prima ancora che il Governo agisca: la Borsa di Atene è crollata del 15% in tre giorni, il rendimento dei titoli di Stato triennali è lievitato al 19% e le banche greche hanno perso il 10% circa dei depositi. Ecco cosa accade solo a ventilare l’ipotesi dell’uscita di un Paese dall’euro: il mercato lo stecchisce prima ancora che questo accada.
Questo è il vero problema da non sottovalutare nel dibattito su «euro sì-euro no» che ormai divide le popolazioni europee come tra moderni guelfi e ghibellini: i mercati finanziari sono così integrati, così giganteschi, così veloci e così cinici che si muovono prima ancora che qualunque Governo possa convocare un consiglio dei ministri. A loro non importa se Tsipras abbia idee valide oppure no, se sia possibile trovare un compromesso sul debito con l’Europa oppure no: i mercati tendono sempre ad anticipare gli eventi. Purtroppo talvolta - come disse nel lontano 1994 George Soros - contribuiscono a crearli.
Così, nonostante le rassicurazioni di Tsipras, gli investitori ma anche i privati cittadini si stanno comportando come se la Grecia dovesse davvero uscire dall’euro. E, a lungo andare, rischiano di mettere Atene con le spalle al muro più della Troika o di Bruxelles. Chiamateli speculatori, locuste, sanguisughe: ma con questo mondo, purtroppo, bisogna confrontarsi.
2015: fuga da Atene
Il primo comportamento logico di chi teme che un Paese esca dall’euro è infatti quello di portare via i soldi dalle banche o dai titoli di quel Paese. Dato che l’eventuale «nuova dracma» si svaluterebbe rispetto all’euro (secondo uno studio del Cepr, nella storia l’abbandono di una forma di unione monetaria ha mediamente comportato una svalutazione del 46%), chiunque abbia depositi nelle banche greche o soldi investiti sui mercati greci avrebbe una perdita pari al ribasso della moneta. Questo vale per gli stranieri, per esempio per gli investitori europei o americani che hanno i bilanci in euro e dollari forti. Ma in fondo anche i greci stessi hanno poca convenienza a lasciare i risparmi nelle banche locali: semplicemente trasferendoli in Germania o in Svizzera, infatti, li metterebbero al riparo su valute forti. Anzi: in caso di svalutazione della «dracma», ci guadagnerebbero.
Questo è il motivo per cui i capitali fuggono da Atene. E scappano ora, prima che l’estrema ipotesi di «Grexit» si materializzi davvero. Solo a dicembre, quando i sondaggi davano già vincente Syriza, le banche greche hanno perso 4,5 miliardi di euro di depositi (dato Bce). Ma l’emorragia è poi continuata e le indiscrezioni, riportate ieri in uno studio di Barclays, indicano nelle ultime settimane un’uscita dagli istituti di credito di 20 miliardi di euro: cifra pari al 10% dei depositi totali. E il salasso continua. Questo fenomeno è da solo in grado di mandare al tappeto un Paese come quello ellenico. Le banche non possono sopportare un’emorragia del genere: la perdita di liquidità, soprattutto per istituti che non hanno accesso al mercato per reperire capitali, si traduce infatti ben presto in insolvenza. Per ora le banche greche stanno in piedi grazie alla «flebo» della Bce, che eroga loro liquidità attraverso la linea di emergenza chiamata «Ela». Ma sono vere e proprie banche-zombie. E presto (il 4 febbraio ci sarà la prima decisione in merito) la Bce potrebbe chiudere la «flebo»: in tal caso il default degli zombie sarebbe inevitabile.
L’altro problema derivante dalla fuga di capitali è legato agli squilibri che questo crea nel sistema dei pagamenti «Target 2». Ogni euro che esce dalla Grecia per andare - per esempio - in Germania, crea infatti uno squilibrio a livello di banche centrali: quella greca ha un euro di debito verso l’Eurosistema, mentre la Bundesbank (nel nostro esempio) ha un euro di credito. Più la fuga continua, più il debito greco su «Target 2» cresce. A dicembre il «buco» era già di 49 miliardi di euro, ma ora è verosimilmente molto più grosso. Questo accentua gli squilibri: problema che la Grecia dovrebbe affrontare anche dopo un’ipotetica uscita dall’euro.
Ma la fuga di capitali è forte anche sul mercato obbligazionario. Lo dimostra il fatto che i rendimenti dei titoli di Stato greci e delle obbligazioni aziendali sono ormai saliti su livelli estremi. I titoli di Stato triennali rendono ormai il 19%: questo significa che nessuno vuole più prestare soldi al Paese. Quindi neppure alle sue banche, né alle sue imprese. Più che di «credit crunch», si tratta di un «credit crack». Prima ancora che Tsipras abbia iniziato a trattare con Bruxelles, dunque, il mercato (ma anche i risparmiatori greci che hanno ancora soldi) ha tolto la linfa vitale al Paese: la liquidità. Il credito. Insomma: la sopravvivenza.
Dibattito su «Eurexit»
Quanto sta accadendo in questi giorni deve dunque offrire qualche elemento in più per il dibattito, anche in Italia, sulla permanenza o meno nell’euro. Che le regole europee siano ormai eccessive camicie di forza è fuori dubbio. È dunque comprensibile che tra le popolazioni maturi sempre più la voglia di uscire. Ma prima di valutare un’opzione del genere, bisogna porsi qualche domanda: un Paese in crisi ha le spalle abbastanza larghe per affrontare un’eventuale emorragia di capitali così forte? Anche stampando moneta (debole), sarebbe possibile resistere al contraccolpo?
In fondo l’euro rappresenta, pur con tutti i suoi problemi, un parafulmine per tutti. I tuoni che colpiscono Atene, solo perché il mercato sospetta che prima o poi possa uscirne, lo dimostrano. Ma la conferma arriva anche dal fatto che un Paese come l’Italia oggi - a differenza del 2012 - non sta subendo alcun effetto contagio dalla Grecia: perché oggi c’è la Bce (con il «quantitative easing» e soprattutto con lo scudo Omt) ad annullare i rischi e i contraccolpi. Insomma: è Mario Draghi a parare i fulmini. E in fondo lo stesso concetto è ribadito anche dalle contromosse che Paesi piccoli, fuori dall’euro, hanno dovuto adottare in questi giorni per far fronte agli effetti collaterali (per loro) del «bazooka» della Bce: dalla Svizzera alla Danimarca, fino alla Turchia.
Prima ancora di ragionare sui pro e i contro di una vita fuori dall’euro, bisogna dunque porsi il tema degli effetti collaterali immediati. Quelli fulminanti. Perché potrebbero essere non pochi: c’è il problema dei tanti debiti di imprese, banche e Enti locali espressi in obbligazioni, perché queste ultime sono disciplinate dalla legge inglese e andrebbero comunque rimborsate in euro. C’è il problema della fuga di capitali, in grado di ammazzare qualunque banca in pochi giorni. C’è il tema del rifinanziamento del debito pubblico e privato. E c’è il nodo di «Target 2». Tante, forse troppe, incognite.

Il Sole 31.1.15
La missione impossibile del giovane Tsipras
di Vittorio Da Rold


Come un novello Leonida alle Termopili, il giovane leader di Syriza, Alexis Tsipras, vuole fermare le politiche di austerità in Europa. Tsipras non è un “Masaniello ellenico” ma un ingegnere civile votato alla politica che combatte razionalmente questa battaglia, perché ogni euro risparmiato nel ripagare il debito ai creditori può essere usato per alleviare le sofferenze quotidiane dei greci e rilanciare l’economia dopo sei anni di crisi. Il fronte esterno per rivedere il peso del debito e il mantenimento delle promesse elettorali interne, sono due facce della stessa medaglia.
Per questo, domenica, il nuovo ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis si recherà a Londra per incontrare il suo omologo George Osborne e soprattutto i banchieri della City, che vogliono chiarimenti sui piani di Atene prima della riapertura dei mercati. Varoufakis, poi, andrà a Parigi dove incontrerà il ministro francese Sapin e infine a Roma per un colloquio con il ministro Pier Carlo Padoan. Tsipras, invece, partirà lunedì da Cipro, paese fratello e colpito da una crisi finanziaria simile a quella greca, per poi andare a Roma dal premier Matteo Renzi e infine a Bruxelles per parlare con Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione Ue. Nessun contatto ufficiale (ufficiosi ce ne sono stati parecchi) con la Germania dove il Cancelliere Angela Merkel, aspetta la prima mossa del premier greco per reagire.
Tsipras e Varoufakis raccoglieranno probabilmente solo una solidarietà di circostanza da questi governi, ma Atene ne è pienamente consapevole. Ciò che Tsipras vuole mettere in chiaro è che il negoziato sarà una guerra di trincea, uno scontro di logoramento dai tempi lunghi, dove i greci sono pronti, come nel caso della minaccia di veto a nuove sanzioni alla Russia di Puntin sulla crisi ucraina, a rompere l’unanimità europea con sortite improvvise e devastanti.
Senza contare che la telefonata del presidente americano, Barack Obama, al nuovo premier greco è stata molto calorosa,(«anch’io avevo i capelli neri quando ho cominciato», ha detto il capo della Casa Bianca), sostenendo l’azione del neo premier. Non è un mistero che il segretario di Stato americano, Jacob Lew, sta facendo la spola in Europa da mesi chiedendo ai tedeschi di ammorbidire la loro politica di austerità per rilanciare l’economia europea e non lasciare tutto il peso della ripresa sulle spalle americane. Tsipras potrebbe, in questa chiave, diventare un “cavallo di Troia”, delle richieste americane ed europee per una svolta che veda Berlino rilanciare i consumi interni e non solo accumulare surplus commerciali superiori al 6%, limite previsto dai Trattati europei come massimo consentito. Troppo per la piccola Grecia? Forse, ma sei anni di recessione non lasciano molto spazio di manovra al Paese mediterraneo.

il Fatto 31.1.15
Cella dorata sul Monte Athos. I pope uniscono Putin e Tsipras
Lo zar del Cremlino avrebbe un eremo di lusso nella culla della fede ortodossa, che fa da ponte tra Russia e Grecia
Alleati contro la Ue
di Stefano Citati

Scendendo il dirupo a picco sul mare, arrivammo a una delle celle che punteggiano il Monte Athos. Fervevano lavori di ristrutturazione. Squadre di laboriosi operai sotto la supervisione di un pope russo di Vladivostok che li comandava a bacchetta stavano realizzando una residenza di lusso che poco sembrava aver a che fare con lo spartano loculo degli eremiti ortodossi. La cella faraonica, con cella frigorifera, ampi spazi e materiali pregiati, sarebbe divenuta la magione di ‘Vladimir Putin’, ci avvertiva il pope che faceva da guida che, ‘sommessamente’ spiegava come fossero impegnati ‘molti soldi’, accompagnando la confidenza sfregando il pollice sull’indice della mano”.
IL RACCONTO RISALE a qualche anno fa e lo scrittore italiano che all’epoca visitò l’enclave religiosa ellenica, culla della religione ortodossa, ricorda bene con quale deferenza e favore si parlava del presidente russo. Nel frattempo lo zar del Cremlino dovrebbe aver inaugurato la residenza arroccata sulla stretta penisola allungata nel mar Egeo, che visita con regolarità per rendere omaggio e ricordare la sua adesione alla religione ortodossa. Per lui il credo cristiano rappresenta - come ha più volte avuto modo di dire - un arco che unisce la Russia e la Grecia. Legame che da qualche tempo, e tanto più in questi giorni, Mosca rafforza con ripetute promesse di sostegno economico e politico. La fratellanza religiosa tra la nuova Grecia di Tsipras e la Russia di Putin (che pure deve fronteggiare una crisi finanziaria sempre più stringente) forma un asse politico anti-Ue che si spinge fino alla Nato, di cui anche la Grecia è membro. Nuovo ministro della Difesa ellenico è Panos Kammenos, leader di Greci Indipendenti il partitino conservatore e nazionalista scelto da Tsipras per formare la coalizione di governo e in ottimi rapporti con il Cremlino, tramite i contatti con Alexandr Dugin, ideologo ultra-nazionalista ed eminenza grigia dello zar Putin. La Grecia ha già espresso la sua vicinanza alla Russia battibeccando con gli altri paesi dell’Unione contro il nuovo round di sanzioni a Mosca per le ingerenze in Ucraina.
La religione è uno dei pilastri del regime dell’ex spia del Kgb, che coltiva i legami con le gerarchie ecclesiastiche della chiesa cristiana orientale come politica di Stato. Le visite al Monte Athos e le elargizioni ai monaci che abitano le 250 celle, i 20 monasteri e le 12 skiti (le comunità di singoli religiosi, ndr) ne hanno fatto il campione della fede.
Tsipras rifiutò la presenza di religiosi durante la cerimonia per la nomina a premier incaricato, ma è stato benedetto dai vertici della chiesa ortodossa al momento del giuramento del suo governo.
Sulla minuscola repubblica monastica autonoma - 335 chilometri quadrati e meno di duemila abitanti, nessuna donna secondo l’editto dell’imperatore bizantino nel 1060, ma almeno 30mila visitatori l’anno - sventola la bandiera con l’aquila bicipite, la stessa che orna la bandiera russa, ripresa dal vessillo dei Romanov, e ancor prima emblema dell’impero bizantino di Costantinopoli.
VISITE REGOLARI Putin sul Monte Athos nel 2005. Il leader russo si reca con regolarità a rendere omaggio alla culla del credo religioso russo
Ansa

Repubblica 31.1.15
Fermiamo il bullo Putin
Se il presidente russo, che da tempo destabilizza l’Ucraina, riuscirà a farla franca l’Occidente e i suoi alleati saranno in pericolo
di Thomas L. Friedman


LOSCORSOm arzo è circolata notizia che l’ex segretaria di stato americana Hillary Clinton aveva detto che l’attacco del presidente russo Vladimir Putin all’Ucraina, in apparenza a difesa dei russofoni ucraini, era proprio «ciò che Hitler fece negli anni Trenta»: ricorrere alla scusa dell’etnia tedesca per giustificare l’invasione dei paesi confinanti. All’epoca ritenni esagerato questo paragone. Ora non più. Ora farei mio il paragone di Hillary Clinton per il solo fatto che sconcerta e attira l’attenzione sulle cose orribili che Putin sta facendo ai danni dell’Ucraina, per non parlare del suo stesso paese il cui rating del debito è stato di recente declassato a livello di spazzatura.
L’uso che Putin ha fatto delle forze armate russe in uniforme senza distintivi per invadere l’Ucraina e dare segretamente sostegno ai ribelli ucraini corrotti e pagati da Mosca — il tutto offuscato da una rete di menzogne che avrebbe fatto arrossire il nazista Joseph Goebbels, e tutto per il solo scopo di fare piazza pulita del movimento riformista ucraino — è l’abuso geopolitico della peggior specie in corso oggi nel mondo.
L’Ucraina è importante — più della guerra in Iraq contro lo Stato islamico (Is). Ancora non è chiaro se la maggior parte dei nostri alleati nella guerra contro l’Is condivide i nostri stessi valori. Quel conflitto ha un’enorme componente di tipo tribale e settaria. Chiarissimo e indubitabile, invece, è che i riformisti ucraini entrati nel governo e nel Parlamento recentemente eletti — e che stanno lottando per affrancarsi dall’orbita russa e far parte dell’Unione europea e della comunità democratica — nei fatti li condividono. Se Putin “il Bullo” la farà franca e riuscirà a soffocare il nuovo esperimento democratico ucraino, ridisegnando unilateralmente i confini dell’Europa, ogni paese filo-occidentale intorno alla Russia sarà in pericolo.
«Putin paventa un’Ucraina che chiede di vivere secondo i valori europei, con una società civile compatta, libertà di espressione e di religione, con un sistema di valori scelti dal popolo ucraino per i quali ha messo in gioco la propria vita», ha detto la settimana scorsa il ministro ucraino delle Finanze, Natalie Jaresko durante il World Economic Forum di Davos, in Svizzera.
Stati Uniti e Germania hanno fatto un buon lavoro sulle sanzioni alla Russia. E se l’Amministrazione Obama di recente ha deciso di inviare in primavera alcuni soldati americani in Ucraina per addestrare la Guardia nazionale di Kiev, personalmente sarei favorevole a mandare ulteriori aiuti militari all’esercito ucraino fin d’ora, affinché possa difendersi meglio dai circa novemila soldati che Putin avrebbe infiltrato nel territorio.
Nell’anno a venire, oltre ai finanziamenti ottenuti dal Fondo monetario internazionale, l’Ucraina avrà anche bisogno di 15 miliardi di dollari in prestiti e aiuti per rendere stabile la sua economia. Dopo che Kiev è diventata indipendente dall’Unione Sovietica, gli ucraini si erano scavati una fossa molto profonda con i loro più che ventennali livelli industriali di corruzione, imputabili a una sfilza di pessimi governi. Ma una speranza c’è: la rivoluzione e le ultime elezioni hanno portato alla ribalta in Ucraina una nuova generazione di riformisti che stanno rapidamente trasformando i ministeri e approvando nuove normative in materia di fisco e trasparenza, inaugurando una buona governance e rispettando i parametri economici necessari a ottenere gli aiuti dall’Occidente. Se gli ucraini ce la faranno, noi dovremo mantenere la parola data.
Questa settimana il segretario al Tesoro americano Jack Lew sta facendo visita a varie capitali europee per mettere insieme un pacchetto di aiuti economici per Kiev. Da parte loro gli Stati Uniti si sono già impegnati in questo senso, ma l’Unione europea è ancora un po’ titubante. Putin si ripromette proprio di seminare instabilità, affinché l’Occidente blocchi gli aiuti e i riformisti ucraini falliscano nel loro intento di rispettare gli accordi presi per essere screditati. Sarebbe un vero peccato.
Il finanziere globale George Soros, che sta dando una mano a preparare il terreno per le riforme in Ucraina, ha detto al summit di Davos che «oggi esiste una nuova Ucraina, determinata a differenziarsi dalla vecchia… A renderla unica è il fatto che non soltanto è decisa a lottare, ma anche a impegnarsi concretamente per l’attuazione di riforme radicali. La nuova Ucraina è decisa a lottare contro la vecchia Ucraina, che non è scomparsa… e contro un piano ben ordito dal presidente Putin che mira a destabilizzarla e annientarla. Ma è determinata ad affermare la propria indipendenza e la sua voglia di Europa».
La situazione ucraina potrebbe influire anche sul prezzo del petrolio. I due protagonisti principali in grado oggi di influire in modo determinante su quel prezzo sono il nuovo regnante dell’Arabia Saudita, re Salman, e lo zar russo Putin. Se i sauditi decideranno di ridurre drasticamente la produzione, il prezzo del petrolio aumenterà. Se Putin deciderà di invadere del tutto l’Ucraina — o, peggio ancora, uno degli Stati baltici — e mettere alla prova la Nato per vedere se è davvero disposta a intervenire, il prezzo del petrolio aumenterà. Con un’economia allo sfascio, il governo di Putin ormai dipende quasi interamente dalle esportazioni di gas e di petrolio, e di conseguenza è molto danneggiato dal crollo del prezzo del greggio. Le probabilità che Putin invada completamente l’Ucraina o gli Stati baltici sono basse, ma non si possono escludere del tutto.
Innescare una grossa crisi geopolitica con la Nato è un metodo alquanto semplice per Putin per portare al rialzo con uno scossone il prezzo del petrolio. L’intervento del presidente russo in Ucraina fino a questo momento non è riuscito nell’intento. In definitiva, quindi, sul prezzo odierno del petrolio incidono per lo più due uomini: re Salman, con la sua capacità di produrre petrolio, e lo zar Putin, con la sua capacità di produrre guai.
Traduzione di Anna Bissanti © 2-015 The New York Times

Repubblica 31.1.15
Ultimatum dei filorussi: “Arrendetevi e vi risparmieremo”
La guerra infuria nell’Est assediati 8 mila soldati Donetsk, strage di civili
Colpo di artiglieria sulla gente in fila per gli aiuti umanitari
di Nicola Lombardozzi


MOSCA Muoiono ancora civili nella guerra di Ucraina, questa volta anche cinque anziane pensionate straziate da un proiettile d’artiglieria ucraino a Donetsk mentre facevano la coda per la distribuzione di pacchi di aiuti umanitari: coperte, qualche scatoletta, poveri generi di conforto. Insieme ad altri passanti, beccati da proiettili vaganti nelle strade del capoluogo ribelle del Donbass, le donne di Donetsk portano a 12 il numero quotidiano delle vittime innocenti in città. Da maggio ad oggi siamo già a quasi seimila.
Intanto il conflitto prende sempre più dimensioni e peculiarità di una guerra vera e propria. A est di Donetsk, nella sacca di Debaltsevo, fondamentale nodo ferroviario al centro dei combattimenti, circa ottomila soldati dell’esercito regolare ucraino sono accerchiati dai ribelli che hanno conquistato uno dopo l‘altro i villaggi circostanti puntando loro contro postazioni di artiglieria e rampe lanciamissili. Assediati, senza possibilità di ricevere rinforzi né tantomeno rifornimenti, i militari ucraini stanno rivivendo una delle tante situazioni già vissute, proprio su questi campi, nelle fasi più cruente della Seconda guerra mondiale.
Il leader dei secessionisti, Aleksandr Zakharchenko, ha lanciato una sorta di minaccioso appello ai suoi nemici e connazionali: «Arrendetevi, deponete le armi e vi salveremo la vita». Non c’è stata alcuna risposta. Sparatorie echeggiano da ore in tutta l’area di Debaltsevo. Già questa estate, qualche chilometro più a ovest, una battaglia simile, costò la vita ad almeno trecento soldati. Gli irriducibili, in entrambi i casi, non sarebbero i militari in servizio regolare, ma i battaglioni di volontari estremisti nazionalisti che si auto definiscono «la guida e lo stimolo dell’esercito». Un’altra conferma alle voci che vogliono il go- verno di Kiev incapace di controllare le forze più estreme e oltranziste.
E il clima infuocato rende sempre più lontane le già vaghe speranze di pace. L’ennesima strage di Donetsk, molto probabilmente, opera dell’esercito di Kiev, ha offerto l’occasione ai secessionisti per disertare clamorosamente il tavolo delle trattative nella capitale bielorussa Minsk. E le loro dichiarazioni lasciano prevedere un’altra catena di episodi di sangue: «Finché l’esercito bombarderà Donetsk, continueremo a nostra volta le azioni contro i centri abitati in mano ai militari, a cominciare dal porto di Marjupol sul Mar Nero».
Rumori di guerra sempre più forti che agitano le diplomazie occidentali. Il segretario generale della Nato, Stoltenberg sta cercando di ottenere al più presto un incontro con il ministro degli Esteri russo Lavrov. Voci non confermate assicurano che a giorni potrebbe arrivare a Mosca addirittura il segretario di Stato Usa John Kerry. A questa agitazione Putin risponde con un secco allarme rivolto ai suoi in una riunione del consiglio di sicurezza: «Prepariamoci, la situazione peggiora di giorno in giorno». E non è un caso che in contemporanea il ministero degli Esteri e quello della Difesa lancino minacciosi segnali all’Occidente. «L’Europa rifletta sulle conseguenze della sua politica nei nostri confronti», dicono agli Esteri. «Stiamo rafforzando le nostre frontiere e le nostre postazioni aeree strategiche in risposta alla attuale situazione politica e militare intorno alla Russia », incalzano alla Difesa.
Termini e toni da conflitto vero e proprio che per il momento resta concentrato nelle province minerarie del Donbass ucraino e che non lascia via di scampo alla popolazione civile. Donetsk è al centro di bombardamenti di artiglieria. Molte famiglie si sono trasferite nelle minuscole cantine dei fabbricati sovietici della periferia. Pochi uffici pubblici restano in funzione. Almeno mille bambini, secondo l’ennesimo allarme lanciato dall’Unicef, vivono letteralmente segregati in casa. Mentre cominciano nuovamente a scarseggiare i generi di prima necessità. I convogli umanitari, autorizzati dall’Onu, arrivano paradossalmente dalla Russia e sono visti con inevitabili forti sospetti dalle autorità ucraine che proprio ieri hanno deciso di bloccarne il flusso: «Ogni convoglio di aiuti che entri in territorio ucraino, verrà considerato come la prova di un’invasione». Il prossimo convoglio dovrebbe provare a entrare stasera. È l’ennesima miccia di una gigantesca polveriera pronta a esplodere alla prima occasione.

Il Sole 31.1.15
«Mosca aumenta le spese militari»
di Beda Romano


BRUXELLES Presentando ieri qui a Bruxelles il rapporto annuale della Nato, il segretario generale dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg ha avvertito con preoccupazione che la Russia sta aumentando sensibilmente la spesa militare, «nonostante la crisi economica». La presa di posizione giunge mentre continuano gli scontri nell’Ucraina orientale tra nazionalisti ucraini e separatisti russofoni; e mentre negli ultimi giorni aerei russi sono stati intercettati nel Mare del Nord da velivoli inglesi.
«Osserviamo da parte russa un forte aumento dei suoi investimenti nella difesa, nonostante la crisi economica», ha detto Stoltenberg. Il paese, ha aggiunto il segretario generale della Nato, continua a dare priorità alla difesa proprio mentre la spesa militare nei paesi europei dell’alleanza occidentale è ai minimi. «La Russia è pronta a usare la forza. Lo abbiamo visto in Georgia, in Moldavia, in Ucraina». In questo contesto, Stoltenberg ha esortato i paesi della Nato ad aumentare a loro volta la spesa in armamenti.
Il segretario generale ha definito il 2014 «un anno nero» per la sicurezza in Europa, sulla scia della guerra civile in Ucraina nella quale la Russia è accusata di ingerenze: «Il nostro contesto di sicurezza è cambiato radicalmente». Nel 2014 sono state 400 le intercettazioni di aerei russi ai confini della Nato, quattro volte più numerose che nel 2013. Il Foreign Office ha denunciato mercoledì la presenza di due bombardieri russi, che si sono avvicinati ai cieli britannici, fino a causare «disagi all’aviazione civile».
«Finora – ha osservato Stoltenberg – siamo riusciti a fare molto con meno in termini di sicurezza. Ma questa tendenza non può continuare». Secondo cifre pubblicate ieri dall’Alleanza atlantica, nel 2014 i membri europei della Nato hanno speso 250 miliardi di dollari nel settore della difesa, in calo del 3% rispetto al 2013. Il segretario generale ha esortato gli stati membri a mantenere la promessa di aumentare la spesa militare al 2,0% del prodotto interno lordo entro 10 anni.
Le tensioni nei cieli tra la Nato e la Russia giungono in un contesto internazionale particolarmente complicato dalla crisi in Ucraina, dove è scoppiata una guerra civile sulla scia di un graduale avvicinamento del paese all’Unione europea. Mosca ha vissuto questa possibilità, associata a un progressivo allargamento dell’Alleanza atlantica, come una minaccia alla propria zona d’influenza. Da oltre un anno, ormai, i rapporti tra la Russia e l’Occidente sono peggiorati grandemente.
I ministri della Difesa dovrebbero decidere settimana prossima la creazione di avanposti della Nato in sei paesi dell’Est Europa, a difesa delle frontiere orientali. Ciò detto, Stoltenberg ha assicurato che la Nato intende continuare a tenere aperto il dialogo politico con Mosca, tanto che in febbraio il segretario generale potrebbe incontrare a Monaco il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ai margini dell’annuale Conferenza sulla sicurezza (la Wehrkunde in tedesco).
Nella sua conferenza stampa, Stoltenberg è stato chiamato anche a commentare le recenti posizioni del nuovo governo greco, che ha criticato le sanzioni europee contro la Russia. «La Nato - ha detto - è un’alleanza di 28 democrazie che cambiano continuamente guida politica in seguito a regolari elezioni. Fa parte della democrazia e siamo da anni in grado di continuare a lavorare insieme: mi aspetto che anche con il nuovo governo greco continueremo così». Ha definito la Grecia un alleato «fedele».

Repubblica 31.1.15
Aleksej Nikitin
“Questo conflitto può allargarsi anche all’Europa”
intervista di Alksej Larionov


MOSCA «Stiamo scivolando verso un conflitto sempre più esteso, se non globale, almeno di livello europeo ». Aleksej Nikitin, 48 anni, laureato in fisica, scrittore ucraino di romanzi di fantapolitica come “Istemi” e “Mahiong”, segue le vicende del Donbass dalla sua casa di Kiev. Ed è molto preoccupato: «Ho la sensazione che nessuno delle due parti si renda conto della gravità della situazione».
Intanto muoiono soprattutto civili. Non le sembra che entrambi i contendenti stiano ignorando i rischi della popolazione innocente?
«Non tutti. Non sono in grado di giudicare il comportamento dei secessionisti. Ma mi sembra che l’esercito ucraino adotti una certa prudenza. Se non lo avesse fatto, avrebbe attaccato già in estate Donetsk e Lugansk. Uno dei capi dei ribelli ne ha anche approfittato: stava nella cittadina di Sloviansk e si è trasferito a Donetsk che è più grande e difficile da assaltare senza un bagno di sangue».
Ma adesso si sta continuando a sparare proprio su Donetsk.
Sulla gente. Solo ieri 12 vittime.
«I miei amici sul posto mi dicono che la bomba della settimana scorsa che ha fatto una strage alla fermata del bus, non poteva essere raggiunta dalle artiglierie ucraine. È difficile sapere la verità ».
Crede che la maggioranza degli ucraini senta veramente la Russia e i filorussi come il proprio nemico?
«Non posso certo rispondere per tutti gli ucraini. Le dico solo che questa percezione è molto diffusa. E cresce di giorno in giorno».

Corriere 31.1.15
Effetto Tsipras, si apre la partita spagnola
Podemos inizia la «Marcia del Cambio»
Il partito in piazza contro la «casta». Tutto è organizzato (letti e divani inclusi) via web
di Andrea Nicastro


ATENE «Possiamo recuperare la sovranità nelle nostre istituzioni. Ribaltare una situazione che ha visto poche persone ignorare il contratto sociale e sequestrare la democrazia, mentre, dall’altra parte, la grande maggioranza si impoveriva per misure ingiuste quanto inefficaci».
Piccolo test di politica europea. Chi sarebbero i rapitori? E chi ha pronunciato queste frasi? Alcuni indizi sono fuorvianti. L’appello ai sentimenti, al senso di giustizia sociale, alla contrapposizione ricchi-poveri è tipico del nuovo governo greco di Alexis Tsipras. Tipica è anche l’attesa di un’imminente rigenerazione come l’esigenza di «sovranità», magari cominciando col cacciare i controllori della troika.
Invece no. La Grecia non c’entra (o quasi). A parlare è lo spagnolo Íñigo Errejón, l’ideologo della campagna elettorale delle Europee 2014 che hanno trasformato Podemos nel secondo partito di Spagna.
Podemos a Madrid come Syriza ad Atene. I loro due leader, Pablo Iglesias e Alexis Tsipras, percorrono gli stessi sentieri mentali. Promettono, accendono entusiasmi, rompono schemi. E vincono elezioni. Tsipras c’è riuscito domenica scorsa. Iglesias ha davanti un 2015 di fuoco che potrebbe convertire il suo neonato movimento di sociologi e politologi nella prima forza politica spagnola. Se si votasse domani, dicono i sondaggi, Podemos prenderebbe più voti del Partido Popular di Mariano Rajoy, attualmente al governo con maggioranza assoluta di seggi. Per sfortuna di Iglesias però il 2015 sarà una corsa a tappe e il rischio di scivolare è in agguato.
Si comincia in marzo con il voto amministrativo in Andalusia, si prosegue in maggio con altre importantissime Autonomie, si continua in settembre in Catalogna per finire a novembre con le Politiche nazionali. Se Podemos dovesse fare poker la Spagna ne sarebbe stravolta. Tramonto per i socialisti del Psoe, come sono praticamente scomparsi i socialisti greci del Pasok. Ma soprattutto polarizzazione politica che è improprio definire sinistra contro destra, forse meglio nuovo contro vecchio o ancora fantasia contro austerità.
Oggi Podemos ha convocato la «Marcia del Cambio». Poche centinaia di metri nel centro di Madrid per essere sicuri di riempirli tutti. Bisogna scaldare i motori, oliare gli ingranaggi della propaganda di piazza. Podemos è a suo agio online e in tv, meno quando si tratta di consumare le suole sull’asfalto. Sta sperimentando, anche in questo caso senza imitare nessuno. La marcia di stamane si fa a suon di crowdfunding , carpooling e couchsurfing . In altri tempi si sarebbero chiamate collette, passaggi in auto e ospitalità sul divano di casa, ma la novità linguistica è secondaria. Con Podemos è la Rete che si auto-organizza. L’idea è che a Madrid non sfilino «truppe cammellate» di sindacal memoria, ma un popolo attivo e voglioso di impegnarsi per scalzare la «casta» dei politici professionisti. Duecentosessanta autobus confermati sono un inizio promettente.
E’ lo stesso entusiasmo che si è sentito ad Atene. La parentela greco-spagnola però potrebbe ora rivelarsi un handicap per Iglesias. Se la baldanza ateniese dovesse scontrarsi con la mancanza di denaro, anche il «cambio» spagnolo verrebbe messo in dubbio. E’ in questo che sperava il premier iberico Mariano Rajoy quando è volato ad Atene per appoggiare l’ex governo pro austerity greco. E’ questo che terrà a mente il suo ministro delle Finanze quando all’Eurogruppo sceglierà se e come andare incontro alle richieste greche. A questo penserà Rajoy quando difenderà le virtù dei bilanci in ordine e il rispetto dei debiti. Se Atene vincesse, tutti in Europa sarebbero autorizzati a pensare «possiamo», anzi «podemos». Se Atene cade, anche la marcia spagnola andrebbe derubricata al capitolo utopia.

La Stampa 31.1.15
“Nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania”
La denuncia di Terrestrial Jerusalem e e Peace Now:
«Israele costruirà altre 430 unità abitative, la metà oltre la barriera di separazione»

qui

La Stampa 31.1.15
Il premio alle soldatesse israeliane fa infuriare le femministe
Polemiche su una “frase sessista” contenuta nel testo delle motivazioni. Il ministro della Difesa fa ristampare gli attestati
di Maurizio Molinari

qui

Corriere 31.1.15
Il bottiglia-gate: così Sara inguaia Bibi
La First lady israeliana mandava lo staff a restituire i vuoti per intascare 10 centesimi
di Davide Frattini


GERUSALEMME Le urla al telefono alle 3 del mattino perché il latte comperato era quello in busta di plastica e non nel cartone, l’ordine alle donne delle pulizie di fare la doccia e cambiarsi d’abito prima di salire al secondo piano (padronale o in questo caso ministeriale), i commenti razzisti: «Avete ordinato troppo cibo, noi non siamo come voi marocchini che mangiate, mangiate, mangiate. Così ci fate ingrassare e veniamo male nelle foto ufficiali all’estero».
Da anni Sara Netanyahu è inseguita («perseguitata» dice il marito Benjamin) dalle cause di ex dipendenti che hanno lavorato alla residenza del primo ministro israeliano. Meni Naftali ha gestito il palazzo ufficiale a Gerusalemme tra il 2011 e il 2012 con il ruolo di super assistente: doveva rispondere a tutte le esigenze della coppia, dalle scorte nel frigorifero alle richieste degli ospiti internazionali.
Dopo essersi licenziato, ha assunto un avvocato e chiede il risarcimento di un milione di shekel (quasi 240 mila euro) ai Netanyahu e allo Stato perché sostiene di aver subito angherie e abusi.
Dalle carte presentate in tribunale viene fuori quello che gli israeliani hanno soprannominato «bakbuk-gate» (bottiglia-gate) e che rischia di inguaiare politicamente il primo ministro. La First lady esigeva — rivela il quotidiano Haaretz — che gli assistenti riportassero i vuoti delle bottiglie al supermercato e le consegnassero i 10 centesimi del deposito per ognuna.
Il problema è che quelle bevande erano state acquistate con il budget a disposizione del premier per l’incarico, in sostanza con i soldi dei contribuenti israeliani che fra un mese e mezzo devono andare a votare e decidere se Netanyahu sia meritevole di un quarto mandato al potere. E che già si erano indignati quando un paio di anni fa una studentessa lo aveva costretto a rendere pubblica la lista delle spese di famiglia, compresi 2 mila euro l’anno per 14 chili di gelato (gusti preferiti: pistacchio e vaniglia).
E’ allora — dopo le manifestazioni di protesta, anche davanti alla villa a Cesarea dei Netanyahu — che Joseph Shapira, il controllore dello Stato, ha deciso di analizzare i conti della casa più importante del Paese. Il dossier adesso è pronto ma l’avvocato del primo ministro ha chiesto di rinviare la pubblicazione, di non diffonderlo prima del voto perché — spiega chi l’ha letto — potrebbe danneggiare Netanyahu.
La polizia potrebbe decidere di interrogare Sara: con i vuoti a rendere avrebbe intascato soldi pubblici (anche se sono 4 mila shekel, quasi 900 euro) e il procuratore generale dello Stato sta valutando se aprire un’inchiesta.
Gli investigatori non hanno bisogno di cercare conferme al racconto dei dipendenti: l’ufficio del primo ministro ha spiegato che nel maggio del 2013 i Netanyahu hanno versato («di loro spontanea volontà») l’ammontare calcolato sul consumo di bottiglie a partire dal 2009, quando Bibi (come lo chiamano tutti in Israele) è ridiventato primo ministro. Secondo Meni Naftali il conto sarebbe molto più alto e il pericolo per Netanyahu è che gli elettori gli chiedano di pagarlo il 17 marzo.

La Stampa 31.1.15
Quelle terre abbandonate al jihad dove regnano emiri e kalashnikov
Dalla Libia al Kenya passando per il Niger: migliaia di chilometri senza frontiere dove si commercia di tutto: armi, droga, migranti. E si reclutano i soldati di Allah
di Domenico Quirico


Tre anni fa, al confine nord del Niger, nel massiccio dell’Air. Il passaggio di Salvador verso la Libia, cuore di tutti i traffici, non è lontano. Qui non ci sono dune di sabbia ma rocce da incubo. Ci sono voluti millenni di tranquillità sotto il sole e sotto le piogge per scolpire e levigare quelle collezioni di figure inquietanti, cataste di blocchi levigati dall’aspetto molle, con rotondità e contorni strani a forma di bestie. E sempre il silenzio; sempre nessuno.
L’espansione
Libia, Niger, Mali, Algeria, Mauritania: una geografia che non ha più valore, frontiere scomparse. Questo è il Sahelistan dove non comandano più eserciti, giudici, governi, ma il jihad. I padroni delle sabbie, delle foreste, degli uomini, dei traffici sono emiri, contrabbandieri diventati santoni, tuareg convertiti al salafismo, cattivi profeti con il corano nello zaino e il kalashnikov in pugno. Il fronte sud del jihad, che ha giurato di distruggerci e avanza verso l’Africa centrale. Migliaia di chilometri quadrati sono stati occupati da guerriglie periferiche che non hanno mosso la pigrizia delle cancellerie occidentali. Non ci siamo accorti di questa avanzata, e così ritorna il vuoto sulle carte geografiche. In Kenya, a migliaia di chilometri da qui, i jihadisti fanno scendere dagli autobus coloro che non sanno recitare versetti del corano e li uccidono in mezzo alla strada, invocando la benedizione di Dio. Nel nord della Nigeria bruciano le città come i re assiri, conquistano basi militari, mettono in fuga l’esercito. Abubakar Shekau, il califfo nero, governa ferocemente ormai un territorio immenso più grande della Francia. E non sappiamo neppure la sua data esatta di nascita: un pazzo, dicevano, solo uno squilibrato… Non ci siamo accorti che nelle moschee di Bamako e sulle rive del Niger «la Gente della summa e del corano», come amano chiamarsi i wahabiti, guadagna terreno, con prediche infuocate, sull’islam dei sufi e dei marabutti, tacciato di antropolatria e blasfemia. Milioni di affamati e di senzatutto cominciano ad ascoltare le sirene di una palingenesi semplice e risolutiva.
Il contrabbandiere
I miei amici tuareg hanno acceso il fuoco all’apertura di una larga vallata, una specie di piana murata intorno da mucchi di mostri morti. Nel pomeriggio vediamo mutare i colori e la natura delle pietre, i graniti diventano più friabili e più incolori. I minuti rami aromatici con cui hanno acceso il fuoco fanno una grande fiammata e molto fumo. Abbiamo appuntamento con Ahmed Boghari, un altro tuareg che chiamano «il contrabbandiere». Spunta dalle rocce con il buio, come se fosse sempre stato qui ad attenderci. I colori delle sue vesti non sono il bianco e il blu: è il nero dei salafiti, la divisa fondamentalista. È piccolo, giovane, volto e tratti in miniatura inquadrati da una leggera barba nera, un certo fascino quasi femminile. Curva ogni tanto la testa agile come sotto il peso di un turbante troppo pesante. Capisci che nulla può aver presa su di lui, né la pazienza né la minaccia né la gentilezza o la tortura. Raccontano come il suo potere tra i capi di al Qaeda stia crescendo, sotto lo sguardo inquieto dei vecchi capi.
«Chi sei tu? Un poliziotto?» e ride come se avesse pronunciato una parola sconveniente a un pranzo elegante. «Sono un viaggiatore». «Anche io viaggio, sono un meccanico, i miei viaggi sono lunghi duemila chilometri nel deserto, una settimana andata e ritorno. Nel deserto ti può accadere di tutto, il motore in panne e sei morto… meglio avere un buon meccanico pronto a intervenire nel 4 x 4...».
Scambia con i miei accompagnatori sorrisi che sono brevi lampi. Ahmed si occupa dei traffici nel deserto, dal Camerun alla Libia: armi, droga, migranti, falsi medicinali, combattenti che scendono dal nord verso le nuove battaglie africane dell’integralismo o salgono per andare a rafforzare le brigate del califfo siriano. Tutti pagano, lo fanno ricco, aumentano i miliziani che gli obbediscono.
I campi segreti nel deserto
Il suo dominio sono decine di «campi» segreti nel deserto, acqua, munizioni, benzina, viveri nascosti nella sabbia. Per ritrovarli basta un Gps. È lui che mi ha spiegato come le frontiere non esistano più: «due miei zii erano contrabbandieri nei vecchi tempi, prima che arrivassero i rivoluzionari. Odiavano come la peste i soldati di Gheddafi: ah! come odiavano elicotteri, aerei, campi minati, tutto avevano messo in piedi per impedire di fare buoni affari… ma questo ormai non esiste più, siete voi infedeli che continuate a credere alle frontiere...».
Il traffico di armi e droga
Mi raccontò che lui e i suoi «soci» avevano trasferito tonnellate, disse proprio così tonnellate di armi, dalla Libia verso l’Africa, anche i missili antiaerei che la Francia aveva venduto (settecento!) al colonnello. «Guerra… contrabbando: uff! Uno alimenta l’altro. Dite che la droga è vietata dall’Islam? Ma il consumo, non il commercio! Noi non ci droghiamo: mai. E non vogliamo diventare ricchi, vogliamo controllare il Sahel e poi l’Africa in nome di dio». Armi passate per queste piste sono state ritrovate nella Repubblica Centrafricana, nelle mani dei ribelli musulmani. «Se vuoi, viaggiatore, posso portarti fino in Nigeria dai nostri alleati Boko Haram o in Ciad… non vedrai mai un soldato o un gendarme, solo bravi combattenti di dio per chilometri… e senza mostrare il tuo passaporto. Sei con me! …le frontiere!». Si alza, deve andare. Grossi scorpioni verdi si sono avvicinati per scaldarsi al nostro fuoco. Ahmed li getta tra le ceneri ardenti, dove si contorcono e si consumano.

Il Sole 31.1.15
Medio Oriente.
L’instabilità assedia anche l’Egitto
Si moltiplicano nel Paese gli attacchi terroristici degli integralisti: decine di morti in due giorni
di Ugo Tramballi


Non è stato un attentato ma un’azione militare: un assalto coordinato e simultaneo in tre città del Sinai, contro una quindicina di obiettivi militari. Sono almeno una trentina, forse 40 fra militari e poliziotti, gli egiziani uccisi da un’organizzazione che si richiama al califfato islamico. I feriti sono un centinaio. La minaccia è seria, come mai lo era stata fin ora per l’Egitto.
Nello stile dei terroristi in Iraq e Siria, l’operazione nel Sinai è stata rivendicata con immagini e bandiere nere postate con un tweet. Non era questo che aveva promesso il presidente al Sisi, ex feldmaresciallo, comandante in capo delle forze armate e ministro della Difesa, un uomo forte offertosi per il futuro del più importante dei Paesi arabi. L’Egitto continua a vivere in uno stato d'emergenza: al Sisi ha interrotto la sua visita in Etiopia, dove partecipava a un vertice africano, ed è tornato al Cairo. Ma le incertezze sulla sicurezza interna rischiano di influenzare gravemente anche lo sviluppo economico.
Gli attacchi sono stati compiuti nelle tre più importanti città nel Nord della penisola del Sinai: el Arish, Sheikh Zuayid e Rafah, al confine con la striscia di Gaza controllata dai palestinesi di Hamas. Secondo le prime ricostruzioni tutto è incominciato con due kamikaze e tre auto piene di esplosivo contro caserme e comandi militari. Poi gruppi di uomini armati vestiti di nero hanno assaltato almeno otto posti di blocco dell’esercito e altre posizioni militari. L’operazione è stata rivendicata da Waliyat Sinai, la Provincia del Sinai (intesa come provincia del califfato). Fino allo scorso novembre il gruppo aveva un altro nome, Ansar Beit al Maqdis, partigiani della casa di Gerusalemme, e sosteneva di ispirarsi ad al Qaida. Ora afferma di essere affiliato all’Isis.
Come postano con orgoglio i terroristi, l’assalto nel Sinai è stato «un’estesa e simultanea offensiva dei soldati del califfato». Ma il portavoce militare egiziano ha sentito l’obbligo di dire che la responsabilità è dei Fratelli musulmani e di Mohamed Morsi, il presidente esautorato un anno e mezzo fa e da allora chiuso in un carcere duro. Una dichiarazione pericolosamente inadeguata, rispetto alla minaccia reale dell’attacco.
Il Sinai è sotto coprifuoco da ottobre, quando i terroristi fecero un altro assalto che costò la vita a 31 militari. Secondo gli accordi di pace con Israele, l’Egitto può dispiegare nella penisola una forza militare limitata. Ma da tempo gli israeliani hanno concesso una deroga al trattato, permettendo agli egiziani di spostare nel Sinai tutti gli uomini e i mezzi ritenuti necessari per affrontare i terroristi islamisti. La controffensiva egiziana è in corso da un anno. Ciononostante, l’attacco di ieri, il peggiore fino ad ora, dimostra che i militari egiziani sono ancora lontani dai loro obiettivi.
Nelle forze armate più grandi del Medio Oriente e del continente africano, solo l’esercito ha 470mila professionisti e un milione di riservisti. Sono forze concettualmente obsolete, attrezzate e addestrate male per affrontare le nuove minacce. Forse è solo un caso: ma nel giorno dell’assalto nel Sinai, diverse bombe hanno fatto un massacro a Baghdad e l’Isis è all’offensiva in Iraq.
Ieri sono esplose sue bombe anche ad Alessandria e da mesi, in tutto il Paese, c’è uno stillicidio di piccoli e più gravi attentati terroristici. Il governo egiziano ha una responsabilità politica in questa instabilità, reprimendo allo stesso modo gli oppositori laici, gli islamisti moderati e i radicali. La settimana scorsa, quarto anniversario della rivolta di piazza Tahrir, sono morti 35 egiziani. Fra questi, uccisi dalla polizia, anche alcuni oppositori moderati. Decine di giovani bloggers, i ragazzi che scesero in piazza Tahrir, sono in carcere a scontare pene lunghissime. L’incapacità di discernere, o meglio la volontà di reprimere chiunque contesti la linea ufficiale, nel tentativo di raggiungere l’ordine, suscita invece un’instabilità diffusa che alla fine aiuta solo i terroristi.
Abdel Fattah al-Sisi ha appena avviato una serie di riforme economiche coraggiose, aiutato dalla munificenza saudita che tuttavia non è inesauribile. Il decollo economico egiziano e l’obiettivo di tornare ad essere la potenza regionale, saranno celebrati a metà marzo con un grande vertice internazionale. A Sharm el Sheikh: nel Sud Est della penisola del Sinai nel cui Nord Ovest colpiscono i terroristi locali del califfato. Le due idee di Egitto sono troppo diverse e geograficamente troppo vicine per non sollevare preoccupazioni serie.

Corriere 31.1.15
Cina, la stretta ideologica di un leader insicuro
di Guido Santevecchi


Comunicato dell’agenzia di notizie statale Xinhua: «Il ministro dell’Istruzione della Cina ha ammonito le università del Paese a mantenere l’integrità politica e a non consentire mai che libri di testo che promuovono valori occidentali entrino nelle nostre aule».
I docenti debbono anche evitare qualsiasi discorso che critichi i dirigenti del partito e il socialismo. Qualche giorno fa le università avevano ricevuto istruzioni di accentuare l’insegnamento del marxismo e del socialismo per assicurarsi che questi valori «entrino nelle teste degli studenti». La direttiva sui libri di testo, presa alla lettera, riporterebbe le università cinesi indietro di decenni, ai tempi dell’isolamento culturale. Nelle grandi università, dalla Tsinghua alla Peking, oggi si studia su libri in lingua inglese o tradotti dall’inglese che sono la base dei corsi di scienze ed economia. Ogni anno decine di migliaia di studenti cinesi vanno all’estero a perfezionarsi dopo essersi formati su quei manuali che ora il ministero vorrebbe censurare. La scomunica dei valori occidentali negli studi è l’ultimo segnale in ordine di tempo di una stretta ideologica da parte del governo del presidente Xi Jinping.
Pochi giorni fa c’è stata una nuova ondata di censura su Internet con il blocco delle Vpn ( Virtual private network ) che permettevano a milioni di cinesi di navigare su siti stranieri diversamente inaccessibili: nel lungo elenco dei collegamenti oscurati si va da Google a Facebook. Da molti mesi si succedono arresti di blogger, giornalisti, dissidenti e dei loro avvocati.
Eppure tutti dicono che Xi Jinping è forte, nessun leader prima di lui in Cina ad eccezione di Mao, forse nemmeno Deng Xiaoping, ha avuto una tale concentrazione di potere. Perché allora questi segnali repressivi che mostrano insicurezza e paura? Xi evidentemente ha motivi per dubitare della stabilità del sistema basato sul partito-Stato e rilancia la carta dell’ideologia.

Repubblica 31.1.15
Svolta a Cuba
Il figlio di Fidel apre a Coca Cola e McDonald’s


L’AVANA Solo un paio di mesi fa sarebbe stato impensabile.
E invece pare proprio che Coca Cola e McDonald’s, due simboli planetari del consumismo americano, potrebbero sbarcare presto anche a Cuba. L’apertura è nientemeno di Alex Castro, figlio secondogenito di Fidel.
«Siamo vicini, potremmo produrre Coca Cola a Cuba.
Stiamo facendo fare una pausa al nostro socialismo, ma non vi rinunceremo mai», ha detto Alex in un’intervista a AmericateVè.
Alex ha anche rivelato che suo padre, che non compare in pubblico dal gennaio del 2014 e la cui ultima fotografia risale all’agosto scorso, non solo è vivo ma continua ad avere grande influenza su Raùl, il fratello minore presidente. «Fidel è come un albero la cui ombra protegge Raùl e il suo governo», ha detto Alex, ripreso dalla tv mentre cammina per le strade dell’Avana mano nella mano con la fidanzata.
Il 17 dicembre scorso, il presidente Usa Barack Obama ha annunciato la volontà di ripristinare le relazioni con l’isola comunista. Un’apertura accolta favorevolmente dal presidente Raùl Castro, secondo il quale però la normalizzazione delle relazioni potrà avvenire solo dopo che la Casa Bianca avrà tolto l’embargo e restituito alla sovranità cubana il territorio di Guantanamo. I cubani insomma dovranno aspettare ancora un pò prima di gustarsi un Big Mac e una Coca Cola.

La Stampa TuttoLibri 31.1.15
Monsignore Jozef Tiso, capo del governo filonazista slovacco
Il vescovo filonazista e il piccolo duce di Ginevra
di Marco Sartorelli


«Muoio come martire della legge naturale data da Dio a ciascun popolo di promuovere la sua libertà e come difensore della civiltà cristiana contro il comunismo (…). Ho combattuto con tutte le mie forze e il mio entusiasmo per una Nuova Europa libera dal bolscevismo e dal capitalismo». E’ il testamento ideologico di Jozef Tiso, impiccato all’alba del 18 aprile del 1947 nel cortile del tribunale di Bratislava. Jozef Tiso? Vescovo e capo del governo filonazista slovacco, Tizo era scappato dal suo paese a marzo del ’45 per rifugiarsi in un convento di cappuccini a Monaco di Baviera. Gli americani lo catturarono, i cechi lo processarono e giustiziarono. Nel 1944 riuscì invece la fuga a Georges Albert Oltramare, (di origine genovese), drammaturgo e giornalista svizzero che fondò l’Union Nationale. Il programma: combattere i comunisti, il capitale massonico, gli ebrei e propugnare il corporativismo. Il motto: «Una dottrina, una fede, un leader». Duemila aderenti in basco e camicia grigia, 10 seggi nel Gran Consiglio di Ginevra e per Oltramare l’appellativo di «Piccolo duce di Ginevra».
Due vite giunte al capolinea. Le racconta in Altri duci. I fascismi europei tra le due guerre, Marco Fraquelli , studioso della cultura di destra (da segnalare il Filosofo proibito. Tradizione e reazione nell’opera di Julius Evola, 1994), in un libro che, come sottolinea l’autore nell’introduzione, ha un intento «puramente descrittivo (…) che si pone l’obiettivo di raccontare in una forma ragionevolmente sintetica (…) a un pubblico di non addetti ai lavori un fenomeno che, pur avendo caratterizzato un periodo della recente storia europea non sempre ha trovato uno spazio adeguato nelle trattazioni storiografiche».
Né Mussolini né Hitler interessano quindi Fraquelli, bensì gli altri leader di movimenti fascisti cosiddetti minori, che seppero coagulare attorno a sé adesione (in misura differente e con lasciti differenti), non riuscendo però a raggiungere il «successo» di fascismo e nazismo nelle rispettive patrie. Altri duci è un viaggio attraverso l’Europa tra le macerie del ’19 e quelle del ’45, che farà scoprire quindi il fascismo italianissimo dell’Albania come la versione macedone di Ivan Mihailov («l’ Aquila del Pirin»), l’evanescente esperienza islandese (il Partito Nazionalista ebbe il picco di 450 iscritti e nelle elezioni non superò mai i trecento voti) e quella lussemburghese (al termine della II Guerra mondiale furono eseguite otto condanne a morte e si stima che siano stati arrestati 10-15 mila collaborazionisti). Altre fortune ebbero - e hanno nelle contemporanee nostalgie nazionalistiche e nei sempre vivi populismi - i semi gettati in Romania da Corneliu Zelea Codreanu con la sua Legione dell’Arcangelo Michele, da Ferenc Szálasi e le sue Croci Frecciate e dall’inglese Oswald Mosley, leader nerovestito con berretto militare, calzoni da cavallerizzo e stivali. Ad arricchire il volume, la prefazione di Giorgio Galli, che colloca rigorosamente Altri duci nell’analisi della storia contemporanea.

La Stampa 31.1.15
Pupi Avati: il genocidio dei migranti nella storia di una donna e un bambino
di Simonetta Robiony


Pupi Avati, il più prolifico tra i nostri registi, non riuscendo a trovare nel cinema quell’accoglienza che un tempo avevano le sue storie, s’è messo a fare televisione per la Rai. «Sono contento, così posso lavorare liberamente senza esser costretto a girare quei filmetti di puro intrattenimento che oggi vogliono i distributori».
Da molto tempo, dice, cercava un modo di affrontare la grande questione delle migrazioni. «Ma le morti su quei barconi che partono dalle coste della Libia per approdare da noi in Sicilia sono diventate talmente frequenti da non destare più interesse. Se avessi parlato di centinaia di uomini e donne non avrei suscitato alcun sentimento negli spettatori: ho deciso, perciò, di concentrarmi su una donna, una sola, e un bambino, uno solo. E parlare di loro».
Con il sole negli occhi, in onda lunedì 2 febbraio su Raiuno contro l’ennesima «Isola dei famosi», ma chi se ne importa!, è una storia semplice, asciutta e forte, senza quell’alone nostalgico che Avati usa quando parla della sua gioventù, interpretato dalla grande Laura Morante e dal piccolo Amor Faidi, uno sveglio tunisino, nonché da Paolo Sassanelli, Lina Sastri, Michele La Ginestra, Claudia Potenza, Gianfranco Jannuzzo.
Una donna di mezza età, bella, ricca e intelligente, viene lasciata dal marito dopo anni di un matrimonio senza figli. Per combattere la solitudine e la depressione, essendo avvocato, si offrire come consulente legale a una associazione che si occupa di profughi. È in quella villetta dove vivono tanti ragazzini approdati in Italia che incontra Marhaba, un bambino siriano ostinato e ribelle, muto per protesta, che stringe tra le mani una foto che lo ritrae con due suoi fratelli.
Tinny Andreatta, il capo di Raifiction, per spiegare il film, parla di un filo amoroso che va a legare da un capo la donna italiana lasciata dal marito e dall’altro il bambino siriano senza né casa, né famiglia. Giorno dopo giorno il legame cresce fino a quando la donna, dopo aver invano cercato a Lampedusa i fratelli del piccolo siriano, decide di chiederne l’affido. È a quel punto, però, che si hanno notizie dei fratelli.
Patrocinato dall’Unhcr e dall’Associazione Centro Astalli-Jrs Italia, scritto da Pupi e Tommaso Avati con Claudio Piersanti, prodotto come sempre da Antonio Avati, ha i suoi momenti migliori nei dialoghi tra la Morante e la Sastri pronunciati in maniera spezzettata e nervosa, in toni simili ma diversi.
Laura Morante inizia il suo discorso citando due naufragi: «C’è quello del matrimonio che vive la donna e quello in mare che vive il bambino. È un doppio dramma cui noi italiani con l’operazione Mare Nostrum abbiamo cercato di porre in qualche modo rimedio salvando molte vite. Ora dovrebbe esserci l’Europa, ma non vedo un progetto comune, un lavoro fatto di concerto. Anzi, ho letto lo scandalo di chi ha approfittato dei migranti per farci sopra i suoi guadagni. Mi pare orribile che siano stati proprio degli italiani a farlo, gente come noi che conosce il dolore di andare a lavorare in una terra che non è la propria. Se con questo film sono riuscita ad aiutare le associazioni che si occupano di migranti senza sprecare i nostri soldi, mi pare già di aver fatto qualcosa».

Con il sole negli occhi Sopra: Pupi Avati; a fianco: Laura Morante e Amor Faidi nel film

il Fatto 31.1.15
Von Trotta e Hanna Arendt, la “banalità” della buona tv
di Elisabetta Ambrosi


È andato in onda in prima assoluta giovedì sera – al termine di una settimana dedicata da Rai tre alla memoria – il film su Hannah Arendt di Margarethe Von Trotta. E subito è finito tra gli hashtag twitter #latvchevorrei, nonostante le ironie dei webnauti su possibili reazioni della ministra Lorenzin, visto che la brava protagonista Barbara Sukowa fuma ininterrottamente per tutto il film. Il film avrebbe senza dubbio meritato un battage pubblicitario più insistente oltre che, impensabile utopia da noi, una proiezione in prima serata su Rai uno, magari seguita da un dibattito degno di questo nome. Perché la pellicola è una ricostruzione magnifica e fedele della figura della filosofa politica Hannah Arendt e in particolare degli anni della pubblicazione di uno dei suoi più celebri saggi, La banalità del male (pubblicato da Feltrinelli): una ricostruzione capace di semplificare il complesso pensiero della scrittrice tedesca, senza perdere in profondità né in rigore. Il film si svolge quasi tutto nella casa newyorkese della Arendt , dove si ritrovano, per discussioni filosofiche politiche che catturano chi guarda più di un thriller, gli amici tedeschi fuggiti dalle persecuzioni e quelli che la scrittrice conobbe sul posto, come la sua grande amica e scrittrice Mary McCarthy, interpretata da un’eccezionale Janet McTeer. “So che non mi perdonerei mai se non cogliessi questa opportunità”, dice la protagonista quando viene a sapere che Israele ha catturato il gerarca nazista Adolf Eichmann.
MA IL RACCONTO del processo di Gerusalemme spiazza completamente sia il giornale che le aveva commissionato gli articoli, The New Yorker, sia grande parte dei suoi amici. Criticando l’impostazione del pubblico ministero Gideon Hausner volta a fare un processo alla storia – mentre “solo una persona può essere giudicata” – Arendt sostenne che Eichmann non poteva essere considerato un “mefistofele” e paradossalmente neanche un antisemita. “Quest’uomo”, dice la filosofa ebrea nel film, mentre la sua casa si riempie di lettere di insulti e minacce di morte, “non ha niente di personale contro il popolo ebraico. Ha semplicemente rispettato la legge, facendo tutto ciò che un sistema omicida ha voluto da lui: per questo, sebbene consapevole, non si sentiva responsabile”. È quella che Arendt definì, appunto, la “spiazzante mediocrità del male” che nasce dalla cieca obbedienza a un sistema. Un richiamo alla natura storica e sociale della colpa, contro l’idea metafisico-medioevale di un male che nasce solo nell’oscurità delle coscienze. Certo che ci fu uno “spaventoso cedimento morale” ma fu un cedimento che – sottolinea Arendt con un’argomentazione che le costò l’avversione della comunità ebraica (e persino il tentativo dei servizi segreti israeliani di impedire la pubblicazione) – coinvolse anche parte delle vittime, e in particolare alcuni capi ebraici che, collaborando, contribuirono ad aumentare il numero delle vittime. Una serata, quella di giovedì su Rai tre, capace di distogliere gli animi dalle tristi trame quirinalizie, ma anche di ricordarci che è proprio stravolgendo un sistema, le sue leggi e i suoi contrappesi istituzionali che si creano le premesse per la catastrofe collettiva.

La Stampa 31.1.15
Neonati prematuri: +14% di sopravvivenza
I risultato di uno studio prospettico francese: progressi della medicina neonatale
di Nicla Panciera

qui

Corriere 31.1.15
La sorpresa dei pulcini: contano come gli uomini
Ordinano le grandezze in modo crescente da sinistra a destra. «È uno schema innato»
di Massimo Piattelli Palmarini


Viene proiettato su uno schermo di calcolatore il numero, poniamo, 67. Vi viene detto che sarà il numero di riferimento. Poi sparisce e vengono proiettati via via, uno alla volta, altri numeri, alcuni più grandi (poniamo 71) e alcuni più piccoli (poniamo 55). Ebbene, avete un pulsante in ciascuna mano e dovete, il più rapidamente possibile, premere il pulsante sinistro se il numero è più piccolo, invece il pulsante destro se è più grande. Anni fa il neuro-cognitivista francese Stanislas Dehaene ha mostrato che questo compito è assai più facile che non l’inverso, cioè premere il pulsante destro se il numero è (si noti bene) più piccolo, quello sinistro se è (si noti ancora bene) più grande. Questo si inverte per i parlanti dell’arabo, che hanno scrivono da destra a sinistra. Insomma, proiettare mentalmente i numeri su una linea continua ci viene naturale. Dehaene e collaboratori hanno studiato pazienti con specifici danni cerebrali che trovano questi compiti ardui o impossibili. Sono pazienti che presentano un tipo particolare di discalculia.
Finora si poteva sospettare che si trattasse di un condizionamento socio-culturale, qualcosa imparato a scuola. Da venerdì possiamo concludere che la corrispondenza tra numero e spazio con una precisa direzionalità è un meccanismo biologico molto antico. Può essere modulata, ma non causata, da fattori dovuti all’esperienza. Sull’ultimo numero di Science , infatti, un’équipe di quattro ricercatori dell’Università di Padova e del Centro Internazionale Mente/Cervello (CIMeC) dell’Università di Trento a Rovereto e dell’Università di Padova, cioè Rosa Rugani, Giorgio Vallortigara, Konstatinos Priftis e Lucia Regolin hanno mostrato che anche i pulcini appena nati abbinano numeri piccoli e numeri grandi con posizioni diverse nello spazio. Le radici di questo abbinamento affondano, quindi, molto indietro nella scala della natura. «Pulcini di tre giorni imparano a girare attorno a un pannello per trovare dietro un delizioso (per loro) vermetto — spiega Vallortigara —. Sul pannello è raffigurata una numerosità non-simbolica, diciamo 5 elementi (per esempio pallini). Poi ai pulcini sono mostrati due pannelli identici, su ciascuno è raffigurata un’identica numerosità, però più piccola (2) o più grande (8) di quella iniziale. Di fronte alla coppia 2-2 i pulcini aggirano il pannello che sta sulla destra, di fronte alla coppia 8-8 quello che sta sulla sinistra. “Grande” o “piccolo” però è riferito al rapporto col numero iniziale, non in assoluto. Se l’addestramento avviene con un pannello che ha 20 elementi, e poi presento al pulcino la coppia di pannelli 8-8 stavolta si dirige verso il pannello di sinistra: 8 è grande rispetto a 5 ma piccolo rispetto a 20. Come per noi, i numeri piccoli stanno a sinistra e quelli grandi a destra».
Vallortigara aggiunge che gli stimoli erano controllati per essere certi che gli animali non stimassero area, perimetro, densità degli elementi anziché le numerosità. Ricadute pratiche? «Avere modelli animali della linea mentale del numero apre all’indagine dei meccanismi nervosi e genetici del fenomeno — dice Vallortigara —. Le difficoltà dei bambini con i numeri, come certe forme di discalculia, si manifestano con problemi a rappresentarsi la linea mentale dei numeri. Inoltre è interessante il fatto che vi sia questo mapping naturale, spontaneo e precocissimo dei numeri nello spazio». Il cognitivista americano Charles Randy Gallistel suggerì l’esistenza di una specie di moneta comune nel cervello per la valutazione delle grandezze, una «magnitudo» neurobiologica che fornisce una metrica comune per numeri, spazio e tempo. Vallortigara studia il sistema nervoso dei pennuti e ha pubblicato nel 2005 il saggio Cervello di Gallina (Bollati Boringhieri). Alla luce dei dati ora pubblicati, non va più insultato nessuno, nemmeno dicendogli che ha un cervello di pulcino.

Corriere 31.1.15
Il contro-manuale della medicina
di Sandro Modeo


Aggiornando e integrando un già denso libretto di una decina di anni fa, Gilberto Corbellini propone ora con Storia e teorie della salute e della malattia (Carocci, pp. 256, e 16) un innovativo contro-manuale, in cui una prospettiva biologico-evoluzionistica innesca spiegazioni spesso sorprendenti. Per gli storici della medicina, una simile prospettiva retroillumina tanti passaggi fin dal mondo antico, chiarendo ad esempio come la «sovrastruttura» religioso-rituale abbia spesso mascherato esigenze ben più concrete: vedi la circoncisione, prescritta per prevenire infezioni e vietata nei casi di emofilia ereditaria. Per i medici, una chiave «darwiniana» è invece decisiva per integrare nozioni e tecniche in una cornice più profonda, che mostra come le patologie umane dipendano sia dalle incessanti variazioni della dialettica geni/ambiente, sia dalla competizione/ coevoluzione con altri organismi. È una lettura che evidenzia in tutta la storia della medicina una lotta contro la «coperta corta» di adattamenti efficaci ma imperfetti, lungo un processo evolutivo indifferente, che tende a sacrificare alla sopravvivenza della specie salute e benessere dell’individuo.