mercoledì 4 febbraio 2015

il Fatto 4.2.15
AI LETTORI
PERCHÉ SIAMO UNA SQUADRA

di Antonio Padellaro 
 
Cari lettori. Da oggi lascio la direzione del Fatto Quotidiano a Marco Travaglio, ma non lascio il nostro giornale perché noi siamo una squadra e facciamo gioco di squadra.    Quando nel settembre del 2009 partimmo per un’avventura che perfino chi ci voleva bene considerava troppo azzardata, non ci demmo cariche, ma incarichi. Chiedemmo a Travaglio: dovrai scrivere un articolo al giorno in prima pagina perché sei la nostra star; e in questi cinque anni Marco ha scritto ogni giorno, saltando Natale e Ferragosto solo perché non escono i giornali. A Peter Gomez, autore di grandi inchieste su Tangentopoli e mafia, chiedemmo di imparare un nuovo mestiere e di costruire da zero ilfattoquotidiano. it che ha rapidamente scalato la vetta dei siti d’informazione più visti e apprezzati con circa 700mila contatti al giorno. A Marco Lillo chiedemmo di fare Marco Lillo e i suoi numerosi scoop, dallo scandalo Montepaschi scoperchiato su queste pagine ai documenti esclusivi sulla fine anticipata del papato di Raztinger, sono da antologia del giornalismo. Alle decine di firme che hanno bussato al Fatto lasciando da un giorno all’altro importanti testate (uno per tutti: Furio Colombo) abbiamo chiesto di regalarci la loro competenza, ma anche di scompigliare le nostre certezze, perché questo ai giornali fa sempre bene. E ai giovani e giovanissimi che si affacciavano per la prima volta in una redazione chiedemmo di essere ambiziosi, ma anche di prendere questo mestiere con allegria perché i lettori non amano i giornali tristi. Restava da nominare il direttore. Toccò a me, forse perché lo avevo già fatto ed è stato uno straordinario e indimenticabile dono che ho condiviso giorno per giorno con i migliori collaboratori che un direttore possa desiderare: Nuccio Ciconte, Vitantonio Lopez, Ettore Boffano, Edoardo Novella e Paolo Residori che ha disegnato pagina per pagina.    È andata bene. Oggi il Fatto è un giornale unico e forse irripetibile nel suo genere. Senza aiuti pubblici e con minimi proventi pubblicitari, per cinque anni consecutivi ha prodotto utili e dividendi e ha finanziato importanti iniziative (dal sito alla versione digitale Mia, ultima nata), contando esclusivamente sul vostro sostegno. Voi che siete diventati la comunità del Fatto e che affollate le nostre feste. Noi che, con tutti i nostri errori, abbiamo mantenuto fede al patto fondativo: saremo un giornale libero e nessuno al mondo potrà dirci ciò che dobbiamo o non dobbiamo pubblicare.    Questo spirito comune ci ha spinto, unici in Italia, ad allegare al nostro quotidiano il numero speciale di Charlie Hebdo, dopo la strage di Parigi: perché la libertà di stampa e di parola va difesa nei fatti da ogni barbarie.    Siamo una squadra e non abbiamo padroni che scelgono o cacciano i direttori. E come squadra abbiamo pensato che rinnovarsi fa bene a tutti, soprattutto quando si può contare su alcuni fuoriclasse. Per questo è stato chiesto a Marco uno sforzo in più e a noi di dargli tutto l’aiuto possibile. Come presidente della società, incarico di cui ringrazio l’assemblea dei soci, darò il mio contributo ai nuovi affascinanti progetti allo studio dell’azienda e dell’amministratore delegato Cinzia Monteverdi. Abbiamo ancora molto da fare per il Fatto.  

il Fatto 4.2.15
Travaglio direttore: la società e il Cdr


LA SOCIETÀ Editoriale Il Fatto comunica che in data 02/02/2015 il Cda ha deliberato la nomina di Marco Travaglio come nuovo direttore della testata Il Fatto Quotidiano. Il giornalista, già da un anno condirettore del giornale, succede ad Antonio Padellaro alla guida del giornale dopo 5 anni dalla sua nascita. L’amministratore delegato Cinzia Monteverdi, insieme ai consiglieri Luca D’aprile, Peter Gomez, Lucia Calvosa, Layla Pavone, Marco Tarò, e alla presenza del Collegio Sindacale presieduto da Niccolò Abriani, hanno accolto la proposta di nomina di Marco Travaglio presentata da Antonio Padellaro che, con grande forza e spirito propositivo per il futuro, resterà in forza al giornale non solo come fondatore ma anche, e soprattutto, come editorialista. L’Assemblea degli azionisti ha inoltre nominato Antonio Padellaro, all’unanimità, Presidente della Società Editoriale il Fatto. Con la convinzione che il nuovo assetto garantirà la continuità con il passato e nuove idee per il futuro i Soci hanno ringraziato Antonio Padellaro per l’insostituibile apporto che ha dato alla nascita e allo sviluppo del giornale e per il prestigio e l’equilibrio con cui ha diretto la testata in questi anni. Apporto fondamentale che proseguirà da oggi in poi nella sua nuova veste. La Società Editoriale Il Fatto ringrazia altresì Marco Travaglio per aver voluto accettare la direzione del giornale e gli formula i migliori auguri di buon lavoro.
Il comitato di redazione del Fatto Quotidiano saluta con affetto Antonio Padellaro, il quale ha avuto il merito di far nascere un prodotto editoriale originale e innovativo, soprattutto libero, che si è ormai affermato nel panorama della stampa italiana. A Marco Travaglio, giornalista di indubbia qualità che riflette l’identità del giornale, formuliamo i nostri migliori auguri. Siamo certi che, anche forte del lavoro comune di questi anni, consentirà al Fatto, oltre che di preservarne l’autonomia e la libertà, di raggiungere nuovi e ambiziosi traguardi.

il Fatto 4.2.15
L’insediamento
C’è un cattolico (vero) al Colle
di Marco Politi


Torna sulla scena politica, e ai massimi livelli, una personalità cattolica – fortemente cattolica dal punto di vista della fede e della cultura – mentre sono ormai naufragati i tentativi di ricreare un partito confessionale e in una fase cui papa Francesco ha sancito che il Vaticano non vuole assolutamente più muovere pedine nella politica italiana. Perché tocca alla Cei interloquire con le istituzioni della Repubblica. È un evento degno di attenzione, non senza cogliere i due paradossi che lo caratterizzano.
IL PRIMO è che al suo “capolavoro” (l’elezione di Mattarella) il king-maker Matteo Renzi è stato costretto. Sospinto quasi fisicamente a cercare una personalità dal profilo alto e non manovrabile in seguito al rifiuto dei suoi interlocutori politici di accettare ciò che nei mesi passati aveva in mente: un “tecnico” o qualche altra invenzione, magari ammantata dalla retorica di un nome femminile. Il che dimostra che con Renzi si può trattare soltanto da posizioni di fermezza (come è accaduto con il rinnovo della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura, quando in Parlamento vennero rimandate al mittente proposte inadeguate. Idem, quando Napolitano gli ha impedito di procedere a nomine inconsistenti per la carica di ministro degli Esteri poi ricoperta da Gentiloni). Il secondo paradosso è che sin dalle prime sue parole Sergio Mattarella ha evidenziato che cosa sia sul serio la tradizione cattolica democratica e sociale, mostrando in controluce le debolezze culturali che contrassegnano l’agire del presidente del Consiglio. A fronte di un premier, che per paura di sporcare la sua immagine di “vincente” fugge sistematicamente dal disagio sociale – si tratti dell’alluvione di Genova o dei tumulti razzisti di Tor Sapienza – il nuovo presidente della Repubblica ha evocato per prima cosa le difficoltà degli italiani, ha rivolto la sua attenzione alla gente comune che non può partecipare ai deliri della Leopolda dove si inneggia con tifo da stadio “al posto fisso che non c’è più”, ha ricordato le ferite sociali del Paese, mettendo in luce ciò che nella narrazione renziana non esiste mai: l’aumento, in questa crisi, di ingiustizie, nuove povertà, emarginazione e solitudine.
È un primo spartiacque tra una cultura cattolica nutrita dal concilio Vaticano II – senza bisogno di scomodare papa Francesco, che pure si muove sulla stessa lunghezza d’onda – e lo stile alla Matteo che privilegia soltanto il rapporto con i Soggetti Forti (si ricordi l’impegno fulmineo con cui ha bloccato la Google Tax e l’insistito schierarsi con Marchionne a prescindere). Per vivere in politica una “idea del cattolicesimo”, come si è formato al meglio nel Novecento, non basta certo qualche frettolosa frequentazione di scoutismo.
Il cardinale Bagnasco notava giorni fa il tormento che colpisce “moltissime famiglie che non arrivano da tempo alla fine del mese, anziani che attendono le loro magre pensioni mangiando pane e solitudine, giovani che hanno paura per il loro futuro incerto”. Questo orizzonte è assente dai proclami del premier, ma ben presente nella mente del presidente Mattarella.
Intriso del cattolicesimo socialmente impegnato (nutrito degli insegnamenti dei papi che vanno da Giovanni XXIII al Giovanni Paolo II, da Paolo VI a Francesco) è anche l’imperativo, contenuto del discorso del giuramento del nuovo capo dello Stato, a combattere mafia e corruzione. Due termini introvabili nel discorso di investitura di Renzi al Senato. E si farebbe torto all’intelligenza di Matteo attribuirlo a distrazione.
C’è ancora un dato che salta agli occhi. Il primo passo di Mattarella è stato di andare alla Fosse Ardeatine, le sue parole sulla Resistenza e la lotta al nazifascismo sono un chiaro riallacciarsi al cattolicesimo politico repubblicano, nato dall’opposizione alla dittatura fascista. Un richiamo alla “memoria” nazionale, che a Berlino come a Parigi come a Washington non viene mai archiviata, ma che non dice nulla ad un premier che si è vantato di una “profonda sintonia” con Silvio Berlusconi, notoriamente smemorato su questi temi.
DUNQUE, c’è un cattolico al Quirinale. Una prova, valida per stagioni future, che il cattolicesimo può essere produttivo anche senza casacca partitica. E una boccata d’aria fresca in un panorama politico generalmente privo di cultura, in omaggio alla rottamazione delle visioni del mondo. Potrebbe forse servire a rilanciare finalmente l’idea che la politica ha bisogno di un retroterra culturale. Speriamo.

il Fatto 4.2.15
Un buon inizio, alla faccia di quelli “Mattarella chi?”
di Antonio Padellaro


SONO CONTENTO di aver ascoltato il bel discorso del nuovo presidente alla radio perché ho evitato lo spettacolo di chi ieri, in Parlamento, si spellava le mani dopo che per giorni aveva ironizzato su “Mattarella chi?”. Il capo dello Stato ha l’esperienza necessaria per non farsi abbindolare dal servo encomio anche perché il suo messaggio, alla prova dei fatti, dovrebbe risultare indigesto a parecchia gente. Ai corrotti, agli evasori, ai mafiosi, ai razzisti, agli intolleranti e ai profittatori di ogni genere su cui Mattarella ha puntato l’indice semplicemente sfogliando le pagine della Costituzione repubblicana. Per noi del Fatto, che sul rispetto della Costituzione abbiamo fondato la linea editoriale, un promettente inizio. Certo, non ci sfugge la tecnica molto democristiana di una parola buona per ogni schieramento, un ecumenismo obbligato da parte di chi si è proposto come il presidente di una ritrovata unità nazionale. L’apprezzamento, per esempio, per la cosiddette riforme costituzionali del governo Renzi, un accrocco pericoloso su cui ha opportunamente evitato di esprimere un “giudizio di merito”. Ma l’accenno quasi commosso ai due fucilieri di marina giustamente processati in India per l’assassinio di due poveri pescatori ci è parso francamente eccessivo, anche se gli è valso il plauso della destra. Spero soltanto che un’affermazione così convinta di valori condivisi dalle persone per bene non finisca diluita poi nei dosaggi e nelle alchimie della ragion di Stato. L’Italia ha un bisogno assoluto di persone vere. Di delusioni è stato fatto il pieno.

il Fatto 4.2.15
Don Ciotti: “Lotta alla corruzione senza intermittenze”


IL PRESIDENTE Mattarella ha detto soprattutto una verità importante, che corruzione e mafia nel nostro Paese sono facce della stessa medaglia e quindi serve l’impegno contro le forme di corruzione e del capitale mafioso. Di questo dobbiamo parlare, del bisogno di essere cittadini, non a intermittenza, ma responsabili”. Così don Luigi Ciotti, fondatore di Libera: “Dobbiamo essere non persone che si commuovono solo davanti a grandi tragedie, ma che si muovano e si assumano la loro parte di responsabilità. Il presidente Mattarella ha fatto un forte richiamo a questo tema, perché la corruzione strangola la libertà e la dignità delle persone, ci impoverisce tutti. È una ferita che ci portiamo dentro perché ci sono meno soldi per le politiche sociali, per i servizi, per creare delle libertà per le persone”.
  
il Fatto 4.2.15
Le parole del dialogo e l’altolà al “metodo del canguro”
di Sandra Bonsanti


LE PAROLE PIÙ NUOVE e più sue, quelle che mostrano la strada “diversa” che percorrerà il Presidente Mattarella, sono quelle riferite ai giovani parlamentari che “portano in queste aule le speranze e le attese dei propri coetanei” e che “rappresentano anche con la capacità di critica e persino di indignazione, la voglia di cambiare”. A loro, in questo tempo in cui è di moda accusare il dissenso di essere “antipolitica”, Mattarella chiede di essere al servizio “del bene comune”. Questo modo di pensare non appartiene a quel “pensiero unico” che molto ci tormenta. Ricorda piuttosto un desiderio di dialogo di cui sono così avari sia l’attuale presidente del Consiglio sia il precedente inquilino del Colle. Da qui possono svilupparsi percorsi nuovi, che dovranno tener conto della crisi di fiducia nei partiti nel tempo in cui “dalla società emergono nuove modalità di espressione che hanno già prodotto risultati avvertibili nella politica e nei suoi soggetti”. Insomma il discorso di un Presidente che dal suo spazio privato ha osservato e studiato le nuove forme di democrazia delle quali sarà un arbitro, chiedendo di vivere la Costituzione “giorno per giorno”. Ma come si comporterà rispetto alla riforma della seconda parte della Carta? Il presidente afferma di non voler entrare nel merito: dunque per lo meno prende atto che non esiste una soluzione soltanto, quella che a suon di canguri ha prevalso in prima lettura al Senato e alla Camera. Nel 2006 Mattarella fu vicino al Comitato referendario di Scalfaro e Leopoldo Elia. Fu con noi e speriamo che lo sia ancora quando la democrazia fosse indebolita da scorciatoie e soluzioni pericolose.

il Fatto 4.2.15
Il politologo Giorgio Galli
“Discorso da Dc, ma sull’Italicum potrà stupirci”
intervista di Luca De Carolis


Quello di Mattarella è stato un discorso molto banale, tipicamente democristiano. Ma se Napolitano ha avallato tutto, non escludo invece che il nuovo presidente possa opporsi a una legge chiaramente incostituzionale come l’Italicum. Quanto meno ci possiamo porre la domanda, ed è già importante”. Il politologo Giorgio Galli non si è entusiasmato per l’intervento alla Camera del neo presidente. Ma riconosce: “È un uomo di grande rigore, con un forte profilo”.
Perché ha trovato il suo discorso così insipido?
Era pieno di ovvietà, senza spunti originali o novità percepibili. Anche il ripetuto appello all’unità nazionale mi è parso un elemento molto tradizionale. E poi in questo momento l’unità del Paese non è minacciata da nessuno. Perfino la Lega Nord, che era vagamente ostile, è diventata un partito nazional-populista che rivendica l’italianità nei confronti dell’Europa. D’altronde nel discorso ci sono anche altri passaggi molto generici.
Per esempio?
L’insistenza sulla lotta al terrorismo. Per frenarlo, o si tratta per fare la pace o si accetta che ci sia una guerra come quella che va avanti da 15 anni. Non c’è molto altro da dire.
Parliamo dello stile, del linguaggio. È stato davvero un discorso in stile democristiano?
Assolutamente sì. I due argomenti appena citati, l’unità nazionale e la lotta al terrorismo, erano tipici della Democrazia cristiana. Temi da partito italiano, come veniva definita la Dc, come a caratterizzarla come forza di governo insostituibile. In fondo, si tratta di una visione affine al partito della nazione di cui parla Renzi.
Ha colpito il ricordo di Stefano Taché, il bambino ucciso in un attentato alla Sinagoga di Roma nel 1982.
Forse è un segnale a Israele, la garanzia che Mattarella non è filo-arabo, a differenza di tutti i principali nomi della Dc di sinistra, la sua area di provenienza. Parliamo di personaggi come Gronchi e Fanfani, per arrivare a Moro, che trattò con i palestinesi per evitare che l’Italia fosse oggetto di attentati.
Mattarella ha anche esortato a frenare il ricorso alla decretazione d’urgenza. Non le pare un buon segnale?
Questo richiamo l’aveva già fatto Napolitano, ma non è cambiato nulla, anzi il ricorso ai decreti legge è sempre più aumentato. Si tratta di vedere se al suo monito seguiranno qualche prudenza in più da parte del governo e un maggior spazio per il Parlamento. Per dire, ogni fine anno viene presentato un decreto milleproroghe: vediamo come si regolerà Mattarella di fronte a queste brutte abitudini.
Renzi ha ripetuto di voler procedere “come un turbo” sulle riforme.
E infatti questo sarà il passaggio fondamentale nell’avvio della nuova presidenza. L’Italicum prevede le liste bloccate (i capilista bloccati, per la precisione, ndr) esattamente come il Porcellum, che Mattarella bocciò da giudice della Consulta perché era una legge che ignorava le preferenze, e quindi il diritto di scelta dei cittadini. Vedremo se su questo punto confermerà l’assoluta autonomia e imparzialità che ha promesso nel discorso.
Mattarella ha detto che sarà arbitro e garante della Costituzione.
Beh, vorrei capire garante di quale Carta, di quella attuale o di quella che uscirà dalla riforma.
È parso aperturista verso la riforma del Senato.
Napolitano, esondando le sue prerogative, era arrivato a dire che il bicameralismo perfetto era stato un errore dei Costituenti, quando invece venne adottato in tutte le democrazie occidentali dopo la guerra. Mattarella è sempre stato molto rispettoso della Costituzione. E questa riforma del Senato è piena di difetti.
Sia sincero: pacato e democristiano com’è, non rappresenta il presidente perfetto per Renzi?
No, credo che il premier avrebbe preferito una persona più accomodante, meno caratterizzata. Mattarella è un cattolico adulto, alla Prodi per intenderci. Va detto però che, dovendo tenere assieme il Pd per evitare sorprese, Renzi ha compiuto una scelta di grande lucidità puntando su di lui.
Ritiene che possano entrare in conflitto?
Non lo so. Certo è che se Mattarella dovesse opporsi a determinati provvedimenti potrebbe crearsi un forte scontro.
Quanto sarà diverso da Napolitano?
Il suo predecessore non aveva la vocazione al presidenzialismo, ma vi è stato quasi costretto dalla situazione politica, diventando “Re Giorgio”. Mattarella invece è sempre stato molto prudente. Bisogna aspettarlo, alla prova dei fatti.

il Fatto 4.2.15
Il linguista Tullio De Mauro
“Ha usato termini semplici per farsi capire”
intervista di di Antonello Caporale


Quando ha iniziato il discorso infliggendoci immediatamente un “deferente saluto” ho iniziato a preoccuparmi. Professor Tullio De Mauro, era evidente la scia chimica lessicale democristiana.
“Invece è stato molto appropriato e lei non ricorda bene. Ha diviso in due: saluto rispettoso per i grandi elettori. Pensiero deferente per i predecessori Ciampi e Napolitano. Mattarella mi piace assai forse anche perchè, al tempo in cui ero ministro della Pubblica Istruzione, era uno dei tre in sala che, quando parlavo, ascoltava e prendeva appunti. Son cose che non si dimenticano, ah ah”.
Sono rimasto molto scosso quando ho udito il verbo “inverare”. La macchina del tempo ci ha riportati alla letteratura della prima metà del secolo scorso.
Giovambattista Vico. Anche Benedetto Croce. È un verbo dal timbro crociano. Meraviglia.
Frasi educate, pensieri lineari. Un trattato di pedagogia per gli alunni del primo anno.
È in grave errore. Sergio Mattarella non ha preparato un trattato di filosofia del diritto, ma un discorso alla Nazione. Ha usato parole comuni per farsi capire dalla gente comune. E li ha chiamati concittadini finalmente, dismettendo quel demagocico parolone .
Italiani!
Concittadini. Che bellezza.
Nessuna complicazione lessicale. Sembrava un gran parroco ai fedeli.
È la tradizione francescana, la predicazione francescana. Regola numero dieci: Concisa fu la parola del Signore.
Lo faremo presto Santo.
Noto anch’io il conformismo, l’esaltazione spinta. È un nostro vizio. E poi quel Renzi. Sembra che sia divenuto Giulio Cesare. Non abbiamo limiti. Ha svolto bene il suo ruolo, ma nulla di più.
Gli italiani sono eccessivi, con quel gusto alla caciara, alle urla.
Ecco, Mattarella ridimensiona le urla. Pone una distanza, restituisce alla funzione un ruolo, e alla Costituzione una guida. Chiede ai suoi concittadini di garantire la Costituzione, li trasforma in soggetti propulsori di legalità. Inverte il messaggio.
Ma la frase più forte (uomini di buone maniere e di cattive abitudini) detta a proposito dei corrotti l’ha dovuta pescare nel vocabolario del Papa.
Ma lui sa benissimo cos’è quella corruzione. Conosce a fondo la mafia dei colletti bianchi. E quella frase è veramente eccelsa.
Frasi decapitate, così brevi da sembrare un soffio d’aria.
Invece è stato perfetto. Non ha mai oltrepassato la soglia limite delle venticinque parole, come raccomandiamo noi linguisti. Solo una volta ha ceduto alle 28 ed eccezionalmente si è avventurato in una frase da 41 parole con 5 preposizioni subordinate di primo grado e una di secondo.
Le sciocchezze si possono dire anche con frasi brevi.
Perciò conta il pensiero.
Mattarella entra a meraviglia nei 140 caratteri di twitter.
Mi ci fa pensare, sì forse sì. E dà una prova che si riesce a scrivere un tweet anche senza dire stupidaggini.
Resisto alla sua esultanza.
Mattarella ha utilizzato il linguaggio breve della Costituzione. Nessun impianto retorico, nessuna frase esortativa. Si è soffermato sulle constatazioni. Legga qua: “Sono aumentate le ingiustizie, è aumentata la povertà”. Non è risucchiato dalla gomma retorica, non è scalfito dalla demagogia. Plana sui fatti con ordine, senza eccessi. Non ha bisogno di allertare paroloni, gonfiare i verbi, seminare superlativi. Non le sembra rivoluzionario?
Molto morigerato anche con i grandi evasori.
Che pulizia linguistica: “Ciascuno concorra con lealtà alle spese pubbliche”.
Perciò ha invitato Berlusconi, molto ferrato sul tema, al Quirinale?
Ecco, non mi ci faccia pensare. Perchè solo qualche anno fa l’ipotesi che non fosse ospite ma padrone di casa pareva plausibile.
Le piace Mattarella.
È un antibiotico contro le urla, la caciara. L’essenzialità del linguaggio dà forza al pensiero. Non ricorre a toni enfatici e si presenta al Parlamento - che spesso confonde la forza dell’esclamazione con le urla - infliggendogli una lezione di stile. Mi sembra il massimo possibile.

Repubblica 4.2.15
L’antiretorica di Mattarella il Professore
Uomo estraneo all’establishment si è rivolto poco alla politica e invece molto alla società italiana
di Stefano Folli


DUE anni fa, appena rieletto in una condizione di emergenza istituzionale, Giorgio Napolitano sferzò il Parlamento con un discorso rimasto famoso per la sua asprezza. Fu salutato da un’ovazione imprevedibile, date le circostanze.
AL punto che qualcuno si domandò se deputati e senatori avessero compreso il senso della reprimenda. Ieri lo stesso Parlamento ha riservato al nuovo presidente della Repubblica un’accoglienza altrettanto calorosa e ci si augura non altrettanto superficiale.
Sergio Mattarella ha potuto usare un tono diverso, misurato e conciso, in primo luogo perché questa è la sua cifra comunicativa, ma anche per un’altra ragione da lui sottolineata: il processo delle riforme si è messo in moto, sia pure con fatica. I lavori sulla seconda parte della Costituzione sono in corso e lo stesso vale per la riforma elettorale. Il merito di questa lenta evoluzione, rispetto all’immobilismo del recente passato, è in primo luogo di Napolitano, alla cui esperienza Mattarella si ricollega (ma è ovvio che lo farà con il suo stile peculiare e con una specifica sensibilità istituzionale). In secondo luogo lo slancio riformatore va attribuito al dinamismo del premier Renzi, che del nuovo capo dello Stato è il grande elettore, ma non sarà in alcun modo il Lord Protettore.
Se c’è infatti un aspetto che colpisce nella prima giornata di Mattarella presidente, è il senso un po’ imperscrutabile di riservatezza e autonomia che emana dalla sua persona. Non è stata eletta una figura dell’«establishment », di un certo mondo romano. È stato eletto un professore di diritto che non ha mai considerato la politica un mestiere bensì un «servizio al paese», secondo le sue parole; e che da qualche anno aveva conosciuto una seconda vita negli uffici della Corte Costituzionale. Ebbene, quest’uomo che ama esprimersi attraverso gli atti e che con tutta evidenza non ama la retorica, ieri si è rivolto poco o per nulla al ceto politico e molto alla società italiana.
Abbiamo quindi assistito alla fusione di una cultura liberale delle istituzioni con la dimensione sociale del cattolicesimo democratico. E su tale base egli ha parlato a coloro che sono feriti dalla crisi economica e possono essere tentati di rigettare il metodo democratico. Invece la democrazia, ha spiegato Mattarella con accenti quasi pedagogici, è una conquista che si rinnova ogni giorno. Una riconquista che richiede sacrifici e si coniuga con il rispetto della dignità umana, spesso partendo dal cuore prima che dalla mente delle persone. La credibilità delle istituzioni non è un valore astratto: al contrario è il distillato concreto di comportamenti che devono venire dall’alto. Quindi il servizio alla cosa pubblica è prima di tutto un impegno etico.
Lo stile di Mattarella è questo, intessuto di una paziente opera di convincimento. Ma il fatto che non abbia parlato alla società politica non deve trarre in inganno. Il discorso del presidente della Repubblica era rivolto ai cittadini, ai giovani su cui non si deve smettere di investire, ma era costruito per essere ascoltato da chi governa e da chi fa le leggi in Parlamento. Il rinnovamento delle istituzioni è parte integrante della credibilità complessiva del sistema. E l’unità nazionale è il primo valore che si disperde nel mare della frammentazione sociale, nella disarticolazione delle speranze, nella rassegnazione.
Si capisce che Matterella sarà un presidente molto fermo nelle sue prerogative, attento all’equilibrio che regola la vita degli organismi costituzionali, a cominciare dal Parlamento (significativo il suo richiamo a limitare il ricorso ai decreti legge). Non sarà un elemento di freno per le riforme, ma guarderà alla Costituzione come a un patrimonio da ammodernare senza incrinarne il senso profondo. Il che comporta la riscoperta delle radici nazionali sul piano della cultura politica e della storia. La visita alle Fosse Ardeatine, l’altro giorno, e ieri il ricordo della Resistenza rappresentano un richiamo a non disperdere la memoria. Al tempo stesso Matterella ha detto con chiarezza che il nazismo dei tempi moderni è il terrorismo fanatico e fondamentista, esempio dell’orrore cui può giungere la volontà di strumentalizzare e piegare la religione per colpire i principi di tolleranza e di libertà. E qui il capo dello Stato, che ha avuto un fratello ucciso dalla mafia, ha ricordato un piccolo bambino («un bambino italiano») da troppo tempo dimenticato: Stefano Taché, due anni, ucciso oltre trent’anni fa nella Sinagoga di Roma. Forse non poteva esserci miglior riferimento per dare il senso e la prospettiva della nuova presidenza.

Corriere 4.2.15
Mattarella, discorso d’insediamento Tanti applausi, tutti sinceri?
di Massimo Franco

qui

il Fatto 4.2.15Lo storico Casarrubea
“Caro presidente, le accuse di Dolci erano documentate”
intervista di Enrico Fierro


La verità è che la penna per scrivere la storia, la impugnano sempre i vincitori”. Inizia con l’amarezza il colloquio con Giuseppe Casarrubea, storico siciliano, di quel particolare periodo della vita nazionale che fu il dopoguerra nell’Isola, il ruolo degli americani, e soprattutto quel passaggio di campo della mafia dal fronte monarchico, eversivo e separatista, alla nascente Democrazia cristiana. Temi tornati di attualità in questi giorni con l’elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Mattarella, una dinastia politica che è parte importante della storia della Sicilia, cognome caro all’antimafia per la morte tragica di Piersanti, cognome che arrovella la mente di quanti, storici e giornalisti, hanno ancora voglia di scavare nel passato dei rapporti tra mafia e politica. Casarrubea nel suo blog lancia un appello al nuovo capo dello Stato: “Un gesto di magnanimità verso un grande uomo, Danilo Dolci, che siciliano non era, veniva da Trieste, e che dedicò tutta la vita a lottare per il riscatto della Sicilia”.
In un dossier denunciò, e fu tra i primi, i rapporti tra Bernardo Mattarella e una parte della mafia, per questo venne querelato e condannato.
Lo so bene, ma so anche che il lavoro di Danilo fu scrupoloso, dettagliato, cinque anni di fatica, ai giudici e alla commissione Antimafia consegnò nomi e cognomi, finanche testimonianze firmate. Mise tutto nero su bianco. In alcuni paesi certe relazioni, certe mani strette per avere voti, erano sotto gli occhi di tutti. E fu anche un lavoro rischioso, un giorno gli spararono e Danilo si salvò grazie al fatto che Franco Alasia lo spinse via portandolo fuori dalla traiettoria del proiettile.
Però i giudici, fino alla Cassazione, condannarono Dolci.
Questo riguarda la coscienza dei giudici di allora. Sì, allora, anni Sessanta del secolo passato, quando la parola mafia nei tribunali non aveva accesso. Non tutto quello che è nelle sentenze dei tribunali è espressione di verità. Spesso è il contrario, perché i tribunali sono espressione dei momenti della vita di un popolo, ma sono al di sotto del giudizio storico.
E allora veniamo alla storia, professore.
Dolci voleva capire come funzionava il sistema delle clientele politico-mafiose e quali erano le ragioni dello strapotere della Dc. Era un sociologo, non un carabiniere o un poliziotto. In quegli anni non c’era molta divaricazione tra le norme sociali e le norme criminali, coincidevano quasi.
Da studioso che ha approfondito il dopoguerra in Sicilia e la nascita dell’autonomismo, anche avendo accesso a documenti riservati americani, ci dica chi era Bernardo Mattarella e che ruolo svolse nel passaggio di alcuni settori legati al separatismo e alla stessa mafia dentro l’alveo della nascente Dc.
Rispondo in modo sereno: era un grande personaggio della Democrazia cristiana, nel 1944, mentre la Sicilia era allo sbando, con uomini come Restivo, Scelba, don Luigi Sturzo, esiliato negli Stati Uniti, pensò di rimettere su il Partito popolare e di dare vita a una Italia democratica fondata sul sistema dei partiti. Fu un repubblicano di ferro e lottò contro i monarchici e contro i separatisti.
Detti i meriti parliamo dei limiti e anche dei demeriti, sempre alla luce di una lettura storica.
Mettiamola così, il demerito fu quello di essere cresciuto in un contesto nel quale la distinzione tra sistema criminale mafioso e sistema sociale non era netta. Era la mafia che dettava legge sui comportamenti sociali. Che poi Bernardo Mattarella si sia imbattuto in certi personaggi, è cosa che definirei del tutto naturale, l’ambiente induceva ad avere relazioni anche di tipo familistico con persone equivoche, ma questo non significa che Mattarella fosse compromesso. Nessuna prova indica che sia stato compromesso. Pisciotta lo accusò di essere uno dei mandanti della strage di Portella assieme a Cusumano Geloso, Leone Marchesano, il principe Alliata, ma questi erano dei monarchici che facevano parte di una scuola politica molto diversa da quella di Mattarella. Erano in due campi diversi.
La storia della famiglia Mattarella è parte della storia tragica della Sicilia.
Certo, e la morte di Piersanti segna lo spartiacque tra una Sicilia ancora feudale nella gestione dei rapporti di potere e la Sicilia più moderna degli anni successivi. Penso a Falcone, Borsellino, al risveglio della magistratura e della società.
Sarà accolto il suo appello?
Il presidente Mattarella faccia un gesto di magnanimità, sarebbe un atto di lungimiranza politica. Se ciò non avverrà rimarranno queste due posizioni storicamente ancora da spiegare. E la storia non si scrive nelle aule di tribunale.

il Fatto 4.2.15
Parlamento, fermi tutti. Primo stop ai diritti civili
di Paola Zanca


“Maria Elena, sui diritti civili che faccio? Vado avanti come da crono-programma? ”. “Aspetta un attimo, non partire a razzo: dobbiamo capire come si mette con Ncd in maggioranza”. Sergio Mattarella è appena salito sulla Flaminia 335 cabriolet, direzione Quirinale. E fuori dall’aula di Montecitorio dove il presidente ha da poco concluso il suo discorso al Parlamento, il ministro Maria Elena Boschi è come al solito assediata da parlamentari e colleghi di partito in cerca di una conferma, un’indicazione, un sì o un no. Anche Monica Cirinnà, senatrice Pd ha bisogno del suo benestare. In commissione Giustizia a palazzo Madama è relatrice della proposta di legge sulle coppie di fatto. E il cronoprogramma a cui Matteo Renzi ha assicurato di voler mettere “il turbo” prevedeva che febbraio fosse il mese in cui provare a chiudere per sempre la storia infinita cominciata con i Pacs e con i Dico.
LO HA AUSPICATO perfino un democristiano d’altri tempi come il nuovo Capo dello Stato, nel suo discorso di ieri: “Garantire la Costituzione significa sostenere la famiglia, risorsa della società” ma anche sostenere la “libertà come pieno sviluppo dei diritti civili”, anche “nella sfera affettiva”. Ma ora, per il governo delle (quasi) larghe intese, è il momento di rallentare, soprattutto su un tema così scivoloso come quello delle unioni civili. “Questa settimana dobbiamo capire qual è la situazione della maggioranza”, insiste la Boschi. Cirinnà la rassicura: “Noi comunque proseguiamo con le audizioni, c’è tempo”.
D’altronde, a palazzo Madama, si erano portati avanti. Nonostante si fossero già raccolti autorevoli pareri di magistrati, psicologi e rappresentanti di svariate associazioni, un supplemento di audizioni era stato già chiesto da Carlo Giovanardi (Ncd) e Sergio Lo Giudice (Pd). Figuriamoci adesso che si è ufficialmente aperta la “pausa di riflessione”. Non poteva definirla meglio, il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta. Per il centrodestra sarà una settimana utile a rimettere insieme i cocci, mandare giù il boccone amaro del “metodo Mattarella”, capire come ricostruire lo sfilacciato rapporto tra Alfano e Berlusconi. Ma l’intervallo serve anche al Pd: perché rischiare di tornare subito in Aula con provvedimenti che possono far traballare la maggioranza? Per esempio, sui diritti civili, i vertici democratici fanno sapere che di certo non sarà materia di iniziativa governativa. C’è il Parlamento, ci pensino loro. E poi ci sono le riforme.
DUE SETTIMANE FA si osava il canguro (l’emendamento sull’Italicum che ha spazzato via le rimostranze della minoranza Pd) e si sprecavano i proclami sui parlamentari “fannulloni” (così Matteo Renzi definiva quelli che volevanorinviareleriformeadopo il Quirinale). Adesso, invece, fermi tutti. La riunione dei capigruppo alla Camera ha stabilito lo stop: si lavora solo nelle commissioni, dove è in corso l’esame del Milleproroghe, dei decreti attuativi del Jobs Act e del decreto sulle banche popolari. Anche il question time è rimandato a domani. Tutto il resto viene messo in stand-by: il calendario dei lavori della Camera per febbraio e marzo verrà deciso oggi. Alcuni gruppi, nel corso della riunione di ieri, hanno chiesto espressamente che nell’immediato futuro non si prevedano sedute con votazioni. Il Pd deve dare il tempo ad Alfano di chiarirsi le idee. Ancora ieri, riunito con i coordinatori locali, il segretario Ncd non ha sciolto il nodo delle alleanze. Le elezioni regionali sono alle porte, il rischio di tracollo pure. E anche al Pd serve tempo per trovare un paracadute, semmai Ncd lo dovesse mollare: proprio al Senato, il pressing sugli ex Cinque Stelle è ripreso già in queste ore. Una pausa di riflessione fa bene a tutti. Il cronoprogramma può aspettare.
Maria Elena Boschi Ansa

il Fatto 4.2.15
Renzi-Zelig, di corsa tra Mattarella e Tsipras
di Wanda Marra


“Bellissimo”. Il commento di Matteo Renzi al discorso di Sergio Mattarella è nettissimo. D’altra parte il “capolavoro” politico dell’elezione del nuovo presidente, il premier ha intenzione di giocarselo tutto. Come ha bisogno di costruire un rapporto solido con lui, sia privatamente, che pubblicamente. Per tutto il giorno ieri Renzi ha accompagnato Mattarella nei vari passaggi della cerimonia di insediamento. “È l’espressione più alta che unisce rigore personale, solidità e autorevolezza istituzionale. Perché avrei dovuto dire di no perchè Berlusconi non poteva? ”, spiega in serata a Porta a Porta.
NEL GIORNO del giuramento di Mattarella, il giovane premier si agita abbastanza per conquistare più di un pezzo di scena. È tutta una photo opportunity: la stretta di mano tra lui e il presidente appena arrivato alla Camera; lui compunto, dietro a Mattarella, prima del discorso. E lui, che scherza con Alfano, mentre ascoltano insieme il neo inquilino del Colle. Problemi con Ncd? Ma no. E poi, lui, nella macchina che lo porta insieme a Mattarella da Montecitorio all’Altare della Patria. Mentre gesticola, chiacchiera, arringa. Di certo prova a sedurre. Ancora, lui dietro il presidente, durante l’omaggio ai Caduti: cappotto blu scuro, di una tonalità simile a quello dell’altro, espressione compunta. E al Quirinale, ecco che si fa cogliere mentre scherza con Berlusconi: una stretta di mano tra i due. Renzi gli presenta il ministro Pier Carlo Padoan. L’altro scherza: “Speriamo non sia birichino come te”. “Il fatto è – replica Renzi – che io sono meno birichino di te”. Matteo-Zelig ridiventa per un attimo il nipotino di zio Silvio. Ma la giornata è ancora lunga. E così, in mezzo c’è pure il Consiglio dei ministri: dimissioni (ovviamente solo formali) da consegnare al nuovo presidente. In un colloquio riservato. Dal grande padre al giovane ribelle: la giornata di Matteo non è ancora finita. Ed eccolo, allora, che riceve Tsipras a Palazzo Chigi. Immancabile conferenza stampa: e qui il presidente del Consiglio gioca il ruolo di fratello maggiore. Quello che capisce, ma condivide fino a un certo punto. Più che altro indirizza. Non a caso regala una cravatta.
ALLA FINE di una lunga maratona, Renzi si trasferisce nello studio di Bruno Vespa. In realtà, le incognite legate a questa fase sono più d’una. Prima di tutto, come sarà la coabitazione tra presidente del Consiglio e presidente della Repubblica. Nel discorso, come notano i renziani, Mattarella ha citato le riforme e la scuola, i giovani e il futuro: assi portanti del governo. Ma ha anche detto che ci dovranno essere meno decreti: l’esecutivo finora ha abbondato. Nel tragitto in macchina che i due hanno fatto insieme (Renzi ci ha molto tenuto ad accompagnarlo) il più anziano ha detto poco e niente. I due si sono rivisti più tardi. Commenti a posteriori? “Hanno parlato della collaborazione tra Palazzo Chigi e Quirinale”, dicono i vicini al neo inquilino del Colle. Commenti? Impressioni? Lo descrivono come un incontro andato molto bene, “caloroso”, non formale. Come andrà tra i due è tutto da vedere. “Le riforme – avrebbe assicurato il premier al capo dello Stato – procederanno in un clima di ascolto e dialogo, ma avendo ben presente la necessità di puntare decisi al traguardo dell’approvazione finale”. Perché qualche problema c’è: l’Italicum deve tornare alla Camera, dove la minoranza dem vuole giocarsi quella che pensa di essere la sua parte di merito nell’elezione di Mattarella, inserendo dei cambiamenti. E se torna in Senato, sono guai. “La legge elettorale non cambia più. Abbiamo discusso, ora anche basta”, taglia la testa al toro Renzi da Vespa. Qualche chicca dallo show notturno: “Se Letta fosse stato sereno, sarebbe rimasto lui il presidente del Consiglio. Io li ho detto, vai avanti fino al 2018 ma loro volevano votare nel 2015”. E ancora: niente rimpasto. Però, “c’è da sostituire il ministro Lanzetta che si è dimesso, ci sarà una sostituzione, una esce una entra”. Una dovrebbe essere Anna Finocchiaro. Il decreto sulle Banche popolari, che ha scatenato sospetti per il rialzo del 65% della Banca Etruria (di cui il padre della Boschi è vicepresidente)? “Pronto a mettere la fiducia”.

Repubblica 4.2.15
La mossa di Bersani:
“Matteo confermi il metodo Quirinale e non avrà più problemi”
di Goffredo De Marchis


ROMA Tre punti per confermare il metodo Mattarella e incrinare definitivamente il patto del Nazareno. La minoranza del Pd cerca di approfittare della crisi dell’Ncd e di Forza Italia per incidere sulle politiche di Renzi. «Noi non chiediamo né verifiche né rimpasti», precisa Pier Luigi Bersani. Come dire: non siamo un partitino. Semmai l’obiettivo è il riconoscimento formale di un dato di fatto: i democratici adesso possono governare quasi da soli e spostare gli equilibri anche sui provvedimenti già in cantiere.
I dissidenti non chiedono poco al premier. Le loro condizioni toccano alcuni capisaldi dell’azione di governo e del percorso riformatore. La modifica dell’Italicum eliminando quasi tutti i capilista bloccati. La correzione del Jobs act in particolare sui licenziamenti disciplinari. La revisione del decreto fiscale mettendo il tetto della non punibilità per le somme evase anche al 3 per cento ma indicando una cifra massima. Le risposte di Renzi non sono concilianti, per ora. «Sul Jobs Act il Parlamento ormai non c’entra più. I decreti delegati li fa l’esecutivo », avverte l’ex sindaco di Firenze. Sulla legge elettorale invece si aspetta toni più concilianti da Forza Italia per proseguire insieme. L’impressione è che non si fidi del tutto nemmeno di un Pd unito, che sia ancora convinto che i pericoli alla stabilità dell’esecutivo possano ancora venire da lì. E che in fondo le spaccature delle forze di destra lo favoriscano. Bersani pensa esattamente il contrario: «L’elezione di Mattarella dimostra che un Pd compatto è davvero il baricentro della politica italiana. Tutte le scelte strategiche possono e devono nascere dentro il nostro partito. Tanto, quando servono dei voti di fronte a decisioni equilibrate e giuste, quei voti arrivano. La prova è il voto del Quirinale».
Qualche prova d’intesa è in corso. Dopo che l’articolo 2 della riforma costituzionale è passato con soli 270 voti di maggioranza (per via delle assenze nel Pd), i renziani stanno cercando una strada comune. Hanno trovato l’intesa con i dissidenti sull’esame preventivo della legge elettorale davanti alla Corte costituzionale. La Consulta, quando sarà approvata definitivamente l’abolizione del Senato, valuterà i requisiti dell’Italicum. Senza essere sollecitata da un ricorso. La prossima settimana si vedrà la tenuta di questo mini-patto in- terno al Pd al momento del voto a Montecitorio degli articoli 13 e 38 della nuova Costituzione. «È una soluzione», ammette il vicesegretario Lorenzo Guerini.
La minoranza è anche sicura che sarà modificata la “salva-Silvio” del decreto fiscale. «Bisogna mettere un tetto alla non punibilità. Non basta solo la percentuale — dice il bersaniano Alfredo D’Attorre —. In Francia è di 153 euro. Magari non così basso, ma il massimale è necessario». E le parole della Boschi, la difesa del decreto già approvato? «Quello del ministro è stato un boomerang. Ha citato l’esempio francese e ha sbagliato citazione». L’appuntamento è il 20 febbraio, giorno del consiglio dei ministri che varerà la versione definitiva del decreto sul fisco. Anche sul Jobs Act la battaglia continua. «Non si capisce perché dobbiamo seguire la linea Sacconi quando Sacconi si è persino dimesso da capogruppo dell’Ncd», dice un bersaniano.
Insomma, il disegno della minoranza è sostituire il patto del Nazareno con il metodo Mattarella. «Non saremmo mai arrivati al nome del nuovo presidente senza il nostro contributo — ricorda D’Attorre —. Questo significa che Palazzo Chigi deve smetterla di pensare che esiste, nel Pd, un gruppo di sabotatori. Noi non sfasciamo tutto, noi vogliamo costruire soluzioni insieme». Tornare centrali nel dibattito interno, interlocutori principali da sinistra di Matteo Renzi: questo è il traguardo dei dissidenti. Non è un caso la presenza costante di Bersani in televisione dopo la fine della partita Quirinale. Significa: noi ci siamo e quando diventiamo interlocutori del premier, si realizzano le soluzioni migliori.
Renzi non era convinto dello stop alle riforme questa settimana. Quando il capogruppo Roberto Speranza gliel’aveva proposto come momento di decantazione, il premier aveva risposto perplesso. Ma fa comodo una pausa per vedere cosa succede nell’alleanza di governo e nell’asse con Berlusconi. Il premier sta tirando la corda con Angelino Alfano per costringerlo a una scelta netta tra la destra e il renzismo. Sa che questo è il bivio per Ncd e non vuole aspettare. Anche perché, spiega ai suoi collaboratori, la stagione delle “larghe intese” è sostanzialmente finita. Per arrivare fino al 2018 si può continuare insieme ma facendo chiarezza. Il ministro dell’Interno aspetta un momento migliore nell’Ncd per rispondere con durezza alle parole del premier. «Accettiamo la sua sfida spiega Alfano ai dirigenti riuniti ieri - Se gli fa schifo la liturgia della prima repubblica, con verifiche e vertici, benissimo. A noi intessa solo chiarirci sulle cose da fare. E se manca l’accordo ne prenderemo atto». No, non è ancora il momento di reagire mentre la pattuglia centrista vive il massimo della tensione dallo strappo con Berlusconi a oggi.

il Fatto 4.2.15
Marino vende tutto, anche le ricche polizze


PRIVATIZZAZIONI Dopo la Fiera, le Assicurazioni di Roma che però sono state risanate e danno al comune 10 milioni Nella sua improvvisa
smania di privatizzare le società controllate dal Campidoglio, Ignazio Marino forse si è fatto prendere dalla fretta e ora rischia di tagliare anche rami che troppo secchi non sono.
Come ha scritto il Fatto nei giorni scorsi, il sindaco di Roma ha deciso di cedere le quote di Fiera di Roma senza prima averne risanato i debiti. Ma nel calderone delle aziende partecipate da mettere sul mercato ce n’è anche una tornata di recente in salute che sta per portare nelle casse dell’amministrazione
capitolina quasi 10 milioni di dividendi. Si tratta delle Assicurazioni di Roma, che tra l’altro assicura anche i bus, di cui Roma Capitale possiede il 74,35% mentre il resto è nelle mani di Ama, Atac e Cotral.
MARINO ha deciso di liquidare la società creata nel ‘71 perché “le polizze offerte dalla compagnia hanno prezzi più alti di quelle sul mercato”, come dichiarato a fine dicembre da Silvia Scozzese, l’assessore al Bilancio di Roma. Le Assicurazioni di Roma sono dunque una delle partecipate ritenute non strategiche dalla giunta che punta a incamerare dalla vendita tra i 250 e i 300 milioni di euro, al netto del pagamento dei premi assicurativi.
EPPURE, a fine 2013, il vertice della Adir è stato rinnovato (da Marino) e al presidente Giorgio Gallone è stato affiancato di recente il direttore generale Andrea Toschi, già direttore finanza della società. Sul fronte dei conti, il rafforzamento patrimoniale e la ristrutturazione messa in campo dal nuovo management sta dando i suoi frutti e il bilancio 2014, il primo completamente gestito da Gallone, dovrebbe chiudersi con un utile, al netto delle imposte, superiore ai 20 milioni di euro rispetto agli 8,5 milioni del 2013. Non solo. Nel 2014 sono stati anche sciolti i nodi rilevati dall’Ivass, l’autorità di controllo delle assicurazioni, che aveva messo nel mirino i crediti vantati dall’Adir nei confronti degli azionisti, in particolare dell’Atac, che nel 2013 doveva rientrare di 57 milioni perché pagava in ritardo le sue polizze. Nel 2014 non ci sono stati nuovi debiti dei soci e per quelli vecchi è stato firmato un piano di rientro che sta procedendo secondo gli accordi. Quanto ai prezzi delle polizze, contestati dall’assessore al bilancio, è stata già applicata una riduzione di oltre il 7% del costo delle coperture erogate al Comune. Perché allora uscire dal capitale se oltretutto la società sta tornando a essere assai generosa con il Campidoglio in termini di dividendi? È la domanda che si stanno facendo da settimane gli oltre 80 dipendenti dell’azienda e anche i sindacati. I quali osservano anche che per dismettere una mutua come Adir occorrerebbe procedere a una liquidazione volontaria che, oltre ad avere tempi ultra decennali avrebbe anche un costo a carico dei soci stimabile tra i 75 e 100 milioni. Infine, i sindacati ricordano che nel passato i vertici della Cotral, l’azienda di trasporto pubblico regionale, hanno immaginato grandi risparmi assicurativi rivolgendosi al “libero mercato” per poi tornare come soci in quanto i premi erano e sono nettamente inferiori e successivamente, dopo aver indetto una gara pubblica andata deserta, si sono rivolti ancora una volta alla Adir per mancanza di offerte. Per la Fisac Cgil, infine, l’attività viene prestata senza alcuna forma di intermediazione da parte di agenti e broker assicurativi, garantendo, un minor costo per i cittadini romani che si aggira tra i 6 e gli 8 milioni di euro sul valore dei premi gestiti pari a 60 milioni. Quindi, cui prodest?
MARINO PERÒ sembra essere deciso ad andare avanti. Anzi, ad accelerare. Di fronte al rifiuto di Sel di rispettare il vincolo di coalizione qualora la manovra non fosse stata rimaneggiata e avvertito dei mal di pancia nel Pd, alla metà di gennaio il sindaco di Roma ha convocato in fretta e furia un vertice coi capigruppo di maggioranza per aprire un tavolo stabile di confronto. Obiettivo: anticipare la manovra di circa 3,8 miliardi e quindi i tempi della cessione delle assicurazioni

La Stampa 4.2.15
“Non è reato trascrivere le nozze gay”


Alla fine aveva ragione lui. Quando il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha trascritto in Comune le nozze di 12 coppie gay nell’ottobre scorso, disobbedendo alla richiesta del prefetto Francesco Paolo Tronca, non stava commettendo alcun reato.
La Procura di Milano, che aveva aperto un fascicolo (curiosamente contro ignoti) per il reato di abuso d’ufficio dopo che un’associazione di pensionati aveva presentato un esposto, ha chiesto ieri l’archiviazione. «Il reato di abuso d’ufficio non è configurabile come prospettato in denuncia» si sono limitati a dire gli uffici giudiziari. Una decisione, quella della Procura di Milano, che segue quella di altre Procure dopo che altre denunce avevano messo nei guai i sindaci che si erano rifiutati di rispondere all’invito dei prefetti.
Quegli inviti nascevano da una circolare emessa dal Viminale, la famosa circolare Alfano, che imponeva ai Comuni italiani di non trascrivere nei registri le nozze contratte all’estero (dove è possibile). Una circolare che aveva provocato un’indignata protesta da parte dei sindaci, molti dei quali avevano pubblicamente sostenuto che non vi avrebbero dato corso. E così era stato, anche per Pisapia che il 17 gennaio scorso, nell’ambito di un convegno organizzato dal Pd, aveva bollato quella circolare come «blasfema dal punto di vista giuridico e sciagurata da quello politico».
La decisione della Procura è stata salutata positivamente dal portavoce del Gay center di Roma, Fabrizio Marrazzo: «È noto che ormai i diritti dei gay trovano più ascolto nei tribunali che in Parlamento».

La Stampa 4.2.15
Tsipras a Roma: “Con Renzi parliamo la stessa lingua”
Ma il premier italiano precisa: “Vi diamo una mano, non vi diamo sempre ragione”
di Roberto Giovannini


Per la delegazione greca, il viaggio in Italia di Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis è stato un successo. Il neoeletto premier ellenico sente di aver rotto il ghiaccio in Europa. «Finalmente - affermava ai suoi collaboratori Tsipras, poco prima dell’incontro con gli esponenti della sinistra radicale italiana che fa riferimento alla “Brigata Kalimera” - c’è in Europa qualcuno che parla il nostro stesso linguaggio». E da oggi i poi, nei colloqui con Angela Merkel o con altri alfieri dell’austerità, i greci potranno farsi forti del sostegno di Matteo Renzi.
Il quale Renzi, però, immediatamente dopo la fine dell’incontro con Tsipras faceva filtrare una lettura del tutto diversa sull’incontro, e soprattutto sul sostegno offerto al leader di Syriza. La «frase chiave - faceva sapere Palazzo Chigi - è “vi diamo una mano, non vi diamo sempre ragione”». E in effetti nella conferenza stampa congiunta il premier italiano aveva affermato che «abbiamo tutti bisogno di leggere nel risultato delle elezioni greche il messaggio di speranza che viene da un’intera generazione di persone che chiedono più attenzione verso chi sta subendo la crisi». E dunque se da un lato Renzi crede «fortemente che ci siano le condizioni per trovare un punto di intesa con le istituzioni europee da parte delle autorità greche», tuttavia chiarisce che «c’è la necessità, sia in Italia che in Grecia di proseguire sulla strada delle riforme strutturali». Più entusiastici, comprensibilmente, i commenti di Alexis Tsipras: «la lingua che abbiamo parlato io e Renzi è la stessa, è la lingua che corrisponde alle esigenze reali dei cittadini». Alla Grecia, ha aggiunto il premier ellenico, «serve il tempo necessario per la ripresa economica a medio termine che includa le necessarie riforme a tutto campo. Ma ci impegneremo con l’Ue a non creare nuovo deficit e raggiungere l’equilibrio di bilancio anche attuando le riforme».
Che il sostegno italiano sia simbolico o concreto poco conta: intanto comunque i nuovi governanti ellenici sembrano convinti di avere in mano la soluzione giusta per soddisfare le promesse elettorali e convincere anche gli alfieri dell’austerità. La soluzione è quella illustrata ieri a Pier Carlo Padoan dal suo omologo greco Yanis Varoufakis, con la conversione del debito greco in titoli «perpetui» che verranno rimborsati solo in relazione alla crescita dell’economia nazionale. «Possiamo vedere la fine della crisi greca a partire da giugno», prevede Varoufakis, che oggi vedrà a Francoforte il presidente della Bce Mario Draghi e domani il «falco» del rigore tedesco Wolfgang Schaeuble.
Dalla crisi si può uscire, argomenta Varoufakis, «a patto che in Europa ci calmiamo tutti. Occorre un accordo ponte che ci dia il tempo, tipo un mese, o sei settimane a partire da fine febbraio (quando presenteremo il nostro piano dettagliato), per ottenere un’intesa, che poi attueremo a partire dal primo giugno. La nostra crisi inizierà a finire rapidamente. Sono ottimista. In Europa vogliono tutti una soluzione. Vedrete, se ci sarà l’accordo europeo, quanto velocemente arriveranno i capitali».
Nel complesso, pare di capire, all’Italia il piano non dispiace. In una nota diffusa al termine dell’incontro, il ministro dell’Economia Padoan afferma «l’importanza che la Grecia si collochi su un sentiero di crescita forte e sostenibile attraverso un chiaro programma di riforme strutturali». Ma allo stesso tempo «l’attenzione alla crescita è prioritaria per garantire la sostenibilità del debito greco e per sollevare il popolo greco dal disagio sociale prodotto dalla crisi».

il Fatto 4.2.15
Per la tragedia greca il lieto fine non si vede
Il problema non è il costo del debito, ma l’austerità nei conti che toglie risorse
L’economia però non è diventata più competitiva di prima della crisi
di Mario Seminerio


Dopo la vittoria di Syriza alle elezioni greche e la formazione di un governo con un partito di destra populista anti-tedesco, i toni tra Atene e l’Unione europea sono progressivamente inaspriti sino a una apparente polarizzazione: lo schieramento guidato da Alexis Tsipras e che ha nel suo ministro delle Finanze, l’economista Yanis Varoufakis, l’esponente sinora più visibile e duro, accantonate le iniziali richieste di taglio del valore nominale del debito chiede ora una ristrutturazione del debito, che per circa l’80 per cento è verso l’Unione europea, legandone il servizio (cioè il pagamento degli interessi) alla crescita dell’economia, e un abbattimento dell’avanzo primario (entrate meno le spese, al netto del costo del debito) chiesto dai creditori alla Grecia per rimborsare quel debito. L’attuale 4,5 per cento annuo è visto come un cappio che sta strangolando il Paese con una austerità distruttiva. Per la Ue e per il governo tedesco è fuori discussione ogni ipotesi di riduzione del valore facciale del debito e si può invece ragionare su un taglio del suo valore attuale netto, mediante riduzione del tasso d’interesse e allungamento dei termini di rimborso.
PRIMA DELLE ELEZIONI il consenso degli osservatori e dei mercati era per un accordo relativamente indolore. Ma l’atteggiamento del governo greco, e di Varoufakis in particolare, sta portando i mercati a ricredersi, e a prezzare in modo crescente l’ipotesi di un esito traumatico, almeno per la Grecia, a giudicare dall’impennata di rendimenti dei titoli di stato ellenici. Varoufakis ha messo una pietra tombale sulla Troika, da sempre vissuta dai greci come potenza coloniale occupante. Ma il tempo stringe, occorre trovare una soluzione entro il 28 febbraio, quando scadrà il mandato di assistenza finanziaria sovranazionale. Dopo questo termine, in assenza di accordo, le banche greche perderanno l’accesso alla liquidità della Bce, che ha sinora compensato i forti deflussi di depositi, e si troveranno di fatto prive di fonti di finanziamento. Se un simile scenario si materializzasse, non vi sarebbe alternativa all’uscita in modo rovinoso della Grecia dall’euro. Lo scenario di “accomodamento” negoziale era sinora apparso quello più probabile: la Grecia ha già negoziato con la Ue condizioni di rimborso del debito molto favorevoli, tali da portare l’incidenza del servizio del debito su Pil a circa il 2,5 per cento nel 2014, contro il 4-5 per cento degli altri Paesi maggiormente indebitati, tra cui l’Italia. Ciò avviene anche in virtù del fatto che la Banca centrale europea, che possiede circa un decimo del debito greco, restituisce ad Atene l’interesse sui titoli di Stato ellenici detenuti a Francoforte e dalle altre banche centrali nazionali. I debiti greci con le istituzioni europee e con singoli Paesi creditori hanno scadenza molto lunga, in virtù della quale la durata media del debito greco è di ben 16,5 anni. Discorso diverso per i circa 58 miliardi di euro di debito di Atene verso il Fondo Monetario Internazionale, che potrebbe comunque essere rinegoziato.
Il rapporto debito-Pil greco, pari al 175 per cento, non è il maggior problema. Il problema è quel 4,5 per cento di avanzo primario e il fatto che sinora la quasi totalità dei crediti forniti alla Grecia sono andati a servire il debito pregresso e ricapitalizzare le banche domestiche, che malgrado ciò affogano nel debito privato in sofferenza o inesigibile. Il governo Tsipras vuole liberare risorse per alleviare le sofferenze della popolazione, la Ue non vuole creare un precedente che darebbe fiato ai movimenti populisti e antisistema che stanno crescendo in Europa. Ma quanto è realistica la posizione del governo greco?
ATENE VUOLE LIBERARE RISORSE di welfare ma promette conti pubblici in ordine grazie alla mitologica lotta a corruzione, evasione e sprechi. Quindi, sulla carta, nessuna dissipatezza fiscale. Ma quanto è fattibile? E di che qualità di spesa pubblica parliamo, nel caso della Grecia? Se le erogazioni sociali per i soggetti in reale condizione di povertà e disagio economico hanno senso, molto meno ne ha aumentare il salario minimo, così da rendere il Paese meno competitivo. Inoltre, come segnalato da Mario Draghi, la pressione fiscale e contributiva greca era pari, a fine 2014, a circa il 34 per cento, molto meno della media europea. Ciò indica endemica presenza di evasione fiscale e di ampio sommerso. In questi anni la Grecia non pare aver fatto rilevanti progressi sul piano di efficacia ed efficienza dell’amministrazione pubblica, soprattutto di quella fiscale. Il quadro cambierà radicalmente, con l’arrivo di un economista come Varoufakis, che ha la delega a entrate e spesa pubblica? Lecito avere dubbi.
Ma c’è un altro elemento di criticità che rende unico il caso greco. Malgrado la drastica riduzione delle retribuzioni, il Paese non è progredito nell’export (che include il turismo) e il riequilibrio di bilancia commerciale è sinora avvenuto in prevalenza attraverso distruzione della domanda interna, come segnalato dal think tank Bruegel. Un accordo con la Ue resta possibile ma l’economia greca appare minata dalle fondamenta dall’incapacità di trovare un modello di sviluppo, e rischia di sostituire una deriva autodistruttiva a quella inflittale dal memorandum della Troika. Difficile scommettere sul lieto fine.

La Stampa 4.2.15
Da Berlusconi a Rifondazione tutti “pazzi” per Alexis il greco
Il Cavaliere: ha ragione lui, quest’Europa non funziona Solo Scelta civica lo critica: è un populista, non ci piace
di Mattia Feltri


La scoperta che anche Silvio Berlusconi ha un debole per Alexis Tsipras (scoperta non di ieri, però: già la scorsa settimana aveva detto che «la vittoria di Tsipras fa bene all’Europa») probabilmente chiude il cerchio. L’ultimo partito italiano che ancora diffida degli scamiciati di Syriza è Scelta civica, o quel che ne rimane: l’onorevole Gianfranco Librandi ha detto che Tsipras è «populista» e che il vero rischio greco è un immediato aumento delle tasse. Per il resto ognuno si prende Tsipras, o almeno il pezzetto conforme. Tsipras piace a Casa Pound, semmai preoccupata che «si venda subito a Matteo Renzi e ai poteri forti» (preoccupazione condivisa dal vicepresidente grillino della Camera, Luigi Di Maio), e piace a Paolo Ferrero di Rifondazione comunista (esiste ancora), berlusconianamente persuaso che «la vittoria di Tsipras è la vittoria di tutti». Tsipras piace al Pd di Matteo Renzi, per esempio al vicesegretario Debora Serracchiani («siamo convinti che consoliderà in Europa il percorso per la crescita per cui ha lavorato Renzi»), piace all’europarlamentare Gianni Pittella («Renzi è un antesignano di Tsipras»), e naturalmente piace a Renzi medesimo, il quale ieri si è trovato molto d’accordo col premier greco sulla crescita, il ruolo della cultura e un sacco di altre belle cose.
E però Tsipras piace da matti alla minoranza del Pd, cioè ai nemici di Renzi: piace al sottosegretario Francesco Boccia («la vittoria di Tsipras è uno schiaffo a tutta Europa»), piace a Stefano Fassina («la vittoria di Syriza è un fatto straordinario, può essere una svolta per la democrazia oltre che per l’Un ione europea»), piace a Gennaro Migliore che viene dalla sinistra estrema e ora è della sinistra renziana («vai Alexis!»), e piace oltre ogni limite a Nichi Vendola, il leader di Sel («Voglio che sappiate che il mio cuore e la mia mente sono lì, in Grecia, insieme a voi!»). Così c’è un filo, anzi un groviglio che unisce cinque stelle, civatiani, berlusconiani e antiberlusconiani. Il fittiano Daniele Capezzone si è chiesto se nemmeno le elezioni in Grecia daranno la sveglia all’Europa, e Fitto in persona ha cercato di sottrarre Tsipras («un segnale di cambiamento profondo») al Pd, dove si assiste alla «merkellizzazione di Renzi».
Che cosa manca? Manca l’Ncd, ma ecco Maurizio Sacconi («il risultato in Grecia segna il fallimento di un ceto politico»); mancano i Fratelli d’Italia, ma ecco Giorgio Meloni («il risultato in Grecia racconta il fallimento della Trojka»); serve completare sui cinque stelle ed ecco Danilo Toninelli («il nemico euro è solo scosso, il ko tra qualche mese, la vittoria di Syriza è un fatto importante e positivo»). E non può mancare la Lega, così ecco Matteo Renzi («Tsipras è uno schiaffo ell’Europa») ed ecco Bobo Maroni («non c’entrano più destra e sinistra, ma se questa Europa sia ancora casa nostra»). Ecco, in fondo è tutto lì. E Berlusconi, che oggi è con Tsipras («questa Europa non funziona, sono d’accordo con lui»), era con Tsipras anche quattro anni fa, prima ancora di sapere che esistesse.

Repubblica 4.2.15
Parla il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis “Non chiediamo favori, ma soltanto di mettere sul tavolo le esigenze di ognuno e di sederci tutti dalla stessa parte”
“La Grecia è già fallita dal 2010 e oggi non c’è alcuna ripresa non serve a nessuno affondarci”
intervista di Ettore Livini e Eugenio Occorsio


“Rispetteremo le scadenze con Bce, ma a Fmi e Paesi europei ridaremo i soldi quando il Pil crescerà Con l’Fmi abbiamo avviato il negoziato: non vedo perché non debba accettare una dilazione Il problema non è la Grecia ma la gestione complessiva dell’eurozona che è concepita male”

ROMA Eccolo, Yanis Varoufakis, l’uomo che terrorizza la Germania, l’Europa, addirittura il mondo a sentire il cancelliere dello Scacchiere George Osborne. Sorridente, meno scarmigliato del solito, il ministro delle Finanze di Tsipras si siede in una saletta dell’ambasciata greca ed espone con calma il piano per liberare Atene dal giogo del debito. Non senza una premessa: «Ragazzi, non vi dimenticate che siamo al governo da dieci giorni, non abbiamo neanche ancora giurato. Volete darci un po’ di tempo per prendere le misure? Io, poi, sono in politica da tre settimane, finora ho fatto il professore».
Ministro, cosa chiedete all’Europa?
«Prima di tutto, non abbiamo intrapreso questo tour di capitali (Varofuakis incontra oggi Draghi e domani Schauble, ndr) per chiedere favori a nessuno, ma per stabilire un programma di lavoro comune sereno e razionale, in cui le esigenze di tutti i protagonisti sono correttamente sul tavolo. Dobbiamo tutti sedere dallo stesso lato del tavolo, non schierati uno contro un altro. Lo dirò anche a Schauble, che non conosco personalmente ma di cui ho apprezzato molte pubblicazioni, pervase di spirito costruttivo e genuinamente europeista ».
Chiederete la cancellazione del debito, anche parziale?
«No. Dividiamo il debito, 300 miliardi, in tre parti. Quella verso la Bce sarà saldata per intero e nei termini, ma la prima scadenza di 3,5 miliardi è il 20 luglio. Per le altre tranche, Fmi e Paesi, proponiamo la sostituzione con nuovi bond a interessi di mercato, oggi molto bassi, con una clausola: cominceremo la restituzione per intero quando si sarà riavviata in Grecia una solida crescita. Possiamo farlo senza mancare il pareggio di bilancio e finanziando al contempo iniziative di sviluppo purché ci si liberi dall’onere degli interessi. Anche con l’Fmi abbiamo avviato il negoziato: non vedo perché non debba accettare una dilazione come fa sempre in casi del genere, almeno a fine anno (i primi prestiti scadono il 15 marzo per 1,9 miliardi e il 15 giugno per altrettanti, ndr). Guardate che il link restituzione- crescita era previsto già negli accordi del 2010, solo che si basava su presupposti sballati. È vero che la congiuntura è andata in modo imprevisto: come diceva Galbraith “le previsioni economiche servono per rivalutare gli astrologi”».
Qual è la vostra roadmap?
«Quattro capitoli: 1. Profonde riforme interne per rendere la nostra economia sostenibile; 2. Ristrutturazione del debito come dicevo nel presupposto che oggi l’indebitamento è insostenibile malgrado ci sia chi mette in giro voci contrarie; 3. Fissazione di una serie di obiettivi realistici da non mancare assolutamente; 4. Riforma del metodo di governo dell’Europa perché il problema non è la Grecia ma la gestione complessiva dell’eurozona, che è concepita male e non potrà mai funzionare. Si è visto come tutto è franato di fronte alla crisi finanziaria importata dall’America nel 2008. Il governo Tsipras è stato eletto con un mandato semplice: sollevate in Europa il problema della sostenibilità delle attuali politiche dell’euro. Cosa fa una banca quando un cliente va in difficoltà? Si siede al tavolo, discute e il più delle volte gli assegna qualche ulteriore fondo, con raziocinio, perché questo completi i suoi progetti e torni in bonis. Si chiama incentive compatibility . Un fallimento totale non è nell’interesse di nessuno».
Da questo viaggio per capitali, al momento ha riportato sensazioni che autorizzano all’ottimismo?
«Sì, io sono ottimista che il problema sarà risolto. Anche l’altro giorno nella comunità finanziaria britannica ho trovato riscontri favorevoli, a parte che hanno capito benissimo quali erano i nostri problemi pur essendo così distanti. Erano stupiti che un radicale di sinistra avesse stilato un piano degno di un bankrupt lawyer. Ma la Grecia, diciamolo chiaro, è fallita dal 2010. Non c’è nessuna ripresa, chi vuole farlo intendere dice il falso. Proprio per questo c’è bisogno di misure eccezionali».
Fra pochi giorni sarebbe in calendario l’ultima tranche di finanziamenti della vituperata Troika. Li accetterete?
«No, sui 7 miliardi previsti ne prenderemo solo 1,9 perché sono soldi nostri, i profitti che la Bce ha incassato da certi bond acquistati nel soccorso del 2010. Per favore, le diciamo, restituiteli. Per il resto la nostra richiesta è: sospendiamo qualsiasi operazione fino a giugno. Chiamiamolo periodo ponte. Intanto riflettiamo sulle misure da prendere per una soluzione stabile. È interesse non solo nostro ma di Italia, Francia, l’Olanda che ha un problema di debito privato, e così via».
Per elaborare le strategie con un nuovo spirito è sempre valida la vostra proposta per una conferenza sul debiti?
«Certo, ma mi sembra che abbia poco seguito. Eppure ci vorrebbe una nuova Bretton Woods: del resto i disastri che quella conferenza affrontò non sono diversi dalla crisi attuale».

Il Sole 4.2.15
L'ascesa dei populismi nordici, tra euroscetticismo e islamofobia
Olanda, Finlandia e Danimarca, senza dimenticare la Svezia: anche il calendario elettorale dell'Europa del Nord, nel 2015, ha in agenda almeno tre appuntamenti di rilievo, sui quali pesa l'incognita dell'avanzata populista
di Michele Pignatelli

qui

Corriere 4.2.15
Nella Russia di santi e zar «L’Europa ci ha traditi»
di Paolo Valentino


DAL NOSTRO INVIATO MOSCA Ilya Glazunov è considerato il più grande artista russo vivente, il pittore che meglio incarna lo spirito della nuova Russia. C’è una grande fila all’ingresso della galleria interamente dedicata alle sue opere, proprio di fronte al Museo Pushkin. Quasi tutti i visitatori si dirigono verso la sala centrale, quella dove campeggiano a tutta parete due immensi oli su tela. Nel primo, dal titolo «Il mercato della nostra democrazia», Glazunov, nello stile del realismo russo che è la sua cifra, offre un’iconografia inquietante della Russia degli anni Novanta: gli oligarchi e le prostitute, la povertà e l’invasione culturale americana, Eltsin e Clinton, la Nato e i bombardieri, i bimbi abbandonati e i criminali, la droga e l’alcolismo, la svendita del Paese, i comunisti nostalgici.
Giustapposto a questo, è «La Russia Eterna», una composizione ordinata e popolata da santi e scrittori, zar e leader sovietici, principi guerrieri ed eroi del lavoro socialista, i patriarchi, gli scienziati, i morti in guerra, dominato da un grande crocefisso, con il Cremlino a far da sfondo e le icone di fianco agli Sputnik.
Le tele fiammeggianti di Glazunov rendono bene l’umore di un Paese, ancora una volta ferito nel suo orgoglio e scosso da una ventata di nazionalismo patriottico che, come altre volte nella sua storia, ha ricompattato il popolo intorno allo zar. La crisi in Ucraina, l’annessione della Crimea, la ribellione delle province orientali russofone Donetsk, Lugansk, Karkhiv (o Novorossija come si dice qui) e le sanzioni decise dall’Occidente contro Mosca hanno aperto un conflitto che è prima di tutto identitario. Nel quale si contrappongono percezioni e idee della propria nazione, dei propri interessi, della propria missione nel mondo, formatesi e sedimentate in secoli di Storia.
Non che siano state sempre antitetiche, nonostante l’asimmetria geopolitica tra Occidente e Russia. Sono passati più di tre secoli da quando Pietro il Grande volle forzare lo sguardo del suo impero verso l’Europa. Ma dopo 318 anni di tormenti, passioni brucianti e appuntamenti mancati, l’impressione è che i russi abbiano tanta voglia di chiudere quella finestra, che il fondatore di San Pietroburgo volle aprire con tutte le forze.
E a spiegare tanto risentimento, tanta delusione, il «senso di essere stati traditi dall’Europa come da un’amante» nelle parole di un diplomatico occidentale, non basta lo stato di «mobilitazione permanente», la formidabile macchina di una propaganda che ormai nutre il pensiero unico di un Paese assediato dai nemici occidentali e che fa dire a Gleb Pavlosky, un ex consigliere di Putin: «A confronto, la televisione sovietica era pacifista nella descrizione dell’Occidente».
No, qualcosa di più profondo e antico scuote la corda pazza del nazionalismo e ridà slancio all’isolamento. «Il sentimento prevalente è che l’Occidente ci abbia preso in giro, illusi e truffati», dice Viktor Loshak, giornalista simbolo dell’era della perestrojka, oggi dirigente del gruppo Kommersant . È la stessa analisi di Nikita Mikhalkov: «Ci avete ingannati. Noi stessi abbiamo distrutto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha regalato tutto. Ma gli americani e l’Occidente si sono comportati come se ci avessero sconfitti. Nulla di tutto ciò che avevate promesso ci è stato dato, solo jeans, McDonald’s e merda». Il regista premio Oscar aggiunge: «Però forse dobbiamo ringraziarvi: perché stiamo assistendo alla rinascita dell’autocoscienza nazionale, fondata sulla convinzione che solo noi possiamo fare qualcosa per noi stessi».
Il vulnus comincia quindi da lontano, da quelli che Fyodor Lukyanov definisce il «senso dello status perduto di grande potenza, la fine del rispetto verso la Russia come Paese, il complesso d’inferiorità che ne deriva». La vicenda ucraina ha così fatto esplodere una frustrazione latente, «complice l’incapacità o il rifiuto dell’Occidente di capire il significato esistenziale che l’Ucraina ha per i russi». «Ognuno di noi — spiega Sergei Markov, politologo e deputato alla Duma per Russia Unita — pensa all’Ucraina come a una parte di se stesso e vede quello che sta succedendo come una guerra civile interna al mondo russo». Quanto alla Crimea, è il parere di Mikhalkov, «non è come le Isole Kurili, cioè bottino di guerra. La Crimea è russa e doveva tornare a casa. Se non l’avessimo fatto, il Mar Nero sarebbe diventato rosso di sangue». C’è bisogno di aggiungerlo? «La Crimea non sarà mai restituita».
Delle pulsioni patriottiche, Vladimir Putin è l’interprete e l’argine allo stesso tempo. I pifferai del nazionalismo più acceso, dal nazional-bolscevico Aleksandr Dugin all’affascinante Eduard Limonov, non sono più ai margini della conversazione nazionale, ma sono diventati mainstream . «Putin li sta usando, ma li tiene anche a bada. E l’Occidente deve stare attento e ricordarsi che le sanzioni forse indurranno il caos economico e sociale, ma da noi il caos non ha mai prodotto democrazia, solo fascismo», dice Loshak. Sergei Markov è ancora più netto: «Voi europei dovete dire grazie a Putin, solo la sua volontà di ferro trattiene l’ondata dell’ira nazionalista».
Da ogni conversazione, sia l’interlocutore allineato o critico verso il Cremlino, un fatto emerge costante: non sarà l’embargo a far cambiare politica allo zar in Ucraina, né a rivoltare il suo popolo esasperato contro di lui. «Putin dice che questa è una battaglia per la nostra identità culturale e la nostra indipendenza, per questo i russi lo appoggeranno anche nelle difficoltà», spiega Mikhalkov. E aggiunge: «L’Occidente può provare a umiliare la Russia, ma non ci metteremo mai in ginocchio. Possiamo parlare da pari a pari, ma non saremo mai i vostri fratelli minori». E ricorda una frase dello scrittore Vassili Shukshin: «Sono tempi difficili: bisogna fare a meno di ciò di cui i nostri antenati non avevano la più pallida idea».
Nello studio di Mikhalkov, tra premi e busti degli zar, campeggia una foto di Vladimir Vladimirovich. È un Putin insolito, corrucciato, con alcune banconote in mano, intento a saldare il conto di un ristorante. «Bisogna pagare per tutto, Nikita», dice la dedica autografa. Mai come in queste settimane, il presidente russo deve aver ripensato a quella frase.

Repubblica 4.2.15
Così impediremo a Putin di distruggere l’Ucraina
di Timothy Garton Ash


Alla lunga il presidente russo è destinato alla sconfitta A soffrire di più per colpa della sua follia saranno i suoi connazionali non ultimi quelli residenti in Crimea
A volte ci vogliono le armi per far cessare il fuoco. Ma l’Ue non potrebbe mai garantire l’unanimità sulle forniture militari In caso dovrebbero pensarci i singoli Stati

VLADIMIR Putin è lo Slobodan Milosevic dell’ex Unione Sovietica, la stessa brutta persona, ma in grande. Dietro una cortina di bugie ha ritentato il colpo di ritagliarsi un parastato fantoccio in Ucraina orientale. Nel porto di Mariupol sul Mar Nero si uccidono civili innocenti. A Debaltseve, città assediata, in strada una donna raccoglie acqua con un mestolo da una gigantesca pozzanghera. Il cumulo di macerie che un tempo era l’aeroporto di Donetsk ricorda le immagini che arrivano dalla Siria martirizzata. Questo conflitto armato ha già fatto 5 mila morti e più di 500 mila persone sono state costrette a lasciare le loro case. Preoccupata per la Grecia e l’Eurozona, l’Europa consente una nuova Bosnia nel cortile di casa. Svegliati, Europa. Se mai la nostra storia ci ha insegnato qualcosa, dobbiamo fermare Putin. Ma come?
In fin dei conti dovrà pur esserci una soluzione negoziale. La cancelliera tedesca Angela Merkel e il ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier hanno fatto bene a continuare gli sforzi diplomatici, ma a metà gennaio hanno concluso che non valeva la pena di incontrare Putin in Kazakistan. Sabato a Minsk è fallito l’ulteriore tentativo di arrivare al blocco delle ostilità. Tornerà il momento della diplomazia, ma non è questo.
Dovremmo inasprire le sanzioni economiche contro il regime di Putin. Associate al calo del prezzo del greggio stanno già avendo un effetto notevole sull’economia russa. Nonostante qualche titubanza da parte del nuovo governo greco, l’Ue la settimana scorsa ha mantenuto una posizione unitaria sull’estensione delle sanzioni. Questo provvedimento porterà i russi a sentirsi sotto assedio? Sì, ma il regime di Putin sta già alimentando questa mentalità nella popolazione, attraverso la propaganda nazionalista e antioccidentale. Se la minaccia non esistesse, la televisione russa la inventerebbe.
Come Milosevic, Putin è pronto a usare ogni strumento a sua disposizione senza esclusione di colpi. Nella sua guerra contro l’Occidente ha schierato armamenti pesanti, sfruttato il ricatto energetico, gli attacchi informatici, la propaganda tramite emittenti sofisticate e ben foraggiate, operazioni sotto copertura, elementi di influenza nelle capitali europee — ah già, dimenticavo i bombardieri russi che curiosano sulla Manica con i transponder disattivati mettendo a rischio il traffico aereo regolare con la Francia.
C’è un detto polacco traducibile come “noi giochiamo a scacchi con loro, loro giocano con noi allo schiaffo del soldato”. È questo il problema dell’Occidente democratico in generale, e dell’Ue in particolare, multinazionale e lenta com’è. Un esempio recente è il prospetto totalmente irrealistico sulla strategia da attuare nei confronti della Russia preparato per l’Alto rappresentante Ue per la politica estera e la sicurezza, Federica Mogherini.
Nel lungo periodo Putin è destinato alla sconfitta. A soffrire di più per colpa della sua follia saranno i russi, non da ultimi quelli residenti in Crimea e in Ucraina orientale. Ma per i dittatori abili e spietati di grandi nazioni ben armate, ricche di risorse e psicologicamente provate, il lungo periodo può essere molto lungo. Prima che Putin se ne vada il tumultuoso Donets vedrà scorrere ancora lacrime e sangue.
La scommessa quindi sta nell’abbreviare i tempi e fermare il caos. A questo fine l’Ucraina deve poter disporre di moderne armi difensive per contrastare le moderne armi offensive russe. Su pressione di John McCain, il Congresso Usa ha approvato una legge che prevede lo stanziamento di fondi per la fornitualtre ra di armamenti all’Ucraina. Sta ora al presidente Barack Obama stabilire i tempi e la natura delle forniture. Un nuovo rapporto stilato da un gruppo di esperti di cui fanno parte Ivo Daalder, ex ambasciatore statunitense presso la Nato e il politologo Strobe Talbott, individua il tipo di armamenti necessari: “radar di controbatteria, in grado di rilevare le traiettorie di missili a lunga gittata, aerei a pilotaggio remoto (Uav), contromisure elettroniche destinate agli Uav nemici, strumenti per la sicurezza della comunicazioni, Humvee blindati e equipaggiamento sanitario”.
Solo nel momento in cui le forze ucraine di difesa saranno plausibilmente in grado di porre in stallo l’offensiva russa si potrà arrivare a un accordo negoziale. A volte ci vogliono le armi per far cessare il fuoco. Le forniture di armi contribuiranno ad aumentare la paranoia russa dell’assedio? Certamente, ma Putin la sta già alimentando, incurante della realtà dei fatti. Recentemente, rivolto agli studenti di San Pietroburgo, ha affermato che l’esercito ucraino «non è un esercito, è una legione straniera, in questo caso la legione straniera della Nato».
La Ue non potrebbe mai garantire l’unanimità sulle forniture militari, in caso dovrebbero pensarci i singoli stati. Anche se potrebbe essere rispolverata la vecchia battuta “L’America cucina e l’Europa rigoverna”, è logico che a gran parte dell’equipaggiamento militare pesante provvedano gli Usa. Sono loro ad avere gli armamenti più validi, sono nella posizione migliore per controllarne l’utilizzo e meno vulnerabili alle pressioni bilaterali in ambito economico ed energetico. I paesi europei e il Canada possono soddisfare necessità di sicurezza, fornendo blindati e sostegno alla polizia e ai tutori dell’ordine (gli europei lo hanno già fatto ottimamente nell’ex Yugoslavia).
La suddivisione generale degli oneri sarebbe equa. Le economie europee si caricano della gran parte delle conseguenze negative delle sanzioni, perché hanno più intensi rapporti commerciali con la Russia e maggiori investimenti in quel paese; saranno loro a fornire una gran quantità di aiuti economici necessari all’Ucraina per sopravvivere e si stanno facendo carico della maggior parte delle iniziative diplomatiche. In effetti McCain e la Merkel sono una coppia perfetta di poliziotti, quello buono e quello cattivo.
Esiste un altro settore in cui l’Europa in generale, e la Gran Bretagna in particolare, possono fare di più. Le reti radiotelevisive sono normalmente considerate elementi di soft power, ma per Putin sono importanti quanto i carri T-80 . Il presidente russo ha investito pesantemente sui media. Rivolgendosi ai russofoni non solo in Russia ma anche in Ucraina orientale e alle minoranze di lingua russa presenti negli stati baltici, Putin ha usato la televisione per imporre la sua narrazione di una Russia conservatrice nel sociale, fiera e marziale, minacciata dai fascisti di Kiev, dalle mire espansionistiche della Nato e dalla Ue in decadenza. Lo scorso anno un politologo che conosco, esperto di questioni russe, era a Mosca, nudo in una vasca di acqua calda, con parecchia vodka in corpo, come è l’uso sovietico e il coltissimo amico russo che era con lui gli ha chiesto di dirgli, in confidenza, come mai l’Occidente sostiene i fascisti di Kiev.
Dobbiamo contrastare questa abile propaganda non diffondendo a nostra volta menzogne, bensì informazioni affidabili e proponendo con scrupolo un ventaglio di opinioni diverse. Non c’è mezzo più adatto della Bbc. Gli Usa avranno anche i droni migliori del mondo, e la Germania i macchinari più sofisticati, ma la Gran Bretagna possiede la migliore emittente in campo internazionale. E se ne avverte l’esigenza: l’edizione online in lingua russa della Bbc, purtroppo ridimensionata, conta pur sempre un pubblico di quasi 7 milioni di utenti e, nel corso della crisi, l’audience di lingua ucraina si è triplicata, superando le 600 mila unità. Nell’eccellente rapporto di recente pubblicazione sul futuro dei notiziari James Harding, a capo di Bbc News, si impegna a potenziare decisamente il servizio mondiale. Iniziare dalla Russia e dall’Ucraina sarebbe un’ottima dimostrazione di attenzione concreta. Senza compromettere l’indipendenza dell’emittente, il governo britannico potrebbe destinare a questo progetto fondi supplementari. Chi oggi ha realmente necessità di un’informazione corretta, fedele e equilibrata, sono proprio i russi e gli ucraini.
Nessuna di queste iniziative fermerà Putin in tempi brevi, ma tutte assieme, alla fine, avranno efficacia. I dittatori vincono nel breve periodo, la vittoria delle democrazie è a lungo termine.

La Stampa 4.2.15
Il pilota giordano ucciso
Non cediamo al ricatto e ricordiamolo così
di Domenico Quirico


Un uomo, il pilota giordano prigioniero, che muore bruciato vivo, mugolando mordendo ululando: la sua morte che ansa geme biascica, il muggito della bestia al macello, davanti all’occhio osceno della telecamera che ne garantisce una illusionistica moltiplicazione senza fine.
è il binario inflessibile dei suoi aguzzini, i boia del califfato, questa mediorientale sagra della morte la cui stazione finale è il delitto... Qualche tempo fa davanti ad altre immagini altrettanto funeste, un giornalista sgozzato, lo stesso raccapriccio, il senso di disfatta sanguinosa, gli irriferibili orrori, ho pensato, in questo dibattito il cui vetriolo ci porterà lontano, che era giusto mostrare. Per capire l’immensità della sfida che ci sta di fronte; con la curiosità del soldato che si arrischi fuori dalla trincea per vedere finalmente il nemico allo scoperto.
Ora altro tempo è passato: in cui ho cercato di compiere tutto il lavoro esistenziale che l’essere sopravvissuto a un fanatismo assassino mi ha assegnato come obbligo. So che ho avuto un privilegio, ho visto il vero volto di questo secolo che nasce, ho guardato negli occhi della Gorgone e ho potuto proseguire vivo. Ma ho scoperto, in questo tempo purtroppo non vuoto, che in realtà non potevo liberarmi di quella visione, che quel volto mi avrebbe tenuto legato a sé per sempre, che continuerà a mordermi le viscere.
La mia disgrazia non ha nulla di strano, centinaia, migliaia di uomini in varie parti del mondo totalitario, sentono pronunciare dentro di sé una condanna simile. Guardare negli occhi la Gorgone. Conoscono come me la loro debolezza. Muoiono ogni giorno lentamente nello spavento della tenebra intravista. Guardare, aver visto, è il nascere dentro di sé di una sorta di tolleranza, quasi irresistibile a lungo andare: perché non tenta di misurarsi con il dolore ma gli scivola dentro, ne fa a poco a poco una abitudine. Sì, il veleno è entrato in me e non mi lascerà più, cola nell’anima come attraverso un crivello. E quando la nostra sofferenza è passata di pietà in pietà come di bocca in bocca mi sembra che non possiamo più rispettarla né amarla… Rischiamo tutti di diventare prigionieri, avvelenati da questa stessa infezione nascosta, contaminati dall’aver guardato con loro: gli assassini.
Per questo dico che bisogna chiudere gli occhi. Ma non per la considerazione utilitaristica, strumentale che il guardare aumenta l’impressione del potere degli aguzzini del Califfo, facilita i loro piani di destabilizzare e intimidire. Bisogna chiudere gli occhi perché loro hanno guardato. Hanno provato quell’impeto silenzioso, irresistibile, quel grande slancio di tutto l’essere verso il Male, verso la preda, questa libertà, naturalezza nel male, odio vergogna… Di fronte alla infamia arrogante di questi striduli profeti la nostra salvezza è stare lì umiliati e spogliati, con gli occhi chiusi, rifiutando che ci impregni, come chi rivendica il diritto al proprio dolore e alla purezza del morire.

Corriere 4.2.15
Sondaggio online sulla sua sorte Il Califfato vota la messa al rogo
Così i sostenitori hanno deliberato la pena da infliggere al prigioniero
di Guido Olimpio


WASHINGTON La strategia dell’orrore è evidente. L’Isis vuole stupire in modo negativo il nemico, usa le nefandezze per aumentare la sua immagine nera. Poco conta se il video è autentico o meno: vale l’intenzione. Anche perché prima di uccidere il pilota giordano i seguaci del Califfo hanno compiuto altre crudeltà.
Gli strateghi dello Stato Islamico hanno seguito un sentiero alzando sempre di più il livello della violenza, consapevoli di come in una realtà sulla quale si muovono cento conflitti c’è la necessità di «offrire» qualcosa di inedito. Sono partiti con le esecuzioni degli ostaggi occidentali, spazzati via a colpi di mannaia. Tattica per nulla nuova, ma impiegata in modo sistematico insieme ai massacri nei territori da loro controllati. Nel mezzo, sempre per attirare l’attenzione, si sono inventati la formula del prigioniero che diventa — a forza — collaboratore della campagna di informazione. Ecco il reporter britannico John Cantlie mandato a raccontare gli attacchi a Kobane e Mosul, la capitale del Califfato.
Ormai è evidente che quando riescono a prendere un prigioniero di valore, quelli dell’Isis pensano: studiamo delle sorprese, inventiamoci un nuovo «numero» nell’horror show. Lo fanno avendo in mente due destinatari: il loro pubblico e i Paesi avversari. Sicuri di raccogliere la gioia di altri tagliagole, decisi a innescare la rabbia dell’avversario, convinti di mettere a segno dei colpi propagandistici. Il predecessore di Al Baghdadi, Abu Musab al Zarkawi, aveva adottato la stessa linea ed è finito male, ucciso dagli americani con l’aiuto dei servizi di Amman. Le condizioni per questo tipo di manovra si sono riproposte alla fine di dicembre con la cattura del pilota giordano nella zona di Raqqa, in Siria. Invece che cercare di barattarlo, l’Isis ha mobilitato la piazza promuovendo un sondaggio su come doveva giustiziarlo. Le risposte sono arrivate in fretta: eliminiamolo con centinaia di coltellate, «l’ascia è la cosa migliore», «seppelliamolo con una scavatrice», «bruciamolo vivo». I terroristi hanno preso in parola i suggerimenti dei sostenitori cercando di soddisfare i loro desideri. Dunque l’atroce morte tra le fiamme, seguite dall’azione del bulldozer.
Come abbiamo scritto nei giorni scorsi c’è il fondato sospetto, rilanciato dai giordani, che il militare sia stato in realtà assassinato il 3 gennaio. Una versione che può fare il gioco di Amman, criticata per non averlo salvato, ma che può avere una sua logica. E simpatizzanti del movimento avevano celebrato l’8 su Twitter l’esecuzione del pilota «bruciato a morte». L’Isis lo ha poi resuscitato inserendolo nel finto negoziato sugli ostaggi giapponesi, entrambi assassinati nonostante i governi avessero accettato uno scambio con la terrorista Sajida al Rishawi. Di nuovo: solo un trucco perché gli islamisti non erano in grado di offrire nulla. Tanto è vero che, durante il negoziato, non hanno mai detto di volere liberare il pilota ma soltanto che «non morirà».
Quindi, guardando sempre ai «tempi», l’Isis ha diffuso le immagini della gabbia di fuoco con al centro Muath. Significativa la coincidenza con un inatteso viaggio del re giordano Abdallah a Washington. Adesso tocca al sovrano rispondere e non saranno parole ma la spada.

Corriere 4.2.15
Il fuoco terribile dei processi medievali
L’orrore che ritorna
di Andrea del Col


Il terribile fuoco che ha ucciso il giovane tenente colonnello pilota Muath al-Kasasbeh ha suscitato un incontenibile senso di orrore nel mondo occidentale, dove la vita individuale è sacra. Quello che ha colpito di più è la barbarie dell’omicidio, che non è stato un’esecuzione capitale in seguito a un regolare processo. Il fuoco che dà la morte a un essere umano riporta alla memoria i roghi, che sono stati una pratica ufficiale degli Stati e delle Chiese in Europa per molti secoli.
Furono bruciati per primi gli eretici, cristiani che avevano idee un po’ diverse, in modo spontaneo fin dal 1022 e poi con sentenze dell’Inquisizione dal Duecento fino alla metà del Settecento. Una stima approssimativa calcola che i roghi delle Inquisizioni cattoliche fossero circa 20 mila, mentre le condanne capitali per eresia in Svizzera e in Inghilterra furono molto minori. Fu famoso il rogo su cui venne bruciato vivo a Ginevra l’antitrinitario Michele Serveto per volontà dello stesso Giovanni Calvino. Il computo delle streghe bruciate in Europa è molto più alto, circa 60 mila, non 9 milioni come fu divulgato dai nazisti. Questi processi, condotti sulla base di manuali cattolici e protestanti, avvennero in numero più alto in Germania, Inghilterra e nei Regni scandinavi, tutti di fede protestante, in minima parte nei Paesi cattolici come Francia, Polonia, Spagna e Italia. La quantità maggiore fu condotta dai tribunali statali o feudali, mentre le Inquisizioni furono più caute e scettiche.
Quello che colpisce oggi in questa storia è che le sentenze di morte venivano emesse dai giudici ecclesiastici in nome di Gesù Cristo. Venivano poi eseguite dalle autorità statali con il rogo, ma talvolta i condannati venivano strangolati, impiccati, annegati, decapitati.
Il fuoco portava con sé un grande senso di purificazione dal male e veniva utilizzato anche per distruggere i libri proibiti. I nostri roghi tuttavia sono finiti due secoli e mezzo fa e fanno parte di una storia che non si ripeterà mai più.

Corriere 4.2.15
Il ruolo delle grandi tribù e l’inedita alleanza con il re filo-occidentale
di Lorenzo Cremonesi


DUBAI Poteva essere una buona idea quella dell’Isis: fare pressione sulle tradizionali tribù giordane per indebolire Re Abdallah, giocare con i loro antichi sentimenti antioccidentali, e addirittura spingerle alla ribellione aperta. Ma, alla prova dei fatti, il primitivismo brutale dei jihadisti sembra avere causato il classico effetto boomerang e convinto proprio le tribù giordane a sostenere con maggior determinazione la guerra contro di loro.
Per comprendere questo occorre fare un passo indietro e ricordare le fondamenta del sistema di potere giordano, così come cresciuto dopo la Prima guerra mondiale. Da allora infatti la monarchia Hashemita si basa sulla lealtà delle cosiddette «tribù della sponda orientale», che sono le antiche popolazioni beduine residenti a est del Giordano. I loro legami con il regime si fecero progressivamente più importanti con lo sviluppo della questione palestinese dopo la nascita dello Stato di Israele nel 1948. Allora infatti l’anziano re Abdallah, e poi re Hussein (rispettivamente nonno e padre dell’attuale monarca), furono spinti dalle dinamiche della regione a fondare il loro potere sulla parte non-palestinese del Paese. Dopo la guerra del 1967 e il «Settembre nero» di tre anni dopo, quando l’Olp di Yasser Arafat tentò addirittura di defenestrare la monarchia, re Hussein prese misure drastiche. Da quel periodo nessun palestinese può aver alcun ruolo nei posti chiave del potere. In particolare, tutti gli ufficiali dell’esercito vengono dai giovani delle tribù della sponda orientale, che non devono avere alcun legame con i palestinesi della Cisgiordania. Tra loro un ruolo chiave hanno appunto i piloti dell’aviazione militare.
Non stupiscono dunque le mosse estremamente caute intraprese da re Abdallah dopo che il giovane pilota Muath al-Kasasbeh venne catturato da Isis a Raqqa lo scorso 24 dicembre. Ha ricevuto il padre Safi a corte, è stato più volte tra i notabili della tribù nella loro casa natale a Karak, nel meridione del Paese. Il suo atteggiamento è stato più volte giudicato come troppo filo-occidentale tra i notabili locali. Suo padre, re Hussein, nel 1991 si fece crescere la barba, si circondò di imam e ulema, e rifiutò di partecipare alla coalizione internazionale guidata dagli americani per scacciare le truppe di Saddam Hussein dal Kuwait. Sapeva bene che il cuore sunnita della Giordania profonda nutre forti simpatie per i «fratelli» sunniti in Iraq e Siria. Re Abdallah, educato e cresciuto tra le migliori università anglosassoni e il cui inglese parlato sino a pochi anni fa era meglio dell’arabo, non ha le stesse sensibilità. Però capisce che in questo caso i desideri delle tribù vanno soddisfatti.
Si spiega così la sua aperta disponibilità a scambiare la terrorista kamikaze irachena per la vita del pilota. Ma se ora dovesse venire provato che questi era già morto il 3 gennaio, oppure, ancora peggio, che ora è stato bruciato vivo, le caute simpatie tribali giordane per i «fratelli» sunniti potrebbero facilmente trasformarsi in desiderio di vendetta a fianco del loro monarca e degli americani.

il Fatto 4.2.15
Forbes a est
Mega paperoni si diventa: Cina batte Usa
Sul podio del re del solare con 26 miliardi
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino Il numero di ricchi continua ad aumentare. Secondo la lista Hurun 2015, il Forbes cinese, i miliardari nel mondo sono 2.089, 222 in più rispetto allo scorso anno. E circa la metà è originaria degli Usa (537) o della Cina (430). I dati Hurun, oltre a raccontarci lo scontro tra le economie che si contendono il primato mondiale, ci mostrano come la mobilità sociale sia però tutta concentrata a Oriente. Quest’anno la Repubblica popolare si aggiudica il primo posto per numero di paperoni “self made” ovvero quelli che sono partiti da zero, senza poter contare su nessun patrimonio di famiglia. Sono 395 su 430, più del 90%. Tra di loro anche 35 donne, la metà del numero globale. Ci sono poi 72 nuovi cinesi nella lista (contro i 56 americani) e sempre cinese è l’uomo che ha visto crescere maggiormente la sua ricchezza. Si tratta di Liu Qiangdong, proprietario di Jd.com , l’azienda di ecommerce che comincia a far seria concorrenza ad Alibaba, il gruppo fresco dell’Opa più grande della storia. Il suo patrimonio è quadruplicato: dagli 1,5 miliardi di dollari dell’anno scorso ai 6,7 di quest’anno. E la concorrenza si sente. Jack Ma, che è appunto il patron di Alibaba, è sceso dal primo al terzo posto del podio cinese, nonostante a settembre avesse guadagnato 25 miliardi di dollari dalla quotazione a Wall Street della sua creatura.
IL PRIMATO quest’anno spetta al re del solare, Li Hejun che con i suoi 26 miliardi di dollari si colloca al 28esimo posto a livello globale. La sua azienda Hanergy è leader nel settore cinese del fotovoltaico (anche se ancora non è riuscita a dare una risposta convincente all’inchiesta sul Financial Times che lo scorso mese la accusava di “pratiche non convenzionali”). Al secondo posto si piazza Wang Jianlin, presidente del gruppo immobiliare Wanda con un patrimonio stimato in 25 miliardi di dollari, interessi nelle sale cinematografiche Usa e una quota del 20% nell’Atletico Madrid.
Sembra proprio che il baricentro del mondo stia cambiando, ma la massiccia presenza di cinesi tra i miliardari non deve farci dimenticare che la maggior parte dell’1,3 miliardi di cittadini dell’ex Celeste Impero ha un Pil pro capite al di sotto della media mondiale. Se si prende in considerazione questo dato, infatti, la Cina si colloca solo al 90esimo posto. Non stupisce che una delle dieci parole scelte dallo scrittore Yu Hua per descrivere la Cina d’oggi sia proprio “disparità”. Per dirla come lui “è come se fossimo seduti in un teatro bizzarro dove, contemporaneamente, su una metà del palco va in scena una commedia e sull’altra una tragedia”.

La Stampa 4.2.15
Londra capofila nel mondo: sì ai bambini con tre genitori
Il Parlamento approva una nuova tecnica di fecondazione artificiale
di Alessandra Rizzo

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Corriere 4.2.15
Poche decine di geni che fanno ereditare patologie gravi
di Edoardo Boncinelli


L a Gran Bretagna ha votato ieri l’assenso alla donazione di mitocondri sani a una coppia che li porti malati o — come si dirà più ampollosamente, ma meno correttamente — alla nascita di un bambino con due mamme. Abbiamo ricordato pochissimi giorni fa che nelle nostre cellule esistono due tipi di Dna, quello contenuto nel nucleo, e chiamato perciò nucleare, più importante e significativo, e quello contenuto nei mitocondri, e chiamato perciò mitocondriale, di importanza secondaria, ma che pure può causare gravi malattie se mutato. Il Dna nucleare porta decine di migliaia di geni e fornisce la base genetica per lo sviluppo dell’organismo. Quello mitocondriale invece contiene qualche decina di geni, ma può trasmettere alcune patologie. I mitocondri infatti rappresentano l’impianto di produzione dell’energia di una cellula e se tutto va bene, non se ne nota quasi l’esistenza. In alcuni casi però uno o più geni che si trovano nel Dna mitocondriale possono mutare e causare patologie genetiche che riguardano in genere il funzionamento del sistema muscolare e il suo controllo da parte del sistema nervoso motorio. Dopo anni di studi molti di questi difetti sono stati compresi e se ne è individuata la causa. Un individuo sano deve avere quindi un Dna nucleare sano e un Dna mitocondriale sano. Lo spermatozoo maschile ha pochi mitocondri, mentre una cellula-uovo femminile ne ha tantissimi. Va da sé che questi disturbi genetici di natura mitocondriale sono portati in larga maggioranza dalla mamma. Da qui l’idea di prendere una cellula-uovo con i mitocondri sani e farla fecondare dal nucleo di una coppia che ha un Dna nucleare sano, ma un Dna mitocondriale mutato, perché la donna della coppia è portatrice di mutazioni nel suo Dna mitocondriale. Sembra complicato, ma è semplicissimo: mettere un nucleo sano in una cellula con mitocondri sani, diversi da quelli malati della vera mamma. Si è parlato perciò di figli di due mamme, quella che dona il Dna nucleare come in ogni normale evento riproduttivo e quella che dona il Dna mitocondriale sano. Abbiamo visto però che i mitocondri contribuiscono pochissimo all’assetto biologico dell’individuo, che sarà quindi figlio a tutti gli effetti dei suoi genitori, che potranno avere un figlio anche se la mamma non ha le «carte mitocondriali» in regola. Ovviamente c’è chi non è d’accordo, altrimenti non saremmo esseri umani, ma nella votazione del Parlamento inglese ha prevalso la ragione e la salvaguardia della salute. E noi?

Repubblica 4.2.15
“Una tecnica in evoluzione: sono necessari nuovi studi per escludere ogni rischio”
di Elena Dusi


ETICA a parte, sono ancora grandi gli ostacoli scientifici per la tecnica dei “bebè con tre genitori”. Lo spiega Han Brunner, lo scienziato olandese che dirige la Società europea di genetica umana e insegna nelle Università di Nijmegen e Maastricht.
Siamo su un piano inclinato che ci porterà alla creazione di bambini su misura, come temono i detrattori di questa tecnica?
«No, penso che sostituire un Dna malato con Dna sano non abbia nulla a che vedere con il creare bambini su misura. Stiamo cercando di prevenire malattie molto gravi, di correggere dei difetti che possono verificarsi in natura. E questo è da sempre ciò che intendiamo con la parola medicina».
Ma, dal punto di vista scientifico, la tecnica è davvero matura?
«È una tecnica in evoluzione che presenta ancora molti ostacoli. I primi tentativi risalgono agli Anni ‘90, principalmente negli Stati Uniti, e hanno portato alla nascita di una trentina di bambini. Quella versione dell’esperimento prevedeva l’iniezione dei mitocondri normali, presi da una donatrice, all’interno dell’ovulo della donna con i mitocondri malati. In questo modo il Dna malato si ritrovava affiancato da una certa percentuale di Dna sano, nella speranza che il bambino sarebbe nato privo di malattie. Ma i benefici di questi esperimenti non sono apparsi del tutto chiari, così come restano aperte alcune questioni legate alla sicurezza. L’agenzia regolatrice americana, la Food and Drug Administration, ha vietato la procedura nel 2001, chiedendo di condurre uno studio clinico per escludere ogni possibile rischio. Da allora nessun altro esperimento è stato ripetuto sugli uomini».
La decisione inglese incontra consenso fra gli scienziati del resto del mondo?
«C’è consenso sul fatto che — teoricamente — la tecnica rappresenta un grande passo avanti. Ma molti scienziati temono che le conoscenze e le tecnologie attuali non siano sufficienti per un’applicazione pratica. Dovremmo mettere a punto un programma molto accurato e prudente che tenga in considerazione ogni possibile rischio. Io suggerirei piuttosto di fecondare molti ovuli della stessa donna e poi analizzarli uno a uno, nella speranza di trovarne uno con il Dna poco compromesso. In questo caso, ovviamente, non parleremmo di bambini con tre genitori».
Le coppie inglesi che adotteranno questa tecnica non avranno dunque garanzia di avere figli?
«No, non possiamo dare certezze a questo punto della ricerca. L’opinione corrente nel mondo scientifico è che occorreranno diversi anni di sperimentazione sui modelli animali e con gli embrioni umani nelle primissime fasi dello sviluppo prima di offrire questa tecnica ai pazienti che si presentano in ospedale ».

Repubblica 4.2.15
Usa, tra Obama e la destra è guerra dei vaccini
di Alberto Flores d’Arcais


NEW YORK . Diversi casi erano già stati segnalati, ma quando un nuovo focolaio è scoppiato a Disneyland il morbillo è diventato un problema nazionale. E adesso, tra accuse, polemiche e qualche “complottismo” di troppo, il caso è diventato politico. Con un partito (quello repubblicano) che cavalca la protesta più irrazionale e candidati alla Casa Bianca (sempre del Gop) che arrivano a mettere in discussione risultati che la scienza (e l’esperienza) hanno da tempo provato. Era stato debellato da tempo il morbillo, ma il crescente successo negli ultimi anni dei movimenti “anti-vaccino” — che hanno preso pesantemente di mira quello trivalente (contro morbillo, parotite e rosolia) — e il numero sempre più alto di bambini che non vengono vaccinati ha provocato quella che adesso viene catalogata come una vera e propria epidemia.
A dare il via alle polemiche politiche (i movimenti anti-vaccino sono spesso guidati da esponenti conservatori legati al Grand Old Party e quindi sono elettoralmente appetibili) ci hanno pensato due big del partito repubblicano, Chris Christie e Rand Paul (entrambi possibili candidati per la Casa Bianca 2016), che hanno deciso di scendere in campo per difendere la “libertà di scelta” dei genitori. Il primo, Governatore del New Jersey che pure i suoi quattro figli li ha tutti vaccinati, ne ha fatto una questione di principio (“i genitori devono avere qualche potere di scelta, ci vuole equilibrio e poi dipende da vaccino a vaccino”), il secondo — che ha una laurea in medicina ma non esercita più — non ha usato mezze misure: «I vaccini possono provocare disturbi mentali».
Poche ore prima, parlando dell’epidemia partita da Disneyland (in California) Barack Obama aveva voluto lanciare un messaggio opposto: «Ci sono tutte le ragioni per vaccinarsi e nessuna per non farlo, voglio solo che la gente conosca i fatti, la scienza e l’informazione. Ed il fatto è che un grande successo della nostra civiltà è la nostra capacità di prevenire malattie che in passato hanno devastato la gente. E il morbillo si può prevenire». Il presidente aveva ottenuto l’immediato plauso della principale candidata alla Casa Bianca del partito democratico, l’amica-nemica Hillary Clinton. Che con un tweet ha risposto in modo sarcastico ai suoi possibili avversari Christie e Paul: «La scienza è chiara, la terra è rotonda, il cielo è blu e i vaccini funzionano».

il Fatto 4.2.15
Gheddafi e Blair amici per la pelle
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, lo sapevi che Tony Blair e Gheddafi si scambiavano lettere con espressioni tipo “Caro Toni, caro Muammar”, e concludevano con gli auguri alle rispettive famiglie? L’ho appena letto sul “Corriere della Sera” del 25 gennaio, e ti domando: “Pensi che nel processo che si sta per aprire a Londra e intentato da oppositori libici arrestati a Londra e mandati nelle prigioni e alle torture di Gheddafi dagli inglesi, ci sarà qualche verità in più su Blair?”
Rolando

SENZA DUBBIO Tony Blair è un personaggio che ha finora scampato sia il giudizio dei tribunali che quello della storia. E non si capisce, quando personaggi come Renzi dicono di avere Tony Blair per modello, stiano proponendo una oscura minaccia (“come Blair”, personaggio con molte facce, legato a vicende internazionali mai chiarite) o non sanno di che modello si tratta. Blair infatti esordisce, vestito da leader della sinistra europea, con l’affermazione che ha reso possibile, anzi immediata, la guerra in Iraq. Ha comunicato al mondo che “ci possono distruggere in 45 minuti” (gli iracheni, ndr). Lo so, l’ho scritto varie volte in questa pagina, ma non è fuori luogo ripeterlo visto che il silenzio intorno a Blair continua, e continua la sua presunta santità politica. Ora il processo londinese dovrà chiarire che tipo di collaborazione era in corso tra i servizi segreti libici e quelli inglesi, e perché era compito di personaggi inglesi persino mitizzati (gli 007 inglesi tipo James Bond), fornire alle camere di tortura libiche persone che si opponevano a quel sanguinoso regime e credevano di avere trovato rifugio sicuro nella democratica Inghilterra. Certo, se i servizi segreti di Muammar e di Tony si scambiavano oltre i saluti, e i corpi degli oppositori libici, anche attendibili informazioni, l’occidente è stato servito da un’informazione falsa, diffusa da un leader credibile (e misteriosamente tuttora stimato). E tutto ciò mentre attivisti senza pace come i Radicali italiani (senza pace nei due sensi di non rinunciare mai a creare una condizione di pace, e di vedersela rimuovere da una informazione fuori dalla realtà) avevano messo a punto un piano internazionale e condiviso per la rimozione di Saddam Hussein, che sarebbe diventato esule volontario senza guerra, con le dovute garanzie per sé e la famiglia. Misteriosamente, proprio nel cuore del mondo democratico (Stati Uniti e Regno Unito) una parte della vicenda (i 45 minuti) della distruzione è stata congelata in un oblio impenetrabile. È la causa di tutto (soprattutto dell’anticipazione precipitosa della guerra), ma non esiste. E un’altra parte della vicenda (l’accordo per l’abbandono del potere da parte di Saddam Hussein) è un progetto che - ti dicono in tanti con persuasione e buona fede - non è mai esistito. Quanto al processo che inizia adesso a Londra, spero vivamente che renda giustizia ai libici mandati a Muammar a cura dei servizi segreti di Tony, per essere imprigionati, interrogati, torturati. Ma temo che ancora una volta, scenderà l’oblio su vita e avventure di Tony Blair in Medio Oriente. Eppure tutto, Califfato e decapitazioni incluse, comincia dai due episodi fermamente dimenticati.

La Stampa 4.2.15
Rosa Parks, così nasce l’eroina dell’orgoglio nero
In una raccolta di carte inedite la presa di coscienza della sartina che nel 1955 accese la scintilla del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti
di Paolo Mastrolilli

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Corriere 4.2.15
Il professore francese che vuole insegnare la storia del fascismo
senza conoscerla
Fascismo, nazismo e regimi autoritari in Europa 1918 -1945, di Johann Chapoutot
di Ernesto Galli della Loggia

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Corriere 4.2.15
La voce (e i volti) delle donne
Si apre in Vaticano la discussione dedicata alle culture femminili
La riflessione sul tema della maternità
di Paola Pica e Maria Silvia Sacchi


«Le donne stanno finalmente imparando a chiedere aiuto e gli uomini sono più disponibili a darlo». È un messaggio di speranza quello che arriva da Silvia Cantarelli, insegnante di sostegno in un liceo linguistico toscano, abituata per mestiere a occuparsi di uguaglianza e differenza.
Le sue parole raccontano la transizione che il nostro Paese ha iniziato a vivere. Ma non bisogna abbassare la guardia: i dati dicono come le donne si muovono ancora in un quadro di uguaglianza formale ma di disuguaglianza sostanziale. Che a volte è difficile da spiegare, nascosta come sta nelle pieghe della vita quotidiana.
Si apre oggi l’Assemblea plenaria del Pontificio consiglio della cultura voluta dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente dello stesso Consiglio, teologo ed ebraista. «Culture femminili tra uguaglianza e differenza» è il titolo che tiene insieme quattro giorni di lavori, dall’apertura pubblica al teatro Argentina questo pomeriggio alle 15.30 all’udienza di chiusura sabato da papa Francesco al Palazzo Apostolico. Un’iniziativa coerente con i molti segnali lanciati da Francesco. Sin dai suoi primi passi da vescovo di Roma, Bergoglio ha sollecitato l’attenzione sul ruolo della donna fuori e dentro la Chiesa, annunciando proprio a questo giornale un percorso di «approfondimento teologale». Il cardinale Ryłko, con il Consiglio dei laici , aveva detto «sta lavorando in questa direzione con molte donne esperte di varie materie». Più di recente, Francesco è tornato ad auspicare la presenza delle donne «nei luoghi dove si decide» e indicato, tra altre cose, la via di una genitorialità e di una maternità responsabile.
Maternità e identità sono punti chiave nella riflessione sulla condizione femminile. Tanto che su questi temi sarà incentrata quest’anno la seconda edizione de «Il tempo delle donne», la tre giorni di partecipazione e confronti a Milano organizzata dal blog del Corriere della Sera , La 27Ora . E dalle voci delle donne che ascoltiamo tutti i giorni sale chiara e forte una richiesta di «serenità». Quella serenità che viene dal poter essere se stesse, senza dover corrispondere a modelli imposti. In particolare, sul diventare o meno madri.
L’equazione disoccupazione-culle vuote non è mai stata vera come oggi; ma anche chi il lavoro ce l’ha, e dunque è più propensa a diventare madre, deve poi fare i conti con quella disparità sostanziale che fa diventare un figlio un problema. «L’Italia è un Paese che ostacola il desiderio di maternità» dice Cristina in uno dei contributi video raccolti in vista della plenaria. Possiamo darle torto?
Sono circa 800 mila (l’8,7%) le madri che secondo l’Istat hanno subito dimissioni in bianco. Le donne vorrebbero almeno due figli ciascuna ma, tra mille difficoltà, ne fanno solo 1,3, uno dei tassi più bassi in Europa. Così come ci poniamo in fondo alla classifica della Ue, per il tasso di occupazione (46,6% contro il 60% della Francia). D’altra parte, l’Italia investe in politiche per la famiglia solo l’1,37% del Pil (2,2% la media Ocse). Tutto racconta di un sistema che spinge le donne a occuparsi solo della cura della famiglia, destreggiandosi tra pediatri e geriatri. Anche se non mancano i segnali positivi, come l’aumento delle donne in politica e nelle posizioni di vertice.
Tutte le analisi possibili sono state fatte e le proposte avanzate da più parti. Il passaggio principale resta quello culturale, con la promozione di un effettiva parità tra i generi e la ferma condanna dell’idea della donna subalterna o, peggio, «proprietà» dell’uomo. Sul piano concreto, occorre incentivare il lavoro femminile che dà indipendenza, dignità alla persona e, fatto non secondario, riduce la povertà dei bambini. Lo dice anche la Banca mondiale: le donne investono in istruzione e salute dei figli. Cambiare si può.

Corriere 4.2.15
Scaraffia e quella Chiesa ancora maschile:

«In troppi pensano a loro come serve»

CITTÀ DEL VATICANO «Francesco, lui, lo ha detto molto chiaramente. Quella frase, soprattutto: “Soffro quando vedo nella Chiesa che il ruolo di servizio della donna — quel ruolo che tutti noi dobbiamo avere — scivola verso la servitù”. Ecco: ci sono ancora molte donne che nella Chiesa vivono in condizione di servitù, fanno da cameriere o da badanti ai preti e vengono trattate come serve».
La storica Lucetta Scaraffia, coordinatrice dell’inserto «Donne, Chiesa, Mondo» dell’ Osservatore Romano , è stata chiamata a concludere, sabato, l’assemblea sulle «culture femminili» in Vaticano. Parlerà del futuro.
Pare di capire, professoressa, che nella Chiesa ci sia una maggiore attenzione, no?
«Sì, per un motivo ineludibile. La Chiesa, specie in Occidente, è spiazzata. È un mondo assolutamente al maschile, a livello decisionale, ma composto per la maggior parte di donne. I due terzi dei religiosi sono donne, dalle missionarie alle suore di clausura. E sono le donne che ormai mandano avanti le parrocchie, insegnano catechismo, badano ai bambini, assistono anziani e malati».
Però?
«Però la loro voce non viene ascoltata. Non è questione di potere, ma di voce. Di ascolto della loro voce e di partecipazione ai processi decisionali. Non si tratta di sacerdozio o di donne cardinale. Non ci sarebbe bisogno di cambiare nulla...».
Ad esempio?
«Trovo vergognoso, per dire, che le donne non facciano parte delle congregazioni che precedono il Conclave. Ci sono cardinali, vescovi e gli ordini religiosi maschili, giustamente. Ma le madri generali, le rappresentanti di organizzazioni internazionali, quelle no. Donne importantissime, che avrebbero tantissimo da dire, e nessuno le ascolta. Del resto, è ridicolo che non ci siano donne ai vertici dei dicasteri dei laici o della famiglia; perfino tra i religiosi l’unica donna è sottosegretario».
Come reagiscono le donne?
«Le vedo esasperate, sfiduciate. Stanno per conto loro. È questa è una perdita grave, per la Chiesa».
Eppure qualcosa si muove. L’inserto femminile dell’ «Osservatore» , le cinque donne nominate nella commissione teologica internazionale...
«L’inserto è nato tre anni fa, sotto il pontificato di Benedetto XVI, proprio per mostrare che le donne c’erano, perché non fossero ignorate».
Parlava di Occidente. E altrove?
«In molte parti del mondo la Chiesa è l’istituzione più femminista che ci sia, grazie alle donne. Pensi alle missionarie che in Africa o in Asia fanno studiare ragazze altrimenti escluse dalle scuole. O l’assistenza delle suore alle donne che subiscono violenza. Ci sono Paesi dove sono solo i cristiani a difendere le donne. Eppure: lo ha mai sentito rivendicare, questo? È come se non se ne accorgessero neppure...».
Francesco ha detto: «Bisogna fare di più».
«Francesco se ne rende conto e lo ha ripetuto, nel suo modo franco. Ma sarà durissima. E diffido delle consulte femminili. Penso debbano entrare nelle strutture che ci sono già».
Non si fa molte illusioni...
«Non so quanto gli uomini siano disposti a rinunciare a una fetta di potere. Pochi sentono il problema. Del resto tanti sono anziani, hanno passato la vita a vedere donne che fanno le serve. Per questo è fondamentale che ci siano donne a insegnare nei seminari: così i futuri preti non le vedranno solo a lavare piatti o calzini, si faranno un’idea diversa».

Corriere 4.2.15
Papa Francesco, una semplicità che riesce sempre a sorprendere
Quando parla di valori tocca corde profonde nel cuore dell’uomo
di Bruno Forte, vescovo di Chieti


Tre elementi mi sembrano entrare in gioco nel modo di essere e di comunicare di Papa Francesco, tali da fargli raggiungere ampiamente e in profondità il cuore di tutti: il linguaggio del suo stile di vita; la forza di un vocabolario nuovo; e la capacità di sorprendere.
Il linguaggio di uno stile di vita Papa Francesco parla anzitutto con la sincerità, la semplicità e la sobrietà del suo stile di vita. La sincerità di questo gesuita argentino è per alcuni addirittura spiazzante: le sue dichiarazioni spontanee su temi delicati non sono certamente frutto di calcolo interessato, e nemmeno di una strategia pastorale. Papa Francesco si mostra per quello che è e sempre è stato, senza star a misurare gli effetti di ciò che dice sul possibile ritorno d’immagine per sé o per la comunità cattolica. Non per questo, però, il suo agire e i suoi pronunciamenti possono considerarsi avventati: chi come lui da una vita si esercita nella disciplina spirituale e nella meditazione della Parola di Dio e dei testi dei grandi Maestri della fede, non dice mai cose che non siano state a lungo «ruminate», anche se sul momento possono apparire di sorprendente novità. La sincerità di Francesco è come la punta di un «iceberg», che affiora rimandando a una profondità tutta da scandagliare. Così, ad esempio, la sua insistenza sullo sguardo di misericordia da avere verso tutti, anche e particolarmente verso chi è in situazioni problematiche rispetto alle norme canoniche o alla legge morale, non è che la traduzione del convincimento che lo sguardo di Dio si posa con tenerezza su queste persone e quello della Chiesa e dei suoi pastori non può né deve fare diversamente. Quel «chi sono io per giudicare?», da lui pronunciato in varie occasioni, non indebolisce la legge morale, ma la propone nell’unica ottica secondo cui essa risulta vera, efficace e credibile alla luce del Vangelo.
Un secondo tratto che rende particolarmente accessibile e amato il Papa argentino è la semplicità del suo comunicare: la preferenza per il «parlare a braccio», da lui spesso dimostrata, non è semplicismo, ma espressione della volontà di raggiungere coloro cui si dirige in maniera diretta, essenziale e profonda. Va sottolineato che la semplicità comunicativa di Papa Francesco non avrebbe la forza che ha se non fosse abitata da sincerità e trasparenza: solo chi ama la verità e al tempo stesso ama la gente cui proporla è capace di coniugare i due amori in una comunicazione vera, illuminante e contagiosa.
Infine, a colpire tutti è la sobrietà di questo Papa: egli non solo non ha bisogno di grandi mezzi e di forme appariscenti, ma rifugge con convinzione da tutto ciò che sembra esaltare il potere secondo la logica di questo mondo, per privilegiare ciò che dice carità, prossimità e servizio. Se la decisione di vivere con altri nella Domus Sanctae Marthae esprime il bisogno di fraternità condivisa, l’uso di auto semplici, di stili di comportamento «normali», mette in luce la sua volontà di essere sentito come uno di noi, un compagno di strada e un fratello in umanità. Ciò nulla toglie al suo ruolo di paternità universale, ma dà a questo un tocco di accessibilità e di familiarità, che lo rende vicino al cuore di tanti.
La forza di un vocabolario nuovo Il «caso serio» che aiuta a comprendere la forza del vocabolario nuovo di cui Papa Francesco si serve per comunicare la bellezza del Vangelo può essere riconosciuto nel modo in cui egli propone i valori fondamentali della vita, ispirati alla fede in Cristo, a una società complessa, qual è ormai dappertutto quella del cosiddetto «villaggio globale». Egli non usa, né ama, l’espressione «valori non negoziabili», spesso adoperata nel linguaggio ecclesiale prima di lui, come dichiara nell’intervista a Ferruccio de Bortoli, apparsa sul «Corriere della Sera» del 5 marzo 2014: «Non ho mai compreso l’espressione valori non negoziabili. I valori sono valori e basta, non posso dire che tra le dita di una mano ve ne sia una meno utile di un’altra. Per cui non capisco in che senso vi possano essere valori negoziabili». Non per questo l’attuale Vescovo di Roma si discosta dai suoi predecessori, quasi a compiere una rottura che lo allontani dalla dottrina della Chiesa. Con buona pace di qualche pauroso custode della verità, occorre ribadire con chiarezza che Francesco è e vuole essere assolutamente fedele alla fede della Chiesa. Semplicemente, Papa Francesco propone i valori con uno stile tutto suo, che da una parte lo rende estremamente comunicativo e accessibile, dall’altra suscita non poca simpatia e curiosità. In che consiste dunque la novità del vocabolario dell’attuale Vescovo di Roma? La caratterizzerei in tre direzioni: l’attenzione a ciò che è prioritario nella proposta; lo sguardo sempre rivolto al destinatario e all’interlocutore; il desiderio di non privilegiare nulla di ciò che conta rispetto all’insieme di quanto va proposto.
In primo luogo, Francesco intende presentare i valori a partire da ciò che li motiva profondamente per il cuore umano, mostrandone la capacità di promuovere e realizzare la vera e piena umanità della persona. A nulla servirebbe elencare una serie più o meno ampia di valori «non negoziabili», se poi la loro intrinseca forza di attrazione per il bene delle creature non risultasse messa in luce.
In secondo luogo, Francesco guarda al destinatario e all’interlocutore cui rivolge la proposta del Vangelo: il suo modo di approcciare le persone, specialmente i poveri, i malati, i sofferenti, la sua attenzione che si fa sguardo, abbraccio di tenerezza e sorriso di misericordia per tutti, è una maniera di essere e uno stile della proposta cristiana che tutti dovremmo riscoprire. Quando afferma, quasi gridandolo ai cuori distratti o freddi, «non abbiate paura della tenerezza», Francesco sta enunciando un principio che tocca in profondità la proposta dei valori. Non si possono imporre pesi a persone che non siano in grado di portarli.
Infine, Papa Francesco dimostra di avere forte e chiaro il senso della cosiddetta complexio catholica : nella «pienezza» cattolica tutto si tiene e deve essere proposto nell’armonia dell’insieme. Non si può, ad esempio, difendere il valore della vita insistendo unicamente sul no all’aborto, senza parimenti affermare il no a ogni forma di violenza e di ingiustizia, il no alla guerra e all’oppressione dei poveri.
La capacità di sorprendere Vorrei infine sottolineare un aspetto che sin dall’inizio ha caratterizzato Papa Francesco: la capacità di sorprendere, che emerge già dai suoi primi gesti. Il nome stesso che ha scelto — lui, gesuita, decide di chiamarsi col nome del Poverello di Assisi — è l’evocazione sorprendente di un programma. Sorprendente è poi un Papa che comincia il suo pontificato chiedendo al popolo che preghi su di lui e lo benedica, prima di dare lui la benedizione urbi et orbi . Sin da subito Bergoglio si è presentato, poi, per quello che il Papa è dal punto di vista teologico, anche se ciò ha suscitato sorpresa: il vescovo della Chiesa di Roma, che per disegno divino presiede nella carità a tutte le Chiese del mondo. Bellissimo e perfino toccante questo suo insistere sul rapporto con la Chiesa locale di cui Dio lo ha voluto pastore! Come a ricordarci che l’amore «universale» non esiste, se non passa prima per i volti concreti di chi ci sta intorno! Non di meno e inseparabile da questo è lo sguardo di sorpresa che viene su di lui dal mondo: è il primo Successore di Pietro che proviene dall’America Latina, il continente col più alto numero di cattolici, ma anche con situazioni drammatiche di povertà e di disuguaglianza. Se, come ha detto, «i fratelli cardinali sono andati a prendere il nuovo Vescovo di Roma alla fine del mondo», non c’è dubbio che questo fatto lancia un messaggio di speranza a tutti i poveri della terra, a tutte le situazioni che attendono svolte di giustizia e attenzione nuova.
Il modo di porsi di Papa Francesco verso gli altri cristiani è un’ulteriore sorpresa: egli si presenta come un fratello, il vescovo della Chiesa che presiede nell’amore, deciso a evangelizzare con nuovo slancio anzitutto il popolo della città di Roma e proprio così a offrire un servizio di testimonianza e di carità a tutte le Chiese. Era quanto da anni il dialogo ecumenico e l’ecclesiologia del Vaticano II erano andati chiedendo nel pensare a un ministero universale di unità per tutti i discepoli di Cristo: un’alba di luce e speranza per chi vive la passione dell’unità fra i cristiani. Anche i credenti di altre religioni sembrano guardare a Papa Francesco con fiducia: egli vuole servire la «fratellanza» fra tutti. La sua franchezza e il suo profondo senso di Dio aprono la strada a dialoghi e incontri inediti.
La barca di Pietro ha un timoniere umile e forte, tenero e fermo: a tutti l’invito a navigare con lui sui mari della vita e della storia, anche quando si annunciano tempestosi, non solo sperando, ma anche organizzando la speranza, e organizzandola insieme per un servizio fatto di tenerezza e di custodia, rivolto a ciascuno, accogliente per tutti.

Repubblica 4.2.15
“Romero martire e beato” l’ultima svolta di Bergoglio
Dopo anni di resistenze e insabbiamenti finalmente salirà agli onori degli altari il “vescovo dei poveri ” ucciso nel 1980
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO MONSIGNOR Romero diventerà beato. Il vescovo salvadoregno ucciso mentre celebrava messa nel 1980, la cui causa è rimasta frenata per anni in Vaticano perché a torto ritenuto vicino alla Teologia della liberazione, se non considerato socialista o addirittura marxista, salirà presto all’onore degli altari. Ma chi vincerà, adesso, «la guerra tra monsignor Paglia e il cardinale Amato», copyright dello stesso Papa Francesco durante il suo ultimo viaggio all’estero, entrambi in prima fila per questo difensore dei poveri?
Il dettaglio non è di poco conto. Angelo Amato ieri è stato ricevuto dal Pontefice, che ha comunicato ufficialmente al Prefetto della Congregazione per le cause dei Santi la decisione di beatificare il vescovo martire. Ma spetterà oggi a Vincenzo Paglia, Postulatore della causa di monsignor Romero, e consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio da sempre attenta al mondo degli ultimi, presentare nella Sala stampa della Santa Sede come si è giunti infine alla scelta di Romero. Oltre alla data della beatificazione, che alcuni già ipotizzano per il prossimo 24 marzo, 35° anniversario della morte.
Con un decreto firmato il Papa ha riconosciuto di monsignor Oscar Arnulfo Romero «il martirio », perché assassinato a San Salvador il 24 marzo 1980 «in odio alla fede». Un atto aspettato da molti nella Chiesa, mentre nel suo Paese il popolo già da tempo lo considera “San Romero de America”. Ma bisognava attendere l’arrivo di un Pontefice latinoamericano, e anche molto sensibile alle istanze sociali, perché la causa di “monsegnor Romero” conoscesse un’accelerazione e si sbloccasse nonostante le resistenze, gli insabbiamenti e i sabotaggi che hanno caratterizzato il lungo iter processuale.
La vita di Romero fu complessa, dividendosi in due parti. Prima, quella di sacerdote e vescovo poco incline alle lotte verso il suo popolo. Poi, quella da lui stesso definita una “conversione”, con la nomina a primate della Chiesa cattolica del Salvador, e con l’uccisione del gesuita Rutilio Grande ad opera di sicari per il suo impegno verso gli ultimi. Fu la veglia al confratello sacerdote, nel marzo del 1977, a cambiargli la vita.
Nella sua prima lettera pastorale Romero dichiarò apertamente di volersi schierare dalla parte dei più poveri. Progressivamente, le sue omelie diventarono un martello contro il potere, simboleggiato dagli squadroni della morte dell’esercito, ma esercitato con la violenza dal partito nazionalista conservatore capeggiato dal colonnello Roberto D’Aubuisson. Il giorno in cui venne ucciso, monsignor Romero aveva appena concluso la sua omelia, ribadendo la sua denuncia contro un governo che nei campi minati mandava avanti i bambini. Pochi minuti dopo, al momento dell’elevazione, un sicario entrato nella piccola cappella dell’ospedale della Divina provvidenza, sparò un solo colpo che recise al vescovo la vena giugulare.
La sua beatificazione fu un caso per anni. Nel 1998 la Congregazione per la Dottrina della Fede prese in esame la questione. Nella fase di acquisizione dei dati e delle testimonianze (50 mila le sole carte dell’archivio personale), tuttavia, ci fu chi pose seri dubbi sulla santità di Romero, ritenuto erroneamente vicino ai teologi della liberazione. Difensore dei deboli sì, ma il vescovo di San Salvador anzi dissentiva profondamente del movimento, accusandolo di orizzontalismo, razionalismo, marxismo, e considerandolo piuttosto una deviazione politica della missione della Chiesa.
Lo stesso monsignor Paglia, intervistato da Stefania Falasca su Avvenire , ha così spiegato: «Il suo pensiero teologico era “uguale a quello di Paolo VI definito nell’esortazione Evangelii nuntiandi ”, come rispose egli stesso nel 1978 a chi gli chiedeva se appoggiasse la Teologia della liberazione. E che, in sostanza, in un contesto storico caratterizzato da estrema polarizzazione e da cruenta lotta politica, si scambiò per connivenza con l’ideologia marxista la difesa concreta dei poveri, che Romero sosteneva non per vicinanza alle idee socialiste ma per fedeltà alla Tradizione ». Alla Radio Vaticana ieri Paglia si è detto «davvero commosso, perché dopo tanti anni, finalmente, giunge la conclusione di questo lungo processo, e la gioia è doppia». E parla di un «quid provvidenziale»: il fatto cioè che Romero venga dichiarato beato dal primo Papa sudamericano della storia. Oggi toccherà a Paglia. Il cardinale Amato, come Prefetto dei santi, presiederà ovviamente la causa di beatificazione.

il Fatto 4.2.15
Il confessionale
Dalle tette ai neuroni La “crociatina” di Ravasi
di Daniela Ranieri


Nell’occhio del ciclone-Bergoglio, il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, scopre le “culture femminili” (che sono cosa ben diversa dalla culturatout court) e indìce un’assemblea plenaria per celebrarle. A fare da testimonial invita l’attrice Nancy Brilli, con la quale incappa nella polemica sulla chirurgia estetica, definita nel documento preparatorio dell’incontro, con un’espressione “pertinente anche se sferzante”, “burqa di carne”. La Brilli fa notare che se la chirurgia serve a sentirsi meglio non bisogna demonizzarla, e poi lei è moglie di chirurgo estetico “che si occupa prevalentemente di ricostruzione post-cancro”.
IN SOSTANZA potremmo serenamente infischiarcene, se non fosse che la vicenda apre a paradossali considerazioni. Non stupisce che il Vaticano dia spazio alle donne (grazie!) purché corrispondano al ritratto della femminilità che reputa ammissibile – da qui la valorizzazione e la sanzione, l’encomio e i distinguo. Conta che il raffinato e colto prelato si riferisse alle donne che aderiscono a un “modello estrinseco” di bellezza, essendo egli, come immaginiamo, non tanto interessato al seno femminile (anche se disapprova le diciottenni che se lo gonfiano) quanto alle neuroscienze; infatti, “quando si inizia a intervenire sulla interconnessione neuronale siamo di fronte a ambiti che hanno ridondanze delicate sul piano etico”. E si sa come funziona, si parte dalle tette e si arriva ai neuroni. A parte che non avremmo niente da ridire sul trapianto cerebrale di molti, questo artificio retorico è un vecchio trucco. Girato per il verso giusto, il discorso rivela la sua piega implicita: la vecchia ossessione della Chiesa per il sesso.
La donna che si “corregge” il corpo che Dio le ha dato lo fa inequivocabilmente per piacere di più agli uomini e quindi accoppiarsi di più. Lo fa perché, a differenza dell’uomo, è incapace di comprendere da sola il valore del corpo femminile autentico e non adulterato, ben chiaro ai detentori del potere biopolitico che per secoli hanno messo le mani negli organi delle donne e oggi le vedono decidere senza il loro permesso.
“Il corpo delle donne”, specie di panda in via di estinzione a causa di una cultura maschilista, diventa così – ma a sua tutela! - oggetto di torsione etica. Come fosse un bene comune, del demanio, un monumento dentro le mura vaticane da proteggere e tutelare, anche a scapito, se occorre, della stessa volontà delle donne.
SAREBBE facile dare torto a quegli oscurantisti di preti, sennonché quella del “burqa di carne” non è una loro invenzione: viene dal mondo “femminista”. Dal movimento Se non ora quando, ad esempio, nel cui film-manifesto Il corpo delle donne una galleria di maschere botulinizzate viene inanellata a illustrazione dei nuovi mostri. Ai tempi delle intemperanze di Berlusconi, il giudizio sulla chirurgia estetica assurgeva a epitome di una più estesa disapprovazione del modo in cui le donne sono rappresentate sui media e nella società occidentale, ed era severissimo: il ritocco nascondeva il “vero” volto delle ragazze delle Tv e delle case dell’ex premier, le spogliava della loro libertà come fa il burqa, e induceva innocenti adolescenti a imitarle. Così il “femminismo moralista” disapprova la donna-oggetto anche qualora fosse ella stessa soggetto di questa reificazione, e riconosce dignità solo a una femminilità “vera” e “decente”, in pericolosa consonanza con quella ammessa o imposta dalle destre e dalla morale cattolica. Colpisce quanto questo giudizio condiviso con la Chiesa contro l’“obbrobrioso mercato delle carni” promuova un’etica della moderazione, della riservatezza se non dell’invisibilità che è molto più affine al fondamentalismo di quanto lo sia l’abuso di botulino.