venerdì 6 febbraio 2015

Corriere 6.2.15
l tour del neopremier e del ministro nelle cancellerie europee
Tsipras: «La troika è finita»
Ma Renzi lo gela: «Giusta la scelta della Bce»
di Antonella De Gregorio

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il Fatto 6.2.15
Fratelli coiltelli
“#alexisstaisereno”: Matteo scarica Tsipras
Il presidente del Consiglio (aveva detto “parliamo la stessa lingua”) si accoda all’offensiva di Merkel e Fmi
Altro che cravatta-regalo: “Sto con la Bce”
Tutti uniti contro la Grecia: Fmi e Germania non cedono
di Stefano Feltri


Gli economisti amano chiamarlo “gioco del pollo”, come in Gioventù bruciata con James Dean: nella gara di coraggio tra due ragazzi su un’auto, perde quello che sterza prima del burrone. Se nessuno dei due cede, muoiono entrambi. La Grecia ha le mani sul volante e sembra che stia per cedere, i creditori invece le tengono ben salde e corrono sicuri che l’avversario si fermerà prima.
IL VIAGGIO DEL NUOVO premier greco Alexis Tsipras e del suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis in Europa va sempre peggio. Mercoledì sera la Bce di Mario Draghi ha applicato il regolamento: se Atene non rispetta gli impegni con la Troika e non si sottopone all’esame delle riforme previsto per il 28 febbraio, da mercoledì prossimo la Banca centrale non potrà più accettare titoli di Stato greci in garanzia (quando le banche elleniche vogliono liquidità, di solito portano alla Bce bond pubblici come garanzia nell’operazione di pronti contro termine). Motivo: visto che la Grecia si sta mettendo in condizione di andare in bancarotta, la Bce non può caricarsi titoli che possono trasformarsi in perdite, perché questo equivale a finanziare direttamente un governo, ed è vietato. Risultato: ieri mattina la Borsa di Atene è crollata, di nuovo. A fine seduta era in rosso del 3,37 per cento, trascinata al ribasso dal settore bancario. Sul mercato obbligazionario per detenere un bond greco a tre anni gli investitori pretendono quasi il 20 per cento di tasso di interesse, come dire che è un investimento ad altissimo rischio. Le banche greche possono ancora ricevere denaro dalla Bce, ma soltanto per il canale di emergenza Ela che ha un tetto di 60 miliardi e costa molto di più, 1,55 per cento di tasso di interesse invece che lo 0,05 abituale. L’effetto contagio si è diffuso dal mercato di Atene al resto d’Europa, Milano ha oscillato poi ha chiuso in rosso dello 0,59 per cento. “La decisione della Bce sulla Grecia è legittima e opportuna”, ha commentato il premier italiano Matteo Renzi. Nel suo incontro di tre giorni fa a Roma con Tsipras aveva già preso le distanze dalle richieste del governo greco rimandando ogni decisione ai vertici europei.
DOPO L’INCONTRO disastroso con Mario Draghi a Francoforte, ieri Varoufakis ha lasciato Berlino con risultati analoghi. “Siamo d’accordo sull’essere in disaccordo”, prova a sdrammatizzare Varoufakis dopo il suo lungo incontro con Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze di Angela Merkel molto contrario alla concessione di un trattamento di favore alla Grecia. Varoufakis ha ripetuto i suoi argomenti, ormai noti: “Il più grande prestito della storia è stato concesso alla nazione più insolvente della storia, non poteva finire bene”. Sostenere che la Grecia fosse già in bancarotta nel 2010 quando è partita l’operazione di sostegno da 240 miliardi di euro, gli serve per giustificare oggi uno sconto per chiudere buchi del passato. Il suo obiettivo minimo è ottenere una riduzione dell’avanzo primario strutturale per la Grecia (entrate al netto delle uscite e tolti gli effetti della recessione) inferiore al 4,1per cento del Pil previsto per il 2015.
Schäuble riconosce alla Grecia enormi progressi (grazie al monitoraggio della Troika) ma non concede alcuno spiraglio. E lo stesso fa il Fondo monetario internazionale, con una dichiarazione del portavoce Gerry Rice: “Il programma per la Grecia è fatto per aiutare il governo greco e il popolo greco. E per evitare ogni pericolo di contagio. Continuare su questa strada porterà benefici alla Grecia e al resto d’Europa”. Punto. Tsipras e Varoufakis hanno tempo fino al 28 febbraio per negoziare un nuovo accordo, poi la Troika lascerà Atene senza elargire gli ultimi 7 miliardi circa del programma di assistenza. E, con le banche prive di assistenza della Bce e vittime di fughe di capitali, la Grecia rischierà il default e l’uscita dall’euro.
Nel presentare le previsioni economiche d’inverno, ieri, la Commissione europea ha sottolineato che sarebbe un peccato smontare le dure riforme dell’austerità, perché la Grecia stava migliorando: crescita per il 2015 al 2,5 per cento, debito in calo al 170 per cento del Pil, ma la disoccupazione ancora di massa, al 25 per cento.
CONFERMATE le attese per i numeri sull’Italia: Pil 2015 a +0,6, deficit al 2,6 e deficit strutturale allo 0,6 (siamo ancora sotto esame per la correzione, troppo modesta). Stime che andranno completamente riscritte se uno dei due partecipanti al gioco del pollo non sterzerà in tempo.

Repubblica 6.2.15
Draghi fa ballare Grecia e Merkel
di Paul Krugman


NELLA drammatica vicenda della Grecia le cose si fanno quasi folli.
In pratica, la Bce non accetterà più in garanzia i titoli del debito pubblico di Atene. La reazione iniziale all’annuncio da parte di alcuni osservatori è che questa è la fine e che la Bce di fatto sta staccando arbitrariamente e bruscamente la spina. Ancor prima che avessi modo di approfondire i particolari, però, ho intuito che non deve essere così. Di Mario Draghi si possono dire molte cose: che forse non riuscirà a salvare l’euro, e che forse commetterà qualche errore madornale. Ma ottusità e durezza no, non rientrano nel suo stile. Certo, stiamo parlando di una decisione che implica molto più di quanto abbiano suggerito i primi titoloni. Le banche greche non fanno più molto ricorso a questo canale di finanziamento, che non necessariamente le mantiene a galla. Tramite la loro banca centrale, le banche greche potranno continuare a chiedere prestiti indirettamente. Di conseguenza, non si tratta di un evento in grado di innescare una crisi.
Qual è il punto, allora? Si tratta di un atteggiamento. Di un segnale. Ma lanciato a chi? E a quale scopo?
Forse si tratta di uno sforzo mirante a spingere i greci a raggiungere un accordo, ma secondo me — e la mia è una semplice supposizione — tutto ciò di fatto è rivolto ai tedeschi.
Da un lato, la Bce sta facendo la voce forte, così da togliere un po’ i tedeschi dal groppone dei greci. Dall’altro, si tratta di un vero e proprio segnale d’allarme: “Cara Cancelliera Merkel, ormai siamo tanto vicini a un crac delle banche e all’uscita di Atene dall’euro. Sei sicura, davvero sicura, di voler proseguire lungo questa strada? Davvero davvero?”. È un colpo d’avvertimento a tutti, affinché capiscano che cosa accadrà in seguito. Draghi sa quello che sta facendo? No, ovviamente. Nessuno, in simili circostanze sa esattamente che cosa sta facendo, perché siamo in un caos strutturale. In ogni caso, non facciamoci prendere dal panico. Non ancora.

Repubblica 6.2.15
La protesta
Gli ateniesi in piazza mobilitati dalla Rete “Prima la gente, poi l’Ue” Polizia con i manifestanti
Centinaia di persone sui gradini del Parlamento liberati ormai da ogni protezione
Doppio scoglio per il premier: la fiducia al governo e il candidato alla Presidenza
di Ettore Livini


MILANO Atene – convocata via Facebook – scende in piazza per protestare contro la Bce. E Alexis Tsipras, rientrato in patria dopo il tour europeo, chiude la porta alla richiesta di rinnegare le promesse elettorali nel nome del compromesso con Bruxelles: «Siamo un Paese sovrano e democratico – ha detto ieri ai parlamentari di Syriza dopo il giuramento del nuovo Parlamento – Abbiamo un contratto con chi ci ha votato e onoreremo i nostri impegni ». Tradotto per i creditori: il programma di governo che verrà presentato da domenica in aula (un’altra partita delicatissima per il premier) dovrebbe contenere le misure – rialzo dello stipendio minimo e assistenza sanitaria universale su tutte – andate di traverso a Berlino.
I greci, almeno per il momento, sembrano ancora schierati al suo fianco. Lo schiaffo di Eurotower ha scatenato una rivolta social nel Paese. Poche ore dopo la decisione di Francoforte, un gruppo di ragazzi ha lanciato via Facebook l’idea di una manifestazione contro Mario Draghi (“No ai ricatti, non abbiamo paura” lo slogan) e di sostegno a Tsipras. Il tam tam virale ha funzionato e in un tramonto luminoso e tiepido – ad Atene ieri c’erano 21 gradi – piazza Syntagma ha ospitato il primo corteo digitale della storia. Migliaia di persone senza bandiere di partito – “La gente conta più dei mercati”, recitava uno dei pochi cartelli issati sopra le teste – a conferma della trasversalità del consenso anti-austerity di Syriza. Tutti pigiati sulle scale di fronte al Parlamento aperte al pubblico per decisione del governo pochi giorni fa con l’eliminazione delle transenne anti-contestatori piazzate da Antonis Samaras nel 2012. La polizia ha seguito la manifestazione da lontano e con discrezione, quasi fosse schierata a fianco dei manifestanti.
Tsipras però non si fa troppe illusioni. E sa che la strada è in salita, non solo in Europa ma anche quando gioca in casa. Ieri gli esperti economici di Syriza hanno aperto un filo diretto con la banca centrale per verificare se lo stop della Bce all’uso di titoli di Stato ellenici come garanzia per finanziamenti al sistema creditizio avesse scatenato – come temono in molti – una corsa ai Bancomat. Dati ufficiali non ce ne sono ma fonti vicine al partito confermavano in effetti un timido rialzo, pur se ancora non da allarme rosso, di prelievi. «I depositi sono al sicuro», ha provato a gettare acqua sul fuoco il Governatore Yannis Stournaras. Ma i risparmiatori hanno buona memoria e non dimenticano che la stessa rassicurazione era stata fatta ai ciprioti pochi giorni prima che il Paese mettesse dalla sera alla mattina rigidi controlli sui capitali usando poi le cifre oltre i 100mila euro sui conti correnti per salvare le banche nazionali.
Il primo cruccio del premier – che il 9 maggio su invito di Vladimir Putin sarà in visita ufficiale a Mosca – è però quello della fiducia al governo in Parlamento. L’iter partirà domenica per concludersi con un voto martedì. Sulla carta non c’è storia. La strana coppia rosso-nera Syriza-Anel ha in aula 162 voti su 300. Il passaggio però è lo stesso molto delicato e Tsipras dovrà stare attento a calibrare anche le virgole. Se il programma dell’esecutivo replicherà in fotocopia quello presentato agli elettori – luce e pasti gratis ai poveri, riassunzione di chi è stato licenziato senza giustificazione, ritorno ai contratti collettivi e stop alle privatizzazioni, per capirsi – Bruxelles e Bce potrebbero far saltare subito il tavolo dei negoziati, spingendo Atene verso il default. Se invece farà qualche concessione di troppo ai creditori, rischia di scatenare la rivolta interna al suo partito dove l’ala più massimalista e di sinistra (su alcuni punti più rigida di Wolfgang Schauble) ha già mal digerito l’alleanza con la destra di Panos Kammenos.
La strada insomma è molto stretta. E il rischio di incidenti di percorso è altissimo. Il rischio, dicono i catastrofisti, è che il Paese sia costretto a tornare subito a nuove elezioni in caso di divisioni interne a Syriza, con conseguenze politiche e sociali (Alba Dorata è pronta a monetizzare i guai altrui) che nessuno vuole nemmeno immaginare. Incassata la fiducia, Tsipras dovrebbe presentare mercoledì il nome del candidato alla Presidenza della Repubblica. Qualche giorno fa si era ipotizzato il nome affascinante del regista Costa Gavras. Il premier però potrebbe calare un asso a sorpresa: un candidato del centrodestra, nel nome dell’unità nazionale. Qualche avances sarebbe stata fatta a Kostas Karamanlis, ex premier e “totem” di Nea Demokratia. La scelta però potrebbe cadere su Dimitris Avramopoulos, commissario agli Affari Interni della Ue, altro uomo del partito dell’ex nemico Samaras. Il senso della scelta sarebbe chiaro: la partita per salvare la Grecia è delicatissima. E, nel nome della realpolitik, c’è bisogno davvero di tutti.

il Fatto 6.2.15
Il tedesco Daniel Gros
“Vincerà Merkel, Alexis salverà solo la forma”
intervista di Carlo Di Foggia


Circa 90 per cento forma, 10 per cento sostanza”. Per Daniel Gros, economista tedesco e direttore del Centre for European Policy Studies (Ceps), lo scontro al fulmicotone Grecia-Germania è soprattutto una questione di principi: “Purtroppo in politica le due cose coincidono”, spiega centellinando le parole.
Vale per la Grecia, o per la Germania?
Soprattutto per i tedeschi, che sono cavalcatori di principi.
Nella sostanza?
Si sta trattando. In una settimana non si cambia nulla, ma mi pare che si vada nella giusta direzione.
Quale?
L’accordo su nuove obbligazioni da parte del governo greco, i cui pagamenti verranno ancorati alla crescita del Pil. La Germania lo accetterà.
Una vittoria greca?
Quel tipo di bond già esiste: venne dato agli investitori stranieri durante il taglio del 70% dei rimborsi sui titoli greci (l’haircut del 2012, ndr).
Il ministro delle finanze Varoufakis ha anche proposto bond a scadenza perpetua, quindi potenzialmente non rimborsabili.
(Breve risata, ma fragorosa) Quelli Angela Merkel non glieli concederà mai, tanto meno la Bce.
Quindi Tsipras ridimensionerà le sue richieste?
Quando si è all’opposizione si chiede il cielo, al potere la realtà impone i limiti.
Quale sarà il risultato finale?
Se Tsipras non esce dall’euro e non ricorre ai prestiti di Putin, un nuovo programma per la crescita, che però non si chiamerà “memorandum”. 90 per cento sostanza, 10 per cento forma.
Ma senza la supervisione della Troika...
La Troika è composta da Bce, Fmi e Ue, cioè le tre istituzioni con cui ora Tsipras e Varoufakis stanno trattando.
La Bce però ha deciso di non accettare i bond greci come garanzia offerta dalle banche elleniche per ottenere prestiti.
Anche qui: 90 per cento è forma. Le banche Greche potranno fare ricorso alla liquidità straordinaria dell’Ela (Emergency liquidity assistance) fornita dalla stessa Bce.
Weidmann ha detto di no.
Decide la Bce. Per votare contro ci vogliono due terzi del direttivo, Berlino quei voti non li ha.
Quindi chi vince?
Nella forma, la Grecia otterrà qualcosa, nella sostanza, la Germania eviterà un pericoloso precedente.

il Fatto 6.2.15
Il greco Dimitri Deliolanes
“Serve l’intesa Così Berlino rafforza Syriza”
intervista di Carlo Di Foggia


Si arriverà a un compromesso, la Germania non si rende conto che così aiuta Tsipras”. Dimitri Deliolanes è stato per 30 anni il corrispondente dall’Italia della tv pubblica Ert, prima che venisse chiusa dal governo Samaras in nome dell’austerità. Nel suo libro, La sfida di Atene (edito da Fandango) ha raccontato l’ascesa di Alexis Tsipras, e ora osserva il negoziato con l’Ue con fiducia: “Il bilancio mi sembra positivo”.
Il ministro Varoufakis e il suo omologo tedesco Schaeuble “non concordano neanche sull’essere in disaccordo”.
I tedeschi sono i soli a opporsi con forza. Ma più si impongono più Syriza guadagna punti, anche nell’elettorato conservatore. Ad Atene e Salonicco sono scesi a migliaia in piazza in solidarietà col governo.
La Grecia però sta già cedendo. All’inizio si parlava di una conferenza internazionale per la rinegoziazione del debito.
Non guardate il dito, ma la luna. La proposta di emettere bond con pagamenti subordinati alla crescita del Pil o a scadenza perpetua sono esattamente un modo di tagliare il debito pubblico. Hanno solo nomi diversi.
Berlino non sembra disposta a cedere.
Si arriverà a un compromesso, altrimenti la Grecia non pagherà e ci rimetteranno tutti. Nessuno vuole arrivare alla rottura, men che meno l’Ue.
A parte i sorrisi che Tsipras ha ricevuto dai capi di Stato nel suo tour europeo, nessun Paese si è esposto pubblicamente a favore della Grecia.
L’Eurogruppo e il Consiglio europeo non si sono ancora riuniti, quando lo faranno si saprà chi davvero vuole appoggiare la Germania.
Intanto la Bce ha deciso che non accetterà più i bond greci come collaterale per garantire liquidità alle banche greche.
Draghi non vuole irritare ulteriormente i tedeschi dopo aver vinto sul Quantitative easing.
Di cui la Grecia non potrà beneficiare, se non sotto il controllo della Troika.
Si disse sotto il controllo di “un programma” di risanamento. Invece tutti l’hanno interpretato come “il programma”, cioè quello della Troika, che perfino l’ex premier Samaras aveva rifiutato. Non sono la stessa cosa. A giorni Tsipras presenterà il suo e chiuderà con l’austerità.
Intanto lo ha telefonato Putin, c’è il rischio di un avvicinamento alla Russia?
Si vedranno a marzo. Entrambi stanno sfruttando l’altro per indebolire l’Ue nei negoziati.

La Stampa 6.2.15
Silvio e Matteo, quando litigare conviene
Quello cui assistiamo è il tentativo di dare un senso politico alla rottura e di renderla meno devastante, ovvero di presentarla come un vantaggio per entrambi gli (ex) contraenti del Nazareno
di Ugo Magri

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Corriere 6.2.15
Lo smarcamento da Forza Italia
La corda tesa del premier
di Massimo Franco


Matteo Renzi punta a tenere compatto il Pd e a marcare le distanze da Forza Italia. È questo il sottinteso politico dell’accordo sulla legge anticorruzione raggiunto ieri: un altro pezzo dello smantellamento del patto del NazarenoSi è tornati al testo iniziale, proposto dal presidente del Senato, Pietro Grasso: quello che contro la corruzione prevede il falso in bilancio perseguibile d’ufficio, e sconti di pena a chi collabora. E Ncd lo ha avallato insieme con il Pd: forse il primo frutto dell’intesa ritrovata tra Matteo Renzi e Angelino Alfano. Si vedrà alla fine quale sarà il testo presentato in Aula. In quanto è accaduto ieri, però, si indovina un altro passo di Renzi mirato a tenere compatto il proprio partito; e a marcare le distanze da Forza Italia. Dopo la rottura sul Quirinale, e il congelamento del patto del Nazareno da parte di Silvio Berlusconi, l’impressione è che Palazzo Chigi accetti la sfida; anzi, la esasperi.
Non significa che cerca la rottura. Più banalmente, vuole imporre la sua agenda a Ncd e FI; e far capire anche alla minoranza del Pd che dopo l’elezione di Sergio Mattarella la sua leadership si è rafforzata; e non prevede negoziati e concessioni. È come se Renzi stesse costruendo lo schema della seconda fase del suo governo, inaugurata con la scelta del capo dello Stato. Significa lo smantellamento progressivo di alcuni di quelli che potrebbero apparire addentellati del patto del Nazareno: dall’ipotesi di far pagare le frequenze televisive a Rai e Mediaset, alla modifica della riforma elettorale sui cento capilista bloccati: di fatto «nominati», come chiede Berlusconi e come invece non vuole l’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani.
È una sorta di strategia del filo teso, che sceglie e cerca di mettere nell’angolo l’avversario di turno. E lascia come opzione soltanto l’accettazione dell’agenda del Pd o uno scarto che potrebbe portare ad una crisi di governo. Si tratta di un metodo che confida in rapporti di forza sbilanciati a favore del presidente del Consiglio. E prepara riforme che possono diventare, se necessario, piattaforma elettorale. In questo schema, la reazione offesa di Berlusconi allo sgarbo del Quirinale, probabilmente tattica, viene presa sul serio da Renzi; e trasformata in un’arma che riscrive unilateralmente il patto del Nazareno. La logica è che chi ha i voti impone la sua legge. Ed è legittimato anche a raccoglierli da pezzi dell’opposizione. È significativo il modo in cui il vicesegretario del Pd, Debora Serracchiani, definisce «responsabili verso l’Italia» quanti voteranno per il governo «provenendo da partiti al di fuori della maggioranza». Quando lo fece il centrodestra, si parlò di trasformismo, con coda processuale sul voto di scambio. Speriamo che all’Italia sia risparmiato almeno questo.

Il Sole 6.2.15
Il caos in Forza Italia e l'Opa di Renzi
di Lina Palmerini

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Repubblica 6.2.15
Se l’avviso a Berlusconi passa dalle tv
Non è un caso che l’emendamento anti-Mediaset arrivi proprio mentre Forza Italia si frantuma
di Stefano Folli


L’EMENDAMENTO anti- Mediaset nel decreto cosiddetto “Milleproroghe” forse è solo un avvertimento, ma di quelli che è bene non sottovalutare, nei giorni in cui Forza Italia si frantuma. E non solo perché costa 50 milioni di euro. Sul piano simbolico, equivale a quell’improvviso incontro a Palazzo Chigi fra il premier e il commissario anti-corruzione, Cantone. Erano le ore decisive per la candidatura Mattarella e Renzi non esitò a lanciare nel cielo di Roma questo segnale implicito. Come dire: badate, se il giudice costituzionale non passa, proporrò per il Quirinale il magistrato castigamatti. Probabilmente non ne aveva davvero l’intenzione, ma la semplice ipotesi incuteva timore in alcuni ambienti.
È nello stile di Renzi procedere con crescente baldanza quando gli eventi sembrano favorirlo. Quindi non c’è motivo per cui la crisi finale del centrodestra debba impensierirlo. Come è noto, la sua tesi è che Berlusconi, non il governo, ha tutto da perdere dallo scollamento del quadro politico. E non si tratta, in questo caso, di riforme istituzionali o di costruire insieme la Terza Repubblica, ossia gli argomenti utili per la propaganda e per gli show televisivi. Si tratta in senso più prosaico della cornice protettiva per le aziende di Berlusconi: il che tocca a vario titolo il futuro di Mediaset. Il patto del Nazareno era — e in parte sarebbe ancora — un disegno per stabilizzare la legislatura e garantire al Berlusconi imprenditore, assai prima che al politico, una condizione neutra, né favorevole né ostile. Lasciando uno spiraglio aperto alla possibilità che per il personaggio ci sia un residuo ruolo pubblico dopo l’8 marzo, giorno in cui si esaurirà la pena di Cesano Boscone. Mandare in soffitta la vecchia intesa a causa del «tradimento» consumato ai piedi del Quirinale appare agli occhi di Renzi un controsenso, visto che non esiste nel circolo berlusconiano un progetto alternativo e i sondaggi danno Forza Italia sempre più in basso. Come si poteva pensare, a Palazzo Grazioli, di decidere il nome del capo dello Stato, visto che i rapporti di forza sono così squilibrati a favore del Pd e ancor più lo saranno domani, dopo le regionali?
Quindi il messaggio, anche attraverso l’emendamento al “Milleproroghe”, vuole essere molto chiaro: continuate, voi del centrodestra, a sostenere in Parlamento i provvedimenti qualificanti, altrimenti la deriva politica finirà per danneggiare in modo irreversibile la ragnatela degli interessi di Berlusconi. Un piccolo ricatto, si potrebbe dire, ma di quelli che si verificano in politica quando qualcuno perde una battaglia importante e di conseguenza il suo potere negoziale scivola ai minimi termini. Berlusconi avrebbe quindi tutto l’interesse a tornare sui suoi passi e a dimenticare lo screzio del Quirinale. Del resto, la prospettiva di ricostruire intorno a se stesso un nuovo centrodestra è irrealistica. Può tentare di conservare il 14-15 per cento dei voti che il suo nome è ancora in grado di attirare, ma non di impersonare un’alternativa credibile a Renzi.
Sotto questo aspetto il futuro è tutto da immaginare. C’è un problema di cultura liberale, come scrive Piero Ostellino. Uno organizzativo, come sostiene Fitto. Manca la capacità di imporre temi e sostenerli con ostinazione, come fa capire un Brunetta molto determinato (ma rimettere in discussione la riforma del Senato ha troppo il sapore di una vendetta e poi Renzi avrebbe probabilmente i voti per approvarla lo stesso). Tutti hanno ragione, nessuno è in grado di prendere in mano il bandolo della matassa. E si capisce perché. Berlusconi è una figura troppo ingombrante, dopo oltre vent’anni di palcoscenico: eppure senza di lui la destra non sa ancora quale strada imboccare. A meno di non correre a ripararsi sotto l’ombrello populista di Salvini; ma è dubbio che il capo leghista abbia voglia di raccogliere tutti i naufraghi di Berlusconi e magari anche di Alfano.

La Stampa 6.2.15
Quel messaggio in codice a Silvio sulle frequenze tv
Un emendamento cancella lo sconto a Mediaset e Rai. Il ruolo di Boschi, i sospetti di rappresaglia
di Fabio Martini


Rappresaglia! Il grido di dolore si diffonde poco prima dell’ora di pranzo nel Palazzo ormai semivuoto, dopo l’elezione del Capo dello Stato, A lanciare l’allarme, i resti di quel che fu il più potente esercito politico italiano, un tempo guidato “generale” Berlusconi. Dalle commissioni Bilancio e Finanze della Camera, impegnate col decreto Milleproroghe, esce la notizia che il governo ha presentato un emendamento col quale si formalizza una decisione sulle frequenze tv in digitale, in base alla quale Rai e Mediaset potrebbero dover versare nelle casse dello Stato un esborso superiore a quello a suo tempo stabilito da Agcom, l’autorità competente in materia.
Nelle ore immediatamente successive esponenti di Forza Italia lasciano correre la voce di una vendetta di Renzi contro Berlusconi, “colpevole” di aver rotto il patto del Nazareno. Ma, superata l’ “emozione” delle prime ore, tutto diventa più chiaro: l’ “aggravio” su Rai e Mediaset è stato già deliberato dal governo il 29 dicembre scorso (quando il Nazareno era ancora vigente) con un decreto ministeriale. Atto amministrativo con una copertura “leggera”, da “stabilizzare”, ma che intanto ha già costretto le due aziende a versare nelle casse dello Stato un acconto complessivo di circa 7 milioni, pari al 40% di quanto dovuto per il 2014.
Ma quel decreto amministrativo rischiava di essere impugnato, in altre parole doveva assurgere a norma di rango primario. E così, ieri mattina, proprio ieri mattina - ecco il punto ambiguo di tutta la storia - il governo ha annunciato la presentazione di un emendamento col quale si “approprierà” della competenza su questa materia, “espropriando” l’Agcom e affidando d’ora in poi al ministero dell’Economia la definizione dei “canoni” per le frequenze tv. E il governo lo ha fatto, con un intervento dietro le quinte del ministro per i Rapporti col Parlamento Maria Elena Boschi, che in mattinata ha informato il presidente della Commissione Bilancio Francesco Boccia che il governo avrebbe riformulato diversi emendamenti già presentati.
Una storia che si potrebbe compendiare così: fino a due giorni fa l’ “aggravio” su Mediaset e Rai era coperto da un decreto ministeriale, normativa di rango secondario, ma proprio ieri palazzo Chigi ha voluto far sapere pubblicamente che è sua intenzione assegnare al governo le competenze su questa materia. Perché proprio ieri? Un messaggio recapitato al momento “giusto”? Una cosa è certa: a Mediaset, ancor prima che a Forza Italia, si sono preoccupati assai. Hanno interpretato la notizia dell’emendamento come un messaggio in codice, anche perchè sanno bene quanto insidiosa sia ogni modifica alla normativa sulle comunicazioni. Nei mesi scorsi il sottosegretario al Mef Antonello Giacomelli, delega piena alla Comunicazione, aveva svolto un’istruttoria pubblica che portava esattamente nella direzione decisa ieri: dopo una lettera della Commissione europea che aveva messo in guardia il governo italiano a replicare normative troppo favorevoli a Rai-Mediaset e dopo una delibera Agcom considerata dal governo come uno «sconto» per le due aziende, il Mef ha prodotto il decreto ministeriale col quale ha imposto anche all’azienda di Berlusconi un acconto del 40% ma con un saldo ancora da definire. Appunto.

il Fatto 6.2.15
Nuovo falso in bilancio, l’ultima minaccia per B.
Ma il testo non c’è
di Wanda Marra

“I voti di Forza Italia sono stati necessari in passato ma non credo lo saranno ancora”, dice la vice di Renzi al Nazareno, Debora Serracchiani. La posizione ufficiale al Pd e a Palazzo Chigi è questa. Non a caso è cominciata l’operazione responsabili, ovvero lo scouting di parlamentari di altri gruppi. Non a caso, il messaggio a Silvio Berlusconi è chiaro: se vuoi stare ancora nel Patto del Nazareno, ci stai alle nostre regole. Posizione che reggerà?
“OLTRE all’estensione della punibilità sul falso in bilancio abbiamo valutato di eliminare la procedibilità a querela: il reato sarà sempre perseguibile d’ufficio”. È Andrea Orlando, il ministro della Giustizia, alla fine di un vertice di maggioranza a pronunciare parole fino a oggi impensabili. Perché la perseguibilità d’ufficio del falso in bilancio è esattamente una di quelle cose alle quali Forza Italia si era opposta fermamente da inizio legislatura. Uno di quegli accordi sottobanco tra Renzi e Berlusconi. Improvvisamente, diventa una priorità.
Tra i punti dell’intesa nella maggioranza, l’estensione dell’area di punibilità del falso in bilancio. Ma, nello stesso tempo, un bilanciamento, che tenga conto “della dimensione delle imprese e della rilevanza del fatto”, per dirla con Orlando.
Il pacchetto anti corruzione era stato annunciato da Renzi tanto di video messaggio - nei giorni di Mafia Capitale. Molta enfasi, ma l’urgenza non s’è vista: invece di un decreto, il governo aveva optato per un disegno di legge. “Sarà approvato entro fine gennaio”, avevano dichiarato gli uomini del Pd. Siamo a febbraio, e in realtà il testo va riscritto. Spiega David Ermini, responsabile Giustizia dem: “Le norme concordate per il contrasto alla corruzione sono positive e andranno in Aula la prossima settimana al Senato. Lì tutti potranno verificare che vanno nell’ottica di quello che ci ha chiesto il Presidente Mattarella”. E Berlusconi? “Che c’entra Berlusconi? ”, sminuiscono nella stretta cerchia del premier. Che ha anche telefonato al Guardasigilli per congratularsi.
Tutti d’accordo, dal vice Ministro Costa (Ncd) al presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone. Ma come al solito nell’era Renzi, si tratta di passare dalle parole ai fatti. Adesso, si lavora a degli emendamenti del governo al ddl anticorruzione di Grasso (quello fermo in Senato da due anni, e la cui calendarizzazione è stata bocciata di nuovo mercoledì dall’Aula): quello sul falso in bilancio verrà riscritto completamente da qui a martedì della settimana prossima dal governo; quello sulle pene verrà riformulato sulla base di quelli già esistenti di Pd e governo. L’Anm per una volta plaude e parla di “strada giusta”. Che qualcosa stia cambiando davvero? Intanto il pacchetto dovrà affrontare la Commissione Giustizia del Senato, presieduta da Nitto Palma. Che in genere, i provvedimenti più che vararli, li affossa. E poi, dovrà trovare i voti. Perché qui si arriva al punto politico. Il giorno dopo la rottura (reale o minacciata) del patto del Nazareno da parte di Berlusconi, i segnali, le minacce e le pistole puntate nei confronti di Forza Italia si moltiplicano. La salva B. è sempre lì: il 20 si varano i decreti attuativi della delega fiscale, il famoso 3%. Il Tesoro sarebbe intenzionato a non inserire la frode fiscale. Pare. Ma chissà. Bastoni e carote. Ieri, poi, la maionese è impazzita su un emendamento al milleproroghe sulle frequenze tv di Caperini (Lega) e Centemero (Fi), che rischiava di far saltare gli sconti di 50 milioni per Rai e Mediaset sulle frequenze tv. “Berlusconi non c’entra niente”, chiarisce il relatore del provvedimento per il Pd, Matteo Richetti.
MA INTANTO il governo prima ha dato parere negativo e poi invece favorevole. Tutto rimandato alla prossima settimana. Anche il conflitto di interessi, rinviato in commissione alla Camera, potrebbe essere rispolverato a breve. “Sono tutti calci negli stinchi a Berlusconi”, commenta un democratico di peso. Ma fino a dove vuole arrivare Renzi?
“A Forza Italia non conviene rompere il patto”, dicono dai vertici dem. E precisano che tutte queste cose “saranno votate a maggioranza”. Maggioranza che ieri si sarebbe rinsaldata dopo un incontro tra Renzi e Alfano. E in effetti, dove va il ministro dell’Interno?
L’operazione responsabili? “Non serve”, dicono nell’inner circle renziano. In realtà, lo scouting è iniziato da mesi. E Renzi punta sul fatto che intanto B. non è in grado di rompere il patto. E poi, che gli altri partiti, a cominciare da Forza Italia, si spaccheranno. “Non è morto il Patto, è morta Forza Italia”, è la sua posizione. Per capire se i provvedimenti messi in cantiere sulla giustizia (e non solo) sono armi di ricatto o effettive intenzioni governative, non resta che attendere. Prima di tutto le norme.

il Fatto 6.2.15
Giangaetano Bellavia Il commercialista e il 3%
“Si creeranno enormi riserve di fondi neri”
intervista di Gianni Barbacetto


Si occupa da anni di diritto penale dell’economia, anche come consulente delle procure, per cui da anni redige rapporti in inchieste su reati finanziari e di mafia. “Ma io sono un commercialista”, dice Giangaetano Bellavia, “dunque, da idraulico del diritto, non capisco come invece tanti avvocati, al governo e in Parlamento, possano far finta di non sapere e di non capire”. Il riferimento è alla soglia del 3 per cento dell’imponibile, sotto la quale Matteo Renzi e Maria Elena Boschi (che è avvocato) vorrebbero non far scattare la punibilità penale. Lo hanno scritto nel decreto approvato la vigilia di Natale, poi ritirato dopo le polemiche sugli effetti “salva-Berlusconi”. Ma ora lo stanno riproponendo, forse con qualche ritocco, quale l’esclusione della frode fiscale. La soglia, ha detto il ministro Boschi, serve per sanare gli errori. “Ecco”, trasecola Bellavia, “come fa un avvocato a non sapere che la frode fiscale scatta soltanto quando c’è un intento fraudolento, cioè il dolo? Se è un errore, non scatta il reato. Non possono non saperlo: lo dichiarano perché tanto sanno che, come dice Crozza, ‘Si bevono tutto’. Gli errori non sono reati, sono già esclusi dalla punibilità penale”.
Ma la soglia, ha dichiarato il ministro Boschi, c’è anche in altri Paesi. La Francia, per esempio. “Sì, ma voi del Fatto avete giustamente replicato che, accanto alla percentuale, in Francia c’è una soglia in cifra assoluta, piuttosto bassa. E il bello è che c’è già anche in Italia! Non c’è per il reato di frode fiscale mediante fatture false. Ma per la frode senza false fatture sì, era di 150 milioni di lire, poi diventate 77 mila euro. Nel 2011 il governo Berlusconi l’ha ridotta a 30 mila euro. Per il reato di dichiarazione infedele, invece, era di 200 milioni di lire, diventati 100 mila euro. Anche qui, Berlusconi nel 2011 l’ha dimezzata, riducendola a 50 mila. È già una soglia generosa, visto che 50 mila euro d’imposta corrispondono ad almeno il triplo di soldi evasi”.
Quello che a Bellavia non va giù non è tanto la soglia in termini assoluti, ma la soglia in percentuale. “Privilegia i grossi contribuenti e penalizza i piccoli. Legittimare il 3 per cento a chi ha 1 miliardo di imponibile significa permettergli di frodare 30 milioni di euro l’anno. È mai possibile? E allora, perché non mettiamo una soglia alla rapina? O ai furti nei supermercati? E ai poveracci che rubano per mangiare? Il comandamento dice: non rubare. Non dice: non rubare sopra una certa soglia. Se vogliamo introdurre una percentuale, facciamo prima ad abolire i reati tributari”.
C’è poi un problema che rimane comunque irrisolto: “Segua il mio ragionamento. Un ufficiale tedesco durante la Seconda guerra mondiale porta via un quadro prezioso da una chiesa di Napoli. Oggi ritrovano il quadro: l’ufficiale è morto e non è più perseguibile, ma il quadro deve tornare a Napoli, non resta agli eredi del tedesco. E allora risponda alla mia domanda: il 3 per cento che viene depenalizzato che fine fa? Resta dello Stato? Lo confisco? Oppure resta nella disponibilità di chi ha frodato il fisco? Il quadro resta corpo di reato, e chiunque se lo passa di mano compie reato di ricettazione. Chi manovra invece i soldi sotto il 3 per cento è un riciclatore o no, visto che non ha commesso un reato? E pensi a che enormi riserve di nero possono fare le grosse aziende con il 3 per cento del loro fatturato: pronte per corrompere e per comprare chissà quanti senatori e deputati... ”.

il Fatto 6.2.15
Decreto fiscale al 3% speriamo in Mattarella
di Bruno Tinti


ALLA VIGILIA della decisione di Renzi&C sulla innovativa soglia di punibilità fiscale (non costituisce reato un’evasione inferiore al 3% del reddito dichiarato), e dopo la serie di sciocche esternazioni volte a legittimare questa iniziativa, sono opportune alcune precisazioni. 1 - “Nulla di strano in questa norma; ce n’è una uguale in Francia, addirittura con la soglia del 10%”. Vero. Ma ad essa si affianca una soglia fissa di 153 euro. Un’evasione superiore a questo ammontare costituisce reato. Inoltre un cosa sbagliata non diventa giusta perché commessa anche da altri.
2 - “Nessuna pietà per chi froda la legge ma non si devono criminalizzare i comportamenti in buona fede”. Detta in termini tecnici occorre il dolo: la condotta deve essere stata realizzata con la coscienza della sua illiceità penale. I delitti previsti dalla legge penale tributaria, in quanto delitti, richiedono la sussistenza del dolo: se questo non è provato, l’imputato deve essere assolto con la formula “il fatto non costituisce reato”. Il dolo va accertato caso per caso dal giudice, non si può stabilire a priori che sotto un certo ammontare di evasione il dolo non c’è e sopra sì. Con una soglia quale quella inventata da Renzi&C, si arriverebbe all’assurdo che, per lo stesso ammontare di evasione, un contribuente che superasse di 1.000 euro il 3% rispetto al suo reddito sarebbe colpevole; e uno che non lo superasse per 1.000 euro sarebbe innocente.
3 - Proprio questa considerazione rivela la flagrante violazione dell’art. 3 della Costituzione. Una soglia che dipende dalle qualità personali del cittadino (più ricco - meno ricco) non rispetta l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza distinzioni di... condizioni personali e sociali.
4 - È per questo motivo che le soglie previste dalla vigente legge elettorale sono oggettive, legate all’entità dell’evasione e dunque uguali per tutti. La soglia proporzionale, ancorata all’ammontare degli elementi attivi (il fatturato) sottratti all’imposizione, contiene in sé le caratteristiche dell’oggettività poiché, per tutti i cittadini, il profitto conseguente all’evasione dipende dagli elementi passivi sopportati. Anche in questo caso dunque la soglia, ancorché proporzionale, è oggettiva. Esistono comunque due soglie fisse, costituite dall’ammontare dell’imposta evasa (50.000 euro) e dal limite insuperabile di 1 milione di euro (per la dichiarazione infedele) ; per la frode, la soglia è 30.000 euro.
5 - “Prevederemo una soglia proporzionale e una soglia fissa”; entrambe ancorate al reddito, si suppone. Della irrazionalità e incostituzionalità della prima si è già detto. Quanto alla seconda, essa si sovrapporrebbe alla soglia esistente costituita dall’ammontare dell'imposta evasa. E, considerate le intenzioni manifestate da Renzi&C, sarebbe enormemente più elevata. Che se ne farebbe B di una soglia di 100.000 o anche 1 milione di euro? A parte l’indecenza di proclamare che un’evasione per simili importi sia penalmente irrilevante.
TUTTO CIÒ considerato, sono ineludibili due domande.
A - Quale può essere lo scopo di una norma del genere in un Paese in cui l’evasione fiscale è elevatissima e nel quale il provento di essa costituisce la principale fonte di approvvigionamento della corruzione?
B - Come si può sperare che il neo eletto Presidente della Repubblica, Giudice Costituzionale fino a ieri, possa apporre la sua firma su una legge siffatta?

Corriere 6.2.15
Quirinale La prova che attende il Presidente
di Ernesto Galli della Loggia

qui

il Fatto 6.2.15
Il sottosegretario Antonello Giacomelli
“Noi del Pd non faremo male a Mediaset”
intervista di Carlo Tecce


Mercoledì i parlamentari di Forza Italia e i dirigenti di Mediaset si sono appuntati una dichiarazione di Antonello Giacomelli, renziano e toscano, sottosegretario allo Sviluppo economico, responsabile Telecomunicazioni: “Spero non corrispondano al vero gli annunciati disimpegni sulle riforme. Abbandonare la visione di sistema Paese è un errore”.
Giacomelli, era un messaggio a Mediaset via Forza Italia?
Io ci tengo al patto del Nazareno, vorrei che fosse restaurato, ma non c’entrano i ricatti a Mediaset: follia. Antonello Giacomelli e Matteo Renzi non farebbero mai una ritorsione a un’azienda per motivi politici. Lo trovo offensivo.
Ieri Forza Italia ha denunciato un emendamento al milleproroghe che riguarda il canone per le frequenze. Così Mediaset rischia di pagare di più.
Ci sono colleghi di Forza Italia che sono troppo sensibili o troppo interessati, però dimenticano che quel provvedimento segue un decreto del 29 dicembre. Noi abbiamo promesso che supereremo la norma Agcom che avrebbe scontato il prezzo solo per Rai e Mediaset e avrebbe penalizzato gli altri operatori, comprese le emittenti locali.
O forse l’Agcom infierisce troppo su Persidera (Telecom-Espresso) che possiede le stesse frequenze di Mediaset e adesso volete rimediare?
Non vi posso obbligare ad avere fiducia nel nostro operato. Vi spiego la situazione. Il contrasto è fra Giacomelli e il Tesoro che vuole garanzie sugli introiti. Io vorrei che, a parità di bilancio, l’esborso sia inferiore per tutti, perché il mercato s’è ristretto per tutti
Ha un buon rapporto con Fedele Confalonieri?
Sì, corretto, leale. La cosa che ci divide di più è il tifo calcistico, io tengo per l’Inter. Ci sentiamo spesso e ci vediamo di meno. L’ultima volta ci siamo incrociati al derby di Milano, era presente anche Luca Lotti.
Può rassicurare Confalonieri: il governo non farà niente per penalizzare Mediaset?
Non credo ce ne sia bisogno, non agiamo contro. Mediaset è un’azienda importante. Il nostro compito è quello di aiutare le aziende italiane a produrre ricchezza, inclusa Mediaset .
Perché un sottosegretario che si occupa di tv interviene sul Nazareno?
Questa deve essere una legislatura costituente: più siamo, meglio stiamo. Altrimenti non ha senso. Vorrei che la sintonia tra partiti diversi sia ripristinata. Spiace che la rottura sia piombata mentre s’insedia Sergio Mattarella al Quirinale. Posso dire una cosa su Mattarella?
Vi accomuna la radice centristra, la Margherita...
Mi è simpatico Maurizio Crozza, ma sbaglia a prendere per caratterizzante il grigiore di Mattarella. Per un semplice motivo: Mattarella non è di colore grigio e non passa inosservato.
Questo governo esonda nei palinsesti televisivi. Giacomelli che giudica Crozza, Renzi che critica i talk show, pieni di “balle e finti scoop”.
E sono d’accordo. Il modello va rivisto, non funziona più, va creata una nuova formula.
Il dg Luigi Gubitosi lascerà la Rai al termine del mandato che scade in aprile o resterà in attesa di una riforma?
Io sono convinto che faremo in tempo per aprile.

Corriere 6.2.15
Operazione Scelta civica, Renzi amplia il Pd
di Marco Galluzzo


Già oggi i senatori e parte dei deputati del partito fondato da Monti potrebbero aderire ai dem Pace fatta anche con Alfano. Ora il leader lavora a nuovi interventi su Rai e liberalizzazioni
ROMA Una tempesta in un bicchiere d’acqua. È durato poco più di tre giorni il malessere politico del Nuovo centrodestra nei confronti del governo. Due giorni fa Angelino Alfano e Matteo Renzi si sono visti, «l’incontro è andato molto bene», ha detto ieri mattina il primo, insomma pace fatta, se mai c’è stata guerra, e incomprensioni archiviate.
Eppure in Parlamento l’eco di quanto successo con l’elezione di Sergio Mattarella non si spegne. Debora Serracchiani, vicesegretario dem, auspica maggioranze più ampie facendo appello al senso di «responsabilità» di tutti i parlamentari. Un appello frutto della rottura degli accordi con Berlusconi, ma che ovviamente non sta bene proprio al partito di Alfano: ci siamo noi, la maggioranza regge e non ha bisogno di altre stampelle è la replica di Maurizio Lupi: «Di responsabili il governo Berlusconi è morto».
Ma lo schema della maggioranza attuale potrebbe anche cambiare in modo strutturale, almeno nel medio periodo. Ieri sera lo stesso premier ha compiuto un’ulteriore mossa. Due giorni fa aveva in qualche modo dileggiato il contributo di Scelta civica («esiste ancora?»), ieri ha chiarito che forse non si trattava solo di ironia, esprimendo apprezzamento «per il contributo leale arrivato finora», ma soprattutto facendo presagire uno schema in cui il Pd ingloba quello che resta del partito di Mario Monti: «La condivisione può individuare un approdo comune e un comune cammino per il cambiamento dell’Italia». Già oggi i senatori di Sc, e una frazione dei deputati, potrebbero addirittura annunciare l’adesione ai dem.
Insomma la situazione politica è più che mai fluida, mentre qualcuno pronostica persino defezioni azzurre verso il Pd. In ogni caso nelle prossime settimane il governo si troverà ad affrontare una situazione nuova: la possibile saldatura fra minoranza dem, che fra le altre cose vorrebbe modificare la legge elettorale («blindata» per il premier), e l’insoddisfazione crescente in FI. E mentre Sel e minoranza Pd chiedono che il patto del Nazareno sia d’ora innanzi sostituito dal metodo Mattarella, resta da capire quale sarà l’atteggiamento futuro dell’ex Cavaliere.
Assaggi di queste tensioni si sono scaricati ieri sull’intenzione del governo di riformulare i diritti che pagano Rai e Mediaset allo Stato per le frequenze, sui contenuti dei futuri decreti del Jobs Act, sul piano dell’esecutivo per cambiare le norme sulle banche popolari. Mentre sia Renzi che i suoi ministri, a cominciare da Federica Guidi, stanno programmando nuovi provvedimenti: ieri la titolare dello Sviluppo economico ha annunciato un’imminente intervento in tema di liberalizzazioni (farmaci da banco, trasporti pubblici, energia), mentre trapelano alcune indiscrezioni del piano del premier per la Rai (un ad con pieni poteri al posto dell’attuale diarchia, 5 consiglieri e non più 9, sottratti alla nomina parlamentare).

Corriere 6.2.15
La grande corsa dei Responsabili Chi può salire sul carro dei dem
Villari assicura: se Verdini vuole, una decina di senatori li muove
di Monica Guerzoni


ROMA «Consapevolezza e responsabilità». La formula magica è questa, questa l’esca con cui i renziani attirano nella rete del premier i senatori più inquieti, che non sempre sono i più attaccati alla poltrona. La pesca di nuovi responsabili sta andando così bene che i renziani ritengono l’«operazione 2018» conclusa, prima di iniziare. «Troveremo tutti i numeri di cui abbiamo bisogno» rassicura Ettore Rosato, pontiere tra i partiti e Palazzo Chigi.
Se l'Ncd rientra saldamente in maggioranza e la minoranza pd non si smarca, Renzi può contare su un margine di vantaggio di circa 25 voti. A cui potrebbero aggiungersi una decina di senatori vicini a Denis Verdini, tre di Sel (si vocifera di Uras, De Cristofaro, Stefàno), un bel pacchetto di Gal e qualche ex grillino, come Orellana o Campanella. Dopo l’elezione di Mattarella la forza di attrazione di Renzi è tale che Scelta civica sta per traslocare nel Pd, dove aspettano ad horas Lanzillotta, Ichino, Susta, Maran, Della Vedova. Il ministro Giannini non ha deciso se rompere gli indugi e il suo posto al governo traballa. Alla Camera sarebbero pronte a passare nel Pd anche Tinagli e Borletti Buitoni. Ma il sottosegretario Zanetti si infuria, ironizza su Renzi («la classe non è acqua») e lavora per fermare il trasloco: «Domenica Scelta civica va a congresso. Ognuno faccia quel che crede, ma entrare nel Pd su chiamata è demenziale».
La vera polizza di assicurazione sulla durata della legislatura è che nessuno, nei piccoli partiti allo sbando come in Forza Italia, può permettersi il lusso di andare al voto anticipato. Adesso che Berlusconi non può offrire a nessuno la certezza di una ricandidatura, i suoi senatori subiscono il fascino delle sirene renziane. Renato Brunetta si augura che la «bolla speculativa del renzismo» scoppi, ma intanto i berlusconiani di ferro di Palazzo Madama misurano il grado di empatia tra il capogruppo Paolo Romani e il ministro Boschi.
Racconta Domenico Scilipoti detto Mimmo, re dei Responsabili: «Molti miei colleghi vengono avvicinati dai renziani, i quali a volte li mettono persino in imbarazzo». E lei, ci sta facendo un pensierino? «Io non mi sono mai pentito e lo rifarei, ma sulle riforme mi atterrò alla linea del partito. Se alcuni colleghi decidessero di sostenere Renzi, spero lo facciano per il bene del Paese e non per convenienza personale».
L’appello di Debora Serracchiani non cadrà nel vuoto, c’è da giurarci. La vicesegretaria pd si rivolge a FI e loda i nuovi responsabili che volessero elargire un aiutino sulle riforme: «Chi appoggerà il governo provenendo da partiti al di fuori della maggioranza non è uno Scilipoti qualsiasi, sono persone consapevoli della responsabilità verso l’Italia...». Persone come Riccardo Villari, per citare un azzurro «non-oltranzista» che discetta di buon senso tricolore: «Non essere arruolati ti dà maggiore libertà e maggiore responsabilità». Libertà e responsabilità, ecco la chiave per aprire il forziere dei voti che servono a blindare la legislatura. I nuovi responsabili che non saranno arruolati in pianta stabile in maggioranza, potranno essere intercambiabili: oggi io, domani tu, in un valzer di interessi convergenti con quelli del Paese. Chi voterà la legge elettorale e chi la riforma delle banche popolari. «Verdini? Se Denis vuole, una decina di senatori li muove», fa di conto Villari. Solo tre giorni fa i tormenti di Forza Italia parevano speculari a quelli del Ncd, dove però i maldipancia si sono placati in fretta.
Una buona dose di Maalox l’ha distribuita metaforicamente il calabrese Antonio Gentile detto Tonino, che ha pressato Alfano perché sostenesse Mattarella. Nelle ore drammatiche in cui il centrodestra andava in pezzi, undici grandi elettori controllati da Gentile incontravano in segreto il ministro Boschi e garantivano una preziosa stampella, sempre pronta alla bisogna. E per quanto il ministro Maurizio Lupi ricordi come «di responsabili il governo Berlusconi è morto», il pallottoliere dei renziani gira alla velocità della luce. «La maggioranza deve stare attenta tutti i giorni ai numeri — ci va cauto Giorgio Tonini —. Ma se ai tempi di Prodi c’erano due blocchi monolitici contrapposti, oggi le opposizioni sono cinque o sei e questa è la vera risorsa di Renzi». Il senatore Naccarato parla di un «dispositivo» che scatta automaticamente in caso di reale necessità: una rete di stabilizzatori contro beccheggio, rollio e sussulti nella navigazione. Più la legislatura rischia, più i soccorritori aumentano. E questo Renzi lo sa benissimo».

il Fatto 6.2.15
Gli Scilipoti di Renzi
La carica dei responsabili per il governo di Matteo
Scelta Civica lascia in massa Mario Monti e approda nel Pd
di Paola Zanca


Il copyright resta loro. Diritto d’autore garantito per Antonio Razzi, Domenico Scilipoti e la ventina di parlamentari che il 14 dicembre del 2010 votò la fiducia a Silvio Berlusconi, appena abbandonato da Gianfranco Fini. Ma ogni legislatura ha la sua pena. E nonostante il ministro Maurizio Lupi, che della materia è esperto, abbia già avvertito “di responsabili si muore”, anche stavolta si è aperta la caccia grossa alle “persone consapevoli delle responsabilità verso l’Italia” (parla Debora Serracchiani, vicesegretario del Pd). Troppi tumulti nel centrodestra, troppo ondivago quell’Angelino Alfano che un minuto strizza l’occhio a Berlusconi e quello dopo accavalla le gambe sulla poltrona del ministero dell’Interno. Così, l’elezione del presidente della Repubblica è stata occasione ghiotta per tastare quanto fosse friabile l’opposizione di alcuni. E la pattuglia dei responsabili 2.0 s’è fatta avanti.
Alcuni non la fanno troppo lunga: i sei senatori di Scelta Civica (Mario Monti escluso) hanno annunciato ieri il passaggio al Pd. Altri si appalesano con un tweet (quelli dell’ex M5S, ora gruppo Autonomie, Lorenzo Battista sono stati felicemente notati), ma più spesso prediligono l’antica nota alle agenzie. Sei ex grillini hanno pubblicamente dichiarato il loro voto per Mattarella: Alessandra Bencini, Fabrizio Bocchino, Francesco Campanella, Monica Casaletto, Cristina De Pietro e Luis Alberto Orellana. L’ultimo, già nell’ottobre scorso, salvò il governo con il suo voto sulla nota di variazione al Def. Altri tre ex M5S (Adele Gambaro, Paola De Pin e Marino Mastrangeli), un anno prima, avevano già detto sì a una fiducia posta dal governo Letta. Nel Pd, però, i più ritengono che il sostegno della pattuglia che ha rotto con Grillo starebbe in piedi solo nel caso di un cambio di orientamento del governo Renzi: un nuovo progetto rivolto a sinistra, immaginano, che possa ristabilire un dialogo con Sel, proprio come è successo nel caso Mattarella. Fantapolitica, al momento. Più facile guardare a destra. Se i retroscena raccontano di un Denis Verdini già al lavoro per garantire voti sulle riforme, anche nel lato destro dell’emiciclo di palazzo Madama (quello dove i numeri sono più risicati) il governo di Matteo ha già visto alzarsi mani pronte a sostenerlo. Almeno 11. Sono quelle dei senatori Ncd che - mentre Alfano accusava il colpo del metodo Mattarella - non perdevano tempo: “Pronti a votare”, facevano sapere a Renzi. Come a dire: qualsiasi cosa Angelino decida, noi siamo con te.
È su quella scialuppa che si incontra, per dire, un’altra Cinque Stelle pentita: Fabiola Ani-tori, che è riuscita a passare dal meet-up di Ostia alla poltrona di fianco a Laura Bianconi per “dare un sostegno forte al Governo e alla sua azione riformatrice”. Anche la Bianconi, già pasdaran berlusconiana in prima fila nella battaglia contro chi voleva staccare la spina a Eluana Englaro, ha firmato il messaggio in bottiglia a Renzi. Sono in compagnia di una serie di senatori ad alto tasso di coerenza. Giuseppe Pagano e Salvatore Torrisi, per esempio: due di parola. Dicevano ad agosto, neanche quattro mesi prima dell’addio: “Siamo e resteremo assolutamente leali con il nostro leader Silvio Berlusconi”. Un altro è Giovanni Bilardi, ex Gal ora in Area Popolare (il nome dei gruppi unificati di Ncd e Udc). Nel 2013 faceva gli auguri di compleanno a Silvio Berlusconi assicurando che “ne sosterremo la linea politica”. I Cinque Stelle all’inizio della legislatura avevano scritto al presidente del Senato Pietro Grasso: trovavano inopportuno che in commissione Antimafia, fosse stato nominato uno come Bilardi, “già consigliere regionale per la Lista ‘Scopelliti Presidente’, della quale è stato coordinatore e capogruppo, indagato dalla Procura di Reggio Calabria per peculato, falso e truffa”. Guai che capitano in Calabria, direbbe Pietro Aiello: la Dda lo voleva arrestare con l’accusa di voto di scambio aggravata dalle modalità mafiose. Avrebbe incontrato un boss di una cosca prima delle regionali 2010, ma il gip lo ha lasciato in libertà: non c’è prova delle promesse fatte in cambio di voti.
Poi c’è Antonio Gentile: Renzi lo fece sottosegretario, ma fu costretto a dimettersi praticamente all’istante: il quotidiano l’Ora della Calabria non uscì in edicola con la scusa di un guasto alle rotative il giorno in cui doveva pubblicare la notizia che suo figlio era indagato. Più di dieci anni prima, Gentile si era fatto notare per una raccolta firme: chiedeva il Nobel per la Pace a Berlusconi. Quanto a piaggeria, resta lontano in classifica da Guido Viceconte, anche lui potenziale responsabile. A fine agosto 2002, si cimentò col jogging a Villa Certosa. Finì con una settimana a letto per un colpo della strega. Caso a parte, quello di Ulisse Di Giacomo: fu lui a subentrare a Berlusconi dopo la decadenza. All’epoca era già Ncd e ora sarebbe pronto a salvare Renzi. Infine, Federica Chiavaroli, autrice dell’emendamento che riduceva i soldi ai Comuni che boicottavano le slot machine. Disse Renzi: “È pazzesco, allucinante. Una porcata”.

il Fatto 6.2.15
Domenico Scilipoti. Il capostipite
“Renzi mi chieda scusa, io lo feci per il popolo”
intervista di Luca De Carolis


Ora Renzi deve chiedermi scusa”. Il senatore forzista Domenico Scilipoti assapora la rivincita. Era il 14 dicembre 2010, quando l’agopunturista siculo uscì dall’Idv per votare la fiducia al governo Berlusconi, assieme agli altri “responsabili” Calearo e Cesario. Furono i tre voti decisivi, e su Scilipoti riversarono valanghe di improperi, soprattutto dal Pd. Ma adesso i Democratici cercano nuovi responsabili, proprio in Senato.
Scilipoti, il tempo è galantuomo.
Furono usati termini fuori del normale contro di me, anche dall’attuale presidente del Consiglio. Ma alla luce di quanto sta accadendo dovrebbe fare una riflessione.
Le dovrebbe chiedere scusa.
Certo, Renzi dovrebbe scusarsi pubblicamente con il senatore Scilipoti. Ha detto di tutto e di più su di me.
Quale fu l’offesa più brutta?
Ho gettato quelle parole nel dimenticatoio.
Ne ha mai parlato con Renzi?
Quando viene in Senato faccio in modo di non incontrarlo. È un uomo che non fa quello che promette.
Condannò lei e adesso...
Sono quasi contento, perché oggi quella mia scelta di fare gli interessi del Paese appare ancora più giusta. La rifarei cento volte: volevano imporci un presidente del Consiglio non eletto dai cittadini. Feci tutto nell’interesse del popolo.
Ora il Pd cerca voti in Senato. Lei ha notato questo scouting?
Certe scene sono davvero imbarazzanti per i miei colleghi.
Cosa ha visto?
Non mi faccia entrare nel dettaglio, sono cose che non mi toccano. Ma devo dire che i colleghi rispondono con diplomazia.
Il Pd è convinto di poter fare a meno di Forza Italia.
C’è una giovane ministra che lo dice. Io però me la ricordo, la Boschi, mentre chiedeva una mano sulle riforme al nostro capogruppo Romani. Lo pressava.
Lei le ha votate le riforme?
Sì, anche se erano un obbrobrio. Ma la maggioranza del partito decise così, e io mi attenni.
E la prossima volta?
Me lo chieda tra qualche giorno.

Il Sole 6.2.15
Maggioranza. L’Ncd continuerà a sostenere l’Esecutivo
Governo, Renzi «ricuce» con Alfano
di Em. Pa.


ROMA Da una parte la ricucitura con Angelino Alfano, siglata in un incontro mercoledì pomeriggio, dall’altra l’offerta ai senatori di Scelta civica (ci sono tra gli altri personalità come Pietro Ichino e Linda Lanzillotta) di far parte integrante del Pd. In attesa di capire come evolverà il rapporto con Forza Italia e con il suo leader Silvio Berlusconi dopo lo strappo seguito all’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale senza i voti azzurri, Matteo Renzi blinda il centro della sua maggioranza di governo. Con Alfano, si fa sapere, il confronto «è andato molto bene» e «si prosegue insieme sulla strada delle riforme». I ministri dell’Udc restano al loro posto, dunque (lo stesso Alfano agli Interni, Beatrice Lorenzin alla Sanità, Maurizio Lupi alle Infrastrutture), e i parlamentari continueranno a sostenere il governo tranne qualche possibile eccezione (particolarmente critico il senatore Carlo Giovanardi, che ieri a Radio 24 ha detto che «visto che Renzi ci fa la pipì in testa, i nostri ministri dovrebbero dimettersi). Quanto a Scelta civica, l’appello del premier per un approdo che sembra naturale è di ieri: «Ho molto apprezzato il contributo leale arrivato dai senatori di Sc sia sul cammino delle riforme istituzionali ed economiche sia in occasione della elezione del Capo dello Stato. La condivisione può individuare un approdo comune e un comune cammino per il cambiamento dell’Italia». Già oggi i senatori di Scelta civica (sono sei, mentre l’ex premier Mario Monti è caso a sé) potrebbero formalizzare il passaggio al gruppo del Pd. E non è escluso qualche trasloco nel Pd di deputati di Scelta civica alla Camera. Anche se il deputato Enrico Zanetti, in procinto di divenire nuovo leader di Sc questa domenica, giudica «demenziale entrare nel Pd su chiamata» e chiede al premier di scusarsi.
Nel frattempo continua il pressing di tutto lo stato maggiore renziano nei confronti di Forza Italia sulle riforme. Determinato ad andare avanti (fino al 2018, ripete) e a mandare in porto le riforme, Renzi non intende mediare né con Berlusconi né con la minoranza del suo partito e mostra di avere comunque i numeri. «Chi ci sta bene, chi non ci sta si assumerà le sue responsabilità». Tra i renziani c’è la convinzione che Berlusconi, passati questi giorni di tensione, non potrà sfilarsi dal patto sulle riforme e sull’Italicum senza pagare un pesante prezzo politico (con anche, si fa intendere, il rischio di ritrovarsi con una legge elettorale senza più i capilista bloccati come chiede la minoranza del Pd). La prima prova si avrà la prossima settimana alla Camera, quando si comincerà a votare la riforma costituzionale che abolisce il Senato. Intanto arrivano allo stato maggiore azzurro segnali minacciosi: proprio ieri si è raggiunto un accordo sulla corruzione nella maggioranza tra il Pd e il Ncd, accordo benedetto da Renzi, per il quale il falso in bilancio sarà perseguibile d’ufficio e non più a querela e più in generale sarà ristretta l’area di non punibilità (si veda pagina 7). Non solo: un emendamento della Lega Nord al decreto Milleproroghe, riformulato dal governo, fa saltare sconti di 50 milioni per Rai e Mediaset sulle frequenze tv (si veda pagina 10) facendo gridare gli azzurri alla «vendetta».

Repubblica 6.2.15
Caccia ai rinforzi a Palazzo Madama
Gli ex M5S aprono “Matteo, parliamo”
di Giovanna Casadio


ROMA Cambia tutto. Per ridisegnare la nuova mappa dei numeri in Senato ci vuole calma e gesso. Renzi se ne sta occupando personalmente, affidando a Luca Lotti e a Maria Elena Boschi il compito di sondare. Ma poi a tirare la rete ci pensa lui, tanto che sta convincendo i 6 senatori di Scelta civica. A breve dovrebbero entrare come indipendenti nel gruppo del Pd. «D’altra parte noi siamo più renziani di molti dem...», ammette Pietro Ichino che viene dal Pd e che si convinse nelle politiche del 2013 a tentare l’avventura con Mario Monti. Monti ora dovrebbe andare nel gruppo delle Autonomie. E pure Andrea Olivero e i “suoi” 3 senatori potrebbero approdare nelle file dem. Da un lato quindi il premier vuole consolidare la maggioranza che ha già sulla carta per controllarla meglio, ma dall’altro il lavorio è di conquistare pattuglie di senatori dell’opposizione a cominciare dagli ex grillini. Alla Camera i fuoriusciti 5Stelle si sono aggregati in un unico gruppo, al Senato vanno in ordine sparso ma 6-7 sembrano disponibili a un appoggio volta per volta.
Adesso che il Patto del Nazareno è rotto, bisogna fidarsi dell’ottimismo della volontà. Perché la ragione vacilla di fronte a una maggioranza ballerina e messa a rischio dai dissidenti dem e dalle temute defezioni alfaniane. Il disfacimento in atto nel centrodestra è una grande incognita: né Fi, né Ncd sono più nelle mani dei loro leader. Luigi Zanda, il capogruppo dem a Palazzo Madama, non nasconde la difficoltà: «Sono allenato ai numeri corti e per fortuna la mia famiglia mi ha donato una buona tenuta di nervi...». E’ però convinto che alla fine sarà convenienza degli stessi forzisti non tirare la corda e tornare sui loro passi dal momento che le riforme costituzionale e elettorale - sottolinea - sono per nove decimi a buon punto. Difficilmente Renzi riuscirà ad “acquistare” alle ragioni del governo tutti i 16 senatori fuoriusciti del M5Stelle oggi nel Misto. Hanno messo in piedi un coordinamento che ha funzionato sull’Italicum (per votare il “no”) ma che si è sbriciolato sulla scelta di Mattarella. «Al governo però basta una cosa: rendere più stabile il supporto dei transfughi», ragiona il senatore lettiano Francesco Russo. A prendere in considerazione il dialogo c’è la pattuglia dei 6 o 7. Adele Gambaro, una delle prime a lasciare Grillo in dissenso con la politica dell’arroccamento, è disponibile: «Se le riforme ci sembrano buone non vedo perché no... ma ci devono sembrare buone». Luis Alberto Orellana circoscrive l’ambito: «Nei 5Stelle ho lamentato la mancanza di dialogo. Quindi la mia disponibilità c’è, però si vedrà volta per volta ». Martedì prossimo il coordinamento dei transfughi grillini dovrebbe convocarsi.
Nel Pd poi c’è la grossa incognita dei dissidenti. La navigazione potrebbe essere particolarmente difficile su molti provvedimenti - delega fiscale, lavoro, Pubblica amministrazione oltre che per le riforme istituzionali. Il “soccorso azzurro” dei berlusconiani - che fu decisivo per l’Italicum, la nuova legge elettorale - è perduto. «La genialità mostrata da Renzi per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, ovvero di tessere l’unità del partito, diventa adesso una genialità obbligata ». L’osservazione è di Walter Tocci, uno dei senatori dissidenti più rigorosi, che votò il Jobs Act per disciplina di partito e subito dopo si dimise. In pratica, è il suggerimento, Renzi ascolti i dissidenti dem sulla riforma costituzionale che tornerà tra qualche settimana al Senato. Anche se la vera partita resta l’Italicum che va in terza lettura alla Camera, dove la maggioranza è abbondante, ma c’è il voto segreto. La tela politica insomma va tessuta bene tra le due Camere. La senatrice Laura Puppato parla di responsabilità però avverte: «La tranquillità della maggioranza non è né banale, né scontata. I numeri sono così risicati che se non c’è il soccorso di vari colori, le garanzie non sono sufficienti ». Puppato vede le elezioni più vicine. «Che il Pd si sia smarcato dal Patto del Nazareno è un bene, perché così sono finite le illazioni di inciucio. Però la realtà da non nascondersi è che la barca ondeggia qui al Senato ». I dissidenti dem che si misero di traverso sull’Italicum, approvato grazie a Forza Italia, dichiarano senso di responsabilità. Vannino Chiti però richiama: «Le riforme vanno fatte bene e perciò bisogna correggere sia quella costituzionale sia l’Italicum, con o senza Fi». Il Senato sarà un ring.

Repubblica 6.2.15
Gianni Cuperlo
“Renzi cambi l’Italia con la sinistra ricominci prima che la casa si svuoti”
“Finito il Patto del Nazareno? Non mi metto a lutto. Ma se sul Quirinale è andata bene ora serve uno scatto
Non cambiare Italicum e Senato è un errore. Matteo si fidi di più del suo partito, quando l’ha fatto non s’è pentito
Tsipras e Podemos danno voce a bisogni ignorati. Ora si punti su una Ue radicalmente diversa”
intervista di Alessandra Longo


ROMA Gianni Cuperlo, chi l’avrebbe detto, solo un mese fa: abbiamo un capo dello Stato votato da tutto il Pd (ma non solo), il Patto del Nazareno è agonizzante, il centrodestra allo sbando. Con Mattarella cambia l’orizzonte della politica.
«Sarà un ottimo presidente, aiuterà a ricucire il legame tra il Paese e le istituzioni. Ha doti morali e politiche per riuscirci. Darà stabilità e, non a caso, le destre reagiscono in modo scomposto».
Addio Patto del Nazareno.
«Non sarò io a vestire il lutto. Piuttosto l’insieme di questi fatti chiede uno scatto».
Uno scatto? Renzi ha giocato bene la sua partita.
«Sì, è stato abile. Ha compreso il senso del confronto nel Pd. Il nome di Mattarella era tra quelli sostenuti dalle minoranze e, per una volta, l’ascolto ha prevalso sulla diffidenza. Lo considero un bene. Se esiste un metodo Mattarella è fatto di condivisione, della capacità di scegliere le persone giuste, e Mattarella lo è, e dell’ascolto del Parlamento. Ma per avere l’unità del Pd bisogna cercarla».
Cioè ancora non ci siamo.
«La sinistra deve guardarsi dentro con sincerità. Alle spalle abbiamo una storia importante che non si è proiettata in un tempo nuovo. L’esito è il venir meno persino di una solidarietà delle classi dirigenti poco generose e alla fine fragili. La verità è che Renzi ha trovato in errori e avarizie di prima un viatico per la rottamazione. Io dico, cominciare daccapo prima che la casa si svuoti».
Podemos in Spagna e Tsipras in Grecia sfidano tutti voi.
«Rappresentano bisogni ignorati da partiti avvitati su se stessi. In questo pesa la fiacchezza del socialismo europeo. Di fronte alla crisi peggiore della nostra vita il riformismo classico ha reagito con flessibilità sui conti e le primarie per la scelta dei leader. E’ stato come assistere all’incendio confidando nella pioggia».
Sui tempi lunghi teme una
inadeguatezza del Pd?
«Il mio problema è comprendere se il Pd è in asse con la spinta che si è messa in moto. Voglio capire se rispetto all’Europa scommettiamo su un’architettura radicalmente diversa. Il banco di prova sarà l’agenda dei prossimi mesi».
A cominciare dalle riforme.
«Sì, a cominciare da lì. Su quella costituzionale rischia di uscire un modello ambiguo. Non si è scelto tra un Senato delle garanzie o delle autonomie. Allora finché siamo in tempo cambiamo quello che va corretto tanto più dopo la fine del Patto del Nazareno. Lo dico al premier: “Fidati di più del Parlamento e del tuo partito. Quando lo hai fatto non te ne sei pentito”».
Ovviamente non vi va bene nemmeno l’Italicum.
«Coi capolista bloccati avremo una maggioranza di nominati e non è una scelta popolare. Perché non consentire gli apparentamenti al ballottaggio? Sarebbe una garanzia di governabilità in più. Quanto all’entrata in vigore agganciamo la nuova legge alla riforma costituzionale ».
Peccato che i renziani non vogliano cambiare più niente. «Sarebbe un errore e un’occasione persa». La sua agenda delle priorità quale sarebbe? «Se sei la sinistra il primo pensiero è per chi è rimasto in fondo. Salario minimo, investimenti pubblici per modernizzare il paese, un piano di salvataggio delle famiglie in povertà, occhio e cuore per le donne sole, i pensionati. Se sei la sinistra e governi con Alfano, difficilmente metterai la patrimoniale ma Obama alza l’aliquota sui profitti delle multinazionali dispersi nei paradisi fiscali. E’ diverso da una franchigia penale del 3 per cento per chi evade. Tanto più se la moralità pubblica deve tornare a essere la nostra bussola. Se sei la sinistra, per uscire dalla deflazione e rilanciare consumi e innovazione devi trattare un congelamento del debito».
Manifesto di intenti...
«Senza una sinistra autonoma il Pd cambia pelle, diventa una forza centrista e moderata, ma in quel caso cambierebbe molto anche per ciascuno di noi. Neppure basta dirsi riformisti, è un abito che indossano tutti. Bisogna ridare senso a un’alternativa nelle politiche, nei bisogni, costruire azioni e soluzioni su cittadinanza, diritti, lavoro, anche con la sinistra e il solidarismo fuori dal Pd. Le battaglie di Libera o le piazze della Camusso, figure come Pisapia, Vendola e Landini, quei preti di periferia che aprono le parrocchie agli ultimi non sono fuori dal nostro orizzonte. Con SinistraDem vogliamo dare una mano e fare da ponte. E’ una marcia faticosa. Tanti sono i trasformismi e il richiamo del potere somiglia alle sirene di Ulisse».
Renzi dice: 'Pazientate, per la rivincita aspettate il 2017'.
«Io sono armato di infinita pazienza e non penso a rivincite, ma voglio capire cosa stiamo diventando. Perché l’etica pubblica, prima di predicarla la devi praticare. E allora le primarie liguri o la scelta di Cofferati non le puoi archiviare in silenzio. Anche per questo assieme a sigle e personalità stiamo costruendo appuntamenti dove allargare il campo».
Cosa dovrebbe fare il segretario/ premier?
«Capire che nella fatica del consenso dentro il suo partito oltre all’efficacia delle scelte c’è anche la cifra della sua autorevolezza. Io gli dico: “Cambiamo l’Italia come mai prima, ma facciamolo con la sinistra”».

Repubblica 6.2.15
Cécile Kyenge
“Assolto per avermi detto orango triste il Pd che difende Calderoli”
Per la giunta del Senato le parole del leghista sono “insindacabili” e non razziste
D’accordo tutti i partiti, tranne i 5Stelle
Il punto è se queste espressioni possono entrare nel dibattito politico o se sono solo razziste
Io vado avanti, dovrà esprimersi l’aula, spero che sia solo un incidente di percorso
intervista di Annalisa Cuzzocrea


Cecilie Kyenge è stata ministro del Pd nel governo Letta Ora è europarlamentare

ROMA Cécile Kyenge ha vissuto con sorpresa il razzismo di cui è stata oggetto durante la sua esperienza di ministro. Ed è sorpresa e delusa ora che la politica ha deciso di lasciarla sola. Ora che - in giunta per le immunità al Senato - la maggioranza ha deciso che la frase «Quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango», non è istigazione all’odio razziale. Non se lo dice il vicepresidente di Palazzo Madama Roberto Calderoli. Non per i deputati di Forza Italia, Ncd, Lega, Autonomie, Pd che in commissione hanno preso la parola per spiegare che Calderoli non è perseguibile, che le sue parole in quanto politico sono «insindacabili», che nel suo partito ci sono persone di colore e che poi è tanto bravo a presiedere l’aula. Gli unici a protestare sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle. Inascoltati.
Cos’ha pensato quando gliel’hanno detto?
«Sono stata sorpresa. Poi triste. Non per me. Vorrei uscire da questa logica perché non stiamo valutando Calderoli come persona. Io lui l’ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell’insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta ».
Anche alcuni senatori del Pd si sono espressi contro l’autorizzazione. Un’altra sorpresa?
«Evidentemente quest’argomento è mal conosciuto da parte di tanti. Se poi l’abbiano fatto con calcoli elettorali troverei la cosa ancora più grave. Ma io vado avanti, adesso dovrà esprimersi l’aula, spero che questo sia stato solo un incidente di percorso. Se una persona che rappresenta le istituzioni può insultare chiunque mi chiedo: chi protegge i deboli in questo Paese? Si sta creando un precedente molto pericoloso ».
Si aspettava tanti episodi di razzismo contro di lei quando è diventata ministro?
«Non fino a questo punto. La Lega lo faceva coscientemente, con un calcolo elettorale di strumentalizzazione della persona. E in questo modo l’odio e il razzismo sono aumentati. Com’è possibile che non ci si soffermi sui danni culturali di questi episodi? Mi sarei aspettata appoggio e sostegno da parte delle istituzioni».
Si sente abbandonata anche dal Pd?
«Sì, anche dal Pd. Ma è una questione trasversale, mi aspettavo di più da tutti. Ancora oggi ho una decina di cause che ho deciso di seguire personalmente. Devo ringraziare la magistratura, che è molto avanti. Un consigliere regionale leghista è stato condannato a una multa di 150mila euro per aver sostituito il mio volto con quello di un orango in una foto istituzionale. E sa perché posso dire che la Lega è un partito razzista? Perché sono stati loro a pagargli l’avvocato. Sono le azioni, non le parole, che la qualificano come tale. Sfruttano la crisi. Le persone hanno paura, cercano un colpevole, e il colpevole perfetto diventa quello che ti stanno offrendo. Molti partiti fanno coscientemente quest’operazione per dividere la società. Mi rammarica la mancanza di coraggio della classe politica e delle istituzioni».

Repubblica 6.2.14
Se chiamare orango la Kyenge “fa parte del linguaggio politico”

di Michele Serra

Patetico chi pretende che rappresentare il popolo aumenti le responsabilità, elevi le ambizioni e il calibro delle parole. Al contrario, riduce responsabilità, ambizioni e calibro

LEGGERSI le due paginette con le quali la Giunta per le immunità del Senato dichiara non processabile il collega Calderoli, che diede dell’orango a Cécile Kyenge, è utile per capire quanto lo spirito corporativo vincoli tra loro gli esponenti politici, o gran parte di loro, ben al di là di quanto le idee possano dividerli. La discussa parola “casta” risuona, in casi come questo, con indiscutibile efficacia, lampante come un autoscatto.
COMPRESI gli esponenti di Giunta del Pd, che si sono arrampicati sugli specchi pur di difendere il diritto di Calderoli di dire quello che ha detto pagandone zero conseguenze; ed esclusi quelli del Movimento Cinque Stelle, che hanno votato per l'autorizzazione a procedere.
In quel breve e non elevatissimo dibattito tutto fa brodo, dal «diritto di satira» alle «battute umoristiche» alle «critiche, anche con locuzioni aspre, a un avversario politico» al «contesto meramente politico » al fatto che «le dichiarazioni sono state estrapolate da un contesto più ampio », pur di sottrarre la frase razzista del collega Calderoli ad altro giudizio che non sia quello, piccolo e conciliante, dei colleghi di Calderoli. Dare della scimmia a una donna italoafricana, in pubblico e davanti a centinaia di persone, non può essere imputabile di «diffamazione aggravata da finalità di discriminazione razziale» perché Calderoli disse quelle cose nel pieno delle sue funzioni di parlamentare.
Non credo che la Giunta e i suoi membri si rendano conto fino in fondo di quanto quel meccanismo di difesa sputtani gravemente proprio quelle “piene funzioni parlamentari” usate come ombrello protettivo e come comodissimo alibi. Perché se ne deduce che la parola politica, proprio perché politica, può essere tranquillamente sciatta o sozza o insultante con fiduciosa irresponsabilià, tanto ci sarà sempre una Giunta di colleghi che provvede a zittire chiunque, querelante o magistrato, voglia chiederne conto. Patetico chi pretende che rappresentare il popolo e fare parte delle istituzioni aumenti le responsabilità, elevi le ambizioni e il calibro delle proprie parole. Al contrario, diminuisce responsabilità, ambizioni e calibro: perché se dai della scimmia a una persona di pelle scura da normale cittadino rischi una querela (il Papa direbbe: uno sganassone). Ma se lo fai da Calderoli, o da collega di Calderoli, puoi stare sereno, non rischi assolutamente niente. L’indimenticabile leghista Speroni, del resto, nella pausa di un dibattito televisivo di parecchi anni fa, mi disse, con ammirevole sincerità: «Guardi, io sono volgare perché rappresento elettori volgari. E questa è la democrazia ». Una visione della rappresentanza, e della politica in toto, che non avrebbe avuto molto successo ad Atene (quella di venticinque secoli fa).
Si capisce che la questione della libertà di parola, in specie della parola politica, è grande; complicata; non certo risolvibile con un paio di querele o, al contrario, con un paio di non-autorizzazioni a procedere. Ma almeno sul piano dell’esempio ci si aspetterebbe che la classe dirigente di un paese europeo pretendesse, da se stessa, un minimo sindacale di compostezza e di decenza. Quante ne bastano per capire che dare dell’orango a una donna italoafricana è una schifezza proprio perché «nel pieno esercizio delle proprie funzioni politiche». In questo senso no, la Giunta per le autorizzazioni non fa pensare alla classe dirigente di un paese europeo.

il Fatto 6.2.15
Toh, un’idea nuova: il Ministero del Sud
di Antonello Caporale


Toh, chi si rivede! Nientemeno che il Ministero per il Mezzogiorno. Sepolto sotto le macerie di Tangentopoli è ricomparso all’improvviso, come un fantasma della storia patria, per una questione di poltrone e poltroncine. Matteo Renzi deve sostituire al ministro degli Affari Regionali Carmela Lanzetta, che ha licenziato due settimane fa. Alla Lanzetta aveva dato un portafoglio di niente. Diciamoci la verità: più che un ministero era un effetto ottico, un modo per allungare una sedia e fare ciao.
OGGI, invece, si vorrebbe far divenire quell’ufficio preziosa merce di scambio, mezzo utile per far defluire potere dalle mani di chi non è più nel primo livello del giglio magico. La gestione del flusso dei fondi europei che sono destinati alle aree sottosviluppate del Paese (i cui quattro quinti si trovano a Sud) è l’incarico a cui, con una fortuna altalenante, si è finora cimentato Graziano Del-rio, sottosegretario alla presidenza. Nel piccolo intervento di chirurgia plastica Renzi dovrebbe alleggerirgli l’incombenza e, lavorando per sottrazione, ridurlo a semplice fante. Da qui l’invenzione: un bel Ministero per il Mezzogiorno a cui spostare risorse e competenze, come ai bei tempi. In tema di revival democristiano l’idea è veramente geniale, perchè ci riporta indietro ai Remo Gaspari e Ciriaco De Mita, a Riccardo Misasi e Carlo Donat Cattin, Salverino De Vito e Giovanni Goria. Il Pantheon dello scudocrociato che questo Parlamento, per più di un terzo sotto la soglia dei quarant’anni, ha letto (se ha letto) sui libri di storia contemporanea. La perfezione è raggiunta perchè dal novero delle (pochissime) cose buone fatte dal governo di Mario Monti vi era il Ministero per la Coesione territoriale, il termine esatto per indicare che non esiste sviluppo senza equità, non esiste Nord senza Sud, non c’è l’Italia senza gli italiani. Quel ministero è stato retto egregiamente da Fabrizio Barca, un tecnico che nella sua vita non ha fatto altro che costruire mappe, monitorare la quantità e la qualità dei flussi. Invece niente. Saltando all’indietro nel tempo, Barca è andato sott’acqua, e il Mezzogiorno – inteso come Ministero – è tornato in auge. Matteo Salvini se l’è cavata con una battuta non propriamente sapida, come invece il suo lessico imporrebbe, stante forse il desiderio di penetrare nel cuore dei sudisti, ora amiconi ed ex terroni sudici: “Se ne sentiva proprio la necessità! ”, ha ironizzato. Romano Prodi, la cui biografia è legata alla Cassa per il Mezzogiorno, altra ferraglia storica, ha subito puntualizzato: “Se non ha coordinamento (cioè la gestione del portafogli) diventa un dicastero di serie B. In caso contrario è estremamente utile”. Dire che del Mezzogiorno a nessuno frega più nulla è poco. È stata azzerata la questione meridionale, tema delegato oramai a saggisti (uno su tutti: Pino Aprile), e definitivamente statuita la inutilità di approfondire il tema del sottosviluppo. C’è una data utile che segna il crac politico: il terremoto dell’Irpinia (23 novembre 1980). L’Italia assiste a un flusso possente di danaro (la cifra non è conosciuta nella sua esattezza ma per dimensioni è biblica, più di sessantamila miliardi di lire) che invece di restituire decoro e sviluppo nei territori martoriati risulta una passerella macroscopica di devianze e abusi.
INIZIANO le campagne giornalistiche (ricordate l’Irpiniagate?) e su quelle salta la nascente Lega di Umberto Bossi: il primo manifesto leghista raffigura il Nord, nelle sembianze di una mucca che viene munta e un Sud che ingordo beve. Lo scandalo politico che ne segue, insieme alle rendite di posizione di singoli califfati meridionali, rende defunta la questione. Viene cancellato il Sud e piuttosto disonorati i meridionali. In un bel libro (Leghisti & sudisti, Laterza) Isaia Sales, uno dei più lucidi meridionalisti, spiega come il carburante leghista è frutto tipico del malgoverno a conduzione Dc-Psi. Nel tempo che segue, una sciagurata legge, la 488 del 1992, produce altri sprechi.
IMMAGINATA per dare un aiuto alle imprese, diviene una strabiliante cassa a cui migliaia di questuanti chiedono di partecipare. Decine di inchieste, decine di libri raccontano lo strazio di soldi buttati a mare, dilapidati in un arraffa-arraffa. Aree industriali brulle, capannoni vuoti, falsificazioni di fatture, arresti e processi. Pier Luigi Bersani, ministro dell’Industria del primo governo Prodi, decide giustamente di mandarla al macero. Eppure la Cassa per il Mezzogiorno, il fortino economico da cui poi discenderà il Ministero per il Mezzogiorno, è stata un’idea saggia, iniziativa deliberata da De Gasperi nel 1950. L’Italia del dopoguerra non riusciva ad essere unita senza dare un po’ di pane a intere popolazioni affamate. E tra il 1960 e il 1970 formidabili opere di ricostruzione territoriale (acquedotti, strade provinciali, i primi consorzi industriali) sono servite a tenere in vita il Sud, spolpato da ogni suo avere, e costretto, negli anni della rivoluzione industriale, a fare la valigia per Milano o per Torino.

Corriere 6.2.15
L’ultima chiamata per i tagli delle auto blu
Cinque il numero massimo previsto per ministero, a parte i mezzi usati dal titolare del dicastero. I tentativi di resistenza e la stretta decisa da Marianna Madia
di Gian Antonio Stella

qui

il Fatto 6.2.15
Toscana
Il candidato unico Rossi traballa. I renziani ora vogliono Parrini
di Da.Ve.


IN TOSCANA la partita per le regionali è quanto mai aperta. Il presidente uscente Enrico Rossi è il candidato governatore per il Partito democratico, ma nonostante manchino pochi mesi al voto la situazione è tutto fuorché definita. Per carità: Rossi si è detto anche disponibile a partecipare alle primarie ed è forte di una investitura ricevuta da Matteo Renzi a Forte dei Marmi lo scorso agosto. Ma da allora molto è cambiato. Il Pd si è spaccato anche in Toscana, non solo a Roma, e i renziani vorrebbero riuscire a spodestare Rossi (fino a pochi mesi fa a dir poco critico nei confronti del premier) e sostituirlo con Dario Parrini, segretario del partito regionale, deputato fedelissimo al verbo del Capo di Rignano. Rossi deve inoltre gestire la grana tra Fidi Toscana e Chil Post, società di Tiziano Renzi che ha beneficiato di coperture dalla finanziaria regionale. La confusione vige anche in casa degli avversari: Forza Italia e Lega Nord non hanno ancora espresso un candidato né deciso le alleanze. Unica certezza: la corsa di Giovanni Donzelli, capogruppo in Regione e candidato governatore per Fratelli d’Italia.

il Fatto 6.2.15
Carrai strappa la poltrona all’aeroporto di Pisa


IL PRESIDENTISSIMO. Questione di poco. Ormai la fusione tra l’aeroporto di Pisa e quello di Firenze è cosa fatta. E soprattutto è assicurato che la “Toscana aeroporti” sarà presieduta da Marco Carrai, il manager preferito dallo schema renziano. Una fusione sulla quale ieri si è espresso anche il Comune di Pisa, nonostante le resistenze da parte dei lavoratori che a una società unica non credono per niente. Ma anche in questo caso per Renzi si tratta di una vittoria: mettere il suo uomo alla guida di uno degli aeroporti nazionali più importanti (Pisa è il decimo scalo per numero di passeggeri) vuol dire anche superare una questione di campanilismi. Ma soprattutto farà bene all’aeroporto di Firenze che gode di traffico e ottima salute, ma non potrà mai arrivare ai numeri di Pisa vista la posizione tra la montagna e l’autostrada che non permette sviluppo. Il Vespucci naviga sui 130 mila passeggeri all’anno e il mercato è quasi saturo visto che possono atterrare solo alcuni aerei. L’unica cosa certa è che Carrai, comunque vada, intasca l’ennesima poltrona.

Corriere 6.2.15
Eterologa senza donatrici, le cliniche estere arrivano in Italia
A Milano l’ambulatorio di un istituto di Barcellona:
«Figli in provetta senza dover più affrontare i viaggi»
di Simona Ravizza


MILANO I manager della provetta stranieri iniziano a farsi largo in Italia dove — a dieci mesi dalla sentenza della Corte Costituzionale — la fecondazione eterologa non decolla. Il problema è l’assenza di donatrici. Un ostacolo che le nostre istituzioni non hanno risolto. Questioni etiche. Per trovare donne disposte a donare i propri ovuli (sottoponendosi a pesanti trattamenti ormonali e a un intervento chirurgico per il prelievo), bisognerebbe riconoscere un premio di solidarietà. Un rimborso in denaro che copra almeno le giornate perse. Ma la soluzione è contestata da chi teme di creare, in questo modo, lo sfruttamento delle donne in difficoltà economiche.
È una situazione di caos che favorisce le cliniche estere, pronte ad allargare il business in Italia. A Milano, in pieno centro, ha appena aperto un ambulatorio spagnolo. È l’Institut Marquès di via Pallavicino, costola dell’omologa clinica di Barcellona, alla quale si rivolgono duemila coppie italiane all’anno. L’istituto offre un programma chiamato « Just for transfer », che prevede lo svolgimento a Milano delle visite mediche, delle ecografie di controllo e soprattutto del congelamento del campione di seme che viene spedito al laboratorio di Barcellona, dove sarà poi fecondato con gli ovociti donati dalle spagnole. Così le pazienti dovranno recarsi a Barcellona, solo per poche ore, per il trasferimento degli embrioni.
Il costo? L’Institut Marquès, contattato dal Corriere , non ha risposto alla domanda, ma verosimilmente la cifra si aggira tra i duemila e i tremila euro, in linea con i prezzi di mercato della fecondazione eterologa fuori dagli ospedali pubblici. «Considera che se esegui il trattamento nella nostra clinica di Milano puoi viaggiare e tornare da Barcellona il giorno del transfer e non c’è bisogno di passare la notte in un hotel — si legge sul sito internet —. Secondo i nostri ultimi studi, il riposo dopo il transfer non è necessario né aumenta le possibilità di gravidanza. Per questo, puoi volare al mattino da Milano o qualunque altra città e tornare comodamente a casa la sera, con voli diretti a meno di 100 euro».
Secondo i dati della Società europea di riproduzione la Spagna è il Paese nel quale si realizzano più donazioni, fatte soprattutto da studentesse per pagarsi l’università. «È un atto di solidarietà. Ma è permesso un compenso economico, per coprire le spese di mobilità, assenza dal lavoro, eccetera — si legge sempre online —. Noi riconosciamo 900 euro. Le donatrici di ovuli si assegnano in base anche alle caratteristiche fisiche della coppia ricevente».
Con la sentenza del 9 aprile 2014 la Corte costituzionale ha fatto cadere il divieto di eterologa anche per limitare i viaggi della speranza all’estero, con l’obiettivo di evitare la discriminazione tra chi può economicamente permetterseli e chi no. I viaggi, in effetti, non servono più (o quasi). Ma, forse, il risultato che la Consulta si augurava non era esattamente quello di oggi.

La Stampa 6.2.15
Crisi economica, disturbi mentali in aumento
Il futuro che appare nero ha fatto aumentare sensibilmente i casi di disturbo mentale
Se ne parlerà al congresso della Società italiana di psicopatologia dal 23 febbraio a Milano
di Nicla Panciera

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La Stampa 6.2.15
Porno dipendenza
Se la sessualità domina gli altri bisogni
di Paolo Mancino
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La Stampa 6.2.15
Università, pioggia di 'promozioni'
Da Bologna alla Sapienza gli atenei assumono i prof associati e ordinari soprattutto attraverso le procedure valutative riservate a chi già lavora all'interno della struttura invece di servirsi dei bandi selettivi aperti ad esterni
di Flavia Amabile

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Repubblica 6.2.15
Gli sprechi. I furbetti del gettone “Consiglieri riuniti per parlare di salviette”
Commissioni che durano un minuto, sedute fantasma o su temi pretestuosi
Da Agrigento a Bari, da Torino a Palermo, tutti i trucchi dei politici locali per aumentarsi lo stipendio
di Antonio Fraschilla


ROMA A Torino la Guardia di finanza ha consegnato una corposa relazione che accusa alcuni consiglieri di circoscrizione di aver fatto finta di essere presenti alle riunioni. A Gravina di Puglia diciassette consiglieri comunali incrociano le dita e sperano di non essere rinviati a giudizio la prossima settimana perché accusati dalla procura di Bari di essere i furbetti delle commissioni, cioè di aver intascato il gettone per non fare nulla. Ad Agrigento invece le Fiamme gialle hanno fatto irruzione in Comune al grido di «dateci i dati sui lavori delle commissioni fatte» sospettando che in quelle 1.133 sedute registrate anche a Natale, con annessi gettoni per 300 mila euro, si sia solo perso tempo. Agrigento e Gravina distano quasi duemila chilometri da Torino, ma da Nord a Sud il malcostume degli acchiappa gettoni sembra diffuso. Non a caso il costo complessivo dei consigli comunali rimane sempre a quota 558 milioni di euro all’anno, al di là di spending review e di tagli ai costi della politica annunciati: alla fine tutti cercano di raggiungere il massimo dello stipendio consentito, partecipando a più sedute di consigli e commissioni possibili. Per evitare di perdere troppo in busta paga fioccano le convocazioni di riunioni di commissioni. Ad Agrigento i cittadini sono scesi in piazza per protestare contro i consiglieri comunali apparentemente più stakanovisti d’Italia, che però oltre alle riunioni non hanno prodotto un solo atto degno di nota, ma a Bari si punta a eguagliare il record dei siciliani. Nel Comune pugliese negli ultimi quattro mesi si sono svolte 50 sedute di commissioni a settimana, 220 al mese. A questo ritmo supereranno le 2 mila convocazioni in un anno surclassando Agrigento. I consiglieri pugliesi per ogni seduta ricevono un gettone di 72 euro lordi, che al mese diventano 2.400 euro. Certo, per giustificare le sedute gli ordini del giorno devono essere tanti e spesso si va quasi di fantasia: a Bari la commissione Pari opportunità si è riunita per affrontare il tema del cani randagi, quella all’Ambiente ha pensato bene di ascoltare un gruppo di medici per affrontare l’annosa questione dell’influenza stagionale. Loro però non si riuniscono il sabato a differenza dei colleghi palermitani. Qui i consiglieri lo scorso anno si sono riuniti il sabato per ben 157 volte facendo scattare, oltre al gettone, anche il rimborso al datore di lavoro per l’assenza.
In anni di tagli imperanti alcuni Comuni hanno annunciato con gran clamore di aver ridotto il numero delle commissioni consiliari. A Massa le hanno sì ridotte, tagliando il gettone ma aumentando il numero di componenti, mentre a Campobasso è stata bocciata la proposta di «garantire il gettone solo a chi partecipa alle commissioni per almeno i due terzi della riunione ». Quello di firmare la presenza e poi volatilizzarsi sembra essere d’altronde un’usanza molto “comune”. A Genova sono stati costretti a mettere i badge per registrare le presenze dopo che Repubblica aveva sollevato il caso «del consigliere comunale che si è presentato alla seduta della commissione alle 14,48 e ne è uscito alle 14,49 senza neppure togliersi il casco della moto». A Pescara i 5 Stelle la scorsa settimana hanno invece denunciato il caso di un consigliere che «durante due commissioni entrando alle 10,40 ha segnato sul registro le ore 10 per poter giustificare l’assenza dal lavoro per un’ora»: «Dopo la nostra denuncia — dice la capogruppo Enrica Sabatini — adesso l’orario d’ingresso viene scritto dal segretario. Ma basta un minuto di presenza per intascare il gettone, come nelle giostre ».
Chiaramente se i cugini più grandi danno questo esempio, i più piccoli non possono essere da meno. Ed ecco così che a Torino la Guardia di finanza sta indagando per le riunioni fantasma delle circoscrizioni. Da Nord a Sud, dove a Bari i consigli dei Municipi hanno chiesto e ottenuto di poter istituire anche loro delle mini commissioni speciali. A Palermo invece una circoscrizione si è riunita perfino il 13 e il 19 agosto per discutere mozioni come quella, dal titolo abbastanza oscuro, «salviette e asciugamani nell’apposito contenitore ». Argomenti irrilevanti per circoscrizioni che non hanno alcuna competenza, visto che il Comune non ha mai assegnato loro alcuna funzione. Ma qui i consiglieri di circoscrizione possono dire a gran voce di essere i più pagati d’Italia: grazie alle tante sedute convocate arrivano a un compenso lordo mensile di 1.351 euro, più dei colleghi dei Municipi di Roma. A Palermo si guadagna pure per chiacchierare un po’.

Repubblica 6.2.15
Luci ed ombre dell’anticorruzione
di Gianluigi Pellegrino


È UNA mediazione con buone luci ma ancora qualche ombra di troppo, quella annunciata ieri dal governo sull’anticorruzione. Alcune soluzioni eccellenti ma anche grosse voci rimaste in sospeso. Al ritorno senza eccezioni della perseguibilità di ufficio del falso in bilancio, fa da stonato contraltare il dubbio su residue soglie di punibilità. All’eccellente introduzione di sconti di pena a chi collabora con la giustizia, fa da eco deformata l’ennesimo rinvio di una riforma della prescrizione.
Pur fuggendo da demagogiche generalizzazioni, e mai abdicando ad una cultura delle garanzie e dell’equilibrato uso del diritto penale, in ogni sistema oggettivamente esposto alla piaga corruttiva il legislatore ha soprattutto il dovere di dare segnali chiari. Il che è l’esatto opposto di quanto avvenuto nel ventennio che abbiamo alle spalle dove la legislazione ad personam ha fatalmente portato con sé messaggi ed interventi normativi sostanzialmente criminogeni. Non a caso è stato all’esito di questo sventurato percorso che si è registrata l’esplosione della corruttela italiana, dal piccolo al grosso cabotaggio. Con effetti che si badi bene non sono solo sullo scivolamento etico del paese (il che già basterebbe), ma direttamente sull’economia e sulla concorrenza, come hanno puntualmente ricordato Mattarella al suo insediamento e proprio ieri alla sua presenza, il presidente del Consiglio di Stato, aprendo l’anno giudiziario.
Ecco allora che ricostruire il paese vuol dire anche ricucire quelle ferite nell’ordinamento, come le misure annunciate ieri da Orlando cominciano a fare, ma soltanto in parte. Sarebbe senz’altro sanata l’assurda depenalizzazione del falso in bilancio che come noto, con la creazione dei fondi neri, costituisce l’anticamera delle pratiche corruttive. Qui infatti le linee dell’intesa annunciate dal ministro segnano la svolta che si attendeva dove si esclude qualsivoglia limitazione alla perseguibilità di ufficio di quel reato. E però il verso giusto non sembra garantito anche sul necessario superamento delle contestate soglie di punibilità che peraltro evocano la brutta pagina della norma fiscale sul tre per cento. Sarà sul punto decisivo il testo dell’articolato, atteso che tutto si gioca sulle specifiche previsioni. E sappiamo come il diavolo si annidi nei dettagli.
È mancato il coraggio sufficiente a convenire sull’introduzione dell’agente provocatore (il finto corruttore per stanare il corrotto), anche se particolarmente qualificante e si spera definitivamente acquisita è l’introduzione di un sistema che incentiva la collaborazione nelle inchieste. E’ il richiamo di uno degli strumenti — sconti di pena per i pentimenti documentati — che meglio ha consentito di svelare i sistemi delle organizzazioni criminali, quali non di rado sono le reti di sistematica corruzione.
È però sul fronte della prescrizione il buco maggiore. Sappiamo infatti che è lì l’altra grande ferita aperta dalla legislazione ad personam. Qui, qualche passo in avanti si registra in conseguenza degli aumenti di pena sui reati corruttivi che però è il modo meno convincente di affrontare il problema, che il ministro infatti ha dovuto rinviare al testo che è all’esame della Camera. Il giudizio resta quindi sospeso proprio su questa frontiera decisiva (la riforma della prescrizione) per l’efficacia deterrente delle pene e delle azioni repressive.
Segnali parziali quindi, sia pur di segno positivo perché almeno marcano un cambiamento di verso. Sempre se si sarà coerenti e conseguenti su tempi e contenuti in una direzione non più criminogena ma di necessaria severità contro una degenerazione che ha superato i fisiologici livelli di guardia. Certo è sventurato il paese che ogni legislatura ha una norma anticorruzione da approvare; il che peraltro si impone anche per qualche contraddizione di troppo in quelle precedenti varate sotto il manto protettivo della larghe intese, a partire dallo spacchettamento della concussione che è stato un ultimo colpo di spugna, peraltro ormai irreversibile almeno per tutti i processi in corso.
È probabilmente illusorio pensare che la corruzione si combatta per via normativa, ma un legislatore e un governo che almeno non diano segnali opposti o incerti, è senz’altro una condizione necessaria. A Renzi dimostrare che si può fare e presto, anche nell’anomala intesa con il centrodestra ex berlusconiano. Il resto, è il caso di dire, spetta all’amor proprio di una società, ad una reale cultura di mercato, alla dignità dei corpi intermedi e in definitiva ad ognuno di noi.

Repubblica 6.2.15
L’opacità del governo sui dipendenti pubblici
di Alessandro De Nicola


DO YOU remember Cottarelli? Sì, il bravo alto funzionario del Fondo monetario internazionale chiamato in Italia per approntare la mitica spending review. Ebbene, prima di ritornarsene a Washington qualche mese fa, con la più classica delle manovre promoveatur ut amoveatur , l’intrepido Commissario alla spesa aveva, nell’ormai lontano marzo 2014, presentato delle slide contenenti “Proposte per una revisione della spesa pubblica” per il triennio 2014-2016.
Si trattava di idee innovative e spesso severe che, pur non toccando le uscite per l’istruzione né il welfare state, ipotizzavano risparmi per 7 miliardi nel 2014, 18 nel 2015 e 34 nel 2016. Il lavoro si basava su 25 dossier elaborati grazie al contributo di studiosi e funzionari cui Cottarelli aveva chiesto di esaminare altrettanti comparti del settore pubblico. In alcuni casi vennero fuori numeri clamorosi, quali l’enorme spesa pubblica ferroviaria (in 20 anni 207,7 miliardi), in altri ci si fece almeno un’idea più precisa della longa manus dello Stato nell’economia italiana (le ormai famose 8.000 società partecipate dagli enti locali, per dire).
In una di questa slide, intitolata “La trasparenza della spesa pubblica”, inoltre, argomentando che la “pressione dell’opinione pubblica è essenziale per evitare gli sprechi”, si proponeva l’apertura al pubblico della Banche Dati delle Pubbliche Amministrazioni, dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, del Mef sulle partecipate locali, della società pubblica Sose sui costi standard (apertura avvenuta solo parzialmente).
Il principio generale sottostante era che «tutto deve essere disponibile on line tranne quello che è esplicitamente designato come strettamente confidenziale per motivi ovvi».
Il Commissario, oltre che bravo economista, aveva evidentemente doti di preveggenza.
Invero, dopo il suo ritorno negli Stati Uniti, il governo sembra essersi completamente dimenticato della spending review e appare semmai più concentrato a “mediare” tra i Greci desiderosi di ottenere il perdono per la loro futura insolvenza e la Germania i cui elettori giustamente non perdonerebbero altri salvataggi a loro spese.
Fortunatamente qualcuno non si è dimenticato dei 25 dossier e, prima sui social network e poi in modo ufficiale, è partita la richiesta di prenderne visione, per capire quali esplosive rivelazioni essi contenessero.
Nello specifico, uno dei promotori dell’Iniziativa Foia (per far adottare una legge simile al Freedom of Information Act americano anche in Italia) ha inviato una richiesta alla Presidenza del Consiglio dei ministri per avere accesso al misterioso “Fascicolo Cottarelli” e ha ricevuto la seguente risposta «Questo Dipartimento, contrariamente a quanto affermato nella istanza, non possiede gli atti richiesti, non avendo peraltro competenza in materia» poiché «il Commissario straordinario si avvale delle risorse umane e strumentali del ministero dell’Economia e delle Finanze”. Armato di santa pazienza, il richiedente si è rivolto al Mef, che per bocca del portavoce del ministro ha così risposto: «Non ci è possibile procedere a quanto da lei richiesto in quanto la documentazione di cui richiede l’accesso non è in nostro possesso, non facendo parte il Commissario alla spending review di questo Ministero».
Si potrebbe definire una classica situazione kafkiana se non fosse che l’autore praghese descrive frangenti surreali e drammatici, mentre da noi il tocco è sempre quello della farsa, «la situazione è grave ma non è seria» avrebbe detto Ennio Flaiano.
Ebbene, a prescindere dal corto circuito sulla spending review, la questione in Italia è anche normativa. Difatti, secondo la nostra legislazione non esiste, come in altri paesi occidentali, un diritto soggettivo, costituzionalmente garantito, all’accesso a tutti gli atti promananti dalla pubblica amministrazione salvo le eccezioni relative a sicurezza nazionale, ordine pubblico, privacy e così via. Da noi, il Decreto sulla trasparenza del 2013, pur avendo migliorato la situazione precedente, prevede tale diritto di accesso solo per quegli atti che la pubblica amministrazione è obbligata ex lege a pubblicare. In altra parole, se non c’è una norma apposita che prevede la pubblicazione di una determinata tipologia di documenti, la PA è libera di decidere cosa fare. Poiché le zone grigie sono ampie, l’obbligo viene inteso in senso restrittivo e al povero cittadino è solo concesso fare ricorso (con un procedimento lungo e farraginoso) nel caso abbia un interesse «diretto, concreto ed attuale » all’esibizione del documento, vale a dire sia titolare di una posizione giuridica tale che lo legittimi alla sua visione. Per di più, nei casi in cui l’amministrazione non sia tenuta alla pubblicazione, le richieste di accesso non sono ammissibili quando «preordinate ad un controllo generalizzato all’operato delle pubbliche amministrazioni », garantendo così l’opacità di tale operato. Né nessuno può costringere i ministeri a cooperare con le giuste richieste dei cittadini inermi di fronte ai meandri burocratici: il ping-pong presidenza del Consiglio — Mef ne è la prova.
Per fare un altro esempio di attualità, insieme all’invio degli auguri per la nomina a presidente dell’Inps, a Tito Boeri è stato chiesto di mettere a disposizione sia i dati storici dell’Inps (dopo adeguata anonimizzazione) necessari a calcolare i tassi di rendimento dei contributi pensionistici dei pensionati attuali e futuri, sia la posizione individuale di ciascun iscritto all’Istituto. La domanda da porsi è: com’è possibile che informazioni di così evidente interesse pubblico ed individuale siano ad oggi celate?
Insomma, così come auspicato da Cottarelli, l’approvazione di una legge che imponga una vera trasparenza alla nostra burocrazia è necessaria per migliorarne l’efficienza, combattere abusi e corruzione, rispettare i diritti degli individui. Lo aveva capito uno dei più grandi giuristi del XX secolo, il giudice costituzionale Louis Brandeis, il quale affermò: «La luce del Sole è considerata come il migliore dei disinfettanti; la luce elettrica il miglior poliziotto». Approfittiamone ora che il petrolio costa poco.
adenicola@ adamsmith. it
Come auspicato da Cottarelli, l’approvazione di una legge che imponga una vera trasparenza alla nostra burocrazia è necessaria per migliorarne l’efficienza, combattere abusi e corruzione

La Stampa 6.2.15
Francesco il primo Papa al Congresso Usa
Il 24 settembre parlerà a una sessione congiunta. Non era mai successo nella storia

qui

Corriere 6.2.15
Il debutto in usa del papa che darà molti frutti
di Luigi Accattoli


Un Papa in un Parlamento è cosa rara e mai nessun Pontefice aveva messo piede nel Congresso degli Usa, dove il 24 settembre Francesco parlerà ai due rami riuniti in seduta comune. Si tratterà d’una prima volta che avrà un ruolo di levatrice per visite ad altri Parlamenti, contribuendo al superamento su scala planetaria di residue pregiudiziali anticattoliche e antipapali. Pare che fino a oggi le visite di un Papa a un Parlamento siano solo tre e tutte motivate con ragioni di patria: Wojtyla parlò al Parlamento polacco nel 1999 e al Parlamento italiano nel 2002 (Italia come sua «nuova Patria»), Ratzinger a quello tedesco nel 2011.
Una ragione di patria è stata invocata dal presidente della Camera Bassa statunitense John Boehner nel formulare l’invito al Papa argentino in quanto «primo Papa delle Americhe». Ma resta un dato di novità sostanziale: con questa visita un Papa si indirizza a un Parlamento senza una titolarità specifica di appartenenza nazionale, sia nativa sia acquisita.
Quanto all’interesse dei Papi a rivolgersi ai Parlamenti esso è analogo a quello che li ha fatti ospiti già per quattro volte dell’Assemblea delle Nazioni Unite (Montini 1964, Wojtyla 1979 e 1995, Ratzinger 2008) e per due volte del Parlamento europeo (Wojtyla 1988, Bergoglio 2014): la Chiesa si ritiene «esperta in umanità» — come disse all’Onu Paolo VI — e coglie ogni possibile occasione per proporre il suo messaggio a qualificate rappresentanze di popoli e dell’intera comunità internazionale.
Anche Francesco, il Papa dei poveri e delle periferie, ha interesse a rivolgersi ai Parlamenti e alle capitali della politica mondiale. «Andare verso i poveri non significa che dobbiamo diventare una sorta di barboni spirituali» ha detto il 17 giugno 2013 parlando alla diocesi di Roma. Né ebbe difficoltà il marzo dell’anno scorso a celebrare in San Pietro per i nostri parlamentari, svolgendo una severa denuncia della lontananza dei politici dal popolo.

il Fatto 6.2.15
Il “doppio sculaccione” di Papa Francesco
di Marco Politi


Calci, pugni e sculacciate. Papa Bergoglio in questo primo scorcio del 2015 sembra assomigliare più a Bud Spencer che al mite Francesco, pontefice della tenerezza. Aveva iniziato a gennaio, ammonendo (in riferimento agli insulti satirici contro il sentimento religioso, vedi Charlie Hebdo) che se uno “dice una parolaccia alla mia mamma, si aspetti un pugno”. Poi, di ritorno da Manila, il Papa aveva confessato la sua tentazione – ai tempi di Buenos Aires – di dare un calcione “là dove non batte il sole” a un faccendiere, presentatosi con l’offerta di una donazione da 400.000 dollari da spartire a metà.
MERCOLEDÌ SCORSO Francesco ha elogiato un padre, che gli ha raccontato che “ogni tanto devo picchiare un po’ i figli, ma mai in faccia per non avvilirli”. Mimando la sculacciata, il Papa ha benedetto chi punisce, “fa il giusto e va avanti” (senza offendere la dignità del figlio, ha aggiunto). Plaude don Mazzi, perché il pontefice “usa un linguaggio che usiamo tutti noi… non è mai artificiale o artefatto… e parla come parlerebbero i nostri padri”. Dissentono quanti negano la pedagogia del ceffone.
Si era pensato che, quando Francesco in aereo aveva esposto ai giornalisti l’immagine del pugno, si trattasse di uno scivolone. Invece il nuovo linguaggio pare riflettere una strategia per scuotere la terminologia del politically correct, allontando da sé ogni sospetto di buonismo liquoroso e cominciando a porre interrogativi scomodi. Se la libertà di satira è un diritto assoluto, è giusto porsi anche la domanda delle reazioni che può provocare in situazioni infiammate? È noto che una parte della stampa anglosassone ha respinto le vignette di Charlie Hebdo, sentendosi altrettanto libera di criticare la forma della critica e dunque di non pubblicarle. Anche sul piano educativo Bergoglio mette in questione – con parole da parroco – l’ideologia pedagogica del “vietato vietare”, con il suo corollario “schiaffoni mai”.
Questione controversa, che spesso ha prodotto esiti contrastanti: i ribelli coccolati a oltranza in famiglia, dove tutto è permesso, il più delle volte posti a confronto delle rigide gerarchie sociali nel mondo reale strisciano davanti alle autorità o supposte tali. Fatto sta che Francesco continuerà a produrre sorprese.
SENZA METAFORE da palestra è invece la Lettera da lui inviata ai superiori delle congregazioni religiose e ai presidenti delle Conferenze episcopali, che esorta tutti a una maggiore energia contro gli abusi sessuali. Parole secche: “Non c’è assolutamente posto nel ministero per coloro che abusano dei minori… Non potrà, pertanto, venire accordata priorità ad altro tipo di considerazioni, di qualunque natura esse siano, come ad esempio il desiderio di evitare lo scandalo”. L’indicazione è precisa: il chierico colpevole “venga escluso (dal) ministero pubblico, se detto ministero è di pericolo per i minori o di scandalo per la comunità”.
Il documento papale ha due risvolti precisi per l’Italia. Impegna la Cei – che finora si è rifiutata di assumersi responsabilità nazionali – a un dovere di vigilanza e di controllo diretto su come vengono affrontati (o non affrontati) gli abusi nelle diocesi. E illumina di conseguenza la singolare inerzia della Cei e del Vicariato di Roma in un caso clamoroso di pedofilia.
Dal giugno 2008 si trascina la vicenda di don Ruggero Conti, titolare di una parrocchia in una diocesi suburbicaria di Roma, condannato in appello nel maggio 2013 per molteplici abusi a 14 anni e due mesi di reclusione. Conti attende il prossimo 12 marzo l’udienza in Cassazione, ma intanto è già scattata la vergogna della prescrizione per tre casi. Da oltre sei anni nessuna autorità ecclesiastica – né la Cei né il Vicariato di Roma (diocesi del Papa) né il vescovo Gino Reali superiore diretto di don Conti per la diocesi suburbicaria di Porto-Santa Rufina – ha mai comunicato quali sanzioni canoniche siano state prese contro il prete abusatore.
Alla luce della Lettera del Papa la Cei è ormai espressamente chiamata a rispondere della “verifica dell’adempimento” delle linee-guida emanate nel 2014. Scaricare tutto sulla Congregazione per la Dottrina delle fede, secondo la prassi attuale, non è più possibile.

Repubblica 6.2.15
Papa Francesco, il film
Luchetti: il mio Bergoglio è un uomo che ha sofferto
Incontro con il regista sul set del film che sta girando a Buenos Aires
Arriverà sugli schermi a fine anno, poi ci sarà una versione televisiva
“Più approfondivo la sua storia e più scoprivo un’esistenza tormentata che credo ne spieghi la forza comunicativa”
intervista di Silvia Bizio


BUENOS AIRES UNA strada larga e assolata nel quartiere La Boca di Buenos Aires, palazzi fatiscenti e in rovina i cui muri coperti di graffiti hanno dovuto essere ridipinti per farli tornare all’aspetto degli anni 70, tre camionette militari a sbarrare la strada a un autobus coloratissimo su cui l’allora prete gesuita Jorge Bergoglio viaggiava con un gruppo di passeggeri terrorizzati dalla violenza della dittatura argentina. Un posto di blocco il cui tragico ricordo segna ancora i volti delle decine di comparse che attendono pazienti il ciak. Il regista Daniele Luchetti è a Buenos Aires, alla terza settimana di riprese del film Chiamatemi Francesco su papa Bergoglio che arriverà sugli schermi a fine anno. L’idea è del produttore Pietro Valsecchi, che colpito dal grande senso di umanità del nuovo Papa, ha deciso di raccontarlo in un film per il grande schermo — cui seguirà la versione televisiva di 4 ore — affidando a Daniele Luchetti la sceneggiatura — scritta con l’argentino Martin Solinas — e la regia. Il film è una produzione di 10 milioni di euro della Taodue con Mediaset e Eatmovie, sarà girato in Argentina, Germania e a Roma.
A interpretare il Papa saranno il popolare attore argentino Rodrigo de la Serna (da giovane fino ai 50 anni) e l’attore cileno Sergio Hernandez. Accanto a loro le attrici argentine Mercedes Moran e Muriel Santana negli importanti ruoli di due donne che furono grandi amiche di Jorge Bergoglio: Esther Ballestrino Careaga, una delle fondatrici delle Madri della Plaza de Mayo, e Alicia Oliveira, la prima giudice donna in Argentina. «Non sapevo molto della vita del Papa prima» svela Luchetti «Ma più andavo a fondo nella ricerca più scoprivo una traiettoria esistenziale tormentatissima che spiega perché quest’uomo, alla fine del suo apprendistato, abbia toccato un livello di comunicazione e comprensione così alto verso gli altri. Forse perché è una persona che ha sofferto molto, e il film ipotizza questi tormenti, queste svolte».
Quali momenti della sua vita ripercorre il film?
«Il viaggio verso Roma è il filo conduttore. Il racconto parte da quando era un maestro a Santa Fe, e invitò Borges a fare lezione di letteratura ai suoi studenti. La parte centrale, la più ampia, è quella del periodo della dittatura argentina, e la terza parte segue la sua esperienza con la povertà fino al Conclave. A 37 anni diventa Provinciale dei gesuiti in Sud America, una carica importantissima, in piena dittatura, che gli dava il potere di parlare con i politici. Subito dopo la fine della dittatura viene mandato in Germania a completare gli studi, una sorta di punizione da parte della Chiesa, e ci mette parecchi anni prima di scalare di nuovo le vette del potere ecclesiastico e diventare cardinale di Buenos Aires».
Su quali fonti vi siete basati?
«Abbiamo svolto un’enorme ricerca storica, basandoci molto sui suoi stessi scritti, ma anche parlando con amici — e nemici — di Bergoglio. Abbiamo ripercorso la trasformazione non solo sua ma di un intero paese che era stato senza democrazia per tanti anni. La chiesa è stata messa di fronte a molte domande, con il ritorno della democrazia si è dovuta occupare di grandi sacche di povertà. Il clero latinoamericano si è scagliato con veemenza contro la ricchezza, la speculazione, il denaro, contro i falsi miti del materialismo. E’ una chiesa molto più progressista, quella sudamericana, di quella che conosciamo in Europa».
Che messaggio vuole trasmettere il suo film?
«Un messaggio molto semplice, racconto la vita di un uomo che è un personaggio straordinario. E attraverso la sua vita mi occupo persone che hanno avuto destini straordinari. Questa storia passa attraverso la tragedia dei desaparecidos, delle persone che venivano catturate, torturate e gettate vive dagli aerei. Storie che Bergoglio ha raccontato, in processi, interviste, esprimendo dubbi, la paura di non aver fatto abbastanza ma anche la consapevolezza di aver fatto moltissimo. Ha salvato delle persone, le ha tenute nascoste, ha parlato con i dittatori dell’epoca, con i vertici della chiesa che erano collusi con il potere, e ha fatto quello che ha potuto. Questa non è solo la biografia di un uomo che diventerà Papa ma anche di una nazione passata attraverso una violenza sconcertante».
Un Papa anche politico dunque?
«Sì. La crescita di un uomo che arriva a fare il Papa passa certo attraverso tappe spirituali. Ma in un paese preda di violente battaglie politiche, come era l’Argentina, quest’uomo deve prendere posizione, e Bergoglio lo ha fatto. Fin dal primo momento quest’uomo mi ha trasmesso emozioni fortissime, da quando ha parlato dei gay, tema che tocchiamo brevemente nel film, e ho capito che c’era in lui qualcosa di diverso».

il Fatto 6.2.15
Déjà vu
Diffamazione, la nuova censura
di Elisabetta Ambrosi


Chi ha pianto i morti di Parigi, e celebrato il funerale della libertà di stampa e di satira, dovrebbe con coerenza guardare ai tentativi di mettere sempre nuovi bavagli in casa nostra ai giornali e ai giornalisti che raccontano i fatti più sgraditi a chi detiene il potere. Ad esempio, al fatto che il Parlamento italiano si appresta a votare un testo di legge sulla diffamazione che, se approvato, limiterebbe ulteriormente la già circoscritta libertà di espressione nel nostro paese, nel quale col pretesto dell’accusa di diffamazione si riducono giornalisti sul lastrico e si fanno chiudere giornali (come raccontano la vicenda di Pino Cavuoti, che ha fatto una colletta per racimolare i soldi di un risarcimento, e del mensile storico La Voce delle Voci, che ha interrotto le pubblicazioni a seguito di una condanna).
L’ASPETTO più pericoloso della proposta riguarda l’importo delle sanzioni pecuniarie che sostituirebbero il carcere previsto dalla vecchia normativa (una misura chiesta da tempo immemore da tutti gli organismi internazionale). Possono arrivare a 50.000 euro e non sono commisurate alle dimensioni della testata né al reddito del giornalista. È evidente che una condanna costringerebbe alla chiusura piccole e medie redazioni indipendenti, cartacee e online, che spesso sopravvivono con entrate scarse o scarsissime, per non parlare degli effetti devastanti sulle esistenze dei singoli giornalisti, la maggior parte dei quali è chiamata a rispondere con il proprio patrimonio personale: sia perché gli editori non li coprono sia perché, essendo la diffamazione un reato, non potranno difendersi dalle conseguenze con un’assicurazione professionale di responsabilità civile finché non ci sarà la depenalizzazione invocata da tutte le istituzioni europee e ignorata dal Parlamento italiano.
Il secondo aspetto negativo che la proposta di legge introduce è un diritto di rettifica senza commento, cioè senza possibilità di replica o commento dell’autore dell’articolo o del direttore; terzo aspetto, l’introduzione di un generico diritto all’oblio che consente indiscriminate richieste di rimozione di notizie dal web a qualsiasi fonte informativa, sito, blog, motore di ricerca etc. Ma soprattutto la legge contrasta molto debolmente una tendenza sempre più diffusa, quella dell’uso intimidatorio della querela o della citazione per danni, norme che oggi permettono impunemente a querelanti pretestuosi di tenere sotto processo per anni i giornalisti senza fondato motivo, anche sul doppio binario civile e penale. Chi querela pretestuosamente, avanzando pretese di risarcimento anche di milioni di euro (che devono essere messe comunque a bilancio passivo da parte dei giornali) ottiene il suo scopo anche se alla fine il giudice gli dà ragione.
Contro il disegno di legge si è mobilitato un ampio fronte: chi lavora nel giornalismo e chi si occupa di libertà di informazione – come l’associazione Articolo 21, Ossigeno per l’informazione, l’Associazione Nazionale Stampa Online, Confronti, Valigia Blu, MoveOn, Usigrai, Libertà e partecipazione, Libera informazione e FNSI, Cgil, Cisl, e molti altri. “Questa proposta di legge è l’ennesimo provvedimento omnibus che introduce norme inadeguate o assolutamente deleterie nascondendole dietro il nobile obiettivo, di abolire il carcere, ”, spiega il giornalista Alberto Spampinato, direttore di Ossigeno per l’informazione, un’associazione che dal 2008 monitora i giornalisti minacciati in Italia.
“IL NOSTRO Osservatorio ha elencato negli ultimi sei anni 2100 intimidazioni a giornalisti, fra cui 850 querele pretestuose. Vari organismi internazionali hanno indicato numerose manchevolezze nel testo. Quanto alla rettifica senza commento, andrebbe almeno precisato che si vieta solo il commento contestuale, non i giorni successivi. Tutta la materia web e oblio, infine, andrebbe regolamentata in modo più serio, nell’ambito del diritto internazionale”. “Speriamo che i deputati – continua Spampinato – facciano le modifiche necessarie, anche se su alcuni aspetti non si può più fare nulla. Ma il governo ha l’obbligo di fare una legge giusta. Non dica che se ne sta occupando il Parlamento, perché quando si cambiano il codice penale e il codice civile, quando si modificano le norme su una libertà fondamentale, bisogna metterci la faccia. È giusto che chi sbaglia riceva una sanzione, ma in proporzione alle proprie possibilità e soprattutto non volta a impedire la possibilità di continuare a esercitare la professione”.

La Stampa 6.2.15
Tav, l’Antifrode Ue apre un fascicolo di indagine
Accolto l’esposto dei Verdi europei su un possibile conflitto d’interessi
di Maurizio Tropeano


Il numero del fascicolo dell’inchiesta che l’Ufficio europeo per la lotta Antifrode (Olaf) ha deciso di aprire sulla realizzazione della Torino-Lione è il 3995. La decisione di accendere un faro è legata all’esposto presentato dai due europarlamentari francesi (Michèle Rivasi e Karima Delli) su presunte irregolarità compiute dai vertici di Ltf, la società italo-francese incaricata degli studi e dei lavori preliminari alla realizzazione del tunnel di base. Secondo fonti di Bruxelles l’Olaf ha deciso di accogliere ed approfondire due dei rilievi presentati anche se le stesse fonti li definiscono «non drammatici».
Il conflitto di interessi
Uno dei due riguarderebbe il presunto conflitto di interessi da parte dei vertici di Ltf nell’assegnazione degli appalti. L’Olaf, adesso, ha sei mesi di tempo per chiudere le indagini. Nel caso venisse accertata l’esistenza di frodi il dossier potrà essere trasmesso alla giustizia dei due Paesi e la Commissione Europea potrà, almeno secondo quanto afferma l’europarlamentare Ravasi, interrompere i finanziamenti al progetto.
I fondi e la domanda
L’apertura dell’indagine da parte dell’Olaf avviene a pochi giorni dalla scadenza del termine per la presentazione da parte di Italia e Francia della richiesta di finanziamento europeo sulla tratta internazionale della Torino-Lione. Un progetto da 8,5 miliardi che l’Ue potrebbe finanziare al 40 per cento.
Il D-day è fissato per il 26 febbraio e due giorni prima, a Parigi, in occasione dell’incontro tra il premier Matteo Renzi e il presidente della Repubblica, François Hollande, i due governi dovrebbero approvare una risoluzione con la richiesta al presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Junker, di inserire la linea tra le opere prioritarie da realizzare nel piano di investimenti anti-crisi.
Un altro conflitto
A quell’appuntamento il governo italiano si dovrebbe presentare con l’approvazione del progetto definitivo della linea internazionale da parte del Cipe e con la nomina del direttore della società che dovrà realizzare il tunnel di base. Palazzo Chigi è intenzionato a nominare Mario Virano, attuale commissario di governo per la Tav e presidente dell’Osservatorio tecnico. Nomina contestata dal Movimento 5 Stelle che con il senatore Marco Scibona, parla di «un possibile conflitto di interesse tra controllato e controllore».
Per Monica Frassoni, co-presidente del partito Verde Europeo, e l’europarlamentare Karima Delli, però, l’intervento dell’organismo anti-frode dell’Ue cambia la situazione: «L’apertura di un’indagine è la prova che non si tratta di accuse, ma di fatti reali, che oltretutto pesano sul bilancio europeo». Secondo i Verdi «la gravità delle prove raccolte ha convinto l’Olaf ad indagare su questo progetto, cofinanziato da fondi Ue». Ecco perché «oggi più che mai, continueremo per vie legali a lottare contro questo progetto tanto costoso quanto inutile e useremo tutte le strade necessarie a raggiungere il nostro obiettivo».

La Stampa 6.2.15
E l’Italia conquista la Cina: in un anno export quintuplicato
Ma nonostante il boom restiamo un importatore netto
di Stefano Rizzato


È un mercato globale, in fondo. Come tutti gli altri. Anche il latte va e viene, attraverso i confini italiani, noncurante delle quote europee e del loro destino.
Viene importato soprattutto dai Paesi vicini, Germania in testa, per un totale di un milione e 800 mila tonnellate. E in quantità di gran lunga minore - 36 mila tonnellate in tutto - fa il tragitto inverso, esportato dal nostro Paese soprattutto verso Libia e Grecia.
Da qualche anno, però, c’è una novità: il latte italiano ha iniziato a seguire la rotta di Marco Polo. Un vero boom: dal 2011 al 2014, la Cina, diventando la terza destinazione mondiale, è passata da 33 a 4.307 tonnellate di latte italiano importato, con un aumento del 435% solo nell’ultimo anno.
Lo scandalo neozelandese
Il balzo in avanti è dovuto anche all’enorme scandalo del settembre 2013, quando il colosso neozelandese Fonterra fu costretto a richiamare mille tonnellate di latte in polvere adulterato, molte vendute proprio in Cina. Così, a rifornire Pechino, tra fine 2013 e inizio 2014, sono state anche alcune delle principali aziende italiane, da Sterilgarda a Centrale di Torino. A cui da poco più di un mese si è aggiunta Granarolo. «La Cina è il maggior acquirente mondiale di latte, soprattutto in polvere - spiega Daniele Rama, che dirige l’osservatorio sui prodotti zootecnici dell’Università Cattolica -. A rifornirla è principalmente la Nuova Zelanda, anche se ora Pechino si sta avvicinando al latte europeo e a lunga conservazione. In generale, sono i Paesi emergenti a far crescere la domanda». L’Italia è insieme produttrice, consumatrice ed esportatrice di latte. Il che, osserva Rama, «non è un paradosso, ma la normale logica di un mercato globale».
I concorrenti
A competere con il latte del nord Italia c’è quello delle regioni limitrofe, dalla Baviera al Rodano-Alpi, dove costa in media il 15 per cento in meno. «Tre quarti del latte italiano - chiarisce Rama - sono usati per produrre ed esportare formaggi dop. Il latte è un ingrediente fondamentale per fare un prodotto di pregio».
Il calo dei prezzi
Il 2014 ha visto però un brusco calo dei prezzi, che ha messo in agitazione i produttori. «Non so per quanto le stalle riusciranno a resistere», avvertiva il 15 gennaio il presidente di Coldiretti Lombardia, Ettore Prandini. «Gli sbalzi sono normali - commenta Rama - e oggi i prezzi stanno tornando a salire. Il 2014 è stato complicato perché, sulla scia dei prezzi più alti del 2013, si è prodotto di più e i prezzi hanno ripiegato verso il basso. Poi ci si è messo il blocco del commercio verso la Russia».
Non tutti i dati del 2014 sono però negativi. L’Italia ha venduto latte e panna all’estero per quasi 36 milioni di euro: poco meno del 2013 (37 milioni), ma ben più del 2011 (23 milioni). Al contrario, le importazioni sono calate: da oltre un miliardo di euro del 2013 a 809 milioni. E i nostri fornitori di latte - dietro alle solite Germania, Francia, Austria e Slovenia - arrivano ormai soprattutto dall’Est: Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia.

La Stampa 6.2.15
Obama ha detto sì: “Avanti con Internet per tutti”
Il presidente Usa spinge la Federal Communications Commission a riaffermare la “net neutrality”
La proposta è trattare i fornitori di accesso alla rete come quelli che distribuiscono elettricità, acqua o gas, cioè un bene che deve essere offerto a tutti allo stesso modo
di Paolo Mastrolilli

qui

La Stampa 6.2.15
Quella coalizione che non decolla: il Califfato ferito, ma non arretra
In sei mesi i jihadisti costretti a ritirarsi da solo l’1 per cento del territorio
Gli unici successi sono stati ottenuti dai curdi
Che cosa va cambiato per vedere i risultati?
di Maurizio Molinari

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Corriere 6.2.15
«Crocifissi o sepolti vivi: il Califfato tortura i bambini»
La denuncia choc dell’Onu
di Viviana Mazza


«I bambini delle minoranze etniche e religiose vengono uccisi sistematicamente dall’Isis: ci sono stati ripetuti casi di esecuzioni di massa, come pure notizie di decapitazioni, crocifissioni e di minorenni sepolti vivi». In un nuovo rapporto, il Comitato Onu sui diritti dell’Infanzia denuncia gli abusi cui sono sottoposti i bambini nei territori di Iraq e Siria sotto il controllo del «Califfato».
I 18 esperti chiamati a redigere il documento confermano così la situazione drammatica testimoniata nei mesi passati da inchieste giornalistiche, organizzazioni per i diritti umani, da altre commissioni delle Nazioni Unite nonché da video e immagini diffusi sui social media dagli stessi jihadisti. Le vittime sono soprattutto le minoranze, come yazidi e cristiani, ma anche sciiti e sunniti, spiega Renate Winter, una dei 18 membri del Comitato, già giudice della Corte speciale per la Sierra Leone.
Il rapporto denuncia anche la vendita dei bambini come schiavi, «esposti al mercato con i cartellini con il prezzo » (è stato osservato in passato che il prezzo più alto a Mosul è riservato a maschi e femmine di età compresa tra uno e nove anni) come pure «le violenze sessuali sistematiche» (in particolare la pratica della «muta’a», i matrimoni a tempo nell’ottica di costringere poi le ragazze alla prostituzione).
A volte i minorenni vengono rapiti oppure i genitori sono costretti a lasciarli nelle mani dell’Isis, ma possono essere anche i familiari jihadisti a coinvolgerli nella violenza. Con le manine agili fabbricano le bombe, le stesse con cui poi si fanno saltare in aria. «Abbiamo avuto notizia di bambini, specialmente bambini disabili, usati come kamikaze, probabilmente senza che capissero del tutto ciò che stava accadendo» afferma Winter. «C’è un video diffuso in Rete che li mostra, piccolissimi, dagli otto anni in giù, mentre vengono addestrati per diventare soldati». I filmati dell’Isis ostentano spesso l’indottrinamento di questi miniguerrieri con tanto di fasce da combattenti e kalashnikov. Appaiono accanto agli adulti non solo come spettatori ma anche come carnefici: famoso, ma certamente non unico, il caso di un miliziano arrivato dall’Australia con il figlio di sette anni, fotografato — quest’ultimo — mentre teneva in mano la testa di un uomo decapitato.
L’Onu denuncia infine che i bambini vengono usati dall’Isis come scudi umani contro i bombardamenti della coalizione a guida americana. Proprio ieri il «Centro di documentazione delle violazioni in Siria» ha diffuso un rapporto (non confermato dal Pentagono) secondo cui 60 persone (tra cui diversi minori) sarebbero state uccise nel nord della Siria il 28 dicembre in un raid su una prigione del Califfato. I 18 esperti chiedono al governo iracheno di «salvare i bambini», ma di fatto il loro destino è parte di una realtà di violenza sfuggita al controllo dei singoli Stati.

Repubblica 6.2.15
“Spose a 9 anni, mai all’università”

Il manuale delle giovani jihadiste
di E. F.


Una ragazza può sposarsi a nove anni e comunque entro i diciassette deve avere un marito e una famiglia. Può studiare, ma solo fino ai quindici anni. Deve stare lontano dalle tentazioni del demonio, come negozi di moda, parrucchieri e università, per concentrarsi sul compito di fare la madre e la moglie. È il “manuale della brava jihadista”: una specie di guida pubblicata dallo Stato islamico per spiegare che la vita nel suo territorio è un paradiso per le donne, perlomeno come lo intendono i più fanatici estremisti musulmani. È scritta da donne, tutte sostenitrici militanti dell’Is in Siria e in Iraq, appartenenti alle Brigate Khansaa, e si rivolge prevalentemente alle donne dell’Arabia Saudita o di altri Paesi del Medio Oriente intenzionate a unirsi al Califfato. Messo online dalle Brigate Khansaa, il manuale è stato tradotto in inglese da Quilliam, think tank antiterrorismo londinese, e riassunto dalla Bbc.

Repubblica 6.2.15
Il ministro degli Esteri tedesco
“Stiamo perdendo il controllo della crisi”
intervista di Katharina Tontsch e Armin Jelenik


SIGNOR Steinmeier, gli Stati Uniti ipotizzano di fornire direttamente armi letali all’Ucraina. Lei ritiene che tale opzione possa essere d’aiuto alla risoluzione del conflitto?
«Da oltre un anno combatto giorno per giorno insieme ai nostri partner, spesso anche intere notti, per disinnescare il conflitto nell’Ucraina orientale. Quest’esperienza mi porta ad affermare con certezza una cosa: una soluzione militare in questo conflitto non può esserci, almeno non se se si vuole mantenere l’unità territoriale del paese. Nessuno nega che nel nostro impegno a favore di una “de-escalation” si siano ogni volta dovuti incassare anche dei contraccolpi. Anche adesso la situazione è tornata ad essere esplosiva. Ma sperare che più armi servano a disinnescare la crisi non è in linea con quella che è la realtà dell’Ucraina. E nel caso peggiore nuovi armamenti non farebbero che prolungare ancora di più il conflitto sanguinario. Questa opinione, peraltro, viene condivisa da molti anche negli Usa».
Ma lei pensa che gli accordi di Minsk siano ancora salvabili?
«Non c’è alcun motivo di prendere distanza dagli obblighi che tutte le parti in causa — non solo l’Ucraina e la Russia, ma anche i separatisti — hanno sottoscritto nero su bianco. Avere un punto d’ancoraggio al quale le parti possono riferirsi è straordinariamente importante proprio in conflitti così complicati come questo, per non dover agire nel vuoto. Dal mio punto di vista sarebbe un atto di negligenza buttare a mare quel che era stato oggetto d’intesa solo perché la realizzazione non procede come ce lo immaginiamo noi».
L’Europa sta scivolando verso una nuova, grande guerra?
«Con il conflitto nell’Ucraina orientale in effetti è tornata ad affacciarsi la questione di guerra e pace sul continente europeo. Le persone hanno paura, e questa paura è anche più comprensibile di fronte alle immagini che quotidianamente ci raggiungono dall’Ucraina orientale. Proprio per questo dobbiamo agire con intelligenza e ragionevolezza, nella nostra azione dobbiamo essere capaci di pensare oltre l’orizzonte quotidiano. Dobbiamo fare tutto quello che è in nostro potere per evitare che questo conflitto vada completamente fuori controllo. Solo così potrà esserci una soluzione diplomatica». © Nürnberger Nachrichten

La Stampa 6.2.15
I misteri sauditi, l’11 settembre e l’ira degli Usa
di Paolo Mastrolilli


L’Arabia Saudita torna al centro delle polemiche, per quello che si sospetta abbia fatto in favore di Al Qaeda, e quello che non sta facendo ora per fermare l’Isis. La disputa nasce dalle dichiarazioni rilasciate in tribunale da Zacarias Moussaoui, secondo cui importanti principi sauditi avevano finanziato Al Qaeda. Vero o falso che sia, ciò sta rilanciando le richieste che il governo Usa pubblichi le 28 pagine del rapporto sugli attentati dell’11 settembre, che descrivevano il ruolo di Riad ma sono sempre rimaste segrete. La polemica però si allarga all’Isis, per il sospetto che abbia ricevuto aiuti dall’Arabia. I sunniti sauditi sono impegnati in una guerra per procura contro gli sciiti iraniani, e in questo quadro avevano interesse ad appoggiare l’opposizione che cercava di abbattere Assad, alleato di Teheran. Così avrebbero quanto meno chiuso un occhio sui finanziamenti inviati all’Isis da privati cittadini di Riad. Ora però la Giordania è stata attaccata, e la stessa stabilità dell’Arabia è minacciata dai terroristi. La speranza dunque è che il nuovo re saudita cambi linea e intervenga per fermare l’orrore.

Repubblica 6.2.15
Obama e la religione
“Anche nelle Crociate ci furono crimini orribili”
di Alberto Flores d’Arcais

NEW YORK Lo Stato Islamico è «una setta della morte» e «nessun Dio può tollerare il terrorismo». Al National Prayer Breakfast, il tradizionale appuntamento di preghiera multi-confessionale che da oltre sessant’anni (venne istituito nel 1953 dal presidente Eisenhower) riunisce il primo giovedì di febbraio la Washington politica, Barack Obama condanna chi, nascondendosi dietro alla fede, commette orribili azioni. Il terrorismo islamico dunque, ma anche quelle religioni che nei secoli passati si sono comportate in modo simile.
Non ci sono sconti per nessuno - «non riguarda solo un gruppo o solo una religione, c’è una tendenza peccaminosa che può traviare la nostra fede» - neanche per i cristiani («in nome di Cristo sono stati compiuti crimini orribili »). Quelli di un passato ormai molto lontano, («ricordate quanto successo durante Inquisizione e Crociate») e quelli di casa di un passato troppo recente per essere dimenticato: «In questo nostro Paese la schiavitù e Jim Crow (le leggi sulla segregazione razziale in vigore dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino al 1965, ndr) sono state troppo stesso giustificate nel nome di Cristo».
«Siamo chiamati a combattere quelli che manipolano la religione per i loro fini nichilistici», ha aggiunto Obama che (a scanso di equivoci) ha però voluto precisare in diversi passaggi del suo discorso anche il ruolo delle religioni come fattore positivo. «Questa tradizione ci ha portato qui insieme, ricordandoci cosa condividiamo in quanto tutti figli di Dio. E sicuramente per me è sempre l’occasione per riflettere sul mio viaggio alla ricerca della fede». Nonostante la precisazione non è mancata qualche - piccola, per ora - polemica per le frasi sui cristiani, guidate (in rete e sui social network) soprattutto da gruppi evangelisti della destra conservatrice.
Pochi hanno protestato invece per il fatto che Obama non abbia incontrato direttamente (in “omaggio” ai rapporti con la Cina) il Dalai Lama, che pure era presente in sala. Al leader spirituale (e non solo) del Tibet il presidente americano ha rivolto parole molto cordiali («è un potente esempio di quello che significa esercitare la compassione che ci ispira a parlare per la dignità e della libertà di tutti») ma neanche una stretta di mano per i fotografi. Unica concessione a chi accusa la Casa Bianca di debolezza nei confronti di Pechino, il fatto che il Dalai Lama (che aveva accanto Richard Gere) si sia potuto sedere allo stesso tavolo di Valerie Jarrett, una delle più strette collaboratrici di Obama. Un piccolo segnale, sufficiente anche questo ad irritare la Cina.

Corriere 6.2.15
Il nipote e la verità su Majorana: non si uccise, io credo a Sciascia
«Lui in Venezuela? Non escludiamo nulla, aveva capacità enormi». «Giocava a calcolare chi avrebbe vinto una guerra: un umorismo para-matematico»
di Massimo Sideri

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Corriere 6.2.15
L’altro Lombroso: criticava i professori e studiava la magia
Non si occupava soltanto di classificare i criminali


«Non v’è solo la camorra nel golfo di Napoli e fra i cocchieri e i rivenduglioli: purtroppo ve n’è pure, e di terribile nel seno delle Facoltà e nelle regioni governative, se non proprio nel Governo, così forte, in ogni modo, da forzare a questo la mano».
Lo scrive, scandalizzato per come vanno in cattedra certi colleghi universitari, Cesare Lombroso. È il 16 maggio 1901, il padre dell’antropologia criminale è da decenni lo scienziato italiano più celebre nel mondo e il «Corriere» ospita i suoi interventi, non frequentissimi, dando loro il massimo risalto. Anche quando prende a martellate il mondo dell’accademia.
Certo, scrive lo studioso invocando il pubblico concorso anche per gli «straordinari», c’è chi dice che questi «straordinari» hanno solo un incarico provvisorio. Ma non ce n’è uno poi «che perda il suo posto». Anzi: «Quanto più è scarso di ingegno e di cultura, tanto più egli si arrabatta colle arti dell’intrigo per restare nella sua nicchia, per avere favorevole quella maggioranza della Facoltà che non manca mai agli indotti e agli intriganti, e restare per lo meno a perpetuità straordinario». Un secolo fa…
Sono pepite d’oro, a rileggerli oggi, gli interventi dello scienziato pubblicati dal nostro giornale e raccolti nel libro Cesare Lombroso. Scritti per il «Corriere» 1884-1908 , edito dalla Fondazione Corriere e curato dal docente della Cattolica Damiano Palano, con una prefazione dell’ex ministro Lorenzo Ornaghi.
Molti articoli, come è ovvio, sono dedicati alla grande passione dello scienziato. E cioè, per dirla con Giorgio Ieranò dell’Università di Trento, all’«illusione di poter offrire di ogni aspetto, anche minuto, dell’universo una spiegazione scientifica, la ferma convinzione di poter misurare quantitativamente ogni fenomeno. Lombroso era un utopista che credeva nella missione redentrice della scienza». Con risultati tragicamente capovolti, spesso. Al punto d’esser presi a sostegno delle tesi più razziste sui neri, gli zingari, gli arabi, i meridionali o addirittura gli ebrei come lo stesso Lombroso…
Certo, lascia sbalorditi leggere oggi che il detenuto calabrese Giuseppe Villella era un «criminale» perché aveva nel cranio una «fossa occipitale mediana» che dimostrava l’appartenenza a uno stadio evolutivo precedente: «Questa particolarità manca nelle scimmie superiori (antropomorfe) e si vede solo appena accennata nei platirrini, nei macachi, nei cinocefali e ben distinta nelle più infime specie dei lemurini…».
Per non dire di certe generalizzazioni: «In genere, i ladri hanno notevole mobilità della faccia e delle mani, l’occhio piccolo, errabondo, mobilissimo, obliquo di spesso, folto e ravvicinato il sopracciglio, il naso torto o camuso (…). Negli stupratori, quasi sempre l’occhio è scintillante, fisionomia delicata, le labbra e le palpebre tumide, e per lo più sono gracili e qualche volta gibbosi (…); gli omicidi abituali hanno lo sguardo vitreo, freddo, immobile, qualche volta sanguigno e iniettato, il naso spesso aquilino o meglio grifagno…». Ma quello, che già divideva gli scienziati dell’epoca, è il Lombroso più conosciuto.
La raccolta di articoli sul «Corriere» è preziosa perché recupera anche un «altro» Lombroso. Curioso di tutto, appassionato a tutto, deciso a dir la sua su tutto. Dalla vaccinazione contro il colera all’esaurimento del genio, dove cerca di dimostrare che i grandi genii vivono sì più a lungo perché Michelangelo e Petrarca «vissero fino a novant’anni, Hobbes a 92, Tiziano 99…», ma che il meglio lo diedero da giovani.
E accanto a piccoli e ustionanti saggi sulla criminalità della Barbagia o sui suicidi nelle carceri dove denuncia la cella d’isolamento come «il più atroce e insieme il più inutile dei supplizî (…) perché l’uomo, essendo un animale socievole, ha più bisogno della vita sociale che del pane; supplizio inutile, perché, invece di preparare il delinquente ad una nuova vita, lo inasprisce nel male», ecco apparire un lungo pezzo sui miliardari americani, dove spiega che non hanno «quasi mai caratteri del genio» ma «grande equilibrio mentale e spirito di risparmio che va fino all’avarizia». O perfino un intervento su «Le stalattiti e l’arte indiana e moresca» dove afferma che le origini «si possono cercare nell’imitazione dei blocchi stalattitici», giacché un sacco di templi buddisti sono ospitati in grandi e antiche grotte.
Le chicche, però, sono soprattutto tre pezzi. Nel primo illustra estasiato le invenzioni delle «macchine alleate del pensiero» come la macchina per scrivere, il «contometro» padre della calcolatrice, il «tachiantropometro» costruito per misurare il cranio delle persone… Nel secondo racconta l’improvvisa scoperta della magia: «Ora io che ero così avverso allo spiritismo da non accettare per molti anni, nemmeno, di assistere ad un esperimento, dovetti nel marzo 1891 presenziarne uno in pieno giorno, da solo a solo, coll’Eusapia Paladino, in un albergo di Napoli, in cui vidi alzarsi ad una grande altezza un tavolo e trasferirsi in aria oggetti pesantissimi; e d’allora accettai di occuparmene».
Restò tanto impressionato che a un certo punto chiese alla donna di incontrare sua madre, che gli parlava in dialetto veneto: «Subito dopo vidi (… ) staccarsi dalla tenda una figura alquanto bassa come era quella della mia mamma, velata, che fece il giro completo del tavolo fino a me, sussurrandomi delle parole da molti udite, non da me, sordastro; tanto che io quasi fuor di me dalla emozione la supplicai di ripeterle, ed essa ripeté: “Cesar, fio mio”», Cesare, figlio mio…
Ma come dimenticare gli ambasciatori? «La maggior parte degli uomini che giudica così alla grossa sulle cose umane, vedendo i diplomatici, sempre in cilindro e frack, carichi come un cimitero di croci, gravemente sdraiati in cocchi ricchissimi, accigliati come uomini a cui pesi il pondo di immense responsabilità, tenaci a non sbottonarvisi se non a monosillabi, a parole tronche, a gesti sobrî, non si sognano nemmeno che si tratti spessissimo, invece che di genii latenti, di uomini di una fenomenale leggerezza che dànno più importanza alla ricchezza e ai titoli di nobiltà che non alla più superficiale coltura; né immaginano mai che quei gravi pensieri da cui pare debba dipendere il fato degli umani si risolvano al più in qual cavallo sia per vincere al Derby e quale sarà l’uomo preferito della ballerina X».

Corriere 6.2.15
La presentazione in Sala Buzzati lunedì prossimo

Coprono un vasto arco di tempo, pari a circa un quarto di secolo, gli articoli del criminologo Cesare Lombroso raccolti dalla Fondazione Corriere della Sera nel volume Cesare Lombroso. Scritti per il «Corriere». 1884-1908 (pagine 599,
e 16), a cura di Damiano Palano, con prefazione di Lorenzo Ornaghi. Il libro sarà presentato a Milano lunedì prossimo, 9 febbraio, alle ore 18 presso la Sala Buzzati del «Corriere» (via Balzan 3). Il dibattito, intitolato «Cesare Lombroso tra scienza, giornalismo e letteratura», è organizzato dalla Fondazione Corriere. Intervengono Adriano Favole, Lorenzo Ornaghi, Damiano Palano, Gian Antonio Stella. Coordina Antonio Carioti. Ingresso libero con prenotazione: tel. 02.87387707, email rsvp@fondazionecorriere.it

Corriere 6.2.15
A 70 anni dall’eccidio dei partigiani bianchi compiuto dai Gap
Porzûs, una memoria senza pace Il nodo resta l’ambiguità comunista
di Antonio Carioti


D omani saranno settant’anni dal giorno in cui, il 7 febbraio 1945, partigiani comunisti dei Gap di Udine presero di mira altri resistenti della formazione friulana Osoppo, di matrice cattolica e azionista, nella località montana di Topli Uork, poi detta comunemente «malghe di Porzûs» dal nome di un vicino centro abitato. Fu un eccidio a freddo con una ventina di vittime, il più cruento caso di conflitto interno alla Resistenza italiana. Tra gli uccisi, il comandante dell’unità osovana, Francesco De Gregori, zio e omonimo del noto cantautore, e Guido Pasolini, fratello del poeta e regista Pier Paolo.
Inevitabilmente sulla strage sono state coltivate a lungo memorie contrapposte: i reduci della Osoppo hanno accusato i comunisti di aver agito d’intesa con le forze di Tito, in una prospettiva rivoluzionaria che comportava l’annessione del Friuli orientale alla nascente Jugoslavia socialista; i partigiani di sinistra dell’Anpi hanno cercato di derubricare la vicenda a tragico incidente, rinfacciando agli osovani una serie di contatti con i fascisti in funzione nazionalista e anti-slovena.
Con il tempo la ricerca storica ha fatto diversi passi avanti e si è registrato anche qualche gesto di riconciliazione, tra cui l’abbraccio, nell’agosto del 2001, tra l’ex cappellano dell’Osoppo, don Redento Bello, e l’ex commissario politico comunista Giovanni Padoan, che aveva chiesto perdono agli eredi delle vittime. Importante anche l’omaggio reso ai caduti, il 29 maggio 2012, dal presidente Giorgio Napolitano, con la denuncia dei «feroci ideologismi» dai quali derivò il massacro e l’invito a sanare «le più dolorose ferite del passato». Inoltre le malghe di Porzûs sono state dichiarate «sito d’interesse storico-culturale».
Tuttavia le divisioni non sono venute meno: a tutt’oggi l’Anpi non ha mai preso parte alle commemorazioni dell’eccidio. E in alcuni autori la volontà di attribuire genuine credenziali democratiche al Pci di Palmiro Togliatti finisce per riproporre schemi e pregiudizi del passato.
Per esempio sulla rivista «Storiografia» (Fabrizio Serra editore), diretta da Massimo Mastrogregori, è apparso di recente un saggio in cui Fabio Vander critica aspramente gli autori del libro a più voci Porzûs , edito dal Mulino nel 2012 a cura di Tommaso Piffer. Pur riconoscendo che gli osovani non tradirono la causa della Resistenza, Vander li taccia a più riprese di «intelligenza con il nemico nazifascista», fornendo così una parziale giustificazione all’operato dei Gap. Ma soprattutto cerca di rovesciare tutta la responsabilità dell’eccidio sugli jugoslavi e di assegnare al Pci un ruolo di vittima, in quanto portatore di una linea di un ità antifascista alternativa al classismo di Tito. E respinge quasi come un’eresia la tesi che la posizione togliattiana, peraltro in linea con le direttive di Stalin e con la condotta di altri partiti comunisti nell’Est europeo, celasse un notevole margine di ambiguità.
D’altronde, come lo stesso Vander ammette un po’ a denti stretti, risulta da un documento pubblicato molti anni fa dallo storico comunista Paolo Spriano che nell’ottobre 1944 Togliatti diede indicazione al Pci di favorire l’occupazione della regione giuliana da parte delle forze di Tito. Ciò non significava necessariamente approvare l’annessione di quelle terre alla Jugoslavia, ma certo l’avrebbe agevolata, dato che ben difficilmente la popolazione avrebbe potuto esercitare in pieno il suo diritto all’autodeterminazione in un’area sotto il controllo delle armi titine.
Il fatto è che il confine italo-jugoslavo fu all’epoca teatro di molti conflitti intrecciati, ideologici, etnici e di classe. E l’unità della Resistenza venne minata dall’influsso degli jugoslavi e dalle loro ambizioni di rivalsa sul nazionalismo italiano, alle quali il Pci non riuscì a opporsi per il richiamo della solidarietà internazionalista.
Le ricerche d’archivio di Matteo Forte, esposte in un articolo che apparirà in marzo sulla rivista «Nova Historica», diretta da Giuseppe Parlato, mostrano che gli autori della strage di Porzûs avevano stilato un elenco di altri esponenti dell’Osoppo ritenuti «pericolosi» o perfino «criminali», che fu allegato alla relazione sull’eccidio presentata al comando jugoslavo e al Pci di Udine, presumibilmente in preparazione di nuove azioni offensive.
Le pulsioni rivoluzionarie del comunismo italiano, miranti a spazzare via con la violenza ogni ostacolo sulla strada del potere, vennero sedate a livello nazionale da Togliatti, ben consapevole che l’Italia sarebbe finita nella sfera d’influenza occidentale. Ma Porzûs dimostra che in condizioni ambientali diverse, sotto lo stimolo dei compagni jugoslavi, la situazione poteva prendere un’altra piega.

Corriere 6.2.15
L’indignazione di Pasolini

Così nel 1945 Pier Paolo Pasolini ricordava Porzûs, dove aveva perso il fratello: «Essendo stato richiesto a questi giovani, veramente eroici, di militare nelle file garibaldino-slave, essi si sono rifiutati dicendo di voler combattere per l’Italia e la libertà; non per Tito e il comunismo. Così sono stati ammazzati tutti, barbaramente».


Repubblica 6.2.15
Free speech
Se la libertà di parola è ancora in pericolo
L’attentato a “Charlie Hebdo” di un mese fa ha riaperto il dibattito sul diritto a esprimersi senza limiti. Anche sulla religione
Un tema che torna ciclicamente nella storia dell’uomo
di Christian Salmon


L’ATTENTATO contro Charlie Hebdo si iscrive in una lunga storia. Ai suoi albori, il cristianesimo condannava la risata. E c’era chi arrivava a sostenere, come San Giovanni Crisostomo (morto nel 407) che l’ilarità e lo scherzo non venissero da Dio, ma dal diavolo, affermando addirittura che il Cristo non avesse mai riso! In tempi più vicini a noi, il giansenismo e l’invettiva di Rancé «Guai a voi che ridete!» portano il segno di un rigorismo morale non riconducibile all’islam radicale, tutt’altro. Furono spesso i vertici della Chiesa cattolica – e non l’estremismo religioso – a lanciare anatemi ogni qual volta un libro, un film o una mostra si avvicinavano ai territori del sacro. La reazione di papa Francesco non deve sorprendere: quella che ha espresso è la posizione costante della Chiesa cattolica.
Ai tempi del caso Rushdie, Monsignor Lustiger, membro dell’Accademia francese, si spinse assai più in là, arrischiandosi ad affermare che «la figura del Cristo e quella di Maometto non appartengono all’immaginario degli artisti…». Monsignor Decourtray, arcivescovo di Lione, stabilì persino un collegamento tra il caso Rushdie e la campagna scatenata alcuni mesi prima contro il film di Scorsese L’ultima tenstica, tazione di Cristo , quando scrisse: «Ancora una volta si insultano i credenti nella loro fede. Ieri, in un film che sfigura il volto di Cristo. Oggi è la volta dei musulmani, in un libro sul profeta». E la stessa riprovazione fu espressa dal gran rabbino di Israele, dal Vaticano e da Margaret Thatcher… Eppure l’atteggiamento della Chiesa non è sempre stato così repressivo. Al contrario, nel Medioevo la religione si mostrò di gran lunga più tollerante verso le parodie e le feste carnevalesche. Fin dall’XI secolo tutti gli elementi del culto ufficiale sono oggetto di parodie – la parodia sacra in latino, ma anche in lingua volgare: le preghiere così come i Vangeli, le regole monacali, i decreti della Chiesa e quelli del Concilio, le bolle e i messaggi pontifici, i sermoni… Per le cerimonie della Pasqua la tradizione ammetteva le risate e le facezie licenziose all’interno stesso della Chiesa (il risus paschalis , associato alla rinascita gioiosa). Esisteva anche l’ilarità del Natale. È difficile oggi immaginare quanto fosse estesa la pratica della parodia. A redigere testi e trattati comici non erano solo i chierici, ma anche gli ecclesiastici d’alto bordo e i dotti teologi. Una delle opere più antiche di questa letteratura parodi- la Cena di Cipriano, scritta tra il V e il VII secolo, travestiva le Sacre Scritture in uno spirito carnevalesco, sbeffeggiando tutta la storia sacra nella descrizione di un eccentrico e buffonesco banchetto. Ma è durante il Rinascimento che il riso carnevalesco, a lungo confinato nelle feste popolari, irrompe nella letteratura, dando vita a capolavori immortali quali il Decameron di Boccaccio, le opere di Rabelais, il romanzo di Cervantes o le commedie di Shakespeare. «Nella persona di Rabelais – scrive Bachtin – la parola e la maschera del buffone medievale, le forme popolari di divertimento carnevalesco, la foga della basoche (corporazione di chierici e legali, NdT) con le sue idee democratiche, che travestivano e parodiavano tutti i discorsi e i gesti dei saltimbanchi di fiera, si associano al sapere degli umanisti, alla scienza e alle pratiche mediche».
Bachtin ricorda che mentre la prudenza indusse Rabelais a ritirare dai suoi due primi libri, per l’edizione del 1542, tutti gli attacchi contro la Sorbona, «non gli venne neppure in mente di espurgare gli altri pastiche di testi sacri, visto che il diritto e la libertà di ridere erano ancora ben vivi». La compenetrazione tra testi sacri e letteratura profana era tale che la prima traduzione francese della Bibbia, realizzata da Olivétan, porta il segno della lingua e dello stile di Rabelais. D’altra parte, non sempre i critici più severi di Rabelais si reclutavano nella Chiesa. La storia del recepimento della sua opera in Francia ci riserva qualche sorpresa. Nel 1690 La Bruyère emise un giudizio senza appello: «Marot e Rabelais sono imperdonabili per aver seminato immondizia nei loro scritti… Soprattutto Rabelais è incomprensibile: il suo libro è un mostruoso assemblaggio di morale fine e ingegnosa e di lurida corruzione». Lo stesso Voltaire, regolarmente evocato contro l’oscurantismo, rimproverava Rabelais per aver mescolato l’erudizione alla spazzatura e alla noia. Perciò chi si schiera in difesa di Charlie Hebdo richiamandosi ai filosofi dei Lumi dovrebbe pensarci due volte. Sarebbe più convincente Rabelais. E Cervantes! Soprattutto Cervantes, il primo a mostrare come nel momento in cui si cancella la linea evanescente che separa la realtà dalla finzione, la follia e il disordine entrano nel mondo. E difatti, chi è Don Chisciotte, se non colui che si è smarrito da qualche parte, ai confini tra i libri e la realtà, fino a non percepire più chiaramente questa linea di separazione? Tanto che arriverà addirittura a interrompere uno spettacolo di Guignol per passare a fil di spada le marionette di legno, colpevoli di aver trasgredito ai principi della cavalleria! Il motto di Cervantes è la formula popolare, pregna di umorismo e di saggezza, che avrebbe potuto figurare sulla prima pagina di Charlie Hebdo : «Non bisogna confondere!» Per la prima volta, un racconto non pretendeva di fondare una legge né una comunità, ma affermava un’etica del discernimento.
Nel suo libro Lo scherzo, Kundera descrive il totalitarismo come un mondo che tende a cancellare la linea evanescente tra il serio e il faceto; un mondo in cui uno scherzo non fa più ridere, ma può sconvolgere una vita. La burla è un prolungamento della finzione nella vita quotidiana. Grazie alla parodia, al gioco, alla risata, si possono inventare altri rapporti all’interno di una relazione umana, invertire i ruoli, relativizzare il significato che si dà a se stessi. Sappiamo oggi che rendendo impossibile lo scherzo, il totalitarismo annunciava il nostro ingresso in un mondo in cui l’illusione romanzesca è divenuta il bersaglio delle coorti sinistre dell’idea fissa. Questo mondo – il mondo dei media e dei mullah – è caratterizzato dalla confusione tra realtà e finzione, tra sacro e profano, tra il gioco e la fede. È un mondo ove l’etica del discernimento non ha più senso.
Ad essere in gioco, nel dibattito intorno a Charlie Hebdo, è per l’appunto quest’etica. Che non contrappone credenti e non credenti. Perché l’etica del discernimento si esercita nel seno stesso delle religioni del libro (Esegesi canonica, Talmud e Tafsir). E neppure definisce l’Occidente dei Lumi contro un Islam che si pretende oscurantista. La censura rivolta contro gli artigiani dell’immaginario, siano essi disegnatori, scrittori, cineasti, pittori o scultori, non punisce un reato d’opinione (per cui la loro difesa non rientra nella difesa della libertà d’espressione, brandita come un feticcio) ma contro la fiction in quanto tale, il diritto alla letteratura, all’umorismo, alla metamorfosi… E proietta su scala mondiale, attraverso mille distorsioni, confusioni e malintesi, la nuova guerra per il monopolio della narrazione che ha preso possesso del pianeta. In questa guerra, la cui posta in gioco va al di là delle caricature di Charlie Hebdo , l’immaginazione, l’ironia e la poesia sono ostaggi disarmati che cercano di far sentire lo loro voce. «L’arte degli uomini – scriveva Mandelstam – avanza come una cavalleria d’insonnie, e là dove si mette a scalpitare non vi può essere che la poesia o la guerra…».
André Gill: Le journalisme de l’avenir (1875)

Repubblica 6.2.15
I metodi per opporsi al veto degli assassini
Gli attentatori francesi usano la logica del “pubblica e muori” Per evitare il ricatto occorre trovare nuove modalità di difesa
Le nostre società sono vicine al paradosso di Popper: Troppa tolleranza porta alla fine della tolleranza
di Timothy Garton Ash


IL MASSACRO dei giornalisti di Charlie Hebdo a Parigi il 7 gennaio è stato un tentativo di imporre il veto dell’assassino. Mentre il “veto del provocatore” è riassunto nel “non ti facciamo parlare” la versione dell’assassino è “prova a parlare e ti ammazziamo”. Al posto dell’imperativo accademico “pubblica o muori” abbiamo il “pubblica e muori” dei fratelli Kouachi. Nel quarto di secolo trascorso dalla fatwa contro Salman Rushdie, questa è una delle più gravi minacce alla libertà di parola in Occidente e, senza dubbio, la più estrema. Oggi la minaccia proviene soprattutto dagli assassini islamisti, ma anche la mafia italiana ne fa uso. Dobbiamo distinguere l’ideologia religiosa e politica di base, ma l’elemento decisivo è l’uso della violenza per imporre i propri divieti. Se le opinioni estreme degli islamisti venissero espresse con modalità del tutto pacifiche, continuerebbero ad essere un problema, ma non in questi termini.
Trovare il modo di opporsi al veto dell’assassino è una delle grandi sfide del nostro tempo. Tra i tanti problemi rientra il dilemma se ripubblicare o meno le immagini a cui i fanatici hanno deciso di attribuire una valenza offensiva tale da ucciderne gli autori. Quale direttore di giornale in Occidente non si è tormentato su questa scelta nelle ore e nei giorni successivi al massacro? Il dibattito mi ha coinvolto da vicino perché la mattina successiva all’attacco scrissi un appello a indire una settimana di solidarietà nel corso della quale un ampia gamma di testate giornalistiche e televisive nonché i blog, pubblicassero una ragionata selezione di vignette di Charlie Hebdo — non esclusivamente riferite a Maometto — assieme a un comunicato esplicativo delle motivazioni dell’iniziativa. Suggerivo di avvertire i lettori dell’imminente pubblicazione, ma ribadivo la necessità che le immagini non fossero in alcun modo censurate o modificate. L’obiettivo era dimostrare che l’intimidazione violenta della libertà di espressione non avrebbe avuto successo e dare ai lettori la possibilità di decidere. Il mio appello è uscito su una decina di giornali, da El Pais e La Repubblica alla Gazeta Wyborcza e The Hindu, altri ne hanno parlato, tra cui Le Monde e il Guardian . Sono seguiti alcuni giorni di acceso dibattito pubblico e privato, inclusi scambi a livello personale con vari direttori.
La settimana di solidarietà non c’è stata. I giornali danesi, olandesi e belgi hanno detto di aver già preso l’iniziativa singolarmente, come molti in Francia. I giornali dell’Europa dell’Est, come la polacca Gazeta Wyborcza hanno pubblicato sia il mio appello che una selezione di vignette, e lo stesso ha fatto La Repubblica in Italia. I giornali britannici in genere non hanno pubblicato le vignette originali. Online è stato pubblicato più materiale che sui media tradizionali. Parecchi giornali europei hanno postato sui loro siti immagini che non avevano pubblicato sulla versione cartacea. In conclusione ciascuno ha fatto a modo suo.
Che male c’è, direte. Qualcosa di male c’è. Se non si fa attenzione chiunque voglia imporre un divieto sarà invogliato a imbracciare un fucile. Le nostre società aperte sono già pericolosamente vicine al livello descritto da Karl Popper nel paradosso della tolleranza: «La tolleranza illimitata porta necessariamente alla scomparsa della tolleranza stessa».
Ho una proposta. È nata parlando con il direttore della New York Review, Robert Silvers, forte di più di cinquant’anni di esperienza in scelte editoriali difficili. Perché non istituire un sito web dedicato espressamente a ripubblicare e rendere accessibili al pubblico le immagini offensive di reale interesse giornalistico e che, per tutta una serie di motivi, molte testate, emittenti e piattaforme online esiterebbero a pubblicare singolarmente? Data la diffusa ostilità nei confronti degli Usa soprattutto nel mondo arabo, sarebbe forse meglio che non fossero gli Stati Uniti a dirigere questo progetto. Forse il paese ospite potrebbe essere l’Islanda, che è organizzata per offrire uno spazio globale dedicato alla libertà di parola con il suo International Modern Media Institute. Le organizzazioni internazionali dei giornalisti sarebbero ovviamente partner dell’iniziativa. Sarebbe opportuno mantenere l’anonimato del personale e forse anche del consiglio di amministrazione, per evitare che attirino l’attenzione degli assassini. Saranno necessarie rigide procedure editoriali per autenticare le immagini e contestualizzarle.
La proposta di una sorta di porto franco per le vignette sotto certi aspetti è a sua volta pericolosa. Potrebbe spingere i direttori dei giornali a passare la mano sulle scelte difficili lasciando i pochi intenzionati a pubblicare non solo per ragioni di validità giornalistica ma per solidarietà, esposti come sono ora, o addirittura di più. È molto probabile che il dibattito sui pro e i contro di questa idea conduca di per se a una proposta migliore. La cosa chiara è però che la situazione attuale è profondamente insoddisfacente. Il veto degli assassini non si sconfiggerà con un unico provvedimento, né perpetuando la situazione attuale. Dobbiamo essere volpi, non ricci, per citare la famosa distinzione di Isaiah Berlin. Dobbiamo sapere e fare molte cose. Questa è una proposta da considerare.
Traduzione di Emilia Benghi From The New York Review of Books Copyright © 2-015 by Timothy Garton Ash

Repubblica 6.2.15
Free speech
Voltaire:

L’ INTERESSE generale dell’umanità, questo primo obiettivo di tutti i cuori virtuosi, richiede la libertà d’opinione, di coscienza, di culto: in primo luogo perché questo è il solo modo di stabilire tra gli uomini una vera fraternità; poiché, dato che è impossibile unirli nelle medesime opinioni religiose, bisogna insegnare loro a considerare, a trattare come fratelli quelli che hanno opinioni contrarie alle loro. Questa libertà è ancora il modo più sicuro per dare agli animi tutta l’attività che la natura umana comporta, per giungere a conoscere la verità su tutti questi argomenti legati intimamente alla morale, e per farla adottare da tutti; ora non si può negare che la conoscenza della verità non sia per gli uomini il primo dei beni. [...] La tolleranza, nei grandi stati, è necessaria alla stabilità del governo.

Repubblica 6.2.15
La strategia del cibo
Il manifesto della terza via fra carnivori e macrobiotici
La lobby della salute e del fitness impone il modello del digiunatore
Un saggio di Marino Niola, un diario etnologico contro i tanti libri sulla tavola, le ossessioni da privazione e da eccessi alimentari
di Francesco Merlo


MANGIARE è peccato, lo sfizio è vizio, invecchiare è reato e il grasso è una colpa imperdonabile che pesa sulla coscienza più che sulla bilancia. Così ci ha ridotto la lobby planetaria della salute e del fitness che ci ha imposto il modello del digiunatore di Kafka, la cui magrezza «i bimbi guardavano ammirati a bocca aperta». E però il digiunatore «forse non era dimagrito per il digiuno, ma perché non era soddisfatto di sé», scrive Kafka che, infelice come l’ Homo Dieteticus esplorato da Marino Niola (il Mulino), era di poco e strambo pasto, e nei Diari ricorda infatti di un cenone di Capodanno «con scorzonera e spinaci accompagnati da un quarto di Xeres».
Certo, se bastasse mangiare male come Kafka per scrivere bene come Kafka, forse varrebbe la pena questa evoluzione (involuzione) in homo dieteticus che ha subito il rimpianto homo sapiens. Altrimenti è meglio ribellarsi, e non al capitale come una volta ma alle diete, all’inferno delle privazioni che è lastricato di buone ossessioni sino a quella diffusissima e micidiale patologia che i medici chiamano ortoressia: la fissazione insana del mangiar sano, del vivere da malati per morire in perfetta forma.
Ecco perché Homo Dieteticus può diventare il Manifesto di chi vuol sottrarsi alla lotta «tra quelli che hanno un disperato bisogno di mangiare e quelli che hanno un disperato bisogno di non mangiare». Leggerlo infatti non è solo un’indigestione di ironia sulla rieducazione del ventre a crusca, a mezze mele, a toccasana vegetali, parafarmaci omeopatici miracolosi e tutto l’alfabeto delle vitamine in un’atmosfera di crisi e decadenza lucreziana da Tristi tropici. Homo dieteticus è anche il libro che smaschera i libri sul cibo, l’apocalisse calorica, l’ideologia del nudo e crudo, del tutto polpa e niente colpa, il messianesimo che propugna il ritorno alla natura con le sceme leggende su «i preistorici che, come gli eschimesi, non soffrivano di carie dentarie» mentre gli hunza himalayani «non solo vivono in media 130-140 anni, ma non conoscono neppure le nostre tanto temute patologie degenerative, il cancro e le malattie del sistema nervoso». Perché? Ma suvvia, «perché non si avvelenano con braci e padelle, fornellini e barbecue, piastre a induzione e forni a ventilazione ….». E dunque da oggi si mangia solo “raw”.
Secondo Cardano, il più famoso medico matematico del Cinquecento, «i mezzi per preparare i cibi sono 15: fuoco, cenere, bagno, acqua, tegame, padella, spiedo, graticola, pestello, filo e costa del coltello, grattugia, prezzemolo, rosmarino e luaro». Il Lombroso lo ritenne pazzo. Alle fine, il massimo esperto italiano di enogastronomia critica, il professor Niola, non ci autorizza a dire con Paolo Villaggio che la dieta è «una boiata pazzesca» solo per rispetto verso il povero corpo che le ha provate e dunque sofferte tutte — l’antropologo infatti deve stare dentro — e poi senza rimpianti le ha lasciate tutte — l’antropologo infatti deve stare fuori. Dunque, seguendo la regola della buona distanza di Lévi-Strauss, Niola si è cibato del junk food degli umiliati e obesi così come quello aveva dormito nelle capanne (le baitemmannageo) per single dei Bororo del Mato Grosso. E poi, visitando tutte le tribù alimentari, si è dato ai cibi naturali e a quelli identitari, ha sconfitto la xenofobia con la xenofagia, ha saziato la fame di patria con la zuppa della nonna e, in una spettrale mensa psichica, ha mangiato la “mela insana” (melanzana) della tradizione, sino agli arancini di Montalbano gustati con sobbalzi dell’anima.
E va bene che, tra vita e girovita, «siamo a dieta da sempre» molto prima che i profeti del benessere ci dispensassero, a pagamento, i loro comandamenti a base di agli, oli e sermoncini, ma quando Niola ha seguito la dieta del gruppo sanguigno si è sentito modernissimo per poi diventare l’avo di se stesso con «niente forno né fornelli per restare sani e belli» e ha reagito al disagio dell’inadeguatezza con un gaberiano «quasi quasi mi faccio uno scampo».
Come Lévi-Strauss si integrò tra gli indiani Nambikwara e Caduveo, Niola si è integrato tra vegetariani, vegani, macrobiotici, lattofobi, crudisti, sushisti, naturisti, no gluten, carnivori, fruttivori, localivori… E oggi che tutto è finito e il libro è qui, allegro e malinconico diario etnologico della paura di vivere, il corpo dell’antropologo non dimentica di avere militato in tutte le ossessioni, tofu contro carne, soya contro uova, quinoa contro grano, crudo contro cotto fino ai vengansexuals che si accoppiano solo tra di loro per paura di essere contaminati dai carnivori, sino alla polpetta di Frankenstein che è il cibo sanissimo di laboratorio, e sino «a sentire sulla pelle» tutti i diminutivi e accrescitivi del peso format dell’anima: «grassottello, rotondetto, in carne, corpulento, paffuto, ciccione, falso magro… ». E ha pure avuto il ventre piatto, poverino, dopo che i nutrizionisti lo avevano esposto alla ver-gogna del molle.
Ebbene Niola ha capito che continueremo a cambiare dieta non potendo più cambiare il mondo, ma non saremo mai più come prima, felicemente onnivori. Non torneranno i tempi quando avevamo fame e non paura di mangiare e solo per malattia ci si metteva a dieta, vale a dire in penitenza-asti- nenza dal piacere come capitò a Carlo Emilio Gadda che, costretto dal mal di stomaco, compose la famosa parodia manzoniana: «Addio monti di spaghetti sorgenti dall’acque salsose della pommarola che giungeva quasi ‘ncoppa e con cui m’imbrolodolavo (nei momenti d’oblio) il bavero della giacca e la mia poco rivoluzionaria cravatta! Addio care memorie di spigole, di vongole, di spiedini di majale, di panforte, e di altri vermiciattoli mangiati nelle più nefande e saporose bettole della suburra, facendo finta di discutere lettere e politicaglia tanto per salvare un po’ le apparenze, ma in realtà con l’occhio al piatto che arriva, fumante, trionfante, eccitante, concupiscente e iridescente di smeraldino prezzemolo. Addio!».

IL LIBRO Homo dieteticus di Marino Niola (il Mulino, pagg. 145, euro 13)

Repubblica 6.2.15
Quei Picasso venduti a saldo che spaventano i mercanti d’arte
La nipote del pittore non si affiderà alle case d’asta con il rischio di svalutare tutto il settore
di Doreen Carvajal


MARSIGLIA MARINA Picasso ha fatto i conti col suo pesante retaggio familiare fin da quando, bambina, accompagnava suo padre al cancello della villa del nonno, il famoso pittore Pablo Picasso, per chiedere qualche soldo. Così quando a vent’anni ereditò proprio quella villa ottocentesca a Cannes, “La Californie” e tantissime opere di Picasso, la sua prima azione fu rivoltare i preziosi quadri verso le pareti. La rabbia che ancora prova verso la famiglia l’ha resa nota nel suo libro del 2001, “Mio nonno Picasso”. E ora, a 64 anni, torna a esprimere repulsione per quel passato ingombrante liberandosi di molte delle opere in suo possesso: per finanziare le sue tante iniziative filantropiche dagli aiuti a un ospedale in Vietnam a progetti a per anziani e adolescenti in Francia e Svizzera. Una vendita condotta in modo inusuale: al punto da allarmare mercanti d’arte e case d’asta. Marina ha infatti fatto sapere che venderà le opere privatamente e senza mediatori. Decidendo “caso per caso” di quante e quali opere disfarsi. Naturalmente non è la prima volta che vende opere da lei ereditate. Ma se per anni si è lasciata guidare da Jan Krugier, mercante svizzero morto nel 2008, ora sceglie di farlo da sola. Questo fa supporre una maggiore determinazione nel disfarsi di ciò che le resta del nonno: «Preferisco vendere le opere e usare i proventi per cause umanitarie», fa sapere.
La notizia si sta diffondendo, dando luogo a voci ed equivoci. Molti temono una saturazione del mercato che faccia calare i prezzi delle opere. Non che la vendita di opere importanti senza mediazione sia insolita: ma è certo rischiosa. Chi vende può sottostimare troppo le opere. O non valutare adeguatamente gli acquirenti e la loro solvibilità. Al tempo stesso, le case d’asta hanno aumentato le commissioni: la vendita diretta certo permette di ottimizzare i guadagni. Marina in parte smentisce le voci: dice di non aver ancora deciso quante delle circa diecimila opere ereditate — soprattutto ceramiche, disegni e sculture più 300 tele — metterà in vendita. Ma sa già quale sarà la prima ad andare sul mercato: “La Famiglia” del 1935. «Un gesto simbolico: sono nata in una grande famiglia che non è mai stata una vera famiglia». Suo padre Paulo era figlio di Picasso e della prima moglie Olga Khokhlova, ballerina russa. Marina lo ricorda costretto a fare da autista al nonno e a chiedergli continuamente denaro. L’odio di Marina verso il nonno ha poi subito un’ulteriore impennata nel 1973, quando la seconda moglie del pittore, Jacqueline Roque, proibì a suo fratello di partecipare al funerale: pochi giorni dopo il giovane si uccise.
Picasso è morto nel 1973 a 91 anni senza testamento ma con un patrimonio di 50 mila opere che la sua tribù di quattro figli, otto nipoti e varie mogli e muse si è contesa in una lunga battaglia legale. Inaspettatamente, anche Marina ottenne la sua parte: un quinto di tutti i beni che lei definisce «Un’eredità senza amore». Olivier Widmaier Picasso, altro nipote dell’artista, discendente di una delle sue amanti, ha un ricordo più benevolo del nonno. «Picasso non dava soldi alla madre [di Marina] perché sapeva che non li avrebbe spesi per i figli. Ma pagò la loro istruzione». A Marina non basta. «Rispetto mio nonno e il suo talento di artista. Ma sono solo la sua erede, non sono mai stata la sua nipotina amata».
(© 2-015 New York Times News Service Traduzione di Marzia Porta)

Repubblica 6.2.15
Luna
Caccia al tesoro sul satellite “Un nuovo Klondike di platino”
Lassù ci sono materiali preziosi per i problemi energetici. Così le missioni scientifiche acquistano interesse commerciale
di Elena Dusi


LUCE verde per la caccia al tesoro della Luna. Il governo americano è deciso a incoraggiare lo sfruttamento commerciale del satellite, dando l’autorizzazione preliminare a una missione dell’azienda Bigelow Aerospace. La compagnia aerospaziale del Nevada conta, con una spesa iniziale di 12 miliardi di dollari, di far arrivare sul satellite dei moduli abitabili intorno al 2025 e di mettere le mani su quella miniera incontaminata di idrogeno, terre rare, platino, titanio e uranio che si nasconde sotto alla faccia grigia sia della Luna che degli asteroidi più vicini alla Terra.
L’autorizzazione fornita dalla Federal Aviation Administration (l’agenzia federale che regola i lanci spaziali negli Usa) alla Bigelow era ancora redatta in forma riservata quando è stata resa pubblica dalla Reuters. Forse non farà scattare una corsa all’oro affollata come quella del Klondike e si scontra con un buco nero della legislazione internazionale, ma segna una direzione ben precisa nel campo dell’esplorazione spaziale. Intenta a spolpare la Terra come una mela, l’umanità ha da qualche anno iniziato a guardare oltre i confini del pianeta per reperire le risorse di cui ha bisogno. Luna e asteroidi sono un potenziale scrigno ricco di materie prime: idrogeno e uranio per risolvere i problemi energetici, terre rare per costruire cellulari e altri dispositivi elettronici ormai onnipresenti, minerali preziosi come titanio e platino per sfamare l’industria avanzata. Tra le possibili fonti di energia, secondo gli appassionati di fantascienza, la Luna potrebbe anche offrirci un milione di tonnellate di elio-3, un elemento prodotto dal vento solare e capace di alimentare un (del tutto ipotetico) reattore a fusione nucleare per i prossimi 10mila anni.
Oltre alla Bigelow (che quest’anno sperimenterà uno dei suoi moduli abitabili sulla Stazione spaziale internazionale) ai nastri di partenza è pronta un’altra manciata di aziende. La Planetary Resources — fondata tra gli altri dal Ceo e dal segretario di Google — è più orientata sullo sfruttamento degli asteroidi. Alla Shackleton Energy Company e alla sua idea di costruire una stazione di servizio nello spazio per rifornire di idrogeno i motori dei razzi dedica invece la copertina la rivista Physics World. «Dove c’è ghiaccio c’è combustibile» scrive il giornale, riferendosi agli 1,6 milioni di tonnellate di ghiaccio della Luna e alla possibilità di scinderlo in idrogeno e ossigeno.
Ma ancora più solide rispetto alle aziende sembrano essere le ambizioni dei paesi più assetati di energia. La Cina è ovviamente in pole position. Il programma spaziale di Pechino ha già offerto un allunaggio nel dicembre 2013 (è il terzo paese a realizzarlo dopo Usa e Urss) e promette l’invio di una sonda proprio per raccogliere campioni di suolo lunare. Il paese asiatico sul pianeta Terra è il principale possessore di terre rare, non esita a sfruttare il suo quasi monopolio nelle dispute internazionali e non gradirebbe essere messa fuorigioco da un’invasione extraterrestre di scandio, ittrio, lantanio, promezio e simili.
La stessa missione dell’Agenzia spaziale europea Rosetta — che ha fatto atterrare una sonda su una cometa per trivellarne il terreno con un trapano e analizzarlo — sarà seguita da un’impresa analoga progettata dalla Nasa per il 2016. L’anno prossimo una nave spaziale americana verrà lanciata in direzione di un asteroide, munita di un braccio robotico per scavare la superficie. Missioni scientifiche, certo, ma con un occhio allo sfruttamento commerciale e alla competizione internazionale.

Repubblica 6.2.15
Giovanni Bignami
“Puntiamo sugli asteroidi più facili da sfruttare”
intervista di E. D.


«LA Luna? Solo fumo negli occhi. La strada da seguire sono gli asteroidi». Giovanni Bignami, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, darà alle stampe nelle prossime settimane “Oro dagli asteroidi e asparagi da Marte”, un libro dedicato allo sfruttamento delle risorse spaziali.
Non crede allo sfruttamento della Luna?
«I depositi di ghiaccio da cui si estrarrebbe l’idrogeno si trovano a oltre 200 gradi sotto zero. Scendere sulla Luna in modo morbido, cercare il luogo migliore per scavare, costruire impianti in condizioni tanto ardue e poi risalire trasportando l’idrogeno liquido sono imprese possibili, ma dubito che un’azienda riesca a renderle convenienti. Molto diversa è la prospettiva degli asteroidi».
Perché?
«Non c’è bisogno di spendere energia per atterrare e ripartire, essendo la gravità debole. E mentre la Luna è una sorta di Terra, gli asteroidi offrono elementi più interessanti».
Qual è la differenza?
«La Terra è rimasta semiliquida per quasi un miliardo di anni. I metalli pesanti interessanti per uno sfruttamento economico come uranio, torio, platino, oro, sono precipitati verso il centro. Gli asteroidi, essendo più piccoli, non hanno vissuto questo fenomeno. Basterebbe un corpo celeste di qualche decina di chilometri tutto di ferro per rendere interessante una missione spaziale».
Come si trasporterebbe il ferro sulla Terra?
«Una sonda potrebbe agganciare l’asteroide e trasportarlo in un’orbita comoda per lo sfruttamento, ad esempio attorno alla Luna. E un corpo celeste ricco di platino varrebbe molto più di un asteroide tutto d’oro». (e. d.)

Corriere 6.2.15
Studio Usa
Depressione: l’immagine del cervello dice se la psicoterapia è stata efficace
Una tecnica di imaging cerebrale viene usata per sapere quale trattamento sia il più indicato per il singolo paziente. Si evitano tentativi inutili e perdite di tempo
di Silvia Turin

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Corriere 6.2.15
Gatti: «Il mio Requiem per Abbado»
Il maestro Daniele Gatti dirigerà la messa da Requiem di Verdi in onore Abbado all’opera di Firenze
L’evento, prodotto da Rai 5, sarà trasmesso in diretta video su Corriere Tv domenica 8
di Chiara Maffioletti

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