martedì 3 febbraio 2015

La Stampa 3.2.15
Le radici politiche del Presidente
di Umberto Gentiloni


L’equazione che va per la maggiore tra il profilo di Sergio Mattarella e il ritorno dello scudocrociato al vertice delle istituzioni è meno scontata e univoca di quanto potrebbe apparire a un primo sguardo. La biografia del dodicesimo Presidente merita approfondimenti e richiami che in queste ore rischiano di passare in secondo piano. Troppo facile riferirsi alla traiettoria della Dc e alla sua centralità nella storia della Repubblica. Il Presidente appena eletto tiene insieme almeno due ambiti tra loro distinti. Il padre Bernardo ha partecipato ai lavori dell’Assemblea costituente e ha ricoperto più volte la carica di sottosegretario e ministro in diversi esecutivi a guida democristiana; il figlio Piersanti segue con successo il solco del tracciato familiare. Fino al tragico assassinio del fratello, il 6 gennaio 1980, Sergio Mattarella si dedica allo studio laureandosi in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma (nel 1964) con una tesi sulla funzione dell’indirizzo politico, per poi imboccare la strada della libera professione di avvocato e della carriera accademica privilegiando gli ambiti del diritto costituzionale e parlamentare. Non si tratta di una puntigliosa differenziazione cronologica, i tempi definiscono un contesto radicalmente diverso da quello della Dc delle origini. Sergio Mattarella viene eletto deputato per la prima volta nel 1983, quando il partito che lo candida perde 5 punti in percentuale: il segno di un crollo inarrestabile che si snoda per un lungo decennio. La Dc è in crisi, la parabola del declino non ammette repliche. Il tempo di De Gasperi è sfocato in lontananza, anche la seconda generazione (quella di Moro e Fanfani per intendersi) ha esaurito la sua funzione di guida. Mattarella è un uomo di una fase inedita che s’iscrive nella crisi della Repubblica dei partiti. Il travaglio è quello dello scorcio conclusivo del Novecento, la sua figura è già legata agli interrogativi sulle eredità del dopoguerra, sui lasciti di culture e storie che mostrano crepe e scricchiolii.
Ecco il senso più profondo della scelta di sabato scorso. Il recupero di una presenza culturalmente rilevante, anche se numericamente esigua. Una tradizione e un pensiero quello del cattolicesimo democratico nella sua accezione più alta: il contributo alla democrazia italiana nel solco del popolarismo di stampo europeo. E’ il rovesciamento dei paradigmi precedenti, quelli dell’unità politica dei cattolici, prima nel tentativo di sostenere il partito popolare di Mino Martinazzoli e poi nella dinamica di un bipolarismo incerto e pervasivo. La scelta di un gruppo intellettuale, figure di confine in contrasto con il verso della corrente che spinge verso un nuovismo dai contorni a dir poco indefiniti. Figure preziose, in parte accomunate dai trascorsi comuni nella Lega democratica che dal 1975 si muove nei settori del mondo cattolico contrari all’abrogazione della legge sul divorzio. Sono Beniamino Andreatta, Pietro Scoppola, Leopoldo Elia a mettersi in gioco in quel campo di forze che si muove dopo il crollo del vecchio sistema politico. Mattarella è parte di questa storia, del cammino di una generazione che partendo dalla stella polare della Costituzione del 1948 e dalle sfide del Concilio Vaticano II tenta di misurarsi in uno scenario nuovo e imprevedibile. Lo stesso bagaglio, i linguaggi, le letture di riferimento del cattolicesimo democratico vengono trasformati e superati dal contatto con il nuovo mondo. Sono i rischi e le opportunità di una transizione che appare incompiuta. Da qui il segno positivo del recupero delle radici, della profondità di un cammino che ci spinge a guardare indietro, con poche certezze e molti interrogativi. Quali quindi le eredità e i lasciti del cattolicesimo democratico? Come in un passaggio di testimone lasciamo alle parole cristalline di un messaggio che Giorgio Napolitano indirizzò nel 2008 alla Fondazione Ermanno Gorrieri, un anno dopo la scomparsa di Pietro Scoppola: «Il contributo multiforme del movimento dei cattolici democratici è riconosciuto da tutti coloro che guardano senza ingiustificate preclusioni al lungo cammino dell’Italia dagli anni dell’antifascismo e della Resistenza sino ai giorni nostri, e si è espresso nel favorire l’avanzamento sociale, culturale e politico della società civile, del movimento ecclesiale, del mondo politico e delle istituzioni».

La stampa 3.2.15
La missione di chiudere la guerra civile
di Marcello Sorgi


Unire, ricucire, pacificare: Sergio Mattarella ci prova per davvero a chiudere con le divisioni e i risentimenti che hanno accompagnato la sua elezione e forse anche la lunga guerra civile che si trascina di più di vent’anni. L’invito rivolto a Berlusconi (insieme con tutti gli altri leader politici e le alte cariche dello Stato) per la cerimonia del suo insediamento al Quirinale ha precisamente questo significato. E l’ex-Cavaliere - rallegrato ieri dal condono di 45 giorni di pena che il giudice di sorveglianza gli ha concesso, anticipando all’8 marzo la fine delle limitazioni imposte dall’affidamento ai servizi sociali - si può dire che non aspettasse altro. Entrare stamane al Quirinale insieme al selezionatissimo corteo di ospiti che incontreranno il Presidente al suo primo giorno di lavoro costituirà per il leader di Forza Italia un passo di avvicinamento al recupero dell’agibilità politica che insegue da tempo.
Di qui a un’effettiva distensione del quadro politico, tuttavia ne corre. Non solo per le tensioni che attraversano il centrodestra (in Forza Italia, nel giro stretto di Berlusconi, la senatrice Rossi e Denis Verdini sono ai ferri corti, e la minoranza di Fitto reclama l’azzeramento di tutte le cariche; il Ncd, dopo le dimissioni dei due capigruppo deve ancora ritrovare un equilibrio), ma anche per le polemiche riprese all’interno del Pd. La ritrovata unità Democrat che ha portato all’elezione di Mattarella, infatti, rischia già di essere compromessa dal ritorno della legge elettorale alla Camera. Bersani e la minoranza interna premono perchè il testo sia rivisto, anche se in questo caso dovrebbe tornare al Senato, almeno nella parte dei capilista bloccati e delle preferenze, e si preparano a coinvolgere il Capo dello Stato. Renzi è contrario, punta a un’approvazione rapida e definitiva del testo, e invita a lasciare in pace Mattarella. Il premier ha detto che intende accelerare anche senza “i partitini”, frase che ha irritato Lupi e il Nuovo centrodestra.
La sua opinione sulle riforme il Presidente la dirà stamane nel messaggio alle Camere dopo il giuramento. Lo slogan trapelato dalla riservatezza della squadra di collaboratori che ha lavorato al discorso è: “Innovare per non tradire”, in altre parole aggiornare la Costituzione nei punti su cui il Parlamento è già impegnato, salvando lo spirito del “patto” stretto tra i Padri Costituenti.
Sarà interessante vedere, oltre a Berlusconi, quali e quanti altri leader dell’opposizione saliranno al Colle stamattina. Dalla lista delle presenze e delle assenze si potrà già ricavare una previsione sull’efficacia pratica dell’appello del Capo dello Stato e sull’effettiva volontà, ad esempio, di Lega e Movimento 5 stelle, di smetterla con l’ostruzionismo e riprendere a confrontarsi sulle riforme.

il Fatto 3.2.15
Il miracolo del condannato B. da Cesano Boscone al Colle
Oggi Berlusconi sarà al Quirinale, ritrova la centralità persa con la decadenza
di Carlo Tecce


Quirinale ore 11:30, salone dei Corazzieri, autorità militari e istituzionali: insediamento di Sergio Mattarella, (re) insediamento di Silvio Berlusconi. Il protocollo quirinalizio, che viene applicato in maniera pedissequa, vuole che segretari e presidenti di partito assistano al saluto (una breve orazione, di solito) del Capo dello Stato. E capita, stavolta, che un ospite sia un condannato per frode fiscale, un uomo che sconta ancora i servizi sociali in quel di Cesano Boscone (sino all’8 di marzo), un senatore decaduto, fra pernacchie e sberleffi di un’agguerrita minoranza democratica, neanche un anno e mezzo fa con una solenne votazione a palazzo Madama. L’ex Cavaliere ha ricevuto una telefonata da Mattarella, domenica sera verso le venti; un invito diretto con formula classica: “Mi fa piacere, se... ”. Non c’era bisogno di attendere la risposta, Berlusconi non ci ha riflettuto. Ha detto sì. Il pregiudicato intuisce le convenienze, è rapido. Avrà uno spazio, farà clamore. E confida in una fotografia: vuole stringere la mano a Mattarella, guidare la delegazione di Forza Italia, composta dai capigruppo e dai vicepresidenti di Camera e Senato. E poi, magari, racconterà una barzelletta.
BERLUSCONI non adora i politici seriosi, e Mattarella è molto serioso, essenziale. E chissà, finalmente, i cronisti potranno cogliere un cenno d’intesa, un abbraccio (troppo?) fra Renzi e Berlusconi. Nonostante i frequenti appuntamenti, più o meno carbonari, negli archivi mancano le immagini tra gli alleati Silvio & Matteo. Questa è una succulenta occasione. L’ex Cavaliere deve dimostrare di essere ancora presente, di essere un padre costituente, il premuroso custode del patto che fu siglato al Nazareno.
Un tempo, l’imprenditore col sole in tasca detestava le cerimonie. Guai a proporre a Berlusconi un posto in seconda fila, un ruolo da secondo attore. Non partecipò, figuriamoci, al giuramento di Barack Obama a Washington. E replicò sdegnato, con perfida ironia: “Non sono andato per George W. Bush e poi io sono un protagonista, non una comparsa”. Non sapete com’è allegro, adesso, di fare la comparsa, di avere una sediolina al Quirinale per ascoltare Mattarella. Quando risorge, l’ex Cavaliere è incontenibile. Al Colle avrà l’opportunità di apparire di nuovo centrale, anche a favore di telecamera: una centralità che predilige. Così B. ha ragionato, per un pomeriggio rinchiuso in villa San Martino di Arcore, su una mossa più spettacolare: fare una capatina a Montecitorio per il discorso di Mattarella? Azzardare o desistere. Poi ha capito che sarebbe esagerato e complicato per un politico espulso dal Senato. Non importa. Quel che va contabilizzato è il gesto di Mattarella, inevitabile per la prassi (un po’ meno la telefonata), che richiama in vita l’ex Cavaliere sbertucciato dai suoi parlamentari per come ha gestito la tornata per il Colle, padrone di una Forza Italia in frantumi, ma sempre necessario per le riforme di Renzi. E non soltanto per le riforme.
PER IL SENATORE DEM Miguel Gotor, un professore arruolato in Parlamento da Pier Luigi Bersani, sarebbe un peccato non veniale illudersi che sia finito il sodalizio fra Silvio & Matteo: “Il patto non ha soltanto contenuti politici, altrimenti Berlusconi non avrebbe votato l’Italicum a pochi giorni dal Quirinale, ma riguarda anche materie economiche, finanziarie e giudiziarie. E non sarà interrotto”. Entusiasta per il cortese approccio di Mattarella, ora Berlusconi precisa di aver ordinato ai suoi di scegliere scheda bianca perché non c’erano dubbi su Mattarella, semmai sul metodo di Renzi. E vengono dimenticate le dimissioni dell’ex democristiano moroteo, quand’era ministro dell’istruzione e lasciò il governo per protestare contro la legge Mammì che salvava le televisioni Mediaset. Era il 1990, e Berlusconi cancella i brutti ricordi. Il sottosegretario Graziano Delrio commenta la decisione di Mattarella con poche parole. Quella che comincia per R è fondamentale: “È un segno di apertura, di una riconciliazione che fa sentire la presidenza della Repubblica la casa di tutti”. Quanto piace a Berlusconi la riconciliazione. Sarà pure ferito l’orgoglio di Silvio per il tradimento politico di Matteo sul Quirinale. Ma Silvio è un uomo completo: oltre a tradire, sa perdonare.

il Fatto 3.2.15
Invitati scomodi
Il fratello Antonino resta a Palermo

TANTI, praticamente tutti stamani per il gran giorno del giuramento di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Familiari, amici oltre che politici e uomini delle istituzioni. Ma non lui. Antonino Mattarella, fratello del neopresidente, resterà a Palermo. Un gesto di accortezza, dopo le notizie pubblicate dal Fatto Quotidiano sui prestiti da lui richiesti (750 milioni di vecchie lire) a Enrico Nicoletti - cassiere della banda della Magliana - così come risulta da un provvedimento di sequestro dei beni che il tribunale di Roma ha emesso nel 1995 nei confronti proprio di Nicoletti.

Corriere 3.2.15
Il caso del 3 per cento
La frusta e il dolce fiscale
di Antonio Polito

qui

il Fatto 3.2.15
Forse si rimangiano il 3% per B. ma rimane il regalo agli evasori
Il governo riscrive il decreto fiscale, resta la parte che interessa alle banche
di Carlo Di Foggia e Stefano Feltri


Uno scivolone, un indizio e un’ammissione di colpa. Le parole di Maria Elena Boschi e Matteo Renzi aiutano a capire come si evolverà il pasticcio della norma salva Berlusconi. Quella che salva chi evade o froda il fisco sotto il 3 per cento del reddito imponibile (o dell’Iva) dichiarato - che avrebbe potuto ridare l’agibilità politica all’ex Cavaliere – e del decreto fiscale modificato in extremis da Palazzo Chigi e approvato alla vigilia di Natale. Testo bloccato e congelato fino al 20 febbraio.
LO SCIVOLONE. “Non è una norma pensata per salvare l’ex Cavaliere, ma riguarda 60 milioni di italiani” spiega domenica il ministro per le Riforme in tv: “Non credo che possiamo fare o non fare una norma perché c’entra o meno Berlusconi. Così si resta fermi agli ultimi 20 anni”. Aggiungendo: “In Francia hanno una norma uguale, con una soglia più alta, non del 3 per cento ma del 10 di non punibilità”. I tecnici al Tesoro si sono messi le mani nei capelli. In Francia la “soglia parametrata” per il reato di frode fiscale ha una doppio limite: il 10 per cento, e uno molto più basso, 153 euro, sopra i quali si configura il reato e si rischia una condanna a 5 anni di carcere e una multa fino a 500 mila euro, che salgono a 2 milioni se il frodatore ha sede all’estero, o falsifica il domicilio fiscale. Su un milione di euro, non si possono frodare 100mila euro ma solo 153, mentre in Italia – stando al testo approvato – fino a 30mila. Non solo: in Francia per chi froda l’Iva non esistono soglie di non punibilità – così come per le frodi documentali (salvate sotto il 3 per cento dal governo italiano o se le fatture false non superano i 1000 euro) - e lo stesso reato di frode è inteso in modo molto ampio, visto che punisce anche la sola “intenzionalità” e comprende “l’omessa dichiarazione dei redditi” (reclusione da sei mesi a tre anni).
RENZI HA SPIEGATO ai suoi ministri che “la soluzione finale sarà molto vicina ai francesi e non riguarderà Berlusconi”. Nel senso che dovrebbe essere esclusa dal provvedimento ogni tolleranza per la frode fiscale. Se rientrasse nel 3 per cento, l’Italia sarebbe l’unico Paese – tra le economie più sviluppate – ad avere una soglia così alta. In Germania l’evasione è punita fino a cinque anni o con una sanzione (in casi molto gravi la pena può salire fino a 10 anni) e sopra i 100 mila euro scatta la pena detentiva, che oltre il milione di euro supera i due anni. In Inghilterra, sopra le 20mila sterline si finisce a giudizio, con pene molto severe, mentre in Spagna la soglia è più alta. In tutti i casi, non esistono percentuali. Lo stesso decreto del governo ha triplicato a 150mila euro le soglie minime, sotto le quali chi evade non rischia il carcere. Una misura che dovrebbe rimanere.
Questo schema è confermato dal Tesoro, dove l’ipotesi sul tavolo è la sola esclusione delle dichiarazioni fraudolente. Quindi la nuova versione del decreto non dovrebbe riguardare Silvio Berlusconi, condannato a 4 anni di reclusione per aver frodato il Fisco: se l’ex Cavaliere vorrà cercare di cancellare gli effetti della legge Severino che lo rendono incandidabile, dovrà tentare la strada del Parlamento. Il decreto come uscito dal Consiglio dei ministri è stato comunque percepito come un segnale di non belligeranza del premier in vista della partita del Quirinale (sappiamo com’è finita, Berlusconi non ha votato Sergio Mattarella ma neppure lo ha delegittimato lasciando l’Aula).
Resterà invece la franchigia del 3 per cento per il reato di evasione fiscale e già questo, sostiene l’ex ministro Vincenzo Visco, è un gigantesco regalo ai grandi evasori: si riparte dall’ipotesi studiata e poi scartata (preoccupava l’Agenzia delle Entrate) dalla commissione tecnica che ha redatto il primo testo (quello poi modificato da Palazzo Chigi), presieduta dal presidente emerito della Consulta Franco Gallo. Nelle scorse settimane, il gruppo ha consegnato al ministro Pier Carlo Padoan il parere sulle modifiche apportate dal governo: il giudizio è negativo su tutto, compresa la norma “salva banche” che preoccupa il pool dei reati finanziari della Procura di Milano, quella che aiuta gli istituti che hanno evaso il fisco con operazioni di finanza strutturata, come i derivati, purché messe a bilancio (se ne avvantaggerebbero Unicredit e Banca Intesa).
Altro aspetto critico che verrà confermato: non dovrebbe essere inserito un tetto massimo alla soglia del 3 per cento, per evitare di premiare chi ha redditi più elevati, e quindi può evadere di più. “Tolta la frode, che è ingiustificabile, sarebbe comunque auspicabile un limite massimo”, spiega il Sottosegretario al Tesoro Enrico Zanetti (Sc). “Per i grandi evasori – se la soglia verrà confermata il raddoppio delle sanzioni”, ragiona in questi giorni il premier. Ma queste sanzioni maggiorate erano già previste e valgono per tutti, che il reddito sia di 10 milioni o di un miliardo di euro. La norma peraltro parla del reddito imponibile “dichiarato”: prima si evade per ridurre l’imponibile e poi, su quello, si pagano meno tasse del dovuto.
L’altra ipotesi che gira in queste ore è che nel decreto resti anche una franchigia per la frode ma vengano messi a punto dei meccanismi per accertare che non “sia dolosa”. Una frode “di sopravvivenza”, che dovrebbe escludere comunque l'ex Cavaliere ma difficile da accertare nei controlli.
IL GETTITO. Secondo l’ex ministro del Tesoro Giulio Tremonti, le sanzioni penali per l’evasione la disincentivavano. Il governo Renzi sembra andare in direzione opposta. E questo potrebbe irritare anche i tecnici della Commissione europea che non si fidano dei conti presentati dall’Italia e, temendo che le coperture dovute alla lotta all’evasione si rivelino ancora più esili del previsto, a marzo potrebbero chiedere nuovi sforzi all’esecutivo.

il Fatto 3.2.15
L’aiuto agli Aleotti e il Silvio ingannato
Il decreto servirebbe al patron Menarini Srl, vicini a Renzi, mentre B. vuole cambiare la Severino
Il ruolo di Verdini
di Marco Palombi


“Questa cosa nasce a Firenze”. Una fonte di governo racconta così, dietro la garanzia dell’anonimato, la genesi del famigerato articolo 19 bis del decreto attuativo della delega fiscale, quello che cancella i reati di evasione e frode fiscale se il maltolto è inferiore al 3% del fatturato: la norma - che a quanto risulta al Fatto Quotidiano preoccupa anche la Procura di Firenze - servirebbe a chiudere il processo apertosi un anno fa contro i vertici della Menarini, colosso farmaceutico con 16mila dipendenti nel mondo, 3,36 miliardi di fatturato stimato nel 2014 e sede nel capoluogo toscano. Proprietaria del gruppo - che ora possiede anche l’1 per cento di Mps, dopo essere salita fino al 4 - è la famiglia Aleotti: deceduto il capostipite Alberto, alla guida (e sotto processo) ci sono i figli Lucia e Giovanni, presidente e vice.
I rapporti con l’ex sindaco e quelli con l’ex Cavaliere
Ovviamente conferme ufficiali sulla genesi dell’articolo 19 bis non esistono (a parte l’ammissione del premier al Fatto sui pareri positivi arrivatigli da “grandi avvocati”), ma è un dato di cronaca incontestabile il rapporto tra Matteo Renzi e il gruppo farmaceutico: Lucia Aleotti, per dire, a marzo fu tra i pochi invitati dal premier al suo primo incontro a Berlino con Angela Merkel (gli altri erano Giorgio Squinzi, Fulvio Conti dell’Enel, e Mario Greco delle Generali). D’altronde la Menarini sa come coltivare le relazioni: quando Renzi era presidente, l’azienda firmò un protocollo con la provincia di Firenze e regalò oltre 600 computer a scuole e associazioni di volontariato; quand’era sindaco Menarini finanziò il recupero di alcuni appartamenti di edilizia popolare. Più significativo, forse, il fatto che l’imprenditore renzianissimo Fabrizio Landi - nominato nel cda di Finmeccanica - sieda anche nel consiglio di tre società del gruppo degli Aleotti: Menarini Diagnostics, Firma e Sili-con Biosystem. I rapporti tra Menarini e la politica, comunque, sono una sorta di tradizione: anche col governo di Silvio Berlusconi c’erano contatti più che frequenti. Ad esempio, agli atti dell’inchiesta fiorentina sulla Menarini - oltre a continui incontri con gli allora ministri Scajola, Fazio, Fitto, Matteoli, Sacconi e a una cena con l’ex Cavaliere - c’è pure una telefonata tra Alberto Aleotti e Gianni Letta: l’imprenditore chiede rassicurazioni su un emendamento e il sottosegretario risponde che se ne occuperà lui (“lo faccio dire io a Mosca dal presidente a Scajola”).
Il processo iniziato un anno fa: danni alla Sanità per 860 milioni
Tornando al decreto fiscale, i vertici della Menarini avrebbero un ottimo motivo per rallegrarsi se passasse con l’articolo 19 bis: un processo in corso a Firenze dal febbraio scorso in cui anche palazzo Chigi si è costituito parte civile (per una coincidenza divertente l’ha fatto il 22 febbraio, il giorno prima dell’insediamento del governo Renzi). L’accusa per l’azienda è pesante: aver gonfiato - attraverso un raggiro e per quasi trent’anni (dal 1984 al 2010) - il prezzo di alcuni farmaci accumulando nel frattempo fondi neri. Lucia e Giovanni Aleotti, in particolare, sono accusati di aver partecipato a questo sistema inventato dal padre spostando i soldi su 900 conti correnti intestati a 130 società estere fino a usufruire dei due scudi fiscali di Tremonti nel 2003 e nel 2009. Racconto corroborato, dicono i pm, da alcuni indagati che hanno già patteggiato la pena. Per la Procura Alberto Aleotti (il padre) in questo modo si sarebbe “procurato un ingiusto profitto non inferiore a 575 milioni di euro, con conseguente ingentissimo danno per il Servizio sanitario nazionale non inferiore a 860 milioni”. La dimensione della frode contestata è mostruosa: 1,2 miliardi di euro (la Cassazione, però, ha detto di no al sequestro preventivo). Lucia Aleotti, infine, è accusata anche di corruzione dell’ex senatore Pdl Cesare Cursi.
I tormenti del sultano di Arcore: “Quella legge non è per me”
Curiosamente anche fonti assai vicine a Silvio Berlusconi confermano la lettura per cui il beneficiario di quella amnistia mascherata che è l’articolo 19 bis sono gli Aleotti (è certo, in ogni caso, che pure quasi tutte le banche italiane avrebbero di che festeggiare). Secondo questa versione Denis Verdini - ormai uno dei principali collaboratori di Renzi - era informato della cosa, ma avrebbe contribuito a far credere all’ex Cavaliere che quella norma era pensata per lui: “Berlusconi è stato messo in mezzo, ma quella roba gli serve a poco: la pena ormai l’ha scontata e lui infatti continua a chiedere solo la non retroattività della legge Severino sulla incandidabilità, in modo da poter correre nel 2016”. E invece, dicono dal cerchio magico, il premier e Verdini insistono ad agitargli davanti agli occhi l’esca del 3% “salva-Silvio”. Fosse vero, sarebbe solo la conferma che i tramonti possono essere assai malinconici

l Fatto 3.2.15
La Regione Toscana deve fare causa a papà Renzi
Il consigliere del Cda di Fidi scrive al presidente:
L’impresa di famiglia ha commesso un reato penale “ai danni dello Stato”
di Davide Vecchi


È “indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato”. Paolo Spagnoli, avvocato e consigliere di amministrazione di Fidi Toscana, lo scrive nero su bianco: la società Chil Post di Tiziano Renzi non solo era “priva dei requisiti” previsti, ma “l’omissione di informazioni” ha rilevanza “ai sensi dell’articolo 316 ter del codice penale”. Per questo Spagnoli invita il presidente di Fidi Toscana, Silvano Bettini, “a informare senza indugio la Regione per gli adempimenti di legge”.
Il documento di cui il Fatto ha potuto prendere visione è stato inviato da Spagnoli il 26 gennaio ai membri del cda di Fidi Toscana che nella seduta del 14 gennaio avevano discusso la situazione della Chil Post. La vicenda riguarda un mutuo concesso alla società del padre del premier e finito nel fallimento dell’azienda per cui Tiziano Renzi è ora indagato dalla procura di Genova per bancarotta fraudolenta.
Parte di quel mutuo è stato pagato da Fidi Toscana attraverso un fondo per le piccole e medie imprese poi restituito dallo Stato. Ma, come ha documentato il Fatto a inizio gennaio, la Chil Post non aveva i requisiti per beneficiarne. Lo stesso governatore Enrico Rossi, in un’intervista pubblicata il 14 gennaio scorso, annunciò che sarebbe stato pronto ad agire per vie legali se ce ne fosse stato motivo. Quello stesso giorno il Cda di Fidi, di cui la Regione è socia di maggioranza, ha affrontato l’argomento e il 26 gennaio Spagnoli ha comunicato le conclusioni. “Anche alla luce degli ulteriori approfondimenti
- scrive Spagnoli - emerge in modo evidente che alla data dell’erogazione del finanziamento la società non aveva i requisiti”. Non solo, ma individua e specifica che Chil Post è incappata in un reato penale “l’articolo 316-ter cp: indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato” e che prevede una pena detentiva dai sei mesi ai tre anni. La Chil Post al momento della richiesta del finanziamento era rappresentata dalla mamma, Laura Bovoli, e dalle sorelle del premier, Matilde e Benedetta che hanno poi ceduto le quote a Tiziano Renzi. Questa una delle variazioni societarie non comunicate che, secondo Spagnoli, rientrano “nell’omissione di informazioni dovute” previste dall’articolo 316.
Ora toccherà a Rossi agire per vie legali. “Vediamo se manterrà la parola”, commenta Giovanni Donzelli, capogruppo regionale di Fratelli d’Italia e candidato governatore. “Non può più scappare, a questo punto diventa necessario e urgente recuperare i soldi pubblici irregolarmente erogati come ha confermato lo stesso cda”, aggiunge. “Fa particolarmente effetto scoprire che in un periodo di crisi con aziende costrette a chiudere e a licenziare, l’azienda di famiglia del premier fallita viene aiutata con soldi pubblici: è indecente”.

il Fatto 3.2.15
Il dissidente Alfredo D’Attorre
“Progetti incompatibili con il Pd”
intervista di CdF


Non può passare, in nessuna forma”. Alfredo D’Attorre, deputato, bersaniano di ferro e voce della minoranza Pd calibra le parole, ma sulla norma del 3 per cento non ipotizza compromessi.
Il ministro Maria Elena Boschi ha detto che se riguarda 60 milioni di italiani non si cambia solo perché tocca anche Berlusconi. E che in Francia la soglia è del 10%.
Io sono per mantenere il clima di unità, ma a condizione che lo costruiamo su fatti e verità.
Quali?
Il richiamo alla Francia è del tutto fuori luogo: lì c’è un limite quantitativo molto basso, che vanifica la percentuale.
Questa è la verità. I fatti?
La norma del 3 per cento è un regalo ai grandi evasori.
Era un regalo a Berlusconi?
Voglio credere si sia trattato di un infortunio involontario...
L'ipotesi è che la frode venga esclusa, e con essa l’ex Cav.
Mettere una soglia percentuale, senza un tetto massimo, anche alla sola evasione sarebbe gravissimo, fuori dalla civiltà tributaria occidentale. Vanificherebbe la lotta agli evasori, per giunta premiando quelli ricchi.
Nessun compromesso?
È una norma incompatibile con il Partito democratico.
Ricomincia la discussione interna al Pd?
La stragrande maggioranza del partito la pensa come me. Non si solletica il voto degli evasori, mortificando storia e cultura della sinistra.
Il 3 per cento non è la sola norma contestata.
Ci sono molti elementi da cancellare. A partire da quelli sulle banche.
Renzi vi ascolterà?
Ascolti il suo partito, come per Mattarella. Ha visto che la maggioranza che ottiene è più ampia di quella del patto del Nazareno.
Quello che ora sembra morto.
L’abbiamo disinnescato sul Quirinale, non credo sia morto.
Se sul 3% dovesse andare avanti lo stesso?
Ho fiducia che non insisterà. È materia esplosiva, le conseguenze politiche sarebbero ingestibili...

Corriere 3.2.15
Orfini alla minoranza: rivedere l’Italicum? No, ha un buon equilibrio
di Daria Gorodisky


ROMA Matteo Orfini, presidente del Pd: appena eletto il presidente della Repubblica, il governo rilancia il 3% come soglia di non punibilità per l’evasione fiscale. Molti lo ritengono un favore a Berlusconi, e voi lo avevate ritirato.
«Il decreto era stato scritto in modo sbagliato e lo abbiamo ritirato. Però riteniamo giusto che ci sia una differenza fra frode fiscale e errore fiscale: se c’è dolo, si tratta di reato, dunque punibile penalmente; mentre, in caso di sbaglio, basta la sanzione amministrativa».
In Europa non è contemplato nulla del genere. Anche la Francia, citata dal ministro Boschi, ha una norma severissima: il Code général des impôts all’articolo 1741 parla sì di soglia del 10%, ma solo se non supera i 153 euro.
«I tecnici si occuperanno di numeri e soglie. Io mi fermo al principio che ho appena descritto, e che all’articolo 8 del decreto fiscale è stato approvato da tutti, incluso il Movimento 5 Stelle: la necessità di distinguere fra errore e dolo. Servirà anche a snellire la Giustizia, il tribunale penale è ingolfato di procedimenti».
Ma non è più intasato il tribunale civile?
«Infatti è previsto un incontro preventivo con le Procure per valutare gli effetti del decreto. Il testo sarà anche pubblicato online e aperto a tutte le osservazioni».
Come vede il percorso delle riforme dopo la grande «pacificazione» tra le diverse aree del suo partito intorno al nome di Sergio Mattarella?
«Credo che la bella pagina dell’elezione per il Quirinale ci indichi il dovere di portare a completamento le riforme: a partire da legge elettorale e modifiche costituzionali».
Partiamo dal futuro sistema di voto. La vostra minoranza era e rimane contraria ai capilista bloccati: c’è disponibilità, adesso, a rivedere questo elemento?
«Mi sembra che la legge elettorale, così come è stata licenziata dal Senato in seconda lettura, rappresenti un buon punto di equilibrio fra le diverse esigenze di tanti di noi. Quindi penso che concluderà il suo iter con l’approvazione della Camera, non credo che ci saranno modifiche. Del resto, un partito offre un nome in un collegio: se all’elettore quel nome non piace, può non votare quella formazione».
E le riforme costituzionali?
«L’impianto generale è definito. Ci sono ancora alcuni nodi, per esempio sul Titolo V, ma rispetteremo il calendario. Vedo in questo Parlamento una volontà molto ampia di compiere riforme. Certo, sento dichiarazioni curiose di esponenti di Forza Italia che le legano all’elezione del capo dello Stato: ma non c’è nesso fra patto del Nazareno e Quirinale».
Il dubbio ha più che sfiorato settori del suo partito.
«Direi che l’elezione del presidente della Repubblica con un consenso così ampio è servito a cancellare i dubbi di chi ne aveva e descriveva il patto del Nazareno come qualcosa di mefistofelico. Credo che questo aiuterà anche a purificare dalle scorie il clima interno al Pd. Da presidente, devo garantire il massimo sforzo per raggiungere una sintesi. Però a volte questo è impossibile, e allora esistono delle regole per decidere. Il partito non può essere paralizzato».
Uno dei leitmotiv è che, con Renzi e Mattarella, il Pd si sia trasformato in una nuova Dc.
«Noi non siamo morti né comunisti, né democristiani. Viviamo benissimo da socialisti europei: anzi, siamo il più grande partito della sinistra europea».

il Fatto 3.2.15
Forza Italia a pezzi, las tragicommedia finisce nel ricatto
Denis Verdini, odiato da tutto il paertito non si dimette e Berlusconi non lo può mollare:
è lui i custode degli accordi con Renzi (a cui bisogna rimanere aggrappati)
di Fabrizio d’Esposito


Seppur screpolate, consumate e rigide per gli strati marroni di cerone, le maschere del berlusconismo restano uno spettacolo tragicamente fantastico. Lo choc per l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale ha sdoppiato ancora di più la personalità del Condannato. Argomento: l’epurazione o meno di Denis Verdini, il custode azzurro di tutti i segreti del patto del Nazareno. Domenica pomeriggio ad Arcore. Silvio Berlusconi è al telefono con un parlamentare di alto rango del suo partito. Uno sfogo, l’ennesimo: “È vero, Renzi mi ha tradito, i patti non erano questi, ma fosse per me ammazzerei tutti. Verdini? Resta con noi, non se ne andrà. Non succederà”. Clic. Altro squillo. Altra conversazione. Stavolta parla con un’ex ministra, intima del cerchio magico, in particolare di Giovanni Toti. Il Pregiudicato cambia subito versione su “Denis”: “Sono stati lui e Renzi a fregarmi. Stai tranquilla, per Verdini è finita”.
Il condannato e il macellaio
Quale dei due Berlusconi dice la verità? Probabilmente nessuno. Racconta una fonte azzurra informata, senza tanti fronzoli: “Verdini tiene per le palle il presidente”. Il punto, dunque, è tutto qui: chi tiene Pper le palle chi. Il Condannato sa perfettamente che i dati della scatola nera del Nazareno sono in mano a Verdini e Gianni Letta. Ma se quest’ultimo è una sorta di eunuco andreottiano destinato a seguire l’Imperatore sino in fondo, nel bene e nel male, non è così per il toscano che di fatto ha inventato l’accordo con il suo corregionale oggi presidente del Consiglio. Ieri, lo sherpa plurimputato e plurinquisito di Forza Italia ha rotto il suo proverbiale silenzio e ha mandato un pizzino pubblico a uso interno. Sostiene Verdini: “Il patto del Nazareno è una questione politica, non notarile, ed è evidente che facendo insieme le riforme elettorali e costituzionali si dovesse arrivare a un presidente condiviso”. Poi, le vere stoccate. La prima: “Io penso che i numeri del Parlamento sono talmente grandi che Renzi poteva fare qualunque altra cosa, noi siamo abbastanza irrilevanti”. La traduzione di questa frase indica la filosofia verdiniana sull’indispensabilità dell’inciucio con Renzi: “Caro Silvio se rompi con Matteo e ti rinchiudi nella tua Salò con Toti e la Rossi non abbiamo più speranze. Da soli non contiamo nulla”. Ed è proprio alla Badante del Pregiudicato, alias Mariarosaria Rossi, che aveva stroncato la gestione del Nazareno da parte di Verdini e Letta (“duo tragico”), che è indirizzato il secondo messaggio di “Denis”: “Resto dove sono, non è nel mio Dna dimettermi”.
La delega fiscale e la salva Silvio
Aggiunge la fonte azzurra convinta che Verdini tenga “per le palle il presidente”: “Aspettiamo il 20 febbraio, quel giorno vediamo se abbiamo ragione noi oppure quelle pu.... e che si tiene intorno”. Insulti a parte, il 20 febbraio sarà il giorno della verità sulla Salvasilvio del 3 per cento. Ma Verdini non ha solo quest’arma di pressione. Qualora la guerra di questi giorni dovesse portare a una conta mortale, senza feriti, lui potrebbe giocarsi la carta del gruppo autonomo. Nonostante le smentite, il successo avuto dai franchi soccorritori forzisti pro-Mattarella ha delineato la forza numerica dei verdiniani. In tutto i voti azzurri al nuovo capo dello Stato sono stati 70, di cui almeno 40 riconducibili al custode del patto. Ed è per questo che, per B., l’unica strada percorribile resta quella di “rimanere aggrappato con unghie e con i denti al patto del Nazareno”.
I nazareni e i boy-scout
La resurrezione del Nazareno è ovviamente uno schiaffo per i soci del contropatto radunati nel fatale cerchio magico di B. insieme con il barboncino Dudù. Oltre alla già citata Rossi, un altro pasradan anti-Denis è Giovanni Toti, che ieri ha proposto il patto dei quarantenni di Forza Italia, subito sbeffeggiato da Renato Brunetta (il capogruppo che sta solo con se stesso, in odio a tutti): “Faremo un patto per ogni generazione, dai settantenni ai boy-scout”. L’obiettivo è di allearsi con Fitto contro l’ala nazarena. Agli occhi di Verdini, il cerchio magico ha la colpa principale di aver riportato Angelino Alfano ad Arcore. La ritrovata alleanza tra Fi e Ncd ha infatti sparigliato le trattative del Nazareno sul capo dello Stato e affossato le speranze berlusconiane di far eleggere Giuliano Amato.
I superstiti del cespuglio
Il versante alfaniano della tragicommedia del centrodestra post-Mattarella offre altre scene notevoli. Come quella del ministro ciellino Maurizio Lupi che intima al premier di “non trattare Ncd come uno zerbino”. Nel frattempo, nel partitino ministeriale di Alfano, prosegue la crudele cerimonia degli addii. Il più pesante, per il momento, è quello della portavoce Barbara Saltamartini che preso atto dell’esistenza di Ncd come “cespuglio di centro” non particolarmente influente. Quasi certamente, nei prossimi giorni, la Saltamartini approderà nel gruppo della Lega di Matteo Salvini. In fondo, dopo lo choc renziano su Mattarella, diventa ancora più drammatico il problema della sopravvivenza elettorale. In questa chiave va letta la faida di Forza Italia. In ballo ci sono i pochi seggi, non più di 70, previsti dall’Italicum. E adesso ci sono da accontentare anche gli alfaniani superstiti.

Corriere 3.2.15
Il centrodestra è alla deriva ma non ha alternative
di Massimo Franco


Il centrodestra continua a dire che «nulla sarà come prima». E il tono vuole essere minaccioso nei confronti di Matteo Renzi, accusato di aver fatto eleggere Sergio Mattarella al Quirinale scavalcando FI e Ncd. Ma l’insistenza finisce soprattutto per sottolineare la sconfitta di Silvio Berlusconi e di Angelino Alfano. Si accompagna a uno sbandamento progressivo dei due partiti, con tanto di abbandoni. E deve fare i conti con parole del premier che non suonano come una mano tesa, quanto piuttosto come perentori inviti a superare il trauma: a «leccarsi le ferite», dice testualmente, e a decidere se sono ancora intenzionati a fare le riforme.
Sono pochi quelli che suggeriscono di abbassare i toni con Palazzo Chigi, nel timore fondato di un nuovo schiaffo renziano. L’atteggiamento del presidente del Consiglio è quello del vincitore poco disposto a cedere qualcosa: basta registrare il modo in cui ha bollato come «vecchi riti» la richiesta di una verifica della maggioranza da parte del Ncd. D’altronde, Alfano è ministro dell’Interno e non può tirare troppo la corda senza scaricare le contraddizioni del suo partito sulla stabilità del governo. Quanto a Berlusconi, sa che, in caso di rottura con il Pd sulla legge elettorale o sul nuovo Senato, potrebbero essere rimessi in discussione i cento capilista bloccati, chiesti e ottenuti dall’ex Cavaliere.
La minoranza che fa capo a Pier Luigi Bersani insiste sull’esigenza di rivedere il progetto. Si tratterebbe infatti di un sistema che prevede «troppi nominati», ha avvertito l’ex segretario subito dopo l’elezione di Mattarella, alimentando la vulgata di FI secondo la quale Renzi si sarebbe sbilanciato a sinistra per tenere unito il Pd. In realtà, l’unica novità è che il patto del Nazareno è stato brutalmente ridimensionato e declinato con FI in posizione subordinata rispetto a Palazzo Chigi. L’ipotesi che Renzi si pieghi alle richieste della minoranza o approdi ad una nuova coalizione con Sel appare assai poco verosimile. La verità è che per giustificare i propri errori, FI e Ncd attaccano il premier. Dentro FI si tenta il «processo» contro Denis Verdini, uomo di raccordo tra Berlusconi e Renzi. E il Nuovo centrodestra perde pezzi.
Esponenti come Maurizio Sacconi e Gaetano Quagliariello lasciano capire che Ncd dovrebbe porsi il problema della stessa permanenza al governo: un tema che metterebbe in seria difficoltà Alfano. E Maurizio Lupi manda a dire a Palazzo Chigi: «Non siamo i tappetini o i cespugli di Renzi». Si tratta di convulsioni che mostrano per intero le frustrazioni del principale alleato di governo. Eppure, una via d’uscita non si vede. L’ipotesi di un nuovo patto con FI andando oltre la leadership berlusconiana sa di già visto. FI non può che appoggiare l’agenda istituzionale del governo, seppure dall’opposizione e con diffidenze e malumori crescenti.
La stessa idea, che qualcuno accarezza, di ricostruire un’alleanza con la Lega viene liquidata dal segretario Matteo Salvini come «operazione a tavolino». E poi, il 20 febbraio il Consiglio dei ministri dovrà decidere se cambiare il decreto che depenalizza la frode fiscale sotto il 3 per cento dell’imponibile: la norma sospesa da Renzi perché si diceva servisse a Berlusconi. Il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, tende a rivendicarla. Ribadisce che le riforme vanno fatte insieme con FI. Ma aggiunge che in ogni caso «la maggioranza ha i voti per approvarle da sola». Avvertimenti col sorriso sulle labbra.

Repubblica 3.2.15
Il protocollo e il condominio che non c’è più
Lo sconto di pena e l’invito al Colle stemperano l’umiliazione di Silvio ma non restaurano il Nazareno
di Stefano Folli


AVOLTE la storia è fatta di dettagli. Nelle ultime ore ce ne sono un paio che raccontano qualcosa dell’attuale stagione. Il primo: stamane alla cerimonia per l’insediamento del presidente della Repubblica sarà presente anche Berlusconi, nella veste di ex presidente del Consiglio. Il protocollo serve in questo caso a coprire un’esigenza politica: la volontà, condivisa senza dubbio dal nuovo capo dello Stato, di stemperare le tensioni che hanno scandito il voto del Parlamento. Berlusconi, estromesso a suo tempo dalla Camera e nei giorni scorsi umiliato da Renzi nella vicenda del Quirinale, ottiene attraverso il cerimoniale un riconoscimento formale che lo aiuta a riassestarsi.
Secondo dettaglio: quasi nelle stesse ore il capo di Forza Italia guadagnava anche uno sconto sui servizi sociali di Cesano Boscone. Quarantacinque giorni in meno rispetto alla sentenza: il 6 marzo, in pratica un mese da oggi, come data ultima della pena. Una modesta riduzione, quasi una mini-grazia, che non chiude certo il capitolo giudiziario: resta aperto il processo Tarantini a Bari sulle «cene eleganti» e soprattutto la legge Severino impedisce a Berlusconi di ricandidarsi fino al 2019 (per questo è pendente il ricorso presso la corte europea di Strasburgo). Ma in definitiva è un altro piccolo segnale positivo per Berlusconi.
Occorre tuttavia fare attenzione. Non stiamo assistendo alla rinascita del famoso «patto del Nazareno», cioè a una sorta di riabilitazione che permetterebbe all’ex premier di riprendere il discorso dove l’aveva lasciato prima del poker di Renzi. Non esiste un «heri dicebamus » in questa storia, come non è mai esistito un condominio fra Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli, se non nella mente di qualcuno. C’è semmai una logica per cui il «patto» diventa sempre più una questione di convenienza pratica. E il più interessato a non interrompere il filo delle intese parlamentari, ossia delle riforme condivise, oggi è senz’altro Berlusconi.
È lui il più debole sul piano politico, al limite dello psicodramma; lui che è uscito sconfitto dal confronto sul Quirinale e ormai non è quasi in grado di porre veti o esercitare l’interdizione. È lui quindi che deve affrettarsi ad afferrare la mano che gli viene tesa per evitare di perdere tutto. La rete degli interessi economici che ruotano intorno a Mediaset consiglia più che mai la massima prudenza e il ritorno a un comportamento istituzionale. Fosse anche la presenza muta e composta all’insediamento di un presidente che Forza Italia non ha votato, salvo una pattuglia non irrisoria di franchi tiratori ai quali lo stesso leader, sotto sotto, aveva lasciato la briglia lunga.
Chi vuole potrà continuare a chiamarlo «patto del Nazareno», ma è evidente che si tratta d’altro. Da un lato c’è in questo momento una figura egemone, in grado di dare le carte o ritirarle dal tavolo; dall’altro, un personaggio che deve accettare la realtà, fino a rendersi conto di non possedere in alcun modo la forza per competere nella gestione del potere. Nonostante tutto, Renzi resta un interlocutore a cui quel che resta di Forza Italia non può rinunciare. È un approdo poco sicuro, come si è visto, ma è l’unico che può assicurare al centrodestra visibilità e un ruolo pubblico, sia pure in chiave subordinata. Vedremo allora nelle prossime settimane cosa accadrà.
Ci sono pochi dubbi che Berlusconi si affretterà a manifestare rispetto verso il presidente Mattarella, rifuggendo anche solo l’idea di aprire una polemica preventiva nei suoi confronti. Renzi potrà allora sfruttare la tregua a destra per bilanciare gli accordi all’interno del Pd. La coesione ritrovata con l’area di Bersani è essenziale, purché non diventi la premessa per richieste eccessive nel campo delle riforme: in particolare della legge elettorale. In tal caso le vecchie intese con i berlusconiani potrebbero tornare utili. Viceversa, l’esigenza di tenere unito il Pd e in generale il centrosinistra potrà servire a limitare e migliorare il decreto fiscale, quello con la soluzione 3 per cento che tanto male ha fatto all’immagine del renzismo.

Il Sole 3.2.15
Gli effetti della partita sul Coille
Il declino del centro-destra
di Gennaro Sangiuliano


La vicenda del Quirinale, prescindendo dal fatto oggettivo dell’elezione di un galantuomo come Mattarella e dalla vittoria politica di Renzi, determina evidenti effetti collaterali, primo fra tutti segna un ulteriore livello al ribasso nel declino del centrodestra italiano, una vera e propria discesa verso gli inferi dell’irrilevanza politica e prima ancora culturale.
Gli errori grossolani e la goffaggine con cui è stata gestita la vicenda Quirinale non sono un fatto isolato, sono molto di più. Sono la conseguenza di una crisi di identità e di leadership, di proposta e di uomini.
Sul terreno della tattica il centrodestra ha sbagliato tutto, sembra quasi ci sia stata una regia dell’autodistruzione .
Ma per leggerne la crisi non bisogna soffermarsi ai tatticismi, che pure pesano e peseranno, bisogna guardare oltre, al vuoto culturale, di progetto e di programma che connota in questa fase storica lo schieramento moderato.
La politica, secondo il giurista Carl Schmitt, autore del saggio Le categorie del politico, si determina nelle differenze, nella rappresentanza e nella proiezione di elaborazioni culturali diverse, in un gioco hegeliano di tesi e antitesi. Ebbene quali idee, quali visioni, rappresenterebbe oggi il centrodestra? Quale idea per l’Italia di fronte alle turbolenze globali?
L’Occidente, dopo secoli di dominio, subisce il peso della sfida globale, la plurilateralità dei soggetti economici, l’attacco del fondamentalismo islamico, migrazioni senza regole. Si tratta di un passaggio epocale rispetto al quale chi coltiva i valori della libertà, dell’identità della Patria, del conservatorismo compassionevole e sociale, dovrebbe fare uno sforzo di elaborazione culturale.
Nel bagaglio della destra ci sarebbero i valori borghesi di Longanesi, l’anticonformismo di Prezzolini e Montanelli, la libertà di Machiavelli e Croce, la coscienza della crisi di Spengler e Dostoevskij. Le esperienze riformatrici di Margaret Thatcher, di Ronald Reagan e prima ancora di De Gaulle.
Nel resto del mondo quando si pensa agli schieramenti moderati si richiamano i valori della sobrietà, del perbenismo, del rigore morale, del conservatorismo. In Italia, il centrodestra, anche nella rappresentazione fisica delle sue leadership è l’opposto di ciò che dovrebbe essere. Una incapacità di cogliere il passo dei tempi e di affermare quell’identità culturale, teorizzata da una nobile linea di pensiero, – che pure ci sarebbe – accompagnandola alla credibilità delle persone.
Il Berlusconi del '94 propose la “rivoluzione liberale” al blocco sociale di imprenditori, lavoratori autonomi, artigiani e commercianti nati dall’economia degli anni Ottanta e privi di voce politica. Creò un suggestivo sogno italiano, tradito irreparabilmente da anni di governo senza riforme.
Questa esperienza è chiusa dal tempo e dai fatti, oggi il centrodestra, in evidente soggezione psicologica e morale nei confronti del centrosinistra, sconta il mancato rinnovamento, l’incapacità di archiviare il passato e costruire nuove idee e soggettività. Non basta, si ritrova col macigno di un coagulo d’interessi che lega una sua parte al perseguimento di fini eterogeni rispetto agli interessi dei suoi possibili elettori e quasi del tutto estranei alla politica.
Se nel trascorso ventennio la presenza di Berlusconi in politica era stato l’elemento capace di catalizzare consensi e di unificare esperienze diverse all’interno della formula del centrodestra, oggi il persistere di questa presenza, appare un limite oggettivo.
È un errore pensare che questo tema sia solo interno al centrodestra, perché la pluralità dell’offerta politica e con essa l’opzione dell’alternanza, costituiscono una ricchezza della democrazia. Non c’è democrazia liberale e costituzionale compiuta se non c’è possibilità per il cittadino elettore di valutare scelte alternative e soprattutto diverse visioni culturali e programmatiche.
«La destra che non c’è», scrisse Giuseppe Prezzolini, tratteggiando quel grande anelito conservatore e richiamando Ortega y Gasset che chiarisce come il valore dei moderati siano nel «piantare i talloni nel passato, partire dal presente e mettersi in marcia». Una prospettiva che oggi potrebbe rivolgersi soprattutto nella capacità di lottare alla dittatura dei luoghi comuni e del politicamente corretto ma con il rigore degli argomenti e dei fatti.
«Il Vero Conservatore è persuaso di essere se non l’uomo di domani, certamente l’uomo del dopodomani», concludeva Prezzolini.

Repubblica 3.2.15
Denis Verdini:
“Nel patto c’era anche un presidente condiviso”
intervista di Marco Billeci


ROMA Onorevole Verdini, nel patto del Nazareno c’era anche il nome del presidente della Repubblica?
Ai microfoni di Repubblica Tv risponde l’uomo di Berlusconi che ha gestito in prima linea, insieme allo stesso leader di Fi, le trattative con il premier Renzi sulle riforme e sulla partita del Quirinale.
«Il patto del Nazareno è una questione politica, non notarile. E’ evidente che, facendo insieme le riforme costituzionali e elettorali, si dovesse arrivare a un presidente condiviso. Ma i numeri del Parlamento sono talmente grandi che Renzi poteva fare qualunque altra cosa. Noi siamo abbastanza irrilevanti. Cosa che spesso non si considera».
E’ deluso da Renzi?
«Uno viene deluso dalle proprie fidanzate».
L’Espresso pubblica una lista di parlamentari di Forza Italia che avrebbe votato Mattarella, fra questi c’è anche lei. Lo conferma?
«Io le dico che il voto segreto è la fiera degli idioti e di quelli che non sanno come fare a giustificarsi e quindi, dietro al segreto dell’urna, fanno come pare loro. I franchi tiratori sono una vecchia invenzione. Per quanto mi riguarda, io sono berlusconiano e sto alle direttive di partito».
Lei si dimette da coordinatore di Forza Italia come le chiedono molti suoi avversari interni o lascia decidere i ruoli al partito?
«Le dimissioni non sono nel mio Dna. Punto. E non ne vedo le ragioni».
L’onorevole Rossi su Repubblica vi ha definiti così: «Verdini e Letta sono il duo tragico». Quindi attribuisce un po’ a lei e a Letta la responsabilità del fallimento della trattativa con Renzi. Cosa risponde?
«Abbiamo fatto anche un contratto per cantare qualche canzone, un duo che fa? Canta. Sono opinioni della Rossi che io non condivido e non commento».
Si parla di un avvicinamento sempre più forte tra lei e Fitto.
«Queste sono cattive informazioni. Io e Fitto stiamo litigando da tempo. Se volete mediare e invitarci a pranzo tutti e due, potrete verificare da voi lo stato dei rapporti».

Corriere 3.2.15
Mancano le donatrici di ovociti
Caos nelle Regioni sull’importazione
di Margherita De Bac


L’ipotesi di bandi locali. Costi tra 2.800 e 3.500 euro. Potrebbero ricadere sulle coppie
ROMA I figli dell’eterologa made in Italy saranno per metà «stranieri». Almeno quelli concepiti in provetta nei centri pubblici. La pratica sul campo ha infatti reso evidente ciò che era prevedibile. Le donne italiane non donano ovociti e le Asl si devono arrangiare.
La Toscana anche in questo è stata intraprendente con la delibera del Careggi che ha stabilito una sorta di convenzione per l’importazione da quattro bio-banche. Altre Regioni stanno valutando l’ipotesi di battere la stessa pista per rifornirsi, acquistandoli, di gameti femminili ceduti da donne spagnole, svedesi o di altra nazionalità. Non sarebbe una sorpresa se l’ufficio legale del ministero della Salute andasse a verificare la compatibilità della delibera del Careggi con la normativa italiana specie per quanto concerne l’aspetto economico.
Il tavolo tecnico delle Regioni sulla procreazione medicalmente assistita nell’ultima riunione ha preso atto delle difficoltà: «Non possiamo fingere — dice il coordinatore, l’andrologo veneto Carlo Foresta —. Il nodo va districato. Come? Magari con la creazione di banche in Italia sul modello di quelle europee. Bisogna uniformare i criteri di donazione, ad esempio la raccolta e la ricompensa alle volontarie».
Ora, insiste Foresta, il sistema è squilibrato. Un pacchetto di ovociti importati, inclusi il trasporto, costa da 2.800 e 3.500 euro, a carico della coppia committente che deve inoltre pagare il ticket per l’eterologa (circa 200 euro). A conti fatti, sembrerebbe più conveniente espatriare in cliniche estere. I viaggi della speranza riproduttiva sono il fenomeno che la sentenza della Corte costituzionale (a giugno l’eterologa è tornata legale) avrebbe dovuto stroncare.
L’Emilia-Romagna è orientata a seguire la Toscana, ipotesi che si sta delineando negli incontri tecnici fra i responsabili dei servizi ospedalieri. Critico Giovanni La Sala, direttore del centro di Reggio Emilia: «A livello personale sono contrario alle bio-banche estere. Formalmente risultano a posto con la legge comunitaria che vieta di remunerare le donatrici, nella pratica la ricompensa c’è. Si chiama in altro modo, ad esempio indennità». Inoltre l’eterologa made in Italy contiene una contraddizione, rileva La Sala: «Le pazienti secondo le raccomandazioni delle Regioni possono farla gratuitamente sotto i 43 anni e con un numero massimo di tre cicli. L’età di chi richiede la donazione è più alta e tre tentativi non bastano». In Puglia, stessa situazione di stallo. Nel maggior centro pubblico (ospedale Iaia di Conversano), come a Bari e Nardò, l’eterologa è un miraggio: «Anche qui ci vorrebbe un bando per le bio-banche estere — non vede alternative Giuseppe D’Amato, direttore a Conversano —. Un fatto è certo. Un’indagine interna fra le nostre pazienti in cura per la fecondazione omologa (ambedue i gameti della coppia), si è conclusa amaramente. Nessuna è disposta a regalare parte degli ovociti in sovrannumero, il cosiddetto egg sharing . C’è una barriera culturale. Chissà che con una campagna di informazione...».
Il servizio di fecondazione artificiale all’Evangelico di Genova è diretto da Mauro Costa: «La scelta della Toscana è discutibile. Noi speravamo nell’altruismo delle nostre pazienti in trattamento per l’omologa. Su 150 solo una ha sottoscritto l’ egg sharing . Una delusione. Bisogna arrangiarsi».
Il ministero sta lavorando sulle nuove linee guida nazionali per la fecondazione artificiale. Ci vorrà tempo.

La Stampa 3.2.15
“Stop all’austerity, l’America torna a spendere”: Obama alza le tasse a corporation e super ricchi
Il presidente Usa presenta la manovra finanziaria da 4.000 miliardi di dollari. E offre una sponda a Tsipras: «Inutile spremere i paesi che sono nel mezzo della depressione»
di Paolo Mastrolilli

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Il Sole 3.2.15
Il negoziato sul debito
Atene e Berlino condannate a un’intesa
di Adriana Cerretelli


Si incontreranno prima o poi le divergenze parallele che per ora muovono Atene e Berlino, il colosso tedesco e il “topolino” ribelle della moneta unica? La logica della Realpolitik oltre che del buon senso fa rispondere di sì.
Nessuno può permettersi di perdere l’euro nel mondo globale, meno che mai i tedeschi che ne sono i grandissimi beneficiari. Al suo terzo mandato e con un posto già assicurato nei libri di storia, Angela Merkel di sicuro non vuole passare agli annali con il marchio della liquidatrice del maggiore progetto di integrazione europea.
Nemmeno Alexis Tsipras, il suo giovane antagonista alle prime armi che ha stravinto in Grecia promettendo di sovvertire l’ordine costituito e i “patti ineguali” che hanno piegato il suo Paese, può permettersi il lusso di provare a far saltare il banco europeo perché il primo a saltare sarebbe comunque il suo. Il divorzio della Grecia dall’euro implicherebbe infatti automaticamente anche quello dall’Unione, una lacerazione storica, quando l’80% dei greci auspica esattamente il contrario.
Anche se sono condannati a trovare l’intesa, non è detto che i due protagonisti la trovino presto: il cammino per arrivarci si annuncia accidentato e pieno di rischi. E trappole.
Non a caso, dopo le iniziali “sparate”, probabilmente dettate anche da ingenuità e inesperienza politica, il nuovo governo di estrema sinistra sembra essersi convertito a una certa moderazione, comunque alla cautela dichiaratoria, forse dettata anche dalla crescente consapevolezza dei vincoli ineludibili che la permanenza nell’euro comporta per tutti.
Non a caso Tsipras e Yanis Varoufakis, il suo ministro delle Finanze giacobino, sono alla disperata ricerca di solide alleanze in Europa e fuori. Oggi il premier greco sarà a Roma, domani a Bruxelles e a Parigi. A Berlino invece niente più di un incontro in formato ministeriale. II faccia a faccia con la Merkel dovrà attendere il 12 febbraio: il vertice Ue di Bruxelles sarà l’atteso momento della verità per una partita che continua a presentarsi confusa e nebulosa.
Proprio perché sa di essere il vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro, Tsipras spera di arrivare all’appuntamento con l’appoggio di un fronte che ne condivida le rivendicazioni, conferendo loro respiro più ampio, un passo e una valenza europea.
Respinte le profferte di aiuto della Russia di Putin e fugati così anche i timori dei partner circa la sua intenzione di diventarne il cavallo di Troia in Europa nel pieno della guerra ucraina, il premier greco ha trovato anche l’insperato sostegno dell’America di Barak Obama. Non certo nuovo agli scontri con la Merkel e i mega-surplus correnti tedeschi che non aiutano la domanda mondiale, il presidente Usa non ha certo perso l’occasione per abbracciare la causa della crescita europea definita «il miglior modo per ridurre i deficit e recuperare la salute fiscale» e affermando che «non si può continuare a spremere i Paesi con l’austerità quando si trovano nel mezzo della depressione».
Nonostante il prezioso assist di Obama, Tsipras dovrà comunque misurarsi prima di tutto con i creditori europei, con la troika e la gabbia dei programmi di austerità e di riforme. Cui chiede comunque sconti sostanziosi sia pure con toni decisamente morbidi: «Sono fiducioso, troveremo un accordo reciprocamente vantaggioso nel rispetto degli impegni assunti dalla Grecia con Bce e Fmi».
Di cancellazione del debito non si parla più. Si punta invece alla rinegoziazione delle scadenze e dei tassi di interesse. Senza chiedere un’ulteriore proroga del programma di aiuti Ue che scadrà a fine mese ma una semplice intesa-ponte in attesa di un nuovo accordo. Si auspica il ripensamento delle politiche di austerità su scala europea oltre che greca (con riduzione tra l’altro dal 4,5% all’1,5% del surplus primario), nella speranza di garantirsi l’alleanza di Francia e Italia. Si insiste sul ridimensionamento del ruolo e dei poteri della troika.
La nuova Grecia sembra scesa a più miti consigli ma per ora la Germania non ci sta: respinge quasi tutte le richieste di «cambiamenti unilaterali» agli accordi stipulati e difende come intangibili i poteri di controllo della troika. La Commissione Juncker invece appare più possibilista.
Il braccio di ferro è appena cominciato. Tutti avrebbero l’interesse a concluderlo al più presto per evitare di eccitare gli appetiti dei mercati e gli opposti populismi che tormentano tutte le democrazie europee in un anno molto elettorale. Per evitare che, in assenza di un accordo, la Bce sia costretta a chiudere i rubinetti del credito alla Grecia. Per non compromettere i segnali di una ripresa finalmente possibile nell’eurozona grazie a mini-euro, calo-petrolio, tassi bassi e quantitative easing sovrano.

Il Sole 3.2.15
Syriza, la destra e il Manifesto di Ventotene
di Barbara Spinelli

Caro direttore,
l’articolo di Guido Rossi «Perché all’Europa serve un Manifesto di Ventotene», pubblicato domenica dal suo giornale, è fuorviante e non del tutto in buona fede. Non c’è identità di vedute né di strategie fra Syriza e le estreme destre europee. E dentro Syriza una componente significativa si richiama esplicitamente al Manifesto di Ventotene e ad Altiero Spinelli: la via scelta da questa componente è quella di restare in Europa per cambiarla in meglio, se possibile, proprio perché le soluzioni sovraniste sono ritenute catastrofiche.
L’alleanza con la destra di Anel era praticamente obbligata (Tsipras deve condurre fin da subito una dura battaglia sull’austerità e non aveva alleati pronti a farla con lui) e ha parecchi tratti inquietanti, sono d’accordo. Ma occorre tener conto del fatto che il nuovo ministro greco dell’immigrazione, Tasia Christodoulopoulou, di Syriza, ha annunciato fin dal primo giorno, appena nominata, che introdurrà nel proprio Paese lo ius soli, diritto che in Italia ancora non abbiamo, ahimè. Non è precisamente un regalo fatto alle destre di Anel.
Un caro saluto
Ognuno ha le sue idee, la mia è del tutto in buona fede. (G. R.)

La Stampa 3.2.15
Sogno o son greco
di Massimo Gramellini


Il nuovo ministro greco dell’Economia è un matematico di passaporto australiano che assomiglia a un boxeur e si veste come un rocker. Yanis Varoufakis. La foto lo immortala in compagnia dell’omologo britannico Osborne, di cui non condivide le idee e a prima vista nemmeno il sarto. Nei giorni scorsi l’uomo più indebitato del continente aveva già traumatizzato il pennellone olandese della Trojka addetto al recupero crediti, presentandoglisi dinnanzi a cavallo di una moto, lo zaino in spalla e la camicia fuori dai pantaloni. Il dottor Varoufakis si veste così perché si sente così. Ma il suo rifiuto di adeguarsi all’esperanto sartoriale del potere è anche un segnale politico. Si può essere diversi, si può cambiare lo schema. Il turbocapitalismo finanziario che da vent’anni ha uniformato le grisaglie e ammutolito le forze sociali è solo uno dei tanti mondi possibili. 
Il ministro scamiciato viene fatto passare per comunista o per pazzo, eppure dice cose di buon senso. Per esempio che la Grecia pagherà i debiti quando ricomincerà a vivere perché pagarli adesso significherebbe morire. Forse Varoufakis durerà poco. Di sicuro, come tutti i monelli, ispira simpatia.

il Fatto 3.2.15
Tsipras disarma anche la polizia
Nuove regole nelle manifstazioni
E a capo degli 007 un giornalista che indagò sulle trame della Cia
di Roberta Zunini

Atene Quando il neo primo ministro greco Alexis Tsipras l’anno scorso aveva candidato alle municipali di Atene il suo attuale vice premier e portavoce del governo, il giovane economista Gavril Sakellaridis, la prima cosa che gli aveva raccomandato di mettere in agenda era la rimozione dei cavalli di frisia davanti al Parlamento e la diminuzione dei poliziotti antisommossa nelle strade. Sakellaridis perse per una manciata di voti e le transenne rimasero in piazza Syntagma, per ricordare a tutti i cittadini che oltre una certa soglia non si può andare, che manifestare è legale, ma fino a un certo punto, che se proprio ci si deve suicidare – come è successo nel 2011 durante le manifestazioni contro il memorandum imposto dalla troika- non lo si può fare troppo vicino al palazzo dove la “casta” lavora. Anche le moto dei rambo in divisa continuarono ad aggirarsi minacciose per le vie della capitale, soprattutto nel quartiere anarchico e alternativo di Exarchia, dove Sakellaridis peraltro vive da anni. Ora che Tsipras e Sakellaridis sono al vertice del governo, la prima cosa che hanno fatto è stata rimuovere le transenne.
PER QUANTO RIGUARDA la polizia, la questione è più complessa, ma il vice ministro greco per la Protezione del cittadino, Yannis Panousis, ha annunciato ieri che il ruolo della polizia nelle manifestazioni deve cambiare e l’uso delle armi va evitato se non in casi estremi: “Quei tempi sono finiti. Per arrivare a usare spray chimici bisogna che si raggiunga un livello di scontro estremo. Ma le sostanze chimiche non si devono usare contro insegnanti in pensione. Se si dispone di informazioni che lo rendano necessario o succede qualcosa di imprevedibile, la polizia sarà ovunque, ma non con le armi. O se si radunano 10-15.000 persone, è chiaro che dobbiamo avere la polizia in piazza, all’angolo delle strade, ma questo non significa che si debbano lanciare lacrimogeni o pallottole di gomma o, addirittura le pallottole vere”. Ieri, poco prima che Tsipras partisse per Cipro e l’Italia (incontrerà Renzi questo pomeriggio) è stato nominato a capo dei servizi segreti, l’EYP, Yiannis Roubatis. Giornalista, 67 anni, è stato nominato capo dei servizi segreti. Roubatis, come la maggior parte di coloro che hanno appena ottenuto il ruolo di ministro o cariche istituzionali, ha studiato negli Stati Uniti, alla John Hopkins University e quindi in Inghilterra per un dottorato. Conosce il mondo politico da decenni essendo stato consigliere speciale per i media globali dell’allora primo ministro socialista Andreas Papandreou, nel 1981. Inoltre ha lavorato come portavoce del governo nel biennio 1987-1988. Con il partito socialista Pasok è stato eletto al Parlamento europeo. Nel 1987, Roubatis ha pubblicato Tangled Webs: US in Grecia 1947-1967 (Trame ingarbugliate: gli Usa in Grecia dal 1947 al 1967), un libro basato sulla sua tesi di dottorato in cui denunciava le amministrazioni americane e i partiti conservatori greci del dopoguerra per la loro collaborazione con i servizi segreti statunitensi. Un rapporto di amore e odio quello tra il nuovo esecutivo greco e gli Stati Uniti. Ieri il presidente statunitense Obama ha parlato pubblicamente della Grecia, dicendo che “non ci potranno essere riforme serie e durature se il Paese continuerà a essere spremuto come un limone”, dalla troika. Obama, teme che la Grecia di Tsipras, pur essendo membro Nato, continui la sua relazione pericolosa con Putin, interessato a destabilizzare l’Europa.

La Stampa 3.2.15
Syriza e Podemos: così vicini, così lontani
I media ne esaltano le similitudini, ma tra i partiti guidati da Tsipras e Iglesias ci sono forti differenze
di Gian Antonio Orighi

qui

Corriere 3.2.15
«Missili e truppe, così prenderemo Roma»
I timori per il dossier dell’Isis su Internet
Video, mappe, armi da impiegare. La propaganda per eccitare le «cellule dormienti» in Europa
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Un documento di cento pagine per rilanciare la «chiamata alle armi» incitando i jihadisti a entrare in azione. L’ultima minaccia dell’Isis viaggia via internet e prende di mira l’Italia, annuncia la «conquista di Roma». Si intitola «The Islamic State 2015», contiene piantine con la capitale cerchiata in rosso, fotografie di combattenti, un lungo elenco di account twitter, forse l’indicazione dei «referenti» europei dei fondamentalisti.
Mentre il ministro dell’Interno si accinge a firmare nuovi decreti di espulsione nei confronti di stranieri ritenuti «pericolosi per la sicurezza nazionale», una nuova iniziativa di propaganda mette in allerta gli apparati di prevenzione e intelligence . Perché nessuno può certificare l’autenticità del dossier, ma la sua circolazione sul web può rappresentare comunque un segnale per tutti quei fondamentalisti che già si trovano in Europa e potrebbero pianificare un attentato.
Istruzioni ai «soldati»
La prima parte è una sorta di vademecum che illustra gli obiettivi dell’Isis, le zone sotto controllo, la strategia di attacco. A scovare il documento sono stati i giornalisti del sito internet Wikilao, specializzato in temi legati alla sicurezza, che ieri l’hanno rilanciato e analizzato. Le fotografie mostrano numerose azioni, compresa l’intera sequenza del bambino di dieci anni che spara in testa a un prigioniero. Poi ci sono le regole che i «membri dell’Isis» — compresi numerosi bimbi che vengono fotografati mentre maneggiano le armi — devono seguire con la scansione della giornata, dalla sveglia alle 4,45 al silenzio delle 22, compresi gli addestramenti per essere perfetti tiratori. Si cerca di dimostrare come i leader si occupino anche del mantenimento dei combattenti e delle loro famiglie con la lista dei soldi destinati a chi aderisce alla jihad .
Attacco all’Europa
L’Europa è nel mirino, Roma è certamente nella lista dei bersagli. La strategia di attacco prefigura un’alleanza anche con Al Qaeda in una sorta di tenaglia che possa portare alla conquista dell’Occidente, propaganda pura, che però intimorisce gli analisti. «Ansar al Sharia in Libia e Al Qaeda nel Maghreb Islamico cominceranno a sparare missili verso il cuore dell’Europa, come vendetta per quanto patito dai loro fratelli in Siria», è scritto nel documento che ipotizza un attacco da tre fronti «da ovest (Spagna), dal centro (Italia, Roma) e da est (Turchia, Costantinopoli/Istanbul)». Il proclama finale spiega la strategia: «Il messaggero di Allah ha promesso che i musulmani vinceranno la battaglia. In questo caso l’Isis sarà in grado di passare attraverso la Turchia ed entrare in Europa da est. Entreremo a Roma dal mar mediterraneo (Tunisia e Libia) e in Spagna dal Marocco. Allora saranno in grado di entrare le truppe di terra in Italia per supportare i musulmani oppressi. E questa è la conquista di Roma».
Gli account twitter
Gli investigatori della polizia di prevenzione e dei carabinieri del Ros stanno analizzando lo scritto ed effettuando verifiche, così come gli esperti dei servizi segreti. In particolare ci si concentra sulla lista di account twitter contenuta nel dossier per accertare se si tratti di possibili referenti europei, indirizzi riconducibili a persone che potrebbero rappresentare una minaccia, anche solo per l’attività di proselitismo svolta. Secondo i primi controlli il documento sarebbe stato veicolato inizialmente senza passare per i siti internet ufficiali dell’Isis e questo fa dubitare che a prepararlo siano stati i leader fondamentalisti. I riferimenti agli arsenali e all’utilizzo dei missili per colpire l’Italia appaiono poco precisi per quanto riguarda la potenza militare, dunque potrebbe essere stato scritto da mani diverse, anche poco esperte. L’effetto che può avere desta comunque allarme proprio perché mira a eccitare quelle «cellule dormienti» già presenti in Europa e chi ha l’intenzione di partire per il Medio Oriente.
Le nuove espulsioni
In questo clima di preoccupazione, alimentato anche dalla decapitazione dei due ostaggi giapponesi, l’Antiterrorismo ha aggiornato la lista delle persone che possono rappresentare una minaccia e nei prossimi giorni il ministro Angelino Alfano firmerà nuovi decreti di espulsione. Provvedimenti saranno presi, proprio come accaduto nei primi quindici giorni dell’anno, su una decina di stranieri da anni residenti in Italia con un regolare permesso di soggiorno che hanno mostrato l’intenzione di unirsi ai jihadisti oppure che stanno cercando di reclutare combattenti nel nostro Paese. In attesa delle nuove norme che dovrebbero identificare questi comportamenti come reati.

La Stampa 3.2.15
Hegel, la talpa non parla più alla civetta
di Federico Vercellone


Quando Hegel afferma nei Lineamenti di filosofia del diritto che «la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero» non si limita a proporre un ruolo egemone della filosofia nell’ambito del sapere, ma addirittura di riassumere nel proprio seno l’andamento stesso del mondo. Questo ruolo egemone viene assunto, secondo Hegel, dalla filosofia, e ciò significa che la filosofia stessa è responsabile nei confronti del proprio tempo, che l’astratto è ben più concreto di quel che erroneamente si ritiene. Questo può suonare molto eccentrico alle nostre orecchie abituate a pensare che la filosofia possa al massimo riflettere su quello che è o accade ma difficilmente influenzarlo.
Proprio su questi temi ritorna Remo Bodei riscrivendo il suo primo libro, Sistema ed epoca in Hegel, uscito nel 1975, ora ripubblicato, sempre da Il Mulino, in una nuova versione con il nuovo titolo La civetta e la talpa cui fa seguito, come sottotitolo, il titolo antico.
Che cosa significa per un filosofo e per un grande esegeta come Bodei riaggiustare la prospettiva su di un gigante come Hegel a distanza di quasi quarant’anni? Che aspetto assume il pensiero di Hegel dopo il tramonto del marxismo del quale, nella cultura filosofica del Novecento, le interpretazioni del pensiero hegeliano sono state molto spesso congiunte? Qual è il nuovo volto di Hegel dopo la caduta del Muro di Berlino, dopo il declino della cultura postmoderna dominata, fra l’altro, da una costellazione filosofica molto variegata che va da Deleuze, a Derrida a Martin Heidegger?
In questo importantissimo libro, che è ormai parte integrante della grande tradizione degli studi hegeliani italiani e insieme, dell’ermeneutica della cultura del nostro tempo, Bodei mostra, tra le altre cose, che l’epoca alla quale apparteniamo non è più in grado di mettere insieme la talpa del negativo hegeliano che scava e plasma la realtà con la civetta del pensiero che la organizza nel sistema del sapere speculativo. Nell’universo globalizzato l’inquietudine del pensiero non potrà ma più coniugarsi con lo sguardo panoramico che si appaga della propria riuscita costruzione. In questa lacerazione ci tocca vivere e pensare.

Corriere 3.2.15
La filosofa entra nel Palazzo della politica. E si ribella
Il libro intervista (Utet) di Michela Marzano con Giovanna Cavalli: un’analisi su arroganza e compassione
di Massimo Rebotti


Una filosofa in Parlamento. Il libro di Michela Marzano Non seguire il mondo come va (Utet) è, prima di tutto, lo sguardo di chi entra per la prima volta nel Palazzo e si fa domande senza sconti. Docente a Parigi, autrice di diversi saggi di filosofia morale e politica, viene candidata nelle liste del Partito democratico alle elezioni del 2013 e, a marzo, approda alla Camera come deputato. Il primo impatto è uno choc: «Quello che penso non interessa a nessuno, in politica contano soprattutto conoscenze e appartenenze». Marzano «non appartiene e non conosce» e proprio per questo il suo punto di vista è prezioso, anche se la prova parlamentare costerà, e probabilmente costa ancora, non poche frustrazioni all’autrice. Il libro, scritto con la giornalista Giovanna Cavalli, parte dall’osservazione politica e antropologica sulla vita alla Camera e poi si apre a una serie di interrogativi sul significato di alcune emozioni in politica: dalla rabbia alla compassione, dalla sfiducia alla speranza. Ed è qui che la deputata Marzano mette pienamente a disposizione quella competenza filosofica per la quale, in teoria, è stata candidata, ma che, nella routine parlamentare o di partito, quasi mai le viene richiesta: «Alla Camera e al Senato — annota — alla fine conta l’arroganza».
Non seguire il mondo come va non è però un testo disilluso o genericamente contro il Palazzo («la retorica anti sistema — scrive a un certo punto a proposito dello spirito dei tempi — è una delle piaghe contemporanee»). È, viceversa, un libro sulla fiducia (smarrita) nella politica, sui suoi peggiori sostituti — la rabbia, la sfiducia, il cinismo — e sulle parole che ci vorrebbero per riaccendere la partecipazione. Una di queste è speranza: «Renzi ha ragione, senza speranza non c’è politica», ed è per questo, sostiene Marzano, che il segretario del Pd ha prevalso nella sfida dei messaggi alle ultime europee sulla «rabbia» di Beppe Grillo. Le pagine sui Cinquestelle sono affilate: «Non era ancora mai accaduto che l’assenza di fiducia si trasformasse in paranoia. Con Grillo si assiste all’emergere di una propaganda in cui il vero e il falso sono l’uno accanto all’altro».
In tempi di politica post-ideologica, però, ogni successo può essere effimero: «La differenza tra speranza e strumentalizzazione della speranza — scrive — è nel rapporto che si stabilisce, o meno, con la realtà». E qui verso il Matteo Renzi «veloce e carismatico» si avanza qualche dubbio: «Senza progetto e senza visione la sinistra rischia di scomparire». Il problema, argomenta, nasce ben prima dell’attuale premier e non si risolverà con lui. Per l’autrice la possibile soluzione consiste nel guardare la realtà con «compassione» («sono allibita dalla mancanza di rispetto e di cuore di tanti dirigenti») e «battersi» per renderla migliore. Ed è per questo che, tra le tante citazioni, quella centrale è del saggista francese Jean Guéhenno: «Il vero tradimento è seguire il mondo come va e occupare lo spirito a giustificare questo».
Ci sono pagine in cui Michela Marzano abbandona la posizione dell’intervistata e racconta in prima persona episodi della sua esperienza in politica. Sono personali ribellioni «al mondo come va» come quando, a sorpresa, prende la parola in una tesa riunione del gruppo Pd oppure alla Camera in un’aula distratta: «Non so cosa ci faccio qui dentro, ma se c’è chi ascolta quello che dico, forse ne vale la pena».

Corriere 3.2.15
Ii fondamento delle libertà
ll legame ormai rotto tra la democrazia e l’economia di mercato
Il capitalismo si è adattato facilmente a regimi autoritari e cuylture profondamente diverse da quella occidentale
Dimostrandosi così ben più esportabile dei modelli politici
di Slavoj Zizék


Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk osserva che se c’è una persona a cui faranno il monumento nei prossimi cent’anni, quella sarà Lee Quan Yew, il leader di Singapore che ha inventato e realizzato il cosiddetto «capitalismo dal volto asiatico». Il virus di questo capitalismo autoritario si sta diffondendo, lento ma inesorabile, in tutto il mondo. Deng Xiaoping, prima di avviare le sue riforme, era stato a Singapore e lo aveva espressamente elogiato come modello di riferimento per la Cina. Questo cambiamento ha un significato storico e mondiale: fino ad oggi, il capitalismo sembra essere inestricabilmente associato alla democrazia — certo, a volte si è fatto ricorso alla dittatura diretta, ma dopo uno o due decenni, la democrazia si è imposta nuovamente (basta ricordare i casi della Corea del Sud e del Cile). Ora, comunque, si è rotto il legame tra democrazia e capitalismo.
Oggi si parla spesso del fallimento della civiltà occidentale come modello di riferimento globale, e del fallimento di quegli Stati post-coloniali che hanno cercato di emularlo. Questa diagnosi ha tuttavia un difetto: è finito, sì, il sogno di Fukuyama di una democrazia liberale globale, ma a livello economico il capitalismo ha trionfato in tutto il mondo — i Paesi del Terzo mondo che l’hanno sostenuto, oggi registrano tassi di crescita spettacolari.
Il capitalismo globale non ha problemi ad adattarsi a una pluralità di religioni, culture e tradizioni locali. Quindi, l’ironia crudele dell’anti-Eurocentrismo è che, in nome dell’anti-colonialismo, si critica l’Occidente proprio nel momento storico in cui il capitalismo globale non ha più bisogno dei valori culturali occidentali per funzionare perfettamente, ed è a suo agio con la «modernità alternativa».
Il capitalismo globale non implica necessariamente l’edonismo e l’individualismo permissivo. L’India, ad esempio, ha imboccato la strada della celere modernizzazione capitalista: ma non c’è stata rimozione universale delle tradizionali strutture sociali, come l’anteposizione dei legami comunitari al successo personale o il rispetto per gli anziani.
Questo non dimostra in alcun modo che simili realtà non siano totalmente «moderne». E si sbagliano di grosso i teorici post-coloniali «servili», che vedono nella persistenza delle tradizioni premoderne una forma di resistenza al capitalismo globale e al suo processo violento di modernizzazione che distrugge i legami tradizionali. La fedeltà ai quei valori è, paradossalmente, la vera prerogativa che permette a Paesi come Cina, Singapore e India di seguire la strada del processo capitalista in modo persino più radicale che nei Paesi liberali occidentali. Il riferimento ai valori tradizionali offre una giustificazione etica a chi condivide la logica spietata della competizione di mercato. È molto più semplice far riferimento a valori tradizionali per poter giustificare l’indifferenza agli altri. «Lo faccio per aiutare i miei genitori, per guadagnare i soldi necessari a miei figli e cugini per poter studiare...»: simili motivazioni sono molto più accettabili rispetto a «Lo faccio per me».
Non è un caso che la libertà sia un fondamento debole per il capitalismo nell’Occidente, perché è anche un fondamento vuoto. La libertà sopravvive anche qui, ma in una forma stranamente ingarbugliata. Dal momento che la libera scelta è stata elevata a valore supremo, il controllo sociale non può più sfiorarla. Spesso, comunque, l’accordo è solo retorico.
L’illibertà mascherata dal suo opposto si manifesta in una miriade di forme: quando siamo privati dell’assistenza sanitaria, ci dicono che ci offrono la libertà di scelta (del fornitore di assistenza sanitaria); quando non possiamo più contare su un impiego a lungo termine e siamo costretti a cercare un nuovo lavoro precario ogni due anni, ci dicono che ci offrono l’opportunità di reinventarci e scoprire nuove e inaspettate risorse creative, latenti nella nostra personalità; quando dobbiamo pagare l’istruzione dei nostri figli, ci dicono che «investiamo su di noi», come un capitalista che deve scegliere liberamente come investire le risorse possedute (o prese in prestito): in formazione, salute, viaggi… Bombardati costantemente da «libere scelte» imposte, costretti a prendere decisioni per cui generalmente non siamo neanche abbastanza qualificati (o informati), viviamo la nostra libertà per quello che è realmente: un peso che ci sottrae la vera scelta di cambiare.
Forse, questo paradosso ci consente anche di gettare una nuova luce sulla nostra ossessione per quello che sta succedendo in Ucraina, o l’ascesa dell’Isis in Iraq. Quello che ci affascina in Occidente non è il fatto che a Kiev il popolo abbia lottato per il miraggio di uno stile di vita europeo, ma che (quanto meno apparentemente) abbia combattuto semplicemente per prendere in mano le redini del proprio destino. Ha agito come un agente politico di un cambiamento radicale che in Occidente non possiamo più scegliere di fare.
(Traduzione di Ettore C. Iannelli)

Repubblica 3.2.15
Un ricordo del grande autore argentino
Le mie notti con Borges nei labirinti dei libri
Fu un uomo modesto, profondamente etico Voleva essere Ulisse e gli toccò essere Omero
L’avevo conosciuto a Buenos Aires, nella libreria Pygmalión. Cercava testi in inglese antico
di Alberto Manguel


L’ULTIMA volta che ho visto Borges è stato a Parigi, nel piccolo hotel di Rue des Beaux Arts in cui ora ci sono le targhe con i nomi dei suoi due ospiti più illustri, Oscar Wilde e Jorge Luis Borges. Negli ultimi anni della sua vita era diventato nomade e adorava parlare dei luoghi che aveva frequentato di recente: l’Egitto, da cui si era portato via un pugno di sabbia dorata; l’Islanda, dove, fra le rovine di una cappella sassone, aveva recitato il Padrenostro nella lingua dei vichinghi; il Giappone, dove aveva conversato sull’aldilà con un sacerdote scintoista. Gli raccontai che vivevo in Canada e mi parve sorpreso. «Caspita! », mi disse.
«Il Canada è talmente lontano che quasi non esiste». In uno dei suoi versi, Borges si domanda: «Chi ci dirà a chi, in questa casa, senza saperlo, abbiamo detto addio? ». Quella notte non sapevo che stavamo ripetendo la sua domanda, che ci stavamo dicendo addio. L’avevo conosciuto a Buenos Aires, nella libreria Pygmalión. Io avevo sedici anni e lavoravo lì la mattina. Accompagnato da sua madre, Borges era venuto a cercare libri di inglese antico, lingua che si era messo a studiare con un entusiasmo da adolescente. Un giorno mi propose (come a tanti altri fortunati) di andare a leggerglieli a casa sua; sua madre, che leggeva per lui fin dai primi anni della sua cecità, cominciava a stancarsi facilmente. Accettai, e per diversi mesi divenni uno dei suoi cento felici lettori. O meglio, fui una delle voci delle sue letture, giacché il ruolo di lettore (scegliere i libri, soffermarsi su alcuni passaggi, commentare la lettura) continuava a essere esclusivamente suo.
Le letture di Borges erano sempre illuminanti e originali. Davano luce a un testo facendone sfolgorare gli angoli più reconditi, e i suoi commenti erano sempre nuovi, non perché Borges fosse il primo a pronunciarli, ma perché era il primo a segnalare che esistevano tali possibili letture. Le sue scoperte erano a un tempo ovvie e sorprendenti; avremmo dovuto chiamarle riscoperte, in quanto credevo nell’osservazione di Bacone: «Così come Platone immaginò che ogni conoscenza non è altro che ricordo, così Salomone dichiarò che tutto ciò che è nuovo non è altro che oblio».
Ricordo i suoi commenti, ma anche la sua voce, così particolare. Borges parlava con voce pacata, un po’ asmatica, che sapeva usare con grande duttilità. [...] Di quelle notti mi rimane il ricordo di un lettore ideale, generoso, brillante. Le sue osservazioni ora impregnano le letture anche di quanti non lo hanno letto, giacché formano il mondo di tanti altri scrittori, scrittori diversi come Marguerite Yourcenar e Umberto Eco, Italo Calvino e George Steiner, Salman Rushdie e José Saramago. Le sue rivelazioni sono essenziali. Ha saputo definire la ricca ambiguità che giace al fondo di ogni opera d’arte, autorizzando il lettore a godere di un testo e tuttavia a non capirlo del tutto. «L’imminenza di una rivelazione che non si produce», disse, «è forse il fatto estetico». Osservò che ogni scrittore crea i suoi propri precursori, spiegando così le curiose biblioteche che ogni libro amato crea nella memoria del suo lettore. Conferì a ogni lettore il potere della creazione letteraria, e preferì non tracciare limiti fra chi legge e chi scrive. Fu un uomo modesto, profondamente etico, ammiratore del coraggio epico che sapeva essergli stato negato. Voleva essere Ulisse e gli toccò essere Omero. Con rassegnazione, credeva che il nostro dovere morale fosse essere felici.
Non sono stato, ovviamente, amico di Borges. L’amicizia implica condividere certe intimità e Borges appena sospettava la mia esistenza. Io ero una delle tante voci di lettore, niente di più. Il suo unico amico, il suo amico vero, paziente e costante, fu Adolfo Bioy Casares. La prima volta che li vidi insieme fu nel grande appartamento in cui Bioy e Silvina Ocampo abitavano, vicino al cimitero di La Recoleta, a Buenos Aires. Quella sera, ero andato a trovare Silvina, a cui avevo chiesto un testo per un’antologia per la casa editrice Galerna. Stavamo parlando in salone (Silvina faceva domande intime a cui io non sapevo come rispondere) quando a un tratto sentimmo due uomini ridere a crepapelle in una delle stanze in fondo. «Quei due si divertono come due ragazzacci», commentò Silvina. Quando comparvero, sorridevano ancora. Il sorriso di Borges era il più contagioso, forse perché il più visibile. Quando rideva, apriva la bocca, chiudeva gli occhi, e il volto gli si contraeva come se cercasse di trattenere qualcosa sul punto di esplodere. Il sorriso di Bioy era più discreto, forse perché era più giovane, più riservato. «Fanno sempre così quando scrivono insieme», mi spiegò Silvina. «Invece io, se qualcosa che scrivo mi fa ridere, devo ridere da sola».
È risaputo che Bioy e Borges si conobbero grazie a Victoria Ocampo. La madre di Bioy, amica di Victoria, un giorno le confessò di essere preoccupata per le velleità letterarie di suo figlio adolescente, e voleva sapere se Victoria conoscesse qualcuno, con una certa esperienza nel mondo delle lettere, che potesse guidarlo. Senza esitazioni, Victoria nominò Borges. Adolfito, come lo chiamavano allora, aveva diciassette anni; Borges, trentadue. La loro prima conversazione, da quanto ricorda lo stesso Bioy, avvenne durante il tragitto di ritorno dalla casa di Victoria. Con la goffaggine di un giovane scrittore di fronte a un altro già consacrato, Bioy si era lanciato in un “elogio della prosa sbiadita di un poetastro che curava la pagina letteraria di un quotidiano porteño ”.
«D’accordo», aveva risposto Borges, «ma a parte quel tipo, chi altro ammira, di questo secolo o di qualsiasi altro?».
«Gabriel Miró, Azorín, James Joyce», fu l’impossibile risposta. Borges, con la generosità di cui a volte era capace, osservò che «i giovani trovano letteratura in quantità sufficiente solo negli scrittori che si lasciano completamente avvolgere dall’incanto della parola». Questo fu l’inizio di un’amicizia che durò quasi fino alla morte di Borges, nel 1986. A vederli insieme, quei due uomini erano così straordinariamente diversi che risultava difficile capire cosa li unisse, se non una passione comune per la letteratura, che forse era già sufficiente.
Bioy era un uomo estremamente attraente. Curava il proprio aspetto, vestiva bene, si preoccupava per la sua salute. Seduceva le donne ma raramente si lasciava sedurre (queste non sono rivelazioni indiscrete ma emergono da ciò che lo stesso Bioy aveva scritto nei suoi diari). Aveva molti amici. Praticava sport ed era appassionato di fotografia. Era ricco. Gli piacevano la letteratura francese del diciannovesimo secolo, i romanzi erotici, la pettegola corrispondenza letteraria, la poesia lirica più di quella epica, le narrazioni popolari più delle storie di guerra. In generale, era un uomo felice.
Borges non pareva avere un corpo solido: dargli la mano era come stringere l’aria. Anche se sua madre o la governante, Fani, si davano da fare affinché avesse la camicia ben stirata e il fazzoletto, profumato di colonia, nel taschino della giacca, a Borges bastava soltanto sentirsi in ordine, non gli importava l’eleganza. Era poco socievole. Gli piaceva nuotare (in una poesia si rivolge all’acqua come «il tuo nuotatore, il tuo amico ») e chiacchierare camminando, non entrare in competizione. Era povero. Ammirava la letteratura anglosassone più di quella francese e il romanzo fantastico più di quello realista. Il suo genere preferito era l’epica. Ammetteva di essere sentimentale e amava i film che lo facevano piangere. Si innamorava con una frequenza spaventosa. In generale, era un uomo infelice. [...] Ci sono scrittori che vanno oltre la geografia della propria terra e dei propri libri, che offrono al lettore non solo nuovi paesaggi o mondi antichi, ma che propongono vette segrete dalle quali poter scoprire sorprendenti sentieri e ignote costellazioni. Attraverso la sua letteratura, il lettore può così intuire e nominare (anche se non comprendere) il quasi infinito catalogo dell’esperienza intellettuale umana; non per mezzo di favole o di morali, bensì per mezzo di un nuovo senso, di una nuova intelligenza, di una nuova perspicacia. Borges (ora lo sappiamo) è stato uno di questi rari e immensi scrittori.

lunedì 2 febbraio 2015

Civiltà cattolica è la rivista ufficiale dei Gesuiti
Corriere 2.2.15
Il direttore di Civiltà cattolica Spadaro: la visione sua e di Bergoglio sono consonanti
«Un presidente dalla fede non muscolare Per lui la politica deve essere costruzione»

Padre Antonio Spadaro,direttore della rivista dei Gesuiti, la Civiltà cattolica , ha postato su Twitter una videointervista su YouTube in cui Mattarella descrive l’entusiasmo con cui ha vissuto gli anni del Concilio Vaticano II.
Perché?
«Perché mi ha molto colpito. Il video mostra che è stato eletto presidente una personalità ricca, un giurista, un politico di elevata statura, la cui formazione cattolica ha dato frutti. È un cattolico non muscolare, non ideologico, cresciuto in un periodo complesso, che considera la sua fede come un enzima».
Un enzima?
«Nella videointervista, che è del 2010, parla di sogni e di ideali, non di tattiche e di strategie. Per lui la fede è lievito dentro la storia. Non è un’ideologia astratta che si impone sulla realtà. Si richiama a due Papi: Giovanni XXIII e Paolo VI. Entusiasmo, speranza e innovazione per lui sono le tre parole chiave dell’eredità di quegli anni. Nel Concilio lo colpiva il senso pieno dell’universalità della Chiesa e la dimensione profetica della fede».
Un presidente d’altri tempi?
«No. E per lo stesso Mattarella non sempre il passato è migliore del presente. E il cristiano vive nel presente. Niente amarcord».
Mattarella si è formato a stretto contatto con i gesuiti, questo c’entra con il suo cattolicesimo non ideologico?
«Sì. C’è una parola che esprime questa caratteristica tipica dell’educazione dei gesuiti e che mi sembra abbia giocato un ruolo decisivo per Mattarella, così come emerge dalla sua stessa intervista, la parola “discernimento”. Essa esprime una visione positiva della realtà, un’apertura dialogica e la capacità di ascolto dell’altro. Oltre agli stretti contatti da adulto con padre Bartolomeo Sorge e padre Ennio Pintacuda. La sua formazione ha comunque avuto punti di riferimento plurale: i Fratelli maristi, l’Azione cattolica, i Padri rosminiani, la Pro civitate cristiana».
Il primo pensiero del presidente è andato «alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini».
«Nel video dice testualmente: “Studiare insieme, vivere insieme un’esperienza di classe, di comunità e di studio mi ha aiutato a comprendere le esigenze, i problemi e le attese degli altri. Si cresce, se si cresce insieme. Ci si realizza, se ci si realizza insieme”. Sembra di sentire papa Francesco che si esprime negli stessi termini».
Mattarella è stato segnato dalla tragedia del fratello. Oggi mafia e corruzione sono ancora emergenza.
«Mattarella è sceso in politica a causa di questa ferita viva nella carne: e dal fratello , che è stato politico di rottura , ha imparato la necessità della lotta alla corruzione. Questo è un tratto forte dell’identità del presidente, oggi particolarmente rilevante».
È singolare che un cattolico sia una riserva della Repubblica?
«No, anzi. È proprio il suo cattolicesimo a dargli una concezione “laica” della politica, intesa come costruzione — da parte di persone di diverse esperienze e culture — della cosa pubblica e del bene comune. E questo è anche il pensiero di papa Francesco. Le due visioni del neoeletto e di papa Francesco mi sembrano straordinariamente consonanti».

Repubblica 2.2.15
Scalfari: il nuovo presidente come il Papa, farà rispettare le regole
ROMA L’elezione di Sergio Mattarella è stata «un capolavoro dal punto di vista di Renzi, anzi di tutti». A dirlo è Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, in un’intervista a In Mezz’ora , su Raitre.
Per Scalfari il nuovo capo dello Stato «farà le stesse cose che il Papa sta facendo nella Chiesa». Certo, ha osservato Scalfari - «è una frase impegnativa, anche paradossale, ma contiene una verità. Non butterà all’aria le regole, le farà rispettare».
E questo, secondo il fondatore di Repubblica, «non è banale, perché non tutti i presidenti della Repubblica sono riusciti a far rispettare le regole, qualche volta sono stati al servizio di chi governava».

Repubblica 2.2.15
Mattarella, il Quirinale e il mondo cattolico
di Agostino Giovagnoli

UN CATTOLICO al Quirinale, ma non è il ritorno della Dc. Mattarella è, infatti, un erede, più che un protagonista, della storia democristiana. Il suo percorso ha avuto indubbiamente forti legami con le radici familiari. Il padre Bernardo è stato membro della Costituente e più volte ministro, amico di Giorgio La Pira e vicino ad Aldo Moro. Ma Sergio Mattarella è entrato in politica solo nel 1980, dopo l’assassinio del fratello Piersanti, ed è diventato deputato solo nel 1983, quando la Dc crollò dal 38% al 33% dei voti. Non è vissuto, insomma, nella Democrazia cristiana di De Gasperi e di Dossetti, è entrato nella Dc dopo il tramonto della “seconda generazione” di Fanfani e di Moro ed ha iniziato a fare politica quando era già cominciato il declino della Repubblica dei partiti.
La sua parabola politica, insomma, si è sviluppata tutta dentro la seconda metà della storia repubblicana (1980-2015), molto diversa dalla prima (1946-1980). Sta qui la chiave della sua elezione. Scegliendo il nuovo Presidente della Repubblica, i grandi elettori hanno acceso i riflettori sullo sforzo compiuto da un piccolo gruppo di uomini e di donne per custodire un’eredità politico-culturale importante. Negli anni Ottanta, Mattarella ha cercato di rilanciare la cultura politica cattolico-democratica affrontando nuove sfide, come quella della mafia, e impegnandosi con Roberto Ruffilli per le riforme politico-istituzionali. Quando è finita la Prima Repubblica, non ha seguito Leoluca Orlando che, fondando la Rete, ha rotto con questa tradizione e nel ‘93-’94 è stato a fianco di Martinazzoli nella fondazione del Partito popolare per rilanciarla in forme nuove. Con una coerenza che oggi tutti gli riconoscono, ha poi sostenuto l’Ulivo, militato nella Margherita e proposto un Pd a forte identità etico-politica, con il manifesto programmatico di cui è stato tra gli autori insieme a Pietro Scoppola.
Nella Seconda Repubblica, Mattarella e i suoi amici hanno avuto un ruolo politico minore. Ma le macerie prodotte dalla conflittualità bipolare di quest’era rivalutano oggi la loro storia, che è stata anche la storia in cui Renzi è cresciuto. Più di tutti, infatti, essi hanno custodito una cultura politica agli antipodi del bipolarismo selvaggio. Ma non hanno contrastato tale bipolarismo con una posizione “terzista” che implicava di fatto un cedimento al berlusconismo. Mattarella si è scontrato più volte con Berlusconi, dimettendosi per non votare la fiducia sulla legge Mammì, criticando l’ingresso di Forza Italia nel Ppe. A Berlusconi ha contestato anche il tentativo di impadronirsi di De Gasperi. La sua è stata una posizione anzitutto morale, contro il berlusconismo quale deriva antropologica prima che opzione politica. Mattarella e i suoi amici hanno pagato tale scelta con l’ostilità di un mondo ecclesiastico sempre più permeato dal berlusconismo.
Fin dagli anni ottanta, Mattarella è stato fra i più sensibili a questi problemi: era lui il tramite tra la Dc e l’episcopato italiano mentre esplodeva l’offensiva di Cl contro la Democrazia cristiana e a favore del Psi di Craxi. Poi ha trovato nel card. Silvestrini un riferimento importante. Oggi la sua elezione si collega ad un faticoso processo di deberlusconizzazione del cattolicesimo italiano, il cui inizio nel 2011 ha contribuito alla nascita del governo Monti. C’è anche questo dietro i tormenti del Nuovo centrodestra e dell’Udc in questi giorni: Area popolare ha cercato in tutti i modi di non votare un candidato il cui successo rappresenta un’evidente smentita del progetto di un centro-destra senza Berlusconi ma imperniato su cattolici exberlusconiani. L’apparente distacco con cui il mondo cattolico italiano ha seguito l’elezione del nuovo Presidente è stato attribuito all’“effetto Francesco”. Indubbiamente, dietro l’attuale crisi del centrodestra, c’è anche la novità di questo pontificato. Ma se molti vescovi, che pure apprezzano il nuovo Presidente, non sono usciti allo scoperto è anche perché la Chiesa italiana è ancora in una fase di transizione. Anche su questo terreno, perciò, l’elezione di Sergio Mattarella rappresenta un segno positivo.

La Stampa 2.2.15
Già al lavoro per il nuovo staff
In pole i fedelissimi della sinistra Dc
La nomina più importante sarà quella del segretario generale
di Antonella Rampino
qui

La Stampa 2.2.15
La rivincita degli allievi di Aldo Moro
di A. R.

Come mai nessun ex comunista strilla «non vogliamo morire democristiani», com’é che anzi la componente che ebbe casa a Botteghe Oscure gioisce, e proprio mentre perde il Colle, e con Napolitano che anzi ha esercitato un ruolo maieutico nel portarvi il democristianissimo Sergio Mattarella? La risposta è nella cultura politica. Si realizzano d’improvviso lo Statuto del Pd e prima ancora dell’Ulivo, perché l’elezione di Mattarella con i voti degli ex comunisti mischia d’improvviso la cultura dei cattolici impegnati in politica con quella dei post-comunisti: le basi, per conto degli ex Dc, furono gettate da Piero Scoppola, da Leopoldo Elia, e da un giovane Mattarella. Dagli allievi di Aldo Moro. Dunque, può sembrare un paradosso, ma la linea della continuità tra Napolitano e Mattarella sarà proprio sul crinale della cultura politica: comunisti e democristiani nella storia repubblicana si sono battuti a lungo, ma sempre confrontandosi, sempre gestendo su uno stesso asse il Paese, nelle mille forme che erano consentite dall’impossibilità istituzionale e politica dell’alternanza, fino al momento cruciale, quello della solidarietà nazionale, del compromesso storico. Che Napolitano ha sempre considerato «un’esperienza troppo presto interrotta», individuando in questo il grande errore di Enrico Berlinguer. Adesso, con il nuovo presidente arriva al Colle una tradizione politica che avrebbe dovuto insediarvisi già trent’anni fa, quella morotea. Lo specialissimo è che l’operazione sia stata il capolavoro politico di un premier che viene valutato come l’erede di Fanfani, come l’erede proprio del grande antagonista di Moro. Matteo Renzi. Tra il morire democristiani e il vivere mattarelliani, però, la minoranza Pd ha votato entusiasta annusando, nell’aria di compromesso storico, la possibilità di trovare al Colle una sponda. Anti-fanfaniana, diciamo così.

La Stampa 2.2.15
L’Italia irrompe all’Alfalfa
“Mattarella per gli Usa è un amico affidabile”
Nel più esclusivo club americano si parla del Belpaese “Un fronte sicuro contro la Russia e il terrorismo”
di Paolo Mastrolilli

Il giudice della Corte Suprema Antonin Scalia, seduto davanti ad un piatto di linguine all’astice, ammicca soddisfatto: «È siciliano come me, giudice costituzionale come me, cattolico come me, e ha combattuto la mafia che gli ha ucciso un fratello: un profilo perfetto. Non potevo chiedere di meglio». Poi aggiunge: «In estate sarò a Roma per un programma di insegnamento: spero di incontrarlo, o magari vederlo anche prima a Washington».
L’Italia al tavolo che conta
L’elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica irrompe tra i tavoli di Alfalfa, il club più esclusivo degli Stati Uniti. Fondato oltre un secolo fa per celebrare il compleanno del generale sudista Lee, è diventato il luogo di incontro bipartisan di chi conta a Washington. Sabato il suo appuntamento annuale ha avuto tre momenti: un pranzo a casa di Vernon Jordan, super avvocato della famiglia Clinton, a cui ha partecipato il presidente Obama; la cena all’Hilton, dove c’erano dal capo della Cia Brennan al senatore McCain, passando per Warren Buffett, l’ex candidato repubblicano alla Casa Bianca Romney, e i compagni di partito che sperano di prendere il suo posto, come il governatore del Wisconsin Scott Walker; quindi il party conclusivo al Cafe Milano, dove Franco Nuschese ha ospitato il «who is who» della capitale, dal governatore della Virginia e amico dei Clinton McAuliffe, al generale Petraeus, e poi giornalisti come Mike Allen di Politico, e imprenditori come Jeff Bezos di Amazon.
L’argomento dominante sono le presidenziali americane: «Hillary - dice Allen - aveva già preparato l’annuncio della candidatura per aprile, ma vista la totale assenza di rivali, sta pensando di rimandarlo all’estate». Bret Baier della Fox aggiunge che «fra i repubblicani la nomina di Jeb Bush è tutt’altro che garantita. Occhio ai governatori, tipo Walker, che è in grande ascesa».
Alleanze atlantiche
Anche le presidenziali italiane, però, diventano argomento di conversazione: «La scelta di un uomo che è stato ministro della Difesa e provato amico degli Stati Uniti è molto positiva», dice il generale Jim Jones, già comandante della Nato e consigliere per la sicurezza nazionale di Obama. «L’importante - aggiunge - è ricordare la minaccia della Russia all’Alleanza. È un serio pericolo, non ammette debolezze». Poco lontano da lui il collega Petraeus, già capo della Cia e comandante delle forze Usa in Iraq e Afghanistan, si preoccupa dell’Isis: «Noi fermammo i terroristi con l’Anbar awakening, coinvolgendo le tribù sunnite. Voi europei avete bisogno di alzare la guardia sugli ingressi».
«Un amico affidabile»
La scelta di Mattarella, nonostante i vari identikit circolati alla vigilia del voto, ha soddisfatto chi in America segue le vicende italiane per almeno due motivi: lo ricordano come un amico affidabile, quando guidò il ministero della Difesa subito dopo l’intervento in Kosovo, e pensano che favorirà la stabilità e lo sforzo riformatore del governo Renzi, ritenuto indispensabile per liberare le potenzialità del paese, favorire la crescita, ed evitare che l’Italia torni ad essere un pericolo per l’economia globale. Il profilo internazionale era meno importante di quanto invece il nuovo presidente potrà fare sul piano interno, per ancorare l’esecutivo e disinnescare le mine politiche. Infatti mentre Obama andava al pranzo di Alfalfa, la Casa Bianca ha detto che è «ansioso di lavorare con il presidente Mattarella per affrontare le sfide transatlantiche e globali, e sfruttare nuove opportunità di stretta cooperazione».
E l’ambasciatore a Roma Phillips ha aggiunto che «la sua leadership assicurerà al paese stabilità e continuità, proseguendo sulla strada delle riforme e della crescita». Una lunga disputa sul Quirinale, o peggio ancora una crisi di governo, venivano viste come le prospettive più minacciose. Ora che questo ostacolo è stato superato, a Washington si torna a ragionare sulla visita alla Casa Bianca che Renzi non ha ancora fatto, e potrebbe avvenire in primavera. Sul tavolo della discussione si vede già la spinta ad andare oltre l’austerity europea, la collaborazione contro il terrorismo, ma anche un richiamo alla compattezza davanti alla Russia.

Il Sole 2.2.15
La bussola del Presidente:
«Chi vince le elezioni governa, ma la Costituzione è di tutti»
di Guido Gentili

Parole di Sergio Mattarella: “Le istituzioni sono di tutti”. Quando nel ’47 si formò il primo governo De Gasperi con il Pci e il Psi all'opposizione,il confronto alla Camera sulla nuova Costituzione vedeva seduti al banco del Governo non il presidente del Consiglio ed i suoi ministri ma la Commissione dei 75, composta da maggioranza e opposizione. Per Mattarella questo è un riferimento storico importante.
«La lezione di un Governo e di una maggioranza – nota - che pur nel forte contrasto sapevano mantenere e dimostrare anche con gesti formali la differenza che vi è tra la Costituzione e il normale confronto tra maggioranza ed opposizione».
«Le istituzioni sono comuni». «La Costituzione per gli uni e per gli altri, per sé e per gli altri». «Le istituzioni sono di chi è al Governo e di chi è all'opposizione». «Chi vince le elezioni è chiamato a governare il Paese che è e resta di tutti». «Chi vince le elezioni deve essere, e deve sentirsi costantemente, sotto verifica da parte della pubblica opinione, degli elettori e di chi li rappresenta nelle istituzioni». «Alle istituzioni non si mettono briglie e steccati, lacci e lacciuoli».
Il nuovo Presidente della Repubblica ha uno stile politico schivo, interpreterà il suo ruolo evitando di sopravvalutare il raggio di azione dei suoi poteri ma tutto si può dire meno che non abbia convinzioni radicate. Con le quali tutti, maggioranza e opposizione a partire dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, che pure è stato il kingmaker della sua elezione, dovranno fare i conti. Piaccia o no, dettaglio per dettaglio, come dettagliato e puntiglioso è il metodo di lavoro di Mattarella.
Alla vigilia del messaggio di insediamento di fronte alle Camere riunite in seduta comune, la lettura dei suoi interventi parlamentari (in particolare quelli tra il 2004 ed il 2006, quando si oppose duramente alle riforme costituzionali ed elettorali presentate dal governo Berlusconi) offre una traccia preziosa per capire come si orienterà la sua bussola, in Italia e in Europa. Tanto più se si tiene conto, mentre ci si interroga sulla tenuta del Patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi sulla condivisione delle regole del gioco, che sono alle viste passaggi ad altissima sensibilità politica, a cominciare dall'Italicum e dalla riforma del Senato e del titolo V della Costituzione. Tutte materie che il nuovo Presidente conosce bene (comprese le preoccupazioni per la sovrabbondanza e la cattiva qualità della produzione legislativa e l'impennarsi del contezioso, anche costituzionale, tra Stato e Regioni) ed ha affrontato in presa diretta nel corso dei suoi mandati parlamentari.
Per lui si tratta di temi da «maneggiare con molta attenzione». Ad esempio, «l'unità nazionale e l'unità della Repubblica sono concetti di grande delicatezza e non aggettivabili perché o ci sono o non ci sono. Non può esservi un'unità settoriale, federale o regionale, perché aggettivare l'unità nazionale significa negarne l'essenza».
Il Presidente della Repubblica è «un arbitro tra le istituzioni, è il punto di equilibrio del sistema costituzionale», è «l'arbitro super partes, al di sopra delle parti, perché estraneo al gioco politico». Contrario in generale allo schema del “partito personale” e alla personalizzazione esasperata della leadership (in questo senso, mette nel 2006 la sua firma al Ddl del collega Castagnetti sull'attuazione dell'art. 49 della Costituzione in materia di democrazia interna dei partiti), Mattarella è altrettanto contrario alla concentrazione dei poteri «nelle mani di un solo organo, il primo ministro». E smentisce, dieci anni fa, che lo “strapotere” del premier sarebbe stato proposto dalla Commissione bicamerale per le riforme, di cui faceva parte. Non è vero, spiega atti alla mano: «Quella proposta prevedeva, al contrario, un rafforzamento del Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo e partecipe delle scelte di politica estera e della difesa».
Quanto all'Europa, altro tema forte ieri come oggi, il giudizio nel 2005 è netto e possiamo immaginare che resti lo stesso, dieci anni dopo. «Senza l'euro la nostra moneta e la nostra economia sarebbero crollate dopo i crac di Cirio e Parmalat». E «non si invochi fuor di luogo la sovranità nazionale, non si può pretendere di contemplarla collocandola in una teca, condannandola in realtà ad una progressiva irrilevanza internazionale, ad un ruolo privo di efficacia, di significato e di influenza. La sovranità, al contrario, va difesa fornendole un ruolo efficace, perché comune all'intera Europa». Un' Europa «pur grande mercato, che si fermasse o, peggio, facesse arretrare l'integrazione politica non sarebbe più moderna, ma al contrario vecchia e inadeguata nella sua frantumazione».
Domani il messaggio del nuovo Presidente. Dove, oltre ai sì e ai no, anche i dettagli conteranno, e molto. Perché l'uomo è fatto così, garbatamente e logicamente scomodo. Una volta era in discussione a Montecitorio la ratifica di un accordo di cooperazione con la Cina. Mattarella si alza in piedi e prende la parola. «Signor Presidente, mi consenta di dire: no! Non si può inserire nell'ordine del giorno dell'Assemblea, a Camere sciolte, un disegno di legge di ratifica sostenendo che su di esso incombe una scadenza internazionale da rispettare, che renderebbe altrimenti il nostro Paese inadempiente, e poi chiederne il rinvio in Commissione! Questo si fa prima, non si fa dopo!».

il Fatto 2.2.15
Ma una Panda non fa primavera
di Ferruccio Sansa

Il prossimo presidente si affaccerà al Quirinale a piedi. Scalzo. Con un sacco di ceci sulle spalle. Sergio Mattarella la mattina dell’elezione è arrivato con una Panda (vecchio modello e per giunta grigia!). Matteo Renzi si era mosso con una Giulietta bianca. Altri avevano fatto il loro ingresso in bicicletta e motorino.
Sono lontani i tempi delle auto blu, dei codazzi di macchine con i lampeggianti. Ormai è una gara a chi manifesta maggiore sobrietà (salvo poi, magari, andare a sciare con l’aereo di Stato). L’ostentazione della povertà può essere fuorviante come quella della ricchezza. È un bel gesto mostrare, all’inizio del proprio percorso di Presidente, semplicità e morigeratezza. Tanti italiani faticano ad arrivare a fine mese ed è un segno di attenzione nei loro confronti. È il tentativo di mostrare che i politici non vivono più in un mondo a parte, blindato contro gli attentati, ma anche impermeabile al sentire comune. Abbiamo sempre manifestato ammirazione per i paesi del Nord Europa dove i politici si muovono in mezzo alla gente, dove Angela Merkel va in vacanza in una pensione a due stelle; chissà che anche da noi, dopo i lussi sfacciati e offensivi delle ville in Costa Smeralda con tanto di vulcano, non riusciamo a ritrovare una dimensione più umana.
E, però, questa gara di modestia ci pone un interrogativo: dov’è il confine tra apparenza e sostanza? Non basta una Giulietta o, addirittura, una Panda grigia (imbattibile, a meno di non sfilare su una Duna anni ’90 come quella cantata dalle pagine di Cuore). Questo è un gesto buono per i fotografi che, si sa, sono appostati lungo il percorso. Il vero senso della misura, la consapevolezza di non avere un destino a parte sono questione molto più sottile e profonda, che non si può cogliere con una foto. Quello che si chiede a un presidente della Repubblica, a un premier, è la consapevolezza di essere un cittadino, un uomo come altri sessanta milioni, pure nel momento in cui occupa una posizione di - giusto - prestigio. Una persona che accetta le leggi che sono uguali per tutti. Che accoglie le critiche come, e più, di chiunque altro. Un uomo che non pretende di imporre le proprie opinioni in ragione della carica. Che non è cresciuto negli ambienti del potere sfruttando, per sé e i propri familiari, amicizie, convenienze e privilegi. Nell’Italia maestra di cerimoniosità e ossequi si viene chiamati presidenti per tutta la vita, ma terminato il mandato si torna a essere uomini.
Il tempo ci mostrerà se Mattarella ha anche questa umiltà più profonda. A Renzi la Giulietta non è stata sufficiente. E noi cittadini seguiamo l’impegno del nuovo Presidente augurandoci che lo svolga nel migliore dei modi. Senza, però, accontentarci di una foto folkloristica. Una Panda non basta.

il Fatto 2.2.15
Claudio Martelli
“Sergio non è un santo. Ombre su suo padre”
di Enrico Fierro

Onorevole Claudio Martelli, posso leggerle cosa disse di lei Sergio Mattarella? “Faccia pure”. Ecco: “…non mi interessa polemizzare con Martelli, è troppo miserabile il livello in cui si colloca…”. “Che hanno era? ”. Il 1992. “Allora, la prego, contestualizziamo”. Lo facciamo. 1992, la Prima Repubblica sta morendo ma non lo sa, in Sicilia si affaccia la primavera e la mafia uccide. Il 12 marzo viene ammazzato il proconsole andreottiano Salvo Lima, Claudio Martelli è ministro della Giustizia nel governo Andreotti. La Democrazia Cristiana sotto accusa si aggrappa al nome di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione ucciso dodici anni prima dai corleonesi, per rivendicare una sorta di verginità antimafiosa. “Mattarella come Pio La Torre”, dicono in coro. Martelli interviene con parole laceranti: “Mattarella non è tra i morti che hanno combattuto la mafia a viso aperto e non può essere paragonato a chi è caduto mentre era in guerra con le cosche”. Un comportamento “intollerabile, chi lo manifesta non è degno di ricoprire l’ufficio di ministro della Giustizia”, fu la replica della vedova Mattarella.
Onorevole Martelli, abbiamo contestualizzato, ora a lei la parola.
La ricordo bene quella polemica, intervenni dopo a pochi giorni dall’omicidio Lima, perché nella Dc si stava facendo spazio questa sorta di accostamento poco giudizioso tra la morte di Salvo Lima e le altre vittime della mafia.
Ma lei parlò di Piersanti Mattarella…
Certo, ma non vi fu nessuna aggressione né alla sua memoria, né alla famiglia. Mi concentrai su una distinzione netta tra Piersanti Mattarella e La Torre. Il primo aveva combattuto la mafia contrastando il sistema di potere all’interno del suo partito, Lima, Gioia, Ciancimino, e per questo forse fu ucciso. La Torre, no, la sua fu una battaglia dura, netta, contro Cosa nostra e i suoi legami politici.
Lei tirò in ballo la figura di Mattarella padre, Bernardo, definendolo “il leader politico che traghettò la mafia siciliana dal separatismo, alla Dc”, e Sergio Mattarella bollò il suo livello come “miserabile”.
Non mi sono mai inventato accuse nei confronti di Bernardo Mattarella. Le cose che dissi all’epoca le presi dalla relazione di minoranza presentata dal Pci in Antimafia e firmata da Pio La Torre.
Era il 1976…
Ricordo bene… aspetti che ho qui la relazione, pagina 575, La Torre analizza il passaggio di campo della mafia dal 1948 al 1955, proprio gli anni in cui cresce il potere di Mattarella padre. “La Regione siciliana fu impiantata da uno schieramento politico che era l’espressione organica del blocco agrario e del sistema di potere mafioso”. Nella pagina precedente La Torre spiega “verso quali forze politiche si orientarono le cosche mafiose” dopo il tramonto del separatismo. Una parte, fu la risposta, “si orientò verso la Dc… uomini come Aldisio, Milazzo, Alessi, Scelba, Mattarella… era la doppia anima della politica che la Dc seguirà negli anni successivi: da un lato, un programma di riforme e di sviluppo democratico e dall’altro un compromesso con i ceti parassitari isolani”. All’epoca della polemica o Sergio Mattarella non aveva capito o faceva finta di non capire.
Mattarella padre artefice, insieme agli altri, del passaggio di pezzi del potere mafioso dentro il grande alveo della Dc. Una grande operazione politica, paragonabile a quella che nel 1987 fecero i socialisti, con lei tra i leader più influenti. Ricorda il boom elettorale in Sicilia?
Fummo messi in croce per quei voti proprio dagli esponenti del sistema di potere siciliano.
Aspetti, onorevole, in quell’anno il Psi aumenta del 6-7% a Palermo, a Ciaculli e Croceverde, borgate mafiose, il suo partito esplode, nel regno del boss Michele Greco, il Papa, dal 5% passate al 23 e la Dc perde il 20%.
Ma è assurdo, in quell’anno il Psi ebbe ottimi risultati a Napoli, a Bari, in tutto il Sud. A Bologna aumentammo del 6%... ”.
Fu anche l’effetto del referendum sulla responsabilità civile dei giudici. Certi ambienti apprezzarono.
Forse qualcuno, anche nel mio partito, cavalcò l’equivoco. Io no. La prima persona che volli incontrare a Palermo fu Giovanni Falcone, ricordo che Marco Pannella mi invitò a fare degli incontri all’Ucciardone, io rifiutai perché non volevo equivoci sulla mia strada.
Come giudica Sergio Mattarella oggi?
È un uomo che merita rispetto. Quella foto del 6 gennaio 1980 è l’immagine di un dolore indicibile, instancabile, che non passa mai. È una sorta di battesimo, una vocazione originaria. Ma la santificazione no, non mi piace. Aspettiamo. Sergio Mattarella è stato un uomo di partito, di corrente, di polemiche aspre. È stato l’uomo che all’indomani del ribaltone che defenestra Romano Prodi diventa il vicepresidente del Consiglio con D’Alema. E anche quelle dimissioni dal governo sulla legge Mammì, aspetterei a leggerle come una scelta ideale, diciamo che furono ordini di corrente ai quali Mattarella e altri ministri ubbidirono.
Lei è stato al governo con Mattarella un anno, che rapporti avevate?
Mai una polemica, ma neppure amicizia. Eppure ero il ministro della Giustizia, lui era siciliano, forse qualche scambio avremmo potuto averlo. Pazienza.
E oggi, che succederà con Mattarella presidente della Repubblica?
Leggo tante cose, c’è chi lo vuole capace di resistere a Renzi, chi invece lo vede legatissimo al premier. Renzi è stato abile, si è coperto a sinistra con Vendola e ha costruito una maggioranza preventiva sul nome di Mattarella stringendo Alfano in un angolo. C’è una forte tendenza al partito unico, un grande partito di centro che assorbe la sinistra, ne contiene un’ala. Così si chiude la strada ad ogni alternativa e si costringe la destra ad estremizzarsi.

La Stampa 2.2.15
A dispetto delle promesse del premier, tutti i voti si sono resi riconoscibili

La sera di giovedì Renzi aveva promesso: «Non voglio schede siglate, massima libertà per tutti i gruppi». Non è stato così, a giudicare dai resoconti della votazione a Montecitorio. Il Pd si sarebbe diviso in tre segnature diverse, una i deputati, una i senatori, una terza i giovani turchi. Tutti si sono resi riconoscibili al loro segretario. «Mattarella» avrebbe scelto di segnare il gruppo Pd alla Camera (343 voti). «Mattarella S.» sarebbe invece - secondo diverse fonti - la scelta dei Giovani turchi del Pd (61 voti). «Sergio Mattarella» avrebbe invece votato il gruppo Pd del Senato (130). Sel ha votato «On. Sergio Mattarella»: onorevole, nome e cognome (28 voti). «On. Mattarella»: onorevole, ma senza nome, solo cognome, hanno deciso i 35 grandi elettori di Ncd, per i quali era politicamente fondamentale farsi riconoscere da Renzi. Infine, «Mattarella Sergio» dovrebbe esser stata la decisione presa dall’Udc. Ci sono dei voti di gruppi più piccoli, «Sergio on. Mattarella» (6), e alcuni semi singolari (prof Sergio Mattarella, 2), on. prof. Sergio Mattarella (2). E c’è Mattarella on. Sergio: chi ha scritto, da solo, così, ci teneva tanto a far sapere chi fosse. [R. I.]

il Fatto 2.2.15
Le impronte sul Colle
Pasquino, politologo ed ex senatore dei Ds: “Sgradevole cifrare il proprio voto”
“Le schede segnate? Vanno vietate”
di Gianluca Roselli

Questo controllo del voto adottato dai partiti è un esempio di cattiva politica. Sulla scheda si dovrebbe scrivere solo il cognome del candidato”. Il giorno dopo l’elezione di Sergio Mattarella, il professor Gianfranco Pasquino, politologo ed ex senatore dei Ds, condanna il fenomeno dei voti cifrati, che sabato l’ha fatta da padrone nel conteggio delle schede. Voti “firmati” in cui si sono contati i partiti e le correnti al loro interno, come i giovani turchi del Pd. Ma anche i consensi azzurri giunti in soccorso al nuovo capo dello Stato.
Professore, ha visto: “Mattarella”, “Sergio Mattarella”, “Mattarella S. ”, ecc…?
Paradossalmente le dico che, visti i famosi 101 traditori di Romano Prodi, forse è meglio così. Per lo meno c’è più trasparenza. In realtà, il fatto che i partiti e i parlamentari usino questo sistema per controllarsi a vicenda è sgradevole e poco edificante. Lo accetto, ma prendo atto dell’incapacità dei parlamentari di assumersi le loro responsabilità. È una brutta politica che, però, in questo caso ha dato buoni frutti, perché Mattarella è il miglior presidente possibile nelle circostanze date.
Il fenomeno dei voti riconoscibili non vìola la Costituzione, che parla di voto segreto?
Si dovrebbe cambiare il regolamento e obbligare a scrivere solo il cognome. Detto questo, non vìola la Costituzione perché il voto non è riconducibile al singolo parlamentare, ma al massimo a gruppi di deputati o senatori.
È giusto su alcune votazioni mantenere il voto segreto?
Assolutamente sì, perché va difesa la libertà del parlamentare, che deve poter votare secondo coscienza. In questo caso difendo il diritto dei forzisti di dare il voto a Mattarella contro l’indicazione di Berlusconi. Inoltre, il voto segreto tutela il votante nei confronti del votato. Il quale, una volta eletto, e dalla sua posizione di potere, potrebbe in qualche modo vendicarsi. Ma le voglio raccontare un aneddoto.
Prego.
Nel 1994, quando ero senatore, a Palazzo Madama si doveva eleggere il presidente. Carlo Scognamiglio prevalse per un voto su Giovanni Spadolini, con una scheda contestata in cui c’era scritto “ScognaMIGLIO”. Tra l’altro, senatore all’epoca era anche il professor Gianfranco Miglio. Era chiaramente una scheda “firmata”. Che fu ritenuta valida permettendo a Scognamiglio di essere eletto.
Parliamo dell’elezione. Forza Italia ha contestato il metodo di Renzi…
Il metodo è stato assolutamente trasparente. Sia da parte di Renzi, che ha indicato Mattarella. Sia da parte di Berlusconi, che ha scelto di votare scheda bianca. Le obiezioni del leader di Forza Italia sono fuori luogo. Se il premier avesse proposto una rosa di nomi, avrebbe concesso all’ex Cavaliere, che sta all’opposizione, di scegliere il capo dello Stato. Le sembra giusto?
Dopo l’elezione di Mattarella, il patto del Nazareno continuerà?
Innanzitutto credo che il patto non contenesse il nome del capo dello Stato, ma il fatto di discuterne. Il Nazareno è al capolinea non per i fatti di questi giorni, ma perché ha già dato tutto quello che doveva dare: le riforme istituzionali e la legge elettorale. Si è, come dire, esaurito.
L’Italicum arriverà a breve al vaglio del Quirinale...
Oltre ad avere la solida cultura politica della sinistra diccì, Mattarella dà garanzia di autonomia e indipendenza, anche rispetto a Renzi. Quando dovrà dire dei no, lì dirà, ma non in maniera rumorosa e senza rompere il delicato equilibrio tra le istituzioni. Vedremo come si comporterà nel giudicare una legge elettorale nettamente inferiore alla sua.
Quanto durerà la ritrovata unità nel Pd?
Il premier ha fatto bene a ricompattare il partito su una scelta importante come quella del capo dello Stato. Ora dipenderà dalle scelte del governo. Non credo che le diverse minoranze del Pd faranno sconti a Renzi perché è stato eletto Mattarella…
Professore, il suo giudizio su Renzi è migliorato?
Io rimango antropologicamente anti renziano. Non mi piace il suo modo di fare e non mi piace il lessico mediocre. Ho sempre apprezzato, invece, la sua sfida alla vecchia classe dirigente del Pd. Alla cosiddetta “ditta”. Il premier è un abile equilibrista. Bisogna però dargli atto che finora è riuscito a ottenere tutto quello che voleva e ha inanellato una serie di successi non marginali. Tra cui l’elezione di Mattarella.

La Stampa 2.2.15
Boschi: avanti col decreto fiscale, non è salva-Silvio ma per tutti
Il ministro annuncia che il tema verrà riproposto:
di Fabio Martini
qui

il Fatto 2.2.15
Regali in arrivo
Silviostaisereno: “Il 3% per tutti gli italiani”
Boschi consola B. “La Salva Silvio serve all’Italia”
Favori fiscali post-Quirinale: mentre Renzi prova a smentire il Patto del Nazareno, la sua ministra confessa
“Non si può fare o non fare una norma che riguarda tutti i cittadini perché riguarda anche B.”
di Wanda Marra

La norma inserita nel decreto fiscale non è a favore di Berlusconi, ma riguarda tutti. Il 20 febbraio riaffronteremo il tema. Ma che non sia una norma per B. lo dimostra il fatto che in Francia hanno una norma uguale, con una soglia più alta, non del 3% ma del 10% di non punibilità dell’evasione fiscale ai fini penali”. Il giorno dopo la “grande vittoria” con la quale Renzi ha portato Mattarella al Colle, Maria Elena Boschi, a L’Arena chiarisce che la questione Salva Berlusconi è ancora sul tavolo. Peraltro, la Boschi sembra dimenticare che la legge francese mette una doppia soglia: o il 10% dell’imponibile o 153 euro. Il Ministro torna dunque sulla norma che cancella i reati di evasione e frode fiscale se le tasse sottratte al fisco sono inferiori al 3% del reddito dichiarato. Come primo effetto l’ex Cavaliere potrebbe chiedere la revoca della sentenza di condanna per frode fiscale nel processo Mediaset, quella che lo ha fatto decadere da senatore per la legge Severino, cancellando così anche la pena accessoria e l’interdizione che gli avrebbe impedito la ricandidatura fino al 2018.“Non credo si possa fare o non fare una norma che riguarda 60 milioni di italiani perché riguarda anche Berlusconi”, sottolinea la Boschi. Prima dell’inizio della partita per il Colle, il premier aveva rimandato tutto a dopo. Al 20 appunto. Adesso dovrà decidere cosa fare. Tra i punti “attenzionati” proprio la soglia del 3%: difficile però che il premier possa decidere di alzarla, visto che è stata fatta e modulata per i grandi gruppi industriali. Da capire se cambieranno i reati: una delle ipotesi è cancellare la frode fiscale, tagliata appositamente sull’ex Cav. Nessuna marcia indietro ufficiale per ora: il 20 è la prima data utile per capire quanto ancora Renzi abbia intenzione (ma soprattutto necessità) di rinsaldare il Patto del Nazareno. Si vedrà se ha ragione Bersani, secondo il quale l’elezione di Mattarella è stata “un colpetto” al Patto. Mentre Alfano prova ad avvertire: “Al governo, faremo sentire la nostra voce”.
IN QUESTA PARTITA c’è un nuovo protagonista: il neo presidente della Repubblica. Che ieri, non a caso, ha passato un’ora con Napolitano: si è fatto spiegare e raccontare quali ostacoli il Quirinale deve affrontare, come sono i rapporti con Palazzo Chigi, a che punto è il percorso delle riforme. I decreti attuativi della delega fiscale arriveranno presto sulla sua scrivania: firmerà? Chi lo conosce bene lo racconta come un uomo molto preciso, anzi pignolo, molto attento agli equilibri politici, ma anche agli aspetti istituzionali e costituzionali. Vedremo. In arrivo prossimamente i decreti attuativi del jobs act e il milleproroghe. E poi, c’è tutta la partita delle riforme. L’Italicum deve tornare alla Camera: in Senato è passata la versione dei capilista bloccati nei collegi, nonostante l’opposizione della minoranza bersaniana. Ringalluzziti dal ruolo giocato nella partita per il Colle, Bersani & co. annunciano battaglia a Montecitorio. Anche qui, da vedere come si comporterà il nuovo Presidente, che peraltro è il padre del Mattarellum, legge da molti rimpianta, che prevedeva i collegi uninominali e una quota proporzionale. Renzi nella presentazione della candidatura ai Grandi elettori Pd l’ha quasi presentato come un antesignano della nuova legge elettorale. In realtà, la filosofia era diversa. Infine, le riforme costituzionali, adesso alla seconda lettura alla Camera. Come si comporterà il costituzionalista Mattarella di fronte ad alcune evidenti forzature?

Repubblica 2.2.15
Un premier liquido per tempi liquidi
di Ilvo Diamanti

SERGIO Mattarella e Matteo Renzi. I due Presidenti. Formano una strana coppia, tanto sono diversi e lontani. Anche se, fra i due, c’è un filo politico e culturale comune.
MATTARELLA è stato e resta un democristiano — di sinistra. Uno di quelli che si definiscono — e vengono definiti — cattolici democratici. Renzi, invece, è post-democristiano. Interpreta un modello di (post) democrazia personalizzata e mediatizzata. Dove i partiti contano meno perché, in fondo, si sono liquefatti. Per questo l’elezione di Mattarella permette di precisare il tipo di leadership e di democrazia interpretati da Renzi. Leader dei tempi liquidi, al tempo della democrazia liquida. Secondo la nota formula di Zygmunt Bauman. Cioè: senza appigli stabili e senza riferimenti coerenti. In continua evoluzione e ri-definizione. Renzi ne ha fatto un ambiente amico. Dove agisce e decide, perlopiù, da solo.
Il confronto con la precedente elezione presidenziale, nell’aprile 2013, risulta, al proposito, esemplare. Allora, le elezioni politiche avevano fatto emergere un Parlamento diviso in tre grandi minoranze politiche. In-comunicanti e divise anche al loro interno. Pd, Pdl e M5s. L’elezione del Presidente ne ha fornito una prova decisiva. Ha, infatti, dimostrato che si era alla fine di una stagione in-finita. Il Berlusconismo. Una storia chiusa, ancora nel 2011. Senza che ancora se ne fosse preso atto. Riproponendo gli stessi riti e le stesse procedure. Come se il mondo fosse lo stesso di prima. Diviso in due. Pro oppure contro. Berlusconi. Come non fosse avvenuta l’irruzione del M5s. Veicolo della frattura fra società, politica e istituzioni. Così è stata bruciata la candidatura di Franco Marini, ex leader della Cisl e della Sinistra Dc. Ma, soprattutto, si è consumata la candidatura di Romano Prodi. Padre dell’Ulivo e del Pd. In aula. Per mano dei franchi tiratori del Pd. Molti più dei 101 di cui si è parlato. In questo modo è finita la finzione. Che si potesse continuare come prima. Con le stesse logiche di “partito”. Quando i partiti erano finiti, insieme ai loro riferimenti. Crollati, insieme al muro di Arcore. La “proroga” di Napolitano al Colle segna questo passaggio in-compiuto. Perché è una nondecisione . In attesa di tempi diversi. Leader diversi.
Due anni dopo, quei tempi sono maturati. Tempi liquidi. Segnati da partiti liquidi. Le tre grandi minoranze, uscite dal voto del 2013 non esistono più. Non sono più grandi come prima. Due di loro, almeno. Il Popolo delle Libertà, si è diviso in diversi popoli. Forza Italia, guidata da Berlusconi. Il Nuovo Centro Destra guidato da Alfano. Entrambi, peraltro, proprio in questa fase si sono scomposti ulteriormente. Mentre il M5s si è, a sua volta, frazionato, in Parlamento. Ormai non è chiaro quanti siano i “fedeli” a Grillo e Casaleggio. E quanti parlamentari abbiano defezionato. Quel che resta del Centro, infine, si è riunito in un’altra sigla: Alleanza Popolare. Ma, in effetti, appare una periferia del PdR. Il Pd di Renzi. Il principale, se non unico, vero “partito” di governo. Sfidato, solamente, da partiti anti-europei e anti-politici. M5s e la Lega di Salvini, per primi. Tuttavia, lo stesso Pd non si presenta unito. È “geneticamente” diviso. Negli ultimi mesi, minacciato dalla tentazione della sinistra interna di integrarsi con Sel. Per formare una sorta di Tsipras all’italiana.
Ripercorro fatti e avvenimenti noti. In modo disordinato e superficiale. Ma in grado, anche così, di rendere più evidente il segno di questa Repubblica. Di questa democrazia. Liquida. Senza schemi né riferimenti stabili. in questo ambiente immateriale e frammentario Matteo Renzi ha affermato la propria leadership. In Parlamento e fra gli elettori. Renzi, come si è detto fin dal suo esordio, è “veloce”. Mimetico. Spregiudicato. Spietato, se necessario. Ha stabilito, da subito, un dialogo con il Nemico. Berlusconi. Un Patto, si è detto, intorno alle riforme istituzionali e alla riforma elettorale. Ma poi ha proceduto diritto al “suo” scopo. Scegliendosi di volta in volta i nemici prima ancora degli amici. A Destra e a Sinistra. Il Centro l’ha assorbito subito.
Così, ha avviato e impostato le riforme con alleati diversi. Il Jobs act e l’abolizione del Senato elettivo. Fino alla riforma elettorale. L’Italicum. Di cui è difficile delineare i contorni, dopo tante mediazioni e riscritture. Modellando, di volta in volta, maggioranze à la carte. Di volta in volta diverse, a seconda dei casi e degli obiettivi. Primo alleato: Berlusconi. Formalmente all’opposizione ma, puntualmente, a sostegno delle maggioranza, nelle occasioni che contano. Fino a ieri. Cioè, fino all’elezione del Presidente della Repubblica. Sergio Mattarella. Che non piace a Silvio Berlusconi. Per ragioni “storiche”, trattandosi di un “cattocomunista”. A suo tempo, ostile alla legge Mammì. Ma anche per ragioni “politiche” legate al presente. Anzi, al “momento”. Perché Renzi l’ha scelto senza consultarlo. Senza accordarsi con lui. E, in fondo, senza consultare nessuno. Così ha “liquefatto” ulteriormente Fi, Ncd e M5S. Ma ha riunito — e solidificato — il Pd. E la Sinistra, con cui il Pd si era alleato alle elezioni politiche del 2013.
Da ciò la differenza rispetto al 2013, quando l’elezione del Presidente aveva sancito l’impotenza del Pd e della sua leadership. Avviandone la crisi. La scelta di Mattarella, invece, oltre che al Paese, è utile a Renzi. Perché lo rafforza. Lo àncora alla storia politica del Centrosinistra, mentre lo dis-àncora da ogni alleanza stabile. Fuori e dentro il partito.
Renzi: è il premier dei tempi liquidi. Un “premier liquido”. Capace di cambiare forma. E di adattarsi a un sistema politico liquefatto. Renzi. Solo e veloce. Senza veri amici (politici). Questa è la sua forza. Ma anche il suo problema. Perché non ha vincoli. Ma neppure appigli e approdi stabili. Non ha neppure futuro. In questi tempi liquidi: esiste solo il presente. Ogni giorno: un porto nuovo. Un equipaggio diverso. E nuove insidie, nuovi nemici. Il viaggio potrebbe diventare faticoso. E rischioso. Anche per un navigatore liquido.

La Stampa 2.2.15
Geloni: “Grazie Renzi, è abile. Al limite moriremo popolari”
L’ex direttrice di YouDem “riabilita” il premier
intervista di Francesco Maesano

Un pranzo al ristorante a due passi dal Pantheon, cinque minuti a piedi da Montecitorio; Mattarella è stato appena eletto Presidente. Una foto dei commensali ritrae un pugno di ex-popolari, raccolti nel ritrovo storico della sinistra Dc alla fine degli anni ’80. Da Pistelli a Franceschini. E Chiara Geloni.
Geloni, di che avete parlato?
«Niente di programmato. Era ora di pranzo. Qualcuno ha detto: “Andiamo da Settimio, come avrebbero fatto quelli della sinistra Dc”. Un brindisi e un piatto di pasta per festeggiare».
Un pranzo di corrente?
«Ma quale corrente, a tavola c’erano persone che hanno fatto scelte molto diverse come Renzo Lusetti. Altri, anche interni al Pd, che appartengono a correnti diverse. Quando capita che un amico diventi presidente della Repubblica fa piacere, mi creda».
“Amico” alla democristiana?
«Esatto, (ride ndr) anche perché più che amica io, come altri a quel tavolo, mi considero una figlia di Mattarella».
Quando vi siete incontrati la prima volta?
«L’ho conosciuto che ero volontaria all’ufficio stampa dei Popolari e lui era capogruppo. Da allora era ed è rimasto un punto di riferimento».
E ora se lo ritrova al Quirinale.
«Già, ed è un risultato del quale sono riconoscente a Renzi».
Ha cambiato giudizio su Renzi che lei ha attaccato sistematicamente su twitter?
«In questa vicenda trovo che sia stato molto abile. Ha costruito un risultato che per me è bellissimo. Parliamo di un uomo dallo straordinario valore, rigore, umanità, che sarà un ottimo Presidente».
Il Pd ora è più unito?
«Ha dimostrato che in questa legislatura, quando è unito, può fare tutto ciò che vuole».
Anche smettere di litigare?
«Stavolta la minoranza Pd è riuscita a farsi riconoscere un ruolo».
È come dice Rosy Bindi, questa volta Renzi si è fatto aiutare?
«Mattarella era la prima scelta di Bersani due anni fa, quindi quando lo ha riproposto non ha incontrato difficoltà con la minoranza Pd. È stato lo stesso Renzi a rimarcare una continuità con le decisioni prese in passato».
Improvvisamente Renzi le piace. Cambieranno davvero le cose tra Renzi e la minoranza?
«Se Renzi avesse sempre parlato in questo modo, sottolineando l’importanza di ripartire da dove si era arrivati in precedenza, parlando di pluralismo, autonomia del partito e centralità del Parlamento, oggi non avrei difficoltà ad essere più renziana di come sono».
Nessuna paura di morire democristiani?
«Non è stata una vittoria dei democristiani. Mattarella è un democratico a tutti gli effetti. Un protagonista della seconda repubblica».
E un prodotto della prima.
«Si ma è nella seconda che ha inciso: dalla riforma elettorale che ha costruito il bipolarismo alla nascita del Ppi. Al limite moriremo Popolari. Però è bello, ed è sempre meglio che essere impopolari».

La Stampa 2.2.15
Bersani in tv da Fazio
«Matteo ha tempo per migliorare»

«Renzi è spregiudicato o fuoriclasse? È molto agile, ha delle grandissime capacità e ha anche tempo per migliorare». Lo ha detto Pier Luigi Bersani a Che tempo che fa rispondendo a una domanda di Fazio sulle caratteristiche del premier. «Questi passaggi - ha poi aggiunto riferendosi all’elezione del capo dello Stato - lo aiuteranno a migliorare le sue capacità». Bersani ha anche spiegato che «bisogna avere le ambizioni proporzionate alle capacità e non sempre è così».

il Fatto 2.2.15
Pier Luigi Bersani
L’Italicum si può cambiare

Pier Luigi Bersani, ex segretario del Pd e a capo di una pattuglia parlamentare che non ha fatto scherzi a Renzi per l’elezione al Colle di Sergio Mattarella, ieri era ospite di Che tempo che fa e si è detto convinto di poter modificare la legge elettorale approvata al Senato con i voti di Fi e senza quelli di una parte del Pd. “Alla Camera già l’altra volta fu approvata ed il nostro capogruppo disse che noi chiedevamo che si riflettesse su due o tre questioni. La riflessione è stata tranne che sul tema base dei capilista bloccati: una cosa che per per molti di noi è ingiusta, e anche squilibrata. Sono fiducioso che si possa correggere".

Repubblica 2.2.15
Guglielmo Epifani
“Il premier cerchi l’unità sulla legge elettorale, la sinistra non trama con Fi”
intervista di Giovanna Casadio

ROMA . «Prendiamoci una tregua nel Pd, dopo il successo sul Quirinale. Sulla riforma elettorale ci sono le frizioni più forti, ma riflettiamo senza fretta, perché il tempo c’è. Renzi utilizzi sempre il “metodo Mattarella”». Gugliemo Epifani, ex capo della Cgil, ex segretario dem e leader della minoranza, mette in guardia anche da un altro rischio: che Forza Italia usi strumentalmente il dissenso della sinistra del Pd per sgambettare il premier: «Noi non ci faremo strumentalizzare, i forzisti lo sappiano...».
Epifani, la ministra delle Riforme Maria Elena Boschi chiede una moratoria delle polemiche nel partito di almeno una settimana. La minoranza dem ci sta?
«Se possibile anche più di una settimana. Proporrei che una settimana serva a tutti per riflettere su come, abbandonando un po’ di pregiudiziali, si continui con lo stesso “metodo Mattarella”. È il secondo grande momento di unità politica del Pd degli ultimi tempi: il primo fu il risultato eccezionale alle europee, l’altro è stato sabato con l’elezione di Mattarella al Colle».
Merito di Matteo Renzi?
«In entrambi i casi, fatto salvo il ruolo e la capacità di Matteo che sono fuori discussione e insieme l’alto profilo del presidente della Repubblica, è stata decisiva l’unità del partito. Quindi prendiamoci questa settimana per vedere come sia possibile evitare i punti di frizione nel Pd».
Però sulle riforme elettorale e costituzionale farete valere le vostre ragioni, ricomincerà lo scontro?
«Il punto più delicato che vedo davanti a noi è quello della legge elettorale. Però abbiamo un po’ di tempo per ragionarci sopra e vedere se riusciamo a trovare una via d‘uscita che eviti di nuovo polemiche e contrapposizioni. Nessuno oggi potrebbe capirle. Anche perché nessuno oggi sa quale sarà l’atteggiamento di Forza Italia sul cammino delle riforme».
Se viene meno il Patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, la sinistra dem avrà più voce in capitolo?
«Era evidente che del Patto del Nazareno c’erano due letture. Renzi ha sempre detto che si trattava di un accordo per allargare il fronte delle riforme. Mentre Berlusconi e FI, l’altro contraente del Patto, forzavano in termini più politici. Fino a qualche giorno fa, il centrodestra lasciava filtrare la possibilità di un governo con ministri forzisti. Ora si è visto cos’è davvero il Patto del Nazareno. Noi minoranza al Senato abbiamo rimproverato Renzi sulla legge elettorale, ma non uniremmo mai i nostri voti a quelli dei forzisti per fare trabocchetti. Così come bisogna che la maggioranza di governo resti quella definita».
È scoppiata la pace nel Pd?
«L’indicazione di Mattarella per il Quirinale ha avuto quasi i due terzi dei voti, malgrado le prese di posizione dell’opposizione. E ha avuto la sostanziale unanimità dei Grandi Elettori del Pd. Un fatto mai accaduto perché erano 444 e credo che non sia mancato un voto a Mattarella. Anche le reazioni dei nostri circoli, della base sono di soddisfazione e contentezza. L’Ita- lia aveva gli occhi della comunità internazionale addosso. Questa prova di maturità il paese l’ha vinta».
Quale è il dividendo che incassa la sinistra del Pd?
«Direi piuttosto che quanto è accaduto con l’elezione del presidente della Repubblica è la conferma che in un grande partito il pluralismo è insopprimibile. È la ricchezza del Pd. Quando ci si ascolta davvero, il Pd è più forte e il paese, in una fase come questa, è rassicurato».
Anche lei insomma è diventato renziano?
«Le qualità e le capacità di Renzi sono fuori discussione. Il problema è che il Pd deve sapere interpretare, oltre la spinta al rinnovamento, anche le ragioni e i valori della sinistra riformista ».
Ma quali sono i problemi sul tavolo, su cui la sinistra dem batterà un colpo?
«Ora si deve rilanciare l’azione di governo sulle questioni sociali e economiche aperte. Penso alla situazione dell’Ilva, delle tante crisi aziendali, ai contraccolpi della vicenda greca sui mercati finanziari, alla capacità di far davvero ripartire in Italia e in Europa un ciclo di investimenti. Infine la crisi ha allargato la fascia di povertà e di esclusione sociale e questo tema deve diventare centrale nell’azione del Pd».

Corriere 2.2.15
Guerini: era il voto sul Colle, non il congresso pd
Nessuno avrà contropartite da incassare
intervista di Monica Guerzoni

ROMA Diamo a Guerini quel che è di Guerini?
«Nessun merito, l’idea di Mattarella è di Renzi. Abbiamo eletto alla quarta votazione, come ci eravamo prefissati, una figura prestigiosa, saggia e autorevole, riscattando le pagine del 2013 sia come Parlamento, sia come Pd».
Vicesegretario, la ferita dei 101 è chiusa?
«Si è rimarginata e credo lo si debba al lavoro di capacità e intelligenza che ha condotto Renzi e che è stato poi sostenuto da tutto il Pd».
Enrico Letta ha sottolineato il ruolo di Bersani, che «ha giocato per il Paese e non per se stesso».
«Non personalizzerei. Tutto il partito e tutto il gruppo dirigente hanno ben lavorato per costruire la massima unità accompagnando il lavoro più importante, che è stato compiuto da Renzi. Se traduciamo questo passaggio dentro le dinamiche interne del Pd rischiamo interpretazioni fuorvianti».
La minoranza vuole cambiare i capilista bloccati. Con Mattarella certe «sciocchezze incostituzionali» non passeranno, avverte Bersani.
«Non è stata una frase molto felice, se pronunciata».
Togliamo il «se», lo ha detto al Corriere .
«Non è stata fatta alcuna sciocchezza incostituzionale. All’Italicum il Pd ha dedicato ore di confronto in tutte le sedi, formali e informali. Possiamo approvare una legge con il doppio turno, le soglie di accesso e i collegi piccoli, il risultato è alla nostra portata».
Senza cambiarla alla Camera?
«Non voglio comprimere il dibattito, ma l’impianto su cui abbiamo costruito con tanti sforzi un accordo va salvaguardato. Voglio essere chiaro. Non abbiamo fatto il congresso del Pd, abbiamo eletto il capo dello Stato. Un risultato straordinario che deve essere riconosciuto a chi ha guidato questo processo dentro il Pd, Renzi».
Mattarella userà i «superpoteri» di Napolitano?
«Non ci sono state fasi di eccezionalità, né forzature. Mattarella sarà chiamato a confrontarsi con una fase che può avere dinamiche diverse e saprà usare sapientemente le funzioni che la Costituzione gli attribuisce».
Il voto del Quirinale cambia la maggioranza?
«La maggioranza resta quella che è, io non vedo cambiamenti all’orizzonte rispetto all’elezione del presidente della Repubblica. Sul metodo, che pure era noto, c’è stata probabilmente qualche incomprensione, ma sul merito il voto del Parlamento ha mostrato una condivisione ampia».
Il Ncd di Alfano invoca una verifica di governo.
«La verifica è un rito antico. Abbiamo messo in campo una stagione di riforme e ci sono tutte le condizioni per andare avanti insieme fino al 2018, con ancora più forza. La verifica si fa confrontandosi sul merito delle questioni».
Il rimpasto coinvolgerà la minoranza del Pd?
«Il Pd nella sua unità sostiene il governo, non inventiamoci cose che non ci sono».
Finocchiaro nuovo ministro agli Affari Regionali?
«Non so, è una scelta che compete al premier. Non sta a me valutare ipotesi che non sono state ancora manifestate».
L’apporto di Sel verrà ripagato sul piano dei diritti?
«Assolutamente no, non c’è niente da ripagare. Sel è un partito di opposizione con il quale c’è un confronto importante. Il tema dei diritti è nell’agenda del governo assieme ad altre questioni come l’attuazione della delega lavoro, la riforma fiscale, le politiche per la crescita... Non ci sono contropartite da incassare».
Il tetto del 3% alla frode fiscale per Berlusconi?
«Assolutamente no».
E il Patto del Nazareno?
«Per noi va avanti, chiarendo che l’accordo riguarda riforma costituzionale e legge elettorale. L’elezione di Mattarella ha dimostrato che non esiste nessuna ipotesi maliziosamente avanzata in questi mesi».
E se Forza Italia farà mancare i voti sulle riforme?
«Con il contributo sostanziale di Forza Italia abbiamo fatto passi importanti per rendere più moderno il sistema istituzionale. Far saltare quel tavolo ora che le riforme sono alla portata sarebbe contro l’interesse del Paese».

Corriere 2.2.15
La maggioranza degli italiani resta scettica sulle chance di uno Tsipras in casa nostra
di Nando Pagnoncelli

La vittoria di Tsipras alle elezioni greche di domenica scorsa ha suscitato reazioni molto diversificate nell’opinione pubblica italiana a seconda della prospettiva con cui si guarda al risultato. In una prospettiva europea l’affermazione della sinistra radicale di Syriza è considerata in termini positivi da oltre la metà degli italiani (per il 24% un’ottima notizia e per il 30% una buona notizia) perché indurrà l’Europa a ridiscutere le proprie regole, così che, insieme ai provvedimenti recentemente adottati (piano di investimenti) e alle scelte della Banca centrale (Quantitative easing), si pongano le basi per una ripresa; un italiano su tre è di parere opposto e ritiene che i Paesi indebitati non debbano allentare la politica del rigore e siano tenuti a mettere in ordine nei conti pubblici.
La possibilità di ridiscutere il debito greco potrebbe mettere in difficoltà anche l’Italia che ha prestato alla Grecia 40 miliardi di euro e questa eventualità suscita, comprensibilmente, più dissenso (59%) che consenso (30%) tra tutti i cittadini, anche tra coloro che hanno giudicato positivamente la prospettiva di un cambiamento europeo. Come a dire: è bene che l’Europa cambi le regole ma non vogliamo che l’Italia ci rimetta. Insomma, è l’eterno effetto NIMBY (non nel mio cortile). Piuttosto desta sorpresa il fatto che quasi un italiano su tre sia favorevole alla ridiscussione del debito greco anche se l’Italia, che non versa certamente in buone condizioni di salute, ci rimetterà. È molto probabile che costoro si attendano una sorta di effetto domino e, dopo quello greco, auspichino la ridiscussione anche del debito italiano nei confronti degli altri Paesi, incuranti del fatto che qualcuno rimarrà con il cerino acceso in mano.
Quali ripercussioni potrebbe avere il risultato ellenico sulla politica italiana e in particolare sul Pd, nel quale è sempre più evidente il dissenso della minoranza nei confronti di Renzi dopo la discussione sulla nuova legge elettorale e quella sulla politica del lavoro con l’approvazione del Jobs act? Solo il 15% ritiene che l’effetto Tsipras possa galvanizzare la minoranza favorendo una scissione del Pd che dia vita ad una forza di sinistra; il 31% ritiene probabile l’uscita dal partito di qualche esponente che sostanzialmente non indebolirà il Pd, mentre la maggioranza relativa dei rispondenti (41%) prevede che le divergenze verranno ricomposte e il partito rimarrà unito. Sono di questo parere soprattutto gli elettori del centrosinistra (51%). Solamente i giovanissimi e gli studenti sono maggiormente convinti della possibile scissione.
La possibilità che in Italia nasca una forza politica simile a Syriza che unisca le forze di sinistra come Sel e Rifondazione comunista insieme ad eventuali esponenti usciti da Pd e possa contare sul sostegno delle aree sindacali di Cgil e Fiom viene vista con un certo scetticismo: il 37% pensa che sarà un flop (in diminuzione del 3% rispetto al novembre scorso), il 27% ritiene che otterrebbe poco più del consenso attuale delle forze di sinistra (alle Europee la lista L’altra Europa con Tsipras ha ottenuto il 4% e 3 parlamentari) mentre il 22% prefigura un risultato positivo (+2% su novembre).
Da ultimo, sull’onda del successo greco e dell’insoddisfazione per la situazione italiana, l’interesse per questa nuova forza politica appare in crescita rispetto a novembre: il 12% guarderebbe ad essa con molta simpatia, il 31% con qualche simpatia mentre il 42% non avrebbe alcuna simpatia. Va ricordato che non si deve confondere la simpatia con il comportamento di voto. Cionondimeno il consenso convinto o almeno tiepido sale dal 32% al 43% in poco meno di tre mesi. A differenza di quel che accadeva in novembre, quando la simpatia risultava più elevata tra i certi più esposti alla crisi (disoccupati, casalinghe, anziani), oggi i picchi di attenzione per questa nuova formazione si registrano tra i giovanissimi, i ceti medi, gli studenti, cioè tra i ceti storicamente più propensi al voto a sinistra.
Il voto greco ci restituisce un’opinione pubblica fiduciosa rispetto alla ridefinizione delle politiche comunitarie, al futuro rapporto tra Stati membri e alla possibilità di attenuare l’austerità per favorire la crescita. Ma è un’opinione pubblica ambivalente sulla possibile scorciatoia della ridefinizione dei debiti tra gli Stati, soprattutto se a rimetterci sarà l’Italia.
Pur aumentando l’attenzione e la simpatia per una forza di sinistra italiana che si ispiri a Syriza, lo scenario politico non sembra destinato a modificarsi: il Pd, sebbene in flessione rispetto ai risultati delle europee, rimane in testa nelle preferenze degli italiani. Sarà interessante capire quali saranno le conseguenze dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica in termini di orientamenti di voto e di fiducia nei leader politici, a partire da Matteo Renzi.

La Stampa 2.2.15
L’ira di Nunzia De Girolamo: “Noi maggiordomi di Renzi”
“Dovremmo fare come la Lega con Berlusconi”
di Francesca Schianchi

Tra loro, lo chiamano «l’incubo di diventare Scelta civica». La paura di precipitare allo zero virgola, fagocitati da Renzi. Ne hanno discusso in una riunione l’altra sera. E sono soprattutto quattro, tra i vertici di Ncd, a voler arrivare in fondo alla questione, pronti a chiedere ad Alfano di dimettersi da ministro dell’Interno per avere mani libere nel rapporto di alleanza col Pd: non solo l’ex capogruppo al Senato Maurizio Sacconi, ma anche Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello e soprattutto Nunzia De Girolamo.
E’ lei, la capogruppo alla Camera, a essere così infuriata per i fatti degli ultimi giorni da aver fatto pensare a un suo possibile passaggio alla Lega. Una «fantasia giornalistica», smentisce, ma chi ieri l’ha sentita, ritirata in una domenica in famiglia, la descrive furibonda. Se possibile, ancora più di sabato, dopo aver letto il colloquio con Renzi pubblicato ieri dalla «Stampa»: «Ma come – è sbottata al telefono con un’amica – Renzi dice che facciamo confusione, fa riferimento a vicende territoriali come il sindaco di Milano, e Angelino e Lupi stanno zitti? Così la nostra gente pensa che siamo solo attaccati alla poltrona!».
E’ stata gestita male tutta la partita del Colle, secondo lei. Non per il nome di Mattarella, ma perché la sensazione, alla fine, è di una subordinazione di Ncd a Renzi. E lei l’ha detto ad Alfano: «Dobbiamo essere un partito di lotta e di governo, com’era la Lega nel governo Berlusconi del 2008. Dobbiamo ricostruire il centrodestra e riempire lo spazio che c’è tra la Lega di Salvini e il Pd del premier. Ma non possiamo farlo se facciamo i maggiordomi di Renzi!». Al premier, in questo passaggio, lei e gli altri in sofferenza in Ncd riconoscono la bravura, «ma non si può andare avanti così», masticavano amaro sabato a Montecitorio.
E infatti, prima ancora di una verifica di governo, ne chiedono una nel partito. Dove vogliano arrivare, lo fa capire Cicchitto in un’intervista a «Libero», quando parla di una «verifica dei ruoli» di Alfano: cioè che possa dimettersi dal Viminale per «esercitare pienamente la sua leadership». Il che fa il paio con la riflessione fatta dalla De Girolamo: «Dovremmo essere come la Lega per Berlusconi: ma come fa Alfano a fare da pungolo mentre è ministro dell’Interno?».
Un malumore tale da portarla fuori dal partito? Lei ha un buon rapporto con Berlusconi, e più volte è stata data vicina al ritorno in Fi. Per ora, però, garantisce chi le ha parlato, non si muoverà da Ncd. In attesa di un chiarimento con Alfano.

La Stampa 2.2.15
Nel centrodestra tutti in fila verso la Lega
Calderoli: “C’è la coda per entrare ”. Smottamenti nel Ncd, ma anche in Forza Italia. Salvini avvisa: no ai riciclati
di Amedeo La Mattina

«Tendenza Matteo» e il cognome è quello di Salvini. La crisi e le divisioni di Ncd e Fi all’indomani dell’elezione di Mattarella al Colle creano panico, abbandoni, tentativi di passare con il partito emergente. C’è chi bussa alla porta dei capigruppo leghisti Centinaio e Fedriga perché deluso da Berlusconi o da Alfano e anche «per passione e non per le poltrone». Secondo Salvini è il caso di Barbara Saltamartini, la portavoce Ncd. Il Carroccio non è «il tram “salva riciclati”», avverte Salvini. «Non mi interessano quelli che hanno passato cinque partiti. Conosco la Saltamartini e non è una di queste». Si era già dimesso il capogruppo al Senato Sacconi, ieri ha annunciato il suo addio Giuliano Cazzola, ex parlamentare Pdl ed esperto di previdenza, candidato Fi alle Europee lo scorso anno. Rimane invece l’altro capogruppo, Nunzia De Girolamo (« Io alla Lega? fantasia giornalistica»). Gasparri liquida tutto come «patetico turismo politico» mentre la «tendenza Matteo» rischia di divorargli il partito. Sorvegliati speciali alcuni parlamenti azzurri ex An del Centro e del Sud dove il Carroccio sta facendo più scouting. Occhi puntati sui senatori Augello, Aracri e Fazzone, ma per il momento si tratta solo di sospetti senza alcuna conferma.
Calderoli, «c’è la fila»
Ci potrebbe essere tanta millanteria nelle parole dei leghisti che parlano di parlamentari a decine pronti al salto sul Carroccio. Ma la crescita elettorale e gli spazi di rielezione che può garantire Salvini (a parte la solita «passione politica» tutta da dimostrare) portano a credere a quello che dice Calderoli. «C’è la fila. Non facciamo campagna acquisti, non abbiamo interesse a fare da scialuppa ai naufraghi. Se oggi dovessimo di dire di sì a tutti quelli che ci hanno chiesto di passare con noi, si potrebbe fare un gruppo parlamentare sia alla Camera sia al Senato». In sostanza, 20 a Montecitorio e 10 a Palazzo Madama. Trenta pronti a lasciare il loro partito. «Ho avuto contatti con senatori di Fi, Ncd, con ex grillini e grillini in carica». Calderoli spiega che i nuovi arrivati non entreranno nel gruppi della Lega, dove rimangono solo gli eletti del Carroccio: dovranno formare un gruppo autonomo denominato «per Salvini».
Alfano, «chi ci sta ci sta».
Il ministro dell’Interno prende atto del «forte malumore», si assume la responsabilità di avere deciso il voto a favore di Mattarella. Detto questo, Alfano sostiene che ora farà sentire la sua voce nel governo, ma non intende trattenere nessuno. Enrico Costa, viceministro della Giustizia è critico sui cambi di casacca, come quello della Saltamartini. «Dopo avere fatto un percorso politico accanto ad Alfano, come si fa a passare con Salvini che vede in Alfano il suo peggiore nemico?».

Corriere 2.2.15
Un tramonto doloroso
La dissoluzione del centrodestra
Lo spettacolo umiliante di questi giorni ne rivela l’insipienza tattica e la confusione. L’unico in partita è Salvini, ma è l’opposto di una cultura di governo
di Pierluigi Battista
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Corriere 2.2.15
Centrodestra al bivio
Mattarella, lo sgarbo e il futuro del patto del Nazareno
di Angelo Panebianco
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Repubblica 2.2.15
L’andirivieni tra Matteo e Silvio che porta Alfano in un vicolo cieco
Con la marcia indietro sul Quirinale si salvano i posti nel governo, ma svanisce il quid politico
L’idea di riunire i moderati extra-Berlusconi si coltiva fuori dalle astuzie
Occorre slancio sui temi liberali. L’alternativa è una nicchia del 3 per cento
di Stefano Folli

IL PARADOSSO del centrodestra, uscito disintegrato dalle grandi manovre di Renzi, è tutto in una circostanza: il vicolo cieco di Alfano, capo del piccolo partito centrista che avrebbe dovuto costruire l’alternativa «moderata» a Renzi e al Pd. È facile parlare di dissesto complessivo di Forza Italia e dell’ultimo Berlusconi, ma la crisi parte dalla tenaglia che ha imprigionato l’Ncd-Udc dopo l’andirivieni intorno alla candidatura Mattarella. Si è creata una di quelle situazioni, rare e maledette, in cui si perde comunque, quale che sia la mossa compiuta. Inutile dire che i politici accorti fanno il contrario: si tengono una porta aperta, in modo da apparire vincitori in ogni caso. Alfano e i suoi hanno fatto l’opposto. Scenario uno: se fossero rimasti ancorati al «no», in sintonia con Berlusconi, avrebbero dovuto uscire dal governo. Come è noto, Alfano è ministro dell’Interno; Lupi dei Trasporti e delle Infrastrutture; Beatrice Lorenzin della Sanità; Casini è presidente della commissione Esteri del Senato. Una compagine ben rappresentata, perfino troppo rispetto alla forza elettorale e al peso politico. Se avessero rifiutato di eleggere il cattolico Mattarella per restare a fianco di Berlusconi, avrebbero perso tutto.
Viceversa — scenario due — con il ritorno sotto l’ombrello di Renzi i centristi hanno salvato gli incarichi, ma non la loro ragion d’essere. Oggi sono diventati un «cespuglio » del renzismo, o se si vuole del «partito della nazione» vagheggiato dal premier con argomenti convincenti. La prospettiva strategica (costruire tassello dopo tassello una nuova area moderata post- Berlusconi) appare ormai archiviata: o meglio, diventa un generico progetto buono per i «talk show», quando si tratteggiano le «vaste praterie » del consenso che si aprirebbero al di là di Renzi e prima di arrivare all’anti-Europa di Salvini.
La permanenza nel governo è consolatoria, ma — come è ovvio — non serve a costruire un’alternativa a Renzi. Anzi, dopo la marcia indietro su Mattarella, Alfano dovrà stare attento a non alzare troppo la voce con il presidente del Consiglio. Certi ministeri di peso sono a rischio e non a caso anche all’interno del Ncd si avvertono mormorii critici. È quindi uno scomodo paradosso. I centristi avrebbero perso in ogni modo, ma oggi è la loro prospettiva politica che si è disfatta. Per mascherare le difficoltà, avrebbero avuto bisogno che il «patto del Nazareno » resistesse secondo l’interpretazione iniziale: un condominio Renzi-Berlusconi per la gestione della legislatura, una vera e propria diarchia. Il primo alla guida del governo, il secondo come semi-alleato debole ma utile. Dentro tale cornice, Alfano e Casini avrebbero legittimato un ruolo di cerniera. Ne sarebbero derivati riconoscimenti pubblici e istituzionali, anche se forse la presidenza della Repubblica era troppo pretendere.
Oggi il mondo si è capovolto e i centristi sono di fronte all’alternativa: o essere irrilevanti nel governo Renzi o abbandonare presto o tardi la vita di rendita per cominciare una traversata del deserto (nel vero senso del termine). In fondo l’idea del «partito della nazione» in origine era di Casini, il quale però, a differenza di Renzi, non ha saputo o voluto svilupparla. Può darsi che esista ancora lo spazio per un secondo partito «nazionale », secondo la teoria di Parisi, ma allora bisogna prepararsi a edificarlo al di fuori del piccolo cabotaggio quotidiano e delle piccole astuzie tattiche. Occorrono temi e proposte di natura liberale; un progetto per le istituzioni che non sia solo la clausola del 3 per cento nella riforma elettorale; un europeismo che non ricalchi i vecchi, collaudati modelli.
Senza dubbio un simile disegno va al di là di Berlusconi, anzi tende a superare Forza Italia e i suoi tormenti. In fondo Salvini e la sua Lega nazionalista dimostrano che è possibile farlo, sia pure da un posizione incompatibile con una prospettiva di governo. C’è anche un’altra strada: limitarsi agli accordi di sopravvivenza in vista delle elezioni regionali. Ma allora occorre rassegnarsi a lasciare a Renzi tutto il campo, accontentandosi di una nicchia del 3 per cento.

Il Sole 2.2.15
Il dilemma di Alfano e i numeri del governo che ballano al Senato
di Lina Palmerini

Il rischio di scissioni nel partito di Alfano rimane la vera incognita per la tenuta del Governo che al Senato ha un margine di voti di maggioranza ridotto. Dunque, un chiarimento servirà ma le accuse che Ncd fa a Renzi di aver spostato l’asse a sinistra non reggono.
Non c’è nulla di più mobile di Matteo Renzi, soprattutto sull’asse destra-sinistra. Quindi l’indice puntato contro di lui dal partito di Alfano - e soprattutto da chi sta per lasciare - di aver spostato il baricentro verso la sinistra Pd e addirittura verso Sel è una falsa accusa. Nel senso che è chiaro a tutte le forze politiche come la linea del premier possa cambiare spesso e velocemente prospettiva. Ha scelto politiche più di sinistra come il bonus di 80 euro in busta paga ma ha anche virato su gesti più tradizionalmente di destra come la rottura con la Cgil - e anche con la Uil - e poi con la scelta di intervenire per modificare l’articolo 18. Lo spiegava molto bene Luca Ricolfi nel suo primo editoriale di quanto Renzi sia capace di occupare entrambi questi campi tradizionali sia pure trascurandone un terzo che invece è cresciuto – molto e in fretta - in questi ultimi anni e che rappresenta la società degli esclusi, degli outsiders. E, così, spiegano anche politologi come Antonio Marraffi che nella sua mappa socio-economica del partito di Renzi lo definisce catch-all, “pigliatutto”, proprio per la capacità di non puntare su un solo segmento elettorale, targato politicamente, ma su tutti.
Dunque, se la battaglia del Nuovo centro-destra parte da questa base o è pretestuosa oppure alcuni non hanno ancora chiaro il profilo politico del premier che non può essere incasellato in un’identità più di sinistra o di destra ma su entrambe. Il leader del Pd sembra aver superato questa barriera che separa il confine delle due storie politiche, la valica e quasi la ignora perché non ce l’ha come punto di riferimento. E lo stesso dovrebbe accadere anche a un partito moderato che intendesse fare opposizione a Renzi. Non è più quello lo spartiacque come dimostra anche il caso “estremo” della Grecia.
Chi in Italia stava già festeggiando la vittoria di Syriza e di Tsipras si è ritrovato qualche ora dopo a dover commentare quell’alleanza con un partito che nasce dalla destra e che ha preso voti per posizioni politiche che somigliano più alla Lega - le proposte contro gli immigrati e i diritti civili - che ai 5 Stelle. Dunque quella alleanza contro l’Europa del rigore nasce da una fusione, anche piuttosto fragile come si vede dai primi passi, tra opposte culture legate solo da un obiettivo concreto che è quello di piegare Bruxelles e non pagare il debito. Obiettivo ambizioso, probabilmente non realizzabile, ma questo diventa il primo caso di una coalizione tra forze agli antipodi, una alleanza congiunturale fatta ad hoc contro l’Europa: insomma, una versione hard delle nostre larghe intese, anche se con un obiettivo diverso e opposto.
Il bivio di Angelino Alfano ora è tutto qui. Se scegliere quella permanenza del Governo in nome di un obiettivo - la crescita economica dentro il sentiero dell’euro - oppure abbandonarlo e passare all’opposizione per conquistare un’alleanza con Berlusconi alle elezioni regionali. Con una complicazione in più: che a spingerlo su questo bivio e obbligarlo a una scelta c’è Matteo Salvini che non lo vuole nelle coalizioni regionali se resta in maggioranza con Renzi. È vero che i territori e il ceto politico locale è vitale per Ncd ma una scelta è inevitabile. Una scelta che potrebbe costare alcune perdite tra i senatori (36 in tutto con l’Udc), già molto vicini a Forza Italia o alla Lega. E allora i numeri al Senato cominceranno a ballare anche per il Governo di Renzi.

Il Sole 2.2.15
Dopo il Colle
Adesso Renzi si gioca tutto sull’economia, no retromarce
di Fabrizio Forquet

Con l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, Matteo Renzi e il suo governo hanno superato indenni un passaggio a triplo coefficiente di difficoltà. L’Italia può contare oggi su un capo dello Stato di solida competenza e affidabilità. Non era scontato e va a merito di Renzi. Secondo un’espressione in voga di questi tempi, si direbbe che nel sistema politico la chiesa è stata rimessa al centro del villaggio.
Adesso però il villaggio ha bisogno di tornare a crescere, ha necessità urgente di grano e farina, di olio, di vino e di legna da ardere, perché è troppo tempo che i suoi abitanti – per dirla con il capo dello Stato – sono in difficoltà ed è tempo di ridare loro speranza. Anche perché è nella crisi del Paese e nella sofferenza di ciascuno che si fanno largo gli illusionismi pericolosi dei demagoghi cinici a caccia di facili consensi.
Mai come oggi le circostanze esterne consentono di “vedere” la ripresa: la crescita Usa a livelli record, l’iniezione di 60 miliardi al mese nell’economia europea attraverso il Quantitative easing, il basso prezzo del petrolio, il cambio favorevole con il dollaro di cui possono avvantaggiarsi le nostre imprese esportatrici (senza bisogno di vagheggiare impraticabili e dannose uscite dall’euro). Dalla Banca d’Italia al Centro studi di Confindustria, passando per la gran parte dei report delle banche internazionali, per la prima volta da anni la sequenza delle previsioni favorevoli è univoca. Anche i consumi danno segnali di risveglio, così come l’occupazione, con le imprese che sembrano pronte a creare lavoro più stabile.
Non mancano però gli elementi di preoccupazione. Dall’involuzione della situazione politica e finanziaria greca, che solo alcuni fatui cantori nostrani di Tsipras possono leggere come un’opportunità per l’Italia (il nostro Paese tra le altre cose è creditore netto della Grecia per almeno 36 miliardi di euro); agli scenari internazionali - la Russia, la Libia - che stanno mettendo in ginocchio aree economiche di stretto interesse per l’Italia.
Preoccupano, poi, i tanti nodi irrisolti di un’economia che continua ad avere il record di pressione fiscale sulle imprese, pochi investimenti, alto debito e una burocrazia che toglie ogni fiducia nella libera iniziativa.
Per queste ragioni, positive e negative, Renzi non può fermarsi. Non perda un attimo con i “tormenti” dell’Ncd, lasci perdere la mappa esatta dei contenuti del Patto del Nazareno, di Civati se ne faccia una ragione. Risolta al meglio la questione del Quirinale, il premier deve tornare immediatamente a occuparsi a pieno regime dell’economia, per cogliere le spinte esterne e rafforzare la fiducia interna che è l’unica vera benzina della ripresa. La stessa salute del suo governo alla fine dipenderà da questo, dal rilancio dell’economia. Ma soprattutto da questo dipenderà la salute dell’Italia e degli italiani.
La telefonata di Draghi a Mattarella subito dopo il voto del Parlamento la dice lunga sull’ordine delle priorità. Economia, economia, economia. Deve riprendere a correre Renzi. E deve cominciare da tre urgenze: investimenti, prima di tutto, Jobs Act e decreti fiscali.
Sugli investimenti pubblici la partita deve giocarla tutta in campo europeo e tra le strette linee dei vincoli di bilancio. Ma è nel rilancio degli investimenti privati che in queste settimane il governo e il Parlamento possono e devono fare di più, rafforzando l’Investment Act che è arrivato in Parlamento senza parti importanti come le tutele per gli investimenti, gli incentivi fiscali alle reti d’impresa, gli industrial bond. Ma anche dando più spazio alla legge Sabatini per il rinnovo dei macchinari e allargando il più possibile i confini del credito di imposta.
Sull’attuazione del Jobs Act e della delega fiscale siamo alle battute decisive. Sarebbe davvero un delitto se sull’altare della rinnovata unità del Pd si facessero passi indietro sul terreno del riformismo. L’introduzione senza ulteriori indugi del contratto a tutele crescenti può contribuire, insieme agli sgravi contributivi e fiscali già in vigore, a dare una spinta alle assunzioni e alle stabilizzazioni, rendendo strutturale la tendenza positiva avviata a dicembre scorso. Ma il Consiglio dei ministri del 20 febbraio (non è possibile anticipare?) potrebbe varare almeno altri due decreti attuativi della legge 183: quello di riordino dei contratti, dove vanno evitate tentazioni di nuovi irrigidimenti che vanificherebbero quanto di buono è stato fatto finora, e quello della revisione degli incentivi.
Il 20 febbraio è previsto anche l’appuntamento con i decreti legislativi sul fisco. Renzi tolga dal terreno la norma salva-Berlusconi sul 3% di franchigia nel caso di evasione e frode fiscale. Ma introduca una vera certezza del diritto per tutte le imprese che rispettano le leggi, con una soglia ragionevole di tolleranza sui veri errori materiali, senza l’assurda vessazione di chi oggi subisce la concorrenza dei veri evasori e fatica a districarsi nel labirinto delle norme e degli adempimenti.
C’è poi la delega sulla pubblica amministrazione che deve recuperare il tempo perduto in Parlamento, senza dimenticare i delicatissimi dossier della giustizia civile e penale e della scuola.
Non c’è tempo insomma per compiacersi della vittoria nella battaglia del Quirinale. Rust never sleeps. Le riforme non aspettano. E se sul riassetto costituzionale dovrà essere ancora Berlusconi l’interlocutore di Renzi, su tutto il resto la maggioranza dovrà dimostrare di non perdere la sua spinta innovatrice. Chi nel Pd dovesse in queste ore pensare il contrario, contando magari su un’inedita sponda sul Colle, vuol dire che non conosce davvero Sergio Mattarella.

Corriere 2.2.15
Roma. Il buco nero dei servizi pubblici
In rosso anche le farmacie. Atac, gli autisti guidano la metà che a Milano
Quasi 200 milioni spesi in attività finanziarie. E Roma è l’unico Comune ad avere una compagnia assicurativa «in casa»
di Sergio Rizzo
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Corriere 2.2.15
Campidoglio, gli 11 «irriducibili» dei rimborsi “d’oro”
Il Comune continua a pagare i consiglieri per il lavoro privato. Il capogruppo Panecaldo «È ora di finirla»
Da Valentina Grippo (Pd) a Imma Battaglia (Sel), fino a Roberto Cantiani (Ncd) assunto nel bar di famiglia
di Alessandro Capponi
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Il Sole 2.2.15
Obama si schiera con Tsipras:
«Non si può continuare a spremere Paesi in profonda depressione»
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il Fatto 2.2.15
Israele, dipinti e parole sulla nuova barriera
Contro il muro con i colori della pace
Un nuovo muro di settecento chilometri divide israeliani e palestinesi
Ma contro la barriera di cemento alta dieci metri si sfogano i colori della pace e della speranza di giovani e artisti arrivati da tutto il mondo
di Serena Fiorletta

Questa strada non è più una strada. Non ci passa nessuno. Ci sono solo io e la mia pompa di benzina”, le parole di Mohammed risuonano nel vuoto e nella luce di una sera al tramonto, resa livida dai fari di una torretta di controllo. Non ci sono persone, non ci sono macchine, questa via si è trasformata, è uno spazio nuovo, un “non luogo” creato dal muro di divisione eretto tra Israele e i territori palestinesi in Cisgiordania. Nei dintorni non c’è praticamente nulla, i resti di negozi e ristoranti sono rintracciabili solo da vecchie insegne che testimoniano una vita chiusa in fretta, alla stessa velocità con cui è stata tirata su la famosa barriera di sicurezza o altrettanto noto muro della vergogna, dipende solo dalla prospettiva da cui si guarda.
Siamo a Betlemme, di fronte a una successione di pannelli alti dieci metri, che corrono oltre 500 chilometri tracciando confini, definendo spazi, levando il fiato. La barriera di separazione, che ultimata dovrebbe superare i 700 chilometri, è un insieme di cemento, filo spinato e fossati, intervallati da porte e corridoi, controllati dall’esercito israeliano per regolare l’accesso e l’uscita di persone da una zona all’altra. Il governo Sharon ha approvato e iniziato la costruzione di questa barriera nella primavera del 2002, nonostante nel 2004 la Corte internazionale di giustizia dell’Aia l’abbia dichiarata illegale, i lavori proseguono. “Il muro è ovunque, ti entra nella testa”, racconta Fathi, maestro alle elementari in un villaggio della West Bank. “La scuola dove insegno è praticamente circondata, apri la finestra e lo trovi a trenta centimetri dal tuo viso. I bambini lo disegnano in continuazione, fa parte della loro vita ormai”. E se i più piccoli lo disegnano sui quaderni gli adulti ci disegnano sopra.
Si srotola come una tela
Andare a piedi da Betlemme a Gerusalemme, il percorso raccontato dalle foto di Maia Galli, vuol dire seguire il tracciato del muro, che si srotola come una tela, lunga, bianca, a disposizione. Ma se non può essere bucata, squarciata come in note opere di arte contemporanea, poiché di cemento armato, può essere riempita di scritte, dipinti e graffiti. Sono diversi gli artisti che hanno preso parte a questa enorme insatallazione involontaria, a partire da Banksy, passando per Wisam Salsaa, fino ad arrivare all’italiano Blu, lasciando all’arte la capacità di esprimersi contro l’oppressione, come raccontato nel libro del giornalista William Perry, Contro il muro. L’arte della resistenza in Palestina. Ma ancora di più sono le scritte e la testimonianza della gente comune che con il muro ci convive, delle numerose persone, provenienti dalle parti più disparate del mondo, che hanno sentito la necessità di dire qualcosa, lasciando un segno e rendendolo, paradossalmente, un simbolo di libertà. Questa barriera di cemento infatti oggi può essere letta, racconta una storia e lo fa da diversi punti di vista, in lingue differenti e attraverso disegni che si trasformano in opere d'arte. Camminare tra queste due città, in un percorso antico di secoli, vuol dire farlo guardando in alto, perché se questa costruzione mette angoscia e fa paura, esercita anche un'incredibile attrazione attraverso la narrazione fatta da coloro che hanno percorso lo stesso tratto di strada. Tante le scritte che richiamano alla pace, alla fine del conflitto, ci sono colombe, bambini, una grande scritta in rosa dice che “la pace è più conveniente”. Moltissimi i disegni che vogliono andare oltre l’ostacolo, bambine che lanciano cuori, palloncini che ti sollevano oltre il muro, mongolfiere che si innalzano sull’ostilità, occhi che tentano di vedere cosa c’è al di là. Due bambine con le trecce sono rappresentate chine e con le mani nell'interstizio tra i pannelli nel tentativo di aprire un varco. Il muro infatti non è frontiera da passare, è invalicabile, taglia a metà case, vite, nega ogni quotidianità. È barriera fisica e culturale su cui si innesta la violenza che attraversa queste terre.
Un simbolo collettivo
Se in questi giorni, dopo gli attentati di Parigi, si è fatta fatica ad andare oltre le facili dicotomie che contrappongono buoni e cattivi, religioni giuste e sbagliate, noi e loro, di fronte a questa barriera diventa impossibile. Si vuole cancellare qualunque forma di comunicazione e ristabilire facili ruoli: il muro taglia, definisce, semplifica, dicotomizza, nega il dialogo. Lo stesso percorso che facciamo è tortuoso e in alcuni tratti si può proseguire solo in fila indiana, non c’è spazio per due persone che possano camminare vicine, la realtà fisica e quella simbolica si compenetrano costantemente. Eppure attraverso le opere fotografate una forma di comunicazione ha trovato spazio, il muro è diventato uno spazio di riappropriazione simbolica, un luogo fisico e ideale in cui si esprime il dolore collettivo, la rivendicazione e il diritto alla libertà.
Tra i disegni che segnano il tragitto c’è una Statua della libertà che piange mentre tra le braccia tiene un bambino, una sorta di Pietà contemporanea. Le lacrime della statua, simbolo condiviso in buona parte del mondo occidentale e non solo, parlano in modo esplicito della violazione e negazione di un bene prezioso quale è la libertà, mentre il bambino di spalle, esanime, non è solo la violazione condivisa del diritto all'infanzia, è anche un simbolo conosciuto in tutto il Medio oriente. È Handala, personaggio uscito dalla matita dell'artista palestinese Naji al-Ali, ucciso in un attentato a Londra nel 1987. Non mancano ovviamente scritte esplicite contro Israele, inviti alla lotta e alla resistenza. Il muro è lungo e la storia di queste terre lo è altrettanto, sarebbe sciocco descriverlo solo come un messaggio di pace, è una lunga narrazione di sofferenza e rivendicazioni.
Ma le frasi e i disegni sulla libertà sono la maggior parte lungo questo tratto e sembrano andare oltre il conflitto in questione, o meglio è facile pensare che le scritte che leggiamo possono essere adatte a qualunque dei numerosi muri ancora esistenti sul pianeta, eretti tutti dopo la creazione del più noto muro di Berlino, a dimostrazione che la contemporaneità ancora assomiglia al suo passato. Eppure l’abbattimento della barriera che divideva la Germania è raccontato come un momento di passaggio importante di giustizia e civilità del nostro presente, dimenticando con imbarazzante disinvoltura le morti di chi tenta di attraversare quelle esistenti ancora oggi, basti pensare al muro che separa il Messico dagli Stati Uniti in funzione anti immigrazione. Il crollo del confine di cemento tra Palestina e Israele resta per ora difficilmente immaginabile ma è rappresenato, in una sorta di metacomunicazione visiva, sul muro stesso. Vi è infatti un disegno molto grande in cui si vedono i pannelli che formano la barriera a terra, ridotti in pezzi, incrinati e che lasciano finalmente intravedere una Gerusalemme, stavolta davvero liberata, disegnata nei minimi particolari su cui si leva una colomba ma soprattutto una scala che va oltre le nuvole. Anche se abbassando lo sguardo, una scritta in fondo, in italiano, si augura “che la libertà non sia solo sognata con il naso all’insù ma riconosciuta negli occhi dei tuoi fratelli”.

il Fatto 2.2.15
“Due popoli richiedono due stati”
di Barack Obama*

“I LEGAMI TRA Stati Uniti e Israele sono ben noti, questo legame non si può spezzare perché è basato su vincoli storici e culturali e sul riconoscimento che l’aspirazione per una patria ebraica affondi le proprie radici in un passato tragico che non può essere negato. Il popolo ebreo ha subito persecuzioni nel corso dei secoli e in tutto il mondo e, in Europa, l’anti-semitismo è culminato in un Olocausto senza precedenti. (...) D’altro canto è innegabile che la popolazione palestinese abbia sofferto nella ricerca di una patria. Per più di 60 anni hanno sopportato il dolore dell’essere profughi, molti attendono nei campi per rifugiati della Cisgiordania, di Gaza e delle regioni vicine la vita di pace e sicurezza che non hanno mai potuto condurre. I palestinesi devono sopportare le grandi e piccole umiliazioni quotidiane causate dall’occupazione. Sia dunque chiaro che la situazione della popolazione palestinese è intollerabile, l’America non ignorerà le legittime aspirazioni dei palestinesi di dignità, opportunità future e di un proprio Stato. Per decenni siamo rimasti in una situazione di stallo: due popoli con aspirazioni legittime, entrambi con una storia dolorosa alle spalle che rende difficile il compromesso. È facile puntare il dito, (...) tuttavia, se osserviamo il conflitto da uno solo dei due punti di vista non riusciremo a riconoscere la verità: l’unica soluzione è che le aspirazioni di entrambi i popoli vengano soddisfatte con la creazione di due Stati dove sia israeliani che palestinesi possano vivere in pace e sicurezza. Questa soluzione è nell’interesse di Israele, dei palestinesi, degli Stati Uniti e del mondo intero e per questa ragione ho intenzione di impegnarmi per raggiungere quest’obiettivo. Gli impegni sottoscritti dalle due parti nella Road Map sono chiari e affinché ci sia pace è tempo per loro di dimostrarsi all’altezza delle proprie responsabilità (...)”.
*Il Cairo, 4 giugno 2009

Corriere 2.2.14
Gli ombrelli di Occupy si riaprono a Hong Kong
La Cina non può spegnere un movimento rinato
di Guido Santevecchi

Gli ombrelli gialli si sono riaperti a Hong Kong. Per la prima volta dopo la fine, a dicembre, dei 79 giorni di Occupy Central che paralizzò la City, i manifestanti del fronte democratico sono tornati in strada. Nessuna occupazione, solo una marcia. Ieri erano in 13 mila, secondo gli organizzatori, non più di 6.600 nei calcoli della polizia, che per precauzione aveva schierato 2 mila agenti. I numeri non sono quelli delle settimane «gloriose» dell’autunno scorso, quando i giovani accampati sulle superstrade di Hong Kong erano cresciuti fino a centomila in un solo giorno. Però la richiesta non cambia: nelle elezioni per il governatore della città previste nel 2017 il movimento democratico non si accontenta del finto suffragio universale concesso dal governo centrale di Pechino, che in cambio pretende di controllare e circoscrivere la lista dei candidati a non più di due o tre, «amanti della madrepatria cinese» e quindi del partito comunista.
   Nei 79 giorni di Occupy Central i protagonisti sono stati gli studenti che avevano scavalcato i due professori universitari e il reverendo fondatori del movimento. Molte voci sagge si erano levate, dopo le prime settimane, per suggerire ai ragazzi di ritirarsi incassando un successo d’immagine inimmaginabile all’inizio. I più anziani non erano stati ascoltati e alla fine il movimento si era logorato perdendo parte del sostegno popolare. Lo sgombero dei blocchi stradali, su ingiunzione del tribunale (indipendente) di Hong Kong, era sembrato quasi una liberazione, per tutti. Ma il problema era solo rimandato.
   Ieri in testa al corteo c’erano di nuovo anche i professori, al fianco dei ragazzi. Promettono di usare tattiche «nuove e creative». Soprattutto sono tornati uniti, hanno mostrato la capacità di rigenerarsi e rilanciare la sfida. Dai 79 giorni di Occupy è sbocciata la consapevolezza di un’intera generazione che rappresenta il futuro di Hong Kong. E Pechino non può cancellarla.

Il Sole 2.2.15
Valute globali. In aumento i centri di compensazione offshore
Il renminbi espande il raggio d’azione dal Qatar al Canada
di Rita Fatiguso

PECHINO Nel bel mezzo della tormenta scatenata dallo sganciamento del franco svizzero dall’euro e a un filo dal mega-quantitative easing della Banca centrale europea, la Svizzera ha siglato con la Cina un accordo da 8 miliardi di dollari Usa da impegnare in quote Rqfii (Renminbi qualified foreign institutional investors), un meccanismo che permetterà agli svizzeri di investire in Cina direttamente nella valuta di Pechino, dribblando euro o dollaro Usa.
Accordo con la Svizzera
Forte del free trade agreement Cina-Svizzera in vigore dallo scorso mese di luglio, il secondo in Europa dopo quello con l’Islanda, il premier Li Keqiang ha però creato le basi per qualcosa di più: vuol fare di Zurigo un hub per il clearing del renminbi, e tutto ciò proprio nel cuore dell’Europa. L’ok delle autorità svizzere all’operatività di una banca cinese in Svizzera è il prerequisito per un accordo swap bilaterale per fare di Zurigo un centro offshore sul renminbi che sarebbe l’ultimo, ma solo in ordine di tempo, rispetto a quello di Lussemburgo, Parigi, Londra, Francoforte. Finora ben 71 istituzioni finanziare hanno attinto alle quote Rqfii impegnando nel 2014 un totale di 250,3 miliardi di yuan.
Dietro le quinte del World economic forum di Davos la diplomazia economica cinese si è mossa con agilità, incassando un enorme dividendo e seguendo, per giunta, uno schema già visto in tutto il mondo. La strategia win-win, che è la stessa perseguita in mezzo mondo con un’enorme accelerazione nel 2014, è quella di ridurre i rischi di cambio per i cinesi nel trading con i Paesi coinvolti, fare business in renminbi è meglio che farlo in euro o dollari, ma anche per i Paesi coinvolti nel clearing c’è un potenziale benefit.
La Svizzera è buon ultima in questo processo di apertura della moneta di Pechino, nato nel 2003 con Hong Kong, ancora oggi la piazza numero uno per il clearing del renminbi, ma la strategia ormai è diffusa in tutti i continenti. Intanto Pechino internazionalizza la sua moneta ancora non convertibile. Il paradosso è proprio questo: la Cina ha una moneta formalmente non convertibile, il cambio di marcia si verificherà solo entro il 2020, almeno teoricamente. Intanto, come ha dichiarato al Sole 24 Ore il 22 gennaio il numero uno di Icbc, Jiang Jiangqing, il 90% nei traffici è già in renminbi, adesso bisognerà istituzionalizzare il processo e non è escluso che la data del 2020 possa essere anticipata.
La Cina, poi, ha appena incassato dalla Society for Worldwide Interbank Financial (Swift) la corona della quinta valuta più utilizzata al mondo, superando il dollaro canadese e quello australiano. A dicembre la moneta cinese ha raggiunto la quota elevata record del 2,17% dei pagamenti globali per valore, rispetto allo 0,63% del gennaio 2013 (tanto per capire, lo yen giapponese è a quota 2,69%).
Crescita a tre cifre
In tutto ciò un ruolo strategico l’hanno avuto proprio i centri di compensazione offshore del renminbi, ben otto con la Bank of China, 14 in tutto. I pagamenti in renminbi sono cresciuti in valore del 20,3% nel mese di dicembre, a fronte di un aumento del 14,9% per tutte le valute. Negli ultimi due anni il renminbi ha mostrato una crescita a tre cifre in linea con l’aumento del valore dei pagamenti del 321 per cento. La valuta cinese ha continuato la sua ascesa nel posizionamento come mezzo di pagamento globale, il commercio e gli investimenti di valuta, con il supporto di una rete in rapida espansione di centri di yuan offshore, che facilitano l’accesso diretto ai mercati finanziari onshore della Cina. Il trading offshore è cresciuto del 350%, il che dovrebbe incentivare anche l’emissione di obbligazioni dim sum (così si chiamano le obbligazioni denominate in yuan emesse offshore) da parte di cinesi e di altri governi, istituzioni finanziarie e società. Insomma, nel 2015, il futuro sarà ancora del renminbi.

La Stampa 2.2.15
Da Platone a Mendeleev: la chimica è filosofia
di Piero Bianucci

Nel 1976 Ermanno Bencivenga, calabrese laureato in filosofia a Milano, iniziava la sua carriera di cervello in fuga prendendo a Toronto (Canada) un dottorato che lo avrebbe portato in cattedra all’Università della California, dove ancora si trova. In quel tempo, alla domanda di che cosa si occupasse la ricerca chimica, la risposta era: di meccanica quantistica. Sembrava che, esaurita la ricerca a livello molecolare e atomico, lo studio della materia potesse procedere solo scendendo alla scala delle particelle elementari. In sostanza, la chimica, così cara a Primo Levi anche come scuola di vita, era scomparsa, assorbita nella fisica.
Per ridare uno status alla chimica, Bencivenga si è alleato con Alessandro Giuliani, uno statistico che lavora all’Istituto superiore di Sanità di Roma. Il risultato è un libro dal titolo spiazzante: Filosofia chimica (Editori Riuniti, pp. 138, € 15). Il sostantivo comanda l’aggettivo. Domina quindi la parola filosofia. Ma l’aggettivo non è ancillare. Il titolo significa che la chimica è una forma di pensiero, un approccio generale all’esperienza, dunque (una) filosofia.
Bencivenga e Giuliani lo dimostrano con richiami a Platone, Hegel, Kant, e ripercorrendo le tappe della conoscenza chimica: concetto di valenza, concetto di molecola (Avogadro), Tavola Periodica degli elementi (Mendeleev), stereochimica (con Giulio Natta in evidenza), scoperta che conta più la forma (della molecola) che il contenuto. Non solo. La chimica ha elaborato un linguaggio che con pochi suffissi descrive la struttura delle molecole e ha introdotto la distinzione tra ordine (cristalli) e caos (gas).
Tutto ciò porta a individuare la chimica come una «terra di mezzo» tra il mondo macroscopico che è il nostro e il mondo subatomico dei fisici delle particelle. La chimica ha pieno diritto di cittadinanza perché con i suoi 92 elementi e 4 livelli di organizzazione strutturale individua una scala mesoscopica che è solo sua. Una lezione contro gli eccessi sia del riduzionismo sia dell’olismo. Così come il libro ambisce a una terza via tra divulgazione becera e specialismo accademico.

Repubblica 2.2.15
Missione atomica, così la spia Philby fece scappare Pontecorvo in Urss
Lo scienziato e l’agente: un libro rivela i rapporti tra i due all’ombra dei sovietici
di Enrico Franceschini

UNO è il grande fisico italiano che aderì al comunismo, fuggì avventurosamente in Unione Sovietica con tutta la famiglia durante la guerra fredda e aiutò Mosca a sviluppare la sua prima bomba atomica. L’altro è il più famoso doppiogiochista britannico, la spia di Londra che passò all’Urss dopo avere rivelato al Kgb i nomi di decine di agenti e informatori del proprio paese. Su Bruno Pontecorvo e Kim Philby sono stati scritti abbastanza volumi da riempire una libreria. Adesso ne è uscito uno che aggiunge un segreto da romanzo alla storia di questi due marxisti occidentali: fu Philby a scoprire che l’Fbi indagava su Pontecorvo e a mettere in moto l’operazione che nel 1950 condusse lo scienziato a scomparire senza dare spiegazioni durante una vacanza in Italia, per riapparire soltanto cinque anni dopo all’ombra del Cremlino.
Di famiglia ebraica, fratello del regista Gillo e del genetista Guido, allievo di Enrico Fermi e membro del “gruppo di via Panisperna”, la squadra di scienziati italiani che avviò le ricerche sulla fissione atomica, Pontecorvo si trasferì in seguito a Parigi, che lasciò nel 1940 con una borsa di studio per gli Stati Uniti poco prima dell’arrivo dei nazisti. In America non partecipò al “Progetto Manhattan”, il piano per costruire la bomba atomica, perché già sospettato di simpatie per il comunismo, ma dopo la guerra lavorò ancora in campo nucleare in Canada e quindi prese parte allo sviluppo delle armi nucleari in Gran Bretagna.
Dopo la fuga a Mosca collaborò alla creazione dell’atomica di Stalin, vivendo isolato a Dubna, la “città della scienza” sovietica, dove morì nel 1993, due anni dopo il crollo dell’Urss. Molti ritengono che, se avesse lavorato in Occidente, prima o poi avrebbe vinto il premio Nobel per la fisica. Non si era mai scoperto che cosa avesse esattamente provocato la sua fuga improvvisa dall’Italia insieme alla moglie e ai tre figli nel bel mezzo di una vacanza estiva. Ora un nuovo libro, Half life: the divided life of Bruno Pontecorvo , di Frank Close, anche lui uno scienziato, offre la risposta a un mistero durato più di sessant’anni.
La “pistola fumante” è una lettera top secret che l’autore ha potuto declassificare negli archivi di stato di Londra, scritta il 13 luglio 1950, pochi giorni prima che Pontecorvo fuggisse a Mosca. Il messaggio venne trasmesso dall’ambasciata di Washington del Regno Unito al direttore dell’Mi5, il controspionaggio britannico. Il testo afferma: «L’Fbi ci chiede qualsiasi informazione che possa essere in nostro possesso sul fatto che Pontecorvo sia attualmente impegnato in attività comuniste o che lo sia stato negli anni in cui viveva in America». La missiva aggiunge che non si trovavano più tre precedenti comunicazioni sull’argomento inviate dall’Fbi all’agente dei servizi segreti presso l’ambasciata britannica di Washington. E chi era a quell’epoca l’agente britannico dell’ambasciata? Kim Philby. Due dei suoi colleghi, che a loro volta facevano il doppio gioco con Mosca, fuggirono in Urss in quegli stessi anni; Philby li avrebbe raggiunti nel ‘63, precipitosamente, quando si rese conto che stava per essere smascherato e arrestato.
Èevidente, scrive Close nel libro, che fu Philby a distruggere i messaggi dell’Fbi, per proteggere Pontecorvo, e che fu di nuovo lui ad avvertire Mosca della richiesta di informazioni dell’Fbi sul fisico italiano nel luglio del 1950. A quel punto è verosimile che Mosca avvertì lo scienziato e Pontecorvo scomparve, «così in fretta da non portare con sé neanche il cappotto », nota il libro. Secondo cui aveva cominciato già da anni a passare segreti nucleari ai russi.
Fu una fuga rocambolesca: in aereo da Roma a Stoccolma e da Stoccolma a Helsinki, poi in auto fino al confine sovietico. Nel libro, uno dei figli di Pontecorvo, Gil, che allora aveva 12 anni e vive tuttora in Russia, rivela che suo padre fu chiuso dentro il bagagliaio dell’auto per passare la frontiera tra Finlandia e Urss. L’autore ha ricostruito perfino l’assegnazione dei posti sull’aereo da Stoccolma ad Helsinki: la madre e i tre figli sedevano insieme; Pontecorvo tra altri due passeggeri, guarda caso gli unici che avevano volato con lui da Roma e poi cambiato volo a Stoccolma per Helsinki, quasi sicuramente gli agenti del Kgb che lo avevano preso in consegna alla partenza dall’Italia.
Chissà se in Urss incontrò mai Philby, la “talpa” che spifferò a Mosca le indagini dell’Fbi nei suoi confronti e che tredici anni più tardi avrebbe varcato anche lui, come Pontecorvo, la cortina di ferro in nome della fede nel comunismo.

Repubblica 2.2.15
Miei cari giovani americani ecco perché l’odio non serve più
“Un evento nella vita dei maschi ritenuto un rito di passaggio è la guerra. Se un maschio torna a casa dalla guerra, specie se ha riportato ferite, quello è un uomo“
di Kurt Vonnegut

La stampa, che si occupa di sapere e capire tutto, constata che i ragazzi sono apatici (specie quando gli opinionisti non trovano altro di cui parlare)
Nel 1978, rivolto agli studenti di un college, un irriverente Kurt Vonnegut metteva a nudo i vizi della sua generazione. Quello e altri testi ora raccolti in volume

OGNI società primitiva che sia mai stata studiata aveva un rito di passaggio all’età adulta, con il quale quelli che prima erano bambini diventavano indiscutibilmente uomini e donne. Alcune comunità ebraiche onorano tuttora questa antica pratica, come sappiamo, e secondo me ne traggono beneficio. Ma, in generale, le società ultramoderne e industrializzate come la nostra hanno deciso di sbarazzarsi dei riti di passaggio all’età adulta — a meno che non si voglia contare il rilascio della patente di guida a sedici anni. Se lo si vuole contare, va detto che come rito di passaggio ha comunque una caratteristica molto insolita: l’età adulta può essere successivamente revocata da un giudice, anche a una persona anziana come me.
Un altro evento nella vita dei maschi americani ed europei che potrebbe essere considerato un rito di passaggio è la guerra. Se un maschio torna a casa dalla guerra, specie se ha riportato ferite serie, tutti concordano: quello è indubbiamente un uomo.
Quando sono tornato a casa, a Indianapolis, dopo aver combattuto in Germania nella seconda guerra mondiale, un mio zio mi disse: «Perbacco, adesso sì che sembri un uomo». Avrei voluto strangolarlo. Se l’avessi fatto, sarebbe stato il primo tedesco che uccidevo. Ero un uomo anche prima di andare in guerra, ma lui col cavolo che l’avrebbe ammesso.
Io avanzo l’ipotesi che privare i giovani maschi di un rito di passaggio all’età adulta nella nostra società attuale sia un espediente, ideato in maniera astuta ma inconscia, per rendere quei maschi ansiosi di andare in guerra, per quanto possa essere terribile o ingiusta una guerra. Esistono anche guerre giuste, ovviamente. Si dà il caso che la guerra in cui ero ansioso di combattere io fosse giusta.
E quand’è che una femmina smette di essere una bambina e diventa una donna, con tutti i diritti e i privilegi che ne conseguono? La risposta la sappiamo tutti, istintivamente: quando fa un figlio all’interno del matrimonio, è chiaro. Se quel primo figlio lo fa al di fuori del matrimonio, è ancora una bambina. Cosa potrebbe esserci di più semplice, più naturale e più ovvio – o, al giorno d’oggi e in questa società, di più ingiusto, insignificante e semplicemente stupido?
Secondo me faremmo meglio, per il nostro stesso bene, a ripristinare i riti di passaggio all’età adulta. [...] Molti di voi sapranno senz’altro che tutti i bianchi di nome Clark discendono da abitanti delle Isole Britanniche che si distinguevano per la loro capacità di leggere e scrivere. Un nero di nome Clark, ovviamente, discende con ogni probabilità da qualcuno che era costretto a lavorare senza paga né diritti di alcun tipo per un bianco di nome Clark. Famiglia interessante, i Clark. [...] Imparare a leggere e scrivere è tremendamente difficile. Ci vuole un’eternità. Quando rimproveriamo i nostri insegnanti per i bassi punteggi dei loro studenti nelle prove di lettura, fingiamo che sia la cosa più facile del mondo, insegnare a qualcuno a leggere e scrivere. Provateci, qualche volta, e scoprirete che è quasi impossibile.
A che serve essere un Clark, adesso che abbiamo i computer, i film e la tv? Clarkeggiare, attività assolutamente umana, è qualcosa di sacro. La tecnologia no. Clarkeggiare è la forma di meditazione più profonda ed efficace praticata su questo pianeta, e supera di gran lunga qualunque sogno fatto da un guru indiano in cima a una montagna. Perché? Perché i Clark, leggendo bene, sono in grado di pensare i pensieri delle menti umane più sagge e più interessanti di tutti i tempi. Quando i Clark meditano, anche se personalmente hanno solo un intelletto mediocre, meditano con i pensieri degli angeli. Cosa potrebbe esserci di più sacro?
E questo è quanto, in fatto di età adulta e di Clark. Rimangono da trattare soltanto due altri argomenti fondamentali: la solitudine e la noia. Qualunque sia la nostra età in questo momento, è sicuro che durante il resto della nostra vita ci annoieremo e ci sentiremo soli.
Ci sentiamo così soli perché non abbiamo abbastanza amici e parenti. Gli esseri umani dovrebbero vivere in famiglie allargate stabili, di mentalità affine, composte almeno di cinquanta persone ciascuna. [...] Il matrimonio è in crisi perché le nostre famiglie sono troppo piccole. Un uomo non può rappresentare un’intera società per una donna, e una donna non può rappresentare un’intera società per un uomo. Ci proviamo, ma c’è poco da meravigliarsi se così tanti di noi non reggono.
Quindi consiglio a tutti i presenti di entrare a far parte di associazioni di ogni tipo, per quanto possano essere ridicole, semplicemente per avere più persone nella propria vita. Poco impor- ta se tutti gli altri membri sono dei coglioni. Quello che ci serve è un gran numero di parenti di qualunque tipo. Quanto alla noia, Friedrich Wilhelm Nietzsche aveva da dire questo: «Contro la noia perfino gli dei combattono invano». È normale annoiarsi. Fa parte della vita. Imparate a tollerarlo [...].
La stampa, che si occupa di sapere e capire tutto, spesso constata che i giovani sono apatici (specie quando gli opinionisti e i commentatori non trovano altro di cui parlare o scrivere). La nuova generazione di laureati forse non ha assunto un certo tipo di vitamine o di minerali, magari il ferro. Hanno il sangue stanco. Gli serve il Geritol.
Be’, in quanto membro di una generazione più vispa, con un luccichio negli occhi e il passo scattante, vi voglio dire cos’è che ci teneva belli carichi quasi tutto il tempo: l’odio.
Per tutta la vita ho avuto gente da odiare, da Hitler a Nixon – non che siano minimamente paragonabili nella loro malvagità. È tragico, forse, che gli esseri umani riescano a trarre così tanta energia ed entusiasmo dall’odio. Se vi volete sentire alti tre metri e capaci di correre per cento chilometri senza fermarvi, l’odio batte di gran lunga la cocaina pura. Hitler ha fatto risorgere un paese sconfitto, in bancarotta e mezzo morto di fame grazie all’odio e nient’altro. Pensate un po’.
Perciò a me sembra abbastanza probabile che i giovani di oggi negli Stati Uniti d’America non siano effettivamente apatici, ma lo sembrino soltanto alla gente che è abituata ad arrivare all’estasi attraverso l’odio, insieme ad altre cose ovviamente.
I ragazzi [...] oggi non sono sonnacchiosi, non sono indifferenti, non sono apatici. Stanno solo portando avanti l’esperimento di fare a meno dell’odio. È l’odio la vitamina, o il minerale, o come lo vogliamo chiamare, che manca nella loro dieta; si sono accorti giustamente che l’odio, a lungo andare, è nutritivo quanto il cianuro. Quella in cui si stanno cimentando è un’impresa molto esaltante, e gli faccio i miei migliori auguri.
©2-013, 2-014 by Kurt Vonnegut Jr. Copyright Trust - minimum fax 2-015. Pubblicato in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency ( P-NLA).
Traduzione di Martina Testa
IL LIBRO Il testo di Vonnegut che qui anticipiamo è compreso nel libro Quando siete felici, fateci caso ( minimun fax, pagg. 107, euro 13). Il volume raccoglie una serie di discorsi dello scrittore americano dal 1979 al 2004. A sinistra, “Homecoming” di Norman Rockwell Sotto, Kurt Vonnegut ( 1922- 2007)

il Fatto 2.2.15
Nonno Facebook
Questo non un social per giovani
Identità Il bisogno di esprimere se stessi
di Paola Porciello

Il social più popolare festeggia 1,5 miliardi di utenti. Ma sulla rete spopola un blog che annuncia: ormai è defunto, “è come stare a un pranzo di famiglia dove ti senti un po’ a disagio”. Chi ha ragione? Quali app sostituiranno la creatura di Mark Zuckerberg? Genitori e figli raccontano come ci si controlla e ci si evita su internet
DIBATTITI ONLINE
Alto, corpulento, capelli corti e con la faccia da ragazzino, qualche brufolo a ricordare che non ha ancora compiuto vent’anni, Andrew Watts un simile successo non se lo sarebbe aspettato. Una ricerca su Google con il titolo “A teenager’s view on social media” genera 37 milioni di risultati. L’articolo in cui racconta come lui e i suoi amici interagiscono con i principali social network nella vita quotidiana, pubblicato su medium.com , ha scatenato un putiferio. Facebook viene dato per morto, avete letto bene: defunto. Twitter, non pervenuto. Non ne afferrano ancora il senso. Vanno invece a gonfie vele Instagram e Snapchat. Quest’ultimo, un servizio di messaggistica istantanea simile a Whatsapp, è quello dove Andrew e i suoi amici passano più tempo.
Pur consapevoli che le opinioni di Watts non possono essere generalizzate a tutta la popolazione di adolescenti, americani e non - diversi tra loro per razza, estrazione sociale, cultura e grado d’istruzione – rimane il fatto che l’articolo di un ragazzo fino a pochi giorni fa sconosciuto sta suscitando un dibattito nel quale si sono sentiti obbligati a dire la loro anche i guru dei social media, inondati da mail di colleghi e amici contenenti il link del suddetto articolo.
In fuga I teenager migrano altrove
Il fatto che Facebook stia perdendo mordente tra i più giovani è un fatto noto agli addetti ai lavori da tempo. Lo stesso Zuckerberg aveva accennato alla questione l’anno scorso, durante una conferenza stampa sugli introiti della società. Ma in quell’occasione preferì soffermarsi sui numeri: nei primi tre mesi del 2014 i ricavi avevano raggiunto i 45,5 miliardi di dollari, di cui 10,2 di utili.
Secondo un rapporto di iStrategy Labs tra il 2011 e il 2013 Facebook ha perso 3.314.780 utenti di età compresa tra i 13 e i 17 anni mentre ha guadagnato terreno tra i più maturi. Lo stesso trend si registra anche in Italia dove, sui 24 milioni di iscritti, il 65% ha più di 35 anni (dato di gennaio 2014). La notizia portò molti a immaginare una prossima presunta scomparsa del più grande social network. Ma questo non è successo e anzi, grazie al boom della pubblicità sui dispositivi mobile nel quarto trimestre 2014 i ricavi di Facebook sono saliti del 49%.
La fuga dei teenager verso altre realtà virtuali non sembra infatti spaventare più di tanto Zuckerberg. In un’intervista al New York Times ha spiegato che l’acquisizione di altre applicazioni qualiInstagram e Whatsapp (quest’ultima al prezzo di 19 miliardi di dollari), molto più “cool” e “hip”, servono proprio a questo. La strategia di marketing della società californiana è cambiata: “Oggi siamo centrati sul consumatore - spiega una portavoce di Facebook Italia - e ci adattiamo alle sue esigenze seguendo la direzione deui venti milioni che, in media, vengono a trovarci quattordici volte al giorno”. Fra questi ci sono gli adulti che stanno rapidamente conquistando ul territorio prima appannaggio esclusivo dei figli, ma con una maggiore capacità economica. Per non parlare del valore generato dalle informazioni sugli iscritti raccolte in questi anni: a fine 2013 ciascun utente valeva circa 2,14 dollari. Moltiplicate questa cifra per il miliardo e mezzo di utenti disseminati in tutto il mondo e capirete come il problema dei teenager possa in effetti essere marginale per la società di Cupertino.
Identità Il bisogno di esprimere se stessi
Nonostante ciò, nel 2012 Zuckerberg tentò disperatamente di acquisire Snapchat, molto in voga tra i giovani americani, ma senza successo. L’articolo di Andrew Watts ci aiuta a capirne ancora di più il motivo: “Facebook ce l’abbiamo tutti ma lo usiamo pochissimo. Instagram ci piace molto, ma il nostro social è Snapchat: è qui che ci possiamo esprimere liberamente senza sentirci giudicati, rimanendo ancorati alla nostra identità sociale”. Facebook non è più il luogo naturale di ritrovo, anzi “è come stare a un pranzo di famiglia con tutti i tuoi parenti – scrive Watts – dove ti senti un po’ a disagio e non vedi l’ora di andartene”.
L’account su Facebook spesso si ha già nell’infanzia, anche se sarebbe vietato prima dei 13 anni. Con grande apprensione dei genitori, molti dei quali si sono iscritti sperando di controllare i figli, per poi scoprire che piaceva anche a loro. Per le esigenze di un adolescente, però, può non andare. Watts spiega: “Su Instagram non sono costretto a seguire tutti quelli che mi seguono. Così il mio feed contiene solo cose che mi interessano davvero e non un agglomerato multiforme di contenuti spesso di scarsa qualità; se ‘mi piace’ una foto o se la voglio commentare sono molto meno preoccupato delle reazioni degli altri utenti; Instagram ancora non è popolata dagli adulti e non ci sono i link, il che significa che non verrò sommerso dalla pubblicità, dallo spam o da qualche orribile articolo di gossip”.
In sostanza, almeno per Watts e il suo gruppo di amici, è ancora obbligatorio avere Facebook, ma solo per poche attività residuali come le chat istantanee e i gruppi tematici o per cercare qualcuno che hai conosciuto a una festa.
Sembra finito anche il tempo in cui si faceva a gara per chi aveva il maggiore numero di amici (motivo per cui ci ritroviamo tra i nostri contatti persone che conosciamo appena o che non conosciamo affatto). Snapchat ad esempio non contempla né follower né amici. Messaggi e foto inviati rimangono visibili solo per pochi secondi: “C’è molta meno pressione sociale rispetto a tutti gli altri social network. Puoi davvero essere te stesso e creare la Storia della tua giornata. Anche con immagini imbarazzanti che non ti sogneresti mai di postare su Facebook – afferma Watts”.
2020 I social media del futuro
Il nuovo Facebook, però, ancora non esiste. Il social del futuro dovrà verosimilmente andare incontro alle esigenze dell’ultima generazione di adolescenti, come stanno già facendo, fra i tanti, “Ello” e “This”: semplici e focalizzati sui contenuti, discreti, non invadenti, facilitano l’espressione di sé. E soprattutto, sono senza pubblicità. Le piattaforme di ultima generazione, per adesso, si propongono come anti-Facebook e anti-Twitter, luoghi dove le informazioni – assicurano i loro creatori – non verranno utilizzate per tracciare il vostro profilo di consumatori. Ma quanto può durare? Per sopravvivere, tutti prima o poi hanno dovuto introdurre una forma di introito, anche i più grandi: Wikipedia si è affidata alle donazioni volontarie e il colosso Google a un certo punto ha dovuto piegarsi agli ormai onnipresenti richiami pubblicitari tarati sulle preferenze degli utenti sferrando un colpo mortale alla sua immagine di azienda dalla mission altruistica e disinteressata.

il Fatto 2.2.15
Mark tocca 1,5 miliardi di utenti

LA MUTAZIONE Il 28 ottobre 2003 il diciannovenne Mark Zuckerberg lancia Facemash, predecessore di Facebook, inizialmente destinato ai soli studenti di Harvard. Nel febbraio 2004 nasce Facebook. Il 4 febbraio saranno passati 11 anni e il social network più popolato al mondo ha fatto molta strada. Il primo cambiamento importante avviene nel 2006 con il news-feed, l’aggregatore che modifica radicalmente la modalità di visualizzazione degli aggiornamenti. Nello stesso anno nasce la funzione “Note” che consente di pubblicare testi in modo simile a un blog, con tag e immagini. Nel 2010 arriva il famigerato tasto “mi piace”. L’anno dopo il servizio di videochiamate che utilizza la tecnologia Skype. Nel 2014 nasce l’applicazione Facebook Groups dedicata appunto ai gruppi, e di recente Messenger diventa un’applicazione a se stante per i messaggi istantanei. IL FILM Nel 2010 esce “The social network”, di David Fincher, che racconta i primi tumultuosi anni di Facebook caratterizzati dalle aspre vicende legali sulla paternità del progetto. Il film dividerà la critica ma alla fine incasserà più di 221 milioni di dollari in tutto il mondo e una valanga di nomination e premi, tra cui tre Oscar per miglior sceneggiatura non originale, montaggio e colonna sonora. Zuckerberg dichiarerà che sia il film che il libro da cui la pellicola è tratta, Accidental Billionaires di Ben Mezrich, non corrispondono per nulla alla realtà. Poco prima dell’uscita nelle sale il fondatore di Facebook partecipa al popolare show di Oprah Winfrey, e annuncia una donazione di 100 milioni di dollari alle scuole del New Jersey. Il gesto, invece di essere interpretato come un’opera di bene appare invece come un maldestro tentativo di distogliere l’attenzione dal film, nel quale peraltro Mark non viene certo dipinto in maniera lusinghiera. Zuckerberg, il più giovane milionario mai esistito, ha occupato per un certo periodo il primo posto nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi del mondo, soffiando la leadership a Bill Gates della concorrente Microsoft. Oggi, quasi trentenne, occupa “solo” l’undicesima posizione nella lista.

il Fatto 2.2.15
L’amore senza Facebook
Spegni il computer la verità è nel buio
di Thomas Beller

Le ultime settimane all’università le ho trascorse vagando per il campus in un deliquio di disperazione per la rottura con la mia ragazza. Stavamo insieme da oltre un anno. Da qualche tempo il mio interesse per lei si stava affievolendo. Poi lei decise che voleva lasciarmi e, d’improvviso, divenne il nettare che dava un senso alla mia vita. Il suo didietro, in particolare, divenne la pesca che avevo continuamente voglia di toccare. Per circa quattro mesi il nostro rapporto proseguì con questa dinamica nuova, rovesciata. Avevamo sempre avuto un forte legame fisico, ma non appena avvertii il rantolo della morte, il legame divenne un’ossessione. Se non le toccavo il culo o non la guardavo negli occhi, meglio le due cose contemporaneamente anche se ciascuna delle due bastava da sola, la vita smetteva di avere senso.
Poi lei decise di troncare. Non faceva più parte della mia vita pur continuando ad aggirarsi nei paraggi. In teoria la cosa avrebbe dovuto farmi desiderare di andarmene al più presto dall’università perché quell’ambiente era intrinsecamente legato al mio piacere e al mio desiderio. Prima me ne fossi andato, tanto meglio sarebbe stato.
A peggiorare le cose, in quel periodo mi ero immerso nella poesia di T. S. Eliot. Non facevo che ripetermi il suo verso “Aprile è il più crudele dei mesi”. Di notte, se vedevo che aveva la luce accesa, mi piazzavo ad una certa distanza dalla stanza del suo dormitorio e mi mettevo a fissare la sua finestra. Non so con certezza cosa sperassi. Di intravederla per un attimo? O di intravedere una sagoma sconosciuta – quella di un uomo che si godeva la pesca che non era più mia?
Qui debbo fare una pausa per spiegare che sto scrivendo tutto questo in inglese nella speranza che venga tradotto in italiano perché sono una sorta di inconsapevole italofilo. Non parlo italiano e, non di meno, amo l’Italia e la cultura italiana. Probabilmente senza conoscerne l’essenza, dal momento che mi sono formato sui film, sui libri e barcollando per il Paese in stato di infatuazione. Per qualche ragione trovo Ok descrivere l’ormai svanito culo della mia ex ragazza come una pesca se questo scritto verrà tradotto in italiano, mentre probabilmente in inglese non userei questa immagine. A complicare ulteriormente la faccenda, questa deliziosa ragazza con il suo incredibile culo aveva una madre nata e cresciuta in Italia e che il destino aveva condotto nei sobborghi della East Coast. La ragazza aveva un personale meraviglioso, ma davanti era piatta. Al contrario la mamma italiana aveva un seno enorme. È facile capire come l’entusiasmo, diciamo, per Fellini potrebbe ingigantire e distorcere una siffatta esperienza anche se l’esperienza l’avevo fatta quando non avevo ancora mai visto un film di Fellini. Quando nei fine settimana estivi andavo a trovare la mia ragazza a casa sua, mi intrattenevo in lunghissime conversazioni con la madre. Non che sua madre parlasse molto. Se ne stava seduta con il suo girocollo nero, i capelli accuratamente pettinati, il rossetto rosso e fumava nel salotto di quella casa di periferia mentre io cercavo di convincerla a permettere a sua figlia di venirmi a trovare da sola a New York e di passare la notte a casa mia. Erano tentativi inutili, ma da queste discussioni durante le quali imploravo e supplicavo ai piedi del trono, traevamo una sorta di ritualistico piacere. La mia ragazza, quando affrontavamo queste interminabili conversazioni, era sempre occupata da qualche altra parte della casa anche perché non aveva un buon rapporto con sua madre. Io sentivo di essere sempre dalla sua parte. Nel frattempo mi mettevano a dormire nella stanza di suo fratello. Una sistemazione assolutamente opportuna, capisco oggi, anche se all’epoca la cosa mi infastidiva. La mia ragazza ed io ci arrangiavamo reclinando il sedile posteriore del loro minivan, preso a prestito dalla madre per andare al cinema, e profanando la tappezzeria di quell’angusto spazio.
Quando da studente masochista fissavo la sua stanza illuminata, mi sentivo avvilito, ma oggi sono grato del fatto che all’epoca non esistesse Facebook. Sicuramente l’impulso che mi spingeva a fissare la sua finestra avrebbe trovato il suo sfogo su Facebook, la qual cosa non sarebbe servita né a me né alla mia ex ragazza, ma sarebbe stato uno spasso per qualcun altro.
Facebook è un mondo nel quale le luci sono sempre accese. All’epoca i miei sentimenti si esprimevano meglio al buio.
Questi appostamenti notturni erano un pessimo modo di usare il mio tempo. Era una cosa infantile. Intendo dire che da bambino, se ti fai male al polso o al dito, cominci immediatamente a toccartelo, a rigirartelo, a tormentarlo come se sentire il dolore ti consentisse di capirlo e di localizzarlo. Se lo puoi capire e localizzare, te ne puoi anche liberare. È un riflesso stupendamente umano, ma assolutamente controproducente. Ad un certo punto diventi abbastanza adulto da capire che se ti sei slogato un polso o ferito un dito, quello che devi fare è lasciarlo in pace. Devi immobilizzarlo, applicargli una stecca. Devi lasciarlo guarire. (E quando migliora devi ricominciare ad usarlo per impedire che si atrofizzi!)
Eppure ancora oggi quando mi faccio male al dito o al polso, il primo istinto è di strizzarlo o dimenarlo per sentire il dolore. Voglio localizzare il dolore per capirlo. È una sciocchezza, lo so bene, e allora mi trattengo. Ma l’impulso è lì e vale sia per le ferite emotive che per quelle fisiche.
Facebook ci consente di prendere la parte di noi che è in uno stato di disagio o di sofferenza e dimenarla, sbatterla sul tavolo come se volessimo provare dolore, come se volessimo localizzarlo. Facebook fa moltissime cose del tutto naturali per l’uomo. Non ho alcun interesse a demonizzarlo o ad auspicarne la morte; è una manifestazione degli impulsi più naturali: la curiosità di sapere come sono le vite degli altri. Il desiderio di scrivere racconti e commedie altro non è che il desiderio di fornire una testimonianza della nostra esperienza e Facebook consente a chi non fa lo scrittore di provare questa gratificazione. Perché Facebook dovrebbe essere un problema se permette a questo impulso di manifestarsi in tempo reale?
Il problema è che moltissime cose si fanno meglio al buio. Sognare, ad esempio. O piangere. Facebook è sempre acceso – l’elettricità dello schermo del computer splende come una insegna al neon di notte – e anche i pensieri, le immagini e le battute di spirito che postiamo su Facebook sono illuminati, assomigliano ad insegne al neon che pubblicizzano la nostra esistenza. Talvolta desideriamo agire nell’oscurità. Certamente questa è una delle ragioni della crescente migrazione verso altri social media, quali Snapchat e Whisper, che permettono un certo grado di anonimato. La loro popolarità ha qualcosa a che fare con il “ritorno del rimosso” di Freud e debbono affrontare un diluvio di desideri e manifestazioni primitivi. Questo è stato sempre il dono e la maledizione di Internet dove, per dirla con la folgorante concisione del più popolare cartoon del New Yorker, “nessuno sa che sei un cane”.
Ma il piacere, l’attrazione di questi scenari anonimizzanti, credo consista, specialmente per i giovani, nel fatto che hanno luogo al buio. Non sono tenebre fitte e impenetrabili in quanto nessuno crede davvero alla promessa di queste App di far svanire tutto per sempre. Ma quanto meno è garantito il buio dell’anonimato.
In quelle ultime settimane di università continuavano a tornarmi in mente altri versi di T. S. Eliot. A quei tempi mi sembrava uno scherzo crudele: “Tempo per te e tempo per me/ E tempo anche per cento indecisioni/ E per cento visioni e revisioni”. Avevamo attraversato le nostre indecisioni, pensavo, e il risultato era che la ragazza alla finestra, in quella stanza illuminata che un tempo avevo occupato, ora si trovava nel suo tempo e io mi trovavo nel mio.
Ora, tuttavia, mi sento attratto dai versi che precedono questi: “Ci sarà tempo, ci sarà tempo / Per prepararti una faccia per incontrare le facce che incontri”.
Come sappiamo tutti, è stancante preparare una faccia per incontrare le facce che incontriamo. È stancante nella vita quotidiana, ma questi preparativi sono anche il progetto di una vita intera. Non facciamo che accumulare pensieri, sentimenti ed esperienze per diventare ciò che siamo. Ho la sensazione che sia meglio fare questi preparativi in privato. E talvolta ci assale il desiderio di non preparare alcunché. Vogliamo indossare la nostra faccia senza scusarci, senza preparativi o pensieri. C’è come un accenno di scuse nei nostri post su Facebook, forse perché verranno letti sotto la luce abbagliante del luogo nel quale appariranno e nel quale continueranno a vivere per sempre. Questi post sono personali, ma non sono diretti a nessuno in particolare; di solito manca in essi l’autentica intimità di una lettera. Somigliano più ad una cartolina con quel vago alone di passiva aggressività contenuta nella trita frase: “vorrei che fossi qui”.
Non si nasconde un piccola menzogna in questa frase? Talvolta la verità ha bisogno della privacy del buio.