domenica 8 febbraio 2015

Repubblica 8.2.15
Il Consiglio di Stato
Aborto, stop al decreto anti-medici obiettori
di Lorenzo D’Albergo

ROMA Il consiglio di Stato impone lo stop e gli obiettori di coscienza che lavorano nei consultori del Lazio possono di nuovo negare a chiunque ne faccia richiesta i certificati per l’aborto. Con un’ordinanza dagli effetti temporanei, dopo il ricorso del Movimento per la vita e dei ginecologi cattolici, i magistrati di palazzo Spada hanno bloccato parte del decreto firmato dal presidente della Regione Nicola Zingaretti e rimesso la decisione finale ai colleghi del Tar del Lazio. A loro spetterà il compito di decidere anche sull’applicazione della spirale e la prescrizione della pillola del giorno dopo o dei cinque giorni dopo. Questi anticoncezionali oggi devono essere distribuiti anche dagli obiettori dei consultori familiari, qualora ci sia la richiesta.
Così ora il Movimento per la vita spera in una nuova vittoria: «Se saranno dimostrati gli effetti abortivi di queste sostanze, l’obiezione di coscienza potrà essere completamente ripristinata». Dalla Regione spiegano di «attendere le sentenze di merito» e intanto esprimono soddisfazione: «Sia il Tar che il Consiglio di Stato hanno confermato la validità dell’obbligo della prescrizione degli anticoncezionali, che era il punto centrale del provvedimento varato».

Contro Matteo Ciquita Renzi: ”Aridatece er Puzzone!”
La Stampa 8.2.15
L’attacco di Berlusconi “Con le riforme si rischia una deriva autoritaria”
Serracchiani: commovente. Ma Renzi non vuole rompere
di Amedeo La Mattina


L’affondo. Strappa Silvio Berlusconi. Parla di un rischio di «deriva autoritaria», che potrebbe essere determinato dalle riforme. E punta il dito contro chi non ha rispettato i patti, come il Pd, per «puri interessi di parte». 
La replica. Nel Partito democratico si è scelta la linea dell’ironia. Matteo Renzi ha delegato la sua vice Debora Serracchiani, che subito ha scritto su Twitter: «Quasi commovente». Una puntura di spillo. Anche se il segretario ha detto ai suoi di non rompere con Silvio.

«È venuto meno il nostro sogno di un progetto condiviso. Anzi, per come si sta delineando la nuova legge elettorale, con una sola camera eletta dal popolo, con il terzo premier non eletto dagli italiani, avvertiamo il rischio che vengano meno le condizioni indispensabili per una vera democrazia che ci si possa avviare verso una deriva autoritaria». È la prima volta che Silvio Berlusconi lancia un’accusa così dura sulle intenzioni di Matteo Renzi. La «deriva autoritaria» sarebbe il combinato disposto tra la riforma costituzionale e la legge elettorale che Forza Italia ha votato al Senato, ma che ora dovrebbe contrastare alla Camera. È la conseguenza della rottura sul Quirinale, sulla scelta del premier di puntare su Mattarella. «Non mi fido più del giovanotto: da lui non mi aspetto più nulla», sostiene Berlusconi.
Guerra civile dentro Fi
L’attacco di Berlusconi ha tuttavia diverse motivazioni. Ha soprattutto bisogno di tenere unito il partito, di rispondere all’offensiva sempre più pericolosa di Raffaele Fitto, il quale ormai si comporta come il capo di un partito pur rimanendo dentro Forza Italia. Il 21 febbraio a Roma l’ex governatore pugliese ha organizzato la convention dei «ricostruttori»: «Cominceremo a esporre le linee guida delle nostre proposte per l’Italia, oltre che per Fi e per il centrodestra». La sua è un’altra tappa dell’opa lanciata sulla leadership azzurra. È l’ennesimo episodio della guerra civile che vede Denis Verdini con il coltello tra i denti contro il cerchio magico di Arcore. Come andrà a finire è ancora presto per dirlo e questo spiega il zig-zag del Cav.
Patti non rispettati
Berlusconi fa risalire tutto alla scelta di Mattarella. «Avevamo creduto - dice il Cav al Tg5 - di poter fare insieme le riforme istituzionali e la legge elettorale e di avere un Presidente della Repubblica condiviso. Ma il Pd non ha rispettato i patti per puri interessi di parte. Non era questo il patto del Nazareno che volevamo, non era questo l’obiettivo che volevamo raggiungere insieme per il bene del Paese». Ora Renzi tira dritto e manda avanti alcuni progetti come la riforma della giustizia, il provvedimento anti-corruzione, il falso in bilancio e altri leggi che il Cav considera non prioritari. «È inaccettabile che il premier impegni tutti gli sforzi del governo e del Parlamento per affrontare leggi certamente di rilievo ma che non hanno urgenza alcuna, stante la drammatica situazione in cui versa il Paese. Il Paese - afferma Berlusconi - ha necessità di riforme strutturali ben diverse da quelle proposte dalla sinistra», aggiunge.
Mille emendamenti
Martedì riparte la maratona della riforma costituzionale che supera il bicameralismo paritario e, modificando il Titolo V, attribuisce più competenze allo Stato e meno alle Regioni «a tutela dell’unità della Repubblica e dell’interesse nazionale». Ecco, tra i mille emendamenti che Renato Brunetta presenterà nelle prossime ore ci sono anche quelli che servono a reintrodurre più federalismo e creare una sponda alla Lega. Non è un caso che Berlusconi dica di volersi impegnare «con rinnovato impegno perché il centrodestra possa ritornare unito e possa offrire al Paese quelle urgenti soluzioni che finché ho avuto l’onore di presiedere il governo avevano garantito agli italiani più benessere, più sicurezza, più libertà». Berlusconi forse attende dei segnali da Renzi mentre Brunetta è schietto nello spiegare il dietrofront sulle riforme: «È chiaro che c’è di mezzo il vulnus del Quirinale. Quella scelta non condivisa ora cambia la prospettiva. Con il patto del Nazareno la deriva autoritaria di Renzi era sotto controllo. Un presidente della Repubblica condiviso sarebbe stato un garante».

Corriere 8.2.15
L’opposizione che non c’è
Il carro affollato del potere
di Angelo Panebianco

qui

Corriere 8.2.15
Enti, fondazioni e authority Il collocamento dei non rieletti pd
Uno su due ha avuto un posto tra società pubbliche e impieghi «politici»
di Sergio Rizzo


Di esperienza sul campo ne aveva da vendere. Era lui che dagli schermi di Video Calabria conduceva Calabria Verde, trasmissione d’inchiesta sull’agricoltura calabrese. A Francesco Laratta detto Franco mancava solo un adeguato riconoscimento istituzionale. Mai dire mai: a settembre del 2014 ha avuto un posto nel consiglio di amministrazione dell’Ismea, l’istituto pubblico per i servizi nel mercato agricolo. Trombato alle politiche del 2013, il coordinatore regionale di Areadem, componente del Pd che fa riferimento a Dario Franceschini, è stato uno degli ultimi ex onorevoli del partito di maggioranza a trovare una ricollocazione. Sia pure come semplice consigliere di un ente statale non di primo livello.
Non si può lamentare. A causa di un ricambio generazionale senza precedenti il giorno dopo le elezioni ben 165 onorevoli democratici della scorsa legislatura si sono trovati senza seggio. Considerando le componenti esterne, vedi i radicali che facevano parte del gruppo Pd, o quanti rimasti fuori dal Parlamento per scelta personale che certo non aspirano alla poltroncina di una società pubblica, si riducono a 135. Ma sono comunque un esercito. E chi si aspettava cambiamenti con la nuova stagione politica deve ricredersi.
Perché la realtà dei fatti è ben diversa dalle dichiarazioni di principio. Tanto più che nel 2013 è intervenuto un fatto nuovo e non trascurabile: l’impossibilità per gli ex onorevoli di riscuotere il vitalizio prima dei sessant’anni. Così pure in questi due anni si è assistito a una strisciante e metodica opera di risistemazione dei parlamentari bocciati o esclusi dalle liste. E se il termine «riciclati» può apparire in qualche caso esagerato, vero è che una buona metà ha avuto un incarico pubblico o ha intercettato un ruolo legato in qualche modo alla politica.
In sei sono stati ricandidati o rieletti in altri partiti, salvo poi (qualcuno) rientrare nel Pd. Altrettanti hanno avuto incarichi nelle amministrazioni locali, e non parliamo soltanto dei sindaci di Roma (Ignazio Marino) o di Catania (Enzo Bianco): ma anche di Giovanni Lolli, assessore alla Ricostruzione della Regione Abruzzo, e di Alberto Fluvi, capo segreteria dell’assessore al Bilancio della Toscana Vittorio Bugli.
Sono per ora tredici, invece, i destinatari di incarichi di partito. E anche qui c’è incarico e incarico, perché una cosa è fare come l’ex senatore Fabrizio Morri il segretario provinciale a Torino o come l’ex deputato Stefano Graziano il presidente del partito in Campania, e un altro conto essere direttore generale del gruppo pd alla Camera, qual è Oriano Giovanelli.
In cinque si sono trasferiti al governo con ruoli che vanno da viceministro dell’Economia (Enrico Morando), a consigliere del ministro della Giustizia Andrea Orlando (Guido Calvisi), a capo della segreteria tecnica del sottosegretario alla presidenza con delega ai servizi segreti Marco Minniti. Quest’ultimo è il caso di Achille Passoni, ex senatore di provenienza Cgil, marito della neoeletta senatrice Valeria Fedeli, già sindacalista Cgil e ora vicepresidente di Palazzo Madama.
Ancora. A diciotto ex parlamentari del Pd sono stati attribuiti incarichi in fondazioni, authority, enti e organismi pubblici di vario tipo. Sia pure con enormi differenze fra ruoli simbolici e posti di grande potere. Mario Cavallaro è diventato presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Antonello Soro, presidente dell’Autorità garante della privacy. L’ex senatrice e insegnante Marilena Adamo, presidente della Fondazione scuole civiche del Comune di Milano. L’ex segretario della Cisl e già viceministro Sergio D’Antoni, presidente del Coni Sicilia. L’ex deputata Rosa De Pasquale, direttore dell’ufficio scolastico della Toscana: nomina alla quale la Corte dei conti, come ricordato dal Fatto Quotidiano , ha rifiutato la registrazione. L’ex senatore Carlo Chiurazzi, trombato alle Politiche 2013, presidente del Consorzio di sviluppo industriale di Matera. Mariapia Garavaglia, consigliere della Fondazione Arena di Verona. L’ex onorevole Federico Testa, commissario dell’Enea. L’ex ministro Luigi Nicolais, presidente del Consiglio nazionale ricerche: nomina che al pari di quella di Soro ha preceduto di poco le elezioni. Idem per Giovanna Melandri, passata direttamente da Montecitorio alla presidenza del Maxxi. Giovanni Forcieri, che ha preso il suo posto, era presidente dell’Autorità portuale di La Spezia. E su quella poltrona è stato ricollocato senza alcuna difficoltà dopo la breve parentesi parlamentare. Mentre troviamo Luciana Pedoto, laureata in Economia e specializzata in «epidemiologia dei servizi sanitari», ex segretaria di Giuseppe Fioroni ed ex onorevole non rieletta, all’Istituto nazionale di astrofisica. È responsabile di trasparenza e anticorruzione.
Competenze a parte, su cui pure ci sarebbe molto da dire, il punto è il metodo con cui vengono fatte certe scelte. Le società e le aziende pubbliche, per esempio. Pure lì, dove secondo i piani del governo dovevamo assistere a tagli impietosi, si è assistiti all’inesorabile migrazione degli ex.
Di Pier Fausto Recchia alla guida di Difesa servizi abbiamo parlato in varie occasioni. Come dell’assunzione a Invitalia di Costantino Boffa dopo selezione ministeriale ad hoc. Poco, invece, si è detto delle nomine della Regione Lazio alle presidenze delle Ipab: all’Istituto Sacra Famiglia è stato collocato Jean Léonard Touadi; a Santa Maria in Aquiro, Massimo Pompili. Oppure della designazione di Sandro Brandolini alla vicepresidenza di Cesena Fiera. O dello sbarco di Maria Leddi al posto di amministratore unico di Ftc holding, serbatoio di partecipazioni del Comune di Torino. E dei tre incarichi all’ex deputato Ivano Strizzolo: presidente dei revisori della Unirelab srl, società del ministero dell’Agricoltura (di cui figura procuratore Silvia Saltamartini, sorella l’ex portavoce alfaniana Barbara Saltamartini al tempo stretta collaboratrice dell’ex responsabile di quel dicastero Gianni Alemanno) nonché sindaco di Istituto Luce e Postecom. La presidenza di un’altra società delle Poste, la compagnia aerea postale Mistral Air, è toccata a Massimo Zunino. Il quale, uscito dalla Camera, ha costituito anche una società di consulenza, la Klarity innovaction consulting, insieme a due suoi colleghi di partito rimasti anche loro senza seggio. Ovvero, Michele Ventura e Andrea Lulli.
Modo alternativo, sembrerebbe, con cui può fruttare la ricca esperienza parlamentare. Un po’ come è capitato a coloro che hanno assunto per strade diverse incarichi «privati» ma non proprio estranei alla storia politica di ciascuno. L’ex ministro Giulio Santagata, prodiano senza se e senza ma, è consigliere delegato di Nomisma, la società di consulenza fondata da Romano Prodi. Due mesi fa l’ex prefetto e senatore Luigi De Sena è stato cooptato nel consiglio del Colari, la società di smaltimento dei rifiuti che fa capo a Manlio Cerroni, come garante degli accordi con la municipalizzata romana Ama. Per non parlare degli incarichi di curatore fallimentare (Cinzia Capano) o di liquidatore di cooperative sociali (Ezio Zani, subentrato a Soro e poi trombato alle elezioni). E senza contare chi, rieletto, al seggio ha preferito il «privato»: la senatrice Rita Ghedini, ora presidente di Legacoop Bologna.

Corriere 8.2.15
il doppio giudizio sui cambi di casacca
di Giovanni Belardelli


Le democrazie rappresentative si fondano sul divieto del mandato imperativo: ogni parlamentare — come recita anche la nostra Costituzione — rappresenta tutta la nazione e non gli elettori dai quali è stato eletto. Non esiste legge o norma, men che meno di rango costituzionale, che vieti dunque i passaggi da Scelta civica al Pd cui abbiamo appena assistito. E tuttavia episodi del genere rappresentano un vulnus per la qualità e la credibilità delle istituzioni democratiche; rischiano infatti di mettere in crisi quel rapporto di fiducia tra il parlamentare e i cittadini ai quali ha chiesto il voto che è fondamentale in una democrazia. Soprattutto se il passaggio, come è successo in questi giorni, avviene in gruppo e senza alcun particolare pathos . Se avviene non a conclusione di accesi e laceranti dibattiti, ma anzi rifuggendone apertamente, visto che quanti sono appena passati al Pd lo hanno fatto proprio alla vigilia del congresso di Scelta civica che si apre oggi.
Naturalmente in politica, come in tanti altri campi, è del tutto lecito e spesso auspicabile cambiare opinione; ma dopo che ci si è presentati di fronte agli elettori con un programma alternativo al Pd (ricordo che Sc nel 2013 alla Camera era alleata con le liste di Casini e Fini, con i quali aveva costituito una lista comune al Senato), si dovrebbe sentire la responsabilità di dare adeguatamente ragione delle proprie scelte. E di farlo quindi in un modo diverso da quello, vagamente presuntuoso, di alcuni dei neoparlamentari Pd che si sono limitati a sostenere che non sono loro ad aver cambiato posizione ma il Pd ad aver sposato finalmente le loro idee. Viene peraltro il dubbio che di questa trasformazione qualcuno si sia accorto solo dopo il successo di Renzi nella partita del Quirinale e gli inviti espliciti del premier ad allargare i ranghi del suo partito. Neppure un anno fa Gianluca Susta, appartenente al gruppetto che ha appena lasciato Sc, definiva «inutile» il voto per il Pd alle europee. Irene Tinagli solo ad ottobre definiva «vergognoso» che «per puri interessi personali» qualcuno lasciasse Sc per il Pd.
Siamo comunque di fronte a un fenomeno frequente in politica: il bandwagoning , l’irresistibile (per alcuni, almeno) propensione a salire sul carro del vincitore. Non per questo si tratta di un bello spettacolo, soprattutto ripensando al fatto che i suoi attori, fondando Scelta civica, avevano voluto accreditarsi come i rappresentanti di quella classe dirigente seria, competente, pensosa delle sorti del Paese che in Italia mancava. Ma lo spettacolo è tutt’altro che bello anche per un altro motivo. Per l’entusiasmo con il quale i dirigenti del Pd hanno accolto i transfughi da Sc, lodandone (così il vicesegretario del Pd Debora Serracchiani) la «responsabilità», dopo avere per anni considerato proprio l’inventore dei «responsabili», Domenico Scilipoti — che lasciò l’Italia dei Valori per sostenere il governo Berlusconi —, come la personificazione dei mali della nostra politica. E ci si potrebbe anche chiedere perché il segretario del Pd, che poche settimane fa invitò Sergio Cofferati, intenzionato a lasciare il partito, a dimettersi anche da parlamentare europeo, non abbia ritenuto che un invito analogo valesse per i nuovi «responsabili» approdati al Pd. È riemerso insomma in questa occasione un fenomeno che tutti ben conosciamo, consistente nell’applicare un metro diverso di giudizio dinanzi a un’azione a seconda se la compie un amico o un avversario. È purtroppo un dato profondo e antico della cultura italiana questo, uno degli ostacoli alla formazione di quella cultura civica di cui sempre si lamenta la debolezza o l’assenza. Ma quale cultura civica potrà mai esistere sulla base di criteri di comportamento e di giudizio che valgono diversamente a seconda dei soggetti ai quali si applicano?
È probabile che, di fronte alla forza politica del presidente del Consiglio, accentuata dallo sfarinamento in atto in Forza Italia come nella sinistra Pd, le salite sul bandwagon , sul carro con la banda (del vincitore), non finiranno. Al di là degli effetti che ciò potrà avere sui numeri in Parlamento, quel che forse deve preoccupare di più è l’effetto di aumentare il discredito della politica che nel nostro Paese ha da tempo raggiunto e forse superato i livelli di guardia.

il Fatto 8.2.15
Nazareno, Tv Repubblica dimentica l’Ingegnere

Scrive Repubblica che quella delle frequenze televisive è “una questione che da almeno 25 anni ruota intorno al conflitto di interessi di Berlusconi”. Si parla della decisione del governo Renzi di rinviare a fine giugno l’applicazione dei nuovi canoni decisi dall’Agcom per la concessione delle frequenze televisive.
Il conflitto di interessi di Berlusconi è noto: leader di Forza Italia e azionista di riferimento di Mediaset che nel 2014 ha pagato 7 milioni di canone, con le nuove regole in vigore ne avrebbe pagati 3,2 (destinati a salire a 13 in quattro anni). Peccato che, questa volta, il conflitto dell’ex Cavaliere non è neanche il più serio. Il Gruppo Espresso, che edita Repubblica ed è presieduto da Carlo De Benedetti, è azionista con il 30 per cento di Persidera (l’altro 70 è di Telecom), una società che come unico business ha il noleggio di frequenze tv. Con le regole stabilite dall’Agcom , Persidera pagherà 47,5 milioni di costi aggiuntivi in otto anni. Un aggravio rinviato di sei mesi grazie alla scelta del governo di congelare ancora i nuovi canoni. Sei mesi sono lunghi. Possono succedere tante cose e il governo potrebbe decidere di cambiare le regole evitando il salasso. Avere un giornale molto letto dagli elettori del premier, in questi casi, male non fa.

Corriere 8.2.15
Il vertice della Chiesa sulle donne «Ora un Sinodo su (e con) noi»
Richiesta al Papa. Che dice ai cardinali: le signore le lasciamo sempre ultime?
di Paola Pica


Gianfranco Ravasi è un uomo che non teme le parole, le studia, ci gioca, le preferisce quando sono «parole dette, comunicate, con tutta la carica di passione» come quelle sentite in questa sala al quarto piano del palazzo del «ministero» della Cultura del Vaticano in via della Conciliazione. Una non stop sulle «culture femminili», iniziata con un evento pubblico mercoledì scorso — l’inchiesta su volti e voci delle donne portata in scena al Teatro Argentina di Roma dalla Rai, con il contributo del blog del Corriere La 27Ora — e chiusa ieri con l’udienza da Papa Francesco. E la proposta, avanzata da suor Eugenia Bonetti e dalla storica Lucetta Scaraffia, di convocare un sinodo «sulle donne, con le donne, per le donne».
Non è la prima volta che la Chiesa parla delle donne, di sicuro è la prima che prova ad ascoltarle. Dice la sociologa Consuelo Corradi, relatrice della prima giornata: «C’è una strada che si è aperta e forse la Chiesa è disposta a ripensarsi». L’assemblea è molto maschile: vescovi e monsignori, filosofi, poeti, scienziati, architetti, musicisti arrivati da tutto il mondo. Ci sono tre cabine di traduzione simultanea e tutti affrontano disciplinatamente le relazioni (presentate da donne) su corpo, spirito, affettività, violenza, riconoscimento, ruoli. Non ci sono parole proibite. C’è casomai un «elefante nella stanza», come lo chiama la diplomatica svedese Ulla Gudmundson: la questione del «potere». E c’è il tema non meno ingombrante del sacerdozio femminile. E infine un’urgenza fin qui quasi taciuta: la grande fuga delle donne dalla Chiesa cattolica e il crollo delle vocazioni. C’è il rischio che in Germania, tra 10-15 anni, non ci siano più suore,osserva il vescovo di Essen, Franz Josef Overbeck. Sempre in Germania, tra l’altro, sembra sia diventato complicato spiegare a più della metà della popolazione, considerato il 30% di protestanti e il 30% di non credenti, perché le donne non possono essere pastori.
Nel taccuino della cronista ammessa ai lavori a porte chiuse si impilano più domande che risposte. Ma si sa, le buone domande sono quasi risposte. «La plenaria più vivace e profonda che abbiamo mai avuto — dice il presidente del Consiglio Pontifico della Cultura, Ravasi —. È solo l’inizio: voglio una consulta permanente composta da donne; lo dico al Papa, tra pochi minuti». Citando Adenauer, assicura che non si tratterà dell’ennesima commissione per non risolvere il problema. Da lì a poco Francesco rilancia: «Andate avanti. Si tratta di studiare criteri e modalità nuovi affinché le donne si sentano pienamente partecipi. Questa è una sfida non più rinviabile. Non siamo “il” Chiesa, ma la Chiesa!».
I cardinali siedono alla destra del Papa, le donne a sinistra. «Le signore le abbiamo lasciate per ultime?» chiede Francesco completando il giro di congedo, iniziato da destra. Il Papa riconosce Gudmundson, già ambasciatrice in Vaticano: «Buongiorno Ulla! Prega ancora il suo rosario luterano?». Suor Eugenia riceve in dono lo scrigno con rosario del tipo distribuito ai soli cardinali. Poi il Papa accende sul tablet della «missionaria sulla salaria», come lei stessa si definisce, la candela di «no more slaves», non più schiave. Questa suora combatte la tratta delle schiave del sesso, un’industria alimentata, solo in Italia, da 10 milioni di clienti ogni mese, un uomo adulto su tre. Suor Eugenia raccoglie l’applauso della plenaria e racconta del «sogno» di un sinodo al femminile. La sostiene Scaraffia: «Di cosa ci scandalizziamo. Caterina da Siena ha parlato in un sinodo nel ‘300 e noi non possiamo farlo oggi?» . Sul sacerdozio, le donne della plenaria mostrano grande prudenza e premono più per il «riconoscimento» della diversità. Sostiene suor Mary Melone, rettore della Pontificia Università Antonianum che«la piena realizzazione non si dimostra necessariamente nel fare ciò che fanno gli uomini: abbiamo altri spazi, e sono nostri».
In più di un intervento si cerca infine di spostare il baricentro. «La Chiesa sull’uguaglianza predica bene e razzola male», dice Scaraffia. «Violenza e abusi? Perché non parliamo della sessualità maschile?» rilancia la stessa professoressa. «Un nuovo patto? Perché non aprire una plenaria sulle culture maschili?» è la provocazione di Corradi. Ravasi raccoglie e ammette di accarezzare l’idea «di una plenaria sugli uomini o ancor meglio sull’antropologia generale». Maschio e femmina li creò.

il Fatto 8.2.15
Bergoglio apre la Curia alle donne

BASTA RINVII Dare “più spazio” alle donne nella Chiesa e nella società: una sfida, questa, “non più rinviabile”. È stato un forte richiamo alla valorizzazione della donna sia nei ruoli pubblici che in quelli ecclesiali il discorso rivolto dal Papa alla plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, dedicata ai saperi femminili. E mentre alle spalle sono rimaste le polemiche sulla chirurgia estetica come “burqa di carne”, come veniva definita nel documento preparatorio del cardinale presidente Gianfranco Ravasi, Francesco non ha mancato di lanciare un appello contro le tutte le violenze, le “deturpazioni”, le “mutilazioni”, le “mercificazioni” compiute sul corpo delle donne. “Si tratta di studiare criteri e modalità nuovi affinché le donne si sentano non ospiti, ma pienamente partecipi dei vari ambiti della vita sociale ed ecclesiale. Questa è una sfida non più rinviabile. Lo dico ai Pastori delle comunità cristiane, ma anche alle laiche e ai laici in diversi modi impegnati nella cultura, nell’educazione, nell’economia, nella politica, nel lavoro, nelle famiglie, nelle istituzioni religiose”, ha aggiunto il Papa, dopo aver spiegato che l’argomento scelto dal dicastero per la sua plenaria, “Le culture femminili: uguaglianza e differenza”, “mi sta molto a cuore”.

il Fatto 8.2.15
Solo marketing
Un appello rituale già sentito mille volte
di Pietrangelo Buttafuoco


Il Sacro è un fatto, la Chiesa è un’altra storia. L’urgenza di una “presenza più capillare e incisiva delle donne nella Chiesa”, così come invocato dal Pontefice regnante, è solo una frase generica. È marketing, non è rito. Chi vuole può trovarvi una novità e assecondare la voga in cui incorre il Papa ma che le donne non debbano più considerarsi “ospiti” ma “partecipi della vita sociale ed ecclesiale” – l’assunto, insomma, per come è stato pronunciato al Pontificio Consiglio per la cultura – è un luogo comune.
Non c’è Pontefice, nella memoria contemporanea, che non abbia usato, con i concetti medesimi, l’identico apparato retorico. Fa eccezione, per profondità – perché una cosa è il Sacro, altri sono i disbrigo mondani della Chiesa – la lettera di Giovanni Paolo II alla Conferenza Mondiale sulla Donna. Un messaggio, quello di Karol Wojtyla, non certo reticente. Forte di autocritica: “Tale rammarico”, scriveva il Papa polacco, “si traduca per tutta la Chiesa in un impegno di rinnovata fedeltà all’ispirazione evangelica, che proprio sul tema della liberazione della donna da ogni forma di sopruso e di dominio, ha un messaggio di perenne attualità, sgorgante dall’atteggiamento stesso di Cristo”.
NON È PENSABILE che Bergoglio vada in automatico rispetto ai totem dell’ideologicamente corretto ma se l’esegesi di regime lo accoglie festoso all’insegna del “se-non-ora-quando”, già il titolo dell’assemblea plenaria, “Le Culture femminili: uguaglianza e differenza”, diventa un tic rivelatore. Il temino sulle donne poi – perfetto nella vetrina del pensiero unico, cauto rispetto ad argomenti politicamente scivolosi quali l’aborto e la sacralità della vita – non è certo “una sfida non più rinviabile”.
Tutto è voga. Questa nota così anti-machista del Papa, magari tipica del suo provenire dalla cultura latino-americana, non è certo la grande marcia delle sorti progressive della Chiesa di cui già s’odono le fanfare. Se vale il dettaglio – e in teologia il dettaglio vale – è chiaro un fatto: nella prolusione del Santo Padre non c’è traccia di Dio. Certo, c’è la Chiesa e il credente descritto dalla prosa di Bergoglio, infatti, non è l’uomo proiettato nell’abbandono alla metafisica ma un volontario dell’associazionismo filantropico. Tutto ciò è etica, non religione. La consorteria degli uomini di buona volontà è un qualcosa che va bene, va benissimo ma è solo un sodalizio di buone intenzioni, non un segno del Divino. Un affratellamento secondo codice umano, troppo umano, non arriva a un esito di verità e crisma. È solo un qualcosa che attende l’applauso del secolo, non la speranza del Cielo e neppure la luce di una conoscenza ulteriore, quella stessa che i nostri padri – ad Atene, a Roma – riconoscevano già nelle apparizioni di Iside e che la furba saggezza del cattolicesimo ha poi trasferito nelle processioni votate alle sante e alla Vergine.
NON C’È DIO, dunque, e non c’è neppure la donna nella fabula edificante del Papa femminista. Il femminile, nella religione, non è certo un genere. E non è una comparsa cui offrire spazio in parrocchia. Il femminile – svelato nei tratti carnali di madre – è tema del Mistero. Ed è l’essenza di un rito ancestrale, la donna. Tutte le religioni universali – dalla paganitas all’Islam – si specchiano nel carisma femminile se poi la sura più dolce del Corano è dedicata alla Madonna e se l’esatto equilibro del rito alchemico è custodito nella curva aprente della luna. Sarebbe bastato ricordare, e giusto neppure una settimana fa è stata festa, Sant’Agata, la martire più sacra che santa nel cuore del popolo. Sarebbe bastato recitare un’Ave Maria. Una cosa, appunto, è la religione. Un’altra è il marketing.

Repubblica 8.2.15
Sculacciate, dal Vaticano critiche al Papa
Prima seduta della commissione anti pedofilia voluta da Francesco, le vittime insorgono dopo le parole del pontefice sulle punizioni ai figli “Violenza fisica sempre ingiustificabile”
Il nodo della responsabilità dei vescovi: “Sanzioni a chi non denuncia gli abusi o ci dimettiamo”
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO Santità, la sculacciata no: i bambini non si picchiano mai. Prima, la sorpresa, e le discussioni dentro la Chiesa e nelle famiglie. Dopo, apprezzamenti, ma anche qualche chiaro segno di insofferenza e disapprovazione tra i fedeli. Oltre che nell’istituzione vaticana che combatte la pedofilia.
Le parole del Papa di giustificazione per quei genitori che puniscono i figli usando le mani, hanno causato qualche levata di scudi ieri nella Pontificia Commissione per la tutela dei minori, istituita dallo stesso Francesco e riunita per la prima volta. A esprimere una netta presa di distanza sono stati due autorevoli esponenti dell’organismo, l’inglese Peter Saunders e l’irlandese Mary Collins. Due alfieri della crociata contro la pedofilia, entrambi con alle spalle storie di abusi da parte del clero.
«I bambini non hanno bisogno di essere picchiati — ha detto Saunders dopo l’incontro fra i 17 membri della Commissione — la violenza fisica non deve avere spazio nell’educazione moderna ». Mercoledì scorso, all’udienza generale Jorge Bergoglio si era rivolto all’uditorio parlando a braccio: «Una volta — ha detto — ho sentito un papà dire: “A volte devo picchiare un po’ i figli, ma mai in faccia per non avvilirli”». E ha commentato: «Che bello, ha senso della dignità. Deve punire, lo fa il giusto, e va avanti». Parole che arrivavano dopo quelle sul «pugno a chi offende mia madre », pronunciate a proposito della strage di Parigi contro «Si comincia magari con una leggera scoppola, ma in effetti l’idea di menare i bambini contempla il fatto di infliggere del dolore. Questo è contro la Bibbia. Gesù non perdona mai la violenza “Charlie Ebdo”.
Saunders ha detto di essere rimasto colpito da quello che ha chiamato come «un apparente appoggio alle botte per i bambini ». Da consigliere del Vaticano sulle questioni degli abusi ha spiegato che la prossima settimana parlerà al Papa direttamente, «perché ci sono milioni di piccoli in tutto il mondo picchiati ogni giorno». E ha continuato: di nessun tipo».
Sullo stesso piano le critiche di Mary Collins. «La cosa buona del Santo Padre è che parla senza troppe riflessioni, e penso che sotto molti aspetti sia bello perché dà conforto. Forse a volte risulta troppo diretto, ma è un uomo onesto». La riunione farà delle raccomandazioni al Papa sulla protezione dell’infanzia dalle punizioni corporali.
Gli attivissimi Saunders e Collins hanno poi affermato che se la Commissione non risolverà il problema della responsabilità dei vescovi sui casi di pedofilia, essi daranno le dimissioni. «Se non ci sarà un’azione ferma della Chiesa nella protezione dei bambini, lascerò la commissione », ha detto il primo, intervenuto accanto al cardinale Sean O’Malley, arcivescovo di Boston e presidente dell’organismo. C’è un «abissale primato di risposte inopportune da parte di troppi vescovi e preti» di fronte alle denunce. E la Collins: «Se entro uno o due anni non cambia la situazione, non solo Peter, ma anche io non sarò più nella commissione. Confesso un po’ di frustrazione. Come vittima vorrei vedere le cose muoversi più velocemente, sono anni che parliamo di queste cose... Ma sono fiduciosa che d’ora in poi avanzeremo più velocemente ». Francesco, ricevendo infine i partecipanti alla plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura sui saperi femminili, ha detto che «le donne non devono sentirsi ospiti, ma pienamente partecipi nella Chiesa e nella società. Una sfida non più rinviabile».

il Fatto 8.2.15
Non solo Serra
Boschi: “Nessun conflitto d’interessi. Lo dice Antitrust”
Il ministro possiede quote della pop Etruria (ai vertici c’è suo padre):
“Ma valgono poco”
di Ma. Pa.


Come va di moda dall’ultima copertina di Charlie Hebdo, “tutto è perdonato”. Si può essere azionisti di una banca popolare, figlia di un suo amministratore e partecipare alla ricostruzione - per decreto - di quel settore. Maria Elena Boschi ha circa 1500 azioni della Popolare Etruria, di cui suo padre è vicepresidente, eppure va in Parlamento a decidere se sulla riforma si deve accelerare o meno, se i tempi vanno contingentati, quali e quanti emendamenti si può permettere la maggioranza. Tutto è perdonato e, com’è giusto che sia, lei si perdona per prima: “Come è già stato chiarito non sussiste alcun conflitto d’interessi - dice al fattoquotidiano.it   - Lo ha certificato anche l’Antitrust, che ha archiviato una denuncia anonima”. Non solo: “Non ho nemmeno preso parte al consiglio d’amministrazione in cui è stato votato questo provvedimento”. Lo dice due volte: “Consiglio d’amministrazione”. Ci sono lapsus che valgono più di mille parole.
La ministro, comunque, vive in perenne marinatura nella buona coscienza: “Tutti i miei dati sono online: sono poche azioni e tutti possono vedere quanto valgono. Mica parliamo di milioni, nessuno si arricchisce”. Effettivamente, prima della riforma, valevano poco più di mille euro: insomma, è un conflittino, non esageriamo. Ci sarebbe la legge Frattini, che regola i conflitti su atti di governo che influenzano il patrimonio di ministri e familiari? “Non c’è profilo di incompatibilità. È un provvedimento che fa bene a tutto il sistema paese e poi Banca Etruria aveva già deciso il percorso di trasformazione in Spa nell’agosto 2014: è al di sopra di ogni sospetto”.
Perdonata(si) la Boschi, resta il caso di Davide Serra, finanziere con base a Londra e consigliere del premier. La Consob sta indagando su movimenti sospetti intorno alle azioni delle Popolari quotate che hanno preceduto il decreto del governo Renzi e sono avvenuti proprio nella City. Serra ha lasciato intendere su Twitter di essere arrivato vicino al 2% del Banco Popolare a marzo 2014 (sotto l’obbligo di pubblicità) e pure lui è già mezzo perdonato. Lo ha fatto per tutti l’ad del Banco, Pier Francesco Saviotti: “Quando leggeremo sulla stampa che Algebris ha più del 2% saremo sicuri che è nell’azionariato. Se ci fosse sarei contento, mica mi dispiacerebbe, è un’ottima società”. E poi “Serra lo conosco da vent’anni, da quando, in qualità di analista, veniva a trovarmi alla Banca Commerciale. Lo stimo e lo ammiro”. Amen.

il Fatto 8.2.15
Maquillage & banche popolari, l’insostenibile leggerezza di lady Pd
di Silvia Truzzi


QUASI QUASI fa tenerezza la soavità delle “ladylike” (copyright Alessandra Moretti) del Piddì, che vanno dall’estetista una volta alla settima e dal parrucchiere con maggiore frequenza (a giudicare dalla vaporosità di certi boccoli). Prendiamo il ministro Boschi, musa del governo (e pure dell’opposizione forzista, cfr l’abbraccio con Paolo Romani dopo il voto sulle riforme costituzionali). Domenica scorsa su RaiUno, nel salotto di Massimo Giletti (fidanzato della collega Moretti di cui sopra) il ministro ha detto, a proposito del famoso articolo 19 bis della delega fiscale (quello della manina di Renzi, per cui i reati fiscali di evasione e frode sono depenalizzati se l’Iva o l’imposta sul reddito evasa non supera “il 3% rispettivamente dell’imposta sul valore aggiunto o dell’imponibile dichiarato”): “Non credo che possiamo fare o non fare una norma, che riguarda 60 milioni di italiani, perché c’entra o meno Berlusconi. Altrimenti si resta fermi agli ultimi 20 anni…”. Aggiungendo che del resto in Francia sono molto più tolleranti di noi. Oltralpe infatti “la soglia è più alta, al 10 per cento”. Peccato che Marie Hélène abbia dimenticato di ricordare l’altra soglia, alternativa alla decima parte della somma contributiva, quella di 153 euro: in pratica la legge francese autorizza a perseguire penalmente l’evasione al di sopra dei 153 euro (il testo della legge francese si trova qui: www.juritravail.com  ). Passando alla memorabile frase sull’amico Nazareno, bisognerà evocare per forza un’espressione odiosa: il conflitto d’interessi. Eh già, quella legge mai fatta per B perché i compagni del fu Pci “gli avevano dato la garanzia già dal ’94 che le aziende e le televisioni non sarebbero state toccate” (copyright Luciano Violante). Senza dire della legge 361 del 1957 (che prevede l’ineleggibilità dei titolari di concessioni pubbliche), ma che nessuno ha mai pensato di far valere per non, hanno ribadito tante volte i piddini, “demonizzare l’avversario”: l’insostenibile leggerezza del dem.
TUTTAVIA l’espressione conflitto d’interessi è tornata di moda nelle ultime settimane per il decreto sulle banche popolari (chissà perché poi una riforma delle banche deve passare per un decreto legge, che si utilizza “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”, e non per una legge). Il padre di Maria Elena, Pier Luigi Boschi è vicepresidente della Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, il ministro dichiara di essere “titolare di numero 1.557 azioni di Banca Etruria soc coop, per un valore complessivo pari a circa 1.100 euro”. I giornali danno conto anche di un’indagine della Consob, per via di alcuni movimenti, nella piazza londinese, sui titoli di alcune banche popolari quotate in Borsa nei giorni precedenti la riforma. Ieri, interpellata dal fattoquotidiano.it  , il ministro ha ribadito la sua posizione: non ho partecipato al consiglio di amministrazione (era il consiglio dei ministri e se il lapsus non si fosse ripetuto due volte in un minuto e quaranta, non ne avremmo dato conto). Sviste linguistiche a parte, resta la legge Frattini che individua il conflitto d’interessi quando un membro di governo partecipa all’adozione di un atto che “ha influenza sul patrimonio suo o dei parenti”. Non c’è questo tipo di profilo ribatte la Boschi. Ma non bastano trucco & parrucco a trasformare un conflitto d’interesse in un calesse, anche se si tratta pur sempre di maquillage.

La Stampa 8.2.15
La minoranza Pd ora invoca l’effetto-Mattarella sull’Italicum
di Francesco Grignetti


L’arrivo degli otto ex montiani non ha turbato più di tanto la minoranza del Pd. Certo, il ritorno a casa di Ichino, Lanzillotta o Tinagli, così affezionati al liberismo dell’Agenda Monti, è forse un po’ indigesto a quella sinistra interna che aveva gioito alla loro fuoriuscita dal partito. Vedasi il disappunto di Stefano Fassina o Pippo Civati. Ma tant’è. La vera partita cui attende la minoranza del Partito democratico è legata al voto sulle riforme, a cominciare dalla settimana prossima.
Sarà lì, alla prova dell’Aula, dove martedì si cominciano a votare le pregiudiziali, non certo per gli spostamenti di questo o di quello, che si valuterà se lo schema-Mattarella va avanti oppure se si tornerà a un rabberciato Patto del Nazareno. Per trovare una quadra, il gruppone di Area riformista, composto dai quarantenni vicini al capogruppo Roberto Speranza, ultradialoganti con Renzi, ha avanzato discretamente una cosiddetta «proposta di mediazione» che potrebbe far uscire tutti dall’impasse che s’è vista al Senato: se il problema sono i capilista bloccati, perché non ridurne il numero riducendo il numero dei collegi elettorali? Classica strategia di riduzione del danno.
Attualmente l’Italicum prevede 100 collegi elettorali e quindi 100 capilista, con la conseguenza che i leader di partito potranno dotarsi di una guardia pretoriana. Berlusconi, per dire, alle prese con un partito in rivolta, ne ha fatto una questione di vita o di morte. L’effetto però è che anche il futuro Parlamento avrebbe un 70% di «nominati», il resto scelti attraverso le preferenze. Se però da 100 si scendesse a 80 o addirittura a 70 collegi, l’impianto dell’Italicum non cambierebbe, ma agli effetti pratici i «nominati» sarebbero il 50% degli eletti.
Una «proposta di mediazione», appunto. Si attende ora la risposta del ministro Maria Elena Boschi e di Forza Italia. Quale Forza Italia, però, non si sa: se quella di Denis Verdini o quella di Renato Brunetta. Che comunque è stata avvisata pubblicamente dal vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, dalle colonne di questo giornale: «Se vi tirate indietro, ridiscutiamo tutto».
Chiaro che se Renzi annacquasse l’Italicum, pur non rovesciandone i principi, e incassasse il voto della sua minoranza ma non dei berlusconiani, il Pd potrebbe confermare l’unità d’azione. «E allora sì che cambierebbe la prospettiva politica della legislatura; al Senato si potrebbe persino pensare alla confluenza di qualche ex M5S e rafforzare i nostri numeri», dice un autorevole esponente della minoranza.
La sensazione è che l’elezione di Sergio Mattarella al Colle abbia cambiato molte cose in Parlamento. Nel senso che il Patto del Nazareno pare in frantumi e di converso si siano riavvicinati maggioranza e minoranza del Pd. Per dirla con le parole di Miguel Gotor, il senatore bersaniano che più di tutti s’è distinto nell’opporsi all’Italicum e al Patto del Nazareno, «noi continueremo con le nostre critiche di merito, ma dopo il passaggio cruciale della Presidenza della Repubblica, che è andato molto meglio del previsto, sono più ottimista di prima».
Lo slogan della minoranza, ora, è «viva un Pd plurale». Che può andare da Pietro Ichino a Gennaro Migliore, passando per Renzi e Bersani. Purché non sospettabile di intelligenza con il nemico Berlusconi.

Repubblica 8.2.15
Renzi lancia la volata all’Expo “Alla Scala niente figuracce il boicottaggio è intollerabile”
Gli irriducibili del teatro “Si rassegni, non ci costringerà a lavorare il Primo Maggio”
di Paola Zonca


MILANO «Non ce ne importa nulla, noi andiamo avanti». È la prima reazione degli irriducibili della Cgil scaligera all’energica strigliata di Matteo Renzi, che dal palco dell’Hangar Bicocca ha minacciato di prendere “misure normative” contro “il boicottaggio” da parte dei dipendenti intenzionati a non lavorare il Primo Maggio, mettendo a rischio l’inaugurazione dell’Expo con la Turandot diretta da Riccardo Chailly. «Il premier sta pensando di promulgare un decreto ad hoc che obblighi i dipendenti della Scala a lavorare anche nei giorni festivi?» si chiede Francesco Lattuada, violista dell’orchestra e rappresentante sindacale. «Sarà dura riuscire ad equiparare un teatro ai servizi di prima necessità, come il pronto soccorso o i trasporti».
La spinosa questione è aperta da alcuni mesi, cioè da quando il sovrintendente Alexander Pereira ha annunciato il calendario degli spettacoli nel periodo dell’Expo, aperto proprio il Primo Maggio dal capolavoro di Puccini. Agli inizi di gennaio il manager austriaco ha inviato una lettera ai dipendenti per chiedere la loro disponibilità a lavorare attendendo una risposta entro il 31 dello scorso mese. Ma quella che doveva essere una scelta dei singoli è diventata materia di una battaglia sindacale all’ultimo sangue, con un gruppo di iscritti alla Cgil decisi a far valere il diritto “indisponibile” di festeggiare la ricorrenza, sancito dalla Cassazione. Subito gli altri sindacati, e anche una parte della Cgil, si sono dissociati, esprimendo la loro volontà di partecipare all’inaugurazione di Expo. E ora non si stupiscono dell’intervento durissimo di Renzi. «Era prevedibile che non sarebbero stati tutti lì a guardare» sostiene Silvio Belleni, della Cisl milanese. «È assurdo che alcuni dirigenti della Cgil abbiano invitato gli iscritti a non lavorare». «Restiamo dell’idea che la posizione della Cgil sia sbagliata» dice Domenico Dentoni della Uil. «È vero che Renzi ha usato in modo inopportuno le parole “sciopero” e “boicottaggio”. Però è bene che la Scala adesso decida cosa fare. Non si può andare avanti con questo tormentone fino a maggio».
Certo è che il premier ha scelto una linea opposta a quella del numero uno scaligero, che si è sempre detto intenzionato a convincere tutti i dipendenti, anche quelli più riottosi, a lavorare in una serata che espone Milano e la Scala agli occhi del mondo intero. Le lettere di risposta non sono ancora state aperte, ma qualche dato è già chiaro. Orchestra e coro sono pronti in larghissima maggioranza a suonare. Non così i tecnici di palcoscenico: in tutto sono circa 200, per assicurare la regolare messinscena della Turandot ce ne vogliono un centinaio, e una cinquantina sarebbero decisi a non presentarsi in teatro. In particolare, gli elettricisti diserteranno quasi in blocco (30 assenti su 40). Finora a nulla sono valsi gli interventi pacificatori dei vertici della Cgil, compresa la segretaria nazionale Susanna Camusso, che hanno invitato a non bloccare lo spettacolo. «Non stiamo boicottando proprio nulla, è nostro diritto rifiutarci di lavorare» dicono i “dissidenti” della Cgil. «La sparata di Renzi è un segno di debolezza » conclude Lattuada. «Se ci costringeranno con un decreto, faremo causa».

La Stampa 8.2.15
Roma a luci rosse, ora è guerra tra quartieri
Gli abitanti all’Eur: “Ben venga la zona per le prostitute” Ma quelli di Spinaceto: “Il degrado rischia di trasferirsi qui”
di Maria Corbi


Devono aver pensato che se lo chiamavano «zoning» faceva più chic. In fondo era difficile definire la transumanza di carne umana da strada a strada, il trasferimento delle prostitute in una zona dedicata, e così il presidente del IX municipio, Andrea Santoro, ha deciso di buttarsi sull’inglese per dare una soluzione al malcontento degli abitanti di questa zona a sud di Roma dove Mussolini volle costruire l’Eur, un quartiere simbolo del razionalismo e del regime, e dove da anni si vive male e a stretto contatto con la feccia inclusa nella prostituzione, a iniziare dai clienti. Viale Europa, viale Tupini, viale America, viale della Tecnica, dell’Umanesimo: le strade «bene» dell’Eur occupate da un esercito di ragazze e ragazzine dell’Est Europa in mutande, o anche no, e di maschi in cerca di sesso a pagamento.
Nessuno le vuole
«Mia figlia ha sedici anni e quando torna la sera a casa dopo una festa deve passare attraverso tutto questo schifo… », dice Marika, 47 anni. Al Dany’s Bar interviene Claudio Aredo che deve vendere una casa e non ci riesce. «Non solo c’è la crisi immobiliare, ma ci si mettono anche le prostitute... Basta che se ne vadano da sotto casa mia…». Il problema è che dove le metteranno ancora non è chiaro. «La scelta delle strade sarà fatta insieme alle forze dell’ordine, non spetta al Municipio farlo. Saranno comunque lontano dalle abitazioni o dai centri di aggregazione», spiega Andrea Santoro. La domanda collettiva è: dove, visto che dall’Eur a Pomezia la densità abitativa è alle stelle? A Spinaceto, appena oltre il Grande anulare, dove già sono «emigrate» gruppi di prostitute, tremano. Maria Luisa, che vive nelle case popolari, sospira: «Eh, certo, le tolgono da sotto casa dei signori e le mettono sotto alle nostre...». Intanto è iniziata una raccolta di firme tra i residenti dell’VIII e IX Municipio contro la proposta, spiega il consigliere comunale per la lista civica dell’ex sindaco Alemanno, Luigi De Palo: «Il decoro o l’organizzazione non può valere la dignità di una donna».
La Chiesa: «È un’ipocrisia»
E in attesa di conoscere i confini precisi di questa zona hot, il dibattito è acceso. «Coinvolgeremo anche i parroci - dice Santoro - Dobbiamo mettere da parte le convinzioni di coscienza». Ma la Chiesa è stata chiarissima e non intende abdicare al principio ella dignità umana. Da Avvenire, il quotidiano dei vescovi, un giudizio definitivo: «Un’ipocrita (e forse ideologica) operazione per il “decoro” urbano. Non un impegno contro il degrado umano, a fianco delle vittime. Ne proviamo vergogna». E ancora: «Alla vigilia della giornata di preghiera e azione contro la tratta degli esseri umani, Roma - la capitale d’Italia, la città culla e cuore dell’umanesimo cristiano - si fa capofila di un progetto che assomiglia alla polvere celata sotto un tappeto di luci rosse. Un lavarsi la coscienza, come le strade. Non una scelta decisa per affrontare il dramma della prostituzione».
Il partito del No
E nonostante l’idea del quartiere hot all’ombra del Cupolone incassi il sì del Codacons e anche quello entusiasta dell’assessore capitolino alle Pari Opportunità Alessandra Cattoi - «Il percorso iniziato dal presidente Santoro è molto rispettoso di tutte le persone che vengono coinvolte in questa vicenda: da una parte le donne, dall’altra i cittadini che vivono in quartieri dove effettivamente ci sono situazioni di degrado» - sono in molti a dire no. Dal Pd Stefano Pedica parla di «ghetti a luce rossa». Secondo Gianni Alemanno «con l’introduzione del quartiere a luci rosse l’amministrazione capitolina si arrende alla prostituzione». Sempre dal centrodestra Barbara Saltamartini fa notare su Twitter che «Marino prometteva una città a misura di bambino, invece ora vuole vie a misura di prostitute definendola azione di decoro». Zoning, per l’esattezza. Ora altri municipi sarebbero pronti a imitare il progetto «hot».

Corriere 8.2.15
Opere incompiute e zona a luci rosse
La crisi dell’Eur, ex quartiere di lusso
Dalla Nuvola di Fuksas alle torri abbandonate delle Finanze, il quartiere vive situazioni di grandi disagio
L’annunciata istituzione della zona a luci rosse è solo l’ultimo degli elementi che segnano la grande crisi del quartiere nato per la mancata Esposizione Universale
di Paolo Conti

qui

Corriere 8.2.15
All’Eur, dove 18 vie su 30 sono un mercato del sesso
di Fabrizio Caccia e Monica Ricci Sargentini


ROMA Arrivare in macchina in viale Umberto Tupini con in testa le parole di una vecchia canzone di De Gregori («Quando la notte scende e il buio diventa brina, e uomini e animali cambiano zona, lucciole sulla Salaria e zoccole in via Frattina...»), raggiungere l’epicentro di questa storia amara il giorno dopo che la bomba è ormai scoppiata e il piccolo municipio stremato dell’Eur (il IX) ha dichiarato ufficialmente guerra alla prostituzione (18 strade su 30 invase h24 dal mercato del sesso) con l’annuncio di creare dal mese di aprile una zona franca a luci rosse, per ridurre il danno ma in compenso liberare il resto del quartiere assediato.
Viaggio nel mondo della prostituzione a Roma, alla vigilia di quella che sarà, oggi, la Giornata mondiale contro la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento sessuale: domenica 8 febbraio 2015, festa di santa Giuseppina Bakhita, schiava sudanese liberata e poi divenuta religiosa canossiana, canonizzata nel 2000 da Giovanni Paolo II. Anche Papa Bergoglio oggi all’Angelus in piazza San Pietro la ricorderà. Viaggio nella Capitale della tratta su strada: non a caso altri due municipi (il III e l’VIII) si son già detti interessati a seguire le orme dell’Eur e il suo progetto di «zoning» per arginare il fenomeno dilagante. Federica Gaspari (cooperativa Parsec, impegnata da anni col progetto Roxane del Comune di Roma per aiutare le prostitute-schiave) stima in 2.500 gli «stagionali» (il picco è d’estate) di questo gigantesco supermarket del sesso, sempre aperto e senza un giorno di ferie in tutti i quadranti (non solo Eur: Tiburtina, Salaria, Ardeatina, Caracalla, Togliatti, Trigoria...).
Un esercito composto per il 65 per cento da donne (in gran parte rumene e nigeriane), per il 30 per cento da transessuali (brasiliani in primis e poi colombiani e argentini) e per il restante 5 per cento da uomini (rumeni e nordafricani), questi ultimi in vendita soprattutto nella zona di Termini, la grande stazione. Mirta Da Pra, del gruppo Abele, autrice del libro «Prostituzione», aggiunge che «negli ultimi 5-6 anni è cresciuto pure il numero delle minorenni straniere su strada passato dal 5 al 12 per cento» (diverso il fenomeno delle baby squillo italiane che lavorano al chiuso, ndr ) e sono le stesse prostitute adulte ad offrire la merce ai clienti («La vuoi la bambolina?», questo il messaggio in codice).
Lo squallore e il degrado sotto gli occhi di tutti. Accoppiamenti nei giardini condominiali e negli androni dei palazzi, falò notturni, cittadini che inviano al presidente del IX municipio, Andrea Santoro, le foto scattate dalle loro finestre che ritraggono gli amplessi delle prostitute con i clienti: questo succede all’Eur in viale Tupini e tappeti di condom usati e fazzolettini ogni mattina si vedono costretti a spazzar via i negozianti di viale Europa e viale America, le strade adiacenti dello shopping di lusso.
Ma spettacoli osceni si ripetono pure in piazza Gandhi, via Borneo (dove i residenti delle ville alla fine esasperati hanno messo una sbarra antitraffico) e poi giù per viale dell’Umanesimo, che scende tortuosa fino alla torre del Fungo, la zona prescelta dai trans sudamericani, con le loro piume, le giarrettiere e i trampoli e la loro occupazione geometrica degli spazi, della grande vetrina del marciapiede. Federica Dolente, giovane ricercatrice che nel 2008 insieme ad altri colleghi diede alle stampe un piccolo libro («Lo zoning possibile») è contrarissima all’idea di ghetto che aleggia un po’ all’Eur e denuncia piuttosto il taglio drastico degli ultimi anni alla spesa sociale da parte delle amministrazioni, con il conseguente indebolimento del lavoro delle unità di strada di supporto alle ragazze («Se prima passavano una volta ogni 10 giorni, adesso lo fanno una volta ogni 2 mesi...»). Ci hanno provato in tanti a curare la piaga: nel 2008 l’ex sindaco Alemanno varò un’ordinanza contro le minigonne delle prostitute, «motivo di distrazione» per gli automobilisti. E giù raffiche di multe contro le lucciole e i loro clienti, in un Paese in cui la prostituzione non è reato. La discesa all’inferno, però, si è completata con l’avvento del web e così adesso c’è un sito, «gnoccaforum», dove i clienti romani lasciano le loro recensioni coi nomi delle ragazze, le tariffe e i diversi tipi di prestazione. E intanto si fa avanti pure prepotente — a segnalarlo è don Aldo Buonaiuto della comunità Papa Giovanni XXIII — la concorrenza delle cinesi e delle bengalesi, che in questi tempi di crisi ricevono in casa a prezzi scontatissimi: «L’unica ricetta per fermare la domanda è fare come in Svezia, sanzionare il cliente», sentenzia don Aldo.
In viale Tupini, mentre sta per cominciare un’altra notte da incubo, Paolo Lampariello, dell’associazione di cittadini “Ripartiamo dall’Eur”, confessa candidamente: «Io sono di destra, ma oggi mi ritrovo volentieri insieme al presidente del mio municipio, Santoro, del Pd...». Già, tutti uniti appassionatamente, in questa guerra che però è senza vinti nè vincitori.

Corriere 8.2.15
Stefania, romena: «Ci lasceranno ancora più sole in balìa dei clienti»
di Fa. C.

ROMA «Con la zona a luci rosse si laveranno la coscienza e ci lasceranno ancora più sole, in balìa dei clienti e dei criminali che ci sfruttano. Ci confineranno in un ghetto, lontano dalle loro finestre e così, non vedendoci più, ci dimenticheranno». È il grido di dolore lanciato da Stefania (nome di fantasia), 22 anni, romena, soccorsa e salvata a Roma 7 mesi fa da don Aldo Buonaiuto della Comunità Papa Giovanni XXIII. «Per favore, ricordatevi sempre che noi non siamo prostitute, ma schiave — dice —. Noi non abbiamo scelto questa vita, siamo state ingannate. A me che non volevo prostituirmi e che 2 anni fa ero venuta a Roma con la promessa di un lavoro di badante e la prospettiva di mandare soldi alla mia famiglia, poverissima, i miei due aguzzini rumeni hanno strappato l’orecchio destro per punizione. Ma ora sono libera e alle altre ragazze dico di fare come me e trovare la forza di denunciare».

La Stampa 8.2.15
Ucraina e Grecia
I due fronti dell’Europa
di Bill Emmott


L’Europa si trova di fronte a due trattative importanti ma pericolose: quella tra la Russia, la Germania e la Francia sull’Ucraina, l’altra tra la Grecia e la Germania sul futuro dell’euro. Quale ha maggiori probabilità di successo?
Beh, è difficile dirlo. Ma le due trattative condividono una caratteristica comune che può offrire un indizio.
Tale caratteristica è che in entrambi i casi le parti opposte nei negoziati hanno iniziato con analisi completamente diverse del problema su cui stanno negoziando. Quando si analizza un problema, o si diagnostica una malattia, in modo opposto è molto difficile concordare una soluzione o una cura.
Nell’Ucraina, la Russia di Vladimir Putin vede un Paese che storicamente e culturalmente è stato a lungo parte della Russia, e vede la ribellione che sta sostenendo nell’Est come uno sforzo legittimo per mantenere l’Ucraina e la Russia l’una vicina all’altra. La tedesca Angela Merkel e il francese François Hollande, così come la maggior parte dei loro colleghi dell’Unione europea, vedono invece un Paese sovrano che viene violato dal suo potente vicino di casa, dopo ll precedente dell’annessione della Crimea.
Non ci può davvero essere un terreno comune tra queste posizioni. Un cessate il fuoco in Ucraina orientale potrebbe calmare le acque per un po’, ma il fatto è che l’Ucraina o è indipendente o non lo è. L’alternativa, che l’America fornisca al governo ucraino un equipaggiamento migliore, così da metterla in grado di fronteggiare i ribelli foraggiati dalla Russia, potrebbe convincere Putin che la battaglia non si può vincere - ma potrebbe anche convincerlo a voler vedere il bluff dell’America e portare a un escalation del conflitto.
Cerchiamo quindi di concentrarci su un tema più allegro: il confronto tra il nuovo governo greco la Germania della signora Merkel. In questo caso la negoziazione offre qualche speranza in più.
E’ vero che le analisi di base delle due parti sui problemi economici della Grecia, e in effetti quelle sulla zona euro nel suo complesso, sono completamente diverse. La Germania vede una malattia causata dal debito greco e per la quale l’austerità è la cura principale. La Grecia vede un debito causato dallo sconsiderato credito tedesco, vede che gli ultimi pacchetti di salvataggio hanno aiutato soprattutto le banche tedesche, e vede l’austerità come causa solo di povertà e non di recupero.
Come nel caso dell’Ucraina, non ci può essere via di mezzo tra un creditore che insiste sul fatto che tutti i debiti devono essere pagati per intero, perché condonare i debiti sarebbe immorale e un debitore che dice che l’onere di tali crediti deve essere ridotto, altrimenti le conseguenze saranno, quelle sì, immorali.
Il tour delle capitali europee, compresa Berlino, compiuto la settimana scorsa dal nuovo, anticonformista ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, ha chiarito quanto grande sia il divario tra le due parti.
Detto questo, c’è una differenza fondamentale tra la politica nazionalista vista nel conflitto ucraino e l’economia nazionalista del caso greco. E’ che in economia, e in particolare nelle transazioni finanziarie, c’è più spazio per la creatività. Se le due parti vogliono una soluzione pacifica, in una trattativa economica ci sono abbastanza variabili e dimensioni per rendere possibile un tale accordo.
Per la Grecia, due aspetti di quella trattativa potrebbero offrire una via d’uscita - e un anche un modo per far convergere le diverse analisi della Germania e della Grecia.
Il primo risiede nel modo di affrontare il peso del debito sovrano della Grecia. Un’ulteriore cancellazione è inaccettabile. Un accordo speciale per la Grecia sarebbe insostenibile tra gli altri membri della zona euro. Quindi, occorre convertire la proposta iniziale della Grecia, di uno scambio di parte del debito in nuovi bond legati alla sua crescita economica, in una regola che può essere applicata non solo alla Grecia, ma a tutti i membri della zona euro, ora e in futuro.
Tale norma deve lasciare ai governi l’obbligo di rimborsare i loro debiti, ma con l’opportunità di ridurre l’onere degli interessi annui e del rischio in cambio di condizioni concordate sulla riforma economica interna. Quelle riforme economiche nazionali possono essere inquadrate nel contesto di un’iniziativa a livello europeo per estendere e completare il mercato unico, secondo le linee proposte diversi anni fa da Mario Monti, prima di diventare presidente del Consiglio.
Queste riforme interne sono anche la sede per il secondo elemento che può indurre alla speranza. Qui, c’è già un terreno comune nelle analisi tedesca e greca. Syriza, il nuovo partito di governo in Grecia, sarà pure di estrema sinistra, ma afferma di voler porre fine al capitalismo clientelare che in Grecia è dominato da oligarchi miliardari e di voler combattere la corruzione e l’evasione fiscale. Questo dovrebbe essere musica per le orecchie tedesche. Il modo migliore per avere sia la competitività che la trasparenza. In altre parole, un mercato unico liberalizzato.
Quindi un percorso saggio verso l’accordo potrebbe partire da quel terreno comune. Se le riforme possono essere concordate, trovare modi per rendere il debito abbordabile sarebbe più facile. E può essere attuato come progetto europeo e non solo greco. Una dimostrazione di solidarietà europea è esattamente ciò di cui l’Unione europea ha bisogno.
Perché qui sta la ragione ultima per essere più fiduciosi sulla Grecia che sull’Ucraina. L’esistenza del pericolo chiaro e presente di un allargamento della guerra alle frontiere dell’Ue in Ucraina deve rendere tutti gli Stati membri, ma soprattutto la Germania, ansiosi di mantenere l’unità e la solidarietà, e quindi appassionarli a una vera soluzione europea al problema greco.
Così, l’irriducibilità della situazione ucraina dovrebbe rendere più facile da affrontare la natura irriducibile della situazione greca. Syriza è un po’ troppo amichevole con la Russia per il gusto tedesco. Ma sicuramente lasciar perdere quell’amicizia sarebbe un prezzo che vale la pena pagare.
traduzione di Carla Reschia

il Fatto 8.2.15
Atene sempre più sola, Moody’s attacca
di Roberta Zunini


Atene Quando si deve spiegare di non avere problemi non è mai un bel segnale: “Anche se vi fossero problemi di liquidità, troveremo i soldi”, spiega il ministro delle Finanze della Grecia Dimitris Mardas. Parole che sicuramente non bastano a rassicurare chi teme che giovedì mattina la Grecia si svegli senza la possibilità per le sue banche di accedere ai fondi della Bce secondo le procedure normali. Il presidente Mario Draghi ha spiegato che sarà inevitabile se la sera di mercoledì l’Eurogruppo, cioè il coordinamento dei ministri dell’euro, e il governo di Atene non troveranno un’intesa: l’esecutivo di Alexis Tsipras chiede di poter aumentare la spesa pubblica nel 2015, di avere gli ultimi soldi del programma europeo di aiuti e di pagare meno interessi sul suo debito pubblico. La Germania guida il gruppo dei Paesi che invece vogliono sottomettere anche il nuovo governo alle stesse regole accettate da quello precedente.
Due giorni fa l’agenzia di rating americana Standard & Poor’s ha degradato il debito greco da B a B-, una mossa che è stata letta come un’ingerenza, visto che indebolisce Tispras nelle sue trattative europee. Ieri, anche l’altra grande agenzia americana, Moody’s, ha dato il suo contributo: le trattative europee hanno un esito “estremamente incerto”, il giudizio Caa1 potrebbe essere visto al ribasso e a marzo la Grecia rischia un nuovo default quando scadono prestiti per 4,3 miliardi di euro.
Il pellegrinaggio nelle capitali europee del ministro greco dell’Economia, lo scravattato Yanis Varoufakis, per ottenere sconti sull’austerità e un prestito ponte mentre si negoziano nuove condizioni coi creditori, è andato male. “Ci troviamo in una situazione da crisi umanitaria. Ci sono persone che dormono lungo le strade, che hanno fame, persone che avevano posti di lavoro, case, persino negozi, sino a due-tre anni fa e adesso non hanno niente”, spiegava prima delle elezioni (in una intervista che sarà trasmessa questa sera da Presadiretta su Rai3). Varoufakis sa che deve drammatizzare: “Una capitale europea che vive una crisi umanitaria così grande non ci porterà in un Europa più democratica”. Ma la delusione per l’accoglienza in Europa è stata grande. La questione si è spostata tutta sul piano finanziario, ma ad Atene la situazione resta quella dell’emergenza umanitaria denunciata da Varoufakis poche settimane fa: 300 mila famiglie non riescono a pagare la bolletta e sono ancora al buio anche se la presidente dell’Attica, la grande regione di cui Atene è capoluogo, Rena Dourou, personalità di spicco di Syriza, ha promesso che “presto correrà in loro soccorso”. Ma trovare i soldi è un’impresa. Varoufakis ha assicurato di voler “presentare una serie di proposte sul tavolo dell’Unione Europea, della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale (la Troika), per porre fine a questo circolo vizioso. Ormai la crisi umanitaria ha superato i confini della Grecia e tocca tutta l’Europa”.
DOPO I CAUTI ENTUSIASMI per la vittoria di Syriza, lo scorso 25 gennaio, il clima nella capitale sembrava abbastanza sereno, nonostante l’accoglienza molto fredda del premier Alexis Tsipras e di Varoufakis nelle capitali europee. Ma venerdì sera, all’improvviso, Atene è tornata indietro agli anni in cui la crisi finanziaria si declinava quotidianamente in tensione sociale, quando al governo non c’era Syriza ma la grande coalizione di Nuova Democrazia e i socialisti del Pasok. La polizia ha fatto irruzione nel quartiere anarchico di Exarchia, nel cuore della capitale, dove durante il week-end si ritrovano giovani e turisti per ascoltare musica dal vivo nei locali attorno alla piazza principale. Nonostante le rassicuranti affermazioni del neo capo dei servizi segreti, il giornalista Yiannis Roubatis, e la scelta del governo di evitare scontri, la polizia ha lanciato senza motivo lacrimogeni e granate stordenti. I ragazzi non hanno però reagito. Al Fatto tutti hanno spiegato di non aver fatto nulla per “non prestare il fianco a una provocazione bella e buona degli agenti che tutti sanno essere i principali e più affezionati elettori del partito nazista e xenofobo Alba Dorata, risultato il terzo partito greco dopo le elezioni del 25 gennaio. Nonostante il suo leader e quasi tutti i suoi parlamentari abbiano dovuto fare campagna elettorale dal carcere, dopo essere stati arrestati per il coinvolgimento in un omicidio.

Il Sole 8.2.15
Varoufakis: «Grecia in crisi umanitaria, peggio che nel 2010»

qui

Il Sole 8.2.15
La tirannia della Grecia sulla Germania (o sull’Ocse...)
di Paul Kruger


Tranquilli, non sono andato fuori di testa. Il titolo che ho scelto riprende il titolo di un classico, scritto da Eliza Marian Butler, sull’ossessione della cultura tedesca per l’antica Grecia, e non ha niente a che vedere con gli attuali problemi di politica economica. Mi è venuto in mente mentre leggevo le riflessioni dell’economista Simon Wren-Lewis che ha formulato due ipotesi per il disastroso piano di austerità del 2010 (le trovate qui: bit.ly/1CWutmd). La prima ipotesi è che si sia trattato solo di sfortuna: la Grecia è saltata alla fine del 2009 e subito sono partite le false analogie fra i problemi economici greci e quelli degli altri Paesi. Quella ellenizzazione del dibattito può essere descritta come una tirannia della Grecia, ma più che sulla Germania, sull’Ocse in generale.
La seconda ipotesi è che la Grecia non è stata altro che uno strumento di comodo per chi avrebbe comunque adottato una politica sbagliata; se non ci fossero stati i guai economici della Grecia, avrebbe trovato altre scuse. Figuratevi che poco tempo fa Nick Clegg, il vicepremier britannico, ha dichiarato in un editoriale sul Telegraph, che quanto che è accaduto recentemente in Grecia conferma la validità delle politiche di austerità.
Io propendo più per la seconda ipotesi, non solo per le ragioni illustrate da Wren-Lewis, ma per quello che ho sentito nell’autunno 2009, prima che la Grecia saltasse e cioè che anche all’interno dell’amministrazione Obama e nonostante i costi del prestito bassissimi, molte autorità erano riuscite a convincersi e a convincere tutti che la posizione fiscale degli Usa era fragile. E non l’ho sentito soltanto io.
Di sicuro la Grecia ha facilitato l’inghippo. Ma quella ostinata ossessione per il deficit davanti a una disoccupazione di massa è stata molto pervasiva .
Uscire dall’euro?
Perché si discute su una possibile uscita della Grecia dall’euro? Una prima risposta sarebbe: per le banche greche, che dipendono dalla disponibilità di un prestatore di ultima istanza, un ruolo che il governo di Atene non è in grado di assolvere perché non ha più una sua moneta, ha perso la sovranità monetaria.
E questo significa che se la Grecia fosse costretta a uscirea dall’euro sarebbe perché Bruxelles e Francoforte hanno di fatto deciso di tenere in ostaggio il sistema bancario greco e la Grecia si è rifiutata di pagare il riscatto. Una prospettiva un tantino diversa, non credete?

Repubblica 8.2.15
Il compromesso greco
di Alberto Bisin


LA SITUAZIONE greca si risolverà molto probabilmente con un accordo tra il nuovo governo e le istituzioni internazionali che operano in varie forme e mezzi come creditori del Paese (la Troika). Come spesso succede in questi casi, l’accordo sarà raggiunto all’ultimo momento utile, perché una prova di forza da entrambe le parti è necessaria per un compromesso nel giusto mezzo. Osserveremo ancora molto teatro, quindi, camicie fuori dai pantaloni, affermazioni esagerate, espressioni del viso come quella del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble alla menzione dell’ascesa del nazismo negli anni ‘30, e anche mosse apparentemente solo tecniche come quella della Banca centrale europea riguardante l’offerta di liquidità al sistema bancario greco.
Anzi, io non credo che l’accordo sarà in sostanza molto diverso da quello che sarebbe stato raggiunto se Syriza non avesse vinto le elezioni. Dico così perché i margini di contrattazione non sono elevatissimi. La Grecia non ha alcun interesse a tagliare unilateralmente il proprio debito (cioè ad un default), come promesso da Syriza in campagna elettorale. Questo perché al momento, e come conseguenza della ristrutturazione precedente, le condizioni di ripagamento del debito sono molto favorevoli per la Grecia. Sono cioè a bassi tassi e a lungo periodo. A far i conti, un po’ approssimativamente, si arriva ad un costo del debito (al netto degli interessi che la Bce e le banche centrali nazionali ritornano alla Grecia sotto certe condizioni) di circa il 2 percento del Prodotto interno lordo e ad una maturità media superiore ai vent’anni. Una ulteriore ristrutturazione farà parte del pacchetto di accordi ma non cambierà molto la situazione.
L’idea che circola di legare il ripagamento del debito alla crescita del Pil può sembrare buona (perché condizionerebbe il ripagamento alla disponibilità di risorse per farlo, limitandone il costo sociale) ma è in realtà pessima (perché darebbe al governo greco incentivi a politiche di spesa clientelare che non generano crescita; incentivi peraltro già fin troppo presenti nel sistema politico-istituzionale del Paese e nel sistema ideologico di questo governo). Speriamo sia abbandonata rapidamente.
Importante sarà il compromesso riguardo al surplus primario (la differenza tra entrate e spesa pubblica al netto degli interessi) e le riforme strutturali che sono parte degli accordi al momento in vigore con la Troika. Mi pare che la Grecia abbia poche carte in mano, a questo proposito, ma si vedrà. Quello che la politica, non solo in Grecia, chiama — con una intelligente invenzione retorica — austerità non è altro che vivere coi propri mezzi, senza deficit di bilancio permanenti (superiori al 10 percento del Pil in Grecia prima della crisi). Un po’ di margine rimane, ma non molto. L’idea di spostare le riforme verso un attacco ai monopoli e alla corruzione è ottima, se fattibile. La Grecia ha migliorato in modo abbastanza significativo la propria posizione nelle classifiche riguardanti la facilità di condurre affari della Banca mondiale negli ultimi anni. Per quanto poco valgano queste classifiche, è un buon segno, ma vi è ancora un grosso margine di azione per rendere il Paese più produttivo.
Alla fine il compromesso sarà in larga parte una questione di facciata. Permetterà a Syriza di dichiarare vittoria e al contempo alla tecnocrazia europea di prendersi i meriti dello scampato pericolo per l’Euro e per l’Unione.
L’unico elemento in grado di far saltare l’accordo è l’attacco in corso al sistema finanziario greco. Attacco sostanzialmente tutto interno, si badi bene, che si manifesta nell’uscita dei depositi dalle banche del Paese (verso l’estero chi può, sotto il materasso gli altri). Per quanto la Bce abbia meccanismi istituzionali appropriati atti a controllare crisi di liquidità, è facile immaginare la degenerazione della situazione in una spirale insostenibile e in realtà incontrollabile. Il pericolo è ancora più grave perché una crisi di liquidità potrebbe essere usata, e quindi addirittura cercata, da entrambe le parti nella contrattazione. Questo sarebbe davvero giocare col fuoco, sulla pelle dei greci. Speriamo si possa evitare.

Repubblica 8.2.15
Tsipras sogna un’altra Europa, e l’Italia cosa fa?
Atene spinge per una vera Unione tra stati Ma Renzi e gli altri Paesi non vogliono cedere sovranità
di Eugenio Scalfari


L’ITALIA e la Grecia nel loro rapporto con l’Europa e con i propri elettori si trovano in due situazioni molto diverse tra loro ma anche accomunate da alcune importanti analogie. Entrambi i loro leader hanno promesso molto, i due Paesi sono funestati da pesanti debiti e vorrebbero cambiare la politica economica europea. Entrambi infine sono ammirati e politicamente amati dalla maggioranza degli elettori nei loro rispettivi Paesi.
Comincerò dunque ad occuparmi di Alexis Tsipras e concluderò con Renzi: ci riguarda molto più da vicino e si merita dunque il finale.
Il governo greco guidato da Tsipras e dal suo ministro delle Finanze si poneva all’inizio quattro obiettivi: trasferire il suo debito all’Europa per cinquanta anni e senza interessi; ottenere nuovi prestiti senza rimborsare quelli già scaduti ed effettuati da vari Paesi, tra i quali anche l’Italia, e dalla Bce; rifiutare la “Troika” e gli impegni da lei imposti; negoziare una nuova politica economica europea ed anche istituzioni più democratiche e meno burocratiche alla guida dell’Europa.
Il primo obiettivo è stato ovviamente rifiutato e fu Draghi qualche giorno fa a dirglielo con la dovuta fermezza. Del resto, avrebbe suscitato proteste più che giustificate da parte del Portogallo e di altri Paesi membri dell’Eurozona che la “Troika” ha assistito imponendogli i massimi sacrifici da essa presunti come inevitabili medicine.
Il secondo (nuovi prestiti e prolungamento di quelli in scadenza) è stato anch’esso rifiutato: un Paese fortemente debitore non può contrarne altri a cuor leggero senza neppure accettare il controllo della “Troika”.
SU questo punto Draghi ha chiesto il rimborso immediato del prestito concesso direttamente dalla Bce, in mancanza del quale la Banca centrale non rinnoverà il suo sostegno alle banche greche in stato di pre-fallimento.
Il terzo obiettivo, la politica di crescita, sarà il vero oggetto delle consultazioni che si apriranno nei prossimi giorni e che probabilmente avranno soluzione positiva; se vogliamo evitare il default della Grecia e lo scossone che ne deriverebbe all’intera economia europea è su questo tema che bisogna lavorare. Questo, del resto, è un obiettivo condiviso da gran parte dei Paesi dell’Eurozona e dalla stessa Banca centrale.
Infine la revisione delle istituzioni di Bruxelles. Il significato di questa richiesta è verosimilmente un passo verso l’Unione federata anziché confederata, con le relative cessioni di sovranità da parte degli Stati nazionali. Questa a me sembra la posizione più positiva tra quelle che Tsipras spera di ottenere; non riguarda solo la Grecia e dovrebbe essere quella di tutta l’Unione. Purtroppo non lo è, neppure dell’Italia, ma lo è però della Bce. Può sembrare paradossale che la spinta verso gli Stati Uniti d’Europa venga da un Paese che si trova sull’orlo d’un precipizio e grida anche nelle piazze la propria disperazione. Potrebbe esser messo in condizione di uscire dall’euro e chiede non solo flessibilità e soccorso monetario ma addirittura la nascita di uno Stato che si chiami Europa ed abbia i poteri finora dispersi su 28 Paesi. Se si verificasse su questo punto una coincidenza politica tra Tsipras e Draghi, anche l’adempimento degli impegni economici della Grecia diventerebbe più facile. Ma gli avversari sono molti, anzi tutti, Renzi compreso: i governi nazionali non vogliono perdere la loro sovranità.
Ecco un tema sul quale Renzi dovrebbe dare le dovute ma mai fornite spiegazioni. La sua passione per il cambiamento riguarda solo l’Italia e non l’Unione europea della quale siamo perfino i fondatori?
*** Siamo così al tema Renzi che direttamente riguarda noi, europei ed italiani.
Il nostro presidente del Consiglio ha fatto, con l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, un vero capolavoro politico, l’abbiamo scritto domenica scorsa e lo ripetiamo. Personalmente ho parecchie riserve su Renzi ma la verità va riconosciuta e sottolineata proprio da chi su altri temi ha manifestato e dovrà ancora manifestare ampi motivi di dissenso.
Si parla, a proposito del Pd renziano, di partito della Nazione. Esiste già oppure è un obiettivo per il quale Renzi lavora alacremente? E qual è il significato di un’immagine che prende quel nome come vessillo?
Ci sono due modi di intendere quel nome. Uno, indicato nei suoi scritti, è sostenuto da Alfredo Reichlin e significa un partito che ha capito quali sono i concreti interessi del nostro Paese e cerca di attuarli utilizzando gli insegnamenti della Storia e dell’esperienza. Pienamente accettabile.
L’altro modo di intendere quel nome è un partito che riscuote un tale consenso elettorale da essere di fatto un partito unico avendo ridotto gli altri a piccole formazioni di pura testimonianza.
Questo è il senso che Renzi ha dato a quel nome, naturalmente non escludendo affatto il primo significato ma subordinandolo al potere concreto e quasi esclusivo del partito della Nazione.
Per ora tuttavia quel partito non c’è: nell’attuale Parlamento, diretta espressione del popolo sovrano, siamo in presenza di una situazione tripolare. Fu eletto col “Porcellum” e il Pd lucrò il premio di maggioranza alla Camera, ma restarono tre grandi schieramenti: Pd, Pdl (i berlusconiani allora avevano il nome di Popolo della Libertà) e il Movimento 5 Stelle.
Tripolare. E tale durerà fino al 2018, stando all’impegno assunto e sempre ripetuto da Renzi nelle sue pubbliche esternazioni.
Un Parlamento tripolare non consente l’inverarsi del partito della Nazione, ma ne permette l’avvio, anche con le riforme della Costituzione e in particolare con quella che riguarda il Senato, sempre che arrivi in porto, visto l’ultimo voltafaccia di Berlusconi. L’ex Cavaliere, bruciato dall’elezione di Mattarella, ha improvvisamente scoperto che c’è una deriva autoritaria nelle riforme che aveva sostenuto fino a ieri. E che quindi il patto del Nazareno non c’è più: vedremo quanto a lungo manterrà questa posizione. L’uomo, si sa, non è famoso per la sua coerenza.
Ma vale comunque la pena di riprendere il tema del Senato, specie ora che spetterà al nuovo Capo dello Stato promulgare le leggi una volta che arrivino sul suo tavolo.
***
Quella legge di riforma prevede che il Senato (continuare a chiamarlo così mi sembra ridicolo) diventi Camera delle Regioni, ne sostenga gli interessi in Parlamento, sia il custode dei loro poteri amministrativi e legislativi, ne sorvegli la legalità dei comportamenti ed eventualmente ne punisca quelli ritenuti politicamente illegittimi.
Quanto al resto, il Senato previsto perderà quasi tutti i suoi poteri attuali salvo quelli che riguardano leggi costituzionali e trattati europei.
Sono favorevole a riservare il potere di fiducia soltanto alla Camera, in nessun Paese europeo di solida democrazia la cosiddetta Camera Alta detiene quel potere e ben venga dunque su questo punto il regime monocamerale. Ma proprio perché dare o togliere la fiducia non spetterà più ai senatori, possiamo e anzi dobbiamo lasciare intatti i loro poteri di controllo sull’Esecutivo e sulla pubblica amministrazione.
Il potere Legislativo ha un duplice ruolo: quello di approvare le leggi e quello di controllare il governo nei suoi atti esecutivi. Ridurre al monocamerale anche questi atti dell’Esecutivo ha il solo significato di accrescere la sua libertà di azione; la rapidità è un bene che l’esistenza di due Camere non ha mai danneggiato, come molti sostengono ma come i dati smentiscono. Quindi la legge di riforma può e deve su questo punto essere emendata.
Ancor più necessario — perché può rischiare anche l’incostituzionalità — è modificare il testo di legge per quanto riguarda l’elezione dei senatori. La riforma attualmente prevede che siano designati dai Consigli regionali. Qui c’è un’incoerenza di estrema gravità: un organo preposto alla vigilanza sulle Regioni, i cui membri sono eletti da chi dovrebbe essere da quell’organo controllato ed eventualmente sanzionato, anziché dal popolo sovrano. Per di più in un Paese dove una delle maggiori fonti di malgoverno e corruzione è presente proprio nei Consigli regionali. Mi sembra assolutamente necessario che sia il popolo ad eleggere direttamente i senatori.
Mi permetto di segnalare quest’aspetto della legge di riforma costituzionale affinché sia adeguatamente modificato. La forma attuale è un fallo e l’arbitro ha diritto e dovere di fischiare indicandone la punizione (in questo caso la modifica).
***
Post scriptum . In una recente intervista televisiva a Maria Latella, il segretario della Lega, Matteo Salvini, ha preannunciato un suo disegno di legge che presenterà nei prossimi giorni. Riguarda l’obbligo del vincolo di mandato che attualmente è escluso da un articolo della Costituzione. Ora anche i Cinquestelle dicono la stessa cosa. Dunque Grillo e Salvini vogliono che un membro del Parlamento eletto su candidatura del partito cui aderisce non possa in alcun caso votare contro il suo partito del quale ha l’obbligo di eseguire pedissequamente gli ordini. Se la sua coscienza glielo impedisce, la sola via di fuga che può adottare sono le dimissioni dal Parlamento.
Se questa proposta venisse accolta, sarebbe sufficiente un numero di parlamentari estremamente limitato. Magari una cinquantina, che rappresentino proporzionalmente i consensi ottenuti dal partito cui appartengono. Per di più non ci sarebbe nemmeno bisogno di discussioni e basterebbe spingere dei bottoni per registrare il voto di quel gruppetto di persone.
Una proposta così può essere fatta soltanto da chi vuole instaurare per legge una dittatura. Oppure da un pazzo. Scelgano Salvini e Grillo in quale di questi due ruoli si ravvisino.

Corriere 8.2.15
Morire per Kiev?
La posta in gioco è il destino di un popolo. E non solo Perché da lì passa il confine Occidente-Oriente
di Luigi Ippolito

Un punto deve essere chiaro: in Ucraina ne va dell’Europa stessa. Ne va dei suoi valori, dell’idea di ciò che vogliamo essere, del futuro che vogliamo diventare. Un anno fa abbiamo assistito a qualcosa di inaudito: migliaia di persone nelle piazze di Kiev radunate attorno al vessillo blu con le dodici stelle, persone che erano disposte a farsi sparare addosso pur di difendere gli ideali incarnati da quella bandiera.
In Occidente quel progetto appare sempre più esangue, contestato al suo interno dalle forze euroscettiche che si sono affermate alle ultime elezioni continentali, minato dalle tendenze centrifughe all’opera nelle tensioni Nord-Sud. A Oriente invece sembrano aver colto quanto c’è di essenziale nel progetto europeo: una comunità fondata sui concetti di libertà e democrazia, che ha saputo garantire settanta anni di pace al suo interno e che rappresenta un faro per chi sta al limitare.
Il limite, appunto: questo è il significato del termine Ucraina. Il Paese che sta sul confine, la marca che delimita due mondi. E anche il test limite per tutti noi. L’Ucraina è la faglia sismica dove cozzano le placche tettoniche della civiltà europea e di quella russo-asiatica (non che la Russia non attenga all’Europa, ma essa porta con sé un bagaglio storico-geografico troppo ingombrante per poter essere semplicemente riassunta nel contesto europeo). Ed è all’interno dell’Ucraina che passa la frattura fra Oriente e Occidente, fra cattolicesimo e ortodossia, fra democrazia e dispotismo.
L’Ucraina dell’Est è terra pianeggiante che fa tutt’uno con le pianure della Russia meridionale, terra di cosacchi vissuti come frontiera mobile dell’impero zarista, popolazioni di lingua e cultura russe, in una parola ciò che storicamente si intendeva come Piccola Russia, provincia annessa fin dal ’600-’700 e via via allargata strappando territori al khanato tartaro dell’Orda d’Oro. L’Ucraina occidentale ha condiviso invece fin dal ’500 le vicende del Granducato di Lituania, la casa comune baltico-polacca embrione della statualità europeo-orientale, per poi divenire parte della Polonia stessa e dell’Impero absburgico. Basta andare a Leopoli, capoluogo dell’Ovest, per respirare l’aria di una piccola Praga. In mezzo sta Kiev, capitale bicefala, ma sempre più con lo sguardo rivolto a Occidente.
Eppure l’Ucraina non si spiega senza la Russia, e viceversa la Russia non si spiega senza l’Ucraina. Perché solo attraverso l’egemonia sulla sua provincia sud-occidentale Mosca può pensarsi come impero che dispiega il suo manto sulla piattaforma euro-asiatica. Una Russia privata dell’Ucraina perde la sua proiezione imperiale, e una Russia senza impero perde la sua destinazione storico-esistenziale. Ecco perché nella questione ucraina è in gioco anche l’essenza della Russia: ridotta alla Moscovia ( e alla sua propaggine siberiana) essa sarebbe costretta a ridefinirsi in maniera altra da quanto è stato fatto finora. E aprirsi alla prospettiva di un’evoluzione statuale in senso nazionale e potenzialmente democratico.
Si spiegano in questa ottica i ripetuti tentativi di Mosca di tenere avvinta a sé l’Ucraina, a prescindere dalla bandiera che sventolava sul Cremlino. Gli stessi bolscevichi, all’indomani della Rivoluzione, mettono fine con le armi al primo tentativo di indipendenza dell’Ucraina. E oggi Putin il nazional-conservatore reagisce alla sola prospettiva di un vago Trattato di associazione di Kiev con l’Unione Europea: prima col ricatto economico, poi con la forza delle armi. Non può permettersi che l’antico protettorato scivoli in un’orbita estranea, se non potenzialmente conflittuale.
Certo, Putin ha fatto leva sulla frattura insita nella storia ucraina per fomentare una guerra civile. Ma ciò non toglie che in ultima analisi spetta agli ucraini la decisione sul proprio destino e sulla propria collocazione geo-politica. Che non può essere stabilita né a Mosca né a Bruxelles. Questo vale per l’aspirazione europea manifestata dalla maggioranza della popolazione ma anche per una eventuale adesione alla Nato, per quanto possa essere vissuta come una provocazione da parte del Cremlino. Perché nessuno, a Est come a Ovest, può arrogarsi un diritto di veto sulla collocazione internazionale di un Paese sovrano.
E qui arriviamo al dunque, al perché la cornice politico-diplomatica in cui potrebbe venirsi a collocare l’Ucraina non può lasciare indifferenti gli europei. Un Paese integrato nelle strutture occidentali troverebbe la garanzia di uno sviluppo pacifico e democratico, non diversamente da quanto è stato possibile ad esempio per la Polonia, che ha percorso tutta la parabola da satellite sovietico a pilastro dell’Unione Europea. Ma se questo domani fosse possibile a Kiev, dopodomani potrebbe esserlo a Mosca. Probabilmente è questo il timore più profondo del regime putiniano: il successo della democrazia a Kiev metterebbe in questione l’autocrazia a Mosca. Ma è solo l’evoluzione in senso democratico della stessa Russia che può garantire la costruzione di quella casa comune dall’Atlantico a Vladivostok sognata alla fine della Guerra Fredda. Ecco perché l’Europa non può permettersi di lasciare sola l’Ucraina: in gioco c’è il nostro stesso futuro .

Corriere 8.2.15
La leader lituana invoca le armi
«Fermare Mosca con ogni mezzo»
di Danilo Taino


MONACO DI BAVIERA «Anche ai confini dei Paesi Baltici ci sono raggruppamenti di truppe russe, esercitazioni militari. E voli senza segnali di identificazione che mettono in pericolo la sicurezza dell’aviazione civile. E movimenti di mare e di terra». Secondo la presidente della Lituania, Dalia Grybauskaite, è forte la pressione che si sentono addosso il suo Paese, l’Estonia, la Lettonia come conseguenza della crisi in Ucraina e della politica «di aggressione» di Mosca. Sostiene però che il problema non è solo dei tre Baltici, o della Polonia, ma di tutta l’Europa: «È uno sfoggio di muscoli che ha l’obiettivo di trattenerci dall’appoggiare l’Ucraina. Cosa che invece continuiamo a fare, per dimostrare che non abbiamo paura».
La presidente Grybauskaite ieri era alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, dove si è parlato quasi solo di Ucraina. Una discussione nella quale i Paesi Baltici e in generale quelli dell’Est europeo, Ungheria a parte, sono più duri di buona parte del resto d’Europa nel giudicare le mosse di Vladimir Putin e, soprattutto, nel sostenere cosa si tratta di fare per fermare l’espansionismo dei separatisti dell’Ucraina dell’Est sostenuti da Mosca. Su una delle questioni chiave del momento, in particolare, questo gruppo di Paesi sostiene — d’accordo con gli Stati Uniti ma al contrario della maggioranza degli altri europei — che occorra fornire armi all’esercito di Kiev: di difesa e non letali (definizione piuttosto vaga) ma comunque armi occidentali per fermare l’avanzata dei separatisti. Sulla questione, la presidente Grybauskaite non ha dubbi. «Dobbiamo essere pronti a sostenere l’Ucraina con tutti i mezzi che le servono per difendersi. Non per attaccare perché non si tratta di questo ma per difendersi. In tutti i modi, nessuno escluso: perché sostenere l’Ucraina oggi è sostenere l’Europa».
Angela Merkel, che nel tentativo di limitare la crisi sta svolgendo un ruolo guida, esclude invece la fornitura di qualsiasi tipo di arma. La presidente lituana, però, preferisce sottolineare l’unità degli europei di fronte alle iniziative del Cremlino. «Mi fido di Angela Merkel — dice — Credo che non tradirà nessuno: significherebbe tradire noi stessi, perché dopo l’Ucraina saremmo noi i prossimi obiettivi». In questa chiave, è soddisfatta della decisione della Nato di rafforzare la propria presenza nei Paesi Baltici: «Noi non combattiamo nessuno, ma dobbiamo difenderci. Certo, siamo soddisfatti della maggiore presenza della Nato, ci dà sicurezza, ci permette di non avere paura delle esercitazioni ai confini. E spero che un giorno anche l’Ucraina sarà difesa come oggi lo sono i Paesi Baltici». La signora Grybauskaite dice di non sapere se Putin avesse un piano quando la crisi ucraina è iniziata. «So però che punta sulla nostra debolezza nel rispondere: dipende da noi essere fermi».

Corriere 8.2.15
La guerra delle tribù
Iraq, Siria, Libia: le identità locali hanno un ruolo chiave nei conflitti È la crisi dello Stato-nazione E un assaggio del mondo che verrà
di Lorenzo Cremonesi


DAL NOSTRO INVIATO AMMAN In Medio Oriente si sfasciano gli equilibri, i confini, i parametri politici europei che avevano prevalso dalla fine dell’Impero Ottomano dopo la Prima guerra mondiale. Tornano a prevalere le antiche realtà tribali, i valori politici e sociali delle dimensioni regionali legate alle grandi famiglie, alle relazioni di parentela coi discendenti del Profeta. Lo Stato moderno così come importato dalla cultura occidentale è in crisi.
Gli esempi si sprecano. In Iraq è da tempo una verità scontata che l’unico modo per battere i jihadisti dello Stato islamico (Isis) è tornare a cooptare le tribù sunnite di Al Anbar, la regione centrale allungata dalla capitale sino al confine con Siria e Giordania. Negli anni del terrorismo qaedista dal 2005 al 2008 furono proprio gli Abu Risha, i Dulaymi, i Tikriti e via dicendo che accettarono di creare i «Comitati del Risveglio», pagati e armati dagli americani, che si batterono in prima linea. Oggi l’Isis sa bene che la sfida si consuma a casa propria, il cuore pulsante delle grandi tribù sunnite. E i suoi guerriglieri sono pronti a uccidere centinaia di giovani figli dei clan locali per costringere gli altri a restare nei loro ranghi. Nel nord del Paese le antiche tribù curde dettano il bello e cattivo tempo nelle regioni governate da Erbil. In Giordania proprio alle tradizionali tribù della «sponda orientale» del Giordano è ricorso adesso re Abdallah per lanciare un segnale di sfida ai jihadisti. In Siria lo sfascio dello Stato vede tornare in auge le lealtà tribali, le uniche sopravvissute nel regime del terrore imposto dall’Isis. In Libia, sono le tribù che ora mettono a ferro e fuoco in battaglie interne quelle province prima zittite da Gheddafi.

il Fatto 8.2.15
Isis, dietro il terrore c’è il medioevo d’Europa
di Furio Colombo


Dopo lo shock degli eventi e delle immagini (la più tremenda, finora, è stata il giovane pilota bruciato vivo in pubblico) per prima cosa bisogna sapere: chi, dove, come, perché. Le notizie sono tante ma una guida importante e carica di informazioni è il libro appena uscito di Maurizio Molinari, Il Califfato del terrore (Rizzoli). Lo è perché esplora nel prima, quando gli stati islamici erano piccoli, irrilevanti e segnati dalla loro nascita artificiale (ciascuno disegnato dai vari Lawrence d’Arabia delle varie potenze coloniali) e da ricchezze naturali manovrate da altri. Ispeziona quasi passo per passo e luogo per luogo, i deserti e le città, la politica e le classi dirigenti, il clero e i popoli. E ci racconta come può mettersi in moto una grande e tremenda trasformazione, ovvero un immenso scatto di violenza che contiene due guerre: una contro gli infedeli dell’Islam (sunniti contro sciiti e qualunque altra minoranza) e una contro l’Occidente inteso come ogni civiltà o organizzazione non islamica e non sottomessa. Ecco il progetto chiamato Isis o Califfato.
Ora mi allontano dal libro, a cui devo molto per ciò che o detto e dirò, e torno a noi, vita e paure da questa parte del mondo. Mi guardo intorno, leggo, ascolto, e mi rendo conto che qui comincia un futuro che ciascuno di noi, popoli e governi, spera di attribuire ad altri, un futuro nel quale si sente il mormorio di quella indimenticabile frase del bambino napoletano, “io speriamo che me la cavo” (nel libro di Marcello D’Orta).
Non so se avete notato che la paura (meglio sarebbe dire orrore e terrore) va e viene, nel senso che ha un suo massimo di repulsione nell’istante di annuncio, mentre veniamo costretti a sapere (a volte a vedere) il nuovo spaventoso delitto, ma poi “torniamo a casa”, torniamo sùbito, come dopo avere assistito per sfortunata coincidenza a un brutto incidente, fino alla prossima esclamazione di sdegno e di orrore per qualcosa che sarà ancora più grave.
TRISTI e imbarazzanti sono le misure “di difesa” che ci annuncia il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Facile scherzare sulle sue espulsioni, più o meno a casaccio. Invece possiamo solo restare costernati di vivere a un livello così basso di intelligenza e di competenza fra coloro che giocano a fare il governo. C’è una grande confusione di traffico nella nostra politica interna. Quella estera? Come sapete, un’altra crisi molto grave, una quasi guerra, preme sull’Europa e dunque su di noi: il violento attrito, ogni giorno più pericoloso, fra Russia e Ucraina.
Un importante giornale italiano, giorni fa, l’ha riassunta così, nel titolo: “La Mogherini ammonisce Putin”. Questo titolo, nella sua involontaria comicità, renderà più facile il lavoro per gli storici del futuro: l’Europa non c’era, mentre si delineavano i grandi pericoli che potrebbero cambiare milioni di vite. E quando c’era, vedevi Merkel e Hollande (non Mogherini) che incontrano Putin e vanno via in silenzio. Intanto, diranno i posteri, l’Italia era impegnata a votare una legge elettorale con quote fisse e blindate di candidati-partito (le sole difese blindate in Italia) e ad abolire quel pericolo pubblico che è il Senato della Repubblica.
Ora sappiamo che quel poco di vita politica che resta nel nostro Paese e in Europa, si divide in due parti. Una, da incoscienti che hanno la grande fortuna di non capire e di non sapere (dunque per ora immuni dal vedere davvero il pericolo), vuole la guerra, sia come persecuzione interna degli islamici, (per essere sicuri di creare subito, oltre che una immensa ingiustizia, anche un grande pericolo in casa), sia come truppe al fronte, che naturalmente Le Pen-Salvini guiderebbero con alta strategia da lontano, ma con molto apprezzamento per i nostri alpini nel deserto. L’altra tiene un basso profilo, fa finta che il problema sia la Grecia (che senza il Jobs Act non ha speranza), e non ha alcuna politica estera (niente, ma proprio niente) e alcuna idea del come interpretare la parola “difesa”, in senso politico e in senso tecnico, in una situazione così squilibrata e così squilibrante.
ECCO, a questo punto possiamo riprendere il libro di Molinari, che ci dà notizie accurate sull’estensione (non immensa ma in rapida crescita) e la potenza (grande soprattutto perchè agisce nel vuoto) del Califfato e fare la domanda chiave: Chi o che cosa c’è dietro, chi li agisce, chi li finanzia, chi li arma, chi dà loro tanto coraggio di essere crudeli e provocatori in modo osceno e con un uso osceno della sofferenza dei bambini e della riduzione in schiavitù delle donne? La risposta è brutta e semplice e ci riporta all’imbarazzo del titolo “La Mogherini ammonisce Putin”. Dietro ci siamo noi, l’Italia, che non ha né un pensiero, né un’idea, né un progetto sul tipo di rapporti, di politica, di diplomazia, di capacità di capire in tempo, nella vasta area dei paesi arabi intorno a noi, in un cerchio che condivide con noi il Mediterraneo.
Qui c’è l’Europa, che ha lasciato l’Iraq vuoto e la Libia abbandonata, con qualche vendita d’armi e qualche incasso alle pompe di petrolio. Qui ci sono detriti di ambizioni del passato europeo, povere politiche rivali e nessun senso della civiltà che dovremmo essere capaci di condividere con i popoli, già abbastanza tormentati da guerre nostre, in quei Paesi. Qui c’è la finzione che Israele non esista e che non importi se e quali legami, buoni o cattivi, abbia, o subisca, con il mondo che lo circonda. Qui c’è un tragico silenzio-assenso di una Italia, di una Europa che, a tratti, lancia grida di orrore e poi finge di non sapere, per non dover decidere il che fare. Medio Evo, dite? Tragicamente vero. Medio Evo d’Europa.

Corriere 8.2.15
La pubblicità classista che fa litigare i cinesi
di Guido Santevecchi


WeChat, sistema che permette di scambiarsi messaggi istantanei anche vocali e foto sul telefonino, è diventato la voce dei cinesi con oltre 470 milioni di utenti. E ora il gruppo Tencent, che ha lanciato WeChat nel 2011, ha deciso di passare all’incasso: con la pubblicità. E siccome non tutti i consumatori sono uguali, gli utenti sono stati divisi in tre categorie in base al potere d’acquisto stimato e al luogo dove vivono, megalopoli o zone agricole.
La prima classe ha ricevuto una pubblicità della Bmw (l’auto del giovane arricchito e rampante in Cina); un secondo sottogruppo si è visto arrivare il promo di un telefonino marca Vivo (poco conosciuto); il terzo strato ha ricevuto un avviso della Coca-Cola. Così l’iniziativa di WeChat si è trasformata in uno status symbol e in uno psicodramma nazionale nella Repubblica popolare cinese. I prescelti per la Bmw si sono affrettati a rilanciare lo spot per far vedere a tutti che loro si possono permettere l’auto potente. Quelli che si sono visti lampeggiare sul telefonino l’avviso di Vivo o della lattina di Coca sono caduti in depressione. Gli amici li hanno subito catalogati come «diaosi», che si può tradurre dal mandarino in «perdenti» o «sfigati». L’iniziativa di pubblicità mirata è stata comunque un successo: la Bmw, che ha investito 800 mila dollari nella campagna, ha ricevuto risposte da sette milioni di utenti e il suo account su WeChat ha conquistato 200 mila nuovi followers in una settimana. La vendetta invidiosa dei «diaosi» si è scatenata nei messaggini, identificando la «prima classe» come «tuhao», il termine dispregiativo che identifica da un paio d’anni i nuovi ricchi cafoni (ce ne sono milioni in Cina).
La diatriba si è diffusa a tal punto che ieri è finita sul Global Times , quotidiano del partito comunista. Il giornale riporta i fatti, senza commento. Con buona pace degli ordini del partito per il recupero dei valori marxisti-leninisti.

Corriere 8.2.15
Il debito che grava sul futuro del mondo
di Danilo Taino


Il McKinsey Global Institute ha pubblicato nei giorni scorsi uno studio che ci fa immaginare un po’ del futuro del mondo: della nuvola sotto la quale vivremo. Ha misurato il debito globale: non solo quello degli Stati, anche quello delle famiglie, delle imprese, del settore finanziario. Ne risulta che il mondo è indebitato fino al collo e quella che viene chiamata deleveraging (riduzione delle esposizioni) e dovrebbe essere una delle caratteristiche degli anni della Grande Crisi è difficile da rintracciare.
Tra il 2007 e il giugno 2014 , il debito globale è passato da 142 mila miliardi di dollari a 199 mila : 57 mila miliardi in più. Come quota del Pil mondiale, siamo passati dal 269% al 286% . Se prendiamo un periodo più lungo dall’ultimo trimestre del 2000 al secondo trimestre del 2014 il balzo è da 87 mila miliardi di dollari a 199 mila . Già questi numeri dicono che nei prossimi anni la crescita globale sarà limitata da questa massa di indebitamento: la riduzione di quest’ultima sarà inevitabilmente una delle grandi sfide e, nel frattempo, un freno agli investimenti.
   Serviranno idee e strumenti nuovi per gestire questa situazione, soprattutto in un quadro di bassa inflazione. E ciò vale in tutti i settori, perché durante la Grande Crisi (rispetto a fine 2007 ) i debiti sono cresciuti per gli Stati, da 33 mila a 58 mila miliardi di dollari; per le famiglie, da 33 mila a 40 mila miliardi ; per le imprese, da 38 a 56 mila miliardi ; per il settore finanziario, da 37 a 45 mila miliardi .
   Il Paese più indebitato, rispetto al Pil, è il Giappone: al 400% . L’Italia è alla posizione numero 12 , con un rapporto del 259% , e peggio fanno alcune economie considerate in genere ben solide, come quella olandese al 325% , quella belga al 327% , la svedese al 290% , la francese al 280% . Nella cosiddetta economia reale — Stato, imprese, famiglie — tra fine 2007 e metà 2014 , il rapporto debito/Pil italiano è peggiorato del 55% : 47 punti a carico del debito pubblico, tre punti delle imprese, cinque delle famiglie. La tendenza italiana è simile a quella delle economie avanzate nel complesso, dove il rapporto debito/Pil è passato, fatto cento il 2000 , da 158 a 156 nel settore privato e da 69 a 104 nel settore pubblico. Una prima indicazione del punto da cui si dovrà partire, il debito dello Stato. Ma nei numeri del McKinsey Global Institute c’è molto di più su cui riflettere.

La Stampa 8.2.15
Assia Djebar, la rivincita delle donne arabo-musulmane
Si è spenta a 78 anni la scrittrice algerina che si batté per l’indipendenza del suo Paese e aprì la strada al femminismo islamico
di Francesca Paci


Quando c’interroghiamo sul ruolo delle donne nel mondo arabo-musulmano, presupponendo una subalternità quasi genetica, dimentichiamo spesso nomi come quello di Assia Djebar, la scrittrice algerina morta a 78 anni ieri in un ospedale di Parigi. Ritenuta una sorta di Toni Morrison nordafricana, a detta di Le Figaro ha sempre mancato di poco il premio Nobel per aver voluto scrivere solamente in francese (la lingua che suo padre insegnava alla scuola elementare di Cherchell, sulla costa algerina).
Chi studia il femminismo islamico nelle sue molteplici declinazioni, dalle attiviste di «Tahrir bodyguard» che denunciano il dilagare delle molestie sessuali in Egitto fino alle aspiranti mujaheddin follemente ma consapevolmente votate alla guerra santa di Siria, non può ignorare l’opera e la vita di Assia Djebar, in trincea quando ignoravamo quella trincea.
La futura autrice di opere come Donne d’Algeri nei loro appartamenti e Lontano da Medina ha 22 anni quando nel 1958 sposa a Parigi il membro della resistenza algerina Ahmed Ould-Rouis conosciuto durante le proteste studentesche. L’Europa in quel momento è lanciata verso il futuro e la Francia, dove il padre ha mandato Assia a studiare storia dopo la scuola coranica privata algerina frequentata da due sole bambine, è assai diversa dal paese spaventato che oggi vede nel fondamentalismo islamico la propria immagine distorta e profanata.
Assia cresce, assorbe, conosce, quando decide di mettersi a scrivere dimentica di chiamarsi Fatima-Zohra Imalayen per non creare problemi alla famiglia e durante un gioco in taxi con il fidanzato del momento si ribattezza Assia Djebar, il nome con cui si batterà per l’indipendenza patria, lavorerà come giornalista in Tunisia rivelando il dramma dei connazionali rifugiati, pubblicherà i libri maghrebini più tradotti al mondo e diventerà la prima donna algerina ammessa alla Ecole Normale Supérieure francese. Rinuncerà alla Ecole durante la guerra per l’indipendenza algerina, ma verrà reintegrata da Charles de Gaulle per «meriti letterari» (otterrà anche il titolo di Accademica di Francia).
Pochi hanno raccontato come Assia Djebar il corpo mortificato delle donne arabo-musulmane quando non era di moda, quando le adultere lapidate nello stadio di Kabul non facevano notizia, quando quasi nessuno aveva realizzato che l’Algeria dei primi Anni 90 era un laboratorio di terrore così annichilente da spingere una come lei a lasciare l’università di Algeri e trasferirsi negli Stati Uniti perché stanca di un paese in cui «in strada non si vedono più donne, solo uomini».
Il corpo delle protagoniste dei romanzi e dei documentari di Assia Djebar è lingua, una lingua così tanto silenziata nel suo mondo d’origine d’averla probabilmente spinta a servirsi del francese rinunciando a quell’arabo disprezzato per essersi messo al servizio degli uomini. Con il film in bianco e nero La Nouba des femmes du Mont Chenoua la Djiebar guadagna il premio internazionale della critica al Festival di Venezia 1979, ma a sedurre l’Italia è più la potenza dell’immagine che la forza della denuncia di un’avanzata integralista che dopo la marginalizzazione delle donne come lei sarebbe dilagata oltre.
Negli ultimi anni si è sentito poco il suo nome, aveva sempre meno voglia di parlare. Una delle ultime uscite risale all’indomani delle Twin Towers, la Djebar era a New York mentre le Torri Gemelle crollavano seppellendo l’illusione della fine della Storia e la pacificazione del mondo. Disse di aver pensato che «il dramma conosciuto in Algeria negli anni della violenza integralista fosse sotto i miei occhi in una versione più spettacolare». E intitolò il libro appena terminato La donna senza sepoltura, il testamento di una cultura.

(Philippe Wojazer / reuters) - Assia Djebar, pseudonimo di Fatima-Zohra Imalayen, era nata a Cherchell, 80 chilometri a Ovest di Algeri il 30 giugno 1936

Corriere 8.2.15
il viaggio nel fascismo Degli intellettuali italiani
risponde Sergio Romano


L’apertura di numerosi fascicoli dell’Archivio di Stato concernenti il Ventennio fascista sta portando alla luce un intricato viluppo di corruttele, nepotismo ed interessi personali che sembrano far impallidire l’attuale classe politica e la relativa società, non troppo civile. Al riguardo vorrei chiederle se corrisponda al vero che fior di intellettuali poi assurti al ruolo di icone della cosiddetta «intellighenzia salottiera» della sinistra militante, fossero a libro paga dell’odiato o adorato «puzzone». Le chiedo questo perché nei resoconti televisivi di questo singolare aspetto non si parla troppo, per non dire affatto, e ci si dedica ad evidenziare responsabilità certamente gravi come ad esempio il conflitto di interessi per criticare giustamente il fascismo ed il suo apparato, all’ombra del quale forse prosperavano i suoi futuri censori.
Alberto Muratori

Caro Muratori,
Le consiglio la lettura del libro di Mirella Serri (Gli intellettuali che vissero due volte) pubblicato dalle edizioni Corbaccio dieci anni fa. È uno spaccato della vita intellettuale italiana nel corso di un decennio, dal 1938, l’anno dell’accordo di Monaco che regalò a Mussolini un grande consenso, e il 1948, l’anno delle prime elezioni politiche e del duello fra la Democrazia cristiana e il Fronte democratico popolare, un’alleanza dei socialisti di Pietro Nenni con i comunisti di Palmiro Togliatti.
Se il lettore avesse la pazienza di ricostruire, con l’aiuto di Mirella Serri, il percorso individuale degli intellettuali, scoprirebbe che molti collaboratori delle maggiori pubblicazioni culturali del regime figurano, dieci anni dopo, fra i sostenitori del Fronte. Tutti opportunisti e voltagabbana? Nel regime vi furono parecchi «stipendiati» e beneficiati. Ma un giudizio troppo drastico sarebbe ingeneroso e storicamente sbagliato. Il regime aveva i suoi porti franchi («Primato» di Giuseppe Bottai, le riviste di Leo Longanesi e Mario Pannunzio) in cui esistevano alcuni margini di libertà.
Molti intellettuali non esitavano a criticare il regime in conversazioni private, ma erano piuttosto frondisti che oppositori. Altri detestavano i ras e i gerarchi, ma riponevano le loro speranze in Mussolini. Altri ancora, come Elio Vittorini e Vasco Pratolini, credevano in un fascismo di sinistra in cui la corporazione avrebbe gradualmente sostituito la proprietà privata. Per questi ultimi, in particolare, il passaggio al comunismo fu sentito come il ritorno alla purezza ideologica di una forza politica che aveva smarrito la strada stringendo patti di convenienza con agrari e industriali.
L’intera questione divenne ancora più difficilmente decifrabile quando molti intellettuali, dopo la caduta del fascismo, cedettero alla tentazione di riscrivere il loro passato per esibire un certificato di immacolato antifascismo. Trovarono un complice in Togliatti, desideroso di ingrossare le file del partito e disposto a dimenticare il passato dei nuovi convertiti. Qualche intellettuale, come Ruggero Zangrandi, cercò di raccontare il proprio percorso in un libro intitolato Il lungo viaggio attraverso il fascismo . Ma molti altri preferirono tacere. Peccato. Le loro confessioni ci avrebbero aiutato a capire meglio quei tempi.

Corriere 8.2.15
La guerra fredda
Alla Tate Modern di Londra uno sguardo insolito sugli avvenimenti bellici
Un giorno o cent’anni dopo le foto che tengono aperte le ferite dei conflitti
di Paola De Carolis


La sala ha l’eleganza del passato. La boiserie alle pareti, i soffitti alti. Dentro, una giovane donna in jeans e maglietta suona l’arpa. Si sta esercitando. Le mani volano leggere sulle corde mentre l’occhio guarda attento lo spartito. Ha i capelli biondi raccolti dietro la nuca e lo sguardo intelligente. Come ogni fotografia esposta nella mostra Conflict, Time, Photography, alla Tate Modern di Londra sino al 15 marzo, quella del tedesco Julian Roseldt ha due dimensioni temporali: oggi — la ragazza che studia presso l’Università della Musica di Monaco — e ieri: sessant’anni fa, in quella stessa sala con la boiserie e i soffitti alti, Adolf Hitler faceva colazione.
È così, questa mostra. Ogni immagine colpisce prima per la sua immediatezza — la forza del soggetto, i colori, la composizione — e poi per il suo contesto. Va letta ogni didascalia per capire a fondo il significato. Come il bosco lievemente innevato di Chloe Dewe Mathews. «Shot at dawn» il titolo. In lontananza si vede il chiarore dell’alba, ma le parole vogliono dire anche altro, perché è tra questi alberi alti e scarni che cento anni fa vennero fucilati, all’alba, soldati britannici, francesi e belgi colpevoli di codardia.
L’obiettivo è puntato non tanto sul conflitto, quanto sui segni indelebili che la guerra lascia sul paesaggio, sull’architettura, sulla popolazione. Lo spunto è tratto da «Mattatoio n. 5», di Kurt Vonnegut, un romanzo che è pilastro del movimento pacifista e che a sua volta nasce dalle esperienze personali dell’autore. Vonnegut era prigioniero di guerra in una cella frigorifera sotterranea quando Dresda venne bombardata. Emerse il giorno dopo, solo per trovarsi davanti alle macerie della «città più bella del mondo». Vonnegut parla della sfida di «guardarsi indietro», della difficoltà di trovare «il punto d’equilibrio dove tutto è bello e niente fa male». È questa ricerca che la mostra si prefigge come traguardo, solo che il punto d’equilibrio non esiste e le tracce del passato rimangono. Il dolore perde intensità ma non sparisce. Il suo Dna rimane scritto sui visi, sulla natura, sugli spazi urbani.
È chiaramente decifrabile negli occhi del marine la cui immagine domina la seconda sala. Ha lo sguardo perso di chi in Vietnam ha visto troppo orrore, l’elmetto calato sul viso, il fucile stretto tra le mani. La sua paura e il suo sconcerto sono palpabili. Non si dimenticano in fretta. Lo scatto è di Don McCullin, noto fotogiornalista britannico. Fa parte della prima fase della mostra, quella dedicata alle fotografie scattate pochi secondi dopo il conflitto. Come il fungo immortalato da Toshio Fukada venti minuti dopo lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima, quattro scatti realizzati il 6 agosto 1945 a 17 anni, o il deserto afghano visto dal francese Luc Delahaye pochi minuti dopo il bombardamento di un accampamento talebano. Nebbia, fumo, macerie, distruzione sono tutto quel che resta. Un tema ricorrente, sottolineato anche dalle immagini di Sophie Ristelhueber, realizzate sette mesi dopo la fine della prima guerra in Kuwait. Coperte abbandonate, bottiglie, scarpe, caschi, carrarmati arrugginiti. «Fait» il titolo. Fatto.
Ci sono momenti in cui la vita va avanti normale, nonostante la storia, come a Berlino nel 1961, dove mentre sorge il muro McCullin cattura soldati che si muovono accanto a donne eleganti in abiti dell’epoca e bambini dalle scarpe bianche. Nella sala accanto una Berlino diversa, ritratta da Michael Schmidt negli anni 80: una giungla di cemento e asfalto con tanti spazi vuoti, i buchi lasciati dai bombardamenti.
Non ha un titolo, invece, la serie sulla distruzione della cattedrale di Reims, fotografie scattate nell’arco di diversi mesi dopo la fine della prima guerra mondiale, eppure è non difficile condividere lo sconforto dei due preti, che si guardano intorno tra frantumi di colonne e vetri con il cappello in mano, così come è impossibile non sentire la disperazione del vuoto de «la valle dell’ombra della morte», teatro della guerra di Crimea immortalato nel 1854 da Roger Fenton o le grida recriminatorie di «Eine kamera klagtan», una macchina fotografica accusa, mentre rivela la distruzione di Dresda dall’alto, la disperazione dell’orologio che, sessant’anni dopo la bomba di Nagasaki, segna ancora le 11:02, la colorata quotidianità dei superstiti dell’Olocausto in Ucraina, il grigiore e la sporcizia di Boa Vista, una bidonville in Angola. Le fotografie nascono da eventi passati ma entrano silenziosamente nel presente, plasmano e rinvigoriscono la memoria.

Corriere 8.2.15
Tra i «monuments men» che salvarono la nostra arte
Il ruolo dell’esercito lombardo nell’inferno bellico
di Enrica Roddolo


L’ Esercito non ha combattuto solo nel gelo delle trincee della Grande guerra. Ha combattuto anche una battaglia contro il tempo, contro la fragilità delle opere e talvolta contro la loro monumentalità. Pur di metterle in salvo.
Così, gli alpini furono impegnati a trasportare su slitte, nella neve della Valtellina, pesanti sculture sacre che fino ad allora erano state oggetto di devozione in montagna. Mentre il Genio militare metteva in sicurezza tele che per secoli avevano ornato le chiese di Milano o Cremona, ma avrebbero potuto finire in polvere. Il salvataggio di migliaia di statue, quadri, pale d’altare e polittici è stato frutto della collaborazione fra funzionari delle diverse Soprintendenze ed Esercito. In Lombardia, con l’arco alpino e la vicina frontiera austroungarica, l’attività fu molto intensa. E molto ben documentata: «Sono circa 200 le fotografie custodite nei nostri archivi che testimoniano quell’immane lavoro, quella battaglia contro il tempo, pur di salvare il tesoro d’arte dalle bombe. Ora le stiamo selezionando e catalogando», anticipano alla Soprintendenza di Milano. Un patrimonio fotografico che nei prossimi mesi uscirà dalla Pinacoteca di Brera per essere organizzato in una grande mostra che racconterà questa singolare battaglia per la tutela dell’arte in Lombardia durante la Prima guerra mondiale. Un racconto per immagini che avrà come curatori, oltre al direttore della Pinacoteca, Sandrina Bandera, Cecilia Ghibaudi e Amalia Pacia. E che meglio delle parole trasmetterà il senso dello sforzo dei funzionari statali a fianco degli storici dell’arte e dell’Esercito. Al progetto, si sta lavorando intensamente tra Brera e Palazzo Cusani, sede del Circolo Unificato del Presidio Esercito. Perché sarà proprio a Palazzo Cusani che la mostra verrà allestita, a fine anno, con la collaborazione del Comando Militare Esercito Lombardia che sta svolgendo un importante ruolo, in ambito regionale, per quanto riguarda le celebrazioni del 100° anniversario della Grande guerra. In realtà, il debutto della mostra sarà già a maggio, in una preview nella sede di Bruxelles del Parlamento Europeo (in collaborazione con Piercarlo Valtorta, presidente Istrid, Istituto studi e ricerche informazioni Difesa).
Ma Bruxelles dovrà accontentarsi di copie di questo patrimonio documentale. «Gli originali saranno infatti in mostra solo a Milano», precisano in Brera. «Quando si va alla guerra la protezione, anche delle opere d’arte, fa parte dei compiti dell’Esercito, al pari della costruzione delle trincee», spiega Cesare De Michelis, presidente di Marsilio editori, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, che si è occupato del tema del salvataggio delle opere d’arte in tempo di guerra in occasione della mostra «Venezia si difende 1915-1918» allestita ai Tre Oci. «Nel caso di Venezia, l’Esercito in quegli anni, era rappresentato da Ugo Ojetti, futuro direttore del Corriere , il quale racconta bene nelle lettere alla moglie, l’avventura di mettere in sicurezza tanti capolavori dopo aver ricevuto l’incarico di Sovrintendente al salvataggio dei monumenti veneziani e non solo. Ojetti annota l’ansia di far presto, il disappunto nel vedere la tranquillità ingenua della popolazione: “Qui persistono a credere che gli austriaci siano buoni”. E testimonia l’incredibile lavoro fatto: penso all’immane fatica di smontare e portare in salvo il monumento equestre a Bartolomeo Colleoni, separando il condottiero dal cavallo. O, ancora, alla rapidità mista a leggerezza con la quale si smonta l’Assunta di Tiziano, un’opera monumentale, alta quasi sette metri». Su un barcone, il capolavoro risalirà il Po con destinazione Cremona in un lungo viaggio organizzato dalla Marina. Da qui, su un treno, raggiungerà Roma, il Vaticano. Un porto sicuro per sfuggire alla guerra.

Corriere 8.2.15
«Pace»: un mantra contro il mattatoio
La voglia di dimenticare di Vonnegut. Ma Adams e Zweig non hanno retto
di Roberta Scorranese


«So it goes», «così va la vita» ci si ripeteva in quella terribile notte di metà febbraio di 70 anni fa nelle viscere di Dresda, mentre l’angelo della morte fendeva i cieli della bellissima città sull’Elba e 4.500 tonnellate di bombe alleate distruggevano palazzi, chiese medievali, ponti, fabbriche. «So it goes» ripeterà ossessivamente in Mattatoio n. 5 Kurt Vonnegut, che negli anfratti di Dresda era presente mentre la Seconda guerra mondiale mieteva almeno 20 mila vittime nella sola città tedesca, spoglia di ogni punto strategico-militare, abitata da civili. Bersaglio facile e inutile che diventerà poi il ricordo devastato di se stessa: vennero distrutti anche gli archivi fotografici e il centro storico fu ricostruito con le vedute del pittore settecentesco Bellotto.
Era un carnaio assurdo. Irrazionale, come il romanzo che l’ex soldato Vonnegut pubblicò nel 1969 e dove, ricorrente, insiste il «così è la vita», tra le macerie e lo shock di una intera cultura distrutta. Dopo quel libro, Vonnegut non fu più lo stesso. La depressione, i tentativi di suicidio, la voglia di andare via dalla pazza folla . Si capisce così perché la mostra alla Tate abbia voluto aprire la parata di foto con le parole dello scrittore scomparso nel 2007: «Le persone non dovrebbero guardare indietro. Io non ho intenzione di farlo ancora».
Kurt mantenne la promessa: Fernanda Pivano raccontava che, quando si incontravano, lui metteva le mani avanti: «Non mi chiedere di Dresda!». Eccolo, forse è condensato in questo rifiuto del ricordo il senso della rassegna Conflict : una resistenza alla memoria proprio perché questa ha invaso il presente, si è impadronita dei desideri, dei progetti, del futuro. In mostra si incontra un’altra celebre immagine, quella del marine americano dallo sguardo fisso nel vuoto, assente, come se stesse provando a spiccare il volo e ad allontanarsi dall’inferno. È uno scatto che ha reso famoso il suo autore, Don McCullin, americano che ha documentato il conflitto in Vietnam accanto (e non è una metafora: allora, come dimostrano le testimonianze di Oriana Fallaci, reporter e fotografi stavano davvero in prima linea, fianco a fianco con i soldati) alle truppe. Ogni volta che, in seguito, qualcuno ha provato a chiedergli informazioni su quell’immagine simbolica, Don ha evitato di rispondere. «Lui è ancora qui — ripete tuttora — lui non se n’è mai andato. È come se vivesse insieme a me». Anche questo è il «tempo ritardato» del conflitto, un rinculo assordante.
Sì, forse è vero che certe guerre non finiscono mai e che qualche volta mietono vittime anche a distanza. Kevin Carter vinse il premio Pulitzer nel 1993 con una foto scattata in Sudan nella quale un avvoltoio stava per avventarsi sul corpo morente di un bambino denutrito. Ma si tolse la vita l’anno dopo: non si sopravvive all’attimo in cui si guarda in faccia la morte. Stesso destino per Eddie Adams, che scattò nel 1968 la famosa foto del vietcong ucciso dal generale Nguyen Ngoc Loan. Nello scatto, il prigioniero Nguyen Van Lém ha le mani legate nel momento esatto della sua uccisione. Anche Adams vinse il premio Pulitzer con quell’opera, ma non riuscì a liberarsi mai del rimorso e dal dolore che quello scatto continua a sprigionare. Un meccanismo che ben conosceva Paul Klee, che dipinse l’ Angelus Novus con lo sguardo rivolto alle spalle, sì, ma con il corpo proteso in avanti. La tragedia dell’arte nata dalla guerra trasfigura la realtà del momento in una magnifica foto o in un dipinto estremo, come Guernica . Ma la realtà, prima o poi affiora.
Lo dimostra la stessa vita di Stefan Zweig: viennese, costretto a fuggire dal nazismo, nel 1942 si tolse la vita insieme alla moglie perché, come scrisse, «perfino viaggiare lontano, sotto altre costellazioni e in altri mondi non significa sfuggire all’Europa e alla sua inquietudine». Non si sfugge al Mattatoio e l’unica cosa che si può fare la fece Vonnegut (come si legge in mostra): da allora, prese l’uso di terminare ogni suo scritto con la parola «Pace».

La Stampa 8.2.15
Su Majorana vince Sciascia
di Lorenzo Mondo


Fra i ritrovamenti ottenuti da “Chi l’ha visto” ce ne sarebbe uno prodigioso, per la personalità dello scomparso e gli indizi avventurosi che conducono a lui. Si tratta di Ettore Majorana, il genio della fisica, di cui si persero le tracce nel 1938 mentre viaggiava in piroscafo da Palermo a Napoli. Varie furono le congetture, anche le più estreme, sulla sua sparizione. Ma nel 2008 un emigrato italiano, Francesco Fasani, telefonò al programma televisivo sostenendo di avere conosciuto Majorana, tra il 1955 e il 1959, in Venezuela, dove viveva sotto falso nome. Adduceva come prova una fotografia che li ritraeva entrambi davanti a una banca. Adesso la Procura di Roma ha riaperto le indagini, suffragate “scientificamente” dalla sovrapponibilità dei particolari anatomici di Majorana con quelli del padre. Il testimone, a quanto ne sappiamo, non ha spiegato perché fungesse da autista di Ettore, del quale ignoriamo i mezzi di sostentamento e che viene rappresentato come un asociale in bolletta.
Conta particolarmente il fatto che la famiglia si mostri scettica sulle presunte rivelazioni. Salvatore Majorana, un pronipote di Ettore, in un’intervista rilasciata al «Corriere della sera» oltre a contestare minori dettagli, non ravvisa i suoi tratti nella fotografia esibita dal Fasani. È possibile - sostiene- che il congiunto sia emigrato clandestinamente ma, anche «ipotizzando che possa avere avuto una vita difficile», quel volto non presenta nessun legame con l’immagine vulgata e accertata del giovane Majorana. La semplice guardata di un familiare mette in forse le conclusioni del Ris. Si ha comunque l’impressione che l’inopinato ritrovamento, questo sì, di un testimone, a tanti anni di distanza e venuto a mancare recentemente, non risolverà il mistero. E ne uscirà avvalorata l’inchiesta di Leonardo Sciascia. Si era appassionato al caso, non soltanto per i suoi risvolti pirandelliani, e sulla «Scomparsa di Majorana» ha scritto un affascinante libriccino. Dove esprime la convinzione che Ettore si sia recluso dal mondo nella certosa di Serra San Bruno, in Calabria. Avrebbe deciso di sprofondare nell’oblio perché oppresso dall’angoscia e dallo spavento, perché aveva intravisto in «una manciata di atomi» una minaccia terribile per le sorti dell’umanità. Teniamoci buona l’intuizione di Sciascia. La sua ragionata inchiesta sul campo non ha ottenuto una indiscussa verità fattuale, alla quale sopperisce tuttavia una poetica verità. Che, in assenza di irrecusabili alternative, resiste, non soltanto come possibile ricostruzione dell’accaduto, ma come limpida affermazione di valori morali e civili.

Corriere 8.2.15
Se i Nobel promuovono l’elisir di lunga vita
Karplus (premio per la Chimica) e gli altri quattro scienziati garanti di una pillola: «Funziona sui topi»
di Mario Pappagallo


La fontana dell’eterna giovinezza, l’elisir di lunga vita, il fungo dell’immortalità (il Reishi) che portò a oltre 80 anni in buona salute uno dei più importanti imperatori della Cinan di qualche millennio orsono. L’umanità, tra scienza e parascienza, ha sempre cercato il segreto per arrivare a età bibliche in buona salute. Che poi significa prevenire ogni malattia che vada a minare l’integrità psico-fisica. L’obiettivo di evitare la morte fisica forse qualcuno lo ha anche sperato, ma senza poi crederci realmente. Meglio immaginare un’immortalità successiva.
Un salto di qualità, se così si può definire, si è registrato negli anni post mappatura del genoma, allorquando il «gioco» tra ambiente e geni ha delineato come esistano sostanze in grado di attivare o spegnere geni chiave. Soprattutto, quanto sia importante evitare i meccanismi infiammatori cellulari. E si è arrivati a individuare scientificamente una serie di interruttori di lunga vita attivabili dalla restrizione calorica, dal resveratrolo (un enzima del vino), dalla rapamicina (da una radice dell’isola di Pasqua, oggi potente farmaco anti-rigetto), dal Nad ( nicotinamide adenin dinucleotide , molecola chiave dei processi metabolici) che agisce come una restrizione calorica. Tutti elisir sperimentati sui topi: li hanno fatto vivere un terzo in più del naturale. E in buona salute. Tutti elisir poi falliti sui primati: giovinezza prolungata ma non la vita. E sull’uomo? Ipotesi, nessun test.
Ecco allora che a un ex professore del Mit di Boston, Leonard Guarente, è venuta un’idea: trasformare uno di questi elisir, il Nad, in un prodotto da banco da vendere tra aspirine, propoli e omega 3. Ha dato così vita ad Elysium Health , una start up «garantita» da cinque premi Nobel (nel board scientifico) che da questa settimana vende Basis , una pillola di Nad. Tra i Nobel, Martin Karplus, vincitore per la chimica nel 2013, che oggi ha 85 anni.
La start up ha scelto la via dell’integratore, dei «medical food» (categoria solo americana). Il prezzo è stato fissato in 60 dollari al mese, circa 50 euro. La pillola va presa due volte al giorno tutti i giorni. Per ora è venduta solo on line, e in mancanza di dati premarketing l’intenzione della compagnia è seguire le persone che decidono di acquistarla nel tempo per verificarne l’efficacia. Con il passare degli anni i livelli di Nad negli animali e nell’uomo diminuiscono, quindi l’idea è di rimpiazzare quello perso con la pillola. Che è prodotta, garantisce Guarente, seguendo tutti gli standard di qualità usati normalmente per i farmaci.
Il precursore chimico del Nad è stato studiato anche dagli italiani, dal gruppo di Giuseppe Remuzzi, con un lavoro pubblicato nel 2009. «Vero — dice il trapiantologo dell’ospedale di Bergamo e ricercatore del Mario Negri —, nei topi abbiamo avuto un allungamento della vita del 30%. Ma nell’uomo? Che cosa farà? Per ora sembra più un’operazione commerciale con 5 Nobel a garanzia».
Studi sull’uomo sono difficili da fare. Occorre letteralmente una vita, con risultati che non saranno valutati dagli stessi ricercatori che avviano lo studio.
La ricerca più interessante in corso si chiama Early Bird.Intende misurare gli effetti di stili di vita e alimentazione nel tempo . Unica al mondo, partita nel 2000 su circa 300 bambini di 4-5 anni. Bambini, oggi adulti (18-19 anni), che sono stati costantemente monitorati. Nel 2017 dovrebbe concludersi, a meno che non si decida di proseguire.
«Problemi etici per i Nobel che si prestano a un’operazione prettamente commerciale? Non ne vedo. Si tratta di una start up — commenta il genetista e scrittore Edoardo Boncinelli —. E poi anche loro invecchiano... Piuttosto, inutile cercare elisir. La lunga vita in buona salute è evento del tutto casuale. Solo fortuna».

Corriere 8.2.15
Abbado, 48 anni dopo
Il «Requiem» di Verdi per ricordarlo
Correva l’anno 1967 quando il direttore milanese, trentaquattrenne, lo diresse in apertura del trentesimo Maggio Musicale Fiorentino
Nell’anniversario della morte il Maggio lo ricorda con Daniele Gatti:
domenica alle 16 la diretta su Corriere.it e Corrierefiorentino.it
di Francesco Ermini Polacci

qui

Repubblica 8.2.15
Riaccendiamo i Lumi
Voltaire e la Rivoluzione francese hanno separato religione e ragione, politico e teocratico, laicità e fede
Una secolarizzazione che oggi appare sempre più come disumanizzazione
Ecco perché si chiede all’Occidente di pensare un nuovo illuminismo spirituale
di Pankaj Mishra


Musulmani, indù e buddisti hanno intrapreso una transizione dall’universo sacralizzato dei simboli a quello disincantato di fatti neutrali
Tutti i popoli di quello che una volta era conosciuto come il Terzo Mondo sono “condannati alla modernità”
Ma cercano una forma meno disumana di conversione

L’ILLUMINISMO divenne possibile in Europa quando, secondo la definizione di Kant, gli individui cominciarono a «osare di sapere » — a impiegare la loro ragione, senza l’intercessione di una qualsiasi autorità. La Rivoluzione francese realizzò la grande svolta intellettuale dell’Illuminismo: la separazione tra il politico e il teocratico. La Rivoluzione contribuì anche a creare quella che Jacob Burckhardt ha chiamato la «volontà ottimista» — la fede nel progresso, nella ragione e nel cambiamento, che gli eserciti rivoluzionari francesi diffusero in tutta Europa e perfino in Asia. Con il progredire del XIX secolo, le innovazioni, le norme e le categorie dell’Europa raggiunsero un’egemonia universale. Istituzioni politiche come lo stato-nazione, forme estetiche come il romanzo, ideologie come nazionalismo, liberalismo e socialismo, e processi come la scienza, la tecnologia, il capitalismo industriale divennero i punti di riferimento per la valutazione di ogni altra forma di vita umana, passata e presente.
La laicità è stata uno dei principi europei moderni più influenti nel suo considerare la religione tradizionale inferiore ai nuovi modi razionali di comprendere e migliorare la società umana. Di fronte a questa potenza europea senza precedenti, morale e intellettuale, ma anche militare, gli uomini nelle società asiatiche e africane si sono adattati oppure hanno opposto resistenza. In entrambi i casi, hanno finito col disporre antichi modi di vita, codici etici di condotta e culture, come il buddismo, l’induismo e l’islam, secondo le linee europee moderne. C’è stata molta più secolarizzazione nel mondo dal XVIII secolo, quando alcuni filosofi europei e americani proposero un futuro nel quale gli individui, armati di ragione e diritti, avrebbero portato il progresso.
Non tutto è andato come previsto. La storia post-illuminista d’Europa ha reso inaccettabile gran parte dell’intemerata mancanza di rispetto di Voltaire per la religione — per esempio, la sua denuncia degli ebrei come fanatici nati che «meritano di essere puniti». Le politiche di assimilazione nell’Europa secolarizzata non sono riuscite a garantire i diritti degli ebrei, o a salvarli dalla discriminazione e dal disprezzo, inducendo un disperato Joseph Roth a esclamare che preferiva la vecchia «paura di Dio» europea al suo «cosiddetto umanesimo moderno». L’astratta nozione illuminista dell’uguaglianza di diritti si è rivelata debole rispetto agli imperativi della sovranità territoriale e nazionale.
Non c’è bisogno di essere cattolici o marxisti, per rendersi conto che l’Europa è circondata da problemi seri: disoccupazione alle stelle, crisi irrisolta dell’euro, crescente ostilità contro gli immigrati e una scioccante e diffusa perdita di speranza nel futuro dei giovani europei — eventi resi intollerabili per molti da invisibili detentori di titoli, da banchieri che godono di gratifiche esorbitanti e dal vizio della venalità che si diffonde in tutta l’oligarchia politica europea.
In queste circostanze, la supposizione non detta che, mentre tutto il resto cambia nel mondo moderno, le norme europee debbano rimanere autosufficienti e immutabili, meri- tandosi una sottomissione incondizionata da parte degli stranieri arretrati, ci costringe a fermarci un attimo. Come ha dimostrato Tony Judt nel suo magistrale Dopoguerra, la nozione dell’Europa come l’incarnazione della democrazia, della razionalità, dei diritti umani, della libertà di parola, dell’uguaglianza di genere doveva sopprimere le memorie collettive di crimini brutali nei quali quasi tutti gli stati europei erano stati complici. Né non si può dire che abbiano dato nuovo vigore ai valori dell’Illuminismo negli ultimi anni. Gli statinazione europei, anche quelli che non hanno partecipato alle guerre e alle occupazioni anglo- americane, hanno permesso esecuzioni extragiudiziali, torture e estradizioni illegali, che in origine erano sanzionati in nome della ragione, della libertà e della democrazia.
La nostra epoca è caratterizzata da stati-nazione pesantemente armati, da potenti corporazioni e da ciò che sembra essere una disuguaglianza strutturale inestirpabile, insieme a una dilagante depoliticizzazione causata da una ampiamente avvertita perdita della sovranità individuale e collettiva. I valori illuministici della libertà individuale si manifestano meglio in singoli atti di critica e di sfida. La maggior parte dell’arte e della letteratura moderne emerge da questo ethos critico dell’Illuminismo, dall’implacabile messa in discussione delle rivendicazioni del progresso e della civiltà.
Le élite egoiste, oggi ossessionate da premonizioni di declino, e intrappolate nello scontro tra la democrazia locale e il capitalismo globale, devono affrontare un’altra sfida, più esistenziale: è l’assenza, come disse lo storico Mark Mazower nel 1998, di «un avversario contro il quale i democratici possano definire ciò che rappresentano». Gli attacchi terroristici dell’11 settembre hanno fornito un sostituto al nazismo e al comunismo: il «totalitarismo islamico». Questo grande concetto intellettuale è stato incautamente applicato a un gruppo sciolto di megalomani, fanatici, delinquenti e disadattati, la maggior parte dei quali ha prosperato nell’ecosistema dell’estremismo (scuole, moschee, giornali, canali satellitari) originariamente istituiti dai cittadini di un fedele sostenitore dell’alleanza con l’Occidente e della teocrazia, l’Arabia Saudita. Ha raggiunto un certo potere persuasivo solo dopo l’invasione e l’occupazione angloamericana dell’Iraq, che ha radicalizzato un numero significativo di musulmani, provocando attacchi di rappresaglia nelle città europee e la devastazione di gran parte dell’Asia e dell’Africa. Quella guerra disastrosa ora ha generato una culto nichilistico della morte, che ricorda gli Khmer Rossi, in Iraq e in Siria.
Il pericolo del totalitarismo islamico ha dimostrato, almeno in Europa, di essere un mediocre surrogato rispetto alla minaccia rappresentata dal comunismo dotato di armi nucleari. Putin, tornando ad assumere una posizione anti-occidentale, si è preso più territorio europeo e ha ucciso più persone; uno dei più grandi attacchi terroristici in Europa è stato messo in atto non da al-Qaeda, ma da un blogger norvegese islamofobo.
I musulmani, come gli indù e i buddisti, hanno intrapreso da tempo una transizione di tipo illuminista dal mondo sacralizzato dei simboli e dei segni significativi a un mondo disincantato di fatti neutrali, in cui la ragione e il giudizio individuali sono guide più affidabili dell’autorità trascendente. Tutti i popoli di quello che una volta era conosciuto come il Terzo Mondo sono «condannati alla modernità », come ha scritto una volta Octavio Paz. I musulmani in Europa portano a compimento questo destino non come una borghesia commerciale che trionfa su un’élite religiosa e aristocratica, ma come una povera minoranza soggetta agli obblighi e ai pregiudizi di uno stato laico aggressivo con cui condividono una storia lunga e oscura.
La morale razionale dell’Illuminismo, come ammette anche Jürgen Habermas, il suo più eloquente difensore, «è finalizzata alla comprensione degli individui, e non favorisce alcun impulso ver- so la solidarietà, cioè verso l’azione collettiva guidata dalla morale». In un’epoca in cui il denaro è più che mai la misura di tutte le cose, la secolarizzazione può apparire troppo simile alla despiritualizzazione, se non alla disumanizzazione: una ricetta per l’inautenticità. E il conflitto è sempre probabile se le minoranze asiatiche e africane sono costrette a rispettare le norme europee di secolarizzazione, che non solo comportano la retrocessione di simboli di identità religiosa, come il velo, allo «spazio privato», ma possono anche bruscamente stabilire che, come dice uno slogan molto citato dopo gli attentati di Parigi, «nessuno ha il diritto di non essere offeso».
Il problema per le persone condannate alla modernità «non è tanto sfuggire a questo destino », ha scritto Paz, «ma scoprire una forma meno disumana di conversione», che «non implichi, come adesso accade, la doppiezza e la scissione psichica». Riconoscere che ci sono molti modi di passare alla modernità, ognuno con le proprie complesse tensioni, è muoversi verso una visione meno unilaterale dell’umanità, e, forse, verso una forma più accomodante di laicità e democrazia, sempre più necessaria in un’Europa irrevocabilmente multietnica.
I tentativi di definire l’identità francese o europea separandola violentemente dal suo presunto «altro» storico, e con la creazione di opposizioni — civili e arretrati, laici e religiosi — non può avere successo in un’epoca in cui questo «altro» possiede anch’egli il potere di scrivere e di fare la storia. La globalizzazione economica, inducendo all’interdipendenza, sembrava in un primo momento minare il solipsismo nazionalista o di civiltà. In realtà, come rivela la recrudescenza del discorso sullo scontro di civiltà, siamo lontani dal superare nozioni obsolete e sempre più rigide di appartenenza e di identità. La necessaria discussione di nozioni flessibili di cittadinanza e di sovranità o di identità fluide — imperative nell’era della globalizzazione — è rapidamente compromessa dal gettare la colpa sulla natura incorreggibilmente medievale delle persone religiose e sulla loro incapacità di apprezzare le virtù della modernità laica.
Come scrive il filosofo canadese Charles Taylor, «la nostra identità è in parte modellata dal riconoscimento o dalla sua assenza, spesso da un falso riconoscimento degli altri, e così una persona o un gruppo di persone può subire un danno reale, una vera distorsione, se la gente o la società che li circonda gli rimanda un’immagine limitata o un’immagine umiliante o spregevole di se stessi». Non è necessaria un’ampia esplorazione della differenza tra la semiotica cristiana e quella islamica per capire che se molti musulmani si offendono personalmente per le immagini degradanti del profeta è perché egli è per loro un esempio di umanità nobile più che una figura distante autorevole e severa — uno il cui più piccolo atto è degno di emulazione.
Vivendo in un mondo diverso e instabile, e condividendo un presente comune pur venendo da retroterra diversi, tanto i non-musulmani che i musulmani sono chiamati a rinunciare, come ha scritto Hannah Arendt, non alla loro «tradizione e al loro passato nazionale», ma «all’autorità vincolante e alla validità universale che la tradizione e il passato hanno sempre preteso».
Senza questa rinuncia qualificata, il nostro stato di solidarietà negativa può diventare soltanto «un peso insopportabile», provocando «apatia politica, nazionalismo isolazionista, o una disperata ribellione contro tutti i poteri costituiti». La triste profezia della Arendt sembra realizzarsi oggi in molte rivolte e esplosioni di violenza in tutto il mondo. Abbiamo sentito parlare molto dopo l’11 settembre di quella che Rushdie definisce la «mutazione letale nel cuore dell’Islam». Ma abbiamo sentito parlare relativamente poco dell’aumento dell’odio tribale verso le minoranze in tutto il mondo — la principale patologia del capro espiatorio suscitata dalle crisi politiche ed economiche — anche oggi che il mondo è molto più legato dalla globalizzazione.
La rinascita di questi fanatismi confessionali non implica tanto la vitalità della religione medievale quanto delle tristi mutazioni nel cuore della modernità laica. Michel Houellebecq è colpevole di un’esagerata autocommiserazione quando annuncia che «l’Illuminismo è morto, riposi in pace» e che l’Islam è una «immagine del futuro». Ma la società laica contemporanea nei suoi cupi romanzi — caratterizzati da estrema disuguaglianza, perdita di comunità, egocentrismo narcisistico e indifferenza al dolore — sembra un vicolo cieco che molti di coloro che stanno attraversando il loro Illuminismo e elaborando la transizione verso il disincantato mondo moderno cercano di evitare.
La vecchia promessa di stati-nazione europei omogenei — dove se ti integri godrai del privilegio di una società basata sul concetto dei diritti individuali — non sembra più adeguata, anche se può essere interamente recuperata. Sembra indispensabile che queste diverse società ridefiniscano i loro principi in modo da ammettere esplicitamente visioni diverse, religiose e metafisiche, del mondo. La pensatrice francese Simone Weil, che non ignorò mai le minoranze di Francia nelle sue riflessioni di ampio respiro, riconobbe presto che il vecchio modello standardizzato di progresso doveva essere sostituito, perché i valori dell’individualismo e dell’autonomia che in origine avevano dato vita all’uomo moderno erano giunti a minacciare la sua identità morale e spirituale. In La prima radice, un libro scritto nel 1943 per chiarire le lezioni della capitolazione della Francia alla Germania nazista, Weil giunse al punto di abbandonare il linguaggio dei diritti. La difesa dei diritti individuali era stata fondamentale per l’espansione del commercio e di una società basata sul contratto nell’Europa occidentale. All’indomani della catastrofica sconfitta della Francia, Weil sosteneva che una società libera e radicata dovrebbe essere costituita da una rete di obblighi morali. Abbiamo il diritto di ignorare le persone che muoiono di fame, disse, ma dovremmo essere costretti a non lasciarle morire di fame.
Habermas è arrivato a credere che la «sostanza dell’umano» può essere salvata solo da società che «sono in grado di introdurre nel dominio secolare i contenuti essenziali delle loro tradizioni religiose». La profonda svolta di Habermas è un segno tra i tanti che l’identità dell’uomo laico moderno, che è stata costruita sulle nozioni esclusiviste della laicità, della libertà, della solidarietà e della democrazia in Stati nazionali sovrani, si è disfatta, e richiede una definizione più ampia. Bisogna rinegoziare un nuovo spazio comune. Lo Stato militarmente e culturalmente interventista, favorevole alle imprese ma per il resto minimalista e che vuole spacciare una certa ideologia di crescita economica, non lo farà. Questa mancanza potrebbe anche giocare un ruolo nelle mani dei fanatici che vogliono distruggere il più prezioso lascito dell’Illuminismo: il distacco tra il teocratico e il politico.
Dovremmo recuperare l’Illuminismo, così come la religione, dai suoi fondamentalisti. Se l’Illuminismo è «l’emancipazione dell’uomo dalla sua immaturità auto-imposta», allora questo «compito» e «obbligo», come Kant lo definì, non è mai definitivamente compiuto; deve essere continuamente rinnovato da ogni generazione nel continuo cambiamento delle condizioni sociali e politiche. Sostenere la necessità di maggiore violenza e di altre guerre di fronte al fallimento ricorrente appartiene più al fanatismo che alla ragione. Il compito per coloro che hanno a cuore la libertà è quello di ripensarlo — attraverso un ethos di critica unita alla compassione e a un’incessante consapevolezza di sé — nelle nostre società irreversibilmente miste e fortemente disuguali e nel più ampio e interdipendente mondo in cui viviamo. Solo allora saremo in grado di difendere la libertà dai suoi veri nemici.
Traduzione di Luis E. Moriones © Pankaj Mishra

Repubblica 8.2.15
Facciamo i conti con i ministri matematici
di Piergiorgio Odifreddi


I MATEMATICI sono spesso considerati la Cenerentola degli scienziati, in senso denigratorio. Ma a volte la metafora va intesa letteralmente, e qualcuno di essi finisce per sposare per davvero un Principe: almeno politicamente, diventando ministro di un governo. È successo nel 1799, quando Napoleone nominò Pierre Simon de Laplace ministro degli Interni. Ma la sua avventura politica durò solo sei settimane, al termine delle quali fu licenziato con una giustificazione rimasta famosa. Secondo il futuro imperatore, infatti, il geometra «cercava sottigliezze dovunque, proponeva solo idee problematiche, e aveva introdotto lo spirito dell’infinitamente piccolo nell’amministrazione». In tempi più recenti il matematico con più potere è stato Paul Wolfowitz, che da vicesegretario alla Difesa di George W. Bush architettò la guerra in Iraq. Divenuto presidente della Banca Mondiale nel 2005, dovette dimettersi nel 2007 per uno scandalo legato a un aumento di stipendio elargito alla propria compagna. Le recenti elezioni in Grecia hanno portato alla ribalta l’atletico matematico Yanis Varoufakis, ministro dell’Economia del nuovo governo Tsipras. La troika dovrà ora fare i conti con lui. E, soprattutto, dovrà cominciare a farli giusti!

Corriere Salute 8.2.15
Al via entro questo mese la fabbrica militare di cannabis terapeutica
di Ruggiero Corcella


Nessun imbarazzo: «Tutto sommato questo intervento nel settore della cannabis rientra in modo organico e fisiologico nel quadro delle nostre attività per sopperire alle carenze di medicinali a livello nazionale». Negli uffici al primo piano della palazzina bianca di via Giuliani, quartiere Rifredi di Firenze, i riflettori dei media puntati addosso e le polemiche dei mesi scorsi non sembrano impensierire il generale Giocondo Santoni, direttore dello Stabilimento chimico farmaceutico militare, che fa parte dell’ Agenzia industrie difesa (AID). Dentro la cittadella, la vita scorre tranquilla anche per lo staff di militari e civili dell’unica azienda farmaceutica dello Stato.
In base all’accordo di collaborazione siglato il 18 settembre scorso, i ministeri della Salute e della Difesa hanno affidato allo Stabilimento il delicato compito di produrre i 100 chilogrammi di cannabis terapeutica l’anno stimati come fabbisogno nazionale (56 i chilogrammi importati nel 2014). E gli uomini con le stellette sono consapevoli di vivere un’occasione irripetibile: «Siamo tutti professionisti dell’ambito chimico-farmaceutico, ma ovviamente il nostro approccio non è così neutro — ammette il direttore — . È una situazione decisamente stimolante, anche dal punto di vista culturale e scientifico. L’obbiettivo e l’auspicio è di dare un esempio di come la pubblica amministrazione funzioni bene e possa diventare addirittura un modello da esportare».
Conferma il generale Gian Carlo Anselmino, direttore dell’Agenzia industrie difesa: «Lo Stabilimento farmaceutico militare di Firenze è una vera eccellenza italiana ed è un unicum in campo europeo, non solo con la produzione dei cosiddetti farmaci orfani o difficilmente reperibili, ma ora anche con il progetto della cannabis ad uso terapeutico».
Assieme al colonnello Antonio Medica, responsabile della Produzione, e al primo maresciallo Camillo Borzacchiello, entriamo nel “cuore” dello stabilimento. Comandate da una tastiera a codice, le porte scorrevoli dell’ingresso si aprono su un lungo corridoio di mattonelle rosse. A metà circa, svoltiamo nel padiglione della “Sezione Forme Solide, Liquide e Prodotti Industriali”. In fondo, una porta a vetri con i maniglioni antipanico segna il confine della nuova area “riservata” alla coltivazione della canapa. I lavori sono a buon punto ed entro fine mese dovrebbe essere pronta la serra-pilota.
«Dobbiamo partire con una produzione di tipo sperimentale — spiega il colonnello Medica — . È il primo passo per completare l’iter autorizzativo e amministrativo previsto». Se ministero della Salute e Agenzia italiana del farmaco daranno il nullaosta a questo primo nucleo, entro l’estate dovrebbe entrare a regime una serra di 50 metri quadrati. Per raggiungere il traguardo di un quintale di prodotto finito all’anno bisognerà allestire altre serre e i responsabili dello Stabilimento hanno già pronta un’area di 600 metri quadrati nello stesso capannone dove fino agli anni 80 si fabbricava sapone.
Il via definitivo? «Secondo me, — calcola il generale Santoni — se parliamo di capacità produttiva complessiva dovremo aspettare almeno la fine del 2016».
La nuova area produttiva ha già preso forma: porte da laboratorio farmaceutico, con un sistema di interblocco che consente di aprirne solo una alla volta per evitare l’inquinamento dei locali; spogliatoi per il personale che dovrà indossare camici, mascherine e guanti. L’intero complesso avrà tutta una serie di sistemi di sicurezza, di accessi e di controlli. Alla serra potrà accedere solo personale munito di badge, monitorato da impianti di videosorveglianza.
Come si svolgerà il processo di lavorazione?
«Il ciclo di sviluppo della pianta di cannabis sativa dura mediamente dai 90 ai 110 giorni — spiega Medica — . Viene fatto il raccolto, tagliando solo la parte che ci interessa, cioè le infiorescenze femminili non fecondate. Le infiorescenze sono messe ad asciugare in un essiccatoio, in una stanza dove un impianto di trattamento immette aria a bassissimo contenuto di umidità. Poi si passa alla fase di lavorazione vera e propria sotto una cappa a flusso laminare di aria, che garantisce un ambiente sterile. Infine, le infiorescenze vengono macinate in un box dove sarà montato un mulino. Quindi gli operatori prenderanno il principio attivo ottenuto, lo peseranno e lo confezioneranno in contenitori da 5 grammi. I flaconi o le bustine saranno etichettate, conservate in un’area blindata e pronte per la distribuzione».
Lo Stabilimento riceverà gli ordini dalle farmacie e provvederà alla consegna anche tramite distributori esterni. «Sarà compito del farmacista preparare le dosi — precisa Medica — . Sappiamo che in base al tipo di patologia sono previsti dosaggi diversi. Ecco perché non possiamo fare il prodotto finito, come è accaduto altre volte. I quantitativi medi di prodotto essiccato variano dai 20 ai 100 milligrammi al giorno per paziente, pari a 30-35 grammi l’anno per paziente. Quindi i 100 chili di produzione previsti dal ministero della Salute dovrebbero essere sufficienti a coprire le prime esigenze».
Quanto costa l’intero progetto? L’Agenzia industrie difesa preferisce non rispondere. «Grazie alla vendita del prodotto, — dice il generale Santoni — gli investimenti saranno ammortizzati nel giro di pochi anni e potrebbero essere reinvestiti per sviluppi futuri».

Corriere Salute 8.2.15
Scrivere con carta e penna attiva più neuroni rispetto a quando si utilizza una tastiera
di Alice Vigna

L’uso di computer, tablet e smartphone per leggere e scrivere non cambia solo capacità del cervello come l’attenzione o la concentrazione: anche l’attività e le connessioni cerebrali si modificano.
Nei bambini si è dimostrato, ad esempio, che scrivere una lettera a mano attiva determinate aree del cervello, mentre digitarla su una tastiera non fa altrettanto. Prendere la penna, inoltre, “accende” aree motorie cerebrali attivate anche dalla lettura, in una sinergia positiva provata da esperimenti condotti da Karin James dell’Università di Bloomington, nell’Indiana.
Secondo James «negli adulti le zone che si attivano leggendo sono le stesse che vediamo accendersi nei bambini quando osservano una singola lettera che hanno imparato a scrivere a mano; nei piccoli che sanno solo digitarla su tastiera ciò non accade». Ovvero: la scrittura su un foglio “insegna” a leggere meglio, perché contribuisce a rinforzare le aree del cervello dove si riconosce la forma delle lettere o in cui si associano i suoni alle parole.
La conferma arriva dalla Cina, dove si utilizza sempre di più il sistema “pinyin” di trascrizione del cinese sulle tastiere QWERTY: abbandonando gli ideogrammi scritti a mano, le diagnosi di dislessia e altre difficoltà di lettura sono in continua crescita. «Digitare una lettera non permette di comprenderne davvero la forma e le possibili variazioni che non ne alterano il significato, come invece accade quando si impara a scriverla a mano», spiega James.
Le nuove tecnologie inoltre sembrano capaci di modificare il cervello e il modo in cui funziona anche perché rendono necessario sviluppare maggiormente aree che in passato non si usavano altrettanto spesso: lo dimostra una ricerca dell’Istituto di neuroinformatica dell’Università di Zurigo, messa a punto per capire come l’uso dello smartphone possa influenzare l’attività cerebrale. Alcuni volontari, di cui 27 proprietari di un telefonino di nuova generazione e 11 con un cellulare vecchio stile, sono stati sottoposti a elettroencefalogramma mentre utilizzavano i loro apparecchi, così da registrare che cosa accadeva nella corteccia cerebrale quando muovevano pollice, indice o dito medio della mano destra: i dati raccolti indicano chiaramente che le aree di “rappresentazione cerebrale” di queste dita sono molto diverse fra chi utilizza smartphone o telefoni standard.
«Ogni parte del nostro corpo ha un corrispettivo nella corteccia somatosensoriale cerebrale, in un’area dove vengono gestite le informazioni che vanno e vengono da quella singola zona — spiega il coordinatore della ricerca, Arko Ghosh —. Queste aree sono flessibili e l’ampiezza cambia in base all’uso che facciamo della parte del corpo corrispondente. Il nostro esperimento dimostra che il cervello è molto plastico: quanto più i volontari avevano usato lo smartphone nei dieci giorni precedenti, tanto più grande e attiva era l’area cerebrale “dedicata” al pollice (il dito più usato per digitare sugli schermi dei nuovi cellulari, ndr )». Il risultato potrebbe sembrare simile a quanto è stato verificato nei violinisti, in cui è noto che l’area della corteccia somatosensoriale che rappresenta le dita è più grande rispetto a quella di chi non suona lo strumento.
«In realtà nei violinisti l’ampiezza e attività di queste zone dipende dall’età a cui si è iniziato a suonare, mentre nel caso degli smartphone il tempo trascorso dall’acquisto non conta: la correlazione è fra l’attivazione cerebrale e l’uso recente del telefono — osserva il neuroscienziato —. La tecnologia digitale modifica perciò giorno per giorno la gestione delle informazioni sensoriali da parte del cervello, con un’intensità sorprendente». In pratica, se al violino servono anni per indurre le aree del cervello dedicate al controllo delle dita ad “allargarsi”, lo smartphone modifica in brevissimo tempo le connessioni delle zone che servono a gestire la maggiore attività dei pollici sullo schermo.

Corriere Salute 8.2.15
La lettura digitale ci cambierà?
Le nuove tecnologie potrebbero ridurre le nostre capacità di attenzione e di comprensione dei testi, trasformando anche il modo di intendere il sapere
di Alice Vigna


Oggi possiamo avere a disposizione, oltre a librerie colme di volumi, anche e-reader e tablet in grado di contenere centinaia di testi: un sistema di conservazione e lettura dei testi comodo ed economico. Ma siamo sicuri che la lettura su uno schermo (così come la scrittura, visto che gli appunti su tablet sono ormai più diffusi dei bloc-notes) non stia alterando il nostro modo di ragionare e il modo di funzionare del nostro cervello?
Se lo chiede la rivista New Scientist , elencando recenti studi che avanzano diverse perplessità sugli effetti cerebrali della rivoluzione digitale.
Negli anni 70 ci domandavamo che cosa ne sarebbe stato delle nostre abilità matematiche con l’arrivo delle calcolatrici, ora le implicazioni della tecnologia paiono ben più profonde: la trasformazione radicale delle abitudini di lettura e scrittura sembra infatti minare abilità cerebrali come l’attenzione o la capacità di comprensione, stando alle ricerche di Anne Mangen, dell’Università di Stavanger, in Norvegia.
«Abbiamo chiesto a un gruppo di volontari di leggere lo stesso testo su un e-reader o su carta — racconta Mangen —. Chi ha letto il libro cartaceo ricordava meglio la trama e riusciva più facilmente a mettere gli eventi nella giusta sequenza. L’effetto potrebbe essere correlato con la necessità di “tenere il filo” di ciò che leggiamo: su carta abbiamo molti indizi fisici ad aiutarci, ad esempio possiamo ricordare che un fatto si è compiuto quando eravamo quasi all’inizio o a circa metà del volume. Il l testo elettronico invece ci fa “perdere” di più tra le sue righe: non percepiamo quanto manca alla fine o a che punto siamo, il testo appare sempre uguale».
Tutto ciò in qualche modo confonde e forse ci priva di un po’ di coinvolgimento nei confronti dei fatti narrati, almeno stando a un’altra ricerca della Mangen secondo cui leggere su carta aumenta l’empatia del lettore nei confronti dei personaggi e della storia.
C’è di più: la lettura online ci sta rendendo incapaci di attenzione a lungo termine, e forse impedirà alle nuove generazioni di godere di romanzi come “I fratelli Karamazov”: banner, video e link distraggono e minano la capacità di concentrazione che serve per una lettura “profonda”, l’unica che consenta di seguire trame complesse.
Il libro di carta (ma anche la scrittura a mano, vedi sotto ) sembra per il momento vincente. Ma sottolinea Mangen: «Per guidare le scelte del futuro, ad esempio per capire se introdurre a tappeto i tablet a scuola sia davvero opportuno, servono dati più precisi». E proprio per dare risposte esaurienti la studiosa guida il progetto The Evolution of Reading in the Age of Digitisation , appena avviato in 25 Paesi dell’Unione europea.
Tuttavia il nostro cervello e la qualità delle nostre conoscenze stanno cambiando probabilmente non solo a causa dei supporti usati per leggere o scrivere: oggi vogliamo sapere come e dove possiamo trovare un’informazione, piuttosto che cercare di ricordarla. «La tecnologia ha modificato il nostro modo di intendere il sapere, perché consente di accedere ai dati in ogni momento — sottolinea Naomi Baron, di cui è in pubblicazione negli Usa il volume Words on screen: the fate of reading in a digital world (Le parole sullo schermo: il destino della lettura in un mondo digitale) —. Ma che accadrebbe se andasse via la corrente e non avessimo Internet, tablet o smartphone funzionanti? Sapremmo qualcosa o no?». La natura della conoscenza è cambiata con l’arrivo della scrittura; sta succedendo lo stesso con web, tablet e smartphone.

Corriere Salute 8.2.15
La lentezza agevola chi deve studiare
di A. V.


Meglio le nuove tecnologie o i «vecchi» sistemi per bambini e ragazzi alle prese con lo studio? Secondo alcuni le prime, perché offrono materiali interattivi più stimolanti. Ma la pensano diversamente Pam Mueller e Daniel Oppenheimer, delle Università di Princeton e di Los Angeles. «Con un esperimento — dice Mueller — abbiamo dimostrato che
gli studenti comprendono e ricordano meglio una lezione se scrivono su carta. La velocità con cui digitiamo sui tasti è superiore rispetto a quella che possiamo sostenere scrivendo a mano, perciò nel secondo caso si compie uno sforzo maggiore per elaborare le idee già mentre si ascolta, scegliendo che cosa vale la pena annotare e “imparando” già un po’. Prendendo appunti sul tablet trascriviamo tutto, ma come se non fossimo del tutto consapevoli dei contenuti».


Mentre il direttore della Fondazione Heidegger, dopo aver letto i "Quaderni neri", si è dimesso per non voler più in alcun modo partecipare alla diffusione del pensiero del nazista tedesco, e Emmanuel Faye, autore per L'Asino d'oro edizioni di Heidegger, l'introduzione del nazismo nella filosoifia (volume curato da Livia Profeti)  si è rifiutato di partecipare al Convegno di Parigi su Heidegger e i "Quaderni neri", fortemente voluto invece proprio dalla Donatella De Cesare, lei invece si tiene ben stretta la sua poltrona di vice-direttore alla Fondazione Heidegger:
Di Cesare ha scritto «Senza categorie heideggeriane (...) non si può nemmeno capire il mondo. Non a caso, per un poeta come Paul Celan o un intellettuale come Jean Améry (lui stesso sopravvissuto al lager), Heidegger era un punto di riferimento»
La sua complicità con il pensiero nazista di Heidegger è dunque evidente.
Qui scrive: «Il conflitto planetario è stato anzitutto la guerra dei tedeschi contro gli ebrei» e «l’esigenza di rileggere Essere e tempo — come ha fatto al convegno di Parigi il giovane filosofo israeliano Cédric Cohen-Skalli, paragonando Heidegger a Walter Benjamin»
«Il che non vuol dire, come pretenderebbero alcuni, proscrivere o bandire Heidegger, ma confrontarsi con la complessità della sua riflessione in modo aperto e critico».
Corriere La Lettura 8.2.15
In uscita in Germania le note del 1942-48: che gli alleati abbiano fermato i tedeschi è «crimine» più grave delle «camere a gas»
Heidegger: «Gli ebrei si sono autoannientati»
Nei nuovi «Quaderni neri» del filosofo l’interpretazione choc della Shoah
di Donatella Di Cesare

qui

Corriere 8.2.15
Pensiero e morale
Il caso Heidegger divide gli studiosi
L’interpretazione choc della Shoah del filosofo tedesco affiora con l’imminente pubblicazione della nuova parte dei «Quaderni Neri». E l’associazione si spacca

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Corriere 23.1.15
Crisi al vertice della «Heidegger»
Dopo la pubblicazione dei discussi «Quaderni neri» in cui affiora l’evidente antisemitismo del filosofo, il presidente Figal si è dimesso. Con polemica
di A. Car.

qui

Corriere 28.12.14
Heidegger antisemita perché razzista
Il lavoro del filosofo Emmanuel Faye ha spostato il «caso Heidegger» dal piano della sua compromissione con il Terzo Reich a quello del suo stesso pensiero
di Livia Profeti

qui

Corriere La Lettura 8.2.15
La più bella dei musulmani. Miss Islam, fascino e fede
Famiglia, lavoro: la quieta jihad di Fatma. Il velo è un punto di vista, come i tacchi
di Francesco Battistini


A Dio piacendo. E anche agli uomini. Le viene facile svettare alta in questa mall del porto di Marsiglia: un non luogo non bello, una mattina piovosa del più brutto gennaio francese, un’American Beauty d’hamburgerie, detersivi in offerta speciale, massaie tracagnotte. «T’aspetto alle scale mobili dei casalinghi, ho le scarpe rosse col tacco alto…».
Facile, inquadrarla: la Muslim Beauty ha pure gli occhialoni scuri, i pantaloni a zampa d’elefante e il trucco halal , zero alcol e zero grassi suini. Mostra solo il lato A, neanche tutto: un velo nero nascosto sotto un cappellone nero a larghe tese, come faceva Farah Diba. «Ovvio che il velo nasconda: hijab vuol dire nascondere!». Ma non è un handicap? «La bellezza è nascondersi un po’. Le donne dovrebbero capire che il velo aiuta il viso e magari copre qualche difetto. Fa sentire sicure, quando reciti le cinque preghiere». Non è sempre una libera scelta… «Se non sei convinta, non metterlo. Io sto solo dicendo a Dio che mi copro perché gli voglio piacere. Una forma di rispetto verso la famiglia, la società. Il velo però non s’impone e non si vieta. E se vuoi nascondere la tua testa, allo stesso modo lascia che le altre scoprano la loro. Nei Paesi dov’è obbligatorio, non vedono l’ora di levarselo. Dov’era vietato indossarlo, adesso lo vogliono tutte. Non sarebbe meglio che il velo volasse libero? In Occidente è facile capire la libertà di chi non si vela, molto meno è accettare chi lo fa. Non siamo diverse dagli uomini che nella vecchia Europa si sentivano più a posto col cappello: un punto di vista, come i tacchi o la minigonna».
Bonjour, Miss Islam. Da quando ha vinto, Fatma Ben Guefrech non è più tornata in Tunisia. Perché fa l’ingegnere informatico, è specializzata in realtà virtuali, farà un master a Bordeaux: «Hai presente gli occhiali di Google? Ecco, io studio quelle cose lì…». Perché fra gli ulivi di Gabes dov’è nata o di Nabeul dov’è cresciuta, figlia d’una casalinga divorziata, non vede molti orizzonti. Ma pure perché le tv tunisine hanno trasmesso la sua incoronazione e se hai 26 anni e dichiari che il tuo fidanzato farmacista può attendere, ché di sposarti neanche ti sogni, certe corone hanno brutte spine: «Io non so se ci siano dei rischi. Però preferisco stare in Francia. Non mi conosce nessuno, mi sento più tranquilla. Anche se la strage di “Charlie Hebdo” sta cambiando le cose: c’è molta islamofobia e all’uscita dalla moschea bisogna fare più attenzione…».
A Bali, in novembre, Fatma è stata eletta la più bella del mondo musulmano. Miss World Muslimah 2014. Lei su 500. Dopo una settimana di selezioni s’è ritrovata con tutto quel che una brava miss deve avere: la fascia, i fiori, le lacrime, un orologio d’oro da duemila dollari («ma che cosa me ne faccio? Lo regalerò ai palestinesi di Gaza»), un viaggio premio alla Mecca. E gl’insulti dell’Isis: «M’hanno minacciata. M’accusano d’essere andata a visitare un tempio indù. Dicono che sono una prostituta, che a una musulmana è vietato fare passerelle davanti agli uomini...».
Il Corano avverte che nulla può essere adorato a eccezione di Allah… «Ma noi concorrenti siamo solo scese da una scala! Vestite normalissime! Abbiamo recitato le sure! Siamo andate a visitare ospizi e orfanatrofi! E abbiamo risposto alle domande sulle mogli di Maometto, sul nostro ruolo di donna: puoi essere musulmana anche se non ti vesti da musulmana? Come puoi cambiare gli stereotipi della femmina sottomessa?...». A Miss Islam, e questo a Fatma è piaciuto, nessuno ti misura come una giovenca. «Ci hanno chiesto l’altezza, il peso, tutto qui. In comune con gli altri concorsi, c’è solo il titolo finale: diventi miss mondo qualcosa. In realtà, si punta a valorizzare un’idea diversa di bellezza. Io non sono il simbolo d’una cultura contro un’altra. E non sono stata eletta contro le altre miss, ma per piacere a una parte di mondo meno omologata».
Nei 99 nomi di Dio c’è anche Al Jamil, il Bello. La grande bellezza passa per la grandezza di Allah, dice Miss Islam, la calligrafia del corpo è una qualità divina che viene dall’armonia del cuore. Come si spiega allora l’abbrutimento di tante femmine islamiche d’oggi? «Il Corano c’entra poco», risponde Fatma (postilla: per capirlo basta leggere le memorie proprio di un’italiana, Cristina Trivulzio di Belgioioso, che già nell’Ottocento viaggiava in Turchia e restava impressionata dai contadini musulmani che sapevano rispettare le mogli molto più dei contadini cristiani). «Io propongo un’immagine della musulmana che non sia la solita poveretta oppressa e deprivata, la schiava di mondi medievali. C’è questa tendenza a vederci tutte uguali. Ma la differenza fra una musulmana di Parigi e una che viene dall’Afghanistan è la stessa che può esserci fra una scandinava e l’africana d’una tribù».
La bellezza non salverà il mondo, però accade che i suoi frivoli concorsi lo turbino. Miss Sarajevo che sfilava dietro lo striscione «non lasciate che ci uccidano», negli anni Novanta, fu più utile dei caschi blu. Miss Tibet, con le sue grazie, fece conoscere le disgrazie d’un intero popolo. Il boicottaggio di Miss Kosovo fu un caso diplomatico. Anche in Italia le miss (la prima miss nera, Miss Padania…) sono state usate per messaggi politici. E se nel primo dopoguerra, accanto alle Loren, c’erano pure da noi le passerelle morigerate dove s’eleggevano le più pie, le meglio velate, le più somiglianti a una madonnina, nella storia della bellezza può dunque entrare questa piccola storia di bellezze musulmane: da quattro anni, Miss Islam viene scelta in hotel blindati coi metal detector e le bodyguard. Perché la bella teme le bestie — la ragazza nigeriana che ha vinto nel 2013, ricercata da Boko Aram, vive seminascosta — e non c’è una Naomi Watts che commuova King Kong: «Ci mancava l’Isis. Ammazzano nel nostro nome e intanto noi paghiamo due volte: primo, perché a morire in Iraq o in Siria sono soprattutto i musulmani; secondo, perché adesso per voi occidentali siamo tutti terroristi. Ma lo sapete che la Tunisia è il Paese al mondo che dà più volontari alla jihad? Una tragedia: quando chiamo casa sento sempre d’un vicino, d’un conoscente che è partito. Ci sono padri che si fanno venire l’infarto, pur d’andare a riprendersi i figli».
In Tunisia, si sono inventati anche le jihadiste del sesso… «Ma qual è la religione che può dire a una donna d’andare al fronte nei bordelli per i combattenti? Sono schiave incatenate con argomenti religiosi. Questi predicatori ci manderebbero le loro figlie? Rispondono che è la disperazione a giustificare il sacrificio. Coglionate! Fare jihad significa andare tutte le mattine al lavoro, mantenere unita una famiglia, far studiare i figli. Il concetto di jihad nasce dalla legittima difesa. In Siria, qualcuno capisce chi si sta difendendo da che cosa? Le ragazze che partono non sono padrone neanche del loro corpo. Marionette contro altre marionette».
A Nabeul è rimasta la mamma di Fatma, con un fratellino. Le sorelle se ne sono andate tutte, a Aix-en-Provence o in Canada. «La vita al femminile non è facile. Mi piace una tunisina come Afef, che con la sua bellezza è andata nel mondo per diventare quel che voleva, senza rinnegarsi. Invece non mi piace Amina, la blogger che mostra il nudo per protesta: fa del male alla sua famiglia, si fa usare dalle Femen. Il punto è sempre lo stesso: il corpo va lasciato stare. Il messaggio devi farlo passare con la tua testa. Fare del nudo un simbolo è una scorciatoia, quando sei a corto d’argomenti. C’è ancora bisogno di mostrarsi tutta nuda, o tutta velata, per avere un ruolo nella società?».
A miss Fatma, nessuno ha mai osato proporre nemmeno la foto in bikini: «Non m’interessa. Però non ho problemi con quelle che si spogliano. Liberissime. Il pudore d’ogni donna arriva fin dove si sente a suo agio. L’importante è che dietro l’abito sexy si valuti il resto. A Bali cercavano una ragazza diversa dai cliché occidentali: una personalità forte, una che aiutasse la sua comunità e nel tempo sapesse sopravvivere alla bellezza corporea». Dice il Profeta che una donna può essere scelta per ricchezza, rango, bellezza o religiosità. Fatma ce l’ha fatta parlando del silenzio: «Ho citato Omar, il califfo sufi: testimoniate Dio silenziosamente. Mi chiedevano: come promuovi l’islam, se stai in silenzio? Col comportamento. Coi principi. Non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te. Coltiva il lavoro e la pace. Sono valori comuni a tutte le religioni. Se sei corretto, poi mettiti il velo o la croce o la kippah, non importa…».
Ha dedicato la sua vittoria alla Palestina e ne ha approfittato per una tirata contro Israele: ma tu es Charlie , Fatma? «Chi uccide un ebreo perché ebreo, è solo un terrorista. Ma questo poi non significa che uno debba stare con Israele. Un sacco d’ebrei sfilano contro le politiche del governo israeliano». Come in ogni concorso di bellezza, alla fine le hanno chiesto i suoi gusti: lei ascolta le canzoni di Mohammed Assaf, il palestinese che «non canta solo morti e lacrime». Nella borsa rossa ha Quel che il giorno deve alla notte di Yasmina Khadra: «Ma la preferita è Ahlam Mosteghanemi. Racconta l’infelicità nell’Algeria coloniale e ti fa capire quella d’un iracheno d’oggi, o d’un musulmano delle banlieue. Un arabo non può vivere senza le sue ferite, lei te le fa condividere». Ci sono dei Paesi che si abitano e dei Paesi che ci abitano, dice la Mosteghanemi: «Ogni musulmano che se ne va per il mondo sa che cosa vuol dire».

Corriere La Lettura 8.2.15
Gran Bretagna
Tanto mal d’amore
I devoti di Maometto ora cercano aiuto
di Marco Ventura


Difficile la vita sentimentale dei musulmani britannici. Molti trentenni e quarantenni cercano invano il partner giusto. Finiscono con il trovarsi soli, spesso vittima di matrimoni falliti. La vigilia di San Valentino, il 13 febbraio prossimo, l’associazione City Circle di Londra promuove un incontro sul tema. Sposarsi e rimanere sposati, spiega l’invito, è uno dei problemi maggiori della diaspora islamica. In una società britannica multireligiosa e secolarizzata, i sentimenti vengono schiacciati da tradizioni e culture in competizione. Aspettative e condizionamenti delle famiglie d’origine sono un macigno, genitori e figli non si capiscono. Il seminario del City Circle si rivolge a quanti, nonostante tutto, cercano ancora «l’amore e il matrimonio» e credono che «la fede e i valori» non debbano soccombere «alla tradizione e alla cultura». Pagando cinque sterline si potranno ascoltare esperti dal profilo in equilibrio tra postmodernità British e Islam. Parleranno l’imam Shahnawaz Haque, psicoanalista specializzato in terapia di coppia, Fauzia Ahmad, sociologa che studia i problemi delle musulmane, e Rooful Ali, esperto di business islamico. Offriranno consigli preziosi a chi non vuole arrendersi. Non è un destino ineluttabile, per i musulmani britannici, la sfortuna in amore.

Il Sole Domenica 8.2.15
È il progresso, si stampi!
In Inghilterra la macchina da stampa a vapore portò una diffusione della conoscenza senza precedenti
Un rivolgimento per il pensiero e i costumi
di Franco Giudice


Mai forse l’Inghilterra fu così prossima alla rivoluzione come nei decenni precedenti l’ascesa al trono della regina Vittoria (1837). Certo, estendendo, anche se non di molto, il numero degli aventi diritto al voto, il Reform Act del 1832 mise fine ai peggiori abusi del vecchio sistema politico. Ma gli accesi dibattiti sulla riforma avevano rivelato una nazione sull’orlo di un abisso, profondamente turbata da manifestazioni di massa spesso sfociate in violenti tumulti. D’un tratto, il mondo decoroso della provincia inglese descritto da Jane Austen, popolato perlopiù da uomini e donne delle classi medio-alte, cedeva il passo alle strade affollate della Londra di Dickens, con la tremolante illuminazione a gas che proiettava le ombre inquietanti di personaggi come il Fagin di Oliver Twist.
Insieme alle apprensioni sociali, si nutrivano però anche grandi speranze per un futuro di maggiori libertà civili e di progresso tecnologico. Un clima colto con arguzia da una caricatura del 1828, appartenente alla celebre serie di vignette intitolata The March of Intellect, che raffigura un automa gigante. È un mostro che ricorda i dipinti di Arcimboldo: due lampade a gas per occhi, una macchina da stampa a vapore come corpo, la testa fatta di libri, con sopra l’edificio della London University a mo’ di corona, ossia la prima università britannica, fondata nel 1826, che ammetteva studenti senza distinzioni di sesso, razza o fede religiosa. Incarnava la grande macchina dell’intelletto, simbolo della disponibilità universale del sapere, che nel suo incedere implacabile impugnava un’enorme scopa con cui spazzava via l’ordine stabilito e cambiava ogni cosa. E che James A. Secord, attento studioso dell’impatto delle teorie scientifiche sulla società inglese del XIX secolo, ha scelto come copertina del suo libro.
Siamo all’alba dell’età vittoriana, tra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, quando le innovazioni tecnologiche, come appunto la macchina da stampa a vapore, avevano reso i libri più economici e accessibili a un pubblico di massa. Fu in questo contesto che nacquero movimenti come la Society for the Diffusion of Useful Knowledge, animati dalla convinzione, di matrice baconiana, che il sapere doveva essere di pubblica utilità. Non sembravano esserci dubbi: l’atteggiamento razionale della scienza era l’unico rimedio al malessere sociale, politico e religioso del paese. Ecco perché bisognava favorirne la diffusione: la scienza aveva il potere di trasformare non solo il modo di leggere, ma anche i pensieri più intimi e le azioni delle persone.
Al culmine di questi cambiamenti, ci fu un proliferare di libri che riflettevano sulla natura e sul significato della scienza, dando luogo a un più ampio dibattito che coinvolgeva questioni di natura politica e religiosa. Non sfuggiva infatti che le nuove scoperte potevano essere usate sia per sostenere sia per demolire istituzioni e concezioni tradizionali.
Furono libri influenti e controversi. Apparvero tutti in una manciata di anni, tra il 1830 e il 1836, e proponevano tutti una visione del futuro basata sulle possibili conseguenze della scienza per la vita quotidiana. Secord li analizza in dettaglio uno per uno, prestando attenzione al modo in cui furono presentati, al prezzo di copertina, alla qualità della carta, al formato e, soprattutto, a come vennero letti dai contemporanei. E nell’immergersi nel vortice di idee e di reazioni che sollevarono, ci restituisce una vivida rappresentazione di «un momento storico unico» in cui il futuro della civiltà sembrava a portata di mano.
Ma proprio sul tipo di futuro che ci si doveva aspettare, le opinioni erano assai diverse. Così, quando nel 1830 uscirono postume le Consolations in Travel, or the Last Days of a Philosopher, i lettori si trovarono di fronte a un’opera piuttosto curiosa. L’autore era Humphry Davy, il più celebrato uomo di scienza dell’epoca, a lungo presidente della Royal Society, che aveva scoperto nuovi elementi chimici e inventato la lampada di sicurezza per i minatori. La stessa persona che ora nelle Consolations, il suo testamento intellettuale, si lanciava in ardite disquisizioni sull’immortalità, sul ruolo dei grandi uomini nella storia e nella scienza, senza risparmiarsi viaggi fantastici su altri pianeti e incontri visionari di varia natura. Era la risposta di Davy alla crisi, che prendeva le distanze dai tentativi di democratizzare la conoscenza, facendo appello invece a quei pochi spiriti eletti cui bisognava affidare il destino della nazione.
Una concezione top-down del sapere dunque, condivisa anche da Charles Lyell, sebbene con altre finalità. Lyell intendeva anzitutto rivendicare il carattere di scienza alla geologia, la più controversa delle discipline emergenti, liberandola dall’accusa di essere troppo speculativa e rifondandola su solide basi induttive. Fu con quest’ambizione che scrisse i Principles of Geology, pubblicati in tre volumi tra il 1830 e il 1833. Ma non era appunto a lettori comuni che Lyell si rivolgeva, esclusi a priori dalla scelta di mettere sul mercato l’opera a un prezzo troppo elevato. I suoi destinatari erano le classi medio-alte e le autorità politiche e accademiche; l’obiettivo rassicurarle che la geologia non costituiva affatto una minaccia per la religione, e la si poteva quindi inserire tra gli insegnamenti universitari, divulgandone poi i risultati presso il volgo. Un’impresa per nulla semplice, poiché la prima cosa che colpiva nei Principles era il rifiuto di considerare attendibile il racconto biblico. Per Lyell, la conformazione attuale della Terra non era il risultato di catastrofi geologiche come il diluvio universale, bensì di processi naturali e uniformi operanti su intervalli di tempo inimmaginabilmente più lunghi dei seimila anni contemplati da quel racconto.
Non tutti però approvavano la strategia elitaria di Davy e Lyell. Anzi, altri autori auspicavano che la scienza diventasse popolare e che i loro libri raggiungessero un pubblico quanto più ampio possibile. Il tono generale di tali opere era esemplificato dal Preliminary Discourse on the Study of Natural Philosophy (1831) dell’astronomo John Herschel. Un testo chiaro, equilibrato e molto economico, che ebbe pertanto un enorme successo. Ma che, a differenza di quanto pensiamo oggi, non fu considerato un contributo alla riflessione epistemologica sull’induzione. Per i numerosi lettori dell’epoca, come ci spiega Secord, il Discourse fu soprattutto un “manuale di comportamento”: una guida a pensare secondo i criteri di razionalità tipici della pratica scientifica.
A ispirare questi autori era la fede democratica che la scienza potesse essere esercitata da chiunque, forse perfino dalle donne. Lo dimostrava lo straordinario caso di Mary Sommerville, una matematica scozzese autodidatta, che nel 1834 si conquistò la ribalta con un’opera intitolata On the Connexion of the Physical Sciences. Un libro ambizioso, subito diventato un best seller, dove si proponeva una visione unitaria delle scienze, quando le discipline stavano giusto iniziando a definire i propri territori d’indagine. L’autrice non annunciava nuove scoperte, ma la sua originalità consisteva nello spaziare dall’astronomia alla fisica, dall’elettricità al magnetismo, con uno stile narrativo accattivante e accessibile, trattando argomenti complessi senza usare nemmeno un’equazione. Insomma, un libro alla portata di tutti, che la rivista popolare «Mechanics’ Magazine» promuoveva ed esaltava: «Leggetelo! Leggetelo!»
La «Marcia dell’Intelletto», come sottolinea Secord, procedeva in realtà lungo sentieri non ancora del tutto esplorati, molti dei quali avrebbero condotto a vicoli ciechi. Eclatante, in tal senso, fu la parabola della frenologia, la “scienza” che sosteneva di individuare le attitudini morali e intellettuali dall’organizzazione del cervello quale risultava dalla forma esteriore del cranio. A decretarne il successo in Inghilterra fu The Constitution of Man di George Combe. Un’opera pubblicata nel 1828, ma che suscitò un enorme interesse soltanto nel 1836, quando venne ristampata in un’edizione economica, vendendo in pochi mesi 43.000 copie. La frenologia sembrava offrire la possibilità di prevenire i crimini, di riformare la scuola e più in generale la società. Queste potenziali applicazioni impressionarono politici e primi ministri, ma destarono anche tanto scetticismo, non privo di affilata ironia. Al punto che la frenologia fu parodiata come «Toe-tology», la scienza cioè che definiva il carattere degli individui dalla forma dei loro piedi. Secord ricostruisce con mano sicura il clima culturale dell’Inghilterra previttoriana, catturando l’intenso entusiasmo del pubblico di massa per la nuova letteratura scientifica in un’epoca in cui lo scienziato non esisteva ancora come una riconosciuta figura professionale. Mancava perfino il termine, che fu coniato da William Whewell nel 1834: scientist appunto, in analogia con artist e journalist. Ma, per quanto strano ci possa apparire, la parola non aveva affatto un valore positivo. Per Whewell, gli scienziati si occupavano soltanto di dati e di esperimenti, mentre spettava ai filosofi naturali come lui riflettere sulle implicazioni morali e metafisiche del loro lavoro. A suo avviso la differenza tra lo scienziato e il filosofo naturale era «come quella tra un grande generale e un buon ingegnere».
James A. Secord, Visions of Science: Books and readers at the dawn of the Victorian age , Oxford University Press, Oxford, pagg. 306, £ 18. 99

Il Sole Domenica 8.2.15
Scoperte filologiche
La nuova alba dell’italiano
Nello Bertoletti ha scoperto e pubblicato un nuovo testo poetico delle origini
Datato 1239, in dialetto settentrionale, con ogni probabilità piemonese
di Claudio Giunta


«Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena». Sono parole di Francesco De Sanctis, è l’inizio della sua Storia della letteratura italiana. Lo studente che le ripetesse oggi a un esame universitario verrebbe subito bocciato, perché ciò che oggi sappiamo circa le origini della nostra poesia è molto diverso (e molto di più) rispetto a ciò che sapeva De Sanctis.
Sappiamo intanto che la cronologia della scuola siciliana è diversa da quella «comunemente creduta» ai tempi di De Sanctis, e che non ci sono ragioni per attribuire a Cielo (non Ciullo) d’Alcamo, e men che meno a Folcacchiero da Siena, il ruolo dell’iniziatore. Sappiamo che esistono testi in versi di argomento religioso-devozionale che risalgono all’ultimo quarto del dodicesimo secolo o al primo quarto del tredicesimo (e uno di questi testi, per quanto atipico, è poi il Cantico delle creature di san Francesco). Ma sappiamo anche che le strade della poesia profana furono meno lineari di quanto s’immaginasse non solo sino a De Sanctis ma sino a una quindicina d’anni fa, perché i filologi hanno trovato, frattanto, testi poetici databili agli ultimi decenni del secolo XII o ai primi del XIII in aree eccentriche rispetto a quelle in cui nasce e si sviluppa, nel secondo quarto del Duecento, la tradizione cosiddetta “siciliana”: si tratta, precisamente, della canzone Quando eu stava scoperta da Alfredo Stussi in un’antica pergamena ravennate, e del frammento piacentino Oi bella scoperto da Claudio Vela (2005).
Ora il quadro cambia di nuovo, e non per un dettaglio, perché Nello Bertoletti ha scoperto (non in un archivio ma tra le carte di un manoscritto della Biblioteca Ambrosiana) e pubblicato un nuovo testo poetico delle origini che comincia così:
Aiuta De’, vera lus et gartaç,
rex glorïoso, segnior, set a vu’ platz,
chìa mon conpago sê la fedel aiuta.
E’ nun lo vite, po' la note fox veiota.
Ovvero, nella traduzione offerta dallo stesso Bertoletti: «Sii d’aiuto Dio, vera luce e splendore, re glorioso, signore, se a voi piace, siate il fedele aiuto del mio compagno. Io non l’ho visto, da quando si è vista la notte». Il testo prosegue per altre quattro stanze, nelle quali l’io poetico, dopo aver invocato Dio, si rivolge a un «Bè conpagnó», cioè a un «Bel compagno», invitandolo a svegliarsi, perché l’alba si avvicina.
Alba è appunto il nome del genere poetico a cui questo testo appartiene, genere (o piuttosto motivo) diffuso in molte letterature, ma da un lato poco o nulla presente in quella italiana (giusto qualche traccia nel Duecento, nei cosiddetti Memoriali bolognesi), dall’altro invece vitalissimo fra i trovatori, cioè tra quei poeti che vissero nella Francia meridionale, e successivamente anche nell’Italia del nord, tra la fine del secolo XI e la fine del secolo XIII.
Ebbene, quali sono i motivi d’interesse di questa inedita alba? Molti, a cominciare dall’epoca in cui è stata scritta. Al centro della medesima carta sulla quale è trascritto il testo si legge infatti una data, «Millesimo Ducentesimo Trigesimo nono», cioè 1239: e Bertoletti mostra in maniera molto convincente (confortato anche dalla perizia paleografica di Antonio Ciaralli) che questa data è stata vergata in un momento successivo alla trascrizione di Aiuta De’: il 1239 rappresenta dunque un sicuro termine ante quem per la composizione e la copia del nostro testo, che sarà pertanto almeno sincrono rispetto alle poesie che in quegli anni venivano composte, molti chilometri più a sud, alla corte di Federico II. Un altro motivo d’interesse è la pertinenza geografica del testo. I quattro versi citati sono difficili da capire perché non sono scritti nel limpido toscano, o nel siciliano toscanizzato, dei grandi poeti del Duecento che si leggono a scuola, ma in un dialetto settentrionale. Ora, buona parte degli sforzi di Bertoletti sono appunto rivolti a precisare di quale dialetto settentrionale si tratti, e al termine di un’analisi davvero esemplare per ampiezza e rigore Bertoletti conclude che l’origine del testo va ricondotta con ogni probabilità al Piemonte, e forse al Piemonte meridionale, cioè a un’area compresa «tra l’Oltregiogo ligure, le Langhe, l’Alessandrino e il Monferrato». Dato interessantissimo: da un lato perché di poesia scritta in un volgare assegnabile al basso Piemonte non s’era mai scoperta traccia sino ad ora; e dall’altro perché il basso Piemonte non era però, nel primo Duecento, una regione in cui mancassero i poeti: solo che scrivevano e cantavano non nel volgare locale bensì in lingua occitana.
Col che veniamo al terzo (e forse maggiore) motivo d’interesse della scoperta di Bertoletti. Aiuta De'’on è un testo originale bensì la traduzione di una celebre alba del trovatore Giraut de Borneil, quello che Dante nel De vulgari eloquentia indica come esemplare della «poesia della rettitudine». L’alba di Giraut ha però un incipit diverso, comincia infatti Reis glorios, verays lums e clardatz (dove il Re glorioso è appunto Dio), né – come Bertoletti documenta minuziosamente nel suo commento – è questa l’unica licenza che il traduttore piemontese si prende nei confronti del suo testo-modello. Ma dimostrato che, comunque, di traduzione si tratta, il fuoco della ricerca si concentra appunto sul testo-modello e sulla sua folta tradizione manoscritta: a quale ramo di questa tradizione apparteneva il manoscritto che il poeta-traduttore piemontese aveva di fronte a sé, ovvero quale “versione” di Reis glorios leggeva costui?
Ed ecco l’ultima sorpresa: perché la tradizione a cui mostra di attingere il nostro poeta-traduttore è la stessa a cui attingerà il canzoniere (assai più tardo) che i provenzalisti conoscono come «T», canzoniere cruciale anche per la letteratura italiana perché fu probabilmente attraverso un manoscritto simile a «T» che Giacomo da Lentini e gli altri siciliani fecero conoscenza con la poesia trobadorica. Non solo: è anche la medesima tradizione alla quale attinse l’anonimo copista siciliano di un altro manoscritto latore di Reis glorios, oggi conservato a Monaco di Baviera. La conclusione di Bertoletti è sobria (com’è sobrio, misuratissimo, tutto questo suo splendido lavoro), ma darà certo materia di riflessione agli specialisti: «avremmo quindi la traccia concreta della trasmissione di un testo trobadorico [Reis glorios] dalla Provenza alla Sicilia attraverso una mediazione italiana nordoccidentale (piemontese), anziché veneta».
Nello Bertoletti, Un’antica versione italiana dell’alba di Giraut de Borneil , con una nota paleografica di Antonio Ciaralli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura.
Il volume è acquistabile direttamente dall’editore sul sito www.storiaeletteratura.it

Il Sole Domenica 8.2.15
Conoscenza ed equità
Eguaglianza molecolare
Essere trattati in modo giusto implica la capacità di percepire le differenze. Come accade in medicina
di Gilberto Corbellini


In un episodio della serie Dr. House, il medico televisivo politicamente scorretto si trova di fronte un paziente di colore, il quale si aspetta la prescrizione di un farmaco largamente usato dalla popolazione bianca, che però sarebbe inefficace a causa delle caratteristiche genetiche dell’uomo (data cioè la sua appartenenza etnica). Quando House gli prescrive un diverso farmaco, il paziente lo insulta, accusandolo di razzismo. Il nostro ritiene tempo perso cercare di spiegargli la questione, e se ne libera accontentandolo, cioè discriminandolo rispetto a un bianco per quanto riguarda l’appropriatezza del trattamento.
Le decisioni che si prendono in ambito medico continuano a essere utili, come lo erano per Socrate, Platone e Aristotele, per ragionare sulla logica delle regole da usare per trattare gli altri e governare una società con giustizia, nonché sugli aspetti della psicologia umana che interferiscono con l’efficace uso di tali regole. La medicina e i medici non sono più quelli dell’antichità o di prima dell’avvento della medicina sperimentale, nel senso che fanno riferimento al metodo scientifico per controllare l’adeguatezza dei trattamenti. Un metodo che ha stabilito il principio che i pazienti vadano trattati in modo eguale, salvo che non vi siano ragioni valide, cioè dimostrabili e controllabili, per fare diversamente.
Il biologo molecolare e premio Nobel Francois Jacob ha ricordato che l’eguaglianza, come categoria morale e politica, è stata inventata «precisamente perché gli esseri umani non sono identici». Lo studio dei contorni concreti della diversità biologica in rapporto all’idea astratta e controintuitiva dell’eguaglianza politica e morale, usando i risultati che scaturiscono dalla ricerca naturalistica e che dimostrano le difficoltà psicologiche individuali di elaborare un’idea razionale di giustizia, può essere un’ottima opportunità di avanzamento anche per le scienze umane. Che comunque arrivano a conclusioni coerenti e valide anche confrontando i risultati che derivano dall’uso di idee diverse di eguaglianza. Infatti, anche per il costituzionalista Michele Ainis, «la storia del principio di eguaglianza è segnata dalla differenza, non dalla parità di trattamento. [...]è segnata dalla progressiva consapevolezza della necessità di differenziare le situazioni, i casi, per rendere effettiva l’eguaglianza».
Il libro di Ainis passa in rassegna le diseguaglianze o i soprusi causati da leggi ideologiche o etiche, che prevalgono in Italia rispetto ad altri Paesi. E argomenta che non è prendendo di mira le macro-diseguaglianze (es. sconfiggere la povertà nel mondo) che si riesce a migliorare il funzionamento delle società umane, ma concentrandosi sulle dimensioni micro, dove si può più agire per ripristinare una concreta giustizia sociale e politica. Se si osservano le diseguaglianze con il microscopio, invece che con il cannocchiale, e si va alla ricerca di un’«eguaglianza molecolare», cioè non tra individui, ma tra gruppi o categorie, ci si può aspettare almeno una gestione «minima, ma non minimale» dei problemi e delle sfide.
Ainis ricorda un fatto, dietro al quale esiste una montagna di prove, cioè che l’eguaglianza ha a che fare con la giustizia, e che siamo disposti ad accettare un danno piuttosto che un’ingiustizia. Si tratta di una predisposizione evolutiva che funziona come un universale umano, e implica che si devono negoziare politicamente i valori, sapendo che questi tendono a variare nelle società complesse, e che la loro diversità è una risorsa da valorizzare.
Ciò può essere fatto usando tre criteri: a) evitando di pensare che eguaglianza equivalga a identità; b) le decisioni che differenziano i diversi casi devono avere una base di ragionevolezza; c) usare proporzionalità o misura, per stabilire un vincolo oggettivo grazie al quale le decisioni legali continuino a dimostrarsi migliori nel discriminare e pesare fatti e contesti, rispetto alla politica.
Il libro di Ainis è una salutare lezione di politica e diritto in chiave liberale, cioè suggerisce una strategia che coincide con i principi di fondo del liberalismo, per governare efficacemente società umane complesse e fortemente dissonanti rispetto alle predisposizioni evolutive che condizionano il comportamento umano. È un fatto che nell’età moderna i sistemi liberali si sono dimostrati, col tempo, le strategie migliori, anzi meno peggio di tutte le altre, per evitare che le diversità naturali diano luogo a diseguaglianze e quindi ingiustizie e sofferenze.
Ma perché le idee liberali sono migliori? A parte la banale considerazione che non incarnano una credenza cioè non riflettono un’ideologia, ma un metodo, alla domanda risponde l’ultimo libro di Michael Shermer, editor di Skeptic e uno dei più lucidi sostenitori dell’esigenza di superare l’antinaturalismo che ancora caratterizza in larga parte l’epistemologia delle scienze umane.
Shermer riassume lo stato delle conoscenze e dei dati che dimostrano che nel corso degli ultimi due secoli si è avuto un massiccio progresso morale, e che tale risultato è dovuto al prevalere della scienza e della razionalità negli affari umani. Soprattutto per quanto riguarda l’economia e il governo della società. L’efficacia del metodo scientifico e i presupposti sociali per farlo funzionare hanno ispirato anche la logica del costituzionalismo liberale. Rilanciando alcune idee di James Flynn e di Steven Pinker e passando in rassegna una serie impressionante di prove, intercalate da storie e aneddoti, Shermer ritiene che la diffusione della scienza, e in modo particolare del metodo scientifico, abbia determinato uno sviluppo delle capacità di astrazione e quindi un livello di razionalità che ha consentito alle persone di capire l’infondatezza e l’ingiustizia delle discriminazioni di genere, religione, sesso o appartenenza tassonomica.
L’immagine dell’arco morale è presa da un celebre discorso di Martin Luther King, per il quale tale arco «è lungo, ma flette verso la giustizia». Shermer ritiene che le forze che hanno piegato l’arco morale sono la scienza e la razionalità.

Michele Ainis, La piccola eguaglianza, Einaudi, Torino, 2015, pagg. 138, € 11.00
Michael Shermer, The Moral Arc: How Science and Reason Lead Humanity toward Truth, Justice and Freedom, Harry Holt and Co, New York, 2015, pagg. 560, $ 23.71

Il Sole Domenica 8.2.15
Come funziona la memoria
La chiave è nell’ippocampo
di Arnaldo Benini


La «memoria dichiarativa» è la capacità di ricordare fatti ed eventi quotidiani. Essi sono talmente numerosi, che, se li ricordassimo tutti, vivremmo in una confusione ossessiva. Esistono resoconti impressionanti di persone che, per ragioni congenite, non riescono a dimenticare nulla. Già l’antica mitologia spiegava che ricordare e dimenticare vanno insieme. Sulle pendici del monte fra Attica e Beozia che portano all’oracolo Trefonio, si trovano, racconta Pausania, le sorgenti vicine di Mnemosine e di Lete. Colui che risale il monte per interpellare l’oracolo deve prima bere l’acqua di Lete per dimenticare; poi si disseterà all’acqua di Mnemosine, per ricordare quel che vedrà da quel momento in avanti.
Le neuroscienze cognitive indagano il meccanismo nervoso di due degli eventi fondamentali della vita – ricordare e dimenticare – negli esseri che continuamente esplorano, imparano, ricordano e dimenticano. Recenti scoperte sono di grande interesse. La neurogenesi degli adulti, cioé la creazione di nuovi neuroni per tutta la vita (una delle scoperte neuroscientifiche più rilevanti) sembra essere il substrato morfologico e funzionale del ricordare e del dimenticare. La memoria dichiarativa è episodica, quando fissa esperienze personali e spesso uniche, e semantica quando accumula conoscenze. Uno degli organi chiave della memoria dichiarativa è l’ippocampo, struttura simmetrica a forma di cavalluccio marino posta nella parte interna del lobo temporale, coinvolta anche nell’orientamento spaziotemporale e nell’attività del sistema limbico delle emozioni. Formando segnali elettrochimici, esso media fra le complesse funzioni della memoria dichiarativa. I segnali della memoria episodica rimangono nell’ippocampo per un tempo variabile, quelli della memoria semantica sono inoltrati in diverse aree della corteccia cerebrale. Ora si è visto che esso è anche l’organo del dimenticare della memoria episodica.
Il giro dentato dell’ippocampo è una delle due aree del cervello (l’altra è alla base dei ventricoli) che generano continuamente nuovi neuroni, che si integrano nelle reti dell’ippocampo che elaborano informazioni. Nuove cellule e nuove sinapsi sono indispensabili per fissare nuove informazioni, cioé per ricordare. I neuroni neoformati si inseriscono, con nuove sinapsi, nei circuiti dell’ippocampo, fornendo il substrato funzionale e strutturale per l’apprendimento di cose nuove. La memoria sembra quindi condizionata dalla produzione di neuroni adulti.
La neurogenesi rallenta con l’età in misura diversa da persona a persona. L’indebolimento della memoria episodica, primo disturbo della demenza della malattia d’Alzheimer, sembra dovuto, almeno in parte, al rapido rallentamento, fino al blocco, della neurogenesi nell’ippocampo. I neuroni neoformati si integrano nei circuiti dell’ippocampo interferendo con le tracce già esistenti. Essi competono per ricevere e inoltrare stimoli formando, all’interno della rete, nuove sinapsi, una parte delle quali coesiste con le esistenti e una parte le rimpiazza. Il continuo rimodellamento delle connessioni sinaptiche dei neuroni neoformati determina sia la memoria di eventi nuovi, grazie alle sinapsi neoformate, che la dimenticanza di ciò che era conservato nelle sinapsi degradate e sostituite. In condizioni ideali, nelle reti dell’ippocampo c’è equilibrio fra plasticità – la capacità di incorporare nuove informazioni – e stabilità, che mantiene l’equilibrio fra le informazioni presenti sostituite via via da quelle in arrivo.
I neuroni neoformati non devono essere né troppi né troppo pochi. Più intensa è la sollecitazione della memoria ippocampale dei neuroni neoformati, più intensa è la memorizzazione e più estesa la eliminazione di memorie episodiche precedenti. Tutto questo avviene, in parte, senza condizionamento da parte della volontà. Ricordiamo nostro malgrado cose sgradevoli e dimentichiamo cose che sarebbe bene conservare. Il richiamo dei ricordi, spontaneo (la cui causa è sconosciuta) o volontario, è dovuto alla riattivazione delle sinapsi formatesi nel momento in cui fu archiviato l’evento. Quando questo non è più possibile perché i circuiti, per la spinta della neurogenesi, sono cambiati, l’evento è dimenticato, ma non necessariamente scomparso dalle reti cerebrali. Stimolazioni elettriche della corteccia del lobo temporale, ad esempio, possono far rivivere eventi che in nessun altro modo potrebbero tornare alla memoria.
Uno dei periodi di più intensa neurogenesi sono i primi tre anni di vita, dei quali nella memoria episodica non rimane nulla. Si pensa che questa amnesia infantile potrebbe essere dovuta all’intensa neurogenesi, e quindi alla sostituzione di sinapsi tanto rapida da non consentire alcuna fissazione nella memoria. Essa diventa attiva quando la neurogenesi rallenta. Dopo le grandi scoperte di Eric Kandel sui meccanismi della memoria nelle lumache di mare, questo, se confermato, è un nuovo passo verso la comprensione di una della condizioni cruciali dell’esistenza. Gli esperimenti che hanno portato a questa nuova visione della memoria e della dimenticanza sono stati fatti su topi e cavie. In essi si può manipolare la neurogenesi e verificarne le conseguenze, cosa impossibile nell’uomo. La memoria episodica è valutata dal periodo in cui il comportamento dell’animale è condizionato dal ricordo di uno stimolo doloroso. Trasferire questi dati all’uomo richiede cautela e conferme, anche se il funzionamento dei meccanismi della memoria, selezionati nella trafila evolutiva, è analogo in tutti i vertebrati.
ajb@beluwin.ch
L.A.Mongiat, A.F. Schinder A price to Pay for Adult Neurogenesis, Science Vol. 344 9 May 2014; K.G.Akers, A. Martinez-Canabal, et al. Hippocampal Neurogenesis Regulates Forgetting During Adulthood and Infancy, Science Vol. 344, 9 May 2014; L. Weiberg Neurogenesis erases existing memories, Nature Neuroscience 15, 428-429, 2014

Il Sole Domenica 8.2.15
Pierre Hadot (1922-2010)
Il sublime dentro di me
Una rilettura dei testi antichi ci fa capire il valore dell’attività filosofica che non si limita alla teoria ma diventa pratica di vita
di Pierre Hadot
e Arnold I. Davidson

Anticipiamo in questa pagina la prefazione di Arnold Davidson e un brano tratto dal libro Studi di Filosofia antica , che sarà in libreria nei prossimi giorni e che raccoglie una serie di testi, in gran parte tradotti per la prima volta, dello studioso francese Pierre Hadot
di Arnold I. Davidson
Pierre Hadot ha trasformato la nostra idea non solo della filosofia antica, ma della filosofia in quanto tale. Dai suoi primi studi sulla filosofia neoplatonica, fino al suo ultimo libro su Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, Hadot ci ha fatto vedere e capire il valore della filosofia antica per tutta la storia della filosofia. Secondo Hadot nella filosofia antica tutti i discorsi, le teorie, le astrazioni filosofiche sono al servizio della vita filosofica, della pratica concreta della filosofia. La filosofia senza carne e animo, senza i filosofi, non è che un passatempo intellettuale, cioè manca la dimensione di una scelta esistenziale di vivere in un certo modo. Hadot sintetizza la sua idea fondamentale così: «[...] tutte le scuole dell’antichità rifiutavano di considerare l’attività filosofica come puramente intellettuale, ma la consideravano come una scelta, che impegnava tutta la vita e tutta l’anima. L’esercizio della filosofia non era, quindi, solo intellettuale, ma poteva anche essere spirituale. Il filosofo non forma solo allora a un saper parlare, a un saper discutere, ma a un saper vivere nel senso più forte e nobile del termine. Invita i suoi discepoli a un’arte di vivere, a un modo di vita».
Questa forza spirituale della filosofia non si localizza semplicemente nella parte etica della filosofia. La pratica della filosofia si trova all’interno di ciascuna disciplina tradizionale della filosofia: etica,logica, fisica. La filosofia è allo stesso tempo un’etica praticata, una logica praticata e una fisica praticata. Ogni parte della filosofia implica un discorso teorico e una pratica vissuta. Allora, «la filosofia vissuta non si limita alla pratica dei doveri morali, ma comporta un controllo dell’attività di pensiero e una coscienza cosmica. La filosofia vissuta è quindi una pratica, un modo di vita che abbraccia tutta l’attività umana e non solo un’etica nel senso più ristretto del termine».
Vivere la filosofia richiede un appello alla guida di una figura esemplare, chiamata, nella filosofia antica, il saggio: «il filosofo si chiederà in ogni circostanza: Cosa farebbe il saggio in questo caso?». Se in alcune scuole antiche il saggio può essere «un ideale quasi inaccessibile, più una norma trascendente che una figura concreta», non dobbiamo dimenticare che «la figura ideale del saggio non è stata proiettata nell’assoluto, non è una costruzione teorica». Hadot conclude: «[...] la figura del saggio perfetto corrisponde all’idealizzazione, alla trasfigurazione, alla canonizzazione, per così dire, di figure ben concrete, che sono questi uomini retti, questi saggi che vivono tra gli uomini».

Nell’antichità, possiamo distinguere due tipi di paesaggio: il paesaggio piacevole (locus amoenus) e il paesaggio grandioso o sublime. [...] Se, nell’antichità, il «luogo piacevole» è indiscutibilmente un oggetto di contemplazione estetica, lo sono anche gli spettacoli grandiosi, selvaggi o terrificanti che la natura può offrire all’uomo? [...]
L’ammirazione per gli spettacoli grandiosi della natura è ben attestata in tutta l’antichità, da Omero (Iliade, VIII, 555 o IV, 442) ad Agostino: «Gli uomini ammirano le vette delle montagne, le onde gigantesche del mare, l’ampiezza dei corsi dei fiumi, l’immensità dell’oceano, le rivoluzioni degli astri».
Anche questi spettacoli sublimi, come la vista dei luoghi piacevoli, fanno presagire una presenza divina. Nella Lettera 41, volendo mostrare come il saggio faccia intravedere qualcosa di sacro, Seneca compara il sublime della virtù al sublime della natura, ed evoca il sentimento di stupore e di ammirazione, l’emozione sacra provocata dallo spettacolo delle foreste profonde e solitarie, delle grotte, degli antri inesplorabili, dei laghi, delle sorgenti dei grandi fiumi. In Orazio, questo sentimento del sublime sembra avere una tonalità dionisiaca: «Dove mi conduci, Bacco, pieno di te? In quali boschi, in quali grotte mi trasporta l’improvvisa ispirazione? [...] Come, sulle vette, la Baccante insonne cade in estasi [...], così io amo, lontano dai sentieri, ammirare le rive e i boschi solitari».
Questo paese dionisiaco è quello delle Baccanti di Euripide: le montagne, i boschi fitti, le gole scoscese, la natura selvaggia.
Come già accennato, il sentimento del sublime può essere ispirato sia dallo spettacolo della natura, sia da quello dell’anima del saggio. Questo tema è particolarmente caro a Seneca, ad esempio nella Lettera 89: «Se solo, come il volto dell’universo che si presenta al nostro sguardo nella sua interezza, la filosofia potesse, anch’essa nella sua interezza, presentarsi ai nostri occhi, replica dello spettacolo dell’universo, essa susciterebbe ammirazione in tutti i mortali».
E soprattutto, nella Lettera 64: «Non sono meno estasiato dalla contemplazione della saggezza di quanto io non lo sia, in altri momenti, dalla contemplazione del mondo che, di frequente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la prima volta».
Il sublime è quindi percepito al tempo stesso nel mondo esterno e all’interno della coscienza. Possiamo immaginare che queste due fonti stoiche del sublime costituiscano il modello antico della celebre frase di Kant, che apre la conclusione della Critica della ragion pratica: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori dal mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza».
Torniamo alla frase della Lettera 64: il «mondo che, di frequente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la prima volta». Si tratta di un’osservazione straordinaria, estremamente rivelatrice e che troviamo raramente nell’antichità. Seneca afferma di trovarsi di fronte al mondo come uno spectator novus, che dirige cioè sul mondo uno sguardo nuovo.
Questo sguardo nuovo non è un’intuizione gratuita e inattesa, ma il risultato di uno sforzo interiore, di un esercizio spirituale destinato a vincere l’abitudine che rende banale e meccanico il nostro modo di vedere il mondo, destinato anche a distaccarci dall’interesse, dall’egoismo, dalle preoccupazioni che ci impediscono di vedere il mondo in quanto mondo, perché ci costringono ad applicare la nostra attenzione sugli oggetti particolari che ci procurano piacere o che ci sono utili. Al contrario, è grazie a uno sforzo di concentrazione sull’istante presente, vivendo ogni momento come se fosse allo stesso tempo il primo e l’ultimo, senza pensare al futuro o al passato, percependo il suo carattere unico e insostituibile, che è possibile percepire, in questo istante, la meravigliosa presenza del mondo. Bisogna anche aggiungere che in Cicerone (De natura deorum, III, 38, 96), Seneca (Naturales quaestiones, VII, 1), Lucrezio (De rerum natura, II, 1023 e sg.) e Agostino (De utilitate credendi, XVI, 34) ritroviamo l’idea per cui è solo l’abitudine, la routine della vita quotidiana che ci impedisce di percepire il mondo come un miracolo. E, per l’appunto, questa percezione del mondo è sublime perché, come la figura del saggio, è un “paradosso”, qualcosa che trascende l’abituale esperienza umana.
Pierre Hadot

Pierre Hadot, Studi di filosofia antica, a cura di Arnold I.Davidson, traduzione Laura Cremonesi, ETS, Pisa, pagg. 338, € 28,00

Il Sole Domenica 8.2.15
Sapienti cure materne
Heidegger in Essere e tempo avvertiva del rischio dell’ignoranza del significato ontologico per chi ci è onticamente più vicino
di Maria Bettetini


Tutto ciò che vogliamo è essere amati. Non in senso astratto, ma nella concretezza dell’attenzione a me rivolta, solo a me, e solo nelle modalità che si adattano a me. La cura può manifestarsi in tanti modi, è nei teneri gesti della madre, nell’ascolto attento del padre, negli applausi che rincuorano l’uomo pubblico, nel delicato accompagnare attraverso la vecchiaia chi sente vicino il termine di quel prepararsi alla morte che è la vita. Senza la consapevolezza della morte, poi, non vi può essere cura, perché la cura non è ignorante, la cura sa: sa che cosa serve a chi è curato qui e ora, in una circostanza diversa in ogni epoca della vita, in ogni ora del giorno. Vi è dunque una sapienza della cura, un lavoro dell’intelletto che ricerca, una vera e propria filosofia della cura.
Di solito si deve diffidare delle «filosofia di», le infinite declinazioni di qualche citazione colta unita a una fenomenologia del quotidiano, dall’inflazionato cibo (passerà anche l’Expo, passerà) alla bicicletta, alle scarpe. “Cura” è però un termine filosofico, quindi ha diritto a una sua filosofia. Le origini sono ben dette in una sorta di compendio per chi voglia avvicinarsi all’indagine dell’intelletto sulla cura.
Luigina Mortari cita Heidegger per primo, che in Essere e tempo avvertiva del rischio dell’ignoranza del significato ontologico per chi ci è onticamente più vicino. Insomma, non stupisce nessuno, per parlare di altri, che ci siano persone protese nell’aiuto ad amici vicini e lontani, del tutto sorde alle necessità del coniuge, dei genitori, spesso anche dei figli. E quanti conosciamo che non si lasciano superare da nessuno nelle azioni di volontariato, pieni di superbi ideali, ma ignari del vicino di casa con l’influenza, che gradirebbe un brodo caldo, o anche solo la spesa quotidiana. Heidegger dunque, ma prima Platone, che nel Fedro vede Zeus come il dio che dispone bene ogni cosa e se ne prende cura, mentre nella Repubblica ritiene dovere dei governanti, i re-filosofi, «aver cura e custodire» i cittadini. I re-filosofi infatti sono coloro che dopo lungo percorso educativo raggiungono la perfetta conoscenza del bene. Più che un’utopia, una speranza, per Platone. Noi oggi, però, conosciamo la fragilità della nostra mente, e se, come scrive Mortari, a guidare il lavoro di cura è la passione per il bene, è anche difficile avere una continua chiara visione di cosa sia bene. La cura diventa quindi non l’applicazione di una scienza con le sue certezze, piuttosto «stare in ascolto dell’altro e in ascolto di sé». Non è relativismo, non è situazionismo, è buttarsi nella vita anche quando non è detto che si apra il paracadute della teoria.
Luigina Mortari, Filosofia della cura, Raffaello Cortina, Milano,
pagg. 226, € 19,00

Il Sole Domenica 8.2.15
Grandi opere / Treccani
Niccolò voce per voce
L’Enciclopedia italiana dedica tre volumi a Machiavelli: all’informazione sulle tendenze della critica si affianca lo studio sul lessico politico, intellettuale, religioso e filosofico
di Gennaro Sasso



L’introduzione del direttore Gennaro Sasso all’Enciclopedia machiavelliana in tre volumi, due di Lemmi, il terzo con tutte le opere di Machiavelli, dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani

Nelle sue varie forme, la fortuna di Machiavelli è stata indagata, in dotti volumi, da illustri studiosi che, da Oreste Tommasini a Giuseppe Toffanin a Raab, hanno recato, in questo campo di studi, un contributo rilevante; che può essere riassunto, in primo luogo, nell’invito a distinguere quel che è dell’autore del Principe e dei Discorsi e quel che ne è derivato, non solo nella varia corrente del cosiddetto machiavellismo, ma nella media communis opinio, ricca di libri e di altrettanti fraintendimenti. In effetti, la fortuna di Machiavelli invita a una prima considerazione, semplice ma fondamentale, e che non dovrebbe perciò essere dimenticata. A pochi decenni dalla morte, mentre la sua fortuna editoriale non conosceva flessioni, della sua biografia si cominciò a perdere l’esatta notizia; e Machiavelli divenne perciò un autore, nello stesso tempo, tanto noto quant’era privo di precisi connotati storici, un autore sul quale sembrò lecito esercitare lo ius utendi, e, soprattutto, direi, abutendi, senza alcun riguardo e senza che di averlo si avvertisse il dovere. Non è un paradosso, ma la semplice verità, che la vita di Machiavelli fu ricostruita nella sua verità storica non prima della seconda metà del secolo decimonono e degli inizi del ventesimo, a opera di Pasquale Villari, di Francesco Nitti e soprattutto di Oreste Tommasini, anche se soltanto in anni relativamente recenti fu definita, per merito soprattutto di Nicolai Rubinstein, la natura del grado che egli ebbe nella Cancelleria fiorentina.
Gli studi su Machiavelli hanno conosciuto nel secolo ventesimo una fortuna considerevole. Ma soltanto nella sua seconda metà si sono fissate le linee delle interpretazioni che ancora caratterizzano l’inizio del ventunesimo. La prima metà del secolo fu dominata, per un verso, dalle interpretazioni «filosofiche» di Benedetto Croce e di Friedrich Meinecke, per un altro, da quelle di letterati, come Luigi Russo, o di storici del pensiero politico e del diritto, interessati soprattutto a dissertare sulla natura dello Stato e sulla relazione dell’etica e della politica. Sullo sfondo rimase, per allora, quella di Federico Chabod, che, di gran lunga la più dotta e storicamente consapevole, esercitò la sua influenza nella seconda metà del secolo e soprattutto sull’opera dello scrivente che, alla lezione appresa da quel maestro e all’esigenza di integrale storicizzazione che le era connessa, aggiunse l’attenzione prestata, non alla «filosofia» di Machiavelli, ma a quanto di importante per la filosofia vi fosse nel suo pensiero. In connessione di questo modo di vedere le cose, rinacque allora sia l’interesse, che aveva avuto qualche sporadica espressione nel secolo decimonono, per la definizione della cultura di Machiavelli, soprattutto di quella antica, sia l’esigenza di edizioni filologicamente riconsiderate (basti, al riguardo, ricordare l’edizione del Principe allestita da Giorgio Inglese). Nacque di qui uno dei contrasti che hanno caratterizzato gli studi italiani degli ultimi decenni, perché a chi era convinto che, senza essere un filosofo, Machiavelli fosse tuttavia un grande pensatore politico e un acuto interprete della storia italiana, altri opposero una visione di tutt’altro carattere, e lo presentarono come l’autore di opere mai sul serio concluse e nate sul fondamento di una cultura diseguale, e assai meno classica che «volgare».
Fuori d’Italia, fu soprattutto nella seconda metà del secolo che si produssero, in Francia, in Inghilterra, e quindi negli Stati Uniti, le opere più ragguardevoli; che qui, certo, non possono essere ricordate con i nomi degli autori che le firmarono e nemmeno per le idee che vi sostennero. L’eccezione, che in questa sede può essere consentita, riguarda, da una parte, gli interpreti, di lingua inglese (Pocock, Skinner) che delinearono l’interpretazione di Machiavelli come appartenente alla tradizione del repubblicanesimo e come autore e teorico della «religione civile», da un’altra Leo Strauss che, al contrario, indicò in lui l’eversore della filosofia politica antica con il suo culto della virtù e un maestro del nichilismo moderno. Due interpretazioni di segno opposto, volta la prima a recuperare Machiavelli dall’accusa sempre ricorrente di immoralità, diretta la seconda a riconfermarla attraverso l’uso di un’ermeneutica tanto raffinata quanto tendenziosa.
La ricchezza dei motivi presenti nell’odierna letteratura machiavelliana non può essere esaurita in breve spazio. Ma deve dirsi, invece, che è stata la considerazione di questa ricchezza e della connessa varietà tematica che ha suggerito l’idea di affiancare, nell’ambito dell’Istituto della Enciclopedia italiana, una Enciclopedia machiavelliana (in tre volumi) a quelle che da tempo sono state dedicate a Dante, a Virgilio e a Orazio. Di queste l’Enciclopedia machiavelliana ha ripreso, nelle grandi linee, il carattere fondamentale, e cioè, da una parte, l’informazione, la più larga possibile, relativa alle tendenze principali della critica, da un’altra la «lemmatizzazione» dei termini più caratteristici del lessico politico/intellettuale dell’autore del Principe e dei Discorsi (virtù, fortuna, occasione, armi, proprie e mercenarie), di quello politico/istituzionale (principato – nuovo, misto, civile, assoluto – repubblica, costituzione mista), di quello religioso e filosofico (Dio, religione, eternità del mondo). A differenza di quello seguito dai curatori delle suddette Enciclopedie, dantesca, virgiliana, oraziana, la machiavelliana ha adottato, per le «voci» di maggiore impegno interpretativo un taglio che definirei saggistico, in modo che agli autori fosse concesso di assumere la piena responsabilità scientifica delle tesi da essi sostenute, e al lettore di trovare subito, accanto all’informazione, l’interpretazione. Non c’è, credo, bisogno di dire che nella scelta dei collaboratori si è seguito, con rigore e senza alcuna faziosità, il criterio della competenza, in modo che, nella serietà dell’informazione ricevuta, il lettore colto trovasse compenso alla delusione eventualmente provocatagli nell’interpretazione.
Ampia è stata l’attenzione dedicata all’ambiente culturale. Non solo ai grandi autori della cultura antica, latina e greca, e di quella fiorentina e italiana (Poliziano, Ficino, Giovanni Pico, Leonardo) a contatto della quale Machiavelli si formò, ma anche ai personaggi con cui egli divise la vita e il lavoro nella Cancelleria fiorentina (Marcello Virgilio Adriani, Biagio Buonaccorsi, Agostino Vespucci). Non solo alle riflessioni dei grandi pensatori del passato (da Spinoza a Vico, da Montesquieu a Rousseau, da Fichte a Hegel), ma anche alle opere degli studiosi che più e meglio contribuirono, nel tempo, all’interpretazione del suo pensiero. Voci di particolare impegno sono state dedicate ai grandi personaggi dell’età machiavelliana (da Giulio II ai re di Francia e di Spagna), mentre un impegnativo censimento è stato eseguito per i personaggi minori, la cui trattazione ha costituito per chi se ne assunse la responsabilità un particolare impegno.
Nell’Introduzione che premisi al primo volume dell’Enciclopedia (che ne conta tre) fra le altre cose dissi che la liberalità con cui erano stati scelti gli studiosi che dovevano redigerla aveva avuto un limite: da essa erano stati esclusi coloro che ritenevano che Machiavelli fosse stato un gangster che aveva scritto per gangsters. Debbo dire che la scelta del termine non era dovuta alla mia fantasia, perché così, anche se non necessariamente con quel termine, Machiavelli era stato definito da non pochi. Confermo che a quanti avessero condiviso quel giudizio avrei avuto difficoltà a rivolgere l’invito a collaborare all’Enciclopedia. Per la stessa ragione, non ne avrei invece alcuna a invitarli a consultarla e, qua e là, a leggerla. Machiavelli è, senza dubbio, uno scrittore duro che nella politica ha guardato senza illudersi che fosse, e potesse essere diversa da come gli appariva. Dell’interpretazione che debba darsi del suo modo di intenderla, non si può parlare qui. Ma nell’Enciclopedia molti ne hanno parlato con onestà e competenza. Chi sul gangster avesse qualche dubbio, e cominciasse a pensare che la questione machiavelliana non è trattabile con termini come quelli, forse vi troverà qualcosa che rafforzerà i suoi dubbi nello stesso tempo avviandolo verso una più responsabile considerazione della sua complessità. Se poi dalla lettura dell’Enciclopedia fosse spinto a leggere, con più pura mente, le opere di Machiavelli (che trovano spazio nel terzo volume), potrebbe non esserne deluso. Vi troverà, se italiano, le ragioni, o alcune delle ragioni che all’Italia hanno tenacemente impedito di realizzare il compito che una volta Machiavelli le indicò: quello di far rinascere le cose morte.