giovedì 5 febbraio 2015

Globalist.it 5.2.15
Antonio Gramsci, l'eretico che non perse mai la tenerezza
Intervista alla saggista Noemi Ghetti: non solo ateo e anticlericale, anche nel rapporto con le donne

il padre della Sinistra italiana è un'anomalia nella storia del Comunismo.
di Federico Tulli

qui, segnalazione di Francesco Maiorano

Ciociaria Notizie - Il Giornale Nuovo 5.2.15
Sora. Un Gramsci inedito nel saggio di Noemi Ghetti: l’autrice lo presenta sabato a Bibliotè

qui

Soraweb.it 4.2.15
Presentazione del libro “Gramsci nel cieco carcere degli eretici” di Noemi Ghetti
qui

Repubblica 5.2.15
Il Papa: “In Ucraina scandalosa guerra tra cristiani”
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO . Il conflitto in Ucraina è uno «scandalo». Una terribile «violenza fratricida» fra cristiani. Lo ha detto il Papa, tornando ancora una volta, come fa ormai sempre più spesso, sul conflitto in atto a Kiev, chiedendo a gran voce che cessino le violenze. «Penso a voi, fratelli e sorelle ucraini — ha continuato Francesco improvvisando durante il suo discorso — Pensate, questa è una guerra tra cristiani. Pensate, avete lo stesso battesimo. State combattendo tra cristiani. Pensate questo, pensate a questo scandalo».
Jorge Bergoglio ha così proseguito: «Cessi al più presto questa orribile violenza fratricida. La preghiera è la nostra protesta davanti a Dio in tempo di guerra. Quando ascolto parole come vittoria e sconfitta, sento — ha confidato — un grande dolore, una tristezza nel cuore: non sono parole giuste. L’unica parola giusta è pace».
L’appello del Pontefice è arrivato mentre sul terreno la guerra lascia vittime ogni giorno. Ieri due soldati sono stati uccisi e altri 18 sono rimasti feriti in combattimenti contro i separatisti filorussi nell’est del Paese. L’esercito ha detto che le forze separatiste hanno lanciato, nelle ultime 24 ore, circa 80 attacchi con sistemi di artiglieria e di razzi su postazioni e villaggi ucraini. Il presidente ucraino Poroshenko si è detto certo che «gli Usa ci daranno le armi per difenderci», anche se l’ultima strage di civili a Donetsk è da attribuire ai soldati di Kiev: i bombardamenti su un ospedale, un giardino di infanzia e uno studio dentistico hanno causato fra i 4 e i 10 morti. «Una delle vittime era vicino all’ospedale — hanno riferito alcuni testimoni — le altre tre facevano la coda per ricevere gli aiuti umanitari che si stavano distribuendo».
Prosegue l’evacuazione di migliaia di civili dalle zone coinvolte nel conflitto. Ma per il Papa la soluzione è solo diplomatica: «Rinnovo l’accorato appello affinché si faccia ogni sforzo, anche a livello internazionale, per la ripresa del dialogo, unica via possibile per riportare la pace in quella martoriata terra». Dopo l’appello del Papa, il patriarca di Mosca, Kirill, ha lodato la Santa Sede per la sua «posizione ponderata » sulla crisi ucraina e per aver «evitato di dare giudizi unilaterali, esortando i colloqui di pace e la fine degli scontri armati ». Il capo della Chiesa ortodossa russa si è invece scagliato contro la Chiesa greco-cattolica (che ha conservato la liturgia bizantina ma riconosce l’autorità papale) per i suoi interventi, giudicati come «estremamente politicizzati».

Repubblica 5.2.15
Il Papa sdogana anche la sculacciata
Il pontefice in udienza generale racconta di un padre che gli disse: “A volte devo picchiare i miei figli, ma mai in faccia per non avvilirli” E commenta: “Quell’uomo ha il senso della dignità: se punisce lo fa il giusto”
“Bisogna saper correggere con fermezza”
Due settimane fa la polemica per il pugno a chi insulta
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO E dopo il pugno di Bergoglio, arrivò la sculacciata del Papa. C’è bisogno di padri magnanini e pazienti, ha detto ieri Francesco nell’udienza generale del mercoledì nell’Aula Paolo VI. Di genitori dolci e vicini, ma anche fermi quando è necessario. Perché il padre di famiglia deve essere «presente» con i figli, e saper «attendere e perdonare». Però, pure «correggere senza avvilire».
Poi Jorge Bergoglio, come sempre quando vuole sottolineare il suo pensiero, ha lasciato da parte i fogli del discorso preparato, e si è rivolto all’uditorio a braccio. «Una volta — ha spiegato con il sorriso, mimando il gesto di un padre che dà una sculacciata — ho sentito in una riunione di matrimonio un papà dire: “A volte devo picchiare un po’ i figli, ma mai in faccia per non avvilirli”». E subito, serio, ha commentato: «Che bello, ha senso della dignità». Quindi ha concluso, precisando: «Deve punire, lo fa il giusto, e va avanti».
Il Papa latinoamericano torna a insistere sul concetto di educazione e rispetto, ma non si vergogna di indicare una strada che può andare anche per le spicce. Poche settimane fa, sul volo di andata del suo viaggio apostolico nello Sri Lanka, aveva sorpreso con un esempio affermando, a proposito della strage di Parigi contro i vignettisti della rivista Charlie Hebdo, che chi «offende mia madre si aspetti un pugno». E il «pugno di Bergoglio» aveva attraversato l’intera settimana del viaggio, con un’ulteriore precisazione di Francesco («le relazioni fra uomini si devono basare sulla prudenza ») fatta sul volo di ritorno dalle Filippine a Roma.
Da sempre il problema dell’educazione fornita ai figli nelle famiglie è un tema centrale, un argomento forte in grado di suscitare posizioni diverse. E il Papa argentino non si sottrae a questo confronto, mettendosi fra i sostenitori di coloro che puniscono i figli, picchiandoli se necessario, benché senza umiliarli. Lo fa, proseguendo un ciclo di catechesi sulla famiglia, in vista del Sinodo dei vescovi in programma il prossimo ottobre.
Davanti a più di 7.000 persone nell’aula grande del Vaticano, il Pontefice ha voluto completare la riflessione sulla figura del padre, proposta già nella scorsa udienza sul pericolo dei «padri assenti». Questione capace, per il Papa, di creare «orfani in famiglia», perché la mancanza della figura paterna produce lacune e ferite che possono essere anche molto gravi.
«Ogni famiglia ha bisogno del padre», ha detto Francesco, citando poi il discorso di un genitore al figlio contenuto nel libro biblico dei Proverbi. «Un padre sa bene quanto costa trasmettere questa eredità: quanta vicinanza, quanta dolcezza e quanta fermezza. Però, quale consolazione e quale ricompensa si riceve, quando i figli rendono onore a questa eredità! È una gioia che riscatta ogni fatica, che supera ogni incomprensione e guarisce ogni ferita. La prima necessità, dunque, è proprio questa: che il padre sia presente nella famiglia. Che sia vicino alla moglie, per condividere tutto, gioie e dolori, fatiche e speranze. E che sia vicino ai figli nella loro crescita: quando giocano e quando si impegnano, quando sono spensierati e quando sono angosciati, quando si esprimono e quando sono taciturni, quando osano e quando hanno paura, quando fanno un passo sbagliato e quando ritrovano la strada. Padre presente, sempre. Dire presente — ha quindi aggiunto a braccio tra gli applausi — non è come dire controllatore, perché i padri troppo controllatori annullano i figli».
Bergoglio ha così concluso: «Tutti conoscono quella straordinaria parabola chiamata del figlio prodigo, o meglio del padre misericordioso, che si trova nel Vangelo di Luca. Quanta dignità e quanta tenerezza nell’attesa di quel padre che sta sulla porta di casa aspettando che il figlio ritorni. I padri devono essere pazienti, tante volte non c’è altra cosa da fare che aspettare: pregare e aspettare, con dolcezza, magnanimità e misericordia. Un buon padre sa attendere e sa perdonare, dal profondo del cuore. Certo, sa anche correggere con fermezza: non è un padre debole, arrendevole, sentimentale. Il padre che sa correggere senza avvilire è lo stesso che sa proteggere senza risparmiarsi».

Repubblica 5.2.15
"La crisi è colpa dell'aborto": bufera su Luigi Negri vescovo di Ferrara
Il prelato, vicino a Cl: "La scarsità di figli ci ha fatto sprofondare nella recessione"

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La Stampa 5.2.15
Perché il centrodestra è imploso
di Marcello Sorgi


L’implosione del centrodestra – con la decisione di Forza Italia di rompere il patto del Nazareno – ha avuto come detonatore le votazioni per il Quirinale, ma covava da tempo. In realtà i patti rotti sono due, dato che sulla strada del Colle s’è sciolto anche l’accordo di consultazione con Ncd che aveva segnato il riavvicinamento tra l’ex Cavaliere e l’ex delfino, e di conseguenza, pure la prospettiva di vedere riuniti i tronconi separati dei due partiti è diventata più incerta.
I problemi di Berlusconi e di Alfano si chiamano Renzi e Salvini: leader, non solo dei rispettivi partiti, ma anche degli schieramenti attorno a cui, coerentemente con quel che accade nel resto d’Europa, il tormentato bipolarismo italiano si sta riorganizzando. Dopo lo scontro tra il capo del governo e Grillo nel 2013, finito, come si sa, con la stra-vittoria del primo e la sconfitta del secondo, il prossimo dunque sarà tra i due Mattei. Con conseguenze visibili, appunto, nel campo del centrodestra; e a sorpresa, presto, nel Movimento 5 stelle.
In ballo ci sono due visioni inconciliabili: quella di Renzi, convinto di poter superare la crisi accrescendo la propria credibilità in Europa grazie al «turbo» impresso alle riforme e ottenendo da Bruxelles flessibilità e investimenti necessari ad accompagnare la ripresa, per adesso più annunciata che reale. E all’opposto, quella di Salvini, che continua a mietere consensi, alimentando una serie di «no»: all’euro e all’Europa, agli immigrati, ai tagli, ai sacrifici imposti dalla congiuntura, tal che il suo messaggio assomiglia, a giorni alterni, ora al programma di Tsipras e occhieggia ai 5 stelle, ora ai proclami dei partiti xenofobi di estrema destra sorti ovunque nel Vecchio Continente.
Forza Italia e Ncd si trovano proprio nel mezzo di questa tenaglia. A parte la simpatia per Renzi – per la verità un po’ scemata dopo che s’è sentito «tradito» sul Quirinale –, e a parte le limitazioni impostegli dall’affidamento ai servizi sociali, Berlusconi non ha più voglia di scendere in piazza come faceva otto-dieci anni fa. È anziano, stanco, preoccupato per la salute delle sue aziende, è ragionevolmente trattenuto dai figli, che temono nuovi guai per il padre, personali, giudiziari o di altro genere. Se non ha votato per Mattarella, è stato più per l’offesa che a suo dire Renzi gli avrebbe arrecato, ponendolo di fronte a un aut-aut come nemmeno Bersani aveva fatto due anni fa, che non per effettive riserve sulla persona del Presidente. Con il quale, infatti, a conferma di una sorta di pentimento, ha cercato di riconciliarsi subito, preavvertendolo dei voti in suo favore da parte dei franchi tiratori di Forza Italia e accettando l’invito alla cerimonia di insediamento del Capo dello Stato rivoltogli dal Quirinale. Il paradosso del partito dell’ex Cavaliere, sfuggito ormai al controllo del leader, è che anche i dissidenti, che vorrebbero convincere Berlusconi a rompere definitivamente con Renzi, non lo fanno certo per movimentismo, o perché vorrebbero allearsi con Salvini. Fitto e la sua quarantina di deputati e senatori sono altrettanto governativi di Verdini e dei difensori del «patto del Nazareno»: sperano anche loro, in altre parole, un giorno o l’altro, di rivincere le elezioni e rifare un altro governo. Obiettivo legittimo in teoria, a patto di sapere che il centrodestra com’è stato negli ultimi vent’anni, una coalizione che andava da Casini a Bossi, è impossibile da ricostruire. Salvini per primo, risultati alla mano, non ha alcuna intenzione di interrompere la sua corsa solitaria e non teme neppure di far cadere le giunte regionali di Lombardia e Veneto, guidate da leghisti come Maroni e Zaia dai quali non vede l’ora di affrancarsi.
Ma se Berlusconi si barcamena, ad Alfano barcamenarsi non basta più. L’astensione, poi tramutata in voto a favore per Mattarella, ha aperto dentro Ncd una resa dei conti ed ha rivelato quanto stretto sia il percorso di un partito che mentre sta al governo con il leader del Pd cerca di prepararsi un’alternativa con il centrodestra. È esattamente a questa ambiguità che Renzi, approfittando del momento solenne dell’elezione del Capo dello Stato, ha detto no una volta e per tutte, chiudendo lo spazio per ogni distinguo degli alfaniani e preparandosi, se tireranno la corda, a sostituirli nel governo e nella maggioranza con uno dei tanti gruppi di fuorusciti dai partiti originari, che stanno in Parlamento con l’obiettivo di sostenere a qualsiasi costo il governo per evitare la fine anticipata della legislatura. Così, se l’ex capogruppo di Ncd Sacconi insiste per irrigidire la disciplina dei licenziamenti nei decreti legislativi del Jobs Act, sa già quale sarà la risposta. E se Lupi lamenta un trattamento che neppure ai tempi di Prodi veniva riservato ai «cespugli» dell’Ulivo, si sentirà replicare che non può fare il ministro dell’Expo preparandosi a candidarsi come sindaco di Milano. O di qua o di là: questa è la secca alternativa che Renzi ha posto ai suoi alleati. Il rischio, per il Nuovo centrodestra, se continua a perdere parlamentari, è che al governo non potrà restare, e non troverà più posto neppure all’opposizione.

Il Sole 5.2.15
Se a rompersi è Forza Italia
di Lina Palmerini

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Corriere 5.2.15
Guerra fredda esasperata dai conflitti dentro Fi
di Massimo Franco


La rottura è totale, ostentata, dichiarata da Forza Italia e accettata quasi con parole di sollievo dal Pd. Rimane da capire come mai la fine del patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi continui a suonare reversibile, ambigua, a tratti perfino fittizia. Forse perché né il presidente del Consiglio né l’ex Cavaliere l’hanno ufficializzata, lasciando che a fare la faccia feroce siano i loro fedelissimi; e perché avviene troppo a ridosso dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Insomma, suona come una reazione a caldo di FI rispetto a una gestione ritenuta unilaterale della scelta del candidato.
Il sospetto è che Berlusconi abbia disdetto l’intesa con l’allora segretario del Pd del 18 gennaio di un anno fa soprattutto per motivi interni: per evitare la diaspora del proprio partito, aspettando di vedere come pesare ancora nelle aule parlamentari. FI è alla deriva, e i protagonisti della linea trattativista con Renzi, a cominciare da Denis Verdini, sono sotto scacco. La minoranza di Raffaele Fitto chiede l’azzeramento delle cariche. I gruppi parlamentari sono in subbuglio. E l’imputato numero uno è, appunto, il patto del Nazareno: quello che secondo Berlusconi si estendeva al Quirinale; e che invece il capo del governo ha limitato alle riforme, umiliando FI e Ncd.
Decretarne la rottura o il congelamento, nelle parole del consigliere Giovanni Toti, significa togliere alla fronda l’arma simbolica più forte nell’offensiva contro il vertice del partito. Eppure, quando da FI si fa sapere che d’ora in poi verranno approvate solo i provvedimenti convincenti, si dice una cosa scontata; e si lascia la porta aperta ad una ripresa della collaborazione. È probabile che la guerra fredda con Renzi duri una settimana, forse due: almeno fino a quando Berlusconi riterrà sbollita la protesta in FI, e comunque avrà verificato i reali rapporti di forza. Ma il dialogo riprenderà, perchè il potere contrattuale del centrodestra è minimo.
La cerchia renziana non esita a rispondere all’archiviazione del patto con un: «meglio così»; e rivendicando numeri parlamentari che permetterebbero l’autosufficienza del centrosinistra. La scommessa è quella di attirare pezzi di FI o del Movimento 5 Stelle, convinti della bontà dell’elezione di Mattarella. L’equivalente della rottura del patto del Nazareno è la minaccia di lasciare il governo da parte del Ncd di Angelino Alfano. Anche in questo caso, l’avvertimento a Palazzo Chigi ha un sapore tattico. L’operazione di smarcamento sembra porsi come principale obiettivo quello di arginare l’accusa di cedevolezza e di subalternità alla sinistra che proviene dall’interno del Ncd.
Ma c’è anche un filo di irritazione per le parole liquidatorie di Renzi alla richiesta di una verifica. «Siamo tornati al teatrino», ironizzano a Palazzo Chigi, mettendo insieme sinistra Pd, FI e Ncd. Non è chiaro come andrà a finire. Il tentativo di Palazzo Chigi è di dare una sponda al Ncd: pur sapendo che perderà qualche pezzo. Dalle parole quasi sprezzanti del sottosegretario Luca Lotti e del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, sulle «correnti» e le «divisioni» di FI, si indovina invece la convinzione di poter piegare Berlusconi, e non solo lui: fuori e dentro la maggioranza.

Corriere 5.2.15
Gli interessi che spingono a non fermarsi
di Antonio Polito


Il patto del Nazareno era indubbiamente qualcosa di più che un accordo tecnico sul merito delle riforme. Si trattava di un’alleanza. Ora quella società di mutuo soccorso si è rotta: ma è difficile pensare che Berlusconi intenda impedire che le riforme arrivino in porto. Non deve venire meno, infatti, la partecipazione di Forza Italia allo sforzo costituente: soprattutto non se avviene più come effetto di una lite interna che come una scelta politica. D’altra parte, Renzi non ha, di suo, una maggioranza al Senato, e non può cambiare la Carta con il sostegno di un gruppo di fuoriusciti. Altrimenti, le riforme potrebbero dividere il Paese, anziché unirlo
Se davvero Matteo Renzi è l’erede di Berlusconi, quel «royal baby» la cui nascita è stata salutata dai seguaci del Cavaliere come un prodigio, allora non si capisce perché in Forza Italia siano adesso così sorpresi e irritati per il tiro mancino che gli ha tirato. Da che Edipo è Edipo, questo fanno i primogeniti: uccidono i padri. E del resto non è che Berlusconi non sappia che cosa vuol dire mollare un patto sulle riforme: quello della crostata con D’Alema lo affossò lui. Il vecchio Pertini avrebbe chiosato: a brigante brigante e mezzo.
Bisogna però ammettere che, da un punto di vista meno psicanalitico e più politico, il leader di Forza Italia ha ragione ad essersela presa. Il Patto del Nazareno era indubbiamente qualcosa di più che un accordo tecnico sul merito delle riforme. Tant’è vero che il merito cambiava di continuo, ma l’intesa teneva perché era fondata su altro. Si trattava infatti di un’alleanza, di una società di mutuo soccorso. Berlusconi aveva portato così Renzi a Palazzo Chigi, perché il giovane aspirante, a differenza di Letta, poteva esibire una maggioranza trasversale per le riforme. E Renzi aveva riportato Berlusconi all’onore del mondo, nel cuore della politica. Non bisogna infatti dimenticare che alla fine del 2013 l’ex Cavaliere navigava in acque davvero brutte: senza più un seggio al Senato, fuori dalla maggioranza e dal governo, dove però erano restati il suo delfino Alfano e un bel pezzo del suo partito, ormai incapace di fare un’opposizione vecchio stampo perché molto debole elettoralmente, come le Europee hanno confermato. Non è che Berlusconi sia insomma uscito a mani vuote dal paso doble con Renzi, né che le sue aziende possano lamentarsi di questo anno.
Ora Toti dichiara che il Patto è rotto. Ma non è chiaro se questo annuncio via portavoce vuol dire che Berlusconi proverà a impedire che le riforme ormai salpate arrivino in porto. Sembra difficile che ci riesca. Anche perché mentre lui ha portato in Parlamento i suoi voti e i suoi numeri legali a Renzi per isolare la minoranza Pd, quest’ultima non potrebbe mai allearsi con Berlusconi per abbattere Renzi.
Il punto debole della posizione di Berlusconi sta nel merito. L’altro giorno ha detto che da ora in poi Forza Italia voterà in Parlamento solo ciò di cui è convinta, dal che si deduce che, per esempio sul premio di maggioranza alla lista, ha votato in questi mesi anche ciò di cui non era convinta, al solo fine di assecondare Renzi. Questa confusione tra interesse politico immediato e interesse di lungo periodo delle istituzioni potrebbe ora venir meno, insieme al venir meno dell’alleanza politica tra i due. Ma non deve venire meno la partecipazione di Forza Italia allo sforzo costituente. Soprattutto non se avviene, come è apparso ieri, più come effetto di una lite interna tra Fitto, Verdini e Brunetta, come una conseguenza dell’esplosione del partito, che come scelta ponderata e con una prospettiva politica.
D’altra parte Renzi avrà di che riflettere. L’altro ieri ha detto che non perde tempo coi partitini (intendendo l’Ncd). Ora sta facendo dire ai suoi che non perde tempo nemmeno con i partitoni (Forza Italia). Però di suo una maggioranza al Senato non ce l’ha, e non si cambia la Costituzione con il sostegno temporaneo e contrattato di un gruppetto di fuoriusciti o «responsabili». Sta dunque a Renzi, dominus della situazione politica, dire con chi e come intende far approvare le riforme che ha promesso agli italiani. Per essere serie, per essere portate con successo al referendum, ci è stato detto mille volte, devono essere condivise. Non vorremmo che facessero la fine di sempre: dividere il Paese invece di unirlo .

Corriere 5.12.15
L’inutile corsa a delegittimare

di Giuseppe De Rita

Chi ha partecipato o assistito in tv al giuramento ed all’insediamento di Sergio Mattarella ha certo constatato la soddisfazione evidente e diffusa non solo per la figura del nuovo presidente, ma anche per la prova di intelligenza offerta nell’ultima settimana dalla nostra classe politica: i ripetuti applausi a Montecitorio e l’aria festosa e distesa al Quirinale stanno a dimostrare che il recinto di coloro che vivono di politica si dichiara più che soddisfatto. Anche delle parole del presidente, lucidamente tese a recepire le preoccupazioni collettive sulla mafia, sulla corruzione, sul terrorismo, i tre fronti più pericolosi per la convivenza collettiva e per la reputazione del Paese.
Tutto bene allora, e possiamo passare all’ordine del giorno delle cose ancora da fare? Scendendo martedì lo scalone del Quirinale, mi sono posto la domanda e mi sono dato una risposta positiva. Ma mi sono anche detto che non si può dare per superato un problema molto delicato per la nostra civile convivenza e per la nostra collettiva reputazione, provocato dal fatto che in questi ultimi mesi è entrato in circuito un pericoloso virus culturale: la crescita di una sottile «ferocia» di delegittimazione dei leader, veri o potenziali che siano.
Ai protagonisti della tenzone quirinalizia non è stato infatti risparmiato alcun «avviso di sputtanamento», con grande dovizia di messaggi volti a rinfacciare antichi peccati di schieramento; recenti peccati di tradimento; vicende di soggezione ai potenti di turno; piccole furbizie casalinghe; incaute alterigie provinciali; ricordi di nomine clientelari; sospetti di conflitti d’interesse; privilegi retributivi e pensionistici; varie connessioni con parenti e collaterali nonni, padri, fratelli, figli e nipoti. Con dettagli spesso così pretestuosi da far pensare a un accanimento volutamente distruttivo, a una ferocia quasi personalizzata.
Nessuno può chiedere a chi si occupa di lotta politica di dar spazio alle anime belle, per natura inadatte al mestiere; così come nessuno può chiedere al «mondo di sotto» dei social network di astenersi dal fare il tifo nelle gare di sputtanamento. Ma preoccupa che da questi due circuiti possa tracimare nella cultura collettiva un messaggio di ferocia sottile, pur se talvolta condito con nobile indignazione.
Certo da sempre la nostra gente ha avuto il gusto di delegittimare la classe dirigente, con ironie o invettive di tono qualunquistico; ma in questa occasione si è andati più in là, senza una vera ragione politica e senza voler mettere in moto alcun tipo di ragionamento politico. Giova allora avanzare un incitamento sottovoce: se vogliamo coltivare la fiducia necessaria per crescere insieme, cerchiamo di evitare tutti insieme la viperina tentazione alla ferocia verso gli avversari. Potremo vivere meglio.

il Fatto 5.2.15
Ai lettori
Il giornale che siamo e che saremo
di Marco Travaglio


Fino all’altroieri, quando qualcuno mi chiamava “direttore”, mi voltavo all’indietro, pensando di avere alle mie spalle Antonio Padellaro. Da oggi continuerò a voltarmi all’indietro, sperando di avere alle mie spalle Antonio Padellaro. Direttori si nasce e lui, modestamente, lo nacque. Io no. Tutto pensavo e sognavo di fare nella vita, fuorché il direttore. A me piace scrivere, girare, incontrare i lettori e continuerò – nei limiti del possibile – a farlo. Ma, avendo fondato il Fatto con lui e con un pugno di amici e colleghi ormai quasi sei anni fa, pare che ora tocchi a me. Ci proverò con tutte le forze. Ho tentato di imbullonare Antonio sulla sua sedia, ma alla fine è riuscito a svitarsi. Il perché l’ha spiegato ieri, e lo ringrazio. Il suo comunque è tutto fuorché un commiato. Continuerà a scrivere come e più di prima, ora che le incombenze un po’ fantozziane di megadirettore le ha passate a me. E ci guiderà come presidente della nostra società editoriale, che ha tutte le intenzioni di espandersi ancora, con nuove firme e nuove offerte sotto l’impulso della nostra amministratrice Cinzia Monteverdi e del direttore del nostro sito Peter Gomez. Spero che questi quasi sei anni insieme mi abbiano trasmesso qualcosa del suo equilibrio, della sua capacità di “pensare il giornale”, di gestire la redazione e di sintonizzarsi con i lettori, ma soprattutto della sua abilità a rivoltare le notizie per vederle sempre nel verso più originale e autentico, dunque diverso da quello della vulgata del conformismo corrente. Prima di lui avevo imparato molto dal contatto diretto con altri direttori che hanno creduto in me: dal mio primo a Il Nostro Tempo di Torino, Domenico Agasso, al duo Indro Montanelli-Federico Orlando al Giornale e alla Voce, a Daniele Vimercati all’Indipendente e poi al Borghese, a Claudio Rinaldi, Daniela Hamaui e Bruno Manfellotto all’Espresso, a Claudio Sabelli Fioretti e ad Andrea Aloi a Cuore, a Furio Colombo, allo stesso Padellaro e poi a Concita De Gregorio all’Unità, a Enzo Biagi a Il Fatto (quello televisivo), naturalmente a Michele Santoro prima ad Annozero e poi a Servizio Pubblico (e non cito i direttori, fisicamente più distanti, delle testate con cui pure ho collaborato, altrimenti facciamo notte).
Della linea del Fatto non c’è da toccare una virgola: era e resta la Costituzione, che noi amiamo così com’è. Magari con qualche aggiornamento, ma senz’alcuno stravolgimento, specie da parte dei ceffi che da vent’anni ci tengono sopra le zampe. Dire “Costituzione”, in un giornale, si traduce nell’impegno a dare notizie vere e verificate, senza riguardi né sconti per nessuno. Anche e soprattutto quelle che gli altri non possono dare. E – ma sì, diciamolo – anche quelle che qualche lettore embedded non vuole sentirsi raccontare, per non dover mettere in discussione i propri pregiudizi. “Conoscere per deliberare”, diceva Luigi Einaudi. Conoscere spetta (anche) a noi. Deliberare, no. Rileggevo l’altro giorno, per trovare le parole, i primi editoriali di Indro Montanelli su La Voce, nata 21 anni fa da un’esperienza per molti versi simile a quella del Fatto (salvo che per un piccolo particolare: la presenza di Montanelli). “Noi – scriveva – saremo certamente all’opposizione. Un’opposizione netta, dura, sia che vinca l’uno sia che vinca l’altro. Il difficile sarà distinguerci dall’altra opposizione. Se vince questa destra noi certamente le faremo opposizione, cercando però di distinguerci da quella che faranno a sinistra. Se vince la sinistra noi faremo opposizione ugualmente ferma, cercando di distinguerci da quella che faranno gli uomini della cosiddetta destra”.
Stare all’opposizione, per un giornale, non significa dire che va tutto male e che sono tutti brutti e cattivi. È un atteggiamento mentale che porta a dubitare sempre degli ipse dixit del potere, di qualunque colore esso sia, e di andare a verificarli alla prova dei fatti. Anzi, del Fatto. Specie in un Paese dove la tendenza dominante è esattamente quella opposta: prendere per buone le parole dei potenti, incensarli, beatificarli, far loro da cassa di risonanza, ripetere che viviamo sempre sotto il migliore dei governi e dei presidenti possibili, salvo poi scoprire (sempre troppo tardi) che ci hanno ingannati, derubati e rovinati.
Noi – i nostri lettori più attenti lo sanno bene – non siamo né penne all’arrabbiata né pennette alla bava “a prescindere”. Critichiamo e (più raramente, purtroppo) elogiamo chi pensiamo lo meriti, cercando di argomentare e documentare le nostre ragioni, e appena possibile avanziamo proposte concrete in alternativa a ciò che non ci piace. Se veniamo dipinti come bastiancontrari, criticoni, rosiconi, gufi, mai contenti, professionisti del mugugno e del risentimento, è solo perché il resto del panorama è “tutto va ben madama la marchesa”. E far la figura dei fessi non è una bella vocazione: meglio gli “apoti” di Prezzolini, “quelli che non la bevono”. Dovendo proprio scegliere, meglio sbagliare per eccesso di critica che di piaggeria. Siamo una squadra di giornalisti onesti, in gran parte giovani, e di collaboratori prestigiosi dei più diversi orientamenti, ma accomunati dall’amore per il rischio e per la libertà. Non abbiamo mai preteso di essere più bravi degli altri. Solo più fortunati: ci siamo fatti il giornale che volevamo, senza padrini né padroni (chi ha cercato di attribuircene qualcuno ha dovuto battere ogni volta in ritirata). Quando sbagliamo lo facciamo in proprio, non per conto terzi. Non abbiamo mai voluto finanziamenti pubblici e ci siamo condannati – per come siamo fatti – a non poter contare su grandi introiti pubblicitari, ma soltanto sulle nostre forze e su un gruppo di azionisti-editori privi di conflitti d’interessi che non mettono becco nella fattura del giornale. La nostra fortuna più grossa è una pattuglia di lettori e di abbonati speciali, molto attivi e partecipativi, che conosciamo quasi uno per uno: di persona o per iscritto, per averli incontrati alle nostre feste e manifestazioni, per averli coinvolti nelle nostre petizioni, per aver ricevuto le loro lettere (alle quali, nei limiti del possibile, rispondiamo sempre), per aver letto i loro interventi sul nostro sito che – unico in Italia – apre ogni articolo e ogni blog ai commenti. Fra i tanti amici e lettori che mi fanno gli auguri, qualcuno mi domanda: “Cosa possiamo fare?”. La risposta è semplice, quasi banale: acquistate e leggete Il Fatto, se possibile abbonatevi e fate abbonare i vostri amici, e scriveteci ogni volta che siete o non siete d’accordo con noi. È grazie a voi se, da cinque anni e mezzo, pur tra mille difficoltà e patemi d’animo, i nostri conti chiudono in attivo e dunque il Fatto continua a compiere il suo piccolo miracolo quotidiano: uscire ogni giorno in edicola e sul web, e rendere orgogliosi noi che lo facciamo e voi che lo leggete. Aiutateci a farlo ancora (e mi raccomando: alle prime avvisaglie di rincoglionimento del direttore, fategli un fischio e chiamate l’ambulanza).

il Fatto 5.2.15
I numeri del Senato dicono che gli alfaniani servono


NEI DELICATI EQUILIBRI della maggioranza a Palazzo Madama, i 36 senatori di Ncd sono determinanti. Senza di loro, il governo sarebbe ben sotto l’asticella dei 160 voti che gli assicurano l’esistenza. Ma nella geografia del Senato, resa mobile soprattutto dagli addii al gruppo di ben 18 parlamentari Cinque Stelle, gli equilibri potrebbero ancora cambiare, magari in favore del governo.
Secondo i boatos del Palazzo, nuovi sostenitori all’esecutivo di Matteo Renzi potrebbero arrivare proprio dalle fila degli ex grillini che attualmente siedono nel Misto (si guarda soprattutto ai sei senatori che hanno votato per Mattarella) e dal gruppo di Gal (15 in tutto, ma tra di loro ci sono i tre popolari di Mario Mauro, 5 parlamentari vicini a FI e Giulio Tremonti). Dunque tra di essi ci sarebbero sei voti “mobili” in favore del governo. Ma c'è anche chi sostiene che, nell’ipotesi, al momento remota, di un distacco di Ncd dal governo, altri voti potrebbero arrivare alla maggioranza dalle fila di Area popolare. Le riforme, senza Forza Italia e col le defezioni Ncd, sarebbero finite.

il Fatto 5.2.15
Il decreto Renzi salva l’Ilva dai risarcimenti alle vittime
di Antonio Massari

Il gelo è arrivato ieri mattina, quando il gup del tribunale di Taranto, Vilma Gilli, ha accolto le eccezioni sollevate dai legali di Ilva spa, di Riva Fire e di Riva Forni Elettrici: le tre società sono escluse dalla responsabilità civile. In caso di condanna, non dovranno risarcire le vittime, perché l’ultimo decreto del Governo Renzi – equiparando di fatto l’amministrazione straordinaria al fallimento – le mette al riparo dalle pretese risarcitorie. Le parti civili, in caso di condanna, potranno rivalersi sui singoli imputati, oppure rivolgersi al Tribunale fallimentare di Milano.
   L’IPOTESI del risarcimento non scompare del tutto, ma diventa farraginosa, e anche rischiosa: non è detto che i familiari possano ottenere ciò che chiedono. E vedremo perché. “Decreto salva Ilva? Chiamiamolo con il suo vero nome: è l’ennesimo decreto ‘ammazza gente’”, commenta Amedeo Zaccaria, padre di Francesco, morto a 29 anni su una gru, lavorando nell’Ilva. “È l’ennesima manovra politica perché i Riva possano risparmiare soldi sulla pelle delle persone. Da quando ho perso mio figlio, ho perso anche la fiducia in qualsiasi istituzione, ho avuto un infarto per la rabbia accumulata in questi anni. La realtà è semplice: c’è chi all’Ilva ha fornito il carbone. Bene, da padre le dico che oggi anch’io mi sento trattato alla stregua di un fornitore. Il fornitore di una vita umana: quella di mio figlio, che vale quanto il carbone, se non di meno”. E quindi: da ieri, la strada per ottenere il risarcimento, si trasforma in un penoso percorso a ostacoli, come se già non bastasse la pena delle vittime e dei loro famigliari. Parliamo dei famigliari degli operai morti negli incidenti sul lavoro, o ammazzati dal cancro, oppure degli allevatori che hanno dovuto abbattere centinaia di capi di bestiame, dei miticoltori che hanno perso il lavoro, a causa dell’inquinamento che ha avvelenato il mar Piccolo e riempito di diossina le sue cozze. “Due casi di tumore in più all’anno... una minchiata...”, minimizzava Fabio Riva, al telefono, leggendo una relazione tecnica dell’Arpa. “È la morte del diritto e della democrazia – commenta Angelo Bonelli, portavoce nazionale dei Verdi, anch’essi tra le circa 800 parti civili – negare i risarcimenti ai parenti delle vittime e alle altre parti civili significa condannarli ancora a morte. Questa norma consente alle aziende che hanno realizzato enormi profitti sulla salute di operai e cittadini di poter conservare i propri tesori nei conti correnti bancari. Grazie a un provvedimento dello Stato italiano, da oggi, viene vanificato il principio che chi inquina paga”. Oggi il dossier Ilva sarà nuovamente sul tavolo di Palazzo Chigi: è previsto un vertice con il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, per definire gli emendamenti al decreto all’esame del Parlamento.
Ma nel frattempo, da ieri, le tre società dei Riva sono escluse dal risarcimento per le vittime nel processo penale in corso, nel quale Nicola e Fabio Riva sono accusati di associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale: l’Ilva è entrata in amministrazione straordinaria, mentre le altre due società, al momento dell’incidente probatorio del 2012, non erano presenti.
È IN BASE a questo mix, tra il decreto Marzano e l’assenza nell’incidente probatorio, che le società approdano a questo risultato.
“Oltre il danno – continua Amedeo Zaccaria - dobbiamo subire anche la beffa: mio figlio non c’è più da tre anni, e ogni giorno devo lottare con il fatto che un processo diventa una partita a poker, bluff inclusi, e da padre ho il diritto di dubitare che tutto questo sia stato programmato, che le istituzioni manovrino per evitare danni ai Riva e a tutti gli imprenditori che si comportano come loro. Io l’ho perso, non potrò più riaverlo, aveva 29 anni e da soli 4 giorni stava coronando il suo sogno di formarsi una famiglia. Sulla pelle di mio figlio quale partita si sta giocando?”. Una partita molto complessa. Perché, in caso di condanna, al termine del processo penale. Amedeo e le altre parti civili, potranno chiedere ai Riva il risarcimento del danno, ma solo come persone fisiche. E non è detto che il patrimonio personale dei singoli imprenditori sia sufficiente a risarcire i danni che, teoricamente, potrebbero arrivare fino a 30 miliardi.
Basti pensare che quando la procura di Milano ha sequestrato 1,2 miliardi agli imprenditori dell’acciaio, in realtà ha trovato soltanto 600 milioni. A quel punto, le parti civili, dovrebbero avviare nuovi accertamenti patrimoniali, con ulteriori spese e perdite di tempo. Oppure rivalersi in sede fallimentare, come “creditore privilegiato”, perché il credito deriva dal risarcimento per il reato subìto.
“Sono equiparato a un creditore, a un fornitore di carbone, come se avessi fornito anche la materia prima: mio figlio”, dice il padre di Francesco Zaccaria che, paradosso del linguaggio giuridico, tra i creditori risulterebbe persino un “privilegiato”.

Repubblica 5.2.15
Il Pd si divide sull’anticorruzione
Orlando convoca un vertice per oggi. Ncd per la linea soft su prescrizione, falso in bilancio. L’Authority anti mazzette insiste: “Serve una corsia preferenziale per il ddl Grasso”
di Liana Milella

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Il Sole 5.2.15
Diritto penale. La commissione Giustizia della Camera ha concluso l’esame del provvedimento
Tortura, sanzione aggravata per il pubblico ufficiale
di G. Ne.


Milano La commissione Giustizia della Camera ha approvato ieri il disegno legge che introduce il reato di tortura. Si sono infatti concluse le votazioni sugli emendamenti e il testo sarà formalmente licenziato per l’aula dopo i pareri delle altre commissioni. «L’impianto – spiegano Donatella Ferranti e Franco Fazio, rispettivamente presidente della commissione e relatore del provvedimento – è rimasto nella sostanza quello votato dal Senato, ma abbiamo meglio puntualizzato la norma recependo quasi letteralmente le indicazioni della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura».
Il reato di tortura, in pratica, resta reato comune (punito con la reclusione da 4 a 10 anni), ma aggravato con pene da 5 a 12 anni se commesso dal pubblico ufficiale: «Abbiamo seguito le raccomandazioni del Comitato Onu contro la tortura e quanto emerso nel corso delle audizioni, da un lato – sottolineano Ferranti e Fazio - marcando in maniera specifica gli elementi determinanti per il reato commesso dal pubblico ufficiale e dall’altro individuando gli elementi oggettivi e soggettivi della condotta al fine di evitare sovrapposizioni improprie con altre fattispecie, quali per esempio le lesioni personali gravissime o i maltrattamenti, che sono già punite dal codice penale».
Quanto alla condotta, il disegno di legge, che era già stato approvato dal Senato, ma ora è stato modificato dalla commissione Giustizia della Camera, sanziona chi provoca, in maniera intenzionale, a una persona a lui affidata o in ogni caso soggetta alla sua autorità, vigilanza o custodia, «acute sofferenze fisiche o psichiche per ottenere, da essa o da un terzo, informazioni o dichiarazioni, o vincere una resistenza, o in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose». Prevista anche l’inutilizzabilità delle dichirazioni estorte con tortura.

Il Sole 5.2.15
Tribunale Roma. No al collocamento in altra famiglia
Genitori in conflitto, figli minori affidati ai servizi sociali
di Giorgio Vaccaro


No all’affido condiviso, se la conflittualità tra i genitori è insuperabile. La strada è l’affido ai servizi sociali, per limitare la responsabilità genitoriale e sottoporla al vaglio degli esperti.
Accertato il clima di conflittualità, nel quale i genitori facevano vivere i figli minori anche dopo i rilievi mossi dalla psicologa consulente del giudice nel corso del giudizio , il Tribunale di Roma (sentenza del 5 dicembre 2014, giudice Cecilia Pratesi) ha applicato in modo originale lo spirito del nuovo testo dell’articolo 337-ter del Codice civile (introdotto dal Dlgs 154/2013). Così ha nominato i servizi sociali affidatari dei minori. I consulenti avevano, infatti, verificato che i figli erano tanto «inglobati nel conflitto» tra i due da essere «costretti a svolgere il ruolo di mediatori tra le opposte visioni genitoriali».
Limitandosi al tenore letterale, la norma consente al giudice, a tutela dei minori in caso di particolare pericolo per loro, di disporne l’affidamento familiare, nel quale i figli lasciano casa per essere affidati a una famiglia diversa da quella d’origine. Una novità, introdotta nel Codice civile, che comporta un maggiore distacco dai genitori.
Meno traumatica la scelta fatta dal Tribunale con la sentenza del 5 dicembre, che evidentemente tiene conto del concetto di «esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale» stabilito dalla norma: un affidamento eterofamiliare, nel quale i minori non si trasferiscono e restano col genitore con cui già vivevano, ma “entrano in campo” i servizi sociali. Significa che il servizio affidatario ha il compito di predisporre un progetto di presa in carico del nucleo familiare da parte delle strutture territoriali, compresa la Asl di riferimento. L’obiettivo è ridisporre l’affido condiviso dopo aver ripristinato un sano rapporto genitori-figli e arginato la conflittualità. Avvalendosi, se necessario, di centri specializzati convenzionati.
La sentenza si sofferma attentamente sull’importanza di spiegare alle parti che il provvedimento adottato implica una concreta limitazione della loro responsabilità genitoriale, in modo da indurli ad accantonare le reciproche rivendicazioni per fare in armonia le scelte importanti per la vita dei minori.
La prescrizione della presa in carico prevede poi l’ulteriore compito per il servizio sociale di monitorare l’andamento delle relazioni familiari, segnalando alla Procura presso il Tribunale per i minorenni i comportamenti nocivi per i minori o, comunque, non rispettosi delle prescrizioni del giudice. Le indicazioni devono riguardare anche l’opportunità di adottare provvedimenti ulteriormente restrittivi della responsabilità genitoriale o la revoca delle limitazioni . Il servizio sociale deve poi comunicare alle parti l’eventuale, proficua conclusione degli interventi, affinché chiedano al Tribunale ordinario per la modifica del provvedimento.
Dunque, delega piena ai servizi sociali. Per «ripristinare le aree disfunzionali dell’esercizio della responsabilità genitoriale». Ma spesso i servizi sociali non hanno personale né risorse. Quindi sono prevedibili difficoltà che molto probabilmente costringeranno le parti a ricorrere nuovamente alla giurisdizione.

Corriere 5.2.15
Omicidi a picconate, i giudici d’appello: «Kabobo agì per rancore»
Secondo i magistrati le «voci» sentite dal ghanese e i suoi disturbi psichici non avrebbero potuto comunque forzarne volontà

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Repubblica 5.2.15
Uccise tre volte a colpi di piccone
“Kabobo risarcisca Milano danno d’immagine per l’Expo”


MILANO Kabobo, il ghanese che l’11 maggio 2013 ha ucciso tre persone a Milano a colpi di piccone, ha danneggiato l’immagine del Comune, anche all’estero, proprio mentre la città era impegnata nella promozione di se stessa in vista di Expo. Lo hanno scritto i giudici della Corte d’Appello che ieri hanno depositato le motivazioni della condanna a 20 anni di carcere contro il nordafricano. Per questo, al Comune «è stato riconosciuto un risarcimento per danni non patrimoniali da liquidarsi in separato giudizio civile». Il danno, hanno scritto i giudici, «va ravvisato nel grande clamore mediatico su giornali e tv, anche straniere, della notizia dell’omicidio di tre milanesi, colpiti a picconate in piena città». La sentenza ha ribadito — così come era avvenuto in primo grado, dove Kabobo era stato condannato anche a tre anni di casa di cura — come la condizione di emarginazione non sia un’attenuante. A Kabobo è stata invece riscontrata «una determinazione a uccidere che alberga nel rancore che lo assediava, e non nel soggiacere alle voci» che sentiva. Per i periti Isabella Merzagora e Ambrogio Pennati, «la malattia non ha agito al suo posto». Al momento dei fatti, Kabobo «presentava una capacità d’intendere scemata, ma non totalmente assente».

Corriere 5.2.15
Tosi apre alle coppie di fatto. Gelo di Salvini
di Marco Cremonesi


Verona sarà la prima grande città guidata dal centrodestra a varare un registro per le unioni civili Il sindaco parla di «mutate esigenze della società». Nervosismo nella Lega: il leader non era stato informato

MILANO La svolta di Flavio Tosi: a Verona, coppie di fatto. Eterosessuali e anche omosessuali. A sorpresa, il sindaco della città più importante governata dalla Lega, apre alle unioni civili. Che peraltro non sono previste in nessuna città importante governata dal centrodestra. In ogni caso, già dalla prossima settimana, per i conviventi sarà possibile registrarsi a un registro anagrafico che ne riconoscerà lo status di coppia almeno ai fini dell’assistenza sanitaria e ospedaliera: «Il fatto — ha detto Tosi — che al convivente sia negata la possibilità di assistenza e perfino il diritto ad ottenere informazioni sulla salute del proprio compagno, beh, l’ho sempre ritenuta una cosa profondamente ingiusta». Nessuna agevolazione è invece prevista riguardo all’assegnazione di alloggi pubblici per chi non ha figli.
L’iniziativa, comunque, non è precisamente in linea con le pubbliche dichiarazioni del Carroccio, che ha sempre espresso il rigoroso ossequio alla formula tradizionale di famiglia. E infatti, nell’apprendere la notizia, il segretario della Lega Matteo Salvini, secondo i suoi collaboratori, non ha esultato: «Meno male che avevo detto ai sindaci di avere come priorità assolute le case popolari, il Fisco e le disabilità...». Chi riporta la battuta, fa anche osservare che la notizia è stata appresa dal segretario soltanto dalle agenzie stampa. Insomma, Salvini non era stato informato.
Il provvedimento è stato approvato dalla giunta e nelle prossime ore Flavio Tosi firmerà l’ordinanza per dare il via alla concreta applicazione. Ed è stato proprio il sindaco, ieri, a spiegare che il presupposto è quello fissato dal Dpr 223 del 1989. Che all’articolo 4 sancisce come «agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune».
Il riconoscimento potrà essere richiesto da tutti coloro che si trovino in due casi specifici. I conviventi con figli godranno del riconoscimento comunale immediatamente. Ma potranno registrare la propria unione anche coloro che — pur in assenza di figli — vivono insieme da almeno due anni. Qualora uno dei conviventi abbia già compiuto i settant’anni, la soglia del riconoscimento si abbassa ulteriormente: basterà un anno sotto lo stesso tetto.
«Si tratta — ha detto Tosi — di un primo passo nel riconoscimento delle cosiddette coppie di fatto, date le mutate esigenze della società contemporanea e l’evidente discrasia tra realtà sociale e disciplina giuridica». Anche se il nuovo registro non interferirà «con la vigente normativa in materia di anagrafe e di stato civile, con il diritto di famiglia e con altre leggi di tipo civilistico». Ma in ogni caso i conviventi veronesi potranno «fruire di agevolazioni per i servizi rivolti a coppie, giovani, genitori e anziani, per lo sport e il tempo libero». E anche «avere accesso ai servizi sociali e alle attività di sostegno e di aiuto nell’educazione».
In realtà, la posizione di Tosi su questo argomento è tutt’altro che una novità. Il leghista atipico, infatti, aveva già manifestato il suo pensiero sull’argomento. Passare però dall’opinione ai fatti lo ripropone, però, come una personalità distinta rispetto al mainstream leghista. Del resto, la svolta «nazionale» di Matteo Salvini era stata in qualche modo anticipata dall’associazione «Ricostruiamo il Paese». E se oggi il segretario leghista debutterà in Abruzzo con il suo tour al centro e al sud per promuovere la (futura) lista «Noi con Salvini», Tosi batte l’intero Stivale dall’ottobre 2013: domani, tanto per dire, sarà a Foggia.

Italia Oggi 5.2.15

Nuove ombre sull’Unità. Si decide il 12 febbraio
qui segnalazione di Carlo Patrignani

Affari Italiani 5.2.15
Scontro Veneziani giornalisti, ora l’Unità rischia il fallimento

segnalazione di Carlo Patrignani
l’articolo è disponibile per gli abbonati sul sito del quotidiano, qui

Corriere 5.2.15
AAA vendesi: all’asta 600 immobili del patrimonio capitolino
Appartamenti, negozi e cantine nel centro storico, a Prati e in periferia. Giovedì la delibera in consiglio comunale, martedì il voto

qui

Corriere 5.2.15
L’uso della prepotenza non restituirà il Teatro Valle ai suoi spettatori
di Pierluigi Battista


Come prigionieri di un’invincibile nostalgia, i combattenti che hanno occupato per tre anni il Teatro Valle — appropriandosi di un bene pubblico — ora minacciano di tornare proprio nel teatro da cui erano usciti, dopo lunghe trattative con l’assessore alla Cultura Marinelli, nell’agosto scorso. Minacciano l’occupazione perché accampano diritti su una sala di prestigio, un gioiello della cultura romana e italiana, e sostengono che gli interlocutori del Teatro di Roma e del Comune non hanno assecondato la «compartecipazione» con la Fondazione che si rifà nelle insegne al «bene comune».
   Ma perché? A che titolo credono di poter dettare legge e disporre a loro piacimento di un bene che è di tutti? Intanto hanno occupato preventivamente l’assessorato alla Cultura, come forma di pressione (e di ricatto). Dicono che non sono stati fatti programmi per il teatro. Vero. Ma il rimpallo tra il ministero e il Comune è ancora a un punto morto. Mancano con certezza le riserve finanziarie. Ci sono da fare anche costosi lavori di ristrutturazione per un teatro che ancor prima dell’occupazione aveva bisogno di ritocchi e manutenzione da realizzare con cura.
   Ora però non si può ricominciare. Non si può far pesare su un’intera città un modo arrogante di considerare la cosa pubblica. Intestarsi una titolarità di diritti che non si ha dal punto di vista giuridico e nemmeno da quello morale. Sarebbe grave se la minaccia di ieri fosse davvero il preludio di una interminabile occupazione di un teatro storico. E perciò, mentre si deve rispondere con fermezza a chi conosce solo il linguaggio della prepotenza, bisognerebbe anche sollecitare chi di dovere e restituire il Valle a chi vuole andare a vedere i suoi spettacoli e farne un centro vivo di cultura, come è sempre stato. Prima di ricominciare con i rituali stanchi delle occupazioni e degli espropri.

Repubblica 5.2.15
La rivincita di Obama
di Alexander Stille


L’INSEDIAMENTO di un nuovo Congresso con una forte maggioranza repubblicana sia al Senato che alla Camera aveva lasciato presagire lo scenario di due anni di egemonia repubblicana, col presidente Barack Obama costretto al ruolo — come tecnicamente si dice, — di “anatra zoppa.” I repubblicani avevano interpretato la loro vittoria elettorale di novembre come un netto rifiuto della politica di Obama — e come un mandato, assegnato dagli americani, a governare. Ma da novembre a oggi è successo qualcosa di inaspettato, e davvero straordinario. La sconfitta sembra aver quasi “liberato” Obama. Che adesso, non avendo più sfide elettorali di fronte a sé, ha semplicemente deciso di usare tutti i poteri che il suo ruolo gli assegna. Sembrano insomma finiti gli anni di prudente calcolo nei quali il presidente aveva cercato di guadagnare quel consenso bipartisan che non ha quasi mai trovato. Obama ha cominciato invece ad agire molto più liberamente: sapendo bene di non poter contare sull’appoggio del Congresso.
In una serie di manovre che hanno preso tutti in contropiede, Obama ha così incassato una serie di successi diplomatici e politici, che segnano forse il periodo più produttivo della sua vita politica. Vediamoli più da vicino.
1) Mentre i repubblicani del Congresso continuano a negare sempre più l’esistenza del surriscaldamento globale — oppure l’efficacia nel combatterlo — Obama ha concluso un accordo con la Cina che ha posto limiti alle emissioni di carbonio.
2) Subito dopo le elezioni di midterm, ha annunciato un decreto presidenziale per regolarizzare la situazione di milioni di immigrati presenti negli Stati Uniti da anni, ma a rischio di espulsione. La mossa ha preso completamente in contropiede il partito repubblicano, già in difficoltà con la crescente popolazione ispanica degli Stati Uniti: un semplice colpo di penna ha cancellato un problema che diventava sempre più pesante.
3) Nei mesi precedenti le elezioni di novembre, i repubblicani avevano contrapposto all’apparente passività della politica estera di Obama l’aggressivo decisionismo di Vladimir Putin, che sembrava pronto a mangiarsi l’Europa dell’Est boccone per boccone. «Quello si che è un leader!» diceva l’ex sindaco repubblicano di New York Rudolph Giuliani. «La Russia gioca a scacchi, mentre il nostro presidente gioca a biglie», rincarava un altro leader repubblicano. Ora la Russia di Putin è in serie difficoltà economiche, costretta a cancellare i sui piani per un megagasdotto in Europa, messa in ginocchio in parte dalla caduta del prezzo del petrolio ma anche dalle sanzioni economiche organizzate sapientemente dallo stesso Obama. “Chi è che gioca a scacchi?” si è chiesto recentemente il commentatore del New York Times Thomas Friedman.
4) L’epidemia di Ebola, presentata dalle tv americane come la prossima peste nera che avrebbe decimato, insieme al resto del mondo, gli Stati Uniti — altro segno, secondo i repubblicani, dell’impotenza del presidente Usa — è in fortissimo calo: e le conseguenze per gli americani sono state fortunatamente minime. È un ottimo risultato, prodotto dal lavoro certosino degli ufficiali delle sanità pubblica di diversi Paesi, senza dover ricorrere alle misure apocalittiche paventate dalla destra americana.
5) Il colpo di scena della normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Cuba ha infine scombussolato i piani del congresso repubblicano: e ha trasformato quello che finora era sempre stato un punto di forza della destra — l’intransigente opposizione al regime di Fidel Castro — in un punto di vulnerabilità. Obama ha capito che il mondo è cambiato — sia per Cuba che per i cubani-americani, molto più favorevoli all’apertura con L’Avana di quanto non siano stati nel passato. La mediazione del Papa ha poi garantito anche l’approvazione di una buona parte dell’elettorato cattolico. Risultato: i repubblicani sembrano adesso isolati, prigionieri di una antiquata politica da guerra fredda.
Obama dunque ha chiaramente deciso di usare tutti i poteri della presidenza, svincolati dal potere legislativo del Congresso, per fare tutta una serie di cose che aveva in mente, ma che aveva esitato a fare per prudenza e calcolo politico. Ha così dimostrato la forza che si acquista quando si coniuga l’audacia machiavellica con una vera politica. Quando ha cessato di trattare con quel Congresso che non aveva mai voluto trattare con lui, ha ritrovato se stesso. E al tempo stesso ha lasciato il segno sulle elezioni presidenziali del 2016, stabilendo già adesso le linee di condotta su una serie di questioni potenzialmente determinanti per i democratici. Determinando, insomma, anche il cammino del candidato democratico alla sua successione.

Corriere 5.2.15
Il ministro greco non convince Draghi «Non possiamo aiutarvi ancora»
L’incognita per gli istituti di credito ellenici: risorse solo dalla banca centrale nazionale
di Danilo Taino


BERLINO La questione greca sta iniziando a prendere contorni più chiari. Dietro a una retorica forte, il governo di Atene è ora alla ricerca di un compromesso con l’eurozona: i cambiamenti più radicali li farà a casa, dove ha un mandato popolare. Anche l’incontro di ieri tra il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis e Mario Draghi, a Francoforte, è stato condotto sul piano delle cose possibili: non dichiarazioni di principio pro o contro una ristrutturazione del debito ellenico.
La situazione rimane comunque critica: a tarda sera la Banca centrale europea ha tolto alle banche greche la possibilità di utilizzare i titoli di Stato di Atene nonostante abbiano un rating di «junk bond», ma ha anche assicurato che gli istituti potranno continuare a finanziarsi per altre vie presso le banche centrali. «La sospensione è in linea con le regole dell’Eurosistema perché al momento non è possibile presumere una conclusione positiva della valutazione del programma» scrive la Bce. Che poi aggiunge: «La sospensione non ha effetto sullo status di controparte delle istituzioni finanziarie greche». Draghi ha chiarito al ministro greco la posizione della Banca centrale europea: non sarà essa a risolvere i problemi di Atene, perché non può; ma non farà nemmeno nulla contro, perché non vuole. Oggi, Varoufakis incontrerà a Berlino anche il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, uno dei politici europei più decisi nell’escludere la rinegoziazione del debito greco. Potrebbe risultarne un colloquio importante, forse distensivo: il ministro greco si è fatto precedere da un’intervista al settimanale «Die Zeit» nella quale riconosce il ruolo centrale della Germania (vorrebbe un Piano Merkel simile al Piano Marshall); promette riforme, ma contro il cartello di ricchi greci che non pagano le tasse e alimentano «nepotismo e corruzione»; assicura che non firmerà «mai, mai, mai» un bilancio in rosso (interessi sul debito a parte). Detto questo, la situazione rimane complicata.
Nell’incontro di ieri, Draghi ha sottolineato a Varoufakis i limiti operativi della Bce e — secondo una fonte della banca citata dall’agenzia «Reuters» — ha invitato il governo di Atene a impegnarsi «costruttivamente e velocemente con l’Eurogruppo per assicurare la continuazione della stabilità finanziaria», cioè a misurarsi con i ministri delle Finanze e dunque con i governi europei. Due i punti chiave del colloquio. Il primo riguarda la proposta fatta circolare dai greci di scambiare i loro titoli di Stato posseduti dalla Bce con titoli «perpetui», cioè sempre emessi dalla Grecia, che pagano gli interessi ma non vanno mai a scadenza. Una soluzione che la Bce non può prendere in considerazione: si tratterebbe del «finanziamento monetario» di un Paese dell’eurozona, così come lo sarebbe un allungamento delle scadenze del debito ellenico e i trattati lo vietano.
Una soluzione a questo problema di cui si parla a Francoforte — ma non è dato sapere se sia stata discussa da Draghi e Varoufakis — sarebbe un intervento dell’Esm, il Meccanismo di stabilità europeo creato dai governi per intervenire nelle situazioni di crisi. I partner dell’eurozona potrebbero decidere di fare comprare all’Esm i circa 27 miliardi di titoli di Stato greci in mano alla Bce: a quel punto, potrebbero farne quello che credono. Improbabile, ma comunque un’ipotesi da discutere semmai nell’Eurogruppo, che sulla vicenda greca terrà una riunione straordinaria l’11 febbraio.
Il secondo punto del colloquio avrebbe riguardato i dieci miliardi di buoni del Tesoro (a breve scadenza) che Atene vorrebbe emettere per dotarsi di un finanziamento ponte per i mesi successivi a quando il vecchio programma di aiuti finirà, con febbraio: dal momento che il nuovo governo non lo vuole prolungare, la Grecia non riceverà più denaro dai creditori e quindi rischia di essere insolvente di fronte ad alcune scadenze. Anche su questo aspetto, Draghi avrebbe chiarito a Varoufakis che non può fare nulla. Ovviamente, il governo di Atene può emettere i titoli, con il fine di farli comprare alle banche elleniche che poi li userebbero come collaterale per ricevere finanziamenti dalla Bce. Il problema è che i titoli greci hanno un rating troppo basso (junk bond) e per accettarli la banca centrale deve avere una dispensa speciale (waiver). Ma la dispensa, eliminata ieri, viene accordata come parte degli accordi di salvataggio di Atene, proprio quegli accordi che il governo greco dice che rifiuterà dalla fine del mese. Altra materia da discutere nell’Eurogruppo, insomma. Perché — ieri lo si è visto bene a Francoforte — la soluzione è politica, tutta politica.

Repubblica 5.2.15
L’ultimatum di Draghi solo una settimana e poi stacca la spina
di Federico Fubini


ROMA La Banca centrale europea dà sei giorni alla Grecia. Se il nuovo governo di Atene non cambia strada, se non rinuncia al radicalismo della sua prima settimana, rischia di soffocare finanziariamente. A quel punto l’uscita dall’euro potrebbe diventare una prospettiva più concreta, non fosse per le linee di emergenza che la banca centrale di Francoforte continua a riaprire ogni due settimane a favore delle banche elleniche.
Adesso la Grecia è appesa a un filo di cui l’Eurotower tiene saldamente l’altra estremità. Questa volta Mario Draghi, il presidente italiano della Bce, non aveva altra scelta. L’istituto di emissione presta denaro alle banche dell’area euro solo in base a regole precise: in cambio di quei finanziamenti, queste ultime devono portare in garanzia a Francoforte delle obbligazioni (di solito titoli di Stato) di qualità almeno accettabile. Se quei titoli sono classificati come “spazzatura” (formalmente “non-investment grade”), perché sono emessi da governi in insolvenza o vicini ad essa, la Bce può accettarli solo a condizioni molto precise. In particolare, quei governi devono impegnarsi ad attuare un programma economico di aggiustamento in cambio di finanziamenti dall’Europa o dal Fondo monetario. In sostanza, quando i titoli di un governo diventano “spazzatura”, la Bce li accetta come garanzie solo se quel governo accetta quella che – fino a ieri – è stata la troika.
È in questo modo che banche greche hanno continuato ad alimentarsi di liquidità in Bce dopo il default del 2011. Avevano in bilancio quasi solo titoli di Atene da presentare in garanzia a Francoforte in cambio di prestiti, ma Francoforte li accettava unicamente perché Atene a sua volta aveva sottoscritto un piano europeo di riforme e risanamento.
Non più. Yanis Varoufakis, il neo-ministro dell’Economia, in assenza di Draghi dice che la Bce «specula contro la Grecia come uno hedge fund». In pubblico e certamente anche ieri nel suo incontro con Draghi, Varoufakis aggiunge anche qualcosa di più: il governo di Atene non vuole più un programma europeo di aggiustamento ed è pronta a rinunciare ai prestiti degli altri governi europei e del Fmi che sono legati ad esso. Propone di risolvere il problema del suo debito semplicemente rifiutandosi (per ora) di saldarlo nei termini previsti. Inevitabile dunque che Draghi e gli altri banchieri centrali, a partire dall’11 febbraio, non possano più garantire ossigeno finanziario alle banche greche in cambio di titoli “spazzatura”. Per loro restano solo le linee di liquidità di emergenza, che l’Eurotower deciderà ogni due settimane se rinnovare o meno. La fragilità finanziaria del Paese, la sua dipendenza dal resto d’Europa, finisce così crudamente sotto i riflettori.
Il nuovo governo di Alexis Tsipras ha fino a mercoledì prossimo per decidere se rientrare nei ranghi e accettare che l’attuale programma europeo per Atene sia prolungato. Certo alcuni aspetti di esso andranno rinegoziati. Ma nella scelta di Draghi c’è un implicito messaggio politico, lo stesso emerso dal relativo isolamento nel quale Tsipras si è trovato in questi giorni nel suo viaggio fra Roma, Parigi e Bruxelles. Il messaggio è che la Grecia è un drammatico caso a sé. Non è l’apripista di un confronto europeo fra Roma, Parigi o Berlino. E il radicalismo o gli attacchi a testa bassa sono sì legittimi se servono a vincere un’elezione in un Paese in crisi profonda. Ma il giorno dopo, bisogna cominciare a muoversi in Europa come tutti gli altri. Alla ricerca del compromesso, non dei colpi a effetto.

il Fatto 5.2.15
Merkel e Draghi spengono l’entusiasmo del governo Tsipras
Ma la Grecia sta già cedendo quasi su tutto
di Stefano Feltri


La divisione dei compiti è questa: il premier Alexis Tsipras prende pacche sulle spalle e auguri di buon lavoro, il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis cerca di ottenere risultati concreti sul piano di riduzione del debito pubblico greco, arrivato al 175 per cento. Risultati che per ora non arrivano. “La Bce dovrebbe sostenere le nostre banche, in modo che noi con i nostri titoli di Stato di breve periodo possiamo sopravvivere”, ha detto ieri Varoufakis dopo aver incontrato il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi.
I TONI DI SFIDA del ministro senza cravatta, con la giacca di pelle e la polemica facile dal suo blog, si sono già ammorbidi. E si capisce perché: ieri sera con una nota ufficiale la Bce ha rimosso l’eccezione che consentiva ai titoli greci di essere usati come collaterale a fronte di prestiti presso la banca centrale. Tradotto: i bon emessi da Atene sono spazzatura anche per la Bce. E le conseguenze si vedranno oggi sui mercati, perché la motivazione della scelta della Bce è molto pesante: “al momento non è possibile aspettarsi una conclusione positiva dell’esame sul programma (quello della Troika, riforme e austerità in cambio di aiuti, ndr) in base alle regole attuali dell’Eurosistema”. Aveva ragione il Financial Times a titolare ieri in prima pagina: “La linea dura della Bce minaccia di lasciare la Grecia senza fondi”. Il problema è tecnico, ma comprensibile. Dei 315 miliardi complessivi di debito pubblico della Grecia, 27 sono detenuti dalla Bce, che li ha comprati nel 2011 con il programma di acquisti Smp, ai tempi di Jean Claude Trichet presidente.
L’idea della Grecia è di rimpiazzarli con altri bond privi di scadenza, perpetui, così da evitare la necessità di rifinanziarli una volta arrivati a scadenza. A Francoforte c’è grande perplessità su questo punto perché un prestito che può non essere mai restituito equivale a un finanziamento monetario di un governo membro dell’euro, e questo è vietatissimo dai trattati europei e dallo statuto della banca centrale. Se la Bce comincia a finanziare direttamente uno Stato compromette la sua indipendenza. La Bce, secondo le indiscrezioni raccolte dal Financial Times, è anche contraria all’innalzamento del tetto alle emissioni del debito, oggi a 15 miliardi, che Atene vorrebbe portare a 25 per finanziarsi sul mercato quanto basta ad arrivare fino a giugno. Nel frattempo, è l’idea di Varoufakis e Tsipras, l’Europa dovrebbe negoziare un nuovo accordo di finanziamento più favorevole alla Grecia e senza l’invasiva supervisione della Troika, il coordinamento (privo di ogni base giuridica) composto dagli emissari di Commissione europea, Bce e Fondo monetario internazionale.
C’è pochissimo tempo: il 28 febbraio scade la missione della Troika, gli odiati ispettori internazionali se ne andranno, ma se prima non sottopongono il governo all’esame delle riforme promesse in cambio di finanziamenti, la Grecia perderà l’ultima tranche del prestito (1,8 miliardi di euro). Varoufakis è però molto più preoccupato del rapporto con la Bce. Secondo l’agenzia Reuters, due grandi banche greche hanno iniziato ad attingere alla linea di liquidità di emergenza di Francoforte per affrontare quella che sembra una possibile fuga di capitali seguita alla vittoria di Syriza.
VAROUFAKIS reclama anche 2 miliardi di euro di interessi maturati sul debito greco detenuto dalla Bce che dovrebbero essere girati alle casse ateniesi. “La Bce è la nostra banca centrale”, ha detto ieri il ministro delle Finanze. Tradotto: non ci può abbandonare. Fino al comunicato di ieri sera Draghi era stato conciliante: nonostante la Grecia abbia un rating spazzatura (e infatti i suoi titoli sul mercato hanno un rendimento da strozzinaggio, quasi il 10 per cento), la Bce si è detta disposta a comprare anche debito greco nell’ambito del Quantitative easing. L’operazione di acquisti massicci di titoli contro la deflazione partirà tra poche settimane, ma la Bce per ora esclude la Grecia perché Tsipras e Varoufakis vogliono sottrarsi alla Troika senza l’esame finale (che boccerebbe la Grecia, visto che il nuovo governo sta già smontando l’austerità).
Tutti, in Europa, sono consapevoli che va trovato un compromesso che permetta di evitare il default della Grecia e l’umiliazione di Tsipras, già costretto a rimangiarsi buona parte del suo programma elettorale (non chiede più la conferenza internazionale per condonare una parte dello stock di debito pubblico greco). Da parte sua la Germania continua a frenare, così che le condizioni finali siano il meno possibile favorevoli ad Atene. E non indeboliscano troppo la credibilità del processo di “consolidamento fiscale” (meglio noto come austerità).
La Reuters ieri ha rivelato l’esistenza di un documento preparato a Berlino in vista del prossimo incontro dei ministri delle Finanze a Bruxelles. La linea del governo di Angela Merkel è chiara: nessuno sconto. E Draghi, stavolta, pare al suo fianco.

Il Sole 5.2.15
La spallata a Syriza e le ragioni di un'intesa
di Carlo Bastasin


C’è una speciale ragione che spiega la durezza degli altri governi nel respingere le richieste greche di revisione degli accordi europei. Se disinnescano il tentativo di spallata di Syriza, i governi in carica dimostrano che anche le promesse degli altri partiti euro-scettici – radicali o populisti a seconda dei punti di vista – sono irrealistiche. Per molti leader, dalla Francia alla Finlandia, dalla Spagna alla Germania, è una questione di sopravvivenza politica dimostrare che le regole europee andranno rispettate da chiunque governi, a cominciare da Syriza.
Tuttavia sbaglierebbero a tirare troppo la corda. Per ragioni sia etiche – gli errori della troika coinvolgono i creditori nella responsabilità dei problemi greci – sia pratiche: a gennaio i risparmiatori greci hanno ritirato 11 miliardi di depositi dalle banche. Ne avevano già ritirati quattro a dicembre. Il sismometro dei depositi greci è forse l’indicatore seguito con più apprensione in Europa. Le banche sono estremamente fragili e secondo Reuters due istituti hanno già richiesto fondi alla Banca di Grecia. In assenza di accordi politici, per ragioni legali la Bce potrebbe sospendere l’assistenza di emergenza con cui provvede liquidità al Paese. Atene rimarrebbe appesa a una moneta elettronica creata dalla Banca centrale nazionale che darebbe vita a qualcosa di diverso dall’euro. Sarebbe l’inizio della fine.
Per questa ragione l’incontro di ieri del ministro delle Finanze greco Varoufakis con il vertice della Bce era tanto importante. Poteva finire in uno scambio di ricatti: se non rispettate il programma della troika non vi finanziamo; se non ci finanziate, si rompe l’euro. Ma il linguaggio sembra essere stato invece conciliante, Varoufakis ha promesso di rispettare le regole mentre cerca una soluzione con i partner sul debito. Il governo dispone ancora di risorse fino a giugno, ma chiede alla Bce di non abbandonare le banche e di costruire un contratto-ponte per un paio di settimane. La Bce, esposta a una responsabilità politica non sua, ha chiesto che Atene trovi un accordo con l’Eurogruppo entro il 16 febbraio.
Per allora l’accordo va trovato. Oltre all’interesse politico nel disinnescare i partiti anti-europei, i governi hanno interessi economici che non si misurano solo in miliardi di crediti da recuperare. L’economia europea si trova di fronte al più classico dei bivi, già descritto il 23 gennaio su queste colonne come un’alternativa bipolare tra “euforia e depressione”. Una crisi in Grecia potrebbe portare dalla parte sbagliata. L’allentamento quantitativo della Bce, per esempio, può rilanciare l’economia o isolare i Paesi indebitati. Al tempo stesso l’economia si trova nell'alternativa tra uno scenario di stagnazione secolare o invece un forte impatto ciclico alla crescita. Senza incidenti - la crisi greca, un aggravarsi del fronte ucraino o una nuova dimensione dell’instabilità della sponda sud del Mediterraneo - l’Europa sembra pronta a prendere il bivio dalla parte giusta. Il calo del prezzo del petrolio, il deprezzamento dell’euro, il miglioramento delle condizioni di credito e il fatto che la politica di bilancio nel 2015 non sia più restrittiva, possono dare il forte impulso alla crescita che manca da anni.
L’Italia è particolarmente esposta a questa alternativa. È il Paese che ha più beneficio dal superamento della frammentazione del mercato finanziario europeo, inoltre per la natura della propria produzione è molto favorita dal calo del petrolio e dell’euro. Ma è anche il Paese che subirebbe i danni maggiori se prevalesse lo scenario sfavorevole: si trova tuttora in una trappola debito-deflazione, con la discesa dei prezzi che pregiudica la sostenibilità del debito, e continua a soffrire di bassa produttività. Senza un forte impulso dal lato della domanda, le riforme che rendono la struttura del mercato del lavoro più rispondente alle necessità degli investitori non darebbero i benefici sperati.
Ci vorrebbe in Europa una politica di stimolo molto vigorosa, ma come ha dimostrato il modesto piano Juncker, non ci sono le condizioni politiche perché questo avvenga. Una crisi dell’euro riaccesa da Atene annullerebbe anche i progressi degli ultimi mesi.

il Fatto 5.2.15
Ucraina, 5.300 morti in dieci mesi
Fra Kiev e separatisti, a farne le spese sono i civili
di Giuseppe Agliastro


Mosca Si allunga la scia di sangue nel sud-est ucraino dilaniato dalla guerra. E gli obiettivi civili continuano a non essere risparmiati dai cannoni. Un bombardamento di artiglieria ha colpito un policlinico a Donetsk, la principale roccaforte dei separatisti, e secondo i media locali ci sarebbero almeno cinque morti e quattro feriti. Il ministero delle Situazioni di emergenza dei ribelli di Donetsk parla invece di 15 morti: un bilancio molto più tragico che però non ha finora trovato altri riscontri. Le truppe di Kiev e i miliziani filo russi si accusano a vicenda della strage. Come hanno sempre fatto.
Intanto altre vittime innocenti si registrano sempre a Donetsk nel quartiere di Solnechni, dove un proiettile di artiglieria ha sventrato un edificio. Secondo l’agenzia Interfax ci sono una decina di feriti e dei morti, ma non è ancora chiaro in quanti abbiano perso la vita. Il conflitto nel Donbass ha ucciso più di 5300 persone in dieci mesi. E Amnesty International denuncia che “violazioni del diritto internazionale umanitario che possono costituire crimini di guerra” si registrano da entrambe le parti in lotta. Nei giorni scorsi, l’Osce ha accusato Kiev di aver usato bombe a grappolo in un attacco su Lugansk, il 27 gennaio. Ma a mietere molte vittime tra i civili sono anche i micidiali quanto imprecisi razzi Grad, gli stessi che (assieme agli Uragan) hanno fatto una carneficina a Mariupol il 24 gennaio uccidendo almeno 31 persone. E quella volta, secondo l’Osce, i missili furono lanciati dai territori controllati dai separatisti.
NELLE ULTIME SETTIMANE i combattimenti si sono intensificati, soprattutto nella zona di Debaltseve: uno strategico snodo ferroviario a metà tra i baluardi ribelli di Donetsk e Lugansk dove i separatisti stanno cercando di accerchiare i militari ucraini. Il capo della diplomazia Ue, Federica Mogherini, ha chiesto alle fazioni coinvolte nel conflitto una tregua immediata “per un minimo di tre giorni”: l’obiettivo è quello di “poter evacuare i civili” ed evitare ulteriori stragi di innocenti. Migliaia di persone stanno abbandonando le loro case per salvare la pelle.
Ma il Donbass è anche terreno di scontro tra l’Occidente e la Russia, accusata di sostenere militarmente i ribelli. E ieri il presidente ucraino Petro Poroshenko ha detto di non avere “il minimo dubbio” sul fatto che gli Usa forniranno armi alle truppe ucraine: una dichiarazione che arriva poco prima di una visita ufficiale a Kiev del segretario di Stato Usa John Kerry, e che rischia di far alzare ulteriormente la tensione con Mosca. Anche se Washington - almeno ufficialmente - non ha ancora deciso se armare o meno gli ucraini.

Repubblica 5.2.15
Giovane e bionda la bella Magdalena spiazza la Polonia “Sarò io la presidente”
L’ex presentatrice candidata a sorpresa dai socialisti per frenare il crollo di consensi Arriverà terza, ma i media parlano solo di lei
di Andrea Tarquini


BERLINO Bella, giovane, bionda, con tutto il talento mediatico dell’ex presentatrice e consulente della Banca centrale per i rapporti con la stampa. Magdalena Ogorek non ha speranza di vincere, eppure incarna una realtà particolare: nella Polonia moderna e urbana post-rivoluzionaria, locomotiva economica del centro-est e società sempre più secolarizzata, la sinistra ex comunista trova un suo ruolo normale, e si adatta ai tempi. O almeno ci prova. Già, perché Magdalena è a sorpresa la candidata dello Sld (Unione della sinistra democratica, l’ex pc della dittatura, ora divenuta socialista e affiliata al Ps europeo) alle elezioni presidenziali del 10 maggio prossimo.
L’abbiamo detto: anche se i media non fanno altro che parlare di lei, le possibilità di vittoria di Magdalena sono uguali allo zero. Il candidato di Piattaforma civica, il partito riformista al potere dal 2007, cioè il capo dello Stato uscente Bronislaw Komorowski, indifferente come un gentleman inglese agli insulti della destra di Jaroslaw Kaczynski, è il superfavorito, tanto che potrebbe vincere al primo turno.
Ma se non sempre si può vincere, l’importante è partecipare. Ed è importante anche chi partecipa. Lanciare una donna giovane — e tanto attraente e fotogenica da essersi guadagnata un servizio sull’edizione polacca di Playboy — è idea originale per gli eredi di Bierut, Gomulka e Gierek. E oltre a farsi notare, Magdalena cerca gli slogan giusti per un paese che da satellite povero di Mosca, in un quarto di secolo dalla rivoluzione, è diventato uno dei big economici della Ue. «Io voglio scatenare le energie dei giovani e degli imprenditori » è il suo slogan più frequente. Gli stessi senior leader del partito — Aleksandr Kwasniewski, che in democrazia fu eletto presidente al primo turno e portò Varsavia in Ue e Nato, nonché l’ex apparatcik Leszek Miller — la elogiano come «simbolo di cambiamento, di una Polonia dove il mondo politico è aperto alle giovani generazioni».
I liberal di Komorowski e della premier Ewa Kopacz la rispettano. Attacchi pesanti, giochi di parole col suo cognome (tradotto è “cetriolo”…) vengono solo dalla destra. Certo, Magdalena è una outsider in un paese che dai tempi della transizione negoziata alla libertà tra Solidarnosc e Jaruzelski è abituato a politici di professione è un outsider. Già se arrivasse terza, dopo Komorowski e dopo il pallido candidato presidente di Kaczynski, Andrzej Duda, la signora Ogorek raccoglierebbe un successo. O forse punta alle prossime parlamentari, ultima occasione per lo Sld di risalire dal baratro nei consensi: dal 41 per cento del 2001 all’11 per cento 4 anni dopo, e sorpassato alle ultime politiche anche dalla Lista Palikot, partito anticonformista favorevole alla liberalizzazione della cannabis. Comunque Varsavia è lontana anni luce sia dall’Ungheria settaria di Orbàn, sia dalla Praga dove i comunisti ricordano ancora i tank russi invasori. Anche una vistosa bionda può confermare un clima moderno di rapporti politici sereni.

Corriere 5.2.15
il mondo arabo sconvolto tenta una trincea comune
di Antonio Ferrari


Si può ardere vivo un prigioniero, chiuso in una gabbia, perché i depravati sostenitori dello Stato islamico hanno deciso via web questo tipo di orrenda esecuzione? No, anche alla ferocia c’è un limite.
Non stupisce quindi che tutto il mondo arabo, a cominciare dai custodi religiosi regionali dell’Islam sunnita, sconvolto dalle modalità dell’esecuzione del pilota giordano, catturato dopo la caduta del suo aereo, abbia condiviso la decisione del re giordano Abdallah, in visita a Washington, di giustiziare immediatamente due jihadisti. Uno dei due è Sajida al Rishawi, la spietata terrorista coinvolta negli attentati ad Amman nel 2005 provocando 60 vittime. Il re di Giordania, costretto a interrompere la visita negli Stati Uniti, ha detto che il suo popolo saprà reagire a tutti gli attacchi. È il segno che il mondo libero, che sicuramente non ritiene accettabile il ricorso alla vendetta, comprende la durissima risposta di Amman. La guerra al terrorismo, alla quale la Giordania coraggiosamente partecipa, ha regole ferree. Il regno, assediato dai nemici e dai problemi, ha il diritto di difendersi. Ha sei milioni di abitanti, con il 65 per cento della popolazione di origine palestinese. Non solo. Negli ultimi anni è stato costretto ad accogliere due milioni di profughi, soprattutto siriani, che hanno sconvolto il suo equilibrio sociale. Lo Stato islamico dei tagliagole di Al Baghdadi non è lontano, le sue avanguardie hanno probabilmente già attraversato la frontiera giordana. Ora la decisione dei criminali di ardere vivo il pilota, contro qualsiasi interpretazione, persino la più perversa, della legge islamica, ha superato ogni misura.
Ad Amman i tagliagole avevano proposto un baratto: la liberazione di Sajida in cambio della vita del pilota. Il governo era pronto a trattare, ma l’offerta era solo una volgare e vergognosa bugia, perché l’ostaggio era già stato ingabbiato e arso vivo il 3 gennaio.

Repubblica 5.2.15
I video delle esecuzioni hanno l’obiettivo di captare l’attenzione della Rete e attrarre simpatizzanti. Ma la morte del pilota
potrebbe fermare il reclutamento
La corsa all’orrore degli spot dell’Is guarda all’Europa ma spaventa l’Islam
di Gilles Kepel


IL TERRORISMO islamista è costretto a rinnovarsi nell’orrore, con un’inventiva permanente dell’abominio. Le crocifissioni, le decapitazioni e, adesso, la cremazione di un essere vivente servono anzitutto a captare l’attenzione della Rete. Ma la guerra di propaganda può rivelarsi un’arma a doppio taglio, e quest’orrore spinto all’estremo, verso limiti che sembrano avanzare a ogni video, può diventare una trappola. I jihadisti corrono sempre il rischio di oltrepassare l’accettabile, com’è accaduto il 3 gennaio scorso quanto hanno bruciato vivo in una gabbia d’acciaio un pilota giordano, eseguendo una sentenza che non ha nessun precedente conosciuto nella storia delle civiltà musulmane e che non riposa su nessun testo sacro, contrariamente allo sgozzamento, su cui invece abbondano gli esempi e le citazioni.
L’ultimo video dello Stato islamico è stato diffuso il giorno in cui il re della Giordania era in visita a Washington per celebrare l’alleanza tra i due Paesi. Ancora una volta, il senso dell’opportunismo politico del sedicente Califfato s’è dimostrato vincente, poiché il sovrano hashemita è stato costretto a interrompere la sua visita in America e a rientrare in Giordania in fretta e furia. I jihadisti hanno nuovamente raggiunto il loro obiettivo con un sapiente uso della straordinaria forza dei social network. È così che sono finora riusciti a imporsi agli Stati e ai loro apparati militari.
La tradizione islamica vieta la cremazione di esseri viventi, eppure, nella loro mente gli islamisti hanno voluto comminare al pilota giordano una morte così infamante che hanno giustificato con la ricerca di una vendetta esemplare. La pena che gli è stata inflitta ricorda lo sgozzamento teatralizzato dei piloti dell’aviazione di Damasco che due mesi fa sconvolse il mondo intero. Lo Stato islamico pensò che per chi è bomni bardato con barili carichi di tritolo, quelle morti dovevano apparire come un castigo meritato perché nulla è più atroce che vedere i propri figli bruciare tra le fiamme e la propria casa distrutta dall’esplosivo. È lo stesso ragionamento usato stavolta: il fuoco che brucia il pilota è la risposta al fuoco degli incendi che scatenano i bombardamenti aerei.
Ma al di là dell’opportunismo politico e della legge del taglione che passano attraverso la Rete, ci si può chiedere se lo Stato islamico non abbia commesso un grave errore nella sua continua ricerca di attrarre bande di simpatizzanti sempre più numerosi. Quest’ultimo crimine è come se avesse innescato l’effetto contrario a quello sperato, e invertito la tendenza che era dell’arruolamento volontario e massiccio tra le sua fila. Le fiamme che lambiscono il pilota prima di carbonizzarlo hanno suscitato nelle masse del mondo musulmano un sentimento di orrore. Nel suo insieme la comunità islamica ha rigettato in blocco una setta che ai suoi occhi è ormai vittima di quello che gli arabi chiamano gholu, ossia esagerazione. E in questo caso l’esagerazione è un crimine perché tanto orrore provoca disgusto e rabbia e pone la comunità dei credenti musulmani in situazione di debolezza nei confronti dei suoi potenziali nemici. Le manifestazio- nella città natale del pilota bruciato sono state violentissime, e il rifiuto dello Stato islamico ha raggiunto un livello mai registrato prima.
Tuttavia, a fianco di queste manifestazioni popolari di sdegno c’è la paura innescata nei Paesi arabi che partecipano ai raid della coalizione internazionale, al punto che almeno uno di loro, gli Emirati arabi uniti, ha deciso di non inviare più i suoi piloti a bombardare i territori conquistati dallo Stato islamico per scongiurare eventuali conseguenze alla loro cattura.
Come hanno dimostrato le reazioni di condanna in Giordania, questo rilancio verso la barbarie può rivelarsi pericoloso, se non fatale, per gli islamisti, anche con una popolazione dove i simpatizzanti alle loro cause sono numerosi. Ora, è verosimile che anche le banlieues di Parigi o di Marsiglia vivano la stessa ripulsa nei confronti dell’ultima efferatezza jihadista, e che nelle prossime settimane meno giovani partiranno a combattere in Siria e in Iraq. Adesso i musulmani invece di solidarizzare con i jihadisti potrebbero prendere le distanze dal loro operato e dai loro crimini.
Accade anche tra gli islamici più moderati di Francia e d’Europa. Un mese dopo gli attentati di Parigi, sono molti i musulmani che si fanno un esame di coscienza, compresi coloro per i quali i disegnatori di Charlie Hebdo, colpevoli di blasfemia con le caricature del Profeta, se l’erano “cercata” la fine che hanno fatto. Tutti si chiedono per prima cosa in quale modo la coabitazione è ancora possibile con il resto della società francese, e se non è meglio condannare molto più radicalmente di una volta quei jihadisti che “esagerano”.
Nel frattempo, sul terreno s’è arrestata quell’avanzata dello Stato islamico che fino a pochi mesi fa sembrava inarrestabile: mentre le forze curde spalleggiate dall’Occidente si preparano all’offensiva di primavera contro le periferie di Mosul, Kobane è stata ripresa, così come una parte dei territori yazidi attorno a Sinjar. È anche per questo che lo Stato islamico vuole ad ogni costo aumentare i suoi effettivi. Ma quanto ha compiuto all’inizio dell’anno sembra aver provocato l’effetto opposto.

il Fatto 5.2.15
Faida nell’Islam
L’imam contro l’Isis: “È Satana, sia crocifisso”
La guida spirituale sunnita egiziana scaglia la fatwa contro i jihadisti
Rappresaglia della Giordania: uccisa la kamikaze detenuta
di Giampiero Gramaglia


Su una piazza di una località non identificata, dove si proietta su un grande schermo l’esecuzione del pilota giordano Muath al-Kasassbeh, bruciato vivo dai miliziani jihadisti, un bambino parla: “Se fosse qui, mi piacerebbe bruciarlo con le mie mani. Voglio catturare i piloti e bruciarli”.
Al Cairo, il Grande Sceicco dell’Università al-Azhar, Ahmed al-Tayeb, alta autorità sunnita, riverita nel mondo intero, esprime, in un comunicato, rabbia profonda per l’uccisione del pilota e definisce gli integralisti “un gruppo satanico, terrorista”: gli assassini meritano di essere “uccisi, crocifissi e di avere gli arti amputati”. È un verso del Corano che indica la pena per chi “uccide sfrenatamente gli innocenti senza peccato”: per l’Islam “solo Allah può punire con le fiamme”.
SONO DUE FACCE delle reazioni islamiche alla barbara esecuzione del pilota giordano e al video che ne documenta l’atrocità: due facce opposte, entrambe da commentare con prudenza. L’attendibilità del filmato col bambino, intitolato “La gioia dei musulmani per il rogo del pilota giordano” e intercettato dal Site, che monitora le attività integraliste online, è da dimostrare: viene da Raqqa, città siriana, oggi nel Califfato, ed è una produzione dell’ufficio stampa delle milizie integraliste. Come il video del 14 gennaio in cui un ragazzino di 10 anni impugnava una pistola e uccideva due ostaggi russi, accusati di spionaggio. Il ‘mini-killer’ aveva accanto un terrorista, barba lunga e kalashnikov. Nel nuovo video, il protagonista ha una tuta mimetica e un cappellino blu. Propaganda e proselitismo. Tutti i presenti approvano l’esecuzione. “Bambini e donne innocenti - dice uno - sono arsi vivi e sepolti sotto le macerie dai raid” della coalizione internazionale: in un contrappasso, al-Kasassbeh è stato prima bruciato e poi sepolto sotto le macerie da un bulldozer. Anche la fatwa emanata dal Grande Sceicco non è oro colato. L’autorità culturale e religiosa sunnita di al-Azhar è allineata al regime del generale al Sisi, che imprigiona i Fratelli Musulmani e li equipara a terroristi. Al-Tayeb invita la comunità internazionale a combattere contro “chi offende l’Islam e il profeta Maometto”. Certo, non soddisfa un sentimento di giustizia invocare e applicare contro gli integralisti assassini la legge del taglione, come fa in sostanza la Giordania del re ‘americano’ Abdallah II, eseguendo senza troppi formalismi giuridici le condanne a morte dei terroristi iracheni Ziad al-Karbouli e Sajida al-Rishawi – una donna. In un crescendo di istigazione all’odio, i jihadisti pubblicano le generalità di 60 “piloti giordani della coalizione crociata” internazionale a guida Usa impegnata nelle operazioni in Siria e in Iraq, mettendo una taglia su di essi: “100 dinari d’oro a chiunque uccida un pilota crociato”.
IN GIORDANIA, la voglia di vendetta è alimentata dalla famiglia al Kassasbeh: Safi, il padre del pilota, la chiede espressamente, invitando le tribù giordane a fare fronte comune contro lo Stato islamico e chiedendo che la coalizione, cui Amman partecipa, “distrugga” gli jihadisti. A Karak, la città natale di Muath, manifestanti marciano chiedendo “vendetta” e gridando slogan di sostegno al re. Anche l’organizzazione dei Fratelli Musulmani giordani, in contrasto con le autorità di Amman, condanna l’uccisione del pilota, ma chiede di uscire dalla coalizione, come avrebbero già fatto – scrive il Nytimes - gli Emirati Arabi Uniti, proprio dopo la cattura del pilota giordano. Le reazioni ufficiali nel Mondo arabo sono spesso allineate. Quelle occidentali sono unanimi: sdegno e condanna. Il presidente egiziano al Sisi rinnova l’appoggio ad Amman nella lotta al terrorismo. Il Qatar, spesso accusato di avere contribuito al rafforzamento dell’Isis, s’unisce al coro. Gli Emirati definiscono lo Stato islamico “un male da eradicare senza ulteriori indugi”. L’Unione degli ulema, vicina ai Fratelli musulmani, parla di un “crimine vile, che contrasta con la sharia”. La Siria, nel denunciare “l’efferata uccisione”, chiede alla Giordania una maggiore collaborazione contro lo Stato islamico e il Fronte al Nusra, ramo siriano di al Qaeda. In Iraq, il predicatore sciita Moqtada al Sadr, le cui Brigate della Pace combattono sul terreno gli jihadisti, depreca il crimine, ma invita i paesi arabi a interrompere la collaborazione con gli occidentali. Fonti iraniane bollano l’uccisione del pilota come “disumana e anti islamica” ed esprimono vicinanza alla Giordania.

Repubblica 5.2.15
Il corpo negato nel giorno del Giudizio
di Renzo Guolo


ANCHE Al Azhar, storico centro teologico del mondo sunnita, condanna l’orribile fine di Moaz al Kaseasbeh, arso vivo dagli aguzzini dell’Is che poi hanno coperto i suoi poveri, e anneriti, resti sotto un cumulo di macerie. Distruzione totale del corpo e negata sepoltura del cadavere integro destinate a impedire, nel giorno del Giudizio, la comparsa davanti ad Allah che, nella sua onnipotenza, deciderà chi salvare o meno, a chi consentire l’accesso al Paradiso o infliggere il tormento eterno. Nella credenza religiosa si ritiene in quel decisivo momento ogni uomo avrà appeso al collo il suo destino, ovvero un rotolo che funge da sorta di registro delle sue azioni buone o cattive. E che il peso di queste azioni deciderà della sua sorte. Decapitare qualcuno o distruggerne il corpo impedisce alla vittima di comparire davanti a Dio. Da qui la condanna da parte dell’imam di Al Azhar Ahmed el Tayeb che ha invocato l’uccisione, la crocifissione, l’amputazione, per quanti hanno violato la vita e il corpo di Moaz.
La crocifissione rappresenta, coranicamente, una delle pene più atroci da infliggere ai trasgressori della Legge divina. Secondo Al Azhar, dunque, gli uomini dell’Is non sono autentici credenti, ma devianti religiosi. Tayeb non si spinge sino a considerarli non musulmani, il che aprirebbe la questione potenzialmente esplosiva del takfir, l’accusa di empietà che, in assenza di una gerarchia religiosa riconosciuta, tutti, come già fanno i radicali, potrebbero invocare contro tutti. Li condanna, però, come contrari alla lettera del messaggio divino. Una pronuncia che può contribuire a isolare i seguaci di Al Baghdadi. Anche se la crisi del monopolio dell’interpretazione attutisce la portata della pronuncia di Al Azhar. Dal momento che, per avere successo, il contrasto alla deriva jihadista deve passare anche per la delegittimazione delle posizioni di chi usa simboli religiosi per dare forma a un’ideologia politica, le pur tardive parole dell’imam azharita costituiscono comunque un fatto rilevante.

Corriere 5.2.15
La testimonianza sull’11 settembre e la pista saudita


È la pista carsica dell’11 settembre. Una storia che riappare e scompare forse perché troppo imbarazzante. È quella che collega l’Arabia Saudita al commando dei dirottatori. A tirarla fuori di nuovo la testimonianza di Zakaria Moussaoui, il terrorista d’origine francese ribattezzato il «ventesimo kamikaze». In una dichiarazione scritta trasmessa al tribunale di New York il terrorista afferma: 1) Bin Laden gli aveva dato l’incarico nel 1998 o 1999 di creare un archivio digitale con i nomi dei finanziatori di al Qaeda: tra questi il principe al Turki, per anni capo dell’intelligence saudita; il principe Bandar, amico di tutti i presidenti Usa ed ex ambasciatore; il principe al Waleed bin Talal. 2) Lui ha fatto il corriere tra personalità saudite e Osama. 3) Ha discusso con personale dell’ambasciata saudita negli Usa la possibilità di colpire l’Air Force One con un missile. Moussaoui, che è stato arrestato qualche mese prima la strage delle Torri gemelle, ha sempre avuto problemi mentali ma è stato riconosciuto in grado di testimoniare. Ricostruzioni «forti» accolte però con prudenza da alcuni, mentre per altri sono attendibili. Ecco perché il suo memoriale è finito in un procedimento giudiziario intentato dalle famiglie delle vittime dell’11 settembre. Azione che mira a provare il coinvolgimento di personalità dell’Arabia Saudita nella trama che ha poi portato all’attacco. A questo proposito non va dimenticato che nel rapporto del Congresso statunitense sull’attentato sono state coperte d’ufficio 28 pagine. In quelle righe vi sarebbero elementi chiave che confermerebbero responsabilità del Regno. Accuse che Riad respinge: c’è la sfida dell’Isis e in Arabia è salito al potere il re Salman, nuovo interlocutore per la Casa Bianca e gestore di equilibri delicati.

La Stampa 5.2.15
Egitto: ergastolo per 230 attivisti liberal
Sentenza schock di un tribunale del Cairo

qui

Repubblica 5.2.15
L’Egitto cancella la primavera araba Ergastolo al blogger di Piazza Tahrir
Pugno duro del governo Al Sisi contro le menti della rivolta Ahmed Douma condannato insieme ad altri 229 attivisti
di Francesca Caferri


L’IRONIA che lo ha accompagnato durante tutte le fasi della primavera egiziana non l’ha persa neanche ieri Ahmed Douma: quando il giudice Mohammed Nagi Shehata ha letto il verdetto che lo condanna all’ergastolo per aver manifestato contro la giunta militare nel dicembre 2011, si è messo a ridere e ha battuto le mani, tanto da provocare la rabbia del magistrato che lo ha minacciato di un’ulteriore pena di tre anni. Ahmed ha continuato a sorridere e si è girato per uscire dall’aula: «Va bene così, va bene così», ha sussurrato a chi gli stava intorno secondo il racconto dei testimoni. Ma non era che una pietosa bugia.
Il ragazzo di 26 anni condannato a passare i prossimi 25 anni (tanto prevede la legge egiziana per l’ergastolo) in una prigione, non è un pericoloso criminale, né un assassino o uno stupratore: Ahmed Douma è un blogger, un attivista politico, un laico, fatte salve tutte le ambiguità che questo termine porta con sé nel mondo arabo.
Nel 2011, quando il profumo dei gelsomini della Tunisia arrivò anche in Egitto e un gruppo di ragazzi iniziarono la protesta che avrebbe rovesciato Hosni Mubarak dopo 30 anni di potere, Ahmed era lì. Insieme a Ahmed Maher, Mohamed Adel e Alaa Abdel Fatah - amici e compagni di lotta anche loro oggi in carcere - e moltissimi altri si accampò in piazza Tahrir, incitando il paese alla rivolta: quando dopo 18 giorni il presidente si dimise, il mondo pensò che quei giovani testardi e idealisti riuniti intorno al Movimento 6 aprile, da anni spina del fianco del regime egiziano, avevano vinto.
Valutazione errata: dopo quei giorni vennero quelli della controrivoluzione, dei militari al potere. Poi quelli del timore della dittatura religiosa dei Fratelli musulmani e infine quelli della restaurazione definitiva targata generale Mohamed Al Sisi.
In tutte queste fasi, scandite da un pesante tributo di sangue, Ahmed Douma era lì: con il suo sorriso e il suo pugno alzato al cielo, a giurare ai giornalisti occidentali che la rivoluzione non era finita, che «il popolo voleva ancora la fine del regime», come recita uno degli slogan più famosi della rivoluzione, che il tempo avrebbe dato giustizia a lui e agli altri egiziani che chiedevano giustizia e libertà. O meglio: c’era e non c’era. Perché come Alaa Abdel Fatah, noto al mondo come @Alaa su Twitter, un’altra delle voci chiave dell’Egitto di oggi, Ahmed ad ogni cambio di potere è finito in carcere: arrestato dalla poÈ lizia di Mubarak prima, dai militari poi, dagli uomini dei Fratelli musulmani in seguito e adesso dai poliziotti del governo di Al Sisi.
Difficile però pensare questa volta che in piazza Tahrir tornerà presto, come i suoi amici: insieme a Maher e Adel stava già scontando una pena di tre anni per aver organizzato una manifestazione lo scorso anno, in violazione di una legge contestata da tutte le più grandi organizzazioni internazionali. Alaa, arrestato per lo stesso motivo a inizio 2014, è stato rilasciato dopo qualche mese, solo per essere di nuovo imprigionato a ottobre. Nei giorni scorsi, al secondo mese di sciopero della fame, è stato ricoverato in un ospedale militare in condizioni serie.
Tornare a Tahir: per cosa poi? L’attivista e poetessa Shaimaa el-Sabbagh che nel quarto anniversario della rivoluzione aveva provato a mettere fiori sulla piazza in memoria dei ragazzi uccisi, è stata freddata da un colpo sparato da un militare a volto coperto. Le immagini della sua morte, riprese da un fotografo della Reuters, hanno fatto il giro del mondo. Più di un analista le ha usate per decretare la fine di ogni speranza sulla Primavera egiziana: difficile dargli torto, anche alla luce di quello che è successo a Ahmed Douma.
Di certo c’è da constatare che questa fine è avvenuta senza reali reazioni da parte dell’Occidente: ieri un portavoce del dipartimento di Stato Usa si è detto «molto turbato » dall’accaduto. Come dargli torto? Il risultato del processo di massa che ha avuto Ahmed Douma come principale protagonista ha visto altri 229 ragazzi condannati alla stessa pena per le medesime ragioni: 39, in quanto minorenni, dovranno scontare “solo” 10 anni di carcere. Ci saranno altre proteste, forse: ma la realtà è che nessun governo è pronto a mettere in discussione le relazioni con un alleato chiave come l’Egitto.

La Stampa 5.2.15
Jane’s smentisce gli israeliani sul missile iraniano “Non può portare satelliti o testate nucleari”
La bibbia britannica del mondo degli armamenti ha smontato la tesi sostenuta da Israele
di Claudio Gallo

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Il Sole 5.2.15
Il nuovo look dei politici anti-austerity: ecco le scelte di sette leader, da Alexis Tsipras a Pablo Iglesias
Anche le scelte che i politici fanno davanti all'armadio continuano a esprimere i loro ideali, come bandiere da indossare
di Chiara Beghelli

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Corriere 5.2.15
Il direttore della Fao, José Graziano De Silva
«Il mondo a fame zero è possibile Un lusso insulso lo spreco di cibo»
intervista di Elisabetta Soglio


MILANO «Obiettivo Fame Zero». Alla conclusione della campagna per gli Obiettivi del Millennio, la Fao userà l’Expo dedicata al tema della Nutrizione come vetrina per fare il punto sui risultati ottenuti e rilanciare l’agenda del post 2015, come spiega il direttore Graziano da Silva: «Grazie al lavoro fatto sul primo Obiettivo del Millennio, ossia dimezzare la percentuale di affamati rispetto al 1990/92, l’incidenza della fame sulla popolazione globale è diminuita di circa il 40 per cento, passando dal 18,7 all’11,3 per cento. Nello stesso periodo, oltre 200 milioni di persone sono uscite dalla fame. Il nostro impegno, adesso, è eliminarla del tutto». Da Silva sarà uno dei relatori alla giornata di lavoro che si svolge sabato a Milano, in preparazione del documento che sarà eredità di Expo.
Quale sarà il vostro contributo alla Carta Milano?
«La Fao parteciperà con le sue competenze tecniche e con il suo peso politico a questa importante iniziativa del governo italiano. È molto importante che i temi cruciali delle Nazioni Unite e di ogni singolo Paese come diritto al cibo, sprechi alimentari, sistemi agricoli sostenibili e la giusta attenzione all’empowerment femminile, si riflettano nelle priorità individuate dalla Carta di Milano».
Perché è importante un’esposizione dedicata a questo tema?
«Expo apre i battenti su uno scenario globale allarmante. I cambiamenti climatici stanno mettendo alla prova i nostri sistemi alimentari e le statistiche dicono che per sfamare i futuri nove miliardi di abitanti della Terra, la produzione agricola dovrà aumentare del 60 per cento entro il 2050. Ma soprattutto, questo è un mondo in cui oggi 805 milioni di persone soffrono la fame, e 165 milioni sono bambini. Oltre due miliardi di persone soffrono di carenze di micronutrienti, o “fame nascosta”, cioè non assumono vitamine o minerali in misura sufficiente a condurre una vita sana e attiva. Al tempo stesso, cresce rapidamente il problema dell’obesità, con circa mezzo miliardo di persone obese e un miliardo e mezzo di persone in sovrappeso. Molti Paesi in via di sviluppo, in specie quelli con reddito medio, si trovano oggi a dover combattere contemporaneamente sia la fame che l’obesità».
Gli Obiettivi del Millennio cosa hanno portato?
«Ad oggi, sono 63 i paesi in via di sviluppo che hanno raggiunto e in alcuni casi persino superato l’obiettivo di dimezzare la fame. Ho avuto personalmente il piacere di “premiare” ad esempio Brasile, Camerun, Ghana, Perù, Thailandia, Vietnam, per aver raggiunto questi risultati. I governi di Africa e America Latina si sono dati un obiettivo ancor più ambizioso: la completa eliminazione della fame entro il 2025, uno sforzo che la Fao appoggerà pienamente. Grazie al lavoro fatto sul primo Obiettivo del Millennio, ossia dimezzare la percentuale di affamati rispetto al 1990/92, l’incidenza della fame sulla popolazione globale è diminuita di circa il 40 per cento, passando dal 18,7 all’11,3 per cento. Nello stesso periodo, oltre 200 milioni di persone sono usciti dalla fame».
L’Onu ha deciso, per la prima volta, di non avere un proprio padiglione ma di puntare su una esposizione “diffusa”: per quale motivo?
«Esatto, la presenza dell’Onu non sarà legata ad un singolo stand, sarà una presenza trasversale che, partendo dal Padiglione Zero accompagnerà i visitatori lungo un itinerario tematico attraverso tutte le aree della manifestazione. A segnare il percorso saranno 18 installazioni multimediali contraddistinte da un grande cucchiaio blu, dove i visitatori potranno scoprire il lavoro delle diverse agenzie dell’Onu, la complessità e la vastità del loro campo d’azione, grazie ad immagini, video, mappe ed infografiche».
Qual è l’obiettivo della vostra presenza in Expo?
«Certamente quello di portare la voce di 805 milioni di persone che ancora oggi soffrono la fame. Il nostro slogan sarà “Sfida fame Zero: uniti per un mondo sostenibile”. È la sfida lanciata a New York dal Segretario Generale, che ci vede uniti per un mondo libero dalla fame, un problema che davvero può essere risolto nell’arco della nostra generazione. Ma se vogliamo vincere la battaglia contro la fame dobbiamo investire di più nell’agricoltura sostenibile e riconoscere il ruolo fondamentale degli agricoltori.
Il singolo cosa può fare ?
«Moltissimo. Pensiamo, ad esempio, al fatto che oggi un terzo del cibo venduto nelle nostre città viene buttato via, e con esso tutta l’acqua, l’energia e gli elementi utilizzati per produrlo. Uno spreco insulso che ha conseguenze devastanti sulle risorse naturali. Sprecare cibo, suolo, energia, risorse, è un lusso che non ci possiamo più permettere».
Avete già deciso di celebrare la Giornata Mondiale dell’Alimentazione all’ Expo?
«Quest’anno la Giornata Mondiale dell’Alimentazione, il 16 ottobre, sarà particolarmente importante per noi. La Fao celebrerà i suoi settanta anni di vita e di esperienza, e lo farà con una serie di eventi importanti che culmineranno a Milano, ci auguriamo in presenza del Segretario Generale Ban-Ki moon».

La Stampa 5.2.15
“Ettore Majorana vivo tra il ’55 e il ’59, si trovava in Venezuela”
La Procura di Roma sulla scomparsa del fisico catanese: “Un trasferimento volontario”

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il Fatto 5.2.15
77 anni di misteri
Majorana, la scomparsa finisce in Venezuela
La Procura di Roma conferma “Nè omicidio né suicidio“Né omicidio né suicidio”
Lo scienziato sparito improvvisamente nel 1938: ci sarebbe una fotografia che lo vede ritratto in Sudamerica nel 1955 con un meccanico d’origine italiana
di Sandra Rizza


Di sicuro c’è solo che è scomparso e che lo ha fatto volontariamente. Ettore Majorana, il fisico catanese che diede un fondamentale impulso agli studi sull’energia atomica e sparì nel nulla il 25 marzo del 1938, non sarebbe stato ucciso né si sarebbe tolto la vita, così come più volte è stato ipotizzato in una girandola di supposizioni, congetture e ricerche che spinsero persino Benito Mussolini a promettere la fiabesca ricompensa di 30mila lire a chi avesse fornito notizie dello scienziato. E neppure si sarebbe rifugiato in un monastero, come fantasticò nel 1975 lo scrittore Leonardo Sciascia che al grande mistero italiano della scomparsa di Majorana dedicò uno dei suoi capolavori, attribuendo la fuga del fisico alle sue intuizioni sullo sviluppo della bomba atomica e alle conseguenze disastrose che ne sarebbero scaturite. Quella sera di primavera, salendo sul piroscafo che da Napoli doveva portarlo a Palermo, lo scienziato allora trentunenne si dileguò volutamente con la prospettiva di abbandonare il paese facendo perdere le sue tracce.
A quasi ottant’anni di distanza, è questa la conclusione della Procura di Roma che oggi sembra aver risolto il caso: l’ex ragazzo dell’istituto di Fisica di via Panisperna che, con Emilio Segre, Bruno Pontecorvo ed Edoardo Amaldi, fu tra i protagonisti delle grandi scoperte sull’atomo, nel periodo tra il 1955 e il 1959 si trovava in Sudamerica, nella città venezuelana di Valencia, dove risiedeva con una donna facendosi chiamare “signor Bini”. E se la sua ultima lettera ai familiari ha contribuito per anni a rafforzare l’ipotesi del suicidio (“Ho un solo desiderio – scriveva Majorana – che non vi vestiate di nero. Se volete inchinarvi all’uso, portate pure, ma per non più di tre giorni, qualche segno di lutto. Dopo ricordatemi, se potete, nei vostri cuori e perdonatemi”), si trattava evidentemente di un escamotage per far perdere più rapidamente le sue tracce: lo scienziato non aveva alcuna intenzione di togliersi la vita, tanto è vero che vent’anni dopo una fotografia lo mostra sorridente in Sudamerica, mettendo fine, forse per sempre, a gran parte del suo mistero.
DOPO AVER APERTO quattro anni fa un’indagine sulla sparizione del fisico catanese, il pm di Roma Pierfilippo Laviani ora ha chiesto l’archiviazione del caso, confermando che quell’immagine scattata nel ’55, ed esibita nel 2008 dal meccanico Francesco Fasani davanti alle telecamere della trasmissione Chi l’ha visto, ritrae effettivamente l’emigrato italiano in compagnia del fisico che fu al centro del più grande caso di morte presunta del Novecento, con corredo di interrogativi a cavallo tra politica, scienza e religione. La conferma viene dal Ris dei carabinieri: “Il risultato della comparazione dell’uomo ritratto nell’istantanea – scrive il pm Laviani – ha portato alla perfetta sovrapponibilità dei particolari anatomici del fisico (‘fronte, naso, zigomi, mento e orecchie, queste ultime anche nell’inclinazione rispetto al cranio’) con quelli di un ritratto del padre Fabio quando aveva la stessa età di Ettore (cioè circa 50 anni) ”.
Nessuna condotta “delittuosa o autolesiva della vita o contro la libertà di determinazione e movimento” ha posto fine all’esistenza di Ettore Majorana, insomma, perché lo scienziato – si legge nel provvedimento – “si è trasferito volontariamente all’estero, permanendo in Venezuela almeno nel periodo tra il ’55 e il ’59”. Il meccanico con affari a Valencia che ha risolto il rebus, e poi è deceduto qualche anno fa, aveva raccontato agli inquirenti di aver conosciuto “il signor Bini” e di aver saputo anni dopo che si trattava di uno scienziato scomparso in Italia durante il Ventennio fascista. Fasani lo descriveva come “un uomo di mezza età”, estremamente riservato di cui non conobbe mai il nome di battesimo. E raccontò che si dedicava a ripulire la sua auto, una Studebaker di colore giallo, perché spesso era “ingombra di appunti”. Bini-Majorana “parlava con accento romano” e a causa di un problema economico chiese a Fasani un prestito. L’uomo, in cambio, ottenne la foto che li ritraeva insieme. Ma il dettaglio che ha chiuso definitivamente l’indagine è una cartolina risalente al 1920, a firma di Quirino Majorana, zio di Ettore, che Fasani trovò nell’auto del signor Bini. La cartolina era diretta a un certo W. G. Conklin negli Usa: sul retro, Quirino Majorana comunicava alcune esperienze di laboratorio sulla forza di gravità, facendo riferimento a “suggerimenti” che Conklin gli aveva esposto in precedenza. “Il reperimento di siffatta missiva – è la conclusione del pm Laviani – conferma la vera identità di costui come Ettore Majorana, stante il rapporto di parentela con lo zio Quirino, la medesima attività di docenti di fisica e il frequente rapporto epistolare già intrattenuto tra gli stessi, avente spesso contenuto scientifico”.
UNA DOMANDA è destinata a restare senza risposta: cosa faceva Majorana in Venezuela? Si era nascosto in Sudamerica dopo un soggiorno in Germania, così come aveva ipotizzato la cosiddetta pista tedesca che gli accreditava simpatie naziste e persino una collaborazione con gli scienziati del Terzo Reich? L’autorità giudiziaria non ha potuto svolgere accertamenti in loco, e ha denunciato “l’inerzia degli organi diplomatici venezuelani” che non hanno collaborato alle indagini. Il mistero del Ventennio, così, non può dirsi del tutto risolto. Anche se per il pm, la testimonianza di Fasani appare più che decisiva: gli inquirenti ipotizzano che lo scienziato fosse affetto dalla sindrome di Asperger e il meccanico, “pur essendo privo di conoscenze di natura psichiatrica”, avrebbe fornito una “descrizione caratteriale e comportamentale” che costituisce un’ulteriore prova dell’identità tra Bini e Majorana.

Corriere 5.2.15
Quel mistero che affascinò anche Sciascia
di Paolo Giordano


Chissà perché non sappiamo darci pace quando una persona sceglie di scomparire. Forse è la pretesa all’immortalità implicita nel gesto a indignarci, l’impossibilità di mettere una data di decesso accanto al nome. Oppure, ciò che non ci lascia stare della storia di Ettore Majorana è che un uomo di tale genio potesse decidere che la realtà come l’aveva sperimentata fino a un momento prima non gli era davvero congeniale, e potesse sacrificare affetti e ambizioni per questa consapevolezza. Se uno ci si sofferma abbastanza a lungo, in effetti, si scopre messo in dubbio così profondamente da perdere il sonno. Allora, per non pensarci, abbiamo cercato e cercato. Sciascia ha scritto una delle sue cronache impettite più celebri, molti dopo di lui hanno riesaminato il caso, e noi abbiamo accumulato ipotesi per decenni: Majorana era diventato un collaboratore di Hitler?, vagava in cenci per la Sicilia aggrappato a un bastone?, ripudiava il mondo perché era troppo intelligente per venire a patti con le sue brutture?, oppure aveva scoperto il segreto dei viaggi nel tempo e scelto per sé un’epoca migliore?
La fisica moderna porta impresso ancora oggi il suo sigillo. Le particelle collegate al suo nome — i neutrini — sono tra le più difficili da rivelare, la loro presenza viene dedotta in quanto assenza in un processo: una somiglianza fra cammino scientifico e destino individuale che appare straordinaria. Non solo. Majorana ipotizzò l’esistenza di materia che coincideva con la propria antimateria: particelle che erano anche le perfette estranee di se stesse. Può darsi che fosse così anche per l’uomo e che, a un certo punto, l’estraneo in lui abbia prevalso, trascinandolo via. «Non mi prendere per una ragazza ibseniana», scrisse nella sua ultima lettera e magari si riferiva all’intemperante Nora di Casa di bambola , al momento in cui confessa al marito ciò che ha capito «in un attimo»: di essere vissuta troppo a lungo con uno sconosciuto. Ma è soltanto un’altra ipotesi. Sul conturbante affaire Majorana ho sempre avuto una certezza soltanto: che se per caso lo avessi incontrato, già anziano, su un’abbacinante spiaggia caraibica, mi avrebbe convinto con poche frasi a non tradire il suo segreto. E io avrei ubbidito, fino alla fine.

La Stampa 5.2.15
Caro amore ti scrivo
Quando la passione aspettava il postino
Da Cicerone a Lutero, da Marx a Joyce, in un’antologia le lettere scritte da “uomini e donne straordinari”
di Massimiliano Panarari


Cosa dicono, quando scrivono d’amore, i grandi della cultura, dell’arte e della politica? Il genere epistolare, si sa, ha risentito fortemente del passaggio dalla missiva vergata a mano a quella spedita con un clic. Se non nella intensità dei sentimenti che viaggiano attraverso le parole (chissà, però, se donne e uomini provano esattamente le medesime emozioni al cambiare di tempi e generazioni…), di sicuro nella lunghezza dei testi con cui li declamano. La turbo-mail via posta elettronica è perciò assai differente dalle arzigogolate Lettere d’amore di uomini e donne straordinari, autentici esempi di trattatistica sentimentale, tra sospiri, battiti del cuore, dolori lancinanti e spasimi, raccolte da Alessandro Miliotti per i tipi di Piano B edizioni (pp. 191, euro 14).
Epistole dall’esilio sono quelle della classicità romana, con Marco Tullio Cicerone e Publio Ovidio Nasone intenti a consolare le mogli (rispettivamente la ricca patrizia Terenzia, poi ripudiata, e la perennemente amata Fabia), dopo essere stati allontanati dal potere di turno. Un bel po’ di secoli dopo, nell’Europa delle guerre di religione, Martin Lutero corrispondeva con Katharina von Bora, la monaca che aveva aiutato a fuggire dal monastero e che aveva sposato (madre dei suoi 6 figli), di cui si definisce «suddito», informandola, da animo un po’ grossier quale era, del fatto che «divoro come un boemo e sbevazzo come un tedesco».
Amori tormentati quelli dei filosofi del razionalismo e dell’Illuminismo francese, con pochi Lumi e molti struggimenti (nel privato amoroso, dunque, più dei romantici che degli alfieri della Ragione…). Cartesio ebbe una intensa relazione platonica (per scomodare un altro pensatore illustre), da confidente molto affettuoso, con la principessa di Boemia Elisabetta, rara poliglotta che parlava sei lingue. Una corrispondenza così intensa da costituire la base del trattato cartesiano su Le passioni dell’anima del 1649; e tante furono le cosiddette «pensatrici cartesiane» (a partire dalla regina Cristina di Svezia), vale a dire le donne che, in età barocca, si avvicinarono al filosofare sotto l’impulso di Descartes. Voltaire diede invece scandalo non solo per le sue posizioni ideologiche, ma anche per la relazione con una giovane ugonotta, Catherine Olympe Dunoyer, che aveva conosciuto all’Aia da segretario dell’ambasciatore francese. E se ne dovette ritornare in patria di gran carriera, costretto dalla famiglia di lei, per evitare la galera, anche se poi non la scampò a casa, dove nel 1716 venne incarcerato per quasi un anno per i suoi scritti «sovversivi».
Laceratissimo era Jean-Jacques Rousseau, gran teorico della bontà della natura umana, mentre le donne lo fanno molto soffrire: come la contessa Sophie d’Houdetot, di cui si era innamorato follemente nel 1757. Le scrive allora chiaro e tondo che è «senza pietà» e ha un «cuore ingiusto» perché, dopo tre mesi di passione travolgente, fa ritorno tra le braccia dell’amante di sempre, il poeta Saint Lambert.
Venendo ai romantici veri e propri, il filosofo e poeta Friedrich von Schiller, dopo lunga esitazione e altrettanto prolungata meditazione riguardo le due sorelle Carlotte e Carolina von Longefeld, si risolve per la prima, la più timida Lotte. E lo dice, naturalmente per lettera, richiedendo la sua mano. Precorritrice di certa temperie romantica è anche una figura notevolissima quale la filosofa settecentesca Mary Wollstonecraft, fondatrice de facto del femminismo e madre di Mary (l’autrice di Frankenstein e seconda moglie di Percy B. Shelley), che per amore di un gaglioffo americano tenta ripetutamente il suicidio.
Non precisamente fortunati in amore furono vari pensatori e artisti comunisti, a partire da Marx stesso con la sua Jenny von Westphalen, coppia contro la quale si accanirono le incertezze economiche (la dura legge della «struttura»), per arrivare sino a Gramsci. Per non dire dell’impetuoso aedo della rivoluzione d’ottobre Vladimir Majakovskij, tra le ragioni del cui suicidio, nel 1930, pare ci fosse stato anche l’amore non pienamente corrisposto da parte di Lilja Brik, giovane attrice, moglie del critico letterario Osip Brik (con conseguente complicatissimo ménage à trois). Ma nel libro ci sono anche lettere a mogli o amanti di Washington, Baudelaire, Wagner, Joyce, Pessoa, Svevo, e molti altri. Tutti umani, fin troppo umani. E questo, a ben pensarci, era anche il loro bello…

Corriere 5.2.15
Nord e Sud divisi dal Medioevo. Non prendetevela con Garibaldi
Un volume a cura di Giuseppe Galasso (Rubettino)
di Marco Demarco


C’ è chi ha dato la colpa ad Annibale. Chi ancora punta l’indice su Federico II e sulla sua idiosincrasia per le città. Chi addirittura tira in ballo la mancata partecipazione meridionale alle Crociate. E chi, saltando un bel po’ di secoli, arriva diritto diritto ai Savoia, accusandoli di colonialismo ai danni del Sud. Ma quando, in buona sostanza, è nato davvero il problema del dualismo italiano? Quando il Nord è diventato Nord, cioè manifatturiero, commerciale e finanziario, e il Sud è rimasto Sud, cioè prima tendenzialmente agrario e poi insufficientemente sviluppato rispetto al resto del Paese?
Il tema resta d’attualità, sebbene oggi si usi poco parlare di questione meridionale e di questione settentrionale e ci sia una crescente condivisione delle emergenze. La stagnazione colpisce ovunque, gli speculatori fanno danni a Rapallo come ad Agrigento, le periferie si infiammano a Milano come a Napoli, e perfino la mafia e la camorra non sono più un’esclusiva meridionale. In più ci sono da considerare l’attenuarsi della passione federalista, che solo una stagione fa aveva preso la politica; la svolta nazionalista della Lega, non più antimeridionale; e la novità del decisionismo centralista di Renzi, che tende a declassare le differenze territoriali. Ma tutto ciò non annulla il dualismo, come annualmente confermano i rapporti Svimez.
Del resto, anche in passato l’Italia ha alternato tensioni locali a momenti di «unità nazionale». È già successo negli anni della Belle Époque, quando incontestato era il respiro europeo di Napoli; o in quelli della Prima guerra mondiale, con i soldati di Gela e di Pordenone stretti nelle stesse trincee e accomunati da un identico destino; o nel ventennio fascista, per via della retorica nazionalista che tendeva a rimuovere le diversità localistiche; o nell’Italia della contestazione sessantottina, quando la polemica ideologica e il conflitto di classe facevano di fatto decadere le presunte distinzioni antropologiche tra nordisti e sudisti. Ciò che accade oggi per effetto della crisi economica, delle migrazioni imponenti e della lenta modernizzazione del Paese, altro non è che uno di questi momenti.
Del dualismo italiano gli storici discutono almeno dal Seicento, da quando Antonio Serra, già allora superando una visione puramente naturalistica, si chiese come mai i genovesi avessero «tanti denari» pur avendo un paese «sterilissimo» e il Regno meridionale fosse invece così povero pur essendo «tanto abbondante». Un nuovo impulso alla riflessione viene ora da un libro di recente pubblicazione ( Alle origini del dualismo italiano , a cura di Giuseppe Galasso, Rubbettino, pp. 312, e 15) che raccoglie gli atti di un convegno svoltosi nel settembre del 2011; un convegno di studi internazionali programmato da Galasso e organizzato dal Centro europeo di studi normanni e svevi di Ariano Irpino. È proprio Galasso a offrire la periodizzazione più chiara e la sintesi più efficace di un fenomeno duraturo è assai complesso. Il dualismo, spiega, comincia a maturare tra il 1000 e il 1350, e poi durante il «lungo Cinquecento», e non già con Garibaldi e Cavour nel 1860. Tuttavia, aggiunge, è una realtà «per nulla immobile, ed è invece pienamente esposta a tutti i venti delle circostanze storiche». Vuol dire che il dualismo c’era e c’è, ma sempre è stato tale «da non impedire mai il costituirsi di una struttura lato sensu unitaria della penisola». Da David Abulafia a Henri Bresc, tutti i massimi esperti convocati ad Ariano Irpino lo confermano: nel presente come nel passato, il dualismo è fatto di scambi ineguali, ma anche di vincoli di reciprocità.
La prima finestra a vetrate è testimoniata a Palermo solo nel 1476, all’arcivescovado, mentre è presente a Bologna dal 1335 e a Firenze alla fine del Trecento. Ma già da molti anni, queste stesse città, come Genova e Pisa, campavano solo grazie al grano siciliano. Viceversa, il ritrovamento nel 1999, ad opera di Alfredo Stussi, di una pergamena con versi d’amore potrebbe autorizzare l’ipotesi di una scuola poetica italiana già attiva prima della Scuola siciliana di Federico II. È la riprova che il mondo gira. Viaggiano le merci, le persone. E le parole. Il dualismo italiano è parte di questo grande mercato. Impossibile venirne a capo, scrive Galasso, senza considerare «la globalità della realtà storica».

Repubblica 5.2.15
L’analisi di Agamben sui conflitti intestini dall’antichità a oggi
Quei legami pericolosi tra “polis” e guerra civile
La “stasis” greca rappresenta la tensione irrisolta tra due appartenenze: alla famiglia e alla città
Per Platone “chi combattendo uccide un fratello va giudicato puro come chi ammazza un nemico”
di Giorgio Agamben


CHE una dottrina della guerra civile manchi oggi del tutto è generalmente ammesso, senza che questa lacuna sembri preoccupare troppo giuristi e politologi. Roman Schnur, che già negli anni Ottanta formulava questa diagnosi, aggiungeva tuttavia che la disattenzione nei confronti della guerra civile andava di pari passo al progredire della guerra civile mondiale. A trent’anni di distanza, l’osservazione non ha perso nulla della sua attualità: mentre sembra oggi venuta meno la stessa possibilità di distinguere guerra fra Stati e guerra intestina, gli studiosi competenti continuano a evitare con cura ogni accenno a una teoria della guerra civile.
Èveroc he negli ultimi anni, di fronte alla recrudescenza di guerre che non si potevano definire internazionali, si sono moltiplicate, soprattutto negli Stati Uniti, le pubblicazioni concernenti le cosiddette inter nal wars; ma, anche in questi casi, l’analisi non era orientata all’interpretazione del fenomeno, ma, secondo una prassi sempre più diffusa, alle condizioni che rendevano possibile un intervento internazionale. Il paradigma del consenso, che domina oggi tanto la prassi che la teoria politica, non sembra compatibile con la seria indagine di un fenomeno che è almeno altrettanto antico quanto la democrazia occidentale.
Un’analisi del problema della guerra civile — o stasis — nella Grecia classica non può non esordire con gli studi di Nicole Loraux, che ha dedicato alla stasis una serie di articoli e saggi, raccolti nel 1997 nel volume La Cité divisée. La novità nell’approccio di Loraux è che essa situa immediatamente il problema nel suo locus specifico, cioè nella relazione fra l’oikos, la “famiglia” o “casa”, e la polis, la “città”. All’inizio della Politica, Aristotele distingue così con cura l’oikonomos, il “capo di un’impresa”, e il despotes, il “capofamiglia”, che si occupano della riproduzione e della conservazione della vita, dal politico, e critica aspramente coloro che ritengono che la differenza che li divide sia di quantità e non, piuttosto, di qualità.
Dove “sta” la stasis, qual è il suo luogo proprio? Innanzitutto una citazione dalle Leggi di Platone: «Il fratello [adelphos, il fratello consanguineo] che, in una guerra civile, uccide in combattimento il fratello, sarà considerato puro [catharos], come se avesse ucciso un nemico [polemios]; lo stesso avverrà per il cittadino che, nelle stesse condizioni, uccide un altro cittadino e per lo straniero che uccide uno straniero ». Ma ciò che risulta dal testo della legge proposta dall’Ateniese nel dialogo platonico non è tanto la connessione fra stasis e oikos, quanto il fatto che la guerra civile assimila e rende indecidibili il fratello e il nemico, il dentro e il fuori, la casa e la città. Nella stasis, l’uccisione di ciò che è più intimo non si distingue da quella di ciò che è più estraneo. Ciò significa, però, che la stasis non ha il suo luogo all’interno della casa, ma costituisce piuttosto una soglia di indifferenza fra oikos e polis, fra parentela di sangue e cittadinanza. La stasis — questa è la nostra ipotesi — non ha luogo né nell’oikos né nella polis, né nella famiglia né nella città: essa costituisce una zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città. Trasgredendo questa soglia, l’oikos si politicizza e, inversamente, la polis si “economizza”, cioè si riduce a oikos. Ciò significa che, nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città e la città si depoliticizza in famiglia.
Esiste, nella tradizione del diritto greco, un documento singolare, che sembra confermare al di là di ogni dubbio la situazione della guerra civile come soglia di politicizzazione/depoliticizzazione che abbiamo appena proposto. Si tratta della legge di Solone, che puniva con l’atimia (cioè con la perdita dei diritti civili) il cittadino che in una guerra civile non avesse combattuto per una delle due parti. Non prendere parte alla guerra civile equivale a essere espulso dalla polis e confinato nell’oikos, a uscire dalla cittadinanza per essere ridotto alla condizione impolitica del privato. Questo nesso essenziale fra stasis e politica è confermato da un’altra istituzione greca: l’amnistia. Nel 403, dopo la guerra civile in Atene che si concluse con la sconfitta dell’oligarchia dei Trenta, i democratici vittoriosi, guidati da Archino, si impegnarono solennemente a «non ricordare in nessun caso gli eventi passati» cioè a non punire in giudizio i delitti commessi durante la guerra civile. Commentando questa decisione — che coincide con l’invenzione dell’amnistia — Aristotele scrive che in questo modo i democratici «agirono nel modo più politico rispetto alle sciagure passate ». L’amnistia rispetto alla guerra civile è, cioè, il comportamento più conforme alla politica.
Dal punto di vista del diritto, la stasis sembra così definita da due interdetti, perfettamente coerenti fra loro: da una parte, non prendervi parte è politicamente colpevole, dall’altra, dimenticarla una volta finita è un dovere politico. In quanto costituisce un paradigma politico coessenziale alla città, che segna il diventar politico dell’impolitico (dell’oikos) e il diventar impolitico del politico (della polis), la stasis non è qualcosa che possa mai essere dimenticato o rimosso: essa è l’indimenticabile che deve restare sempre possibile nella città e che, tuttavia, non deve essere ricordato attraverso processi e risentimenti. Proprio il contrario, cioè, di ciò che la guerra civile sembra essere per i moderni: cioè qualcosa che si deve cercare di rendere a tutti i costi impossibile e che deve sempre essere ricordato attraverso processi e persecuzioni legali.
Quando prevale la tensione verso l’oikos e la città sembra volersi risolvere in una famiglia (sia pure di un tipo speciale), la guerra civile funziona allora come la soglia in cui i rapporti familiari si ripoliticizzano; quando a prevalere è invece la tensione verso la polis e il vincolo familiare sembra allentarsi, allora la stasis interviene a ricodificare in termini politici i rapporti familiari. La Grecia classica è forse il luogo in cui questa tensione ha trovato per un momento un incerto, precario equilibrio. Nel corso della storia politica successiva dell’Occidente, la tendenza a depoliticizzare la città trasformandola in una casa o in una famiglia, retta da rapporti di sangue e da operazioni meramente economiche, si alternerà invece a fasi simmetricamente opposte, in cui tutto l’impolitico deve essere mobilitato e politicizzato. Secondo il prevalere dell’una o dell’altra tendenza, muterà anche la funzione, la dislocazione e la forma della guerra civile; ma è probabile che finché le parole “famiglia” e “città”, “privato” e “pubblico”, “economia” e “politica” avranno un sia pur labile senso, essa non potrà essere cancellata dalla scena politica dell’Occidente.
La forma che la guerra civile ha assunto oggi nella storia mondiale è il terrorismo. Se la diagnosi foucaultiana della politica moderna come biopolitica è corretta e se corretta è anche la genealogia che la riconduce a un paradigma teologico-oikonomico, allora il terrorismo mondiale è la forma che la guerra civile assume quando la vita come tale diventa la posta in gioco della politica. Proprio quando la polis si presenta nella figura rassicurante di un oikos — la “casa Europa”, o il mondo come assoluto spazio della gestione economica globale — allora la stasis, che non può più situarsi nella soglia fra oikos e polis, diventa il paradigma di ogni conflitto ed entra nella figura del terrore. Il terrorismo è la “guerra civile mondiale” che investe di volta in volta questa o quella zona dello spazio planetario. Non è un caso che il “terrore” abbia coinciso col momento in cui la vita come tale — la nazione, cioè la nascita — diventava il principio della sovranità. La sola forma in cui la vita come tale può essere politicizzata è l’incondizionata esposizione alla morte, cioè la nuda vita.
Questo testo è tratto dal primo capitolo di Stasis di Giorgio Agamben (Bollati Boringhieri pagg. 84, euro 14)

Repubblica 5.2.15
Tempo
Ritardatari cronici “I loro minuti durano 77 secondi”
Se per l’Italia è un malcostume sociale, negli Usa è considerata una vera patologia I consigli per guarire
di Federico Rampini


NEW YORK È LA prima lezione che imparano i giovani talenti italiani quando emigrano qui in America: non si tollera il minimo ritardo. Basta sforare di cinque minuti, e al colloquio per l’assunzione ti chiudono la porta in faccia. Proprio per questa sua rigorosa disciplina della puntualità, l’America ha inventato anche la Scienza del Ritardatario. E le terapie per curarne la sindrome. Perché se in Italia il ritardo cronico è malcostume sociale, nel contesto americano non ha scuse “culturali”. Quindi è una devianza del singolo, una patologia. Poiché i costi sono alti – a livello collettivo il ritardo è una perdita di produttività, per i singoli “ammalati” tante opportunità perdute – se ne occupa molto seriamente The Wall Street Journal. Che redige una sintesi di tutte le ricerche scientifiche condotte in questo campo. Una di queste fa capo all’équipe medica dello psicologo Jeff Conte alla San Diego State University. Divide la specie umana in individui del tipo A (precisi, puntuali, competitivi, anche con punte di aggressività) e del tipo B cioè i ritardatari. Il tipo B, secondo questi ricercatori, ha addirittura un orologio mentale diverso, dove le lancette si muovono più lentamente. Il tipo A organizza la sua vita come se un minuto durasse 58 secondi, per il tipo B invece dura ben 77 secondi. Un divario del 30% nella percezione del tempo è sostanziale. La stessa squadra di ricercatori ha sottoposto ad alcuni esperimenti 181 addetti alla metropolitana di New York, scoprendo che i ritardatari cronici spesso sono anche i malati del “multi-tasking” sempre indaffarati a fa- re due o tre cose simultaneamente: la mancanza di puntualità coincide con un difetto di concentrazione.
Un altro guru della Scienza del Ritardo citato nella stessa inchiesta è Roger Buehler della Laurier University nell’Ontario (Canada). La sua ricerca, nella sintesi che ne fa il Wall Street Journal, conferma le radici patologiche del ritardo cronico: chi è affetto da questa sindrome, mediamente sottovaluta del 40% il tempo che sarà necessario per compiere una determinata operazione. Dunque, non arriva in ritardo per maleducazione, mancanza di rispetto verso gli altri, ma perché sistematicamente sbaglia i calcoli su quanto tempo ci metterà a traversare la città o a finire un lavoro. Questa conclusione non contraddice, anzi conferma la tesi dell’orologio mentale: il ritardatario si muove in un universo temporale differente, la sua percezione del tempo è difettosa, le sue previsioni sono condannate all’errore.
Converge in questa direzione il lavoro di un terzo esperto della Scienza del Ritardo, Justin Kruger. Lui unisce una preparazione accademica nella psicologia sociale, e un incarico universitario al dipartimento di marketing presso la Stern School of Business (New York University). Concorda con gli altri sul ritardo come malattia, proprio osservando la società americana dove la sanzione sociale del ritardatario è severa. “C’è chi continua ad arrivare tardi, malgrado le sanzioni e i disincentivi che lo penalizzano”. Kruger si è posto il problema di trovare la cura, visto che di malattia si tratta. Se il problema per gli individui del tipo B è una carenza previsionale, uno dei rimedi consiste nello “scomporre” in tanti elementi una singola operazione. Se l’appuntamento è con il tuo boyfriend, prova a immaginare in anticipo quanto tempo ci vuole per fare la doccia, lo shampoo, asciugarti i capelli, vestirti, truccarti, chiamare un taxi, ecc. Suddividendo i vari passi successivi per arrivare all’appuntamento, ci si aiuta a fare una previsione più realistica. Idem per un impegno di lavoro, la preparazione di un documento da presentare in ufficio, e così via.
Nella stessa logica si arriva ai consigli pratici, del tipo: se hai un appuntamento la mattina presto, la sera prima devi tirar fuori dal guard aroba tutti i vestiti; imposta l’allarme del telefonino con degli squilli scadenzati un’ora prima, 30 minuti prima, 15 minuti prima. Tutto questo presuppone, però, una volontà di redimersi. Il problema “culturale” rimane. Così come la tolleranza del ritardo è più elevata in Italia, nel mondo arabo o in India, allo stesso modo qui negli Stati Uniti è stato misurato l’handicap competitivo sul mercato del lavoro che colpisce alcuni gruppi etnici: in particolare i giovani maschi afroamericani, spesso meno puntuali della media.

Repubblica 5.2.15
Paolo Rossi
“Sono tentato ma l’ansia mi fa arrivare in anticipo”
intervista di Anna Bandettini


SULLA questione “ritardi”, gli scappa subito la battutaccia: «Io ritardatario? È una leggenda: arrivo sempre prima, anche con le donne». Paolo Rossi guarda l’orologio e ammicca: «Vede? Sono puntuale, in orario per iniziare lo spettacolo». Prima di andare in scena con Arlecchino, dice che è stato il teatro a insegnargli la corretta percezione
del tempo.
In che modo?
«Di mio io sarei uno dall’indole ritardataria, che se la prende comoda, che vive il tempo in maniera personale. Ma il mestiere dell’attore ti mette in riga, ti insegna il rigore, se non arrivi puntuale in teatro è finita, il pubblico mica ti aspetta».
Mai capitato?
«Una volta, sì. Era l’87 facevo Chiamatemi Kowalski al Ciak di Milano. Io ero in teatro ma il pubblico non arrivava perché c’era stata una nevicata epocale, così me ne andai a mangiare da un cinese lì vicino. Ma a poco a poco il pubblico cominciò ad arrivare e io non c’ero....Mi vennero a cercare: il ritardatario sembrai io. D’altra parte io i ritardatari li capisco pure».
E perché
«Chi fa tardi ha un desiderio di onnipotenza, pensa di controllare il mondo. A me verrebbe l’ansia, così arrivo in anticipo e quando chi ritarda prova a scusarsi sono io che dico “ma no, è colpa mia: sono arrivato in anticipo” ».

Repubblica 5.2.15
Ariosto nel metrò
Un monumentale volume Treccani racconta l’Orlando furioso: fenomenologia di un bestseller dalle letture erudite ai fumetti, dalla radio al kindle
di Stefano Bartezzaghi


L’ORLANDO Furioso si trovava fra le offerte di ebook gratuiti su Amazon, in un’edizione che contiene solo testo e indice, e così ho cliccato sul pulsante senza star tanto a pensarci sopra: primo titolo scaricato sul Kindle, anni fa. Soltanto in seguito ho capito quanto quella scelta sbadata fosse invece significativa. Ne ho avuta la piena certezza quando ho incominciato a navigare in quell’oceanica opera editoriale che Lina Bolzoni ha appena curato per la Treccani: L’Orlando Furioso nello specchio delle immagini . Altro che ebook! Ottocento pagine di buona grammatura, 515 immagini riprodotte come meglio non si potrebbe, venti saggi di studiosi, che coprono l’orizzonte che va dalla prima edizione del 1516 a Luca Ronconi, al gioco da tavola disegnato e prodotto da Guido Crepax, alle illustrazioni di Grazia Nidasio per l’edizione antologica di Italo Calvino e alle opere ariostesche di Mimmo Paladino.
Un’opera editoriale, dicevo: ma di quell’editoria che confina con l’edilizia: cofanetto, trenta centimetri e oltre di altezza e larghezza, più di sette chili di peso (senza indicazioni di prezzo). Ora volume e Kindle sono vicini sul tavolo e il loro confronto dice molte. Una delle prime conseguenze della comparsa dell’ebook è stata che ora nessuno può ignorare che un conto è il libro, un conto è il testo. L’ebook, almeno nella sua spartana forma originaria, è testo nudo. Le note sono possibili, ma anche scomode da consultare. A volte non c’è praticamente impaginazione. Non c’è tridimensionalità, ma solo un flusso di righe immateriali. Peraltro leggere l’ Orlando Furioso in metropolitana o in autobus, qualche ottava per tratta, ha una sua sorprendente congruità. Eruditi e specialisti a parte, è ovvio che non tutti i vocaboli e i passaggi si capiscano, mentre la scomodità dello sfoglio disincentiva i ritorni sulle pagine già lette per riallacciare nella memoria i fili delle diverse vicende che Ariosto riprende e sospende in continuazione. Ma poco importa. Nei termini della semiotica di Umberto Eco non si mira ad avvicinarsi al «Lettore Modello» del Furioso: se ne dà una lettura che è non interpretazione ma uso pulsionale. In parole più povere, si torna bambini, e bambini lettori di fumetti. I bambini che leggono un fumetto magari destinato a ragazzini appena più grandi di loro, immaginano, saltano le parti che non capiscono, seguono la vicenda o si soffermano sulla vignetta che fa ridere. Così io, in metro, con l’Ariosto: se non capisco, passo all’ottava seting guente, mi godo una sorta di «stanza narrativa» senza volermi fare un quadro generale. È uno dei testi che meglio lo consente. Ecco per esempio il duello di Mandricardo e Rodomonte. Se le stanno dando sode, da formidabili guerrieri come sono entrambi: «Fra mille colpi il Tartaro una volta / Colse a duo mani in fronte il Re d’Algiere / Che gli fece veder girare in volta / Quante mai furonfiacole e lumiere». Un coltissimo amico mi ha fatto notare una volta che l’idea figurativa che uno sganassone da fabbro ferraio faccia vedere punti luminosi e stelle è la medesima praticata dai fumettisti e dai cartoonist: da Mandricardo a Wile E. Coyote.
Ritroviamo il bambino che guarda i fumetti senza capirli e si inventa una storia sua nella lezione di Italo Calvino sulla «visibilità », laddove lo scrittore ricorda le «letture» del Corrierino fatte prima di avere imparato a leggere e le considera come l’imprin- ricevuto per la sua futura attività di narratore. I suoi racconti, dice, sono tutti incominciati da un’immagine mentale: il ragazzino che sta su un albero, il cavaliere che consiste nella sua sola armatura esteriore... Oltre a curare il celebre Ariosto radiofonico (selezionando ottave e narrando con parole proprie gli snodi intermedi), Calvino si è rifatto ad Ariosto anche quando Franco Maria Ricci gli chiese un testo a commento del mazzo dei tarocchi viscontei. A uno dei primi seminari estivi di linguistica e semiotica di Urbino (si tengono ancora oggi), Calvino aveva ascoltato Paolo Fabbri parlare dell’uso dei tarocchi nella divinazione. Dalla relazione del semiologo, ma anche dalle sue fantasie infantili sui fumetti, a Calvino venne da considerare ogni tarocco come la sintesi figurativa di una storia possibile, da estrarre componendo sequenze di carte. Nacquero così i segmenti di quel cruciverba narrativo che è il Castello dei destini incrociati : storie di donne, cavallier, arme e amori dichiaratamente ispirate ad Ariosto.
Un gioco, certo: un gioco che per alcuni è stato contemporaneamente troppo frivolo e troppo cerebrale, assommando gli opposti vizi dell’oziosità e dell’astruseria, rompicapo per scapati. Sarà, ma certo Calvino non fu il primo, se Emanuele Tesauro già nel Seicento parlava di un Labirinto dell’Ariosto, vero e proprio gioco dell’oca in cui i concorrenti si muovevano a colpo di dado tra scene tratte dal Furioso. Come ben spiega Lina Bolzoni introducendo il volume da lei curato, l’esplosione crossmediale del poe- ma non si limitò alle illustrazioni che quasi subito lo accompagnarono. Personaggi e scene ispirarono presto pittura, teatro, musica, persino ceramistica, fino alle arti più popolari delle figurine, dei fumetti, del cinema e della tv. Giochi come quello di cui parla il Tesauro richiedono ai giocatori di ricordare passaggi dell’opera e ne costituiscono così una sorta di teatro di memoria. Ma il Furioso è un teatro di memoria esso stesso: poema-enciclopedia che propone e offre alla conversazione solidi topoi su ogni tema, a partire dalla cortesia in guerra e in amore. Proprio nei termini della calviniana «visibilità», la scrittura ariostesca dà già corpo a ciò che evoca, contiene le proprie figure, così come contiene il teatro, il gioco, la magia, la musica.
Autore di un vero e proprio sequel , Ariosto aveva dunque presagito qualcosa che ritroviamo nei nostri ipertesti e nella nostra crossmedialità. Come sottolinea Lina Bolzoni, il poema non fa che invitare il lettore a un viaggio cognitivo: uscire dalla propria realtà, rivedere i propri parametri di verosimiglianza e di credulità e porsi il problema dell’ontologia dell’ippogrifo o quello dei canoni di un’esplorazione lunare. Il saggio dell’accademica della Normale di Pisa si apre con Ludovico Ariosto in arrivo a Mantova, con le copie della prima edizione del suo poema da offrire a corte, ma anche da vendere. Già Matteo Maria Boiardo aveva alluso al «guadagno dello stampatore », in relazione alla lunghezza e alla struttura dell’ Orlando Innamorato (o L’innamoramento de Orlando). Fra l’ Innamorato e il Furioso si interpone la data fatidica dell’anno 1500, lo spartiacque fra incunaboli e libri a stampa. Nel volgere di pochi decenni, Ariosto è già cosciente di rivolgersi non più a dame e gentiluomini di corte, ma a un’entità molto più indifferenziata, che in tutto il mezzo millennio successivo si sarebbe chiamata «pubblico». Non ci si può immaginare Dante Alighieri che si preoccupa delle vendite della Commedia. Ariosto lo fa già al momento della stesura del testo. Dalle analisi di Lina Bolzoni e degli studiosi che ha radunato, Ariosto appare chiaramente consapevole della relazione fra testo e lettori. Anzi la incorpora direttamente nel testo e ne fa un tema della sua opera, a volte allegorico ma a tratti anche esplicito. Sia letteratura sia gioco incominciano a funzionare quando attirano persone nel proprio gorgo, le interpellano, pretendono una loro risposta, sospendendo il flusso del tempo e immergendole in un tempo a sé. L’ Orlando furioso ne è un esempio superbo. Dopo è stato arduo evitare di tener conto della messa in gioco, cioè della in-lusio, in cui la letteratura consiste. È per questo che può essere proclamato il «primo bestseller». Ed è per questo che averlo (anche) nel Kindle è significativo, negli anni in cui ci chiediamo se l’ebook sia parte della prima vera rivoluzione culturale dopo Gutenberg. Se cioè i new media non stiano sovvertendo quei rapporti fra autore, testo e lettore e quei canoni di produzione e distribuzione che la cultura occidentale ha stabilito proprio dai tempi dell’Ariosto.

Repubblica 5.2.15
Scienza e fantascienza l’incontro ravvicinato degli universi paralleli
H.G.Wells, Philip K. Dick, Isaac Asimov, Ray Bradbury nel libro di Renato Giovannoli una guida alle teorie saccheggiate agli studiosi alla base dei loro capolavori
di Massimiano Bucchi


Uno degli esempi è la teoria del battito di ali della farfalla e l’uragano: un’idea di un meteorologo

NEL 1972 il meteorologo americano Edward Lorenz si fece convincere da un collega a presentare le proprie idee, fino ad allora poco note al di fuori del proprio specifico settore, a un convegno dell’American Association for the Advancement of Science. Il lavoro di Lorenz riguardava la sensibilità di un sistema, nel lungo periodo, a piccole variazioni nelle condizioni iniziali — e di conseguenza la difficoltà di ottenere modelli previsionali soddisfacenti. L’esempio utilizzato era la possibile relazione tra un volo di un gabbiano e un temporale. Ma poiché Lorenz non mandò in tempo il titolo del proprio intervento, toccò al collega sceglierne uno. Questi decise di sostituire il battito d’ali di farfalla al volo del gabbiano («Il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado in Texas?»). L’idea della farfalla, oltre a richiamare la forma di alcuni grafici dello stesso Lorenz, veniva probabilmente da un noto racconto di fantascienza di Ray Bradbury, Rumore di tuono (1952), in cui un gruppo di viaggiatori nel tempo altera irreversibilmente il corso degli eventi futuri calpestando una farfalla nella preistoria.
Era nato così il celebre “effetto farfalla”, che sarebbe divenuto tra l’altro un ingrediente assai diffuso della narrativa popolare — peraltro interpretato in un senso deterministico diametralmente opposto a quello di Lorenz, come capacità di tracciare connessioni impercettibili a grande distanza e perfino di alterare opportunamente il corso degli eventi — vedi film come The Butterfly Effect ( 2004) o la sintesi che se ne fa in Jurassic Park («una farfalla batte le ali a Pechino e il tempo cambia a New York»).
È alla scoperta di simili cortocircuiti che ci guida il libro di Renato Giovannoli ( La scienza della fantascienza , Bompiani). Non una storia della fantascienza, ma una «cartografia delle teorie immaginarie» che costituiscono questo genere letterario e delle sue intersezioni non sempre lineari e prevedibili con il «dibattito scientifico reale». Ecco allora H. G. Wells, tra i “padri” della fantascienza, che frequenta le lezioni del biologo Thomas Huxley (il “mastino di Darwin”) e utilizza teorie evoluzioniste e morfologia comparativa per immaginare l’anatomia dei marziani e il futuro della specie umana. O Isaac Asimov che nei primi anni Quaranta, applicando le famose tre leggi della robotica (un’intuizione non sua, pare, ma del direttore della rivista Astounding Science Fiction ) e raccontando i dilemmi insolubili che nascono dal loro conflitto, prefigura il “doppio vincolo” introdotto a metà anni Cinquanta da Gregory Bateson nei suoi studi sulla schizofrenia.
E naturalmente gli universi paralleli, immaginati da scrittori come Fredric Brown (dal cui Assurdo Universo Fellini avrebbe voluto trarre un film) e Philip K. Dick, la cui “controparte scientifica” può essere vista nell’interpretazione a più mondi della meccanica quantistica (1957) dei fisici Hugh Everett III e Bryce DeWitt («i quali si direbbe quasi si siano sforzati di dimostrare che la fantascienza aveva visto giusto», scrive Giovannoli). Universi paralleli come quelli di scienza e fantascienza, che pure non di rado si sono incontrati.
IL LIBRO La scienza della fantascienza di Renato Giovannoli ( Bompiani pagg. 560 euro 25)

Corriere 5.2.15
I contrasti di idee che nutrono le teorie dei filosofi
di Giovanni Reale e Dario Antiseri


Esce oggi per l’editrice La Scuola Cento anni di filosofia. Da Nietzsche ai nostri giorni (due tomi, pagine 1.600, e 65), un’opera dedicata alla filosofia contemporanea, in corso di traduzione in molte lingue. Anticipiamo la premessa dei due autori, Giovanni Reale e Dario Antiseri. Reale è scomparso lo scorso ottobre, mentre si occupava della revisione delle bozze del volume.

Tutti gli uomini e tutte le donne vivono immersi dentro idee e concezioni filosofiche, ma non tutti gli uomini e tutte le donne sono filosofi. Conseguente — se una progressiva e mai conclusa uscita dalla caverna della nostra ignoranza è un fine degno dell’uomo — è, pertanto, l’urgenza di venire a conoscenza di autori e movimenti di pensiero che rappresentano le fondamentali stazioni di arrivo e di nuove partenze che segnano il cammino della filosofia occidentale. È cioè necessaria una non superficiale familiarità con le principali idee presenti nelle opere prodotte da grandi menti dell’umanità in quella ininterrotta conversazione che è la storia del pensiero filosofico occidentale — storia intessuta di scontri tra soluzioni di vecchi problemi e sotto la continua pressione della comparsa di nuovi e insospettati interrogativi, di motivati (almeno all’epoca) rifiuti di prospettive prima considerate certe e accettate come dogmi, della riproposta di concezioni precedentemente messe da parte con condanne supposte definitive, con la sostituzione di un paradigma a un altro e l’avvio di nuovi programmi di ricerca.
Parafrasando Alfred N. Whitehead, come nella ricerca scientifica così in quella filosofica scontri tra idee non sono un dramma, rappresentano piuttosto una opportunità. Ricerca senza fine è quella scientifica, e senza fine è la ricerca filosofica. E come le indagini che ai giorni nostri si agitano sulla frontiera della ricerca scientifica — per esempio, in fisica, in biologia o in economia — fanno meglio comprendere la rilevanza delle «conquiste» e dei «fallimenti» del passato, così la rilevanza dei grandi filosofi del passato — il significato delle strade da loro aperte e delle direzioni di ricerca da loro precluse — si fa più chiara alla luce di quella «storia degli effetti» consistente nelle idee di fondo, nei risultati e nelle controversie che innervano le correnti del pensiero filosofico contemporaneo.
E non semplice è la ricognizione di quel continente vastissimo e in espansione che è la filosofia contemporanea, i cui confini, in questi ultimi cento anni, troviamo segnati da «città» e «presidi» filosofici caratterizzati da un lato dai più svariati legami con pensatori antichi e moderni, e dall’altro solo rarissimamente privi di dispute interne, talvolta in reciproci rapporti di felici contaminazioni, più spesso animati da duri contrasti basati su progetti alternativi di ricerca.
E se l’osservatore ansioso di certezze sarà inizialmente sopraffatto da una sensazione di disorientamento in una inestricabile torre di Babele, una più matura riflessione lo renderà convinto del fatto che unicamente nel contrasto tra più voci, proprio nella torre di Babele, i filosofi mettono a prova la validità delle loro proposte, dando così vita e forza a quella ineludibile ricerca filosofica il cui fine, come ha detto Isaiah Berlin, è sempre lo stesso: «Consiste nell’aiutare gli uomini a capire se stessi e quindi a operare alla luce del giorno e non, paurosamente, nell’ombra».

Corriere 5.2.15
Né maschio né femmina, università Usa riconosce il terzo genere «neutrale»
di Elena Tebano

qui

IlSussidiario.net 4.2.15
In Scozia provano a rallentare la luce (nel vuoto)
di Sergio Musazzi

qui segnalazione di Francesco Maiorano