martedì 10 febbraio 2015

La Stampa 10.2.15
La strage dei migranti
In mare 29 morti di freddo
Si temono altre vittime. Boldrini: addio al Mare Nostrum, ecco le conseguenze
di Laura Anello

Pietro Bartolo, il direttore del poliambulatorio, ha la voce dei giorni più bui. «Parlo da medico e non da esperto di questioni internazionali, ma con Mare Nostrum questi ragazzi molto probabilmente sarebbero vivi. Non è possibile che si vadano a recuperare i migranti a 100-120 miglia da Lampedusa per poi portarli verso la Sicilia in condizioni meteo proibitive e con mezzi inadeguati al soccorso». Davanti a lui ci sono i 29 cadaveri sbarcati dalla motovedetta Cp 302 d della Guardia costiera al molo Favaloro di Lampedusa, i vestiti fradici di acqua, le bocche aperte, gli occhi sbarrati, le mani violacee.
Assiderati
Sette erano già morti quando l’imbarcazione ha raggiunto il barcone in avaria, gli altri ventidue si sono spenti uno dopo l’altro davanti agli occhi dei soccorritori che solcavano a fatica il mare forza 8, e il vento gelido era un killer. I vivi ieri sera erano 83. Ma sette di loro sono stati ricoverati in emergenza, sei a Lampedusa, uno a Palermo con l’elisoccorso. «Alla fine il bilancio potrà essere ancora più pesante», aggiunge Bartolo, mentre gli uomini della guardia costiera hanno la faccia sconvolta, «onde alte nove metri, come tre piani di un palazzo, è stata durissima».
Sono i volti e le voci dell’ennesima tragedia dell’immigrazione nel Canale di Sicilia, questa volta accompagnata da un coro di polemiche contro i limiti di Triton, la missione europea che all’inizio dell’anno ha preso il posto dell’operazione tutta italiana Mare Nostrum. Con la differenza che, per dirla con il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini – anche lei ripiombata nel peggiore degli incubi – «Mare Nostrum era un’iniziativa umanitaria, Triton è un’operazione di salvaguardia delle frontiere». E quindi se con la vecchia missione c’erano le navi militari italiane a pattugliare il Canale di Sicilia, ad accogliere, soccorrere, mettere al sicuro, curare a bordo i profughi, adesso questo non c’è più. E succede, come in questo caso, che debbano essere due motovedette a partire da Lampedusa, viaggiare per 120 miglia in mezzo alla tempesta, recuperare uomini assiderati e portarli in direzione inversa.
La presidente della Camera
«Un orrore - come dice in un tweet il presidente della Camera, Laura Boldrini - persone morte non in un naufragio, ma per il freddo. Queste le conseguenze del dopo MareNostrum». Il leader della Lega Nord Matteo Salvini, sul fronte opposto, dice che chiederà al presidente della Commissione europea Junker di sospendere Triton, «operazione inutile e di morte», mentre invita il ministro degli Interni Angelino Alfano a dimettersi. Giusi Nicolini è sconfortata: «I 366 morti del 3 ottobre 2013 non sono serviti a niente, le parole del papa non sono servite a niente».
La cronaca sembra darle ragione. L’Sos è partito nel primo pomeriggio di domenica – la solita chiamata da un telefono satellitare rimbalzata al Centro nazionale di soccorso delle Capitanerie di porto di Roma – ma le motovedette salpate da Lampedusa hanno raggiunto il barcone proveniente dalla Libia soltanto dopo le 10 di sera e hanno poi lavorato tutta la notte per completare il trasbordo dei migranti. I due mercantili che si trovavano in zona e sono stati dirottati sul posto, il Bourbon/Argos e il Saint Rock, poco hanno potuto fare se non cercare di proteggere l’imbarcazione. Anzi, le imbarcazioni. Perché accanto a quella più grande e più affollata c’erano altri due gommoni, dove sono stati recuperati soltanto 7 uomini in uno e 2 nell’altro. Che fine hanno fatto gli altri passeggeri? Dove sono finiti? Una delle domande cui dovrà rispondere l’inchiesta aperta dalla procura di Agrigento, «al momento contro ignoti, ma non escludiamo l’omicidio colposo o doloso», spiega il procuratore capo Renato Di Natale. A Lampedusa torna intanto a girare la frase antica. «Siamo stati lasciati soli, l’Europa ci ha abbandonato».

La Stampa 10.2.15
“Tragedia destinata a ripetersi”
Il Viminale teme per il 2015
Libia e Siria premono: il flusso di clandestini cresce
di Guido Ruotolo


Tre «eventi» diversi. Decine di morti, forse molti di più, per il freddo, per assideramento. Profughi, disperati che hanno sfidato la sorte, che sono scappati dalle guerre etniche, di religione. Sono sempre loro, gli irregolari che provano ad attraversare il Canale di Sicilia, a pagare con la vita il tentativo di lasciarsi alle spalle un passato drammatico.
È la prima strage del 2015. Un brutto segnale. Anche a gennaio, anche adesso che il mare è proibitivo si sono fidati dei trafficanti di “merce umana” e si sono imbarcati su tre gommoni. Questo pezzo di Mediterraneo non conosce mai una sosta, mai un periodo di «fermo». E nonostante una Libia nel caos e ingovernabile, decine di migliaia di uomini e donne, vecchi e bambini, si affacciano sulla costa della Tripolitania o della Cirenaica, in attesa di partire per l’Italia. Nel gennaio del 2014 ne arrivarono 3.300, 3.709 nei primi 31 giorni di quest’anno. E se il 2014 si è chiuso con 170.000 sbarchi, quanti ne arriveranno quest’anno? Gli esperti sono pessimisti, ufficialmente non azzardano ipotesi, anche se i ragionamenti che si fanno lasciano intendere che i numeri del 2014 potrebbero essere superati.
Gli esperti del Viminale non vanno oltre un: «Nessun fattore di spinta è venuto meno». E cioè le tante crisi geopolitiche ed economiche dell’Africa e del vicino Medio Oriente continuano ad alimentare quel fiume carsico di migranti che cerca di trovare uno sfogo per raggiungere l’Europa. Finora sono stati recuperati 29 corpi senza vita, morti per il freddo. Ma degli altri due «eventi» di ieri i superstiti sono stati solo una decina. E gli altri disperati che fine hanno fatto? I due gommoni sono per caso partiti vuoti? Mentre sono confuse le notizie che arrivano dalla Libia e dal Canale di Sicilia, da noi c’è già chi comincia a denunciare che queste vittime potevano essere salvate solo se Mare Nostrum non fosse andata in pensione.
L’anno scorso, nonostante l’operazione umanitaria di Mare nostrum, con i mezzi della Marina militare a poche miglia dalle acque territoriali libiche, secondo i dati delle Nazioni unite, vi furono 3.538 tra morti e dispersi. Certo, potevano essere dieci volte di più, ma di per sé la certezza di avere navi ai confini delle acque libiche non esclude la possibilità di naufragi. E solo quasi la metà dei 170.000 migranti arrivati nel nostro Paese nel 2014 sono stati salvati da Mare Nostrum. Oggi c’è il dispositivo di Frontex che pattuglia il Canale di Sicilia, anzi i confini italiani a trenta miglia da Lampedusa. È l’operazione «Triton» che siamo riusciti a ottenere da una Europa poco entusiasta. La cronaca di queste ore ripropone drammaticamente la questione immigrazione. Anche senza Mare nostrum continueranno ad arrivare. Ma se questo esodo viene vissuto «solo» come un problema di ordine pubblico e adesso di sicurezza nazionale, per via del rischio che i terroristi jihadisti potrebbero utilizzare i canali dell’immigrazione clandestina per arrivare in Europa, il fenomeno è destinato a riproporsi in termini anche più significativi se non si aggrediscono le cause alla radice.
Per la sua dimensione endemica, l’immigrazione irregolare deve essere affrontata ormaicome questione di politica estera dell’Unione Europea. Siria e Libia, sono le due emergenze. Se si troverà una soluzione, allora si potrà governare il fenomeno della immigrazione.

Corriere 10.2.15
Il medico di Lampedusa: «Così i soccorsi sono inadeguati. Prima li avremmo salvati»
di Alessandra Coppola


«Tutti uomini giovani e forti — sospira amaro Pietro Bartolo —. Tutti morti». Ce li ha davanti, mentre gli squilla il cellulare: «Non riesco a cominciare il lavoro». Affaticato, spiccio. Un’altra strage: «Era prevedibile, e succederà di nuovo. Non è questo il sistema giusto per salvare vite umane. Probabilmente con Mare Nostrum non avremmo avuto questi morti: non è possibile che si vadano a recuperare i migranti a 100-120 miglia da Lampedusa per poi portarli verso la Sicilia in condizioni meteo proibitive. Quel dispositivo consentiva alle navi della Marina di raggiungere questi disperati, prenderli a bordo, metterli al riparo e ristorarli. Ora questo è più difficile». È il dottore dell’isola, il direttore del Poliambulatorio che ne ha salvati a centinaia, ne ha fatte partorire a decine. E poi ha anche contato i cadaveri, di tutte le provenienze e di tutte le età. «Bare, bare, qui ci servono tante bare e nient’altro!», gridava disperato alla radio quando di corpi ne erano stati raccolti in mare 366, il 3 ottobre 2013. E lui era sul molo a ricomporli: «I pescherecci arrivano e mi scaricano qui solo morti e ancora morti!».
Ieri, la Guardia costiera gliene ha portati altri 29. «Africani, sub-sahariani — dice, e per la lunga esperienza saprebbe azzardare anche da quali Paesi venivano —. Costa d’Avorio, Ghana, Niger. Non ci sono donne e bambini. Erano ragazzi. Al cento per cento morti di ipotermia». Di freddo.
Sono settimane che a Lampedusa fa il gelo degli inverni peggiori. «Una roba impensabile». Il mare è così grosso, racconta Vito Fiorino, che per 15 giorni la nave non ha attraccato. «C’è riuscita domenica a portarci i viveri, oggi neanche è venuta». Lampedusano del weekend, Fiorino era stato tra i soccorritori volontari del 3 ottobre, e adesso è con una certa angoscia che raccoglie le notizie della motovedetta che è partita per il salvataggio e per le condizioni delle onde rischiava pure di ribaltarsi.
«Non è cambiato nulla — continua Bartolo —. Dopo il primo novembre (fine di Mare Nostrum, ndr ) le barche hanno continuato ad arrivare. Solo che non se ne dà più notizia». L’ultima bagnarola «è stata rimorchiata 5, 6 giorni fa: 181 persone a bordo, come questi ragazzi partiti dalla Libia». Buttati in acqua dai trafficanti nonostante il maltempo che sta battendo il Mediterraneo.
Quando le onde sono alte, i primi a salire a bordo sono gli africani, che per gli scafisti valgono meno e possono rischiare di più. Ma ora il freddo è micidiale. «Si sono salvati i più robusti — continua il medico — chi è riuscito a trovare un angolino riparato. Ma anche i sopravvissuti sono in condizioni precarie». Non è stagione da rotta Sud. Gli arrivi negli ultimi mesi sono soprattutto via terra o dalla Turchia, su mercantili che resistono alle onde. Ma chi segue le pagine Facebook e i siti arabi dove i profughi siriani si scambiano notizie segnala un inquietante aumento delle ricerche di persone scomparse in viaggio .

Repubblica 100.2.15
Giusi Nicolini
“Tragica prova dell’inutilità di Triton con Mare Nostrum arrivavano vivi”
intervista di A. Z.

ALLE cinque del pomeriggio, sotto un vento sferzante, Giusi Nicolini è di nuovo sul molo Favaloro. Di nuovo davanti a corpi senza vita pietosamente adagiati nei teloni di plastica.
Sindaco, ci risiamo?
«Siamo di nuovo qui, di fronte a un’altra tragedia, a piangere ragazzi morti in cerca di un futuro: una situazione drammatica ma purtroppo ampiamente prevedibile, che in tanti hanno sulla coscienza ma nessuno prova vergogna ».
Chi li ha sulla coscienza, l’Europa?
«Tutti quelli che hanno fatto finta di non capire e che forse ora faranno finta di non vedere. Tutti quelli che dicevano che l’operazione Mare nostrum ha fatto aumentare gli arrivi. Forse è vero. ma almeno arrivavano vivi. Ora, invece, arrivano morti. E Triton, che dovrebbe sostituire Mare nostrum , non è un’operazione umanitaria ma solo di salvaguardia delle frontiere. Non serve a nulla: né a salvare la gente e nemmeno a dare l’allarme. L’Sos l’hanno mandato quei poveri migranti. E quel che è successo dopo è l’esempio perfetto di quanto accadrà chissà quante altre volte in futuro».
Soccorsi troppo lontani?
«Lontani, inadeguati e non attrezzati: come si può pensare di salvare i migranti in mezzo al Canale di Sicilia facendo partire motovedette aperte, senza materiali, da Lampedusa? Lo sapete quante ore ci vogliono per andare e tornare? E nel frattempo a questa gente che sta morendo quale aiuto siamo in grado di dare? Questi ragazzi non sono naufragati, né annegati, ma morti di freddo. Per non parlare del rischio che corrono anche gli operatori dei soccorsi. Ma a chi interessa davvero tutto questo? ».
Lampedusa nell’ultimo anno, con Mare nostrum , era ormai fuori dalle rotte di migranti. Cosa si prospetta adesso?
«Un drammatico ritorno al passato, come se i naufragi del 3 e del 10 ottobre non fossero mai avvenuti, come se Mare nostrum non fosse mai esistita. Ma le cose devono cambiare per forza. L’Europa ha deciso di lasciare nuovamente l’Italia da sola e l’Italia in silenzio ha permesso che succedesse di nuovo. Io purtroppo non posso spostare Lampedusa dalla carta geografica, noi siamo l’unico avamposto in mare ma non possiamo pensare di affrontare una nuova drammatica stagione di sbarchi. E soprattutto di morti. Il governo deve fare la voce grossa per riprendere un’operazione umanitaria».
Il centro di accoglienza, dopo lo scandalo delle docce disinfettanti ai migranti, è in ristrutturazione. Siete attrezzati per questa nuova emergenza?
«I padiglioni non interessati dai lavori sono agibili, il poliambulatorio lavora a pieno ritmo, ma questi poveri morti dove li mettiamo? Non abbiamo neanche le bare».

Repubblica 10.2.15
Vergogna europea
di Gad Lerner


LA DENUNCIA di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, è di quelle che dovrebbero rendere insonni le notti dei nostri governanti.
«SIAMO tornati a prima di Mare Nostrum. Non sono serviti a niente i 366 morti del 3 ottobre 2013, non sono servite a niente le parole di Francesco».
Ci avevano presentato come un successo il coinvolgimento degli altri paesi europei nella nuova operazione Triton, minimizzando il vincolo imposto alle navi militari: limitare il pattugliamento all’interno delle acque territoriali. Sottovoce lasciavano intendere che non sarebbe cambiato nulla, anzi, che tale arretramento del raggio d’azione avrebbe disincentivato i trafficanti e i profughi loro ostaggi. Con un bel risparmio di 9 milioni al mese, ovvero 108 milioni l’anno, considerati un onere eccessivo sul bilancio dello Stato.
Menzogne, sotterfugi. La verità si è imposta in queste notti invernali di mare a forza 7, quando la rinuncia a una presenza costante della Marina Militare in acque internazionali ha ritardato l’intervento delle motovedette della Guardia Costiera, peraltro encomiabili per l’impegno profuso tra le onde di otto metri che hanno prima infradiciato e poi congelato decine di poveracci, fino a ucciderli per ipotermia.
Inequivocabili risuonano le parole di Pietro Bartolo, direttore sanitario di Lampedusa: «Non è questo il sistema giusto per salvare vite umane. Probabilmente con Mare Nostrum non avremmo avuto questi morti». Le motovedette non sono attrezzate a prestare soccorsi immediati, a differenza delle navi della Marina non hanno medici a bordo, faticano a coinvolgere i mercantili di passaggio.
Anche le nude cifre sono inequivocabili. Smentita la pretesa di scoraggiare i viaggi dall’Africa mostrandoci meno accoglienti. Gli sbarchi dacché Frontex ha preso il posto di Mare Nostrum sono aumentati: furono 2171 nel gennaio 2014; sono stati 3528 nel gennaio di quest’anno. I morti registrati fino al 9 febbraio dell’anno scorso furono 12; i morti già contati alla stessa data del 2015 sono più di 50. Considerateli il prezzo di una ritirata dalle acque internazionali e chiedetevi se possiamo accettare che l’annegamento, il soffocamento, il congelamento di persone ci riguardi meno quando avviene a 100 miglia anziché a 12 miglia da Lampedusa.
Sarà bene precisare, a questo punto, che la decisione Ue di accontentarsi del presidio dei confini europei — ammesso che sia sensata e moralmente accettabile — di per sé non costituiva un impedimento alla libera iniziativa sovrana dello Stato italiano. In altre parole, l’Europa gretta e egoista non vietava affatto al nostro governo di proseguire l’azione intrapresa con Mare Nostrum. Tanto è vero che la nostra Marina Militare ha fatto pressioni sulle autorità politiche per proseguirla, ricevendo in cambio accuse di insubordinazione corredate di insinuazioni sui vantaggi economici che gliene derivavano. Insomma, l’Europa ci ha fornito un alibi per rinunciare a un’opera di soccorso umanitario della quale pure avevamo menato gran vanto. E che il governo ha pensato di poter interrompere alla chetichella, fingendo che nulla fosse cambiato.
Da questo punto di vista, i morti di freddo nel Canale di Sicilia non rappresentano solo una ferita alla coscienza nazionale di un paese civile. Segnalano anche un deficit di politica estera che offusca il nostro ruolo di potenza mediterranea.
Stiamo cedendo spazio al monopolio di mafie transazionali che insieme alla tratta dei migranti gestiscono anche il commercio illegale di armi e materie prime, avvantaggiando il radicamento jihadista sulla sponda sud del nostro mare. L’esito più immediato di questo ripiegamento potrebbe essere la chiusura della nostra ambasciata a Tripoli, ultimo avamposto occidentale in Libia, dove aumentano i rischi anche per il nostro rifornimento energetico.
Ricordiamo Enrico Letta e Josè Barroso inginocchiati davanti a centinaia di bare nell’hangar di Lampedusa, meno di due anni fa. La sensazione è che ora ci troviamo di nuovo in ginocchio, ma voltati dall’altra parte come se questa tragedia non ci riguardasse più. Magari perché così ha voluto il ministro Alfano. Eppure ci vorrebbe poco per ripristinare Mare Nostrum, salvando vite umane e insieme l’onore della nazione.

il Fatto 10.9.15
C’è ancora un’Europa?
Continente diviso La sfida di Atene
La Bce non basta, serve la politica
di Barbara Spinelli


IL DEBITO PUBBLICO
141,8 mld arrivano dal fondo salva Stati, 27 dalla Bce, 52,9 dai governi, 25 dal Fmi

In un’Unione malata, divisa, minacciata da povertà e diseguaglianze crescenti, le proposte avanzate dal governo greco dopo le elezioni del 25 gennaio andrebbero attentamente esaminate e discusse: tra i 28 Stati membri, tra i 19 governi dell’Eurozona e nella Commissione, nel Parlamento europeo, nella Banca centrale europea.
Le risposte fin qui date ad Atene sono non soltanto ingiuste e in alcuni casi pericolosamente antidemocratiche, ma del tutto controproducenti. La possibilità di cambiare radicalmente rotta, nell’amministrazione della crisi e nei programmi di austerità, viene esclusa a priori. La domanda stessa formulata dal governo Tsipras – non una cancellazione del debito ma un negoziato sulle modalità dei rimborsi e un aggancio di questi alla crescita – viene arbitrariamente travisata, demonizzata e rigettata. Vince l’autocompiacimento della fede, contro i fatti e l’evidenza dei fatti. La malattia, non curata, coscientemente la si vuol perpetuare.
Per questo c’è da allarmarsi, quando i governi (e in primis il governo tedesco) lasciano sola la Banca centrale europea, con le uniche risposte tecniche che le sono consentite, a sciogliere nodi che essendo eminentemente politici non le spettano. Sola, ad annunciare che non accetterà più i titoli di Stato ellenici, e a dare alla Grecia pochi giorni di tempo per rientrare nei ranghi e obbedire alle direttive impartite a suo tempo dalla troika (la Bce lascia tuttavia una porta aperta: la possibilità di erogare liquidità d’emergenza attraverso l’Ela). Vuol dire che la richiesta di studiare il piano ellenico di rientro dal debito non sarà neppure presa in considerazione. Che al governo greco è vietato fronteggiare l’emergenza umanitaria con aumenti del reddito minimo, con la restaurazione di servizi pubblici basilari nell’istruzione e nella sanità, con nuovi investimenti, con tasse patrimoniali.
Vuol dire che non si discuterà del Piano Marshall – ben più consistente del Piano Juncker – che il ministro del Tesoro Yanis Varoufakis ha proposto al governo Merkel, chiedendogli di divenire l’“egemone” di un’Europa da guarire e rifondare. Vuol dire che l’Europa così com’è non è considerata affetta da una crisi sistemica tale da mettere in questione non qualche Stato indebitato, ma l’intera architettura dell’unione monetaria. Significa infine chiudere gli occhi di fronte all’essenziale: il divario che va estendendosi fra la sovranità dei cittadini, iscritta nelle singole costituzioni, e quello che un’élite decide al loro posto. Il fastidio è palpabile e diffuso, verso il tribunale democratico che sono le elezioni. Personalmente non auspico il ritorno delle banche centrali nelle mani degli Stati, né la fine dell’indipendenza dell’istituto di emissione. Ritengo che tale indipendenza rappresenti non un ostacolo, ma una precondizione perché il pubblico interesse sia almeno parzialmente tutelato dall’intrusione imprevedibile e infida dei mercati, delle lobby, delle forze politiche di questo o quello Stato. La vera insidia non è racchiusa nell’indipendenza della Banca centrale, ma nella sua eccessiva solitudine. Un comune istituto di emissione senza Europa politica sarà per forza di cose accusato di ingerenza e prepotenza. La banca centrale è, e deve rimanere, un’istituzione con compiti limitati; non può colmare le lacune della politica. Tuttavia, deve essere più che mai consapevole delle speciali difficoltà e responsabilità che derivano dall’anomalia di una moneta senza Stato.
UNA MONETA è legittimata se costituisce lo strumento di pagamento e di scambio di un territorio dotato di un governo, di un sovrano politico: in democrazia, un sovrano legittimato dalle urne. Se l’euro non è legittimato, è appunto perché continua a essere una moneta senza Stato. Contrapporre le riforme strutturali dell’eurozona al verdetto delle urne, affermare che le elezioni democratiche non hanno effetto alcuno sugli accordi di gestione della crisi che hanno prodotto disastri umanitari in uno Stato membro è una regressione gravissima. Questa regressione è in atto da molti anni: perdono peso le Costituzioni, i Parlamenti, gli appuntamenti elettorali. La crisi economica che traversiamo è sfociata in crisi delle democrazie. Cresce la propensione a ripetere errori del passato, precipitando un popolo nell’umiliazione: tende a ripeterli proprio Berlino, che sperimentò tale umiliazione dopo la Prima guerra mondiale. Continuare a ripetere che “l’euro è irreversibile” non ha più senso. È un sotterfugio performativo, che appartiene alla sfera del pensiero magico e non ha nulla a che vedere con la realtà e con la sua possibile evoluzione. Nessuna conquista politica o sociale è irreversibile. Non dobbiamo andare molto indietro nella storia per sapere che la nostra civiltà è, come tutte le altre, mortale.

Corriere 10.9.15
Se la sinistra attua politiche di destra
Liberali e cattolici. Tutto ciò che manca alla destra
di Ernesto Galli della Loggia

qui

Repubblica 10.2.15
I Partiti messi a nudo dalla corsa verso il Colle
di Piero Ignazi


LE ELEZIONI del presidente della Repubblica potevano costar care a Matteo Renzi se non avesse trovato un candidato in grado di unire il proprio partito e di aggregare consensi ulteriori. La prova è stata superata brillantemente gettando lo scompiglio nei campi avversi. Da un lato, il M5S si è trovato una volta di più isolato, incapace di cogliere una occasione propizia per incidere, come invece era successo al momento delle nomine dei membri per la Consulta e il Csm. Dall’altro, Forza Italia ha capito, una volta per tutte, che non ha più di fronte dei leader impacciati e percorsi da un inferiority complex, bensì un giocatore spavaldo e senza timori riverenziali.
La rivelazione della nudità del loro leader carismatico ha scatenato una crisi di identità tra i forzisti: questa volta non ci sono complotti di magistrati o di poteri forti, brogli elettorali o interventi esterni, per giustificare la sconfitta. Si è trattato di uno schienamento plateale e patente, consumato in diretta, ora dopo ora, sotto i riflettori di tutte le televisioni. Il Patto del Nazareno, continuamente invocato come un amuleto salvifico da Forza Italia, ha rivelato il suo vero fine che non riguardava tanto l’approvazione delle riforme, bensì la svirilizzazione dell’opposizione berlusconiana in vista di quel passaggio cruciale per tutti i segretari di partito che sono le elezioni presidenziali. Arrivati all’appuntamento del Quirinale tranquilli e sereni (anche loro…), i dirigenti forzisti si sono trovati di fronte un muro senza appigli, cioè un partito unito come non mai, grazie all’etica della responsabilità di Bersani. Solo allora è emerso che il Patto, ivi compresi tutti i suoi connessi opachi, serviva a Renzi per scollinare il Quirinale: gli serviva per ricondurre a sé la minoranza Pd nel momento in cui le avrebbe offerto l’occasione di contrapporsi frontalmente alla destra, e per blandire il Cavaliere illudendolo di poter tornare al centro del gioco.
Il successo, si sa, emana un profumo inebriante. Irresistibile. I primi effetti vengono dallo smottamento finale di Scelta Civica e dalla disponibilità di alcuni fuoriusciti del M5S. Quello che accade nelle aule parlamentari, però, non necessariamente si riflette a livello di elettorato. I cittadini moderati, conservatori e popu-listi, e quelli arrabbiati e disgustati, non seguono i quattro parlamentari che transumano verso il vincitore. Affinché il magnete renziano attragga e trattenga anche gli elettori, il Pd deve definire una propria identità, che vada oltre il pastiche, peraltro mal riuscito, post-democristiano e post-comunista, e oltre gli slogan e le battute ad effetto. Fin qui è stata la novità della leadership a trainare il Pd fuori dalle secche. Ma questo fattore si logora in fretta: facile per Renzi confrontarsi con un vecchio leone stanco e usurato come Berlusconi e con una wild card, a tratti inquietante, come Beppe Grillo. Il 41.8% delle europee si spiega così. Ma il futuro presenta dinamiche, e opportunità, diverse.
Certo, oggi Il Pd appare il perno di un nuovo sistema partitico, un sistema, per riprendere il classico schema di Giovanni Sartori, che ricalca il “pluralismo polarizzato” di un tempo (molti partiti molto distanti tra loro): il centro dello spazio politico è saldamente nelle mani di un grande partito (il Pd, appunto) il quale si avvale di piccole formazioni satellite alla sua destra e alla sua sinistra, e viene contrastato da due opposizioni vocali e fortemente antagoniste, posizionate a destra (Lega) e a sinistra (M5S). E Forza Italia dove si colloca in questo assetto? A destra, ovviamente, ma in posizione subalterna. Per sua responsabilità “storica”, sostanzialmente. Per troppi anni il berlusconismo ha solleticato, e legittimato, le pulsioni illiberali e populiste del suo elettorato, tanto da dar vita nei suoi anni d’oro ad un impasto, giustamente definito da Edmondo Berselli, di forzaleghismo. Allora, la dominante di quell’incrocio esibiva un doppiopetto perbenista, che si concedeva ogni tanto delle scivolate plebee e celoduriste; d’ora in poi, prenderà il connotato rozzo e diretto del leghismo in salsa lepenista di Matteo Salvini. A dimostrazione, una volta di più, che il moderatismo di stampo europeo, in Italia, non riesce ad attecchire.
Renzi naviga felicemente nella liquidità del sistema post-quirinalizio, come scriveva lunedì scorso Ilvo Diamanti. Ma i fluidi sono per definizione instabili. Per consolidare la sua posizione dominante il Pd, più che continuare a correre o nuotare, deve incominciare a pensare a sé stesso, al suo profilo valoriale: c’è una identità tutta da precisare, al di là di slogan usa e getta. Una vera egemonia da partito centrale del nuovo sistema partitico passa da questo sforzo collettivo.

il Fatto 10.9.15
Un servizio sulla scuola, ma lo staff del Ministero non gradisce le critiche ai provvedimenti del governo
Renzi, allergia alle inchieste. Raffica di tweet anti-Iacona
di Paola Zanca


C’è stato un tempo in cui arrivava la telefonata in diretta. Erano i Silvio Berlusconi, i Mauro Masi che, incapaci di contenere l’ira sul divano di casa, si intromettevano, puntualizzavano, sbraitavano. Ma nell’era di Matteo Renzi anche l’incursione nel talk show ha cambiato mezzo. E domenica sera si è messo in piedi il primo tweet-bombing ministeriale contro la videoinchiesta sulla scuola trasmessa da Presa Diretta di Riccardo Iacona. Stilettate da 140 caratteri contro chi ha osato mettere in discussione i programmi del governo su istruzione e edilizia scolastica.
LA PRIMA MOSSA, sia chiaro, l’aveva fatta lui, Matteo: due lunedì fa, guardando Piazzapulita, ha inaugurato la stagione del rosicamento via Twitter: “Trame, segreti, finti scoop, balle spaziali e retropensieri - scriveva - basta una sera alla Tv e finalmente capisci la crisi dei talk show in Italia”. Sull’argomento, qualche giorno dopo, si erano esercitati perfino gli inglesi del Guardian, immaginando che quel tweet potesse essere l’inizio della fine del pollaio politico in tv. Il conduttore, Corrado Formigli, aveva invece interpretato il messaggio con canoni decisamente più italiani: l’evoluzione (in peggio) della telefonata insofferente. “Trovo inopportuno che il presidente del Consiglio intervenga su come debba essere fatta l’informazione in Italia - disse Formigli al fattoquotidiano . it   - Mi pare uno sconfinamento. Dovrebbe stare a governare. Non è un utente qualsiasi che passa da Twitter e lascia il suo commento, è l’uomo più potente d’Italia”.
CONTRO Presa Diretta, Renzi non ha twittato. Ma che gli prudessero le mani lo si intuisce dalla raffica di retweet (citazione di frasi scritte da altri utenti) compulsata mentre andavano in onda i servizi di Iacona. Ne ha scelti 8, tutti provenienti da staff, sottosegretari e consulenti del ministero dell’Istruzione. Che nel frattempo, sui loro profili, si esercitavano nella demolizione della puntata in corso.
C'è il capo di gabinetto del ministro Stefania Giannini, Alessandro Fusacchia: “La cosa più importante che dovrà fare #labuonascuola è insegnare ai ragazzi l'onestà intellettuale. E il rifiuto degli slogan semplici”. C'è il suo collega Francesco Luccisano, capo della segreteria tecnica: “Peccato che #Presadiretta non abbia monitorato i 2000 eventi autorganizzati in giro per il Paese”. E ancora, il sottosegretario Davide Faraone, renziano doc: “Ma uno che ne parla bene di questa riforma sulla scuola lo avrete intervistato? ”. E pure la deputata Simona Malpezzi: “Spieghiamo a @Presa_Diretta come si legge la stabilità? I miliardi di investimento sono tre. Il miliardo vale solo x i mesi da settembre a dicembre”. Infine la responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi: “Governo @matteorenzi assume 148.000 docenti precari. La più grande assunzione della storia. Iacona, chiamali tagli”. Il suo collega senatore Andrea Marcucci va giù dritto: “Neanche uno, neanche per sbaglio, parla bene o con cognizione della riforma scuola”.
Ma il tweet bombing, almeno su Riccardo Iacona, non ha ottenuto l’effetto sperato. “Interessante nuova frontiera della comunicazione”, lo liquida. Piuttosto, rivendica il giornalista, sono i numeri che contano. E le opinioni di chi, tra i banchi, ci vive e ci lavora. “Abbiamo dimostrato che le scuole, senza il contributo dei genitori, non potrebbero nemmeno aprire il portone. Non bisogna spaventarsi dei problemi – dice Iacona al governo - così come non si possono rimpiazzare le risorse con le parole”.

il Fatto 10.9.15
Moretti e Pinotti: contro la crisi più armi per tutti


QUASI NESSUNO se n’era accorto, ma uno dei massimi problemi dell’Italia è che spendiamo troppi pochi soldi in armamenti da guerra. Per scoprirlo, bisognava assistere ieri al convegno a cui partecipavano l’amministratore delegato di Finmeccanica Mauro Moretti e il ministro della Difesa Roberta Pinotti. Spiega Moretti che in Italia ci sono “scarse risorse” destinate alla difesa , per questo "alla politica non bisogna chiedere solo più soldi, ma anche programmi pluriennali più certi”. Spendiamo meno della metà della Gran Bretagna, insiste, e non si tratta in questo caso “di un paese molto più grande di noi o con maggiori necessità di difesa”. A fianco, annuiva il ministro Pinotti, fresca di incontro con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (a cui ha illustrato il Libro bianco della Difesa): “Dobbiamo dare una mano alla nostra industria e alle sue eccellenze, perché questo può portare frutti a tutto il sistema-paese”. Contro la crisi, più armi per tutti. “Ricordiamoci  - ha concluso il ministro Pd - che il settore industriale militare è uno dei pochi ad essere rimasto forte”.

La Stampa 10.2.15
La Cassazione: “No alle nozze gay, ma sì ai diritti”
Il parere dei giudici: le coppie omosessuali godano di uno “statuto protettivo”

qui

La Stampa 10.2.15
“Renzi è d’accordo, a marzo in aula il testo sulle unioni gay”
La relatrice Cirinnà: stessi diritti degli etero, tranne l’adozione
di Francesca Schianchi


«Con Renzi ne abbiamo parlato l’ultima volta che è venuto al Senato, e ci siamo confermati il cronoprogramma: portare il testo sulle unioni civili in Aula a marzo».
Il testo di cui lei, senatrice Monica Cirinnà, è relatrice.
«Un testo che unifica oltre 15 proposte presentate: una legge per dare diritti, doveri e riconoscimenti a chi è unito da un legame affettivo e ha un rapporto di convivenza».
L’unione civile per i gay sarà come il matrimonio?
«Tra le proposte iniziali – io stessa ero una firmataria - c’era anche quella di estendere il matrimonio alle persone dello stesso sesso. Ma abbiamo preferito accantonare l’ipotesi per evitare di far morire il testo. Con le unioni civili, i gay avranno gli stessi diritti degli sposati eterosessuali, tranne l’adozione».
Sarà però possibile che il figlio biologico di uno dei due sia adottato dall’altro, giusto?
«Giusto. Per evitare quello che succede oggi, quando per esempio una donna che ha un figlio piccolo si ammala e non può chiedere alla propria compagna di andarlo a prendere a scuola o agli scout perché, di fatto, l’altra persona della coppia per la legge è un estraneo».
La sua legge segue il modello tedesco?
«Sì, ma noi abbiamo aggiunto, nella seconda parte della legge, anche una serie di diritti quotidiani a chiunque conviva, etero ed omosessuali, come la possibilità di fare visita in ospedale o in carcere».
Tutto il Pd è d’accordo?
«La stragrande maggioranza del Pd è favorevole: in Commissione giustizia al Senato, su 8 membri forse 1 solo ha dubbi».
Non è troppo ottimista?
«Io penso che sono forse 10 o 12 i senatori Pd che potrebbero non essere d’accordo: il vero problema non è dentro al Pd, ma è capire quanti sono gli ultra-cattolici di tutti gli schieramenti e se riescono a saldarsi trasversalmente».
Anche fra gli alleati di Ncd c’è chi ha dubbi…
«Temo che dentro Ncd siano più o meno tutti contrari. Ma quando dicono di voler difendere la famiglia tradizionale, mi chiedo, da cosa? Se due uomini o due donne fanno un’unione civile, cosa tolgono in termini di diritti a me e mio marito?».
Forse temono si apra la strada a future adozioni gay.
«In Audizione, psicologi dell’età infantile ci hanno spiegato che, per il bambino, l’importante è essere amato e accudito. Comunque questo testo non prevede l’adozione, cerchiamo di fare una buona legge senza mettere il carro davanti ai buoi».
Riuscirà a passare questa legge?
«Sono certa che avremo i numeri: laddove i cattolici sapranno costruire una trasversalità, anche i progressisti sapranno costruire la loro».

Il Sole 10.2.15
La lunga crisi
Pil pro capite: baratro tra Nord e Sud
Istat: livello del 45,8% inferiore rispetto al Settentrione

In testa Bolzano, in coda Calabria e Puglia
di Alfonso Ruffo


Il reddito d'impresa non abita nel Mezzogiorno. Se, infatti, il reddito da lavoro dipendente per occupato è superiore al Centro Nord di solo (potremmo dire) il 14,8 per cento, il complessivo prodotto interno pro capite che incorpora anche il risultato dell’intrapresa presenta tra Nord e Sud profondi divari che diventano voragine se si compara il territorio più ricco, la Provincia autonoma di Bolzano, a quello più povero, la Calabria, che non raggiunge il 40 per cento del livello della prima.
Sono alcuni tra i dati più interessanti che si ricavano dalla lettura dell’ultimo bollettino rilasciato dall’Istat, l’Istituto statistico nazionale che periodicamente misura lo stato di salute del Paese attraverso la fornitura e la comparazione di alcuni parametri indicativi dell’andamento dell’economia. In questo caso il riferimento è agli anni 2011-2013.
Dunque, persiste il divario tra le diverse parti del Paese con un pil per abitante che nel Nord-Ovest è di 33,5 mila euro, nel Nord-Est di 31,4 mila, nel Centro di 29,4 mila e nel Sud di 17,2 mila euro. Si può facilmente notare la ripida caduta tra i valori dei primi tre dati, abbastanza omogenei, e il quarto che è inferiore del 45,8 per cento rispetto la media degli altri.
Insomma, in termini di ricchezza pro capite le regioni meridionali valgono la metà di quelle settentrionali. E, come già detto, a fare la differenza sono soprattutto i ricavi delle attività d’impresa, i profitti, che al Sud devono essere giunti al lumicino se i dati del lavoro dipendente, in gran parte pubblico ma anche privato, in qualche modo tengono il passo.
Tra le curiosità che vale la pena di rilevare c’è che in sole due realtà territoriali, nel 2013, il pil procapite non diminuisce: sono la Provincia di Bolzano e la Campania, naturalmente tarate su livelli assoluti assai distanti dal momento che la prima è in cima alla classifica con 39,8 mila euro e la seconda al quart’ultimo posto con 17 mila euro. Stanno peggio la Sicilia, la Puglia e la Calabria che chiude la serie con 15,5 mila euro.
Anche la spesa per i consumi delle famiglie denuncia il classico divario – e non potrebbe essere diversamente – con una media nazionale di 16,3 mila euro che diventa 18,3 mila euro nel Centro-Nord e 12,5 mila euro al Sud con una differenza del 31,7 per cento e quindi inferiore alla distanza della ricchezza. Vuol dire che, stante il basso reddito complessivo, nel Mezzogiorno si consuma in proporzione più che al Nord dove aumenta il risparmio e il possibile investimento.
Quanto alle attività che determinano il valore aggiunto pro capite, sono i servizi alle imprese, finanziari e immobiliari a fare la parte del leone (29 per cento) con il Lazio al primo posto nel terziario (85 per cento). Il contributo dell’industria è più alto nel Veneto e nell’Emilia Romagna che pareggiano con il 24 per cento, nel Friuli e nelle Marche (23 per cento) e incredibilmente in Piemonte e Basilicata (22 per cento) risultando quest’ultima la più industrializzata regione del Mezzogiorno grazie alla presenza dello stabilimento Fiat a Melfi.
Quasi tutte le regioni presentano una caduta dell’occupazione (-2,2 per cento nella media) tra gli anni osservati 2011-2013 tranne le Provincie di Bolzano e Trento (+ 2,2 e +1,3 per cento), e la Lombardia (+0,4 per cento). Le peggiori perfomance riguardano la Calabria (- 8,1 per cento), il Molise (- 8 per cento ampiamente recuperato, tuttavia, dalle recenti assunzioni proprio a Melfi), la Sardegna (-7,5 per cento) e la Sicilia (-7,4 per cento) che già partivano da posizioni di grande sfavore.
In particolare, il settore più disastrato in termini di distruzione di posti di lavoro è quello delle costruzioni dal rilancio del quale, com’è intuitivo, ci sono le maggiori aspettative di ripresa.

Corriere 10.9.15
Embrioni congelati 19 anni fa, via libera all’impianto dopo la morte del marito
Accolto il ricorso di una 50enne ferrarese
Ora il Sant’Orsola dovrà provvedere immediatamente all’impianto degli embrioni

qui

Corriere 10.2.15
Prostituzione, il prefetto: zone rosse? È impossibile, sarebbero fuori legge
Giuseppe Pecoraro boccia la proposta del IX Municipio, e parzialmente sostenuta dalla giunta Marino, si istituire aree all’Eur in cui permettere alle prostitute di lavorare

qui

il Fatto 10.9.15
“I creditori siamo noi”
Perché Tsipras rilancia il contenzioso di guerra con la Germania
“Ci dovete 162 miliardi”
di Salvatore Cannavò


La richiesta di risarcimento per i danni di guerra, fatta da Alexis Tsipras alla Germania, può sembrare una battuta. Ma questa battuta è presente nel programma di Syriza fin dalla sua elaborazione a Salonicco nel settembre scorso. E vale circa 160 miliardi. Non è uno scherzo, insomma, se è vero che ieri il vice-cancelliere tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, ha voluto rispondere con nettezza alle pretese greche: non se ne parla nemmeno.
LA STORIA È VECCHIA quanto la Seconda guerra mondiale. La Grecia fu invasa dalla Germania nazista, che oltre alle morti e ai saccheggi, si fece “prestare” 3,5 miliardi di dollari dell'epoca che non sono mai stati rimborsati. Alla Conferenza di Parigi del 1946 fu inoltre previsto un indennizzo nei confronti di Atene di 7 miliardi di dollari. Entrambe le somme non sono mai state pagate dai governi tedeschi. Attualizzando queste cifre si arriva alla cifra di 162 miliardi di euro indicata da Syriza. Senza contare gli interessi.
Secondo uno studio del Comitato per l'annullamento del debito (Cadtm) se si calcolasse un interesse annuo del 3% si arriverebbe alla cifra enorme di mille miliardi di euro. Cifre stratosferiche che non sembrano rientrare nelle reali intenzioni del governo greco. Nei giorni scorsi, infatti, una speciale commissione presieduta dall’ex direttore generale del Tesoro, Panagiotis Karakousis, ha indicato il debito tedesco nei confronti della Grecia in 11 miliardi di euro. La cifra non contempla la voce riguardante le riparazioni per i danni subiti durante l’occupazione tedesca dal 1941 al 1944 che invece fa parte del conteggio
Per comprendere il contenzioso, però, occorre approfondire due altre vicende: la Conferenza di Londra del 1953, con la quale sono stati annullati gran parte dei debiti di guerra della Germania e il trattato di riunificazione della Germania del 1990 siglato a Mosca.
Nel primo grande appuntamento internazionale dopo la Seconda guerra mondiale, gli alleati occidentali (Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Belgio, Olanda e molti altri) decisero quello che oggi è impedito alla Grecia: una riduzione del 62,5% del debito tedesco.
QUESTO AMMONTAVA a 22,6 miliardi di marchi per la parte anteriore alla guerra e a 16,2 miliardi cumulato dopo la Seconda guerra mondiale. Fu ridotto a 14,5 miliardi e alla Germania furono garantiti altri benefici importanti: il rimborso in marchi, un tetto al rimborso annuo fissato al 5% dei redditi provenienti dalle esportazioni, un tasso di interesse oscillante tra lo zero e il 5%. Anche grazie a queste condizioni la Germania uscì dalla sconfitta disastrosa e divenne la potenza che è.
In quella conferenza, all’articolo 5 dell’accordo, si stabilì peraltro che “l’esame dei crediti scaturiti dalla Seconda mondiale dei Paesi in guerra con la Germania oppure occupati (…) saranno differiti fino al regolamento definitivo del problema delle Riparazioni”. Un rinvio sine die che impedì che la Grecia potesse beneficiare del rimborso dovuto.
Il sine die si è prolungato fino al 1990 quando si è verificata l’unificazione delle due Germanie e la vera fine geopolitica del periodo post-bellico. Il Trattato di Mosca del 1990, il cosiddetto trattato 4+2 (siglato dalla Repubblica federale e dalla Repubblica democratica di Germania insieme a Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Unione sovietica) non fa però alcuna menzione dei debiti di guerra e del capitolo delle Riparazioni. Ed è proprio su questo appiglio giuridico che si lega la posizione tedesca: non essendo menzionato il problema, si intende risolto. L’interpretazione è riportata nelle note all’accordo redatte dall’allora direttore degli affari politici del ministero degli Esteri francese, Bertrand Dufourcq: “Il trattato di Mosca non contiene tutte le clausole di un trattato di pace (…) in particolare non menziona il problema delle riparazioni”. Tuttavia, sottolinea ancora il diplomatico francese, il documento contiene “aspetti essenziali di un trattato di pace” ed è proprio “per il suo non-detto che mette davvero fine al periodo aperto nel 1945”.
IL CONTENZIOSO è molto raffinato e probabilmente non se ne farà nulla. Ma Atene ha deciso di tirare fuori la vicenda per avere più armi nella difficile trattativa con l’Europa. Il rapporto Karakousis, infatti, sarà girato al ministro degli Esteri il quale dovrà inviarlo all’Avvocatura di Stato. Inoltre, dovrebbe essere insediata una apposita commissione per consigliare il governo sulla strada da seguire. Per il momento, a giudicare dalle reazioni tedesche, la mossa di Tsipras ha ottenuto l'effetto di innervosire Berlino. E forse anche questo autorizza Tsipras alla dichiarazione fatta ieri dopo l’incontro con il collega austriaco: “È nell’interesse di tutti trovare una soluzione favorevole a tutti”, ha detto in previsione dell’incontro di domani a Bruxelles dei ministri dell’Eurozona: “Ecco perché sono molto ottimista. Finora non abbiamo sentito nessuna alternativa praticabile rispetto a quella che noi abbiamo proposto. Non vi è ragione per non raggiungere un accordo, a parte motivi politici”.

Corriere 10.9.15
Non solo l’Ucraina: la nuova leadership della Cancelliera
di Danilo Taino

qui

La Stampa 10.2.15
Israele, la Knesset specchio di una lotta all’ultimo voto in vista delle elezioni
Yizhak Herzog, leader del partito laburista che punta a strappare il governo a Likud, si aggira nell’area delle “stanze di partito”, per coordinare incontri di strategia elettorale
di Maurizio Molinari

qui

Corriere 10.2.15
Campagna anti Netanyahu
Soldi e consiglieri dagli Usa per i volontari porta a porta


TEL AVIV La mappa appesa al muro — le bandierine spillate sulle città israeliane — sembra quella di una campagna militare. Gli slogan e gli adesivi da appiccicare sul paraurti ricordano una campagna pubblicitaria. L’obiettivo è uno solo: scampare la rielezione di Benjamin Netanyahu, convincere gli elettori a non garantire il quarto mandato al primo ministro.
Il quartier generale sta su viale Rothschild in un palazzo circondato da case costruite agli inizi del Novecento, la città è nata e si è sviluppata partendo da questi incroci. E’ la parte giovane di Tel Aviv — almeno la notte, viverci costa sempre più caro — e giovani sono i fondatori del movimento che sta infastidendo il Likud più dell’opposizione ufficiale dei laburisti. Itamar Weizman ha 21 anni, è uno studente di storia e come ogni altro ragazzo israeliano ha già ideato un paio di start-up tecnologiche. Nimrod Dwek (32) la società digitale l’ha fondata, il profilo Linkedin lo definisce un «ninja del marketing».
Nella loro sfida a Netanyahu hanno importato le tecniche di mercato, lo studio dei big data e uno dei consiglieri di Barack Obama, lo stratega che ha pianificato la propaganda porta a porta — nel 2008 e quattro anni dopo — per la rielezione del presidente americano. Di porte Nimrod e Itamar vogliono riuscire a bussarne un milione: «Abbiamo già 4.500 volontari che girano per il Paese. Il messaggio non è contro Netanyahu, non lo nominiamo. Quello che diciamo è: andate a votare e scegliete il cambiamento. Non spingiamo nessun partito. Per questo ci chiamiamo semplicemente Victory 15, vogliamo vincere e vincere significa mandare a casa chi ci ha governato fino ad ora».
La formula senza bandiera non rilassa la destra, gli avvocati di Netanyahu hanno presentato una denuncia contro il gruppo, sostengono che l’attività sia illegale. I complottisti ci vedono un piano di Obama per vendicarsi del premier israeliano: nel 2012 aveva espresso in pubblico il sostegno per l’avversario repubblicano Mitt Romney. Fanno notare: dagli Stati Uniti non è arrivato solo un consigliere, scorrono anche i dollari messi a disposizione dal miliardario S. Daniel Abraham, che a 90 anni scommette su questi ragazzi. «Non sostengo nessun candidato — spiega al telegiornale del Canale 2 — sono un sionista e credo che Israele debba cambiare strada se vuole restare democratica e con una maggioranza ebraica». Abraham appoggia la soluzione dei due Stati, un accordo con i palestinesi. I volontari di Victory 15 sembrano più preoccupati dal costo della vita o da quanto costi mantenere le colonie in Cisgiordania.
La spaccatura con Washington era già profonda prima, riempita solo dai sospetti reciproci. Il premier resta ostinato nella decisione di parlare davanti al Congresso agli inizi di marzo. Anche se la Casa Bianca ha definito la procedura fuori protocollo (l’invito è arrivato dai leader repubblicani) e il vice presidente Joe Biden — considerato grande amico di Israele — ha già annunciato che non ci sarà. Obama ha spiegato ieri perché non incontrerà Netanyahu: «Sarebbe inappropriato a pochi giorni delle elezioni, significherebbe interferire nella politica interna di un Paese». E ha aggiunto sorridendo ad Angela Merkel, la cancelliera tedesca in conferenza stampa con lui: «Angela non l’avrebbe mai fatto, non l’avrebbe neppure chiesto».
Il Likud spera ancora di ottenere la messa al bando di Victory 15 — che ha risposto presentando una querela per istigazione alla violenza — prima del 17 marzo. Quel giorno Nimrod e Itamar contano di poter dispiegare davanti ai seggi almeno 15 mila attivisti: senza simboli di partito o nomi di politici esposti non devono rispettare le norme che impongono lo stop alla campagna durante le ore del voto. «Chiameremo di nuovo una a una le persone che abbiamo incontrato in questi mesi, al mattino presto, quando siamo ancora in tempo, e chiederemo loro di farci una promessa: andare alle urne».
Sanno che l’entusiasmo potrebbe non bastare. I sondaggi danno Netanyahu in crescita, vincerebbe con un paio di seggi di scarto e la destra avrebbe i numeri per formare una nuova coalizione .

Corriere 10.2.15
La scoperta
La prova del contattotra noi e i Neanderthal
Nei resti fossili trovati in una grotta di Israele la storia di quando vivevamo insieme
di Edoardo Boncinelli

qui

Corriere 10.2.15
Il comunismo sotto la lente di Venturi
di Giuseppe Galasso


Ora che il marxismo pare sepolto da ben più di tre giorni e si è quasi indotti a chiedersi «Marx, chi?», non è facile immaginare quel che Karl Marx e il marxismo significarono per un secolo e mezzo in ogni parte del mondo, soggiacendo poi all’alternanza del «servo encomio» (prima) e del «codardo oltraggio» (dopo) nelle grandi svolte storiche.
Lo ricorda con efficacia la pubblicazione di due inediti di Franco Venturi, Comunismo e socialismo. Storia di un’idea (Centro studi di storia dell’Università di Torino, pp. 176, e 14, disponibile presso il dipartimento di studi storici dell’ateneo, tel. 011.6703126). Il primo fu scritto, si ipotizza nell’introduzione, prima della firma nell’agosto 1939 del patto nazi-sovietico per la spartizione della Polonia, che poté indurre Venturi a desistere dall’idea di scrivere una storia dell’idea comunista «nella sua unità» originaria, comprensiva anche di socialismo e anarchismo. L’inedito ne era la prima parte, dedicata al «comunismo illuminista», seguito attraverso alcuni nuclei problematici fondamentali (l’utopismo, il rapporto ragione-natura, la questione del progresso) e, in specie, Diderot, Morelly, Rousseau. Il secondo inedito, del 1941-'42, è dedicato al socialismo «romantico» (Saint-Simon), ma giunge subito a Marx e al socialismo «moderno» (dopo Marx) e ad alcune riflessioni sulla natura e il destino del comunismo.
Non erano scritti di occasione. Come emerge anche dalla solida biografia di Adriano Viarengo ( Franco Venturi. Politica e storia del Novecento , Carocci, pagine 334, e 30), il problema del comunismo assillò Venturi fin dalla più giovane età. Egli aveva aderito, e restò sempre fedele, a Giustizia e Libertà, il movimento fondato da Carlo Rosselli con l’idea di un «socialismo liberale», alternativo al comunismo marxista. Venturi ne ribadì le idee in un opuscolo del 1943, Il socialismo di oggi e di domani (ora incluso nei suoi scritti politici, pubblicati nel 1996 dall’editore Einaudi, a cura di Leonardo Casalino, con il titolo La lotta per la libertà ); e il confronto con Marx e col «socialismo reale» che a lui si rifaceva rimase poi sempre al centro del suo spirito, e non per suggestione di partito o di scuola. Nella scia di Rosselli, egli aveva ben capito che quella comunista era la grande sfida del secolo. Una sfida che non si prestava a dubbi sul punto della «libertà», alla quale il «socialismo reale» si era negato, ma che imponeva anche ai più liberali il problema della «giustizia», insegna di quel socialismo, che Rosselli aveva sentito ineludibile nella moderna società industriale.
Si capisce da ciò quale sia stato il giudizio di Venturi su Marx e sul comunismo sovietico. Un giudizio formato nel fuoco delle passioni politiche di quel tempo, che fecero di Marx e del comunismo l’oggetto di confronti ideali e materiali di una intensità poche volte raggiunta in altre epoche, ma commisurata a tutto ciò che in quei confronti era in gioco.
Pur attraverso la passione politica, la non comune intelligenza storica di Venturi emerge, tuttavia, nei due inediti, che la confermano, poiché si legano alle prime prove del grande storico che egli sempre più divenne. Ma, come dicono i curatori del volume (Manuela Albertone, Daniela Stella, Edoardo Tortarolo, Antonello Venturi), essi attestano pure gli «stimoli che Franco Venturi è ancora in grado di offrire». Alcuni punti da lui qui affermati, come le radici illuministiche del comunismo, il suo fondamento religioso, la sua soluzione economicistica del problema della giustizia, sono idee o spunti di idee non banali, né del tutto scontati. Anch’essi rinverdiscono, perciò, il ricordo di uno studioso di straordinario rigore e originalità, che fu pure un appassionato testimone del suo tempo e un fedele dell’idea di libertà come condizione anche di quella di giustizia.

Corriere 10.2.15
La giustizia sociale non è una chimera
di Arturo Colombo


Da quando Tommaso Moro pubblicò nel 1516 il suo capolavoro, «utopia» significa non-luogo, cioè qualcosa di inesistente. Adesso, però, il presidente del Centro universitario di studi utopici, il professor Arrigo Colombo, ha pubblicato un volume dal titolo La nuova utopia (Mursia, pagine 454, € 26), che dà al termine «utopia» un significato diverso, come progetto di una società che non c’è, almeno finora, ma che occorre impegnarci a rendere operante, se vogliamo farla finita con il sistema politico-sociale in cui tuttora viviamo, che si identifica in una società «stratificata, discriminata, di ricchi e poveri, di potenti e deboli, di sfruttatori e sfruttati».
Giustizia, libertà e eguaglianza costituiscono altrettanti «valori etico-politici» indispensabili per rendere possibile quello «Stato giusto», senza il quale non potremo mai rendere effettivo un ordinamento capace di fare della democrazia e del benessere una concreta realtà estesa dovunque. Certo, è un processo lungo e complicato; ma per Colombo questo è «il grande tema del nostro tempo», l’unico in grado di coinvolgere tutti per un futuro migliore.

La Stampa 10.2.15
È un “sacro vuoto” la libertà dell’Occidente
La nostra società ha prodotto un’integrazione senza differenze

Solo il rispetto delle identità religiose e sociali può condurre a un mondo pacifico
di Wael Farouq


Negli Anni Trenta del Novecento, i giapponesi consideravano l’imperatore Hirohito pari ad un dio che li aveva condotti alla rinascita economica e alla costruzione di una forza militare in grado di dominare vaste regioni del mondo. Dopo la disonorevole sconfitta del Giappone in guerra, l’imperatore mantenne la sua sacralità, ma quest’ultima perse tutto il suo significato, anche perché l’imperatore aveva guidato la sua gente verso la distruzione altrui, prima ancora che alla distruzione del proprio Paese. Fu così che i giapponesi presero a chiamarlo «il sacro nulla» (Patrick Smith, Japan: a Reinterpretation, Knopf Doubleday Publishing Group, 2011). Il «sacro nulla» è l’espressione che meglio descrive i valori della civiltà occidentale di oggi. Sia sul piano pratico che culturale, questi valori sono svuotati del loro significato, sebbene tutti quanti li sacralizzino, come nel caso del valore della libertà.
Tutto è effimero
Purtroppo, la faccenda non si limita alla fallita esportazione di questi valori all’esterno, ma si estende anche al loro svuotamento di significato all’interno, sul piano intellettuale e pratico. Nella cultura contemporanea l’effimero è diventato centrale. Nulla reca un segno di distinzione, un significato, perché tutto è fugace. L’attenzione della cultura contemporanea si è così spostata dall’essere nel mondo al divenire, o al transitare, nel mondo. Questo è il mondo del transitorio e dell’effimero. Le ideologie sono cadute, ma la paura dell’altro è aumentata. Il nichilismo ha fatto marcia indietro, ma il suo posto è stato occupato da una neutralità passiva verso ogni cosa. Il termine «post», anteposto a ogni parola che indica un aspetto della conoscenza umana (come in post-industriale, post-storico, post-moderno, eccetera), non implica altro che l’incapacità di attribuire un significato alla condizione umana presente.
Jürgen Habermas vede in questo una conseguenza dell’esclusione della religione dalla vita pubblica. Ed è vero che tutte le sfide sociali cui dobbiamo far fronte sono fondamentalmente riconducibili all’incapacità di dare alla vita un significato, una fonte del quale è rappresentata proprio dalla religione.
L’uniformità
I post-modernisti ritengono di aver liberato l’umanità dalla prigionia di binomi intellettuali quali bene-male, presenza-assenza, io-l’altro, ma in realtà sono solo passati dal contrapporre gli elementi di questi binomi al porli sullo stesso piano – e all’incapacità che ne deriva di formulare giudizi, che a sua volta porta all’interruzione di ogni interazione con la realtà e all’uniformizzazione dell’identità individuale e collettiva.
Il post-modernismo ha combattuto contro l’esclusione dell’altro, il «diverso», operata dal modernismo, ma non ha trovato altra via per farlo che escludere la «diversità», poiché è opinione diffusa che la convivenza pacifica non possa avere successo se non escludendo l’esperienza religiosa ed etica dalla sfera pubblica. Questo, tuttavia, implica l’esclusione della differenza e, quando l’esperienza religiosa è uno degli elementi più importanti dell’identità, l’esclusione della differenza, in realtà, diventa esclusione del sé.
Ma questa laicità estremista è riuscita a realizzare il proprio obiettivo?
Non c’è metropoli europea, oggi, che non ospiti una «società parallela», dove vivono gli immigrati musulmani. Tentativi affrettati d’integrare gli immigrati hanno finito solo per rendere i confini culturali e religiosi invisibili nello spazio pubblico. In Francia è stata promulgata una legge che proibisce l’esibizione dei simboli religiosi nello spazio pubblico. Di conseguenza, la Francia è diventata uno Stato la cui Costituzione protegge la differenza e il pluralismo religioso, ma le cui leggi ne criminalizzano l’espressione.
Gli immigrati
L’esclusione della diversità dallo spazio pubblico ha fatto sì che l’adattamento, e non l’interazione, diventasse il quadro entro il quale s’inscrive la relazione degli immigrati con la loro nuova società. Questo e altri fattori di natura soggettiva, cioè relativi alla cultura degli stessi immigrati, hanno dunque portato alla creazione di società parallele in conflitto con l’ambiente circostante che rimane, per loro, un ambiente alieno, straniero.
In questo contesto culturale, se qualcuno chiedesse «cos’è la libertà?», la risposta sarebbe: qualsiasi cosa. Ma una libertà che significa qualsiasi cosa non è niente. La libertà vera ha un volto, un nome, dei confini rappresentati dall’esperienza umana, che tuttavia non può essere tale se alla persona si strappano la sua identità, la sua storia, la sua esistenza e il suo scopo. Diverrebbe una forma svuotata di significato e contribuirebbe, assieme alla cultura islamica contemporanea, all’esclusione della persona, della sua esperienza e della sua identità. Nel qual caso, passeremmo dal «sacro nulla» al «nulla è sacro». Infatti, nulla è sacro finché la forma sta al centro e la persona al margine.
Nel Corano, come nella Bibbia, Adamo inizia a relazionarsi con il mondo attribuendo un nome alle cose. L’Adamo contemporaneo, invece, perde ogni giorno un pezzo del suo mondo, perché dimentica i nomi delle cose, perché non dà più loro alcun nome, e perché nemmeno gli importa di dar loro un nome. L’uomo, oggi, è diventato un post-Adamo. Mentre per affrontare la sfida dell’oggi abbiamo bisogno come non mai di tornare al senso religioso, all’esperienza personale. Al vero Adamo.
(Traduzione dall’arabo di Elisa Ferrero)

La Stampa 10.9.15
Quando una pièce su Pio XII spaccò socialisti e democristiani
Compie 50 anniIl vicariodi Hochhuth, denuncia dei silenzi papali sull’Olocausto. L’Italia lo censurò e il centrosinistra rischiò di cadere
di Alberto Papuzzi


All’inizio era sembrato un caso di secondaria importanza. Uno dei tanti che negli Anni Sessanta agitavano le acque della borghesia intellettuale e alimentavano i pettegolezzi nel bel mondo romano. In realtà si rivelò un affare spinoso, con serie ripercussioni politiche, con denunce, provocazioni e accuse. Come sempre, nel nostro Paese, ci si ritrovò a fare i conti con quelli del sì e quelli del no, con il partito dei laici e quello dei credenti. Ci fu chi addirittura pronosticò beghe e rotture che avrebbero potuto mandare a carte quarantotto l’alleanza di centrosinistra, fra democristiani e socialisti, già per sé fragile; e si tornò a discutere circa l’interpretazione del primo articolo del Concordato del 1929.
Parliamo di un testo teatrale - Il Vicario del drammaturgo e scrittore tedesco Rolf Hochhuth - che cinquant’anni fa mise in scena i silenzi di Pio XII di fronte allo sterminio degli ebrei pianificato da Hitler.
Scritto nel 1963, in cinque atti, messa in scena nello stesso anno a Berlino e l’anno seguente a Londra, Il Vicario arrivò in Italia, agli inizi del 1965, accompagnato dagli echi di qualche inevitabile polemica, ma senza eccessivi imbarazzi. Soltanto Parigi aveva visto costituirsi due veri schieramenti, uno a favore, l’altro a biasimo, del lavoro di Hochhuth. Ma prima che su un palcoscenico, il testo era entrato nelle librerie, pubblicato da Feltrinelli nel 1964, con una prefazione dello scrittore e critico cattolico Carlo Bo. Come dramma teatrale finì nelle mani del regista Carlo Cecchi, con la compagnia di Gian Maria Volonté, attore di cui era arcinoto l’impegno politico. Attore popolare per gli spaghetti-western, però nel 1960 aveva fatto in teatro Sacco e Vanzetti, sul dubbio processo ai due anarchici, e nel 1962 aveva girato Un uomo da bruciare (storia d’un sindacalista assassinato dalla mafia).
Ma l’allestimento italiano del testo di Hochhuth fu oggetto di una censura che lo fece diventare un caso politico. Cecchi e Volonté riuscirono a organizzare soltanto una rappresentazione quasi clandestina nel retrobottega della Libreria Feltrinelli (11 febbraio 1965). Erano previsti successivi allestimenti in una cantina romana, ma furono vietati dalla Pubblica Sicurezza perché mancava il certificato di agibilità; quindi arrivò anche un decreto prefettizio che dichiarava l’opera di Hochhuth contraria alle norme del Concordato. Nel frattempo la polemica fra chi chiedeva rispetto per il Sommo Pontefice e chi difendeva strenuamente la libertà di espressione si era spostata anche a Firenze, dove teatranti e sostenitori si chiudono nel Teatro di Santa Apollonia, per mettere in scena (è il caso di dirlo) uno sciopero della fame. Sul quale si esercitò la satira di un settimanale di destra, Lo Specchio, che pubblicò fotografie di vassoi di salsicce destinate agli scioperanti. In altri ambienti, vicini al Vaticano, corsero invece voci sul coinvolgimento di agenti o ex, di servizi segreti dei Paesi dell’Est, che avrebbero fornito a Hochhuth materiali per costruire e far parlare il suo Vicario.
In realtà l’opera era la punta di un iceberg che osava affrontare in modo estremamente critico la figura, al tempo quasi sacrale, di Pio XII. «Per cinque lunghi anni assistette al sommarsi convulso degli addendi di un tragico quoziente di morti e distruzioni. Eppure non parlò mai», come scrisse Carlo Falconi, vaticanista dell’Espresso. Ma altrettanto impegnativi erano gli interventi a difesa del papa, alla morte del quale la statista israeliana Golda Meir riconobbe che aveva «levato la voce in difesa della vita».
Sul tema si registrano, fra gli altri, interventi di Mauriac e di Camus. Diversi personaggi pubblici, per esempio Alcide De Gasperi, hanno riconosciuto di aver trovato protezione nelle stanze vaticane. Hochhuth, che nel frattempo aveva scritto un altro testo polemico, Soldati, contro Winston Churchill (senza però destare scandali), chiuderà la sua carriera con la sceneggiatura di un opaco film di Costa Gavras, Amen.

Repubblica 10.2.15
Yalta
Dall’ordine mondiale al nuovo caos globale
Settant’anni fa i leader dei paesi vincitori con un tratto di penna ridisegnarono l’Europa Ora invece, con la Ue divisa e la crisi ucraina l’idea di una regia unica sembra tramontata
di Lucio Caracciolo


L’ORDINE mondiale è l’utopia di ieri. Sono passati settant’anni dalla conferenza di Yalta, quando Stalin, Roosevelt e Churchill decisero di coprire con la foglia di fico delle Nazioni Unite la spartizione dell’Europa e del mondo fra Occidente americano e Russia sovietica. Fu la guerra fredda, a suo modo una pace fra i potenti pagata con l’oppressione all’Est e i conflitti alle periferie del pianeta, dalla Corea al Vietnam, dal Medio Oriente al Congo. Crollata l’Unione Sovietica, toccò a George Bush padre evocare l’alba di un “nuovo ordine mondiale” che si sarebbe retto sulla benigna egemonia di un solo paese, il suo. Lo chiamammo Washington consensus.
Ci pensò Bush figlio a sabotarlo, con la “guerra al terrorismo”, seguita dalla crisi del 2007 scoppiata nella pancia della finanza privata americana. E adesso?
Immaginiamo che i leader del pianeta si dessero di nuovo appuntamento a Palazzo Livadija, già residenza estiva degli zar presso Yalta, in Crimea, dove i Tre Grandi si internarono dal 4 all’11 febbraio 1945. Ordine del giorno: rimettere ordine in questo caos. Non si potrebbe scegliere luogo più simbolico della corrente incertezza geopodiscussione litica. La prima disputa scoppierebbe sulla proprietà del palazzo. Siamo in Ucraina oppure in Russia? In un concerto di nazioni ben temperato, la questione non si porrebbe, vigendo un catasto unico — ogni Stato con le sue proprietà riconosce i suoi omologhi con le loro. Oggi, come minimo, Kiev minaccerebbe di bloccare le vie di accesso alla Crimea (senza essere presa troppo sul serio) e Mosca di forzare il passaggio a mano armata, se necessario (venendo presa terribilmente sul serio). Ma ammettiamo che un impulso di retto pragmatismo induca tutti a “concordare di dissentire” sulla proprietà della monumentale villa con il suo vasto parco. E siccome il fatto prevale sul diritto, finché non diventa tale, la vigilanza sia affidata agli “uomini verdi”, cioè agli “specialisti” russi senza divisa che nel marzo scorso requisirono la Crimea formalmente ucraina. Potremmo a questo punto celebrare la nuova Yalta? C’è da dubitarne.
Il contenzioso successivo riguarderebbe la verifica dei poteri. In parole povere: chi è abilitato a negoziare il nuovo ordine? Nessuno obietterebbe sui titoli del presidente degli Stati Uniti né sulle credenziali del collega cinese. Quanto al leader russo, la potrebbe essere chiusa dalla regola di ospitalità per cui in ogni competizione internazionale i padroni di casa sono ammessi di diritto. Buona educazione potrebbe consentire ai responsabili di Giappone, Canada, India, Brasile e Sudafrica di accedere ai marmi bianchi di Livadija, mentre all’Australia verrebbe proposto di accontentarsi di un consigliere nella delegazione britannica. È infatti scontato che il Regno Unito pretenderebbe il seggio che fu di Churchill.
Eccoci al terzo, decisivo scontro: chi parla per l’Europa? La battaglia si disputerebbe in teatri paralleli. Pro forma a Bruxelles, dove presidente del Consiglio europeo e presidente della Commissione si adatterebbero infine a uno strapuntino per ciascuno. Pro substantia fra Berlino e Parigi, con Roma, Madrid e Varsavia a litigare sul numero dei rispettivi auditori. Economia, demografia e influenza internazionale inclinerebbero la bilancia verso la Merkel. Bomba atomica e residuo impero transcontinentale direbbero Francia. Eppoi Hollande non vorrebbe rinunciare alla soddisfazione di sedere lì dove non poté de Gaulle. Cinesi, americani e russi finirebbero per gentilmente imporci la formula due più due. Stringendosi un po’, Merkel e Hollande occuperebbero insieme un’ampia poltrona di prima fila, con Tusk e Juncker appollaiati sull’annesso divanetto di coda.
Benvenuti alla seconda Yalta, in formato 9 (Stati Uniti, Cina, Russia, Giappone, Canada, India, Brasile, Sudafrica, Regno Unito) più 4 (Germania/Francia con l’appendice Ue/Commissione). Tredici a tavola, alla faccia della superstizione. Consesso comunque pletorico, considerando che i protagonisti dei due massimi tentativi di ordinamento del mondo in età moderna e contemporanea — Vienna 1815 e Yalta 1945 — vertevano su schieramenti rispettivamente a 5 e a 3. Esubero rivelatore: troppi sono i pretendenti al protagonismo. L’ordine fra diseguali presuppone ordinanti e ordinati. Abbiamo oggi un’abbondanza di aspiranti al primo status e una carenza di comparse disponibili a farsi comandare. Con una zavorra aggiuntiva: gli Stati di oggi non sono altrettanto autorevoli di quelli di ieri. Anche — o specialmente — quando sono autoritari.
Senza illusioni, ma in uno slancio di volontarismo, noi europei potremmo quanto meno contribuire a snellire il formato della Livadija bis. Basterebbe dare seguito alla retorica comunitaria, che ci vuole vocati a parlare “con una voce sola”. Quale migliore occasione di provarla vera? Allo stato della fisiologia e delle scienze biologiche attuali, disporre di una voce sola implica una condizione: avere un solo corpo, dotato di sano apparato fonatorio. Si pone dunque il dilemma di come ridurre i Ventotto a Uno. Tre possibilità, in teoria. La prima è l’Europa tedesca. Sembrerebbe la più ovvia. Ma è miraggio: la Germania non può e non vuole assumersi la responsabilità di armonizzare la cacofonia continentale. Non può perché ha sempre dimostrato, e continua a rivelare nel suo modo di concepire l’unione monetaria, di non sapere esercitare alcuna forma di egemonia, integrando parte degli interessi altrui nei propri calcoli strategici. Altrimenti non avrebbe tentato, con un certo provvisorio successo, di trasformare l’euro — la moneta concepita da francesi e italiani per abolire il marco — in un nuovo marco, a spese dei soci dell’eurozona. Non vuole perché la grande maggioranza dei tedeschi mira al proprio benessere e ai propri affari. Punkt. C’è molta “Grande Svizzera” nella “Grande Germania” che ossessiona i germanofobi. Almeno finché la maionese europea non finisce di impazzire.
La seconda soluzione è l’euronucleo, idea lanciata ventuno anni fa dall’attuale ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble. Una Confederazione Europea guidata da Berlino, con Parigi junior partner, più Benelux e qualche partner nordico o baltico, a cominciare dalla Polonia. Con noi italiani e altri periferici ridotti a satelliti, aggrappati alle Alpi per non affogare nel Mediterraneo. Oppure, nel caso più fortunato, con Roma riammessa in extremis nel club dell’Europa-Stato confederale, essendo finalmente riuscita a rimettere ordine in casa propria. Non riusciamo a concepire un’ipotesi più attraente per l’Italia e per il Vecchio Continente.
Infine, la guerra. L’ordinatore di ultima istanza, quando tutto il resto fallisce. Si obietterà che quasi nessun europeo (occidentale) ha voglia di farla, a differenza del 1914 e, in minor parte, del 1939. Eppure domenica scorsa, Hollande ha pronunciato la parola impronunciabile — “la guerre” — quale unica alternativa al fallimento dei negoziati sull’Ucraina. È bene che questo termine non sia più tabù. Perché fingendo che il pericolo, per quanto remoto, non esista, rischiamo di abbandonarci a una dolce deriva. Quasi che il disordine attuale possa prolungarsi impunemente all’infinito, senza suscitare gli spiriti animali che non cessano di abitare anche gli uomini di miglior volontà.

Repubblica 10.2.15
In quel febbraio del ’45 i veri sconfitti furono i sogni democratici dell’Est
Quando Stalin svelò il metodo “Contano solo i rapporti di forza”
di Massimo L. Salvadori


NEL corso della seconda guerra mondiale, quando ormai si profilava, dopo quella dell’Italia, la sconfitta della Germania e del Giappone, le potenze alleate — Usa, Gran Bretagna e Urss — si trovarono nella necessità di affrontare e risolvere non soltanto le questioni militari, ma anche i problemi relativi alla futura sistemazione politico-territoriale del mondo. Gli accordi tra le potenze non potevano non riflettere i rapporti di forza che andavano a mano a mano stabilendosi tra di esse. La conferenza di Yalta era stata preceduta da quella di Teheran fra il 28 novembre e il primo dicembre 1943, dove era già emersa la relativa posizione di secondo piano della Gran Bretagna. Qui era stato deciso che l’apertura del “secondo fronte” sarebbe avvenuta in Francia e non nei Balcani come invece chiedeva insistentemente Churchill e si erano delineate, seppure in maniera non ben definita, le sorti della Germania e della Polonia. Ancora precedente a Yalta era stato l’incontro nell’ottobre 1944 di Churchill con Stalin, in cui i due leader avevano siglato su un foglio le percentuali della loro influenza in Romania, Bulgaria, Jugoslavia e Grecia, senza tener conto alcuno della volontà e degli orientamenti politici dei popoli coinvolti.
La conferenza di Yalta, che si svolse dal 4 all’11 febbraio 1945 e che come quella di Teheran vide riuniti Roosevelt, Churchill e Stalin, fu fortemente condizionata dalla marcia inarrestabile delle truppe sovietiche verso Occidente. L’orientamento del primo era di cercare un’intesa con i sovietici atta a garantire in futuro la pace internazionale; quello del secondo di salvare l’integrità dell’impero britannico; quello del terzo di assicurare al suo paese la piena sicurezza mediante il controllo sull’Europa orientale. Le principali decisioni prese furono: 1) la divisione della Germania, dopo la fine della guerra, in quattro zone di occupazione, una delle quali, assegnata alla Francia, sarebbe stata ricavata da quelle affidate alla Gran Bretagna e agli Usa; 2) la totale smilitarizzazione del paese vinto; 3) la sua denazificazione; 4) il pagamento di ingenti riparazioni, richiesto ai vinti con vigore dall’Urss, che era stata letteralmente devastata dagli occupanti tedeschi; 5) la definizione delle frontiere della Polonia e un accordo, rimasto nel vago e del tutto ambiguo, riguardante il governo provvisorio polacco, da formarsi con esponenti sia filosovietici sia filo-occidentali; 6) la congiunta dichiarazione (già clamorosamente smentita dagli accordi Churchill- Stalin dell’agosto 1944) che i paesi liberati avrebbero dato vita a governi “responsabili di fronte alla volontà popolare” e fondati su “libere elezioni” (Stalin commentò: «Possiamo eseguirla alla nostra maniera. Ciò che importa è il rapporto di forze»); 7) la dichiarazione che l’Organizzazione delle Nazioni Unite sarebbe stata retta da un Consiglio di sicurezza, composto, oltre che da Usa, Urss e Gran Bretagna (i “veri grandi”), anche da Francia e Cina (“grandi” unicamente per concessione dei primi) e che soltanto il loro unanime accordo avrebbe consentito l’applicazione delle decisioni. Il che rappresentò un punto di forza per l’Urss, sola di fronte alle quattro potenze a ordinamento politico e sociale diverso dal suo; 8) l’impegno dell’Urss a entrare in guerra con il Giappone entro due-tre mesi dopo la capitolazione della Germania.
La conferenza di Yalta pose per aspetti decisivi le premesse di quella successiva di Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945), nella quale, avvenuta la resa tedesca, le potenze vincitrici sancirono quanto stabilito a Yalta circa la divisione della Germania in zone di occupazione (senza però dar seguito all’ipotesi presa in considerazione a Teheran di procedere alla formazione di più Stati tedeschi). Yalta e Potsdam da un lato costituirono un grande successo in particolare per l’Urss, che, nonostante futuri acuti contrasti con le potenze occidentali, fu in condizione di imporre il suo dominio imperiale sull’Europa Orientale; dall’altro segnarono la divisione sia della Germania sia dell’Europa in due sfere di influenza poste sotto gli ombrelli delle “superpotenze” americana e sovietica.

Repubblica 10.2.15
Yalta
di Henry Kissinger


D OPO la Conferenza di Yalta il giubilo fu generale. Riferendo al Congresso, Roosevelt sottolineò l’accordo raggiunto sulle Nazioni Unite, ma non le decisioni prese riguardo al futuro politico dell’Europa o dell’Asia. Quando la Conferenza di Yalta ebbe termine, si celebrò solo l’alleanza del tempo di guerra; le incrinature che in seguito l’avrebbero fatta crollare non erano ancora visibili. La speranza regnava ancora sovrana e “Zio Joe” (Stalin, ndr) veniva considerato come un socio che non creava complicazioni. Il tema che l’occupante del Cremlino fosse in cuor suo un moderato pacifico che aveva bisogno di aiuto per tenere a freno i suoi colleghi intransigenti fu per molto tempo una costante delle discussioni negli Stati Uniti. Ma Stalin era un maestro della Realpolitik, non un nobile cristiano. Questa guerra non assomiglia a quelle del passato; chiunque occupi un territorio impone anche il proprio sistema sociale.

Il Sole 10.2.15
È morto domenica a Roma, a 95 anni, il vicepresidente dell’Associazione Nazionale Partigiani
Massimo Rendina, partigiano della memoria
di Marco Mele


Bisogna evitare “l’interruzione della memoria”. Questa frase, pronunciata da Walter Veltroni alla Camera ardente in Campidoglio, in onore di Massimo Rendina, vicepresidente dell’Anpi nazionale, può rappresentare l’attività del Comandante Max, morto domenica a novantacinque anni. Fu proprio Rendina l’ideatore e l’anima della Casa della Memoria e della Storia in Trastevere.
Comandante partigiano - guidò la liberazione di Torino - e storico della Resistenza (scrisse il Dizionario della Resistenza Italiana nel 1995). Giornalista - dirige il Tg della rete nazionale della Rai dopo Vittorio Veltroni - e Docente di scienze delle comunicazioni. Per Massimo è stato fondamentale essere protagonista degli eventi senza esserne in balia ma, allo stesso tempo, analizzarli, comunicarli, affidarli al futuro, ai giovani.
Sempre coerente e intransigente sui valori della Resistenza e dell’antifascismo, non aveva certo paura di passare per eretico. Cristiano, entra nella Brigate Garibaldi e nel Pci. Salvo uscirne, «ma senza drammi, eravamo tutti amici. Decisero di espellermi, ma fu una cosa pacifica», perchè denuncia come il Partito fosse acquiescente verso l’Unione Sovietica. Non senza aver fatto in tempo a stampare a Torino la prima edizione dell’Unità clandestina, insieme a Giorgio Amendola.
Comincia a fare il giornalista al Resto del Carlino, a Bologna, insieme ad Enzo Biagi, conosciuto nel 1939. Inviato al fronte russo, rientra in Italia per malattia, entra nelle Brigate Garibaldi, dove diventa prima comandate di brigata e poi capo di stato maggiore; viene ferito gravemente.
Nell’immediato dopoguerra, con la vittoria della Dc nel 1948, fu tra gli organizzatori di alcune imprese vicino alla goliardia, «per recuperare la giovinezza perduta», ma anche per infrangere i tabù del conformismo. Tra queste, il rapimento della Secchia rapita da Modena, con tanto di processo e assoluzione e con ritorsione dei modenesi contro l’Università di Bologna. Giuseppe Dozza, “il sindaco”, costretto a intervenire per evitare il peggio. O la marcia per occupare San?Marino, in parte vestiti da garibaldini, in parte da antichi romani, bloccata dai carabinieri, tra le risate generali.
Alla Rai, Massimo Rendina è il secondo direttore del Telegiornale dopo Veltroni. Troppo indipendente, viene rimosso con il governo Tambroni. Dopo Piccioni sarà proprio Enzo Biagi a prenderne il posto. Odiava chi faceva la vittima: “non lo sono stato: mi hanno aumentato lo stipendio e nominato condirettore centrale”. Da responsabile delle tecnologie Rai lancia la ricerca e lo sviluppo di nuove modalità trasmissive, dal Televideo al satellite.
La piazza era la sua seconda casa e non solo il 25 aprile. Massimo Rendina non è mai stato uno che si chiudeva o che si poteva chiudere in una stanza, con una poltrona. Da giornalista partecipa all’attività della Federazione Nazionale della Stampa, si candida alle elezioni, va ai congressi, litiga e si batte contro ogni censura, per l’autonomia dell’informazione.
Va nelle scuole a raccontare la Resistenza e il dopoguerra, organizza eventi multimediali alla Casa della Memoria. Un piccolo ricordo personale: Rendina presenta, insieme a Marino Sinibaldi, nel 2001, il libro L’Ora del ritorno, di Stefano Tassinari, scrittore ferrarese, ma bolognese d’adozione, scomparso prematuramente. La storia di un partigiano tradito. Rendina viene e se va a piedi, e ha già più di ottant’anni. Continua a camminare, Massimo.

La Stampa 10.2.15
Depressione: un’utopia la risonanza magnetica
Le tecniche di imaging cerebrale funzionano
Impossibile però pensare di utilizzarle sempre per verificare l’effetto della psicoterapia
di Daniele Banfi

qui

lunedì 9 febbraio 2015

Corriere 9.2.15
Shoah, ecco l’anno zero di Heidegger
Dopo i Quaderni neri. La pubblicazione dei testi dove lo sterminio dregli ebrei è definito un autoannientamento segna una svolta
Che rilancia la necessità di interrogare a fondo il pensiero del filosofoi, senza dividersi tra fan e avversari
di Donatella Di Cesare


Q ualcuno definisce già il 2014 l’anno zero di Heidegger. L’affermazione è azzardata. Ma certo l’uscita dei Quaderni neri segna nel confronto con il pensiero del filosofo tedesco una svolta la cui portata e i cui esiti non possono oggi essere previsti. Tanto più che la pubblicazione è ancora in corso e il prossimo volume, che va dal 1942 al 1948, è atteso in Germania ai primi di marzo. Proprio per questo è indispensabile evitare le reazioni emotive, i giudizi precipitosi e sommari. Per quanto sia estremamente difficile, occorre invece continuare a interrogarsi e, anzi, mantenere aperte le domande. Serve, insomma, l’esercizio della filosofia.
D’altronde qui non si parla di un dettaglio biografico né di un «errore politico». In tal senso la questione è ben diversa da quella sollevata da Victor Farías e, anni più tardi, da Emmanuel Faye. I Quaderni neri sono testi scritti da Heidegger che ne aveva progettato la pubblicazione. E per di più sono testi strettamente connessi con la sua opera. Il nodo è filosofico . Dissento perciò dalla dichiarazione che ha rilasciato Gianni Vattimo all’«Ansa», perché se Heidegger cede alla metafisica nel definire gli ebrei e l’ebraismo — come io stessa ho indicato nel mio libro — quel che dice nei Quaderni neri non può essere derubricato a dottrina, da tenere separata dalla filosofia. Non sarà più possibile nel futuro, per qualsiasi studio critico, far finta che quest’opera non esista.
Se oggi possiamo leggere i Quaderni neri è grazie anzitutto al lavoro editoriale di Peter Trawny e alle sue riflessioni contenute nel volume Heidegger und der Mythos der jüdischen Weltverschwörung (Heidegger e il mito del complotto ebraico), che sta per essere pubblicato da Klostermann nella terza edizione. Decisivo è stato il convegno Heidegger et les «juifs» organizzato a Parigi, tra il 22 e il 25 gennaio scorso, da Joseh Cohen e da Raphael Zagury-Orly, che sono riusciti nell’ardua impresa di far discutere filosofi molto diversi: da Peter Sloterdijk a Alain Finkielkraut, da Maurice Olender a Bernard-Henri Lévy. Al di là dei singoli importanti contributi, è emersa l’esigenza di proseguire la discussione critica senza cadere in preclusioni o chiusure affrettate.
Più frastagliato appare il panorama della filosofia tedesca, ancora profondamente segnata dalla rimozione del nazismo e meno disposta a parlare apertamente di Auschwitz e della «questione ebraica». Ma rifiutare d’improvviso Heidegger, come ha fatto di recente Günter Figal, dimettendosi dalla carica di presidente della Società Martin Heidegger, non vuol dire forse eludere il confronto con quel che è accaduto solo qualche decennio fa?
Se nei Quaderni neri che sono stati pubblicati (i volumi 94-96 delle opere complete) è venuto alla luce, in tutta la sua rilevanza, l’antisemitismo metafisico, nei quaderni che stanno per uscire (il volume 97) è cancellato per sempre il silenzio sulla Shoah. Nello sterminio — come ho sottolineato nell’articolo uscito ieri su «la Lettura» — Heidegger vede un autoannientamento degli ebrei. «Solo quando quel che è essenzialmente “ebraico”, in senso metafisico, lotta contro quel che è ebraico, viene raggiunto il culmine dell’autoannientamento nella storia».
In una delle sue lezioni talmudiche Emmanuel Lévinas, allievo di Heidegger a Friburgo, ha detto che si potrebbe perdonare «chi abbia parlato senza coscienza». Ma le cose stanno diversamente quando si tratta di un «geniale Rav», un maestro chiamato a un grande destino. «Si possono perdonare molti tedeschi, ma ci sono tedeschi a cui è difficile perdonare. È difficile perdonare Heidegger». Queste parole, che assumono ora un significato ancor più profondo, non esimono tuttavia dal compito di studiare attentamente le pagine di Heidegger e di guardare alla Shoah in una prospettiva inedita. Perché la Shoah non è solo una questione storica, ma è una questione filosofica che coinvolge direttamente la filosofia. Le responsabilità di una lunga tradizione di pensiero devono essere ancora accertate e discusse. Così come la storia dell’antisemitismo nella filosofia attende ancora di essere scritta. Si presume spesso di sapere che cosa sia l’antisemitismo, che cosa sia la Shoah. Soprattutto in Italia questo ha dato luogo a confusioni pericolose e a sterili polemiche, come quelle suscitate nel giorno della memoria. Certo che, come diceva già Primo Levi, ci sono state genocidi sia prima, sia dopo Auschwitz. Se i paragoni sono necessari, perché la Shoah fa parte della storia, occorre tuttavia guardare alle peculiarità di un annientamento che ancor oggi sfuggono. Nei campi di sterminio — che vanno distinti dai campi di concentramento o di lavoro — l’industria della morte lavorava giorno e notte per la «soluzione finale», cioè per eliminare il popolo ebraico dal pianeta. Le camere a gas sono state il luogo incancellabile di un progetto sistematico di «depurazione».
Ma lo sterminio è stato senza precedenti anche perché non era mai avvenuto che si uccidesse in una catena di montaggio. Il processo di industrializzazione della morte, che assunse la precisione quasi rituale della tecnica, trovò nell’uso del gas un cambiamento di qualità. Le gassazioni su scala industriale hanno introdotto l’anonimato dei carnefici di fronte alle vittime senza nome e hanno consentito la frantumazione della responsabilità. Non è un caso che l’etica sia stata uno dei grandi temi dopo la Shoah. I principi che la filosofia ha ritenuto validi non hanno retto alla prova di Auschwitz, dove il limite etico ha perso ogni senso di fronte alla degradazione dell’umano, alla privazione della dignità, non solo della vita, ma persino della morte.
Pensare dopo Auschwitz significa uscire da una sintassi autistica per avviarsi non verso una libertà astratta, bensì verso una liberazione che, come quella dell’esodo, si realizza ogni volta con l’altro. L’esodo è il passo in fuori compiuto da un sé consapevole di essere sempre preceduto dall’altro che lo interroga, a cui è chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria, ma perché è in quel volgersi che si costituisce come io, senza altra possibilità di scelta. E come l’altro precede il sé, così la responsabilità precede la libertà. Questa inversione del cammino è la sovversione ebraica che ha segnato la rottura nell’asse dell’Essere.
Non è, dunque, neppure un caso che a rilanciare, nella seconda metà del Novecento, la questione della responsabilità siano stati i filosofi ebrei, da Hans Jonas a Hannah Arendt e a Günther Anders, da Emmanuel Lévinas a Jacques Derrida, tutti allievi diretti o indiretti di Heidegger. Come spiegarlo? E sarebbe immaginabile il loro contributo senza il suo pensiero? Queste domande restano aperte. Ma una precisazione è indispensabile. Leggere Heidegger, confrontarsi con le frasi inquietanti dei Quaderni neri , non significa aderire a quel che ha scritto. La filosofia non è — come alcuni credono — un match calcistico, la sfida di una squadra contro l’altra; non si riduce al pro e al contro. Chi filosofa sopporta la complessità e abita nel chiaroscuro della riflessione.

Corriere 9.2.15
Bibliografia
I taccuini postumi contengono la giustificazione dell’antisemitismo


Il passo in cui Martin Heidegger si riferisce alle persecuzioni naziste come a un «autoannientamento» ( Selbstvernichtung ) degli ebrei si trova nel quarto volume dei Quaderni neri , che sarà pubblicato all’inizio di marzo in Germania dall’editore Klostermann. Negli anni Settanta il filosofo consegnò all’Archivio di Letteratura tedesca di Marbach sul Neckar 34 quaderni rilegati con una tela cerata nera, disponendo che fossero pubblicati a conclusione delle sue Opere complete ( Gesamtausgabe ). Essi contengono riflessioni filosofiche annotate da Heidegger tra il 1931 (manca un quaderno risalente al 1930) e il 1969. Una prima parte di questi Quaderni neri , relativa al 1931-1941, è uscita lo scorso anno in Germania a cura di Peter Trawny, suscitando forti polemiche per alcuni brani antisemiti: si tratta dei volumi 94, 95 e 96 delle Opere complete . In Italia li sta traducendo Alessandra Iadicicco per Bompiani: un primo volume uscirà in settembre, gli altri due nel 2016, all’interno della collana «Il pensiero occidentale». Il volume in arrivo presso Klostermann, curato sempre da Trawny, è invece il 97 delle Opere complete e include i Quaderni neri dal 1942 al 1948. All’analisi dei primi tre volumi Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica e vicepresidente della Martin Heidegger Gesellschaft (Società Martin Heidegger), ha dedicato il saggio H eidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri» , pubblicato nello scorso autunno da Bollati Boringhieri (pagine 352, e 17) . I contenuti del libro sono stati anticipati dall’autrice sulla «Lettura» del 2 novembre 2014. (a. car.)

Corriere 9.2.15
Tweet e condivisioniLo «choc» va in Rete Ma Vattimo lo difende


«Choc», «svolta»: dopo le rivelazioni sul pensiero di Martin Heidegger sono queste, sul web, le parole più ricorrenti. A suscitare reazioni è la tesi del filosofo secondo cui gli ebrei «si sono autoannientati», riportata ieri su «la Lettura», il supplemento del «Corriere», dalla studiosa Donatella Di Cesare. Rilanciata dal sito Corriere.it, la dichiarazione ha ottenuto grande popolarità in Rete (hashtag: #Heidegger ). Tra le reazioni quella del filosofo Gianni Vattimo che ha «difeso» Heidegger: «Ha sempre creduto di non essere corresponsabile con il nazismo». Per Vattimo ha sbagliato filosoficamente («un errore concettuale») ma non ci sono sufficienti ragioni per ritenerlo «un apologeta dello sterminio». (s.col.)

Il Messaggero 9.2.15
La polemica
Heidegger l’antisemita e i conti aperti con la Storia
di Massimo Adinolfi


Come ha dimostrato Donatella Di Cesare nel suo recente libro su Heidegger e gli ebrei, l'antisemitismo del filosofo di Messkirch e la sua adesione al nazismo non possono essere considerati semplici accidenti. Gli episodi pubblici, del resto, e il profilo biografico di Heidegger sono noti ormai da molto tempo e non lasciano adito a dubbi. Ma la pubblicazione dei Quaderni Neri (progettata dallo stesso filosofo) aggiunge altre tinte a un quadro già fosco e obbliga a riaprire la discussione. Nell'ultimo volume, che sta per vedere la luce in Germania, Heidegger parla infatti della Shoah come dell'«autoannientamento» degli ebrei. Finora Heidegger era stato attaccato per il suo silenzio sull'immane genocidio: ora siamo messi di fronte alle sue parole, e non è più possibile parlare di debolezze morali, di errori, pavidità o altro. Finora ci si chiedeva perché, anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, Heidegger non avesse mai preso le distanze pubblicamente dal nazismo e dal suo passato. Ora sappiamo che non era soltanto il suo passato, neanche dopo il '45, e che quelle distanze non le ha prese perché, in fondo, non c'erano. Per lui, la colpa degli Alleati, che avevano vinto la guerra, era persino maggiore dei crimini nazisti. E il fatto che l'antisemitismo di Heidegger non poggiasse su basi razziali probabilmente non diminuisce ma aumenta la responsabilità del suo pensiero.
Ma un conto è domandarsi come sia possibile che uno dei più grandi filosofi del Novecento abbia potuto condividere il destino politico del nazionalsocialismo; un altro è invece concludere in maniera sbrigativa che Heidegger, se dunque fu nazista, non fu affatto quel gran filosofo che si dice, come se la sua compromissione col nazismo inficiasse anche l'intero suo itinerario filosofico. O come se fra un Heidegger e un Goebbels alla fin fine non ci fosse poi tanta differenza. E come nessuno si sogna di leggere quest'ultimo, se non per ragioni strettamente storiche, così nessuno dovrebbe più leggere Heidegger, per lo stesso motivo. Ovviamente non è così, e una polemica condotta in tal modo rischia persino di essere fuorviante. Il rapporto fra vita e pensiero è esso stesso un problema filosofico, e non basta inorridire dinanzi alla prima per ritrarsi anche dinanzi al secondo.
In certi casi ciò è evidente. Spesso ci si dimentica dell'antisemitismo di Gottlob Frege, uno dei padri della logica del '900, ma nessuno si sognerebbe di desumere dalle sue opinioni un giudizio sul suo lavoro di logico. Nel caso di Heidegger la faccenda è più complessa ed anche più scabrosa, non solo per il tempo in cui Heidegger ha vissuto e per i giudizi che ha reso, quanto piuttosto perché diversa è la modalità con cui si annodano nel suo pensiero il piano storico-esistenziale e quello concettuale. Ma purtroppo per sciogliere questo nodo non basta vedere quale funesta prova abbia dato di sé il pensatore della Foresta Nera.
Infine, il nazismo di Heidegger non è sufficiente nemmeno per dare un giudizio liquidatorio su quei versanti del pensiero europeo del dopoguerra che hanno largamente attinto alla sua lezione filosofica. In Italia Gianni Vattimo è stato tra i primi a discutere Heidegger, sdoganandolo - come si dice - a sinistra, e ora quasi si risente per tutte queste polemiche. Ma non c'è bisogno di minimizzare né di sentirsi chiamati in causa. È sufficiente invece far presente che, se fosse solo questione di cattivi maestri, forse non dovremmo più aprire alcun libro di filosofia, o quasi.

Il Mattino 9.2.15
Heidegger, nazista l’uomo non il filosofo
Vattimo e Severino giudicano i Quaderni neri in cui si sostiene che gli ebrei si sono autoannientati
di Guido Caserza

qui

Bergamo Sera 9.2.15
Heidegger: gli ebrei si sarebbero autosterminati
di Redazione

qui

Corriere 9.2.15
Rendina, il giornalista che combattè in montagna
Capo partigiano, è morto a Roma
Negli anni ‘50 guidava il Tg Rai: Tambroni non lo voleva, Moro lo salvò
di Antonio Carioti


Ai tempi della Resistenza, in Piemonte, si faceva chiamare Max il Giornalista, oppure Max Manara, perché da parte di madre tra i suoi antenati c’era l’eroe del Risorgimento Luciano Manara. Massimo Rendina, vicepresidente nazionale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, è scomparso all’età di 95 anni. Era un personaggio simbolo della lotta partigiana, sia perché aveva partecipato con coraggio alla lotta di Liberazione, sia perché poi, da giornalista, saggista e dirigente dell’Anpi, si era impegnato a difenderne e diffonderne i valori, con pubblicazioni come il Dizionario della Resistenza italiana (Editori Riuniti, 1995) e il saggio Italia 1943-45. Guerra civile o Resistenza? (Newton, 1995). Era stato anche direttore del Telegiornale Rai, all’epoca unico, tra il 1956 e il 1959.
Nato a Venezia il 4 gennaio 1920, Rendina era studente universitario a Bologna quando scoppiò la guerra. Richiamato alle armi, partecipò come sottotenente alla campagna di Russia. «Mi salvò il tifo petecchiale» avrebbe raccontato poi nel film documentario a lui dedicato «Il comandante Max», diretto dal regista Claudio Costa nel 2011: infatti la malattia, contratta in Urss, gli consentì di tornare in Italia nell’autunno del 1942, mentre il suo reparto venne annientato dai sovietici nel successivo dicembre. Alla caduta del regime mussoliniano, nel luglio 1943, lavorava al Resto del Carlino e dopo l’8 settembre rifiutò di collaborare con il direttore nominato dalle autorità fasciste della Rsi.
Trasferitosi in Piemonte, Rendina prese contatto con Corrado Bonfantini, futuro comandante delle brigate partigiane socialiste Matteotti, e organizzò una squadra armata di giovani, chiamata «La Barca». Quindi decise di salire in montagna, dove assunse un ruolo di primo piano nelle formazioni Garibaldi, legate al Partito comunista, come capo di stato maggiore della 19ª brigata Giambone e poi nella 103ªābrigata Nannetti, di cui fu comandante e in seguito capo di stato di maggiore. Nel frattempo suo zio, il colonnello Roberto Rendina, veniva ucciso dai nazisti nel massacro delle Fosse Ardeatine.
In prima fila nella liberazione di Torino al fianco di Giorgio Amendola, nel 1945 Rendina cominciò a lavorare come giornalista nell’edizione piemontese del quotidiano comunista l’Unità , ma poi abbandonò il Pci e si avvicinò al mondo cattolico organizzato e in particolare alla sinistra democristiana. Entrato alla Rai, direttore del Telegiornale, fu amico di Benigno Zaccagnini e di Aldo Moro, che gli venne in soccorso nel 1960 — raccontava — quando il capo del governo Fernando Tambroni cercò di escluderlo dal servizio radiotelevisivo pubblico.
Molto attivo nell’Anpi di Roma, Rendina ne aveva guidato per dodici anni il comitato provinciale, poi ne era rimasto presidente onorario. Tra gli ideatori della Casa della Memoria e della Storia, partecipava con assiduità agli incontri con i ragazzi nelle scuole. Lo ricordano con affetto e commozione il capo dello Stato Sergio Mattarella, la presidente della Camera Laura Boldrini, il sindaco della capitale Ignazio Marino, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, l’ex segretario del Pd Walter Veltroni, il presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia, il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche Renzo Gattegna.

Corriere 9.2.15
Mussolini e Stalin, qualche affinità elettiva
risponde Sergio Romano


Chi è stato spettatore della plateale ostilità reciproca tra comunisti e fascisti negli Anni 50 e 60 sarebbe indotto a ritenere che i rapporti tra l’Italia del Ventennio e l’Urss siano stati pessimi. In realtà invece i rapporti tra Mussolini e Stalin non sono stati così brutti come si sarebbe potuto immaginare. Non so se si debba attribuire la precedenza nel riconoscimento dell’Unione Sovietica all’Italia, avvenuto il 7 febbraio 1924, che comportò la stipula di un trattato di commercio e navigazione, in quanto la Repubblica di Weimar aveva già stretto con il regime bolscevico il trattato di Rapallo del 16 aprile 1922, prima che il nuovo Stato avesse assunto il nome di Urss. Il riconoscimento di Francia ed Inghilterra avvenne successivamente a distanza di qualche mese. Dobbiamo attribuire il fatto a interesse economico o alla stima reciproca dei due dittatori ?
Antonio Fadda

Caro Fadda,
La Gran Bretagna riconobbe la Russia sovietica l’1 febbraio 1924 e precedette l’Italia di una settimana; mentre il riconoscimento francese venne più tardi, il 28 ottobre dello stesso anno. Ma è certamente vero che nei rapporti italo-sovietici vi furono da allora fasi molto positive come il patto di non aggressione del 2 settembre 1933. Quanto ai rapporti personali fra i due dittatori posso dirle che il giudizio di Mussolini su Stalin fu molto spesso rispettoso e alquanto diverso dalle sue opinioni sui partiti comunisti europei. Gli piaceva probabilmente la sua energia, l’abilità con cui aveva conquistato il potere; e provava una certa ammirazione per il modo in cui l’Urss, sotto la sua guida, aveva rovesciato le sorti della guerra.
Fra le note diffuse da «Corrispondenza Repubblicana» (l’agenzia del ministero della Cultura popolare di cui il capo della Repubblica sociale italiana si serviva per commentare i fatti della politica internazionale), ve n’è una del 5 febbraio 1944 in cui Mussolini commenta il discorso con cui Molotov, allora ministro degli Esteri, aveva annunciato una riforma federale dell’Urss. Le repubbliche sarebbero state indipendenti e ciascuna di esse avrebbe avuto il proprio esercito e le proprie rappresentanze diplomatiche.
Quelle promesse non vennero mantenute e ne rimase soltanto una traccia, più formale che sostanziale, nel seggio all’Onu che Stalin riuscì a conquistare, durante la conferenza di Yalta, per l’Ucraina e la Bielorussia. Ma a Mussolini servirono per elogiare il realismo di Stalin, «degno allievo del maestro Clausewitz», e per contrapporre la lungimiranza dell’Urss ai disegni conservatori delle democrazie anglosassoni. Sappiamo che Mussolini, nell’ultima fase della guerra, sperò che Germania e Italia facessero una pace separata con l’Unione Sovietica per meglio continuare a combattere contro le «odiate» democrazie. La nota diffusa da «Corrispondenza Repubblicana» era probabilmente uno dei segnali che il leader della Repubblica di Salò cercò di mandare a Mosca. Ma a Stalin, in quel momento, interessava soprattutto l’apertura di un secondo fronte: un desiderio che gli Alleati esaudiranno di lì a poco con lo sbarco in Normandia del giugno 1944.

La Stampa 9.2.15
Mio fratello Beppe, esiliato in casa
Tra affetto e nostalgia, la sorella dello scrittore rievoca gli scontri tra l’autore delPartigiano Johnny e la madre che lo avrebbe preferito impiegato
di Marisa Fenoglio


Nostra madre fu la donna che fece studiare i figli del macellaio. Aveva dato ascolto alle parole del maestro delle elementari: «Faccia studiare i suoi due figli» (io non ero ancora nata), le disse senza preamboli, entrando in negozio, «sono ragazzi intelligenti e dietro un banco di macellaio sarebbero sprecati!».
Erano gli Anni Trenta del secolo scorso, un periodo in cui andare controcorrente dal banco di una macelleria richiedeva forza d’animo e convinzione. Sapeva veder lontano, nostra madre, e per questa sua modernità noi figli facemmo il salto di una generazione. Già a noi si dischiusero le porte del liceo e dell’università. [...]
Il vento avverso
Dopoguerra, anni drammatici. In casa nostra soffiava un vento avverso, per l’incombere di una precarietà economica dovuta al calo di clientela, per un’ansia generale sulle serie crisi di salute di nostra madre e, soprattutto, per quello scarto, instauratosi tra lei e i figli, e sentito così dolorosamente, per quel salto sociale che a lei non era mancato il coraggio di fare, ma di cui ora doveva subire le conseguenze. Era lo spiazzamento a umiliarla, quel dover fare i conti con la cultura, con quella superiorità che ai suoi occhi automaticamente accompagnava chi aveva studiato, quel vedersi inadeguata al dialogo con i figli proprio per avergli messo in mano quell’arma contro cui lei si sentiva a priori perdente.
E allora il cuore le batteva tumultuosamente, si premeva una mano sul fegato, si graffiava le braccia, rosse come il fuoco per l’eczema...
Fu proprio in quei primi anni del dopoguerra che le vie, le aspirazioni, i traguardi dei miei due fratelli si divaricarono completamente.
Walter, bello, fascinoso, spavaldo, di grande intelligenza dialettica, dopo aver vinto un concorso alla Fiat percorse vittorioso le tante tappe della gerarchia di quell’azienda. Uscì presto dalla cerchia della famiglia, emancipato fisicamente e finanziariamente. Incarnava nel modo più fulgido i sogni di ascesa sociale e di sicurezza economica di nostra madre.
Beppe, invece, rimase in casa, chiuso in una sua fertile solitudine, in un creativo isolamento, ma da esiliato in famiglia. Ho visto Beppe avviarsi sulla via faticosa dello scrivere.
Infinita lontananza
I pasti a casa nostra erano sempre silenziosi. Nostro padre, dopo una giornata di lavoro in macelleria, li divorava, mentre mio fratello Beppe li vedeva soprattutto come occasioni di lettura… che noi ci guardavamo bene dal disturbare. Seduto al suo posto a tavola, di fronte a mia madre e a me, mangiava alla cieca perché teneva gli occhi fissi sul libro che di volta in volta leggeva, pescando a caso con la forchetta nel piatto che noi due tenevamo d’occhio fosse sempre pieno: preoccupate di garantirgli una nutrizione bastante e variata che sopperisse alla sua assoluta indifferenza al cibo. Mai che decantasse una pietanza, che rimembrasse una leccornia, che si stropicciasse le mani in vista di un buon pranzo…
E ti ho visto tornare a casa alla sera, Beppe, gravido di pensieri da mettere sulla carta, ritirarti nell’unica camera un po’ enucleata dal resto dell’alloggio, da cui giungevano quei tre segni della tua presenza in casa: il fumo delle sigarette, i colpi di tosse e il battere dei tasti della macchina da scrivere. Scrivevi, per ore, ininterrottamente, e nel cuore della notte quelle tue boccate avide e appagate di fumatore impenitente, più silenziose della tosse ma scandite come il battere dei tasti della macchina da scrivere, mi davano intera la sensazione della tua concentrazione, ma anche della tua infinita lontananza da casa nostra.
Scriveva e fumava
Beppe scriveva e Beppe fumava. Le due cose insieme erano più che sufficienti per far dire a nostra madre che Beppe conduceva vita dissoluta. Fumare costava, era un vizio esecrabile e quantificabile.
Per quelle 40 o 50 sigarette al giorno (ma quante erano in verità?) scoppiavano le liti più devastanti. Mio padre al loro annunciarsi chiudeva porte e finestre per via dei vicini, e se la svignava dal tabaccaio in piazza. Io restavo, in tumulto, tra loro due che si affrontavano in cucina come duellanti in un territorio prefissato. I soldi e il fumo ne erano lo spunto, ma erano scontri esistenziali tra due persone che parlavano lingue diverse.
A forze sfinite, a furia sfogata, tu, Beppe, abbandonavi il campo, prendevi per via Maestra, ritrovavi il bar Savona e non vedevi…
Ma nostra madre, dopo ognuna di quelle lotte, la casa muta dopo tutto quel fragore, restava seduta per ore su una sedia, a guardare davanti a sé, lei così attiva… come sfiancata da una fatica immensa. E poi… lo sai, a stento, dopo giorni, si ricominciava…
Uno sguardo di sfida
Avevi trovato un impiego alla ditta Marengo, produttrice di vermut e di spumante. Non fu una scelta tua (l’unica cosa che tu volevi veramente era scrivere!). Ma di lei, che ti voleva al sicuro, seduto dietro una scrivania, con precisi orari di ufficio. Convincerti non fu facile… e tu, nei primi mesi, al tuo rientro in casa alla sera, gliela facevi pagare cara… a modo tuo…
Avvicinandoti incrociavi uno sguardo di sfida con lei, ancora seduta alla cassa del negozio, poi ti infilavi nel portone, abbordavi le scale e salendo gridavi, mugolavi, inveivi, in un misto di rabbia, di rancore, di impotenza, altrimenti non esprimibili. Tutta la casa entrava in allarme. I vicini sparivano, in macelleria le clienti tenevano il fiato. Arrivava tutto anche a me, fin lassù, nell’alloggio dell’ultimo piano, dove spesso a quell’ora davo ripetizione di latino a una ragazza di poco più giovane di me, rimasta ad Alba dopo lo sfollamento da Torino. Facevamo finta di non sentire. Ma dentro di me ero sconvolta, e sapevo che in quello stato dovevo poi scendere le scale, bussare per entrare in casa… e fare come se niente fosse.

Beppe Fenoglio nacque ad Alba il 1º marzo 1922 e morì a Torino, per un tumore ai bronchi, il 18 febbraio ’63

Repubblica 9.2.15
Da “Duce mia Luce” all’odio antisemita la marcia su Facebook dei 150mila fascisti
L’ultimo caso sono gli insulti a Mattarella per la visita alle Fosse Ardeatine
Ecco i gruppi sul web in bilico tra nostalgia e illegalità, ma tollerati dal social network
di Carmine Saviano


ROMA Sono da poco passate le 16 del 31 gennaio scorso. Sotto il cielo grigio di Roma un corteo di automobili di Stato si appresta a entrare nel mausoleo che celebra i martiri della Fosse Ardeatine. Da una delle vetture scende Sergio Mattarella, eletto da poche ore dodicesimo presidente della Repubblica. Inizia il suo settennato così: ricordando chi è stato trucidato a sangue freddo dal nazismo e dal fascismo. Negli stessi istanti, sul web, va in scena una sfilata virtuale di insulti rivolti al nuovo Capo dello Stato, reo di iniziare il suo mandato dalla Resistenza: «È un partigiano, ho detto tutto», «ecco un altro mafioso ebreo». Gran parte di quelle offese provengono da una pagina Facebook, quella dei Giovani Fascisti Italiani. Sono in 134mila e si auto definiscono “Gruppo Fascista per la rinascita d’Italia”. La loro linea politica è sintetizzata da una citazione di Benito Mussolini, le parole d’ordine sono le solite: duce, rigore, potenza e così via sin dove quel vocabolario può giungere. Sono nati nel 2010, nel 2013 erano 60 mila e da subito non hanno coltivato solo nostalgia. Qui “guardano al futuro”, è un messianismo deformato e allucinato dove non si aspetta altro che «un nuovo capo», un «uomo forte», colui che sappia «restituirci l’onore»: «Dux Mea Lux, quando tornerai?».
E non sono i soli. La tana nera della rete è profonda. I social network ne sono solo l’ingresso, la punta visibile, quella più pervasiva. Per farsi un’idea basta cercare anche solo tra le “pagine amiche” che i Giovani Fascisti Italiani suggeriscono. Si va dai Camerati Italiani ai Fascisti del Terzo Millennio, dalla Falange Nera al Socialismo Mussoliniano. Poi il Movimento Fascismo e Libertà e il gruppo Dio, Patria, Famiglia. Ancora: Fiamma Nera, Orgoglio Fascista, Noi Fedelissimi dell’Italia e del Duce. Serbatoi di odio e rancore.
Perché Facebook consente la pubblicazione di questi contenuti che potrebbero prefigurare l’apologia di fascismo? «Siamo impegnati a mantenere il giusto equilibrio tra libertà di espressione e tutela della sicurezza e dei diritti delle persone. Non consentiamo, infatti, la pubblicazione di contenuti violenti, che incitano all’odio o comunque contrari agli standard della nostra community», risponde un portavoce di Facebook Italia. Resta da capire come sia possibile non considerare incitamento all’odio frasi come «gli zingari devono essere integrati nel cemento».
Ma quanto è estesa questa Rete Nera? Gli ultimi censimenti — come quello contenuto in Web Nero, ricerca di Manuela Caiani e Linda Parenti edita da Il Mulino nel 2013 — quantificano in circa cento i principali siti attivi in Italia. E qui si esce fuori dal virtuale: perché si tratta di associazioni, riviste, piccole case editrici, nuclei di skinheads che declinano la loro ideologia in quei territori dove il disagio sociale è assoluto. Se ci si sposta sul terreno dei blog, dei forum, dei negozi online nei quali è possibile acquistare ogni tipo di feticcio fascista, il numero diventa vago ma sale in maniera esponenziale. Tutto “liquido”, naturalmente, con pagine e contenuti che appaiono e scompaiono. La Federazione delle Associazioni dei Partigiani d’Italia ne ha contati circa un migliaio. Ma era il 2002. Oggi un numero certo non c’è.
C’è di sicuro un enorme spazio virtuale in cui i simboli della storia del fascismo e del nazionalsocialismo vengono utilizzati come carte d’identità: immagini attraverso cui si da una precisa raffigurazione politica di se stessi, forme e colori intorno a cui ci si riconosce. La Croce Celtica, le teste rasate, il doppio 8 che simboleggia le due H dell’Hail Hitler. La tigre di Evola, le parole di Pound e innumerevoli rivoli del fiume sotterraneo dell’antisemitismo.
In definitiva la questione diventa se la libertà d’espressione possa essere invocata per tutelare l’incitamento all’odio e alla discriminazione. Una questione essenziale per la giurisprudenza al tempo di internet. Ci si muove su un terreno scivoloso «quando ci si trova al confine tra il libero pensiero e parole che possono diventare armi pericolose», dice Carlo Blengino, avvocato ed esperto proprio nel campo della connessione tra diritto e internet. Il punto è il grado di pericolosità delle parole e delle immagini che vengono diffuse: quel confine appare spesso ampiamente superato e quei comportamenti prefigurano l’apologia di fascismo, un reato previsto dal nostro ordinamento. E se è sotto gli occhi di tutti, visto il carattere della rete, che «possiamo trovare siti di frustrati che inneggiano al fascismo», continua Blengino, e che non vanno oltre il loro status di attivisti da tastiera, è altrettanto innegabile che simili comportamenti, «un domani possono tornare a essere realmente pericolosi».

Repubblica 9.2.15
Osservazioni di Togliatti sui rapporti con i partiti
di Mario Pirani


TRA le nostre carte abbiamo reperito due manoscritti di Togliatti, uno rappresenta delle considerazioni, in forma di domande e risposte, sulla politica dell’allora governo di Unità Nazionale e l’altro è interessante soprattutto dal punto di vista della propaganda del partito e dei suoi rapporti con la direzione del Pci. Chi non è abituato alla lettura degli scritti togliattiani, potrà avere un piccolo spaccato di una visione politica di chi aveva partecipato alla ricostruzione del nostro Paese dopo la guerra.
Il primo dei due documenti contiene risposte manoscritte a sei domande su fogli riciclati, dattiloscritti sul retro, firmati in calce e datati Venezia, 14 settembre 1946: Che cosa pensa della crisi ministeriale in corso dopo le dimissioni Corbino? (Corbino era uno dei capi del Partito Liberale allora Ministro del Tesoro, ndr) «Non v’è una vera e propria crisi ministeriale, mi pare. Si tratta di sostituire Corbino, e non mi pare sia poi cosa così difficile».
Quale dovrebbe essere secondo il P. C. la politica e l’azione del Ministero del Tesoro?
«Applicare il programma del governo, cioè essere disciplinato al governo stesso, e quindi agli interessi di tutto il paese e non a quelli dei gruppi plutocratici che, nella loro visione egoistica esclusiva, tentano con tutti i mezzi di sabotare la ricostruzione nazionale».
È favorevole o meno, il P. C., a una unificazione dei dicasteri Finanze e Tesoro? «Nel momento presente no. E non solo per ragioni di equilibrio del gabinetto attuale. Soprattutto perché la concentrazione dei portafogli, oggi, significa che i vari ministri diventano i direttori generali, il contabile generale dello Stato, uomini, cioè che non hanno responsabilità politiche di fronte al paese».
Quali gli attuali rapporti col Partito Socialista?
«Francamente cattivi. Il patto di unità d’azione, di fatto, da alcuni mesi non funziona. È questa del resto una delle cause per cui le classi lavoratrici hanno visto e vedono diminuire l’efficacia della loro azione».
Che cosa pensa sul movimento comunista d’Italia (dissidenti, internazionalisti)?
«Alla sommità, qualche piccolo gruppo di sbandati e di provocatori, che non possono giocare nessuna parte nella politica, a patto che i partiti operai sappiano restare uniti e adempiere alla loro funzione di guida delle masse nella lotta per la ricostruzione del Paese».
Rapporti con la D. C. sono suscettibili di miglioramento nell’ambito della collaborazione governativa?
«Mi pare di sì; ma occorre una cosa: che i dirigenti democristiani liquidino nell’animo loro e nell’ispirazione della loro condotta il preconcetto spirito anticomunista, che avvelena i rapporti tra noi e loro. Non si può stare al governo coi comunisti e in pari tempo pensare che i comunisti sono qualcosa come dei banditi, uomini politici senza fede, antinazionali ecc. O anticomunismo o feconda collaborazione coi comunisti nell’interesse del popolo, ai democristiani la scelta ».
Nel secondo manoscritto commenta una proposta di propaganda: «A me non piace ed è proprio il tipo di propaganda che non mi va. Troppa letteratura, impostazione impressionistica e non di ragionamento logico. Serve per i già convinti che avran voglia di leggerlo, ma ci faran fatica! Chi vorrà farsi un’idea delle cose dovrà andare a cercare gli argomenti col lanternino, in mezzo alla zeppa letteraria, e naturalmente ne ritrarrà la impressione che noi facciamo della letteratura perché abbiamo qualcosa da nascondere. Non capisco perché non si possa scrivere qualcosa di semplice, chiaro, in ordine cronologico, con gli argomenti ben elencati, come in un atto di accusa. Ma queste cose nessuno le sa più fare. Son tutti letterati!
Inoltre mi pare sbagliata anche la impostazione. Io non tratterei i fatti come una ritorsione per Spataro (segretario della Dc, ndr.) ad esempio, perché questa impostazione contiene già in sé qualcosa di difensivo. Li tratterei come un attacco della reazione dc alla organizzazione operaia, alla solidarietà ecc. Tutto sommato, farei rifare con altro criterio.
P. s. Forse le mie critiche investono un poco tutto il ns. modo di fare la propaganda. Lo riconosco. La mia aspirazione è che i ns. propagandisti scrivano per la gente semplice. Guardate come sono scritti gli opuscoli dc contro di noi!» La ricostruzione di un Paese in ginocchio e con forti tensioni sociali, il rapporto con gli altri partiti, il governo di unità nazionale, il rapporto con le masse che si rappresentavano, la propaganda, che oggi verrebbe definita “comunicazione” con il Paese, sono temi di nuovo sul tappeto, naturalmente in condizioni storiche e geopolitiche completamente diverse, con soluzioni che oggi devono necessariamente essere differenti e che una generazione nuova è chiamata a interpretare.
Sebbene quelle considerazioni facciano parte della preistoria di una parte del panorama politico attuale, gettate su foglietti di carta ingiallita e riciclata da documenti in disuso, ci fanno ragionare sul modo di pensare in politica di un’altra generazione. Si può buttare nel cestino o farne tesoro.

Repubblica 9.2.15
La forza dei diritti
di Nadia Urbinati


GLI istituti di ricerca che misurano lo stato della democrazia nei Paesi occidentali segnalano un declino di fiducia dei cittadini nella capacità dei governi di determinare in meglio le sorti economiche dei loro Paesi. La crescita della corruzione e la perdita di legittimità dei partiti politici completano questo quadro piuttosto negativo. Evidenze empiriche, scrive Larry Diamond, di un decennio micidiale di «declino progressivo nell’attrazione verso la democrazia ». Decadenza, stagnazione, sfiducia rendono i governi occidentali perfino deboli competitori dei regimi autoritari, adagiati nella pratica del balbettio negativo del non possumus, quasi a sperare che i loro cittadini si adattino all’idea che diritti e principi debbano essere messi in deposito e non possano essere usati oggi. Sembra che il linguaggio dei diritti e dei principi costituzionali non si adatti ai tempi di crisi, che sia un lusso da rinviare a tempi migliori. Il pudore nell’uso di questo linguaggio è un indice della crisi che avvilisce le nostre società poiché sconfessa nella pratica quel che la democrazia promette: che i diritti siano guida del governo della vita materiale e dei bisogni. I diritti non sono sogni di visionari.
Il linguaggio dei diritti è il grano di utopia pragmatica del quale le società libere hanno bisogno affinché la politica non diventi una fotografia della stagnazione e i cittadini non vedano nello status quo l’unico orizzonte possibile. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente Sergio Mattarella ha reiterato, quasi a farne una litania, gli articoli della Costituzione. «Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza».
Il bisogno di “confermare” quel patto a noi stessi per primi, di leggere a voce alta quell’Articolo 3 che, a valutare lo stato della giustizia sociale, sembra più che una promessa una favola bella. E il Presidente lo ha letto proprio pensando che viviamo in un tempo di crisi, presentandolo come un volano per reagire. La politica che ci promette di trattare tutti e tutte con dignità di liberi e uguali non è una politica dei sogni; è una politica realistica, dotata di una bussola sicura e capace. Impegnarsi a togliere gli ostacoli che limitano la nostra libertà e eguaglianza vuol dire imprimere una svolta alla politica dell’austerità, cambiare rotta e seguire le coordinate delle eguali opportunità.
Il paradosso nel quale la crisi ci ha catapultato è far apparire rivoluzionario il linguaggio dei diritti sociali. Tsipras che attraversa l’Europa per ricordare ai suoi leader che le democrazie non sopravvivono se non sanno promettere alto che stagnazione, povertà e debiti, che l’austerità senza progetto confligge con le promesse delle costituzioni, non è più radicale del Presidente appena eletto. La democrazia è, essa, radicale. I leader che la impersonano non devono far altro che ricordarlo. Un promemoria che ci tenga svegli, disposti ad accettare di mettere in soffitta il discorso dei diritti, aspettando tempi migliori. E chi stabilisce quando i tempi saranno migliori?
Rimuovere gli ostacoli alla nostra libertà e eguaglianza è un lavoro dell’oggi, non di un futuro indefinito. Da quando le società hanno deciso di rinunciare alla violenza e di immettersi nel cammino della persuasione, lo slogan di battaglia ha rivestito i panni dei diritti fondamentali e delle promesse costituzionali. Non ha perso radicalità, ne ha anzi acquistata se è vero che pronunciarli fa apparire radicale un moderato.

Repubblica 9.2.15
I ragazzi di Podemos
Sono nati quando Franco era già morto. L’era di Gonzalez l’hanno vissuta da bambini. Si sono formati nei movimenti no global
Hanno fra 30 e 40 anni. Gli uomini e le donne di Pablo Iglesias si preparano a conquistare la Spagna: ispirandosi anche a Games of Thrones
di Cocita De Gregorio


BARCELLONA SONO nati che il dittatore era già morto. Venuti al mondo, in Spagna, a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta. Pablo Iglesias aveva 4 anni quando nel 1982 Felipe Gonzalez è diventato per la prima volta Primo ministro in un’ondata ineguagliata di entusiasmo popolare. Sua madre Maria Luisa, sindacalista, gli leggeva per addormentarlo le storie di Salgari e di Giulio Verne. Andavano al nido, o all’asilo, negli anni della transizione democratica. Hanno avuto vent’anni nel Duemila. Sono stati al G8 di Genova e alle adunate no global di Puerto Alegre nel 2001. Hanno manifestato contro il disastro ambientale causato dalla petroliera Prestige, 2002, e contro l’intervento in Iraq. Poi contro le banche che toglievano la casa ai senza casa. Hanno creato gruppi come Gioventù senza futuro, Generazione precaria, Democrazia reale adesso! Decine di blog con nomi tipo Rebelion.org. Infine si sono indignati tutti quanti l’15M, 15 maggio del 2011, ed erano milioni. Giovani e vecchi, insegnanti e studenti, imprenditori sull’orlo del fallimento e lavoratori di quelle imprese.
Gli attuali dirigenti di Podemos — Possiamo. Yes, we can — sono cresciuti alla scuola dell’attivismo di piazza, hanno militato in organizzazioni antagoniste della sinistra radicale, a volte riformista. Sbaglia chi li paragona al movimento Cinquestelle: a parte l’uso della Rete e la radice grassroot , movimenti di cittadini di base, sono assai più le differenze sostanziali delle somiglianze apparenti. Piuttosto il loro specchio è quello di Syriza: soprattutto perché Tsipras ha vinto e come hanno detto gli spagnoli: «Con loro riconquisteremo l’Europa, quella dei diritti e della dignità». Perché Podemos è un movimento radicato nella sinistra politica, al contrario dei grillini siede nel gruppo della sinistra all’Europarlamento, i suoi leader sono docenti universitari con un lungo passato di militanza. Vengono dalla contro-informazione, dalla gioventù comunista. Poi sono andati all’Università, i ragazzi e le ragazze della nidiata di “El Coleta”, Codino — così chiamano Pablo Iglesias Turriòn, il leader — e si sono tutti, quasi tutti laureati in Scienze politiche o in Filosofia. La generazione che potrebbe presto governare la Spagna nasce dall’incubatrice della Facoltà di Filosofia della Complutense di Madrid, una culla di pensiero non molto diversa da quello che fu la Facoltà di Sociologia di Trento negli anni Sessanta-Settanta.
Tempi diversi, ovviamente, diverse conseguenze. Tuttavia non si riesce a mettere a fuoco lo strabiliante e rapidissimo successo di Podemos se non si legge la radice ideologica e culturale del movimento. Che nasce dalla sinistra, e dall’università. Tutti, quasi tutti i leader anche locali sono docenti plurilaureati e dottorati, per quanto spesso precari. Hanno fatto gavetta nelle rivoluzioni sociali dell’America Latina. Avrebbero militato nei partiti della sinistra tradizionale se solo li avessero lasciati entrare: invece il Psoe (a volte Izquierda Unida) li ha chiusi fuori dai circuiti delle decisioni, li ha mandati a fare minoranza nei consigli di quartiere o oltreoceano. Col movimento zapatista in Messico, nella guerra per l’acqua in Bolivia, coi caracazos in Venezuela. Chavez e Morales i loro riferimenti politici. In conclusione dell’oceanica assemblea di Vistalegre, il 18 ottobre scorso, hanno suonato “L’estaca” di Lluis Llach, inno anti-franchista catalano scritto nel maggio ‘68. Come se in Italia si chiudesse un’assemblea politica fitta di venti e trentenni con “I treni per Reggio Calabria” di Giovanna Marini. Del resto Antonio Gramsci, Ernesto Laclau, Toni Negri e Slavoj Zizek sono i testi nelle loro biblioteche. Questi i riferimenti di el Coleta, insieme naturalmente a Game of Thrones ( Il Trono di Spade, n.d.r.).
Podemos si è presentata in pubblico per la prima volta il 17 gennaio 2014. Dopo 128 giorni, il 25 maggio, ha preso alle europee un milione e duecentomila voti, 5 deputati eletti. 128 giorni, una cosa mai vista. Ha seminato panico e condivisa ostilità in tutti i partiti dell’arco costituzionale. A novembre, un mese dopo l’assemblea dell’inno anti-franchista, i sondaggi li davano al 27 per cento, primo partito di Spagna. Il 4 febbraio, a Madrid, hanno invaso la Puerta del Sol. L’ultima previsione di voto, tre giorni fa, li vede al 27.7. Ancora il calo il Pp di governo di Mariano Rajoy, al 20.9. In caduta libera il Psoe del bel Pedro Sanchez, al 18.3. Alle prossime elezioni generali di novembre 2015 se non si fermano vincono. «Non ci fermiamo. Non siamo qui per fare testimonianza ma per governare», dice Iglesias. Il manifesto del suo pensiero, da settimane bestseller, si intitola “Vincere o morire. Lezioni politiche in Game of Thrones”. E’ ispirato alla serie tv, avverte una nota, non ai libri. E’ scritto a molte mani dai principali dirigenti di Podemos. Professori e ricercatori di filosofia e scienze politiche, appunto. Per capirsi, i titoli di qualche capitolo. Juan Carlos Monedero firma il saggio “Innamorarsi di un camminante delle nevi ma sposare un Lannister”. Monedero, classe 1963, è l’anziano del gruppo: politologo alla Complutense ed editore, già assistente di Chavez, ora conduce il talk “La Tuerka”, una cosa come ‘giro di vite’ con la kappa a segnalare antagonismo: è il programma che ha reso celebre Iglesias il quale tuttora, qualche giorno, lo conduce. Altri capitoli del saggio. Ruben Martinez Dalmau: “Un uomo molto piccolo può proiettare un’ombra molto grande. La legittimità del potere del re in Game of Thrones”. Hector Meleiro: “Perché Ned Stark perde la testa?”. Nella lunga prefazione lo stesso Iglesias spiega la musa ispiratrice di Podemos sia Daenerys Targaryen, Madre dei Draghi e Distruttrice di Catene. La regina Khaleesi insegna — scrive — che «né lignaggio né diritti dinastici né stirpe bastano da soli a dare legittimità. Libera gli schiavi e dice loro: non sono io che vi ho liberato, la libertà è vostra». Un manifesto, in sostanza. «Serve in chi governa la connessione con azioni esemplari. I governanti invece si comportano come Joffrey, che pensa che gli basti stare seduto sul Trono di Ferro per essere riconosciuto come legittimo rappresentante del potere. Sono trincerati, barricati nei loro uffici dentro le loro macchine blindate ». L’odiata casta. «Come in GoT anche nella nostra società si sono rotti i patti che garantivano pace e stabilità. Il potere è contendibile. La sfiducia cresce a ritmo esponenziale e ciascuno ha ogni giorno meno ragioni per obbedire ». E’ questo un linguaggio, un esempio che chiunque in quella generazione capisce. A destra come a sinistra. Le analisi dei flussi elettorali mostrano che il 17 per cento degli elettori di Podemos viene dal Ppe. Del resto Iglesias dice che «la parola sinistra impedisce a chiunque abbia avuto un nonno fucilato dai rossi di votare per noi», e la esclude. A destra e sinistra si sono sostituite nuove parole chiave: quelli di sopra e quelli di sotto. Il «99 contro l’1 per cento», come negli slogan di Occupy. Egemonia, legittimazione. Non classe operaia ma precariato. Il nuovo soggetto politico. Le indagini pubblicate dalle migliori riviste — La Maleta de Portbou una di queste — mostrano come in sei anni, dal 2008 al 2014, sia aumentato di 12 punti il precariato dei 30-40enni di istruzione medio superiore. Una generazione che non ha altro da perdere se non la sfiducia. La colonna vertebrale di Podemos, il cui slogan è «Trasformare l’indignazione in cambiamento politico». In governo, insomma. Qualche biografia aiuta a capire. Pablo Iglesias, 1978. Un nonno condannato a morte dal franchismo, poi graziato, un altro fondatore dell’Ugt, sindacato paragonabile alla nostra Cgil. Prime esperienze nella gioventù comunista, movimento no global, Izquierda unida. Laurea in giurisprudenza e scienze politiche, master in comunicazione. Un anno all’università di Padova, in contatto con Luca Casarini. Fa carriera accademica e insieme conduce un programma in tv, La Tuerka, che lo lancia come leader. La sua compagna, Tania Sanchez Melero, 1979, è stata fino al 4 febbraio deputata per Izquierda Unida. Ha abbandonato il gruppo per «creare una nuova formazione politica», vedremo quale. Anche lei, come il compagno con la coda di cavallo, viene dai movimenti: ha un passato punk di cui il piercing al labbro re- sta testimone. Teresa Rodrigues, 1981, andalusa, è stata eletta all’Europarlamento dove indossa d’abitudine maglie Free Palestine. Laureata in filologia araba viene dal mondo delle proteste anti-Nato, attivista di Marea verde. Il suo film preferito è ‘Terra e libertà’ di Ken Loach. Il suo libro d’elezione la raccolta di scritti di David Franco Monthiel, classe 1976, una rassegna delle parole della protesta dalla morte di Carlo Giuliani ad oggi. Gemma Ubasart, candidata a guidare la formazione in Catalogna (le primarie si aprono oggi e si chiudono il 14 febbraio) è docente di Diritto all’università di Girona. Inigo Erregon, 1983, leader della campagna elettorale per le europee. Ricercatore in Scienze politiche alla Complutense, tesi di dottorato sulla politica dei Mas in Bolivia. Ha lavorato in Venezuela, era al G8 di Genova tra i manifestanti il giorno della morte di Giuliani. Poi c’è il gruppo dei filosofi. Daniel Iraberri Perez e Luis Alegre Zahonero, tra i tanti. Cresciuti nella contro-informazione, allievi di Carlos Fernandez Liria, 1959, ideologo del gruppo e stretto collaboratore di Hugo Chavez in Venezuela.
Sono queste le persone che hanno redatto il manifesto di Podemos. Nazionalizzazioni, equo sistema fiscale, più servizi pubcome blici, più partecipazione di base. «Un programma che qualunque democratico può votare», dice Iglesias. «E se la signora Merkel vuole governare il nostro paese venga a farsi eleggere qui. Quanto all’euro: no, non usciremo dall’euro in nessun caso». Si finanziano con il crowdfounding.
Qualche notevole donatore deve aver avuto la sua parte nella fase d’impulso. Si parla di Jaume Roures, imprenditore trotkista, già editore di Mediapro ( Publico, la Sexta ), oggi produttore cinematografico: “Comandante” di Oliver Stone.
Il problema, ora sull’onda del successo, è evitare di imbarcare cambiacasacca corrotti e arrivisti, dice Iglesias. Succede spesso, è successo in Italia a Di Pietro. «Ma noi abbiamo dalla nostra l’evidenza del saccheggio prodotto dalla politica arroccata al potere. La disillusione dei cittadini, la loro frustrazione è il motore del cambiamento. Siamo qui per trasformarla, attraverso le migliori competenze, in governo politico ». E’ «un utopista regressivo», dice Felipe Gonzalez di Iglesias. «Populisti», volta le spalle Pedro Sanchez il neo-segretario socialista. «Sovvertitori della democrazia », dicono i leader del Ppe. «Sovvertitori del potere», corregge Iglesias, che di nuovo cita la regina Khaleesi. «Il potere è scalabile. La legittimità è nella connessione col popolo. Il potere nasce dalla moralità di azioni esemplari. Poi serve un esercito». Da Game of Thrones alla conquista del Regno. Il giovane Re Felipe di Borbone di certo conosce la saga. Se non i libri, almeno la serie tv.

Repubblica 9.2.15
Il segreto del poeta matematico
Daniel Tammet ha la sindrome di Asperger. Nel suo ultimo libro racconta come grazie ai numeri riesce a pensare il mondo e a vivere le emozioni
di Piergiorgio Odifreddi


Daniel Tammet è uno scrittore britannico. Il suo ultimo libro è La poesia dei numeri (Zanichelli pagg. 320 euro 12,90)

L’autore vede in quelle che per noi sono aride successioni di cifre delle vere storie Anche “Guerra e Pace” è pieno di metafore ispirate a Tolstoj dal calcolo infinitesimale

IL 14 marzo 2004, giornata mondiale del pi greco, Daniel Tammet si esibì in pubblico al Museo di Storia della Scienza dell’Università di Oxford, recitando in cinque ore e nove minuti le prime 22.514 cifre decimali di pi greco, appunto, che iniziano con «uno quattro uno cinque nove due sei cinque tre cinque nove». Queste imprese, tipiche del Guinness dei Primati, in genere brillano solo per la loro futilità. Anche se, in fondo, neppure le lettere di un endecasillabo di Dante, come «enne e elle emme e zeta zeta o di e elle ci a emme emme i enne …», suonano poi tanto meglio delle undici cifre precedenti, se recitate in maniera simile. Naturalmente, dietro alle cifre di pi greco c’è una struttura ancora più sofisticata e complessa di quella che sta dietro le sillabe della Divina Commedia .
E i matematici l’hanno studiata per millenni. A partire dagli Egizi, che notarono come 64 monete uguali si possono disporre in un cerchio di diametro 9, e ne dedussero per pi greco un’approssimazione pari a 3,16. Già i Babilonesi si erano accorti che la prima cifra dopo la virgola è corretta, ma si dovette aspettare il genio di Archimede per scoprire che la seconda è sbagliata, e che l’approssimazione corretta a due decimali è il famoso 3,14 che impariamo fin dalle elementari.
Per arrivare a questo risultato Archimede usò due poligoni regolari di 96 lati, uno inscritto e l’altro circoscritto al cerchio. Metodi sempre più complicati furono necessari per andare oltre, e trovare via via un numero sempre più grande di cifre significative dopo la virgola. Calcolando a mano, nel corso dei secoli si arrivò fino a qualche centinaio di cifre, ma per procedere oltre furono necessarie dapprima le calcolatrici, e poi i calcolatori. Le migliaia di cifre declamate da Tammet nella sua esibizione pubblica vennero determinate soltanto nel 1961, benché oggi se ne conoscano ormai migliaia di miliardi.
Dietro l’apparente futilità dell’impresa mnemonica di Tammet si nasconde dunque la profondità delle ricerche matematiche, che lui presenta alla sua maniera nel gustoso libro La poesia dei numeri (Zanichelli, 2014), seguito del fortunato Nato in giorno azzurro (Rizzoli, 2008). Chi abbia letto quest’ultimo sa già che l’autore è affetto da sindrome di Asperger: una forma di autismo compatibile con l’abilità matematica, e portata a conoscenza del pubblico qualche anno fa dal grande successo di Mark Haddon Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (Einaudi, 2003). In precedenza già Oliver Sacks aveva attirato l’attenzione sul legame tra autismo e matematica: ad esempio, descrivendo in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello ( Adelphi, 1986) il caso di due gemelli autistici che giocavano a scambiarsi grandi numeri primi. E i sintomi della sindrome di Asperger sono tipici della caricatura dei matematici: più interessati alle cose che alle persone, poco comunicativi, ossessivi, asociali, maniacali, osservatori, classificatori e iper razionalisti. Ma anche di informatici come Bill Gates, dotati di un’eccezionale memoria infantile e usi a dondolarsi ipnoticamente sulla sedia.
Il primo libro di Tammet descriveva lo specifico della sua patologia. Ad esempio, la sinestesia alla quale allude appunto il titolo Nato in un giorno azzurro , che per la cronaca era un mercoledì. Per quanto riguarda i numeri, Tammet associa loro automaticamente colori, forme e altre qualità sensibili, che gli permettono di riconoscerne “a vista” proprietà astratte come l’essere primi o composti. E anche di vedere in quelle che per noi sono solo aride successioni di cifre delle vere e proprie storie, che egli può poi “raccontare” in esibizioni come quella dalla quale siamo partiti.
Come il protagonista del film Rain Man — L’uomo della pioggia , un ruolo da Oscar interpretato nel 1988 da Dustin Hoffmann, Tammet è anche in grado di calcolare mentalmente e visivamente con numeri enormi. Queste sono cose da idiot savant, come nota egli stesso, ma lui va oltre. Considera i numeri la sua prima lingua, quella in cui pensa e sente. Li associa agli oggetti e alle persone. E, soprattutto, li usa come mezzo per interiorizzare le emozioni: cosa altrimenti difficile per un autistico propenso alla solitudine e all’introversione, e colpito da una serie di malattie come l’epilessia, le vertigini e l’ipersensibilità alla luce.
Mentre nella maggior parte del primo libro Tammet si era dedicato all’autobiografia, nel secondo si concentra sull’aritmetica e ci racconta i numeri dal proprio singolare punto di vista. Che è sicuramente più interessante per i non addetti ai lavori di quello di un matematico professionista, perché egli presenta le cose in maniera estremamente intuitiva.
Per trovare le soluzioni di un’equazione, ad esempio, Tammet la traduce in parole, e invece di operare algebricamente cerca di intuire il risultato. Così, se deve risolvere x2+ 1 0 x=3 9 , non applica pedestremente la formula per le equazioni di secondo grado che si impara a scuola. Piuttosto, enumera dapprima i quadrati dei numeri: 1, 4, 9,... Poi enumera i multipli interi di dieci: 10, 20, 30,... Poi si accorge che 9 più 30 fa 39, come richiesto. E visto che 9 e 30 sono i terzi numeri delle due liste, ne deduce correttamente che la soluzione è 3.
Ma La poesia dei numeri riserva sorprese anche al matematico professionista, che dei numeri in genere non conosce il folclore umanistico: ad esempio, il fatto che Anna Bolena, seconda moglie di Enrico VIII, avesse undici dita. Il che dà lo spunto a Tammet per immaginare come gli uomini avrebbero contato se tutti ne avessero avute altrettante, invece che solo dieci: in particolare, poiché undici è un numero primo, sarebbe stato difficile sviluppare il concetto di “una metà”. Con dodici dita, invece, come ne ha il cubano Hernandez Garrito, il computo delle ore risulterebbe semplificato.
Ma di numeri non ci sono solo gli interi, e Tammet ci allerta a una sorprendente apparizione degli infinitesimi in Guerra e pace di Lev Tolstoj. Nella concezione dello scrittore russo, infatti, la storia non è fatta individualmente da pochi grandi uomini, bensì collettivamente dalla moltitudine dei piccoli. E nel corso del suo sterminato capolavoro egli usa a più riprese metafore tratte dal calcolo infinitesimale, probabilmente arrivategli all’orecchio tramite l’amico matematico Sergej Urusov.
Il titolo originale del libro di Tammet era Pensare con i numeri , ma la traduzione italiana non è fuorviante. A parte il richiamo metaforico a La poesia dei numeri , egli dedica infatti alcune pagine anche al significato letterale, cioè letterario, dell’espressione. Discute, ad esempio, il modo in cui i numeri intervengono nella struttura poetica: in particolare, nella sestina medievale e nell’ haiku giapponese. E cita Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, autrice di una poesia intitolata Pi greco che inizia così: «È degno di ammirazione il pi greco, tre virgola uno quattro uno».
Per i primi minuti della sua esibizione Tammet non aveva fatto altro che recitare questa poesia, purgata delle parole superflue inframezzate dalla poetessa fra le prime due dozzine di cifre di pi greco. E aveva continuato mille volte più a lungo di lei, cantando la poesia dei numeri in maniera ancora più pura e rarefatta della stessa poetessa.

il Fatto 9.2.15
Credenze rischiose
La malattia è un’illusione: parola di Christian Science
di Paola Porciello


La malattia è soltanto un’illusione, un errore della mente che va corretto con la preghiera. È quanto sosteneva la fondatrice della più famosa delle sette guaritrici: la Scienza Cristiana. Scriveva Mary Baker Eddy nel 1875: “L’unica vera realtà è Dio. Per guarire dalle malattie è sufficiente cogliere tale verità, mediante la preghiera”. Ancora oggi Scienza e salute è il testo di riferimento per gli adepti che rifiutano la teoria dei germi e di conseguenza le cure della medicina ufficiale. È per questo motivo che Val Kilmer, l’Iceman rivale di Tom Cruise in Top Gun, a quanto dicono amici e parenti, sta rifiutando di farsi curare per un tumore alla gola che l’ha costretto a un intervento alla fine di gennaio.
La sua fede per Christian Science gli impedirebbe di fatto di sottoporsi alle terapie, considerate dalla setta inutili, se non dannose. Oltre a Kilmer e il collega Robert Duvall, hanno fatto parte del movimento attori famosissimi come Joan Crawford, Doris Day, Mickey Rooney e Ginger Rogers.
Figli di genitori devoti alla Chiesa di Cristo sono stati Robin Williams, Elizabeth Taylor, Audrey Hepburn, Henry Fonda e molti altri.
All’alba del XXI Secolo
Christian Science appartiene alla famiglia “metafisica” dei nuovi movimenti religiosi. La sua missione dichiarata è quella di ripristinare il cristianesimo primitivo e il suo elemento perduto di guarigione: Gesù ha salvato non solo l’anima dal peccato ma anche il corpo dalla malattia. A conferma delle sue teorie, pubblica sul sito ufficiale – disponibile in 24 lingue diverse, compreso l’italiano
– centinaia di video con testimonianze di guarigioni avvenute semplicemente seguendo gli insegnamenti della Chiesa Scienti-sta. Con la preghiera – si legge – 80 mila persone hanno ritrovato la salute: Rick ha sconfitto il tumore, Sarah la depressione, Whitney addirittura ha recuperato la vista da un occhio danneggiato in un incidente. I video durano poco più di un minuto ciascuno, con primi piani che indugiano sui volti dei fedeli, presentati con il solo nome di battesimo. Una strategia di comunicazione efficace, semplice e diretta, senza imperfezioni. Un piccolo gioiello di marketing. Ma non finisce qui. È possibile partecipare ai servizi religiosi online o chiamando un numero verde, accorgimento per i più anziani, o per i poco avvezzi alle nuove tecnologie. A corredo di un simile impianto ci sono anche una rivista, The Christian Science Journal, il quotidiano Christian Science Monitor e una società editrice che stampa libri sul movimento e i suoi insegnamenti. Negli Stati Uniti sono disponibili 1200 reading rooms (stanze di lettura) gestite da volontari, aperte a chiunque abbia voglia di pregare o immergersi nella lettura dei testi religiosi.
Uno degli elementi alla base della teologia di Christian Science sarebbe l’evil thinking che la fondatrice chiamava anche “magnetismo animale malefico”. Tale forza, secondo Eddy, può far ammalare coloro che ne vengono colpiti. Ne fu vittima il marito, morto a causa di questo “mesmerismo” pochi mesi dopo il matrimonio, quando lei aveva solo 23 anni. In un’intervista di quel periodo al Daily BostonEddy raccontò che organizzava turni di ronde per proteggere la sua casa. A farne parte erano giovani studenti, noti anche come “lavoratori metafisici” che, con la loro attività mentale, cercavano di contrastare i pensieri malefici.
Dal 1936, anno di massima espansione, il movimento si è andato riducendo. Negli Stati Uniti ad oggi si contano circa 10mila sedi e 100mila seguaci negli Stati Uniti.
Genitori sotto processo
Il rifiuto delle cure mediche ha procurato non pochi guai agli Scienziati Cristiani. Si stima che dalla fine dell’Ottocento agli ultimi anni 90 almeno 50 persone tra genitori e “medici” del movimento siano state processate per altrettante morti di bambini e adulti con accuse che variavano dalla mancata assistenza all’omicidio. Intuttiicasieranostatenegate le cure mediche, anche per malattie perfettamente curabili. Nonostante le numerose battaglie intraprese dalle associazioni di medici e pediatri americani, rimangono tuttora vaste zone degli States in cui vigono esenzioni dalle leggi per i fedeli scientisti, ottenute grazie all’incessante lavoro della lobby di Christian Science che agisce invocando il primo emendamento e minacciando di sospendere i finanziamenti. Come risultato, nel 2014, ben 37 stati prevedevano ancora tali esenzioni nel loro codice civile.
Nel 1977 Matthew Swan, 16 mesi, morì per una meningite batterica a Detroit. I suoi genitori, che si lasciarono convincere a non rivolgersi ai medici, fondarono poi l’Associazione Children’s healthcare is a legal duty, che si batte proprio per contrastare i casi di mancato soccorso ai bambini per motivi etici e religiosi. Tra il 1980 e il 1990 sette coppie di genitori furono processate: quattro vennero condannate, per gli altri ci fu l’assoluzione in appello perché ritenuti in buona fede nelle loro decisioni.
La lotta di Val Kilmer
Nei giorni scorsi l’attore americano ha negato di avere un tumore e di essere stato operato. Il primo febbraio sulla sua pagina Facebook è comparso questo messaggio per rispondere alle preoccupazioni dei fan: “Di nuovo, nessun tumore, nessun intervento. Stiamo aspettando i risultati dei raggi-x e seguiremo i consigli del mio dottore, della mia famiglia e del practitioner di Christian Science quando avremo tutti i dati. Poi farò ciò che è meglio e tornerò prima che possiate buttare giù una colonna di gossip su un attore senza lavoro…”. È del giorno successivo invece il lungo sfogo contro Usa Today, colpevole di aver riportato le dichiarazioni della rappresentante della star Liz Rosenberg, che confermavano le voci sulla malattia. Accusando il quotidiano di fare gossip per vendere copie, l’attore ha smentito tutto, raccomandando ai suoi fan di fare riferimento alla pagina Facebook, unica fonte attendibile aggiornata da lui in persona.
Tornando al sito l’attenzione viene attirata da un titolo: “Ancora nessuna guarigione? Zittisci l’Anticristo! ”. Il link rimanda a una pagina che invita ad abbonarsi alla rivista online: 24 dollari al mese, con modalità di auto-rinnovo.

il Fatto 9.2.15
Anima e corpo
Quelle fedi che non credono nelle cure
di P. Po.


Numerose sette religiose tuttora in proliferazione in tutto il mondo vedono la medicina come una sfida alla volontà di Dio: se il malato deve guarire, lo farà anche senza terapie. Le cronache purtroppo sono piene di persone che hanno perso la vita o che hanno messo a repentaglio quella degli altri per aver rifiutato adeguate cure mediche: negli Stati Uniti, nel corso di un anno, almeno una dozzina di bambini perde la vita perché i loro genitori seguendo gli insegnamenti della loro fede rifiutano ogni supporto medico o scientifico. Nel maggio del 2013 i coniugi Schaible, appartenenti a una piccola comunità nota come “Chiesa del Vangelo del Primo Secolo”, furono condannati per omicidio del loro bambino di otto mesi, Brandon, che poteva essere salvato. “È molto chiaro che la libertà religiosa deve fermarsi laddove cominci la sicurezza di un bambino”, ha detto il giudice Carolyn Engel Temin per spiegare la decisione. Herbert e Catherine Schaible hanno altri sette figli, ora in affidamento temporaneo ad altre famiglie.
Tra le nuove realtà religiose spesso definite sette, Scientology è la più conosciuta grazie all’adesione di star di Hollywood del calibro di Tom Cruise e John Travolta. Fondata da L. Ron Hubbard nel 1954 si è da subito contraddistinta per la netta contrapposizione alla psichiatria. Il libro del 1950 del fondatore Dianetics: La forza del pensiero sul corpo è una sorta di manuale di psicologia fai da te, in cui viene stigmatizzato l’uso degli psicofarmaci, vietato difatti ai seguaci del movimento. Il testo, venduto in venti milioni di copie in tutto il mondo, è stato aspramente criticato per la totale mancanza di scientificità dalla comunità medica.
La Bibbia dice “Astenetevi dal sangue”; e così fanno i Testimoni di Geova che, pur accettando le terapie tradizionali, rifiutano le trasfusioni in quanto il sangue rappresenta la vita agli occhi di Dio (Levitico 17:14). Per poter curare queste persone sono state sviluppate molte tecniche chirurgiche “senza sangue” che cercano di ridurre al minimo le perdite ematiche. Chi non si attiene alla regola viene espulso dalla comunità senza appello, come è successo all’ex Vescovo che aveva autorizzato una trasfusione alla nipotina in fin di vita. In Italia la setta è riconosciuta dallo Stato ed è la Chiesa più importante dopo quella cattolica con 300mila appartenenti.
Gli Amish sono una comunità religiosa nata in Svizzera, stabilitasi negli Stati Uniti a partire dal Settecento. Famosi per il loro rifiuto della modernità in tutte le sue espressioni (comprese in molti casi la corrente elettrica, l’automobile e la radio) vivono come contadini e artigiani nelle campagne evitando le intrusioni della civilizzazione che possano minacciare i loro principi guida. Una famiglia Amish può preferire i rimedi casalinghi alle cure in ospedale, ma non esporrebbe mai i suoi membri a rischi in caso di emergenza.
La Chiesa universale del regno di Dio invece - nota in Italia come Comunità Cristiana dello Spirito Santo e fondata in Brasile nel 1977 - sostiene che la medicina ordinaria debba essere sostituita completamente dalla fede in Gesù. Per le guarigioni si serve di molti simboli come pezzi della croce e oli benedetti da cospargere sulle foto dei propri cari. Nell'ottobre 1995 contava quasi due milioni di adepti in Brasile, e 150mila fuori dal paese. Molti la considerano una setta con finalità economiche a causa della forte insistenza sul pagamento della “decima” dei fedeli.
La Comunità carismatica del Leone di Giuda fa parte del movimento di rinnovamento carismatico. Fondata nel 1973 in Francia lavora per guarire i malati attraverso il carisma: le guarigioni, in questo caso, sono ottenute attraverso un fenomeno di entusiasmo collettivo che moltiplica la forza della fede. Nel 2011 il fondatore Gerard Croissant finì nei guai insieme ad altri leader della setta per abusi sessuali. Tra le vittime c’erano anche alcune religiose della comunità e una minorenne. Il movimento, chiamato oggi Comunità delle Beatitudini, conta circa 1.500 membri ed è presente in 29 paesi.
Di derivazione Cristiana e spiritista è infine l’Antoinismo, fondato nel 1910 dal belga Louis Antoine. Per gli antoinisti, bisogna ritornare alla fede che dà il potere di guarire, tralasciando la scienza naturalistica, nella quale l’uomo moderno ripone troppa fede. Negli opuscoli diffusi dalla setta si legge che “il Culto non va sul terreno della scienza, ed in particolare non compie diagnosi, non consiglia né sconsiglia medicine e operazioni chirurgiche, non fa imposizioni di mani né predizioni del futuro”. Il fondatore Louis Antoine fu condannato nel 1901 per esercizio illegale della professione medica tant’è che oggi i suoi discepoli non parlano di vera e propria cura anche se la cerimonia del culto ("operazione") si svolge ancora.