mercoledì 11 febbraio 2015

Corriere 11.2.15
Perché è giusto introdurre il reato di negazionismo
di Donatella Di Cesare


È in discussione al Senato il provvedimento che, modificando la legge del 1975 contro i crimini di genocidio, introduce il reato di negazionismo della Shoah. L’Italia sarà così in linea con la direttiva dell’Unione europea che risale al 2008.
Numerose sono state le modifiche apportate al provvedimento nel corso di un dibattito che si è sviluppato in questi ultimi anni, mentre il fenomeno è andato assumendo proporzioni sempre più inquietanti. Finora ha prevalso in Italia un indubbio ottimismo. I singoli episodi sono stati letti come spiacevoli incidenti, dovuti a ignoranza e disinformazione. E d’altronde non c’è dubbio che educazione e cultura siano le risposte più consone. Come non concordare?
Ma chi nega, non ignora. Che dire se, come è già avvenuto, a negare sono insegnanti di liceo o docenti universitari? Con quali mezzi reagire? Soprattutto non si capisce perché dovrebbe esserci un’alternativa tra risposta culturale e intervento politico; sarebbe anzi auspicabile una sinergia. Come tutelare altrimenti il diritto dei più giovani nelle scuole, nelle università, ma anche nella rete?
In tal senso si deve sperare che venga preso in considerazione anche il cyber crime . Perché proprio nei social network , dove reale e virtuale, prova e rumore, ragionevole e assurdo vengono equiparati, i negazionisti trovano spazio per rendere attuali e concreti i loro fantasmi. Gli insulti antisemiti si mescolano con la negazione fino allo scherno e all’oltraggio delle vittime.
È comprensibile la preoccupazione degli storici per la libertà di ricerca, la cui necessità va anzi ribadita, proprio al fine di conoscere meglio lo sterminio. Ma come alcuni storici hanno convenuto, il negazionismo non è un’opinione come un’altra. Piuttosto è una dichiarazione politica.
Non deve sfuggire il nesso di complicità che lega la negazione di oggi all’annientamento di ieri. Coloro che negano le camere a gas vogliono annientare il fondamento stesso da cui è sorta la democrazia in Europa. Solo se si tutela il dialogo che fonda la democrazia, si consente una polifonia di interpretazioni. Questo è il compito della legge.

Corriere 11.2.15
Ma chi uccide la memoria non si batte in tribunale
di Pierluigi Battista


Il grande storico Pierre Vidal-Naquet non era d’accordo con chi voleva mettere in galera il negazionista Robert Faurisson. Ma scrisse un formidabile libro sugli «assassini della memoria» che rivelò l’abisso di sconcezza, di impostura storiografica, di ignoranza, di pregiudizio nazistoide in cui sprofondava chi negava la stessa esistenza di Auschwitz. Non bisogna fargliela passare liscia, agli «assassini della memoria». Ma con i libri, i fatti, gli argomenti, i documenti, le testimonianze. Non con i poliziotti e i magistrati. In Francia c’è da tempo una legge che considera reato il negazionismo, ma ogni anno aumenta il numero delle aggressioni contro gli ebrei. In Austria, qualche anno fa, hanno tenuto in prigione David Irving, ma nessun movimento antisemita è risultato indebolito. Senza considerare le occasioni di arbitrio, le omissioni, i silenzi diplomatici, i doppiopesismi.
In Iran nei giorni scorsi hanno indetto un concorso per la miglior vignetta contro gli ebrei: nessuno ha chiesto la chiusura dei rapporti diplomatici con Teheran, dove al tempo dell’allora presidente Ahmadinejad venne addirittura convocato un convegno internazionale per negare l’esistenza delle camere a gas. Una legge che impedisce di dire è una legge liberticida, anche se animata dalle migliori intenzioni.
È la cultura che deve disarmare il negazionismo, non un provvedimento dei magistrati. Si capisce il dolore di chi vede negata l’evidenza storica della Shoah, ma non è con i magistrati che necessariamente interpretano una legge che si vince la battaglia contro gli assassini della memoria. Nemmeno con l’indifferenza. E anzi, è il compito di una società civile impedire che le menzogne circolino indisturbate. E di insistere, ribadire, ricordare. Mai dandogliela vinta ai manipolatori criptonazisti camuffati da storici. Si può fare, anche senza leggi ambigue e pericolose.

Il Sussidiario 11.2.15
Heidegger
I Quaderni neri? Appunti di un piccolo borghese assillato dal destino
di Eugenio Mazzarella

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La Stampa 11.2.15
Strage di migranti a Lampedusa, i superstiti: “Oltre 200 morti”
Il racconto di nove profughi arrivati all’alba di oggi a bordo di un rimorchiatore


Nuova tragedia del mare nel Canale di Sicilia. A raccontarla ai mediatori culturali sono i nove profughi arrivati all’alba di oggi a Lampedusa a bordo di un rimorchiatore. Si tratta di due superstiti del gommone su cui si trovavano i 29 immigrati morti per assideramento e i 76 tratti in salvo e che oggi sono ospiti del Centro d’accoglienza dell’isola di Lampedusa. 
Altri sette immigrati si trovavano invece su un secondo gommone, con a bordo, secondo il loro racconto, 107 persone. Ai mediatori culturali hanno raccontato, in queste ore, con il terrore ancora negli occhi, che il gommone su cui si trovavano si è sgonfiato ed è affondato nel Canale di Sicilia, trascinando nel mare almeno 200 profughi. «Abbiamo visto morire tante tante persone che erano a bordo del nostro gommone», hanno raccontato tra le lacrime.

La Stampa 11.2.15
Odissea Mediterraneo

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La Stampa 11.2.15
Triton non ferma le stragi dei migranti, ipotesi Mare nostrum 2
di Flavia Amabile

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il Fatto 11.2.15
Rendina, partigiano e gentiluomo

risponde Furio Colombo

Caro Furio Colombo
ho visto tante celebrazioni di Massimo Rendina, bravo giornalista e brava persona, che merita certamente un buon ricordo. Ma poi arriva la celebrazione partigiana e io non posso fare a meno di dire: ma neppure i garibaldini dello sbarco dei Mille sono stati ricordati e ri-celebrati così a lungo. A parte le doti della persona, non è scaduto il tempo?
Francesca

NON CREDO CHE sia scaduto il tempo e provo a darle alcune ragioni. Due o tre sere fa, la polizia è dovuta intervenire perché un intero condominio di Milano era disturbato da schiamazzi notturni. La polizia ha accertato che il rock a tutto volume veniva dalla casa del senatore e vicepresidente del Senato, Ignazio La Russa. Appena richiesto di smettere il disturbo, lo statista ha dichiarato alla polizia: “Ma a voi vi mandano le zecche comuniste!”. Negli stessi giorni, Isabella Rauti, figlia di Pino Rauti e moglie dell’ex sindaco di Roma Alemanno, ha convocato un po’ di nostalgici e di ex fascisti al Teatro Adriano per mettere insieme una ennesima aggregazione di “nuova destra”. La “nuova destra italiana”, come dimostra l’intera costellazione di gruppi del genere (da Casa Pound a Fratelli d’Italia a Forza Nuova, ma la lista è molto più lunga) non è “nuova destra”, come si ama dire (e anche i media stanno al gioco) ma vecchio fascismo. È intatto il razzismo contro “negri” e stranieri, intatto il disprezzo per “il nemico” (“le zecche comuniste”) anche se il nemico non esiste più, intatta l’ossessione di armi, confini e pugnali, tutto sacro perché il fascismo è una religione. E intatta è la persuasione che la nostra Costituzione sia partigiana e comunista. La triste morale della favola balza fuori facilmente da questa Italia: il fascismo non ha smesso un momento di essere fascista, come se non fosse stato spazzato via dall’unico vero conflitto di civiltà: mondo libero contro nazifascismo. Perché, quando esistono (quando sono esistiti) personaggi come Massimo Rendina, che hanno rischiato, combattuto, comandato, giocandosi sempre la vita per liberare il futuro dell’Italia dal morbo fascista, perché non dovremmo onorarli in vita e ricordarli da morti con immensa gratitudine? Se i fascisti sono ancora fascisti, perché fingere di non vedere e smettere di essere antifascisti? Per questo un Paese civile sceglie per forza Rendina, lo ricorda con amore e gli dedica l’onore che si è meritato di un liberatore del Paese. Non è fuori luogo ricordare ai veterofascisti, a cui piace chiamarsi “nuova destra”, che sono stati fortunati. Ha vinto Rendina. Se avessero vinto coloro che essi ancora celebrano, il loro destino sarebbe stato di fare, a tempo pieno, e per sempre, i guardiani dei campi di sterminio.

La Stampa 11.2.15
Il Nazareno è finito ma solo un po’
di Federico Geremicca


Poiché, come si dice, anche l’occhio vuole la sua parte, la nuova vita di Forza Italia come partito di «opposizione integrale» è cominciata ieri in Parlamento in maniera un po’ così... Alla Camera, in particolare, sul testo di riforma del Senato, qualche voto contro la legge, qualche altro a favore, qualcun altro chissà.
Del resto, perfino in politica - a volte - non è cosa proprio agevole dirsi improvvisamente contrari a cose sulle quali fino al giorno prima si eran stretti patti e fatti accordi.
Comunque sia, con le dimissioni del co-relatore della riforma (Sisto) e l’intervento del capogruppo Brunetta, il cosiddetto Patto del Nazareno può dirsi pubblicamente, ufficialmente e parlamentarmente rotto. Il partito di Berlusconi annuncia ora un’opposizione «selettiva» (si capirà col tempo cosa significhi) e rivendica la libertà «di non esser scontento». Si vedrà in fretta quali effetti sortirà sul quadro politico la fine della discussa intesa tra Pd e Forza Italia: è certo, però, che in passato la rottura di «patti» politici importanti ha prodotto effetti tutt’altro che irrilevanti...
Patti, per altro, mai interamente rispettati e sempre traditi da qualcuno dei contraenti. Il «patto della staffetta», che prevedeva che Bettino Craxi cedesse a Ciriaco De Mita la guida del governo nella seconda fase della legislatura, fu rotto dal leader socialista nel febbraio del 1987 addirittura con una intervista tv a Gianni Minoli: dopo arrivarono le elezioni anticipate. E il relativamente più recente «patto della crostata» (giugno 1997) siglato in materia di Grandi Riforme a casa di Gianni Letta tra le coppie D’Alema-Marini e Berlusconi-Fini, fu infranto d’un colpo da Berlusconi, quando ritenne di averne tratto il massimo utile.
Anche in quel caso - proprio come per il Patto del Nazareno - si sussurrò di accordi inconfessabili tra D’Alema e Berlusconi: il sostegno del Cavaliere alle riforme istituzionali in cambio dello stop a leggi in materia di tv (che avrebbero danneggiato Mediaset) e ad un colpo di freni circa la regolamentazione del conflitto di interessi. D’Alema pagò un prezzo pesante - nacque allora il Dalemoni... - all’intesa con Berlusconi: la rottura di quel patto portò prima alla fine della Bicamerale (e del processo di riforme) e qualche tempo dopo alla crisi del governo di Romano Prodi...
Patti infranti e terremoti politici, insomma. Ma il presidente del Consiglio si dice convinto che stavolta non sarà così. La previsione del premier-segretario si fonda su due elementi di fatto difficilmente contestabili: il primo, i rapporti di forza concretamente in campo; il secondo, l’invincibile istinto di sopravvivenza di un Parlamento che, a torto o a ragione, vede farsi più concreta la prospettiva di una legislatura che arrivi fino alla sua scadenza naturale (2018). Vedremo se la previsione si rivelerà esatta. Certo, alcuni elementi sembrano avvalorarla.
Il più evidente è quello del possibile o presunto ingresso in gioco dei cosiddetti «responsabili» o «stabilizzatori» parlamentari (soprattutto senatori) pronti, si dice, a correre in soccorso della maggioranza. Il fenomeno - una sorta di movimento lento - è già perfettamente visibile. Ai fini pratici (sostegno al governo che perde i voti di Forza Italia sulle Grandi Riforme) l’effetto non cambia: ma la sensazione è che più che ad una «campagna acquisiti» del Pd, quel movimento sia il frutto del solito e italianissimo «salto sul carro del vincitore». A testimonianza di tradizioni, chiamiamole così, durissime a morire...
Se le cose stanno così, allora non è difficile capire le ragioni dell’ottimismo - un ottimismo quasi irridente - di Matteo Renzi: «Berlusconi oggi segue Brunetta e la Rossi, non più Letta e Verdini... Tornerà? Non credo. Ma l’importante è che torni la crescita, non che torni lui»...

Corriere 11.2.15
Le ombre del Nazareno sopravvivono alla rottura
di Massimo Franco


Per quanto ufficialmente archiviato, il patto del Nazareno non smette di proiettare la sua ombra sui rapporti politici. Anzi, le sue ombre, a dare retta a quanti hanno sempre contrastato quello che veniva accreditato come asse istituzionale tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi; e che invece, secondo gli avversari, conteneva clausole riservate e non sempre chiare. La rottura tra premier e capo di FI dopo l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale ha smentito un’intesa su quel voto. Ha spinto Berlusconi verso l’abbraccio con la Lega e portato al ridimensionamento di Denis Verdini, uomo-cerniera tra Palazzo Chigi e FI.
Ma i sospetti non sono finiti. Soprattutto il Carroccio, che sembra voler dettare le regole per un ritorno all’alleanza con FI alle prossime Regionali, alimenta la vulgata di un patto inconfessabile e dai contorni torbidi. Berlusconi non l’avrebbe disdetto prima perché «Renzi l’ha fregato», è la tesi dell’ex leader dei lumbard Umberto Bossi. «Uno spera fino alla fine di cavarsela, soprattutto se è sotto ricatto». In realtà, prove del presunto ricatto non ne ha, come ammette. «Però diciamo che Berlusconi era ben tenuto». La contraddittorietà con la quale FI sta costruendo il suo profilo d’opposizione conferma i sospetti di chi considera l’asse danneggiato ma non spezzato.
Come se l’ex Cavaliere avesse ancora bisogno del governo, per motivi personali e aziendali; e sapesse bene che lo scontro frontale con Renzi può danneggiarlo molto più che ridargli forza politica. L’atteggiamento guardingo della minoranza del Pd riflette il timore di una resurrezione del patto del Nazareno. Il Consiglio dei ministri affronterà presto la questione del decreto che depenalizza la frode fiscale sotto la soglia del 3 per cento del reddito imponibile: una misura affiorata per caso a gennaio, e che fece parlare di uno scambio inconfessabile tra Renzi e Berlusconi in vista della corsa al Quirinale.
Il premier difese quella scelta, ma decise di congelare tutto fino al 20 febbraio per fugare qualunque illazione. Ebbene, ieri l’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha lasciato capire che se il provvedimento fosse confermato, potrebbero esserci problemi. «Il governo sta riflettendo. Altrimenti, quando arriverà in aula...», ha detto. E il Movimento 5 Stelle approfitta di questa ambiguità per additare un patto vivo e vegeto. Forza Italia «continua a sostenere queste riforme. Possono dimettersi, fare scena», accusa il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, «ma questo è un patto che esiste da vent’anni».
In realtà, non è chiaro che cosa stia accadendo. L’unico elemento vistoso è lo sbandamento berlusconiano, che si riflette sui comportamenti del partito. Gli uomini di Renzi ironizzano sulle «poche idee ma confuse» di FI; su votazioni nelle quali il centrodestra si divide e si contraddice. «Nazareno o non Nazareno», fa osservare Matteo Richetti, renziano della prima ora, «si può votare contro ciò che si è sostenuto in commissione?». Ma in mezzo c’è stato il Quirinale. E magari altri fatti per ora misteriosi, dei quali si capirà qualcosa solo tra un po’ di tempo.

il manifesto 11.2.15
Le radici profonde del Nazareno
Democrack. Prima Napolitano con Craxi, poi Renzi con Berlusconi
La separazione tra il "politico" e il "corruttore" è il sottofondo della vicenda italiana dove i vizi privati diventan
o pubbliche virtù
di Paolo Favilli
qui

Repubblica 11.2.15
L’opposizione “totale” alle riforme contraddice la linea istituzionale e fa perdere credibilità
I maldipancia di Forza Italia per la svolta dell’ex Cavaliere
Berlusconi però si tiene ancora un margine di ambiguità
Molti azzurri non vogliono cedere a Renzi il ruolo di unico uomo responsabile
di Stefano Folli


NELLE parole con cui il relatore Sisto, di Forza Italia, ha annunciato il suo ritiro dall’incarico di relatore per la riforma costituzionale del Senato si avvertiva un certo travaglio intimo. E quel riferirsi all’appartenenza politica come a un imperativo ineludibile cui va sacrificato il resto, ricordava la celebre sentenza di Gladstone: «fra la propria coscienza e il proprio partito un gentiluomo sceglie sempre il partito».
Anche Sisto ha scelto con correttezza il partito, ma ieri a Montecitorio era difficile sfuggire alla sensazione che in tanti all’interno di Forza Italia sono sconcertatati e dubbiosi. Berlusconi ha imposto la sua scelta (o meglio, quella che al momento appare la sua scelta) e in apparenza tutti si adeguano. Ma dietro le quinte l’inquietudine è grande. Si chiede al centrodestra di votare contro leggi e riforme che fino a ieri erano state sostenute e votate. Si pretende di denunciare una «deriva autoritaria» e persino dittatoriale del governo non per il merito di queste riforme, ché altrimenti non avrebbero dovuto essere approvate anche a destra, ma per la linea seguita da Renzi nella scelta del capo dello Stato. L’argomento non è molto convincente. In sintesi, Sergio Mattarella merita tutto il rispetto — lo ha ribadito Brunetta — ma il metodo seguito per la sua elezione apre la strada a uno scenario autoritario e illiberale. Addirittura giustifica che il centrodestra cambi posizione rispetto a una riforma costituzionale a cui aveva contribuito in notevole misura. Tanto è vero che Sisto, lasciando intravedere la sua lacerazione interiore, dice che «per un giurista non c’è niente di più esaltante che riformare la Costituzione».
Certo, per gli avversari interni del patto del Nazareno, fra cui lo stesso Brunetta, questa è una vittoria politica da non lasciarsi scappare. C’è sempre il rischio che Berlusconi torni sui suoi passi, senza troppo preoccuparsi di salvare le apparenze, ma per ora si può lavorare a costruire un muro fra il centrodestra neo-oppositore e la maggioranza di Renzi. Partendo dal fatto che non tutto é chiaro nella scelta del leader storico. Egli stesso alimenta una certa ambiguità, come quando afferma all’incirca: «ci sono riforme o parti di esse che sosterremo perché le giudichiamo positive, non perché discendono da un accordo con il premier ».
E quindi l’opposizione «a tutto campo» finisce per scontrarsi con la logica. Una forza guidata da un ex presidente del Consiglio, quali siano st ate le sue traversie, che sceglie fino a ieri una linea di responsabilità istituzionale e oggi la capovolge per una vendetta, perde di credibilità. È questo che preoccupa gli esponenti di Forza Italia che in queste ore tacciono o parlano il meno possibile. Si avverte un profondo turbamento che non sfocia in un’opposizione aperta, salvo l’area facente capo a Fitto, ma nemmeno nel sostegno entusiasta con cui fino al recente passato venivano salutate le intuizioni tattiche — e talvolta anche strategiche — del leader.
Oggi molto è cambiato. Il meno che si possa dire è che la nuova linea annunciata in modo repentino da Berlusconi deve ancora essere spiegata ai quadri e agli stessi parlamentari. A breve può servire, ma non è sicuro, a ricompattare il partito e a non perdere contatto con Salvini: ossia il personaggio da cui Berlusconi è stato più volte insultato, ma che oggi, ai suoi occhi, appare trasfigurato dall’aureola del successo. Alla lunga però diventa incompatibile con il sentimento profondo di una larga fascia di parlamentari che non vogliono essere isolati o tagliati fuori dal processo riformatore. E che soprattutto non intendono regalare a Renzi la patente di uomo responsabile, il solo che lavora nell’interesse del paese e non della fazione.

La Stampa 11.2.15
I rischi del dopo Berlusconi
Gli esercizi di «berlusconologia», non c’è dubbio, possono venire a noia
di Giovanni Orsina


Tanto più che son vent’anni che li facciamo – e tanto più che si tratta di una scienza quanto mai inesatta. Se da ultimo tanti commentatori sono tornati a consultare i manuali di questa scienza, tuttavia, una ragione c’è.
Non è possibile comprendere che cos’è oggi la politica italiana, né che cosa sarà nel prossimo futuro, se non la si guarda attraverso il prisma del berlusconismo. Vale dunque la pena analizzare quel che è accaduto a destra nei giorni scorsi – cercando magari di collocare gli eventi in una prospettiva più ampia.
Se vogliamo capire la situazione attuale dobbiamo tenere presenti tre caratteri del berlusconismo «storico». In primo luogo, la sua centralità. Dal 1994 al 2011 Berlusconi è stato l’«astro» intorno al quale ha ruotato la politica italiana: la dicotomia fra berlusconismo e antiberlusconismo ha rappresentato la struttura portante (ancorché disfunzionale) del nostro spazio pubblico. In secondo luogo, la sua «impoliticità». Il berlusconismo è stato senz’altro un fenomeno politico, e politico è stato il rapporto che Berlusconi ha avuto con i suoi elettori. Le origini della sua forza, tuttavia, erano nella sua storia imprenditoriale, che lui sfruttava anche come arma propagandistica per distinguersi dal «teatrino della politica» e dai suoi teatranti professionisti. Questa sua indipendenza relativa da risorse politiche, in terzo luogo, ha consentito a Berlusconi di demolire le tradizioni repubblicane, che erano divenute ormai obsolete, trasformando lo spazio pubblico italiano in una sorta di «ground zero».
Nel compiere quest’opera, tuttavia, Berlusconi ha finito per distruggere anche se stesso, perdendo irrimediabilmente la posizione centrale che aveva occupato dal 1994. Se n’è accorto? A giudicare dalle sue mosse, in parte sì e in parte no. Sì, perché continua a cercare dei punti d’appoggio esterni – prima Renzi, ora Salvini –, mostrando di aver compreso di non poter più stare in piedi da solo. Là dove per quasi vent’anni non soltanto non ha avuto bisogno di nessuno, ma erano gli altri, semmai, ad appoggiarsi a lui. No, perché sembra credere di poter controllare quelli ai quali si aggrappa – come se fosse sempre lui al centro, come se la sua debolezza fosse transitoria.
Questa irreversibile perdita di centralità si collega ad almeno tre fenomeni ulteriori. Il successo di Berlusconi è stato dovuto anche alla sua straordinaria capacità di tenere insieme pezzi apparentemente incompatibili di politica e di società – la Lega e Alleanza nazionale, Nord e Sud, liberismo e statalismo, destra e centro destra, moderati e inviperiti. Quest’ambiguità, che era un punto di forza perché lui la interpretava da una posizione di forza, adesso che è debole si è trasformata in una fonte aggiuntiva di debolezza. La rottura con Renzi e l’alleanza con Salvini, così, altro non sono che l’ennesima delle oscillazioni fra il Berlusconi di governo e quello di lotta alle quali assistiamo almeno dall’estate del 2013. Stando ai retroscena, sembra che i berlusconiani siano convinti che gli elettori non si curino di questi ondeggiamenti. Non ne sarei troppo sicuro.
La crisi del berlusconismo, in secondo luogo, segna con ogni probabilità anche la fine dell’«invasione» della politica da parte di logiche e soggetti non politici – imprenditori, professori, «gente qualunque». Con Renzi, ma anche con Salvini, stiamo assistendo all’ascesa di figure puramente politiche. Mentre sul versante dell’antipolitica Scelta Civica tramonta ancor più rapidamente del berlusconismo, e il grillismo non se la passa troppo bene. Alla buon’ora, vien da dire, a ciascuno il suo mestiere: gli imprenditori intraprendano, i professori professino, la gente qualunque faccia cose qualunque – e i politici facciano politica. Renzi e Salvini tuttavia – questa la terza considerazione – non riportano affatto l’orologio politico indietro a vent’anni fa. Nel bene e nel male, sono figli dell’opera di desertificazione compiuta da Berlusconi: è una politica forse peggiore, di certo del tutto nuova.
Avrebbe bisogno l’Italia di un’area di centro destra ampia e solida che si opponga a Renzi e magari si allei alla Lega, ma da posizioni di forza? Altroché. È probabile che quest’area prenda forma nei prossimi mesi o anni? Avendo osservato il comportamento che ha tenuto negli ultimi anni, mesi e soprattutto settimane chi si muove in quest’area, la risposta è: quanto mai improbabile. L’uscita dal ventennio berlusconiano non può che essere caotica: lo è stata per l’Italia, che non per caso da più di tre anni non ha un governo eletto, lo sarà per la destra italiana. Sarà molto difficile che nasca in tempi brevi o anche medi una terza opzione vitale fra le due sole che ci sono oggi – quella di Renzi e quella di Salvini.
Nell’immediato, perciò, non resta che sperare che l’operazione politica compiuta da Renzi con l’elezione di Mattarella non si ritorca contro di lui (e noi): che la crisi del centro destra non faccia saltare le riforme elettorale e costituzionale, mandando l’Italia al voto con la proporzionale – ossia tenendola immersa nella palude trasformistica in cui si trova adesso.

Il Sole 11.2.15
Lo strappo sul Patto e le regionali
di Lina Palmerini


Lo strappo sul patto del Nazareno peserà sul voto per le riforme ma nella campagna elettorale che sta per cominciare conterà meno di zero. Conta a Roma, certo, ma in una regione come la Campania, per esempio, con il 22% di disoccupazione, difficile che si faranno comizi su quel patto.
Non sarà tema di propaganda quello che è successo ieri nell’Aula di Montecitorio, l’ostruzionismo di Forza Italia sulla riforma del Senato, i rischi del Pd, la conta su ogni votazione. La campagna elettorale per le regionali sarà tutt’altro e non sarà facile. Perché la primavera si porterà dietro gli strascichi della crisi economica senza aver ancora inglobato quei primi segnali positivi che si affacciano. Ieri il Governatore della Banca d’Italia Visco ha parlato di cose che vanno «n’anticchia meglio»: un’unità di misura che Matteo Renzi nei comizi tradurrà come una svolta e che l’altro Matteo (Salvini) denuncerà come il fallimento del Governo. Dunque, sarà questo il campo di battaglia, le polemiche sui numeri e sui risultati dei governi locali mentre il patto del Nazareno non riuscirà a varcare i confini di Montecitorio. Lo strappo servirà molto poco a Silvio Berlusconi per rianimare i consensi elettorali del suo partito.
Peraltro la vera competizione si giocherà su alcune Regioni che mostreranno come, ormai, i duellanti siano i due Matteo, non più il Cavaliere. In Veneto, per esempio, dove alle scorse europee il balzo del Pd è stato impressionante: dal 20,34% delle regionali 2010 al 37,52% del maggio 2014. Un risultato migliore della Lega alle regionali di cinque anni fa quando arrivò a 35,16% sopra al Pdl di 10 punti, portando Luca Zaia alla guida della Regione. È quel 37% l’asticella di Renzi ma è anche l’asticella di Salvini che arriva dopo Umberto Bossi alla prima vera prova.
In Veneto si torna alle urne dopo cinque anni di centro-destra, in cui la disoccupazione è cresciuta, il Pil diminuito così come la produzione industriale. Dal 4,4% di senza lavoro nel 2011 si è passati al 7,3% del novembre 2014: anche se il dato è in leggera ripresa - così come quello sul Pil - la crisi ha lasciato i segni perfino in quel Nord Est che era felix e che è stato governato dalla Lega.
Sarà una verifica per il governo del Carroccio e una verifica per il premier che a maggio aveva solo messo in campo gli 80 euro del bonus fiscale e che a primavera avrà più di un anno di Governo alle spalle. Insomma, si vedrà se quell’apertura di credito delle europee verrà confermata. E se le piccole e medie imprese ragionano come fa Sergio Marchionne che ieri ha promosso Renzi - «sta facendo cose che nessuno ha mai fatto in anni» - ma ha anche aggiunto «lasciamolo lavorare, non abbiamo scelta».
In Veneto si parlerà di riforma del lavoro più che di patto del Nazareno vivo o morto. Conterà più la delega fiscale o l’Irap che non quello che mette in scena Forza Italia all’Aula della Camera. È questo il punto, che gli slogan di Salvini hanno già portato consensi mentre quelli di Forza Italia non esistono. È una campagna elettorale tutta da inventare e da costruire tra le mille divisioni del partito che si rifletteranno sui territori. In Liguria come in Puglia, dove Raffaele Fitto conduce la sua battaglia anti-Cav. O anche in Campania dove governa il centro-destra e dove la crisi è stata più feroce che altrove: 22% di disoccupazione, 45% di quella giovanile contro una media italiana del 23 per cento. Un divario in termini di Pil per abitante con le regioni del Nord che è quasi la metà: il 36,3% in Lombardia, il 17% in Campania. Di patto del Nazareno non ne vorrà sentir parlare nessuno.

Il Sole 11.2.15
Ddl anticorruzione. Tutto rinviato per l’assemblea dei parlamentari di Forza Italia con Berlusconi - Ancora stallo sulla soglia di punibilità
Colpo di freno sul falso in bilancio «Non c’è accordo di maggioranza»
di D. St.


ROMA Nulla di fatto su anticorruzione e falso in bilancio. Se ne riparla la prossima settimana visto che oggi tutte le sedute delle commissioni di Camera e Senato sono state sconvocate per una riunione di deputati e senatori di Forza Italia presieduta da Silvio Berlusconi. D’altra parte, nessun testo sul falso in bilancio era stato ancora messo a punto dal governo fino alle 16,36, quando è arrivata la comunicazione del rinvio. Si continua a discutere se lasciare comunque una soglia minima di non punibilità, o di punibilità attenuata, oppure se eliminarla tout court, rendendo tutto punibile con la pena da 2 a 6 anni ma fatte salve le alterazioni non sensibili, ovvero gli errori «lievi». «Quel che è certo è che al momento non c’è alcun accordo» dice David Ermini, responsabile giustizia del Pd, facendo capire che nessuno può accreditare accordi già fatti di cui il responsabile Giustizia del Pd non sia stato «reso partecipe».
Nel pomeriggio era infatti girata la voce che i due capigruppo Pd e Ncd in commissione Giustizia del Senato, Giuseppe Lumia e Nico D’Ascola, avessero concordato un testo senza alcuna soglia e con pena da 2 a 6 anni, sempre che vi sia stata «una alterazione sensibile» della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria. Un accordo che sarebbe dovuto passare al vaglio del ministro della Giustizia Andrea Orlando, tendenzialmente favorevole, invece, a mantenere una soglia per le imprese medie e piccole. La soluzione Lumia-D’Ascola viene sostenuta per evitare «paradossi». «Se si introduce una soglia del 5% al di sotto della quale la pena è attenuata, per esempio da 1 a 4 anni - spiega il sottosegretario alla Giustizia Enrico Costa, Ncd - può accadere che il falso che abbia alterato il bilancio del 5% sia punito con il massimo della pena prevista, cioè 4 anni, mentre un falso che abbia comportato una variazione del 5,1% sarebbe presumibilmente punito con il minimo della pena, cioè 2 anni. È un evidente paradosso, che si può evitare eliminando la soglia e lasciando soltanto la clausola dell’“alterazione sensibile” per escludere la punibilità».
Ma nel pomeriggio Lumia sembrava più possibilista sul mantenimento della soglia (il testo del governo la prevede al 5%) al di sotto della quale scatterebbe, non la non punibilità, ma una pena più bassa. «Si sta discutendo solo in relazione all’estensione delle pene - diceva dopo un incontro in via Arenula -. L’intenzione è salvaguardare le piccole e medie imprese su due possibili soluzioni: da un lato confermare la soglia del 5%, prevedendo però pene più lievi (per esempio da 1 a 4 anni, ndr), dall’altro eliminarla del tutto introducendo però un principio di “tenuità” per gli errori lievi». Se ne continuerà a parlare nei prossimi giorni, visto lo slittamento della seduta di commissione, che fa così allungare ulteriormente i tempi. Oggi, invece, dovrebbe svolgersi la riunione tra governo e maggioranza sulla prescrizione, in vista della presentazione degli emendamenti in commissione Giustizia, alla Camera (il termine scade domani).
Ma è sul falso in bilancio che si concentravano le maggiori aspettative visto che la riforma aspetta da quasi due anni. Dopo il vertice di maggioranza della scorsa settimana, Orlando aveva detto che «la corsia preferenziale è nei fatti», poiché entro oggi sarebbe stato presentato e votato l’emendamento frutto dell’intesa. Che invece - a prescindere dal rinvio - continua ad essere incagliata su soglia/sì, soglia/no. «Non mettere nessuna soglia - osserva Ermini - significa lasciare alla discrezionalità del magistrato la valutazione sull’eventuale non offensività del falso in bilancio, e questo va bene purché ci siano almeno dei paletti. Perciò, o mettiamo dei criteri oggettivi oppure è meglio prevedere una soglia».
Il rinvio scatena i 5 Stelle: «Mentre la Corte dei Conti tuona contro la corruzione, il governo, nonostante gli annunci in pompa magna fatti da Orlando solo qualche giorno fa, non si è ancora degnato di far conoscere al Parlamento i termini del presunto accordo che la maggioranza avrebbe raggiunto proprio sulla questione delle soglie di punibilità per il falso in bilancio. Oggi (ieri per chi legge, ndr) abbiamo appreso che le votazioni che si sarebbero dovute avere domani (oggi per chi legge, ndr) in Commissione slittano alla prossima settimana, dunque un ulteriore rinvio per un testo fermo in Commissione Giustizia al Senato ormai da circa nove mesi. La verità è che questa maggioranza non è in condizioni di trovare un accordo sul tema della corruzione».

il manifesto 11.2.15
Il giorno del ricordo a uso e consumo della Terza Repubblica
di Davide Conti

qui

Repubblica 11.2.15
La vittoria di Darwin
di Alessandra Longo

IL 12 febbraio 1809 nasceva Charles Darwin e domani anche in Italia, come nel resto del mondo, la data sarà commemorata con incontri e dibattiti promossi dalla Uaar, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. Tra gli appuntamenti da segnalare quello di Udine, con il sindaco Furio Honsell, che è un matematico. Titolo: «Il complesso di Copernico ». A Verona, lo scienziato sarà ricordato da Massimo Delledonne, ordinario di genetica, con un evento di divulgazione scientifica che si chiama «My beautiful genome». Che clima diverso. Ricordate ai tempi del governo Berlusconi 2001-2006 quando ministro dell’Istruzione era Letizia Moratti? Scoppiò il giallo dell’abolizione dell’insegnamento della teoria dell’evoluzione biologica dai programmi scolastici. Centinaia di scienziati firmarono un appello indignato. Alla fine “vinse” Darwin ma furono momenti di vero oscurantismo. Almeno in questo ci siamo evoluti.

Corriere 11.2.15
Il marito è morto, sì all’impianto di embrioni
Congelati 19 anni fa, l’uomo è scomparso nel 2011. Via libera dei giudici a Bologna
Remno Bodei: «Se tecnicamente è possibile farlo allora non è contrario alla natura»
di Elvira Serra


Il filosofo Remo Bodei non è troppo sorpreso. «C’è già stato un caso, in California, e destò molto clamore: era il 1999 e Gaby Vernoff aveva appena partorito una bambina concepita con lo sperma del marito morto».
Non solo: il liquido seminale era stato estratto 30 ore dopo il decesso dell’uomo e congelato per 15 mesi prima della fecondazione in vitro.
«Insomma, l’idea della procreazione postuma non è nuova».
A lei quali pensieri suggerisce?
«Dal punto di vista della immaginazione, c’è qualcosa di spettrale nell’idea stessa. Soprattutto se pensiamo che gli embrioni sui quali si sono pronunciati i giudici di Bologna hanno 19 anni».
Fuori tempo massimo?
«Dovrebbe dirlo un esperto. Di sicuro, dal punto di vista etico l’idea di mantenere una continuità biologica e affettiva con il proprio partner è comprensibile. Il problema, semmai, è tecnico».
Cosa intende?
«Che sebbene il principio stabilito dal Tribunale di Bologna possa essere giusto in generale, nel caso particolare rischia di essere inutile perché è alta la probabilità di aborto».
E non le sembra contro natura l’idea della gravidanza postuma?
«Il fatto stesso che sia possibile far nascere dei bambini con questa tecnica significa che si stanno seguendo leggi di natura. Certo, con strumenti nuovi».
Neppure l’età della madre, cinquantenne, le sembra un ostacolo?
«L’elemento più incerto è l’età dell’embrione. Della madre non mi preoccuperei: l’età media delle donne si è allungata, l’ultima ricerca Istat dice che chi vive nella provincia di Nuoro ha l’aspettativa di vita più alta, fino a 88,5 anni; se diventa madre a 59 anni può immaginare di accompagnare il figlio per quasi trent’anni».
C’è chi parla di «metodi Frankenstein». Lei cosa dice?
«Mi sembra terroristico usare questi termini. Bisogna tener conto di come sono fatti gli esseri umani, dei loro bisogni e desideri. Resta il problema della prudenza, intesa in senso latino, della saggezza. La questione non è tanto se una certa cosa sia vietata o permessa, ma se sia consigliabile».
E lei cosa consiglia?
«Io penso che non bisognerebbe fare carte false per avere bambini, sarebbe meglio adottarli. Ma non è illogico, né condannabile, desiderare di averli a tutti i costi».

Corriere 11.2.15
L’abbraccio greco non convince Renzi e l’effetto Tsipras divide la sinistra Pd


«Sulla Grecia la nostra linea qual è?». La domanda della sinistra pd ha rincorso Matteo Renzi per diversi giorni. Ieri il segretario ha risposto: ne parliamo lunedì in direzione. Dopo tanto tempo un tema internazionale — le politiche di austerità in Europa —, e l’atteggiamento verso un governo di sinistra di un altro Paese che le rifiuta, saranno al centro di una discussione. Torna perfino un termine, «la linea del partito», che appartiene ai riti antichi della sinistra quando «l’analisi della situazione internazionale» era imprescindibile. Difficile che Renzi segua schemi già visti, e se anche lo volesse qualcuno nel suo partito, non c’è il tempo: sull’asse Atene-Bruxelles-Berlino questi sono giorni decisivi.
   Finito il tempo delle congratulazioni per la vittoria elettorale, passato anche quello del primo incontro a Roma con scambio di doni e battute (era il 3 febbraio), ora per Matteo Renzi si tratta di decidere: fare di Tsipras un proprio alleato in Europa, come gli chiede la sinistra, o esercitare un certo distacco verso il tentativo del premier greco e del suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, considerando quella trattativa, pur simbolica, un affare principalmente greco.
   I segnali vanno nella seconda direzione: nei giorni scorsi il premier ha invitato Atene a rispettare il programma della troika e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha rivendicato la «visione comune» con la signora Merkel, rifiutando di fatto l’«abbraccio» greco. Qualcosa sta cambiando rispetto all’effetto-novità iniziale, per questo la minoranza pd ha chiesto a Renzi di «chiarire» e la piazza italiana pro Tsipras tornerà a mobilitarsi (sabato a Roma, aderisce anche la Fiom di Landini). Sopito per qualche tempo, si avvicina un nuovo scontro a sinistra e anche Beppe Grillo ha fiutato l’aria: «È ora di chiamare la gente in piazza per sostenere Atene, ci vuole un fronte comune».

il manifesto 11.2.15
Crisi greca, la posta in gioco non è solo il debito
Tsipras. La mobilitazione a favore del governo greco può e deve coinvolgere l’Europa intera
di Guido Viale

qui

Repubblica 11.2.15
E Atene chiede alla Germania 160 miliardi come danni di guerra. La replica: caso chiuso dal ‘90
di Ettore Livini


MILANO La guerra dei debiti tra Grecia e Germania ha aperto ufficialmente un nuovo, caldissimo fronte: quello dei danni di guerra e dei prestiti forzosi imposti dal regime nazista (e dall’Italia fascista) ad Atene. Un mondo capovolto rispetto a quello di oggi dove è Berlino che deve – o dovrebbe – una valanga di quattrini ad Atene. Ma si rifiuta di pagarli. Ad accendere la miccia è stato Alexis Tsipras: «Abbiamo l’obbligo storico di chiedere indietro i nostri soldi – ha detto presentando il programma del governo in Parlamento –. È un dovere morale nei confronti del nostro popolo, della storia e degli europei che hanno versato sangue per combattere Hitler». La risposta è arrivata secca secca da Sigmar Gabriel, il vice-cancelliere tedesco: «Il caso è chiuso da anni – il suo messaggio al premier ellenico –. Le possibilità di riaprirlo sono uguali a zero».
La questione del rimborso dei 476 milioni di Reichsmark prelevati dai nazisti dai forzieri della Banca di Grecia nel 1942 è una delle ferite mai davvero rimarginate nel paese. E Tsipras, in questo caso, raccoglie il testimone da Antonis Samaras che nel 2013 aveva annunciato la creazione (in realtà mai avvenuta) di una commissione per riaprire la pratica dei danni di guerra. La richiesta è tutt’altro che simbolica: la cifra del prestito forzoso di allora – ponderata con i capricci del Reichsmark, l’inflazione e gli interessi – «vale oggi 13 miliardi di euro», calcola uno studio di prossima pubblicazione dell’ex ministro dell’Economia ellenico Nikos Christodoulakis. Se si aggiungono i risarcimenti per i familiari delle vittime di eccidi come quello di Distomo (58 miliardi per gli standard internazionali) e per i danni alle infrastrutture durante l’occupazione del terzo reich, il totale sale a tre cifre. Più o meno un saldo finale di 162 miliardi secondo un rapporto interno dell’esecutivo Samaras.
«Ho qui in tasca la richiesta di rimborso», ha detto ieri il ministro degli Esteri ellenico Nikos Kotzias in visita a Berlino. «Il conto l’abbiamo già pagato », gli ha risposto gelido Franz Walter Stenmeier. Atene ha ricevuto dalla Germania nel 1960 un assegno da 115 milioni di marchi – «un acconto» dicono sotto il Partenone – concordato nella Conferenza di Londra del ’53, quella dove era stato cancellato il 62% del debito bellico tedesco. E i tedeschi sono convinti, giuridicamente parlando, che l’intesa di Mosca del 1990 – (“Trattato per la regolamentazione finale delle intese con la Germania”) – sia l’accordo di pace che pone fine a qualsiasi rivendicazione legata al secondo conflitto mondiale. E quell’intesa, firmata dalla Grecia, non fa cenno al tema dei danni di guerra.
«Storie, recuperare quei soldi è per noi un dovere morale e politico», ripete in questi giorni anche Manolis Glezos, novantenne icona di Syriza, l’uomo che nel maggio ’41, appena diciottenne, si è arrampicato sulle rocce dell’Acropoli per ammainare la bandiera con la croce uncinata, dando il via alla Resistenza ellenica e che due anni fa è stato coinvolto in scontri di piazza con la polizia. Atene ha ignorato per quasi tre decenni i suoi appelli. A frenare le pretese elleniche nel Dopoguerra sono stati gli alleati, convinti che non si potesse umiliare Berlino e si dovesse dare al paese la possibilità di risorgere dalle macerie belliche. Quando la Germania è ripartita, a gettare acqua sul fuoco ci ha pensato proprio lei, minacciando la Grecia di chiudere le frontiere agli immigrati ellenici se avesse avanzato richieste sui danni di guerra.
Il percorso legale del resto è molto complesso. Un tribunale di Firenze, per dire, ha assegnato nel 2008 come risarcimento ai familiari delle 218 vittime dei nazisti nella strage di Distomo una villa di Menaggio di proprietà di una organizzazione no-profit tedesca. Berlino però si è appellata alla Corte dei diritti umani che ha ribaltato la decisione, sostenendo che i singoli non possono sostituirsi allo Stato in queste richieste. E stessa fine rischiano di fare nuove azioni elleniche in tribunale.
Atene però non si è mai data davvero per vinta. A perorare la causa dei risarcimenti è stato qualche tempo fa il presidente Karolos Papoulias, un altro eroe della lotta contro l’occupazione tedesca, chiedendo al suo omologo Joachim Glauck di riaprire il dossier: «Sai che posso darti una sola risposta – gli ha risposto il presidente tedesco –. La strada legale per ottenerli è chiusa». I debiti della Grecia sono l’unica cosa di cui si parlerà oggi all’Eurogruppo. Ma quelli di guerra della Germania, come un spettro del passato che non vuol saperne di sparire, saranno ben presenti sul tavolo dei negoziati.

La Stampa 11.2.15
La doppia morale di Tsipras
di Alberto Mingardi

Ci sono diversi modi per raccontare la crisi greca. Uno, molto semplice, punta l’attenzione su un dato di fatto. Per certo, sappiamo che una delle parti in trattativa è il governo, piaccia o non piaccia, democraticamente eletto (quand’anche con poco più di un terzo dei suffragi) dal popolo greco. Chi sia la controparte è meno chiaro. C’è la Banca centrale europea, monumento di sapienza tecnocratica che suscita sospetto e diffidenza.
C’è il Fondo monetario internazionale. E poi la Commissione europea: non c’è un solo europeo che si senta «rappresentato» da questo esecutivo continentale, che non si capisce bene cosa faccia né tantomeno a chi risponda. Sono della partita anche i governi nazionali: Matteo Renzi ha chiuso la porta a soluzioni «creative» del problema greco, non prima di aver regalato una cravatta ad Alexis Tsipras. I governi nazionali temono una Grecia insolvente, perché essi stessi le hanno prestato quattrini. Sui giornali, sono apparse le simulazioni del costo pro capite di un default di Atene, per gli altri cittadini europei. La gente, però, presta poca attenzione. Sono decisioni che sente lontane. Alzi la mano chi, alle scorse elezioni europee, ha votato pensando non a vaghi ragionamenti sulla «austerità», ma alle concrete modalità di funzionamento dei meccanismi anti-crisi.
La narrazione, lo storytelling, democrazia contro tecnocrazia è appassionante. Ecco perché ci sta investendo proprio Tsipras, il cui motto è «democrazia dappertutto». Nel suo discorso al Parlamento, ha rinnovato gli impegni elettorali: aumenterà il salario minimo, fermerà le privatizzazioni, alzerà la soglia della no tax area. Un programma centrato su un aumento di spesa pubblica, senz’altro non bilanciato dalla riduzione del 50% del parco macchine blu e neppure dalle sforbiciate ai costi della politica o dalla lotta all’evasione. Auguri ai greci, ma almeno in Italia sembra il solito libro dei sogni delle coperture.
Secondo Tsipras, «l’austerità non ha soltanto impoverito il nostro popolo ma lo ha privato del diritto di decidere». Decidere, ma coi soldi di chi? Nello storytelling democrazia contro tecnocrazia, il «diritto di decidere» viene sottratto ai popoli per la vendetta di entità misteriose, i «mercati», che si divertirebbero a calpestarne le prerogative. A questi «mercati», gli Stati, fra cui la Grecia, hanno per anni chiesto prestiti: che per definizione a un bel momento devono essere ripagati. Questi prestiti li hanno chiesti per «decidere», direbbe Tsipras. Decidere stanziamenti, programmi, sussidi.
Indebitarsi non è mai stato obbligatorio. Se uno Stato vuole fare più cose, può sempre aumentare le tasse. In questo caso, la popolazione si accorge immediatamente del costo di «solidarietà», «investimenti» e «Stato sociale». Accorgendosene, potrebbe pensare che è meglio vivere in un Paese dove la spesa pubblica è un po’ meno generosa, ma le persone possono decidere da sé che fare di una quota maggiore dei propri redditi. Se lo Stato s’indebita, il problema non si pone: qualcuno un bel giorno il conto lo dovrà pagare, ma non gli elettori che votano alle prossime elezioni. La classe politica promette allegramente: nel lungo periodo, saremo tutti morti.
Non ha torto chi ricorda che gli Stati hanno sempre disposto dei loro debiti in modo diverso dalle famiglie o dai comuni cittadini: cioè che hanno sempre evitato, quando possibile, di onorarli. Il ricorso alla svalutazione li aiutava a diluirne il peso. Grazie all’odiata Troika, la Grecia di Tsipras oggi ha un avanzo primario e potrebbe, nel breve, continuare a pagare gli stipendi. Nel medio periodo, farebbe fatica a chiedere nuovi prestiti, come qualsiasi debitore insolvente.
Diceva Adam Smith: «Ciò che è saggezza nella gestione di ogni privata famiglia, difficilmente può risultare follia nel governo di un grande regno».
La questione è tutta qui. E’ giusto che ci sia una «doppia morale»? Gli Stati già fanno cose che nessun altro può fare: se vengo fermato dopo aver rapinato una banca, ho un bel dire alla polizia che volevo soltanto ridurre le diseguaglianze.
E’ auspicabile che gli Stati possano considerare i loro debiti carta straccia?
Se così fosse, non si capirebbe perché qualcuno debba prestar loro dei soldi: e non solo alla Grecia. Tanto peggiore è la reputazione dei governi, tanto più alti sono gli interessi che dovranno corrispondere, per avere credito. E perché di uno Stato che non paga i suoi debiti i cittadini dovrebbero fidarsi quando promette loro la pensione, quando giura che non abuserà dei dati confidenziali in suo possesso, quando dice la sua verità alle famiglie delle vittime di un dirottamento aereo? Dove passa il confine fra le bugie lecite e quelle illecite?
Per «decidere» Tsipras intende: scegliere senza subire le conseguenze delle proprie scelte. E’ un diritto che tutti sogniamo, ma che nessuno dovrebbe avere.

Il Sole 11.2.15
Putin più pericoloso di Milosevic
di Alberto Negri

Putin è un Milosevic più pericoloso e potente mentre l’Ucraina è una sorta di super-Jugoslavia. Il parallelo tracciato da chi vuole armare l’Ucraina di Kiev contro i ribelli dell’Est appoggiati da Mosca può sembrare calzante. Simili persino gli echi della propaganda che portarono alla pulizia etnica dei Balcani. In Ucraina si riflettono nell’evocare le complicità delle milizie locali coi nazisti o i massacri dell’Armata Rossa (per non parlare dei 200mila ebrei uccisi in Volinia e delle stragi tra ucraini e polacchi), così come durante le ultime guerre balcaniche risorse tra i serbi la mitologia dei cetnici e tra i croati quella degli ustascia fascisti.
Allora si trattava di liquidare l’eredità di Tito e di una Jugoslavia dove convivevano popoli e nazioni diverse.
La storia, soprattutto quando si parla di stati semifalliti, anche finanziariamente, si presta a infinite distorsioni e diventa nemica della tolleranza come ricordava Milovan Gilas, il braccio destro di Tito che trattò con Stalin per evitare un’invasione societica, il quale poco prima di morire ricordava che nell’ex Jugoslavia «si stavano regolando i conti della seconda guerra mondiale».
La balcanizzazione è evidente fin dall’inizio. Il secessionismo lo spettro che si aggira in Ucraina in barba a ogni soluzione federale: perché è questo che vogliono Putin e i ribelli dell’Est rendendo il Paese ingovernabile. Fu proprio Putin, all’indomani dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia, ad affermare: «Questo è un precedente orribile che si ritorcerà contro gli occidentali».
Mosca ha puntualmente applicato il diritto del Kosovo all’autodeterminazione per giustificare la protezione delle minoranze russe e l’intervento in Crimea dove il Kosovo è stato richiamato esplicitamente per aderire alla Federazione russa. Vale la pena ricordare che nel ’99 a Pristina, dopo i bombardamenti, prima delle truppe Nato arrivarono quelle russe, accolte dai serbi in festa, mentre lo sbarco anglo-americano era stato rallentato dall’ostruzionismo della Grecia. Tensioni mai sopite, anche adesso che la Serbia è candidata all’ingresso nell’Unione. Al punto che a novembre in Vojvodina si è svolta una manovra militare congiunta Serbia-Russia, la prima per Mosca in uno stato non appartenente alla sfera dell’ex Urss.
Ma altri aspetti rendono più distante il parallelo Ucraina-Balcani. La disintegrazione jugoslava fu un conflitto devastante ma circoscritto e dopo l’intervento in Bosnia guidato dagli americani si andò avanti a trattare con Milosevic. La Russia allora fu spettatrice non protagonista. Quella in Ucraina è una guerra per procura tra Stati, viene percepito non soltanto come un conflitto da miliziani ma tra Mosca, gli americani, la Nato e una costellazione di ex membri dell’Urss o del Patto di Varsavia.
Visti i precedenti i russi non credono all’Occidente: Bush senior promise a Gorbaciov nel ’91 che la riunificazione tedesca non avrebbe portato la Nato oltre la vecchia cortina di ferro. L’Occidente non crede che Putin, come Milosevic, rispetterà i patti. Ma se i Balcani per un decennio sono stati la guerra alla porta di casa, che per i suoi effetti economici e politici si poteva cinicamente ignorare, l’Ucraina è già la guerra dentro l’Europa.

Corriere 11.2.15
Nozze gay
In Alabama vincono i nuovi diritti civili


La sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti, che ha legittimato i matrimoni tra persone dello stesso sesso, costringe l’Alabama, uno Stato conservatore del Sud, a prendere atto della riforma, pur in presenza di una accanita resistenza dell’ establishment locale. Le nozze gay, divenute legittime in 38 Stati su cinquanta, si sono diffuse soprattutto durante la presidenza di Barack Obama, che dal 2011 ha giudicato discriminanti le leggi statali proibizioniste e si è personalmente dichiarato a favore del diritto personale, sollecitando una pronunzia della Corte suprema. Sono stati quindi i giudici costituzionali a dare lo scossone agli Stati tradizionalisti, indisponibili a trascrivere i matrimoni gay degli Stati permissivi, e a forzare le diverse procedure amministrative statali.
La legittimazione dei matrimoni gay in Alabama acquista un significato più generale nella lotta per i diritti civili, e nella interpretazione di alcuni nodi del sistema politico-costituzionale americano. Lo Stato del Sud, oggi richiamato all’ordine costituzionale, è lo stesso che negli anni Sessanta ha resistito alla desegregazione dei neri sotto la guida del governatore George Wallace, che tentò di impedire l’ingresso di due studenti neri all’università dell’Alabama fino all’intervento della Guardia nazionale mobilitata dal ministro della giustizia Robert Kennedy.
L’attuale divaricazione tra Stati permissivi e liberali è la stessa che negli anni Cinquanta-Sessanta si ebbe sui diritti civili dei neri, e che registra l’esistenza tra gli americani di una profonda diversità culturale, per non dire antropologica, che si traduce in una opposta visione della democrazia e dei diritti delle minoranze.
Torna dunque d’attualità nell’America del Duemila la questione della distribuzione dei diritti e dei poteri tra l’Unione e gli Stati, e tra le assemblee legislative e le corti giudiziarie, una questione che risale alla guerra civile del 1860 tra Washington e i «confederati». Gli Stati conservatori del Sud e dell’Ovest sostengono che sulle materie «non federali» come il matrimonio devono prevalere le costituzioni e le legislazioni statali (come nel caso dell’Alabama che ha chiamato in causa il Defense of Marriage Act del 1996 che affida agli Stati il diritto di riconoscere i matrimoni e fa divieto di quelli tra coppie dello stesso sesso), e che le autorità federali non devono avere alcuna voce in capitolo. In maniera opposta, le minoranze d’ogni tipo, oggi i gay e ieri i neri, si appellano ai principi costitu-zionali del Bill of Rights che prevede i diritti individuali e l’ habeas corpus per tutti i cittadini.
Sulla scena pubblica americana è, dunque, in gioco il dilemma che scuote gli ordinamenti dell’Occidente: il contrasto tra la maggioranza democratica e i diritti delle mino-ranze. Gran parte degli elettori dell’Alabama si è pronunziata contro i matrimoni gay (così come per il mantenimento della pena di morte), mentre la Corte federale ha invocato il principio di non discriminazione per dichiarare illegittimi gli ostacoli posti ai matrimoni dello stesso sesso.
Si può infine concludere che ancora una volta negli Stati Uniti i diritti di libertà hanno avuto la meglio sulla maggioranza della popolazione di uno Stato, secondo le direttive della Corte suprema che in materia esercita non solo una rigorosa vigilanza, ma anche un potere legislativo di chiara intonazione liberale.
Nel 1954 una sentenza della Corte sulla desegregazione scolastica, Brown vs. Board of Education, fu la scintilla che mise in moto il movimento per i diritti civili, dapprima guidato al Sud dai pastori delle chiese nere tra cui Martin Luther King, e poi approdato a Washington con le leggi federali volute dai presidenti democratici. Oggi, la legittimazione dei matrimoni gay, che per una diecina di anni è stata prerogativa di alcuni Stati più liberali, è stata estesa alla maggior parte del Paese non già per via legislativa ma con decisioni costituzionali a tutela delle minoranze .

Corriere 11.2.15
La Cina ha paura della Rivoluzione «colorata»

Racconta Gideon Rachman sul Financial Times di un recente editto dall’antico sapore maoista, emesso dal ministero dell’Educazione cinese, contro i «libri di testo che promuovono i valori occidentali». Un nuovo segnale del giro di vite che ha colpito le università, i blogger e i programmi tv e che «rivela un sorprendente senso di insicurezza» e la «paranoia» del governo nei confronti della «minaccia di una rivoluzione colorata che potrebbe sfidare il monopolio del Partito comunista», come avvenuto in Egitto nel 2011 con la «Facebook revolution».

Repubblica 11.2.15
Wang Jianlin
Il magnate di Wanda Group è il secondo uomo più ricco di Cina ha un passato di dirigente di partito e manager pubblico Tocca a lui realizzare i piani calcistici del presidente Xi Jinping
Il capitalista di Stato che ama Marx e Picasso dal business del cemento alla conquista dello sport
di Giampaolo Visetti


PECHINOLa Cina vuole diventare una super- potenza anche nel calcio e Wang Jianlin è il miliardario di Stato scelto dal presidente Xi Jinping per conquistare il soft-power globale di sport e spettacolo. Il magnate di Wanda Group non è un «nuovo ricco» e neppure un giovane rampante. L’uomo deciso a “cinesizzare” il football per trasformarlo nello show industriale del secolo ha 60 anni, è nato nel Sichuan ed è figlio di un alto funzionario del partito comunista, spedito da Mao in Tibet per colonizzare la «regione ribelle». Ha servito per quindici anni nell’esercito popolare di liberazione, si è laureato a Liaoning, si è iscritto al partito nel 1976 e ne è stato a sua volta dirigente, cominciando la carriera a Dalian. Il salto dallo Stato al privato risale al 1989, anno-chiave della strage di piazza Tiananmen. Anche l’era di Deng Xiaoping sta per chiudersi, la Cina si apre a commercio e finanza, l’urbanizzazione fa esplodere il mercato immobiliare. Wang Jianlin è già un manager di successo e nel giro di quattro anni diventa direttore generale e presidente del colosso edilizio Dalian Wanda. La sua fortuna grazie alla fedeltà al partito-Stato cresce in modo vertiginoso. Oggi Wanda Group non è solo il primo gruppo dell’immobiliare cinese, con affari in tutto il mondo e 159 shopping center e 71 hotel di lusso solo in patria. Considerando maturo il business del cemento, colui che i 90 mila dipendenti chiamano semplicemente “il Presidente” ha diversificato nelle bevande, in una dozzina di mega- parchi dei divertimenti per fare concorrenza alla Disney, in centinaia di karaoke, e quasi 900 cinema Imax e 3D. Wang Jianlin, membro della Conferenza consultiva del popolo e di tutte le associazioni cinesi degli imprenditori, è così il proprietario con più sale cinematografiche al mondo, sta scalando le più storiche case produttrici di Hollywood e ha ingaggiato una sfida personale con Jack Ma, tycoon di Alibaba, per il controllo anche dell’e-commerce. Il suo impero, grazie alla svendita dei terreni pubblici da parte dei funzionari locali, resta saldamente ancorato all’immobiliare. Con l’ascesa di Xi Jinping al potere, profeta del “sogno cinese”, si è orientato però sempre più verso l’intrattenimento, per ragioni sia di business che politiche. Parchi dei divertimenti, karaoke, cinema, web e ora sport gli hanno consentito di fondere cemento e comunicazione, commercio e cultura, la Cina con il resto del mondo, fino a oscill are tra i primi tre miliardari del Paese. Forbes e Hurun lo accreditano oggi del secondo posto, con un patrimonio di 28,1 miliardi di dollari, 26° uomo più ricco del pianeta. Davanti a lui, da poche settimane, in patria c’è il nuovo imperatore dei pannelli solari, Li Hejiun del gruppo Henergy, subito dietro proprio Jack Ma, che sconta un calo delle azioni di Alibaba dopo la quotazione record a Wall Street. I collaboratori raccontano che Wang Jianlin dirige il suo impero come fosse la sua vecchia caserma: mai un ritardo, giacca e cravatta obbligatorie, pianificazione maniacale, lavoro 24 ore su 24 ogni giorno della settimana, concorrenti considerati come nemici, meno di cento manager ammessi a partecipazioni azionarie. Rispetto ai primi capitalisti post-rivoluzionari, non ha scelto il profilo basso: esibisce denaro, lusso e belle donne, si circonda di registi e star dello spettacolo, investe all’estero e non nasconde di essere uno dei più prodighi collezionisti d’arte dell’Asia. Due anni fa ha acquistato un’opera di Picasso per 28,2 milioni di dollari (base d’asta un terzo) e ha costruito uno spettacolare museo a Shanghai per esibire la sua collezione di moderni e contemporanei. Solo la passione sportiva è recente, ispirata dagli appelli del calciatore Xi Jinping, ritratto più volte a tirare calci ad un pallone. A fine gennaio, dopo aver rilevato varie immobiliari in Spagna, ha investito 45 milioni di euro per il 20% dell’Atletico Madrid. Ieri l’ufficializzazione di Infront, per 1 miliardo e 50 milioni di euro. Se oligarchi russi ed emiri arabi accettano di farsi spennare per esibire club storici e trofei, i turbo capital-comunisti cinesi puntano al contrario, anche in Europa, a guadagnare. Per ora non acquistano squadre, ma diritti tivù, merchandising e licenze per costruire stadi-centri commerciali. Due le missioni di Wang Jianlin. Quella personale è conquistare la polpa universale del pallone, da unire al cinema per trasformarsi nel re dello spettacolo globale. Quella per conto della leadership rossa è invece proiettare la Cina ai vertici mondiali dell’industria sportiva, ritenuta l’arma più formidabile per assicurare a Pechino il soft-power del secolo. Xi Jinping vuole che la Cina si trasformi entro il decennio in una potenza calcistica e sportiva, aprendo a imprese e sponsor del settore un mercato colossale. Il “nuovo Mao” ha ordinato alla nazione di tornare a qualificarsi per la fase finale dei Mondiali, poi di ospitare un’edizione dei campionati e infine di vincere la sua prima Coppa. Lo scorso anno Beckham è stato nominato ambasciatore del calcio cinese, i club nazionali stanno facendo razzia di allenatori e giocatori stranieri. Il governo ha stanziato 2 miliardi di euro per lanciare 200 campus e 20 mila scuole di calcio, selezionando 100 mila aspiranti campioni entro tre anni, mentre il calcio sta per diventare obbligatorio addirittura a scuola. La Cina autoritaria del Duemila sostituisce gli Usa democratici del Novecento: il presidente Xi Jinping è il suo leader, il mandarino Wang Jianlin il suo profeta. Cultore del “Capitale” di Marx, che dona ai suoi ospiti, si è limitato ieri a commentare: «Più le persone diventano ricche, più cambiano le cose a cui danno valore». E questa volta, compagni, tocca al calcio.

il manifesto 11.2.15
Al via boicottaggio sei industrie israeliane
Cisgiordania Occupata. Da oggi i commercianti palestinesi dovranno boicottare i prodotti di sei importanti industrie alimentari israeliane
E' la risposta dell'Anp al blocco di oltre 200 milioni di dollari palestinesi da parte del governo Netanyahu
Sul boicottaggio di Israele scontro in rete tra due fenomeni del rock anni 70, Roger Waters e Alan Parsons
di Michele Giorgio

qui

Corriere 11.2.15
Califfato, la barbarie invisibile che vuole renderci tutti sudditi
Un saggio di Domenico Quirico sulla misteriosa insurrezione jihadista
di Elisabetta Rosaspina


Sulla copertina del libro, una mappa mostra i confini del Grande Califfato . Per dimensioni, più che per disposizione geografica, ricorda l’insaziabile espansionismo transcontinentale di imperi scomparsi, come l’ottomano o, ancor prima, quello romano. Una chiazza nera dilaga compatta dalla Spagna all’Asia, inglobando i Balcani e il Medio Oriente e scendendo ben più a sud della penisola araba, come una mantella nera che copre la metà superiore dell’Africa. Ne fa parte tutto il Mediterraneo, con l’esclusione — magari soltanto provvisoria — delle coste francesi e italiane.
Agli occhi di un medico potrebbe apparire forse come una radiografia, con le ombre scure di una diffusa metastasi. Agli occhi di un giornalista, come Domenico Quirico, quella è la fetta di mondo che il «califfo» sogna di rendere invisibile. Invisibile e impenetrabile agli «infedeli impuri», cioè più o meno al resto del pianeta. Un delirio? In parte, è un progetto già realizzato: «Ci sono Paesi come la Siria, la Libia, parte dell’Iraq, ma anche l’Afghanistan, il Nord della Nigeria o del Mali, dove non sappiamo più che cosa stia accadendo, semplicemente perché i giornalisti indipendenti non vi hanno accesso» osserva Quirico, l’inviato speciale de «La Stampa» per cinque mesi prigioniero di Jabhat al-Nusra e di altri gruppi armati in Siria, nel 2013.
Fu in quel periodo che il reporter italiano sentì parlare, per la prima volta, di quell’ipotetico regno del tiranno islamico che allietava le menti dei suoi carcerieri e aguzzini: Il Grande Califfato . Che dà il titolo al suo nuovo libro, pubblicato in queste settimane da Neri Pozza. Quirico raccontò ciò che aveva udito appena rimise piede in Italia, dopo la sua liberazione, ma le sue informazioni furono accolte da increduli sorrisi: come si poteva prendere sul serio, negli anni Duemila, lo sproposito di restaurare un «Califfato»? Un territorio governato da una specie di sultano, magari come quello di Iznogoud (in italiano Gran Bailam), il gran visir da fumetto inventato da René Goscinny, con il sogno di «essere califfo al posto del califfo».
Un anno e mezzo più tardi, però, riesce difficile ironizzare sulle metastasi della barbarie che apre e chiude, a suo piacimento, le finestre del terrore. «Da quelle aree ormai le uniche notizie che arrivano — commenta Quirico — sono voci incontrollate e incontrollabili oppure i video della pura propaganda autoprodotta. Mi piacerebbe poter andare a Mossul, nel Nord dell’Iraq, a vedere e raccontare come vive la gente ai tempi del Califfato. Come è cambiata la vita quotidiana dei suoi abitanti sotto il regime dell’Isis. Non se ne sa nulla».
Non si sa nulla della società civile siriana, che in qualche modo sta cercando di sopravvivere allo scempio di ogni speranza di libertà: «Sì, forse, il poco che ne rimane. Non so se esistano ancora luoghi sociali in Siria e comunque non si può andare lì ad ascoltare. L’obiettivo del Califfato è abolire gli Stati. Il problema di uno Stato palestinese, che ha mobilitato l’Islam per più di mezzo secolo, scomparirà, perché lo scopo della jihad è di renderci tutti sudditi del sultano».
Si sa poco anche dell’autoproclamato «emiro» e del suo stato maggiore: «Abu Bakr al-Baghdadi? Non sappiamo con sicurezza nemmeno quando è nato né come si sia sviluppata la sua biografia. I comandanti sono figure quasi completamente ignote. Sappiamo soltanto che, per loro, noi siamo animali da sgozzare».
L’autore non lascia spiragli di speranza nelle 234 pagine in cui descrive quel che ha potuto vedere, intravedere o intuire, negli ultimi anni, dell’avanzata di queste truppe disumane, dove si mescolano etnie, lingue, culture diverse, dai somali ai ceceni, dai nigeriani di Boko Haram agli specialisti iracheni rodati da Saddam Hussein, dai salafiti tunisini fino agli europei, fuoriusciti dalla civiltà per vincere la loro jihad oppure morire. È un viaggio, con una macchina fotografica dentro la mente, per catturare e conservare ogni prezioso particolare dagli abissi del fanatismo. Così ricorrente, nella sua ottusa crudeltà, a qualunque latitudine dove prosperi chi crede davvero che Dio possa ordinare di uccidere.

Repubblica 11.2.15
Limpida, ironica Szymborska
I segreti di una poetessa popolare senza mai volerlo
La sua convinzione è che in ogni esperienza, anche piccola, si nascondano un enigma e un miracolo
di Franco Marcoaldi


ERA da C’aspettarselo ed è accaduto: il sentimento di ammirazione suscitato dai versi di Wislawa Szymborska, esce ulteriormente rafforzato dalla lettura della sua biografia — Cianfrusaglie del passato ( Adelphi). Perché vi ritroviamo la stessa adorabile tonalità “in minore”, la stessa discrezione e sense of humour — oltre a quel paradossale e disperato incanto che traspare dalle sue poesie.
Le autrici, Anna Bikont e Joanna Szczesna, devono aver sudato sette camicie per convincerla a diventare «materia prima» del libro, essendo la Szymborska ritrosa e gelosa della propria intimità. Le due hanno lavorato di uncinetto, per cucire le mille pezzature di una coperta dai mille colori: attendendo con pazienza le sue laconiche risposte alle domande, interpolando il testo con citazioni dai (pochi) discorsi in pubblico o dalle sue spiritosissime prose giornalistiche, affidandosi alle testimonianze degli amici. Sì che alla fine emerge un patchwork o collage — forma espressiva peraltro molto cara al premio Nobel polacco del 1996 — che disegna una silhouette poetico- esistenziale simile a quella che ci eravamo immaginati. Di donna misurata, elegante, fedele nelle amicizie, parsimoniosa nelle parole, avversa a piagnistei e autocommiserazioni. E dotata di uno formidabile talento — intimamente refrattaria ai rischi, sempre presenti in poesia, della retorica e della solennità.
D’altronde, in gioventù, anche Szymborska paga come (quasi) tutti il proprio dazio poetico al totalitarismo staliniano, ma esce vaccinata da quella tabe originaria. E difatti mai più si troverà a fare banda, foss’anche per la più nobile delle cause: il singolare ha cancellato il collettivo, il frammento la visione sistematica, il dubbio ogni certezza. Questo non significa che Szymborska si rifugi nella poetica di minuzie quotidiane autosufficienti, come pure una lettura superficiale dei suoi versi potrebbe far pensare. La sua convinzione è che in ogni esperienza personale, anche la più apparentemente insignificante, siano nascosti un enigma e un miracolo. Ovunque «sonnecchiano forze segrete» e la poesia «con l’aiuto di parole opportunamente scelte riuscirà a risvegliarle». Facendo comunque attenzione ad abbordare di sbieco le questioni ultime dell’esistenza, come dimostra la celebre e meravigliosa poesia sulla morte del compagno di una vita, Konrad Filipowicz, vista attraverso gli occhi del suo gatto.
«Non so», così Szymborska esordisce nel discorso di investitura al Nobel. E proprio tale socratica ignoranza la spinge a farsi domande senza trovare mai risposta. Il suo maestro filosofico è Montaigne, il suo nume pittorico Vermeer, il suo fratello d’umorismo Woody Allen, che prova verso di lei un’ammirazione sconfinata. «In realtà l’umorismo è una grande tristezza che riesce a cogliere il ridicolo delle cose», scrive. Non per caso è maestra di limerick e nonsense, suo passatempo preferito quando si trova in viaggio.
Szymborska ha raggiunto un pubblico vastissimo, impensabile per la poesia. Anche in Italia — dove rimase leggendaria una sua lettura del 2009, nell’Università di Bologna, davanti a millecinquecento persone. Quella star involontaria era la stessa che all’editore — pronto a ristampare un suo libro dopo che le prime due edizioni si erano bruciate nel giro di pochi giorni — disse: evitiamo, «il mercato è già saturo».
IL LIBRO Anna Bikont e Joanna Szczesna, Cianfrusaglie del passato ( Adelphi, pagg. 528, euro 28 a cura di Andrea Ceccherelli)

il manifesto 11.2.15
Per Walter Benjamin la cattura dell’attenzione è una questione di stile
di Fabrizio Denunzio

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La Stampa 11.2.15
Hawking&Turing, quando le lacrime sommergono i neuroni
Riusciranno i due film a ispirare le nuove generazioni di scienziati?
di Massimiano Bucchi


Due tra i film più importanti di questa stagione vedono come protagonisti scienziati: «La Teoria del Tutto», dedicato al fisico Stephen Hawking, e «The Imitation Game», centrato su quella del matematico Alan Turing. Che cosa ci dice sulla figura e sul ruolo pubblico dello scienziato questa attenzione da parte del cinema? E che cosa è cambiato rispetto al passato?
Fenomeno «biopic»
Il fenomeno delle cosiddette «celebrità scientifiche» non è una novità. Già la fine dell’Ottocento vede affermarsi figure scientifiche di straordinario rilievo pubblico, come quella del chimico e biologo Louis Pasteur. Le sue scoperte nel campo della vaccinazione, il suo carisma e la sua grande abilità comunicativa lo fanno entrare a pieno titolo nella cultura popolare: gli vengono dedicati brani musicali e perfino figurine da collezione. Nei primi decenni del Novecento, poi, biografie popolari come quella di Paul de Kruif, «Cacciatori di microbi», dedicata a scienziati come lo stesso Pasteur e a Koch, definiscono con il loro successo il canone della figura pubblica dello scienziato come benefattore dell’umanità. Numerosi medici e scienziati, tra cui Albert Sabin che in seguito sviluppò il vaccino contro la polio, hanno dichiarato di aver trovato proprio in quel libro, da ragazzi, l’impulso per la propria carriera nel mondo della ricerca. E proprio una produzione hollywoodiana dedicata a Pasteur, «La vita del dottor Pasteur» del 1936, è considerata la «madre» dei «biopic» - i biographical film - con protagonisti scienziati. Prodotta dalla Warner, con al centro un Pasteur in lotta contro il dogmatismo dei colleghi per affermare le proprie teorie, la pellicola vinse tre premi Oscar ed ebbe un grande successo di pubblico.
La sua fortuna aprì la strada a una serie di «biopic» con protagonisti scienziati come il Premio Nobel Marie Curie. Secondo David Kirby dell’Università di Manchester, tra i maggiori studiosi del rapporto tra scienza e cinema, «in quel periodo l’approccio di Hollywood alle vite degli scienziati può essere riassunto in due parole: miracolo e tragedia». Imprese straordinarie che attraversano vite spesso segnate da tragedie personali e collettive. Un approccio che non sembra troppo diverso da quello odierno, se si pensa a «The Imitation Game», dove il ruolo delle intuizioni di Turing nella Seconda guerra mondiale si intreccia con la sua drammatica vicenda personale. Senza contare che le ricerche più recenti ci confermano come personaggi e contenuti della fiction di taglio o argomento scientifico continuino ad avere un impatto significativo sulle nuove generazioni. Secondo il centro ricerche Observa-Science in Society, oltre il 20% degli studenti italiani che scelgono studi ad indirizzo scientifico riconoscono di essere stati influenzati nella scelta da film e serie tv come «Csi» o «Numb3rs».
Pubblico e privato
Non mancano, tuttavia, elementi di discontinuità. Il più rilevante appare la crescente fusione di dimensione pubblica e privata che caratterizza l’immagine pubblica degli scienziati più visibili. Il caso di Hawking in questo senso è esemplare. Tre anni fa, quando concesse una lunga intervista in occasione del suo 70° compleanno, i media di tutto il mondo ripresero soprattutto la sua risposta alla domanda su quale tema occupi maggiormente i suoi pensieri («Le donne: sono un completo mistero»). Allo stesso modo, più che sui contenuti della ricerca di Hawking, «La Teoria del Tutto» si sofferma su suoi anni giovanili e sull’incontro e il rapporto con la prima moglie Jane.
Resta da vedere se anche questi film, come i predecessori, riusciranno ad ispirare le vocazioni dei futuri scienziati. O perlomeno ad incentivare la lettura del celebre bestseller di Hawking, «Dal Big Bang ai buchi neri», da anni «in cima alle liste dei libri comperati e mai finiti di leggere», secondo la rivista «New Scientist».

Corriere 11.2.15
Wenders: viaggio nella psiche in 3D
Il regista con James Franco racconta la rinascita di uno scrittore
«La vita è dolore ma si guarisce»
di Valerio Cappelli


DAL NOSTRO INVIATO BERLINO Wim Wenders, il poeta sopra Berlino, ci ricorda che dietro ogni perdita c’è una rinascita. «Questo è un film sul senso di colpa e sul perdono, che non è un tema soltanto tedesco ma riguarda ogni essere umano. È anche un film sulla guarigione, che di rado viene affrontata nel cinema, in genere si preferisce parlare di ferite».
Alla Berlinale, dove prenderà l’Orso d’oro alla carriera, il regista ha mostrato fuori concorso Every thing will be fine , in formato 3D. Il protagonista è James Franco, nei panni di uno scrittore che alla guida della sua auto investirà un bambino, uccidendolo. «Nessuno ha una grande colpa, ma tutti ne sono coinvolti», dice il regista, 70 anni in agosto, uno dei maestri del«nuovo cinema tedesco».
È buio, nella campagna canadese innevata, il fratellino maggiore viene giù con lo slittino, assieme al più piccolo, e taglia la strada alla macchina. I primi due romanzi dello scrittore erano passati inosservati. Il terzo, scritto dopo l’incidente, sprigiona la sua creatività: ha a che fare con il dolore degli altri. Mentre la sua storia sentimentale con Rachel McAdams, già altalenante, si chiude, egli diventa un autore affermato, «grazie» alla sofferenza che ha involontariamente causato a Charlotte Gainsbourg, nei panni della madre del bambino, una persona che era per lui una perfetta estranea.
La sceneggiatura è del norvegese Bjorn Olaf Johannessen, che Wenders aveva incoraggiato al Sundance. Dopo il film sulla coreografa Pina Bausch, Wenders scoprì che il 3D aveva potenzialità anche sulla sponda drammatica, esaltando l’anima e i dettagli dei sentimenti più estremi, non solo gli effetti speciali dei blockbuster.
Il titolo, Every thing will be fine , secondo il regista sintetizza il tocco della storia, «un po’ fiaba e allo stesso tempo realistica, perché parliamo di qualcosa di reale, come si guarisce da un trauma».
Recitando per sottrazione, James Franco dà una lettura «tutta interiorizzata» del suo personaggio. Wenders dice che gli scrittori da lui conosciuti, Handke, Auster, Shepard, sono così, «persone enigmatiche e solitarie» in cerca delle parole. Solo che il «nostro» scrittore deve reagire a un dramma…
«James — dice Wenders — ha un approccio molto moderno, il contrario degli attori degli Anni 70, che recitavano se stessi. Da allora il mondo è cambiato, la Germania non ha più nulla a che fare con quegli anni, era un Paese perso, pieno di dolore e melanconia. Una terra di nessuno nel cuore dell’Europa».
Wenders vive il cinema come «un’avventura dello spirito», dice che solo dal suo quarto film, Alice nella città , si considera un regista, «prima imitavo ora Cassavetes ora Hitchcock». Il cielo sopra Berlino è più azzurro.

Corriere 11.2.15
Un melodramma «tecnologico» che scivola nel banale
di Paolo Mereghetti


Il ritorno di Wenders ai film di finzione (l’ultimo era Palermo Shooting , nel 2008, il penultimo Million Dollar Hotel nel 2000: in mezzo solo documentari) avviene nel nome del film-saggio: Every thing will be fine (Andrà tutto bene) è metà melodramma raggelato, metà riflessione sulla creatività al lavoro. Dove l’uno — il dolore e la sua esperienza — diventa motore dell’altro. Succede così a Tomas (James Franco) che investe senza gran colpa la slitta di due bambini. Uno sopravvive, l’altro muore. Lui entra in una depressione che lo spinge al suicidio ma quando ne esce la sua scrittura (è un autore all’inizio della carriera) risulta più forte. Nei dodici anni in cui si dipana, il film vorrebbe dimostrare che Tomas ha saputo far tesoro delle tragiche esperienze di cui è stato protagonista, ma questo «messaggio» rischia di sembrare velleitario: Wenders gioca con la luce e il 3D, evita molti snodi narrativi e «silenzia» dialoghi che potrebbero spiegare molto, in nome di un cinema fatto di suggestioni e non-detti. Ma rischia di scivolare nel generico se non addirittura nel banale.

Repubblica 11.2.15
Il concorso
“Romanae Disputationes” la sfida di filosofia per 800 studenti italiani

ROMA Sarà Stefania Giannini, ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, a inaugurare i lavori delle Romanae Disputationes . Da domani per tre giorni ottocento studenti delle scuole secondarie superiori provenienti da tutta Italia si daranno appuntamento alla Pontificia Università Urbaniana per il concorso-convegno nato per risvegliare l’interesse nei confronti della filosofia.
“Liberta va cercando, ch’è`sì cara” L’esperienza della libertà , è il tema dell’edizione del 2015 che, prendendo in prestito un verso dantesco, ha coinvolto gli studenti in varie prove che saranno poi esaminate e premiate durante la tre giorni, dal 12 al 14 febbraio, tra lezioni, seminari e laboratori intorno all’argomento. Il programma è consultabile sul sito romanaedisputationes. com.

La Stampa 11.2.15
Orologio biologico e malattie psichiatriche
di Rosalba Miceli

qui

Corriere 11.2.15
Psicologia
Le 18 fobie più assurde di cui soffre la gente

Un’inspiegabile e persistente repulsione nei confronti di determinate situazioni, oggetti, attività e creature viventi (animali o umane): è la fobia, ovvero quella paura estrema e sproporzionata per qualcosa che, pur non rappresentando di per sé una reale minaccia, scatena invece comportamenti irrazionali da parte di chi ne soffre, che tende così a lasciarsi sopraffare dal terrore senza un’apparente ragione. Insomma, che siano gli spazi chiusi o i ragni, le altezze o il buio, c’è una paura per tutto, come conferma l’elenco stilato su phobialist.com per dare un nome ad ogni fobia, non importa quanto assurda e stravagante possa sembrare. E se non ci credete, ecco 18 esempi di questi irragionevoli e altrettanto bizzarri terrori.
di Simona Marchetti
da qui

martedì 10 febbraio 2015

La Stampa 10.2.15
La strage dei migranti
In mare 29 morti di freddo
Si temono altre vittime. Boldrini: addio al Mare Nostrum, ecco le conseguenze
di Laura Anello

Pietro Bartolo, il direttore del poliambulatorio, ha la voce dei giorni più bui. «Parlo da medico e non da esperto di questioni internazionali, ma con Mare Nostrum questi ragazzi molto probabilmente sarebbero vivi. Non è possibile che si vadano a recuperare i migranti a 100-120 miglia da Lampedusa per poi portarli verso la Sicilia in condizioni meteo proibitive e con mezzi inadeguati al soccorso». Davanti a lui ci sono i 29 cadaveri sbarcati dalla motovedetta Cp 302 d della Guardia costiera al molo Favaloro di Lampedusa, i vestiti fradici di acqua, le bocche aperte, gli occhi sbarrati, le mani violacee.
Assiderati
Sette erano già morti quando l’imbarcazione ha raggiunto il barcone in avaria, gli altri ventidue si sono spenti uno dopo l’altro davanti agli occhi dei soccorritori che solcavano a fatica il mare forza 8, e il vento gelido era un killer. I vivi ieri sera erano 83. Ma sette di loro sono stati ricoverati in emergenza, sei a Lampedusa, uno a Palermo con l’elisoccorso. «Alla fine il bilancio potrà essere ancora più pesante», aggiunge Bartolo, mentre gli uomini della guardia costiera hanno la faccia sconvolta, «onde alte nove metri, come tre piani di un palazzo, è stata durissima».
Sono i volti e le voci dell’ennesima tragedia dell’immigrazione nel Canale di Sicilia, questa volta accompagnata da un coro di polemiche contro i limiti di Triton, la missione europea che all’inizio dell’anno ha preso il posto dell’operazione tutta italiana Mare Nostrum. Con la differenza che, per dirla con il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini – anche lei ripiombata nel peggiore degli incubi – «Mare Nostrum era un’iniziativa umanitaria, Triton è un’operazione di salvaguardia delle frontiere». E quindi se con la vecchia missione c’erano le navi militari italiane a pattugliare il Canale di Sicilia, ad accogliere, soccorrere, mettere al sicuro, curare a bordo i profughi, adesso questo non c’è più. E succede, come in questo caso, che debbano essere due motovedette a partire da Lampedusa, viaggiare per 120 miglia in mezzo alla tempesta, recuperare uomini assiderati e portarli in direzione inversa.
La presidente della Camera
«Un orrore - come dice in un tweet il presidente della Camera, Laura Boldrini - persone morte non in un naufragio, ma per il freddo. Queste le conseguenze del dopo MareNostrum». Il leader della Lega Nord Matteo Salvini, sul fronte opposto, dice che chiederà al presidente della Commissione europea Junker di sospendere Triton, «operazione inutile e di morte», mentre invita il ministro degli Interni Angelino Alfano a dimettersi. Giusi Nicolini è sconfortata: «I 366 morti del 3 ottobre 2013 non sono serviti a niente, le parole del papa non sono servite a niente».
La cronaca sembra darle ragione. L’Sos è partito nel primo pomeriggio di domenica – la solita chiamata da un telefono satellitare rimbalzata al Centro nazionale di soccorso delle Capitanerie di porto di Roma – ma le motovedette salpate da Lampedusa hanno raggiunto il barcone proveniente dalla Libia soltanto dopo le 10 di sera e hanno poi lavorato tutta la notte per completare il trasbordo dei migranti. I due mercantili che si trovavano in zona e sono stati dirottati sul posto, il Bourbon/Argos e il Saint Rock, poco hanno potuto fare se non cercare di proteggere l’imbarcazione. Anzi, le imbarcazioni. Perché accanto a quella più grande e più affollata c’erano altri due gommoni, dove sono stati recuperati soltanto 7 uomini in uno e 2 nell’altro. Che fine hanno fatto gli altri passeggeri? Dove sono finiti? Una delle domande cui dovrà rispondere l’inchiesta aperta dalla procura di Agrigento, «al momento contro ignoti, ma non escludiamo l’omicidio colposo o doloso», spiega il procuratore capo Renato Di Natale. A Lampedusa torna intanto a girare la frase antica. «Siamo stati lasciati soli, l’Europa ci ha abbandonato».

La Stampa 10.2.15
“Tragedia destinata a ripetersi”
Il Viminale teme per il 2015
Libia e Siria premono: il flusso di clandestini cresce
di Guido Ruotolo


Tre «eventi» diversi. Decine di morti, forse molti di più, per il freddo, per assideramento. Profughi, disperati che hanno sfidato la sorte, che sono scappati dalle guerre etniche, di religione. Sono sempre loro, gli irregolari che provano ad attraversare il Canale di Sicilia, a pagare con la vita il tentativo di lasciarsi alle spalle un passato drammatico.
È la prima strage del 2015. Un brutto segnale. Anche a gennaio, anche adesso che il mare è proibitivo si sono fidati dei trafficanti di “merce umana” e si sono imbarcati su tre gommoni. Questo pezzo di Mediterraneo non conosce mai una sosta, mai un periodo di «fermo». E nonostante una Libia nel caos e ingovernabile, decine di migliaia di uomini e donne, vecchi e bambini, si affacciano sulla costa della Tripolitania o della Cirenaica, in attesa di partire per l’Italia. Nel gennaio del 2014 ne arrivarono 3.300, 3.709 nei primi 31 giorni di quest’anno. E se il 2014 si è chiuso con 170.000 sbarchi, quanti ne arriveranno quest’anno? Gli esperti sono pessimisti, ufficialmente non azzardano ipotesi, anche se i ragionamenti che si fanno lasciano intendere che i numeri del 2014 potrebbero essere superati.
Gli esperti del Viminale non vanno oltre un: «Nessun fattore di spinta è venuto meno». E cioè le tante crisi geopolitiche ed economiche dell’Africa e del vicino Medio Oriente continuano ad alimentare quel fiume carsico di migranti che cerca di trovare uno sfogo per raggiungere l’Europa. Finora sono stati recuperati 29 corpi senza vita, morti per il freddo. Ma degli altri due «eventi» di ieri i superstiti sono stati solo una decina. E gli altri disperati che fine hanno fatto? I due gommoni sono per caso partiti vuoti? Mentre sono confuse le notizie che arrivano dalla Libia e dal Canale di Sicilia, da noi c’è già chi comincia a denunciare che queste vittime potevano essere salvate solo se Mare Nostrum non fosse andata in pensione.
L’anno scorso, nonostante l’operazione umanitaria di Mare nostrum, con i mezzi della Marina militare a poche miglia dalle acque territoriali libiche, secondo i dati delle Nazioni unite, vi furono 3.538 tra morti e dispersi. Certo, potevano essere dieci volte di più, ma di per sé la certezza di avere navi ai confini delle acque libiche non esclude la possibilità di naufragi. E solo quasi la metà dei 170.000 migranti arrivati nel nostro Paese nel 2014 sono stati salvati da Mare Nostrum. Oggi c’è il dispositivo di Frontex che pattuglia il Canale di Sicilia, anzi i confini italiani a trenta miglia da Lampedusa. È l’operazione «Triton» che siamo riusciti a ottenere da una Europa poco entusiasta. La cronaca di queste ore ripropone drammaticamente la questione immigrazione. Anche senza Mare nostrum continueranno ad arrivare. Ma se questo esodo viene vissuto «solo» come un problema di ordine pubblico e adesso di sicurezza nazionale, per via del rischio che i terroristi jihadisti potrebbero utilizzare i canali dell’immigrazione clandestina per arrivare in Europa, il fenomeno è destinato a riproporsi in termini anche più significativi se non si aggrediscono le cause alla radice.
Per la sua dimensione endemica, l’immigrazione irregolare deve essere affrontata ormaicome questione di politica estera dell’Unione Europea. Siria e Libia, sono le due emergenze. Se si troverà una soluzione, allora si potrà governare il fenomeno della immigrazione.

Corriere 10.2.15
Il medico di Lampedusa: «Così i soccorsi sono inadeguati. Prima li avremmo salvati»
di Alessandra Coppola


«Tutti uomini giovani e forti — sospira amaro Pietro Bartolo —. Tutti morti». Ce li ha davanti, mentre gli squilla il cellulare: «Non riesco a cominciare il lavoro». Affaticato, spiccio. Un’altra strage: «Era prevedibile, e succederà di nuovo. Non è questo il sistema giusto per salvare vite umane. Probabilmente con Mare Nostrum non avremmo avuto questi morti: non è possibile che si vadano a recuperare i migranti a 100-120 miglia da Lampedusa per poi portarli verso la Sicilia in condizioni meteo proibitive. Quel dispositivo consentiva alle navi della Marina di raggiungere questi disperati, prenderli a bordo, metterli al riparo e ristorarli. Ora questo è più difficile». È il dottore dell’isola, il direttore del Poliambulatorio che ne ha salvati a centinaia, ne ha fatte partorire a decine. E poi ha anche contato i cadaveri, di tutte le provenienze e di tutte le età. «Bare, bare, qui ci servono tante bare e nient’altro!», gridava disperato alla radio quando di corpi ne erano stati raccolti in mare 366, il 3 ottobre 2013. E lui era sul molo a ricomporli: «I pescherecci arrivano e mi scaricano qui solo morti e ancora morti!».
Ieri, la Guardia costiera gliene ha portati altri 29. «Africani, sub-sahariani — dice, e per la lunga esperienza saprebbe azzardare anche da quali Paesi venivano —. Costa d’Avorio, Ghana, Niger. Non ci sono donne e bambini. Erano ragazzi. Al cento per cento morti di ipotermia». Di freddo.
Sono settimane che a Lampedusa fa il gelo degli inverni peggiori. «Una roba impensabile». Il mare è così grosso, racconta Vito Fiorino, che per 15 giorni la nave non ha attraccato. «C’è riuscita domenica a portarci i viveri, oggi neanche è venuta». Lampedusano del weekend, Fiorino era stato tra i soccorritori volontari del 3 ottobre, e adesso è con una certa angoscia che raccoglie le notizie della motovedetta che è partita per il salvataggio e per le condizioni delle onde rischiava pure di ribaltarsi.
«Non è cambiato nulla — continua Bartolo —. Dopo il primo novembre (fine di Mare Nostrum, ndr ) le barche hanno continuato ad arrivare. Solo che non se ne dà più notizia». L’ultima bagnarola «è stata rimorchiata 5, 6 giorni fa: 181 persone a bordo, come questi ragazzi partiti dalla Libia». Buttati in acqua dai trafficanti nonostante il maltempo che sta battendo il Mediterraneo.
Quando le onde sono alte, i primi a salire a bordo sono gli africani, che per gli scafisti valgono meno e possono rischiare di più. Ma ora il freddo è micidiale. «Si sono salvati i più robusti — continua il medico — chi è riuscito a trovare un angolino riparato. Ma anche i sopravvissuti sono in condizioni precarie». Non è stagione da rotta Sud. Gli arrivi negli ultimi mesi sono soprattutto via terra o dalla Turchia, su mercantili che resistono alle onde. Ma chi segue le pagine Facebook e i siti arabi dove i profughi siriani si scambiano notizie segnala un inquietante aumento delle ricerche di persone scomparse in viaggio .

Repubblica 100.2.15
Giusi Nicolini
“Tragica prova dell’inutilità di Triton con Mare Nostrum arrivavano vivi”
intervista di A. Z.

ALLE cinque del pomeriggio, sotto un vento sferzante, Giusi Nicolini è di nuovo sul molo Favaloro. Di nuovo davanti a corpi senza vita pietosamente adagiati nei teloni di plastica.
Sindaco, ci risiamo?
«Siamo di nuovo qui, di fronte a un’altra tragedia, a piangere ragazzi morti in cerca di un futuro: una situazione drammatica ma purtroppo ampiamente prevedibile, che in tanti hanno sulla coscienza ma nessuno prova vergogna ».
Chi li ha sulla coscienza, l’Europa?
«Tutti quelli che hanno fatto finta di non capire e che forse ora faranno finta di non vedere. Tutti quelli che dicevano che l’operazione Mare nostrum ha fatto aumentare gli arrivi. Forse è vero. ma almeno arrivavano vivi. Ora, invece, arrivano morti. E Triton, che dovrebbe sostituire Mare nostrum , non è un’operazione umanitaria ma solo di salvaguardia delle frontiere. Non serve a nulla: né a salvare la gente e nemmeno a dare l’allarme. L’Sos l’hanno mandato quei poveri migranti. E quel che è successo dopo è l’esempio perfetto di quanto accadrà chissà quante altre volte in futuro».
Soccorsi troppo lontani?
«Lontani, inadeguati e non attrezzati: come si può pensare di salvare i migranti in mezzo al Canale di Sicilia facendo partire motovedette aperte, senza materiali, da Lampedusa? Lo sapete quante ore ci vogliono per andare e tornare? E nel frattempo a questa gente che sta morendo quale aiuto siamo in grado di dare? Questi ragazzi non sono naufragati, né annegati, ma morti di freddo. Per non parlare del rischio che corrono anche gli operatori dei soccorsi. Ma a chi interessa davvero tutto questo? ».
Lampedusa nell’ultimo anno, con Mare nostrum , era ormai fuori dalle rotte di migranti. Cosa si prospetta adesso?
«Un drammatico ritorno al passato, come se i naufragi del 3 e del 10 ottobre non fossero mai avvenuti, come se Mare nostrum non fosse mai esistita. Ma le cose devono cambiare per forza. L’Europa ha deciso di lasciare nuovamente l’Italia da sola e l’Italia in silenzio ha permesso che succedesse di nuovo. Io purtroppo non posso spostare Lampedusa dalla carta geografica, noi siamo l’unico avamposto in mare ma non possiamo pensare di affrontare una nuova drammatica stagione di sbarchi. E soprattutto di morti. Il governo deve fare la voce grossa per riprendere un’operazione umanitaria».
Il centro di accoglienza, dopo lo scandalo delle docce disinfettanti ai migranti, è in ristrutturazione. Siete attrezzati per questa nuova emergenza?
«I padiglioni non interessati dai lavori sono agibili, il poliambulatorio lavora a pieno ritmo, ma questi poveri morti dove li mettiamo? Non abbiamo neanche le bare».

Repubblica 10.2.15
Vergogna europea
di Gad Lerner


LA DENUNCIA di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, è di quelle che dovrebbero rendere insonni le notti dei nostri governanti.
«SIAMO tornati a prima di Mare Nostrum. Non sono serviti a niente i 366 morti del 3 ottobre 2013, non sono servite a niente le parole di Francesco».
Ci avevano presentato come un successo il coinvolgimento degli altri paesi europei nella nuova operazione Triton, minimizzando il vincolo imposto alle navi militari: limitare il pattugliamento all’interno delle acque territoriali. Sottovoce lasciavano intendere che non sarebbe cambiato nulla, anzi, che tale arretramento del raggio d’azione avrebbe disincentivato i trafficanti e i profughi loro ostaggi. Con un bel risparmio di 9 milioni al mese, ovvero 108 milioni l’anno, considerati un onere eccessivo sul bilancio dello Stato.
Menzogne, sotterfugi. La verità si è imposta in queste notti invernali di mare a forza 7, quando la rinuncia a una presenza costante della Marina Militare in acque internazionali ha ritardato l’intervento delle motovedette della Guardia Costiera, peraltro encomiabili per l’impegno profuso tra le onde di otto metri che hanno prima infradiciato e poi congelato decine di poveracci, fino a ucciderli per ipotermia.
Inequivocabili risuonano le parole di Pietro Bartolo, direttore sanitario di Lampedusa: «Non è questo il sistema giusto per salvare vite umane. Probabilmente con Mare Nostrum non avremmo avuto questi morti». Le motovedette non sono attrezzate a prestare soccorsi immediati, a differenza delle navi della Marina non hanno medici a bordo, faticano a coinvolgere i mercantili di passaggio.
Anche le nude cifre sono inequivocabili. Smentita la pretesa di scoraggiare i viaggi dall’Africa mostrandoci meno accoglienti. Gli sbarchi dacché Frontex ha preso il posto di Mare Nostrum sono aumentati: furono 2171 nel gennaio 2014; sono stati 3528 nel gennaio di quest’anno. I morti registrati fino al 9 febbraio dell’anno scorso furono 12; i morti già contati alla stessa data del 2015 sono più di 50. Considerateli il prezzo di una ritirata dalle acque internazionali e chiedetevi se possiamo accettare che l’annegamento, il soffocamento, il congelamento di persone ci riguardi meno quando avviene a 100 miglia anziché a 12 miglia da Lampedusa.
Sarà bene precisare, a questo punto, che la decisione Ue di accontentarsi del presidio dei confini europei — ammesso che sia sensata e moralmente accettabile — di per sé non costituiva un impedimento alla libera iniziativa sovrana dello Stato italiano. In altre parole, l’Europa gretta e egoista non vietava affatto al nostro governo di proseguire l’azione intrapresa con Mare Nostrum. Tanto è vero che la nostra Marina Militare ha fatto pressioni sulle autorità politiche per proseguirla, ricevendo in cambio accuse di insubordinazione corredate di insinuazioni sui vantaggi economici che gliene derivavano. Insomma, l’Europa ci ha fornito un alibi per rinunciare a un’opera di soccorso umanitario della quale pure avevamo menato gran vanto. E che il governo ha pensato di poter interrompere alla chetichella, fingendo che nulla fosse cambiato.
Da questo punto di vista, i morti di freddo nel Canale di Sicilia non rappresentano solo una ferita alla coscienza nazionale di un paese civile. Segnalano anche un deficit di politica estera che offusca il nostro ruolo di potenza mediterranea.
Stiamo cedendo spazio al monopolio di mafie transazionali che insieme alla tratta dei migranti gestiscono anche il commercio illegale di armi e materie prime, avvantaggiando il radicamento jihadista sulla sponda sud del nostro mare. L’esito più immediato di questo ripiegamento potrebbe essere la chiusura della nostra ambasciata a Tripoli, ultimo avamposto occidentale in Libia, dove aumentano i rischi anche per il nostro rifornimento energetico.
Ricordiamo Enrico Letta e Josè Barroso inginocchiati davanti a centinaia di bare nell’hangar di Lampedusa, meno di due anni fa. La sensazione è che ora ci troviamo di nuovo in ginocchio, ma voltati dall’altra parte come se questa tragedia non ci riguardasse più. Magari perché così ha voluto il ministro Alfano. Eppure ci vorrebbe poco per ripristinare Mare Nostrum, salvando vite umane e insieme l’onore della nazione.

il Fatto 10.9.15
C’è ancora un’Europa?
Continente diviso La sfida di Atene
La Bce non basta, serve la politica
di Barbara Spinelli


IL DEBITO PUBBLICO
141,8 mld arrivano dal fondo salva Stati, 27 dalla Bce, 52,9 dai governi, 25 dal Fmi

In un’Unione malata, divisa, minacciata da povertà e diseguaglianze crescenti, le proposte avanzate dal governo greco dopo le elezioni del 25 gennaio andrebbero attentamente esaminate e discusse: tra i 28 Stati membri, tra i 19 governi dell’Eurozona e nella Commissione, nel Parlamento europeo, nella Banca centrale europea.
Le risposte fin qui date ad Atene sono non soltanto ingiuste e in alcuni casi pericolosamente antidemocratiche, ma del tutto controproducenti. La possibilità di cambiare radicalmente rotta, nell’amministrazione della crisi e nei programmi di austerità, viene esclusa a priori. La domanda stessa formulata dal governo Tsipras – non una cancellazione del debito ma un negoziato sulle modalità dei rimborsi e un aggancio di questi alla crescita – viene arbitrariamente travisata, demonizzata e rigettata. Vince l’autocompiacimento della fede, contro i fatti e l’evidenza dei fatti. La malattia, non curata, coscientemente la si vuol perpetuare.
Per questo c’è da allarmarsi, quando i governi (e in primis il governo tedesco) lasciano sola la Banca centrale europea, con le uniche risposte tecniche che le sono consentite, a sciogliere nodi che essendo eminentemente politici non le spettano. Sola, ad annunciare che non accetterà più i titoli di Stato ellenici, e a dare alla Grecia pochi giorni di tempo per rientrare nei ranghi e obbedire alle direttive impartite a suo tempo dalla troika (la Bce lascia tuttavia una porta aperta: la possibilità di erogare liquidità d’emergenza attraverso l’Ela). Vuol dire che la richiesta di studiare il piano ellenico di rientro dal debito non sarà neppure presa in considerazione. Che al governo greco è vietato fronteggiare l’emergenza umanitaria con aumenti del reddito minimo, con la restaurazione di servizi pubblici basilari nell’istruzione e nella sanità, con nuovi investimenti, con tasse patrimoniali.
Vuol dire che non si discuterà del Piano Marshall – ben più consistente del Piano Juncker – che il ministro del Tesoro Yanis Varoufakis ha proposto al governo Merkel, chiedendogli di divenire l’“egemone” di un’Europa da guarire e rifondare. Vuol dire che l’Europa così com’è non è considerata affetta da una crisi sistemica tale da mettere in questione non qualche Stato indebitato, ma l’intera architettura dell’unione monetaria. Significa infine chiudere gli occhi di fronte all’essenziale: il divario che va estendendosi fra la sovranità dei cittadini, iscritta nelle singole costituzioni, e quello che un’élite decide al loro posto. Il fastidio è palpabile e diffuso, verso il tribunale democratico che sono le elezioni. Personalmente non auspico il ritorno delle banche centrali nelle mani degli Stati, né la fine dell’indipendenza dell’istituto di emissione. Ritengo che tale indipendenza rappresenti non un ostacolo, ma una precondizione perché il pubblico interesse sia almeno parzialmente tutelato dall’intrusione imprevedibile e infida dei mercati, delle lobby, delle forze politiche di questo o quello Stato. La vera insidia non è racchiusa nell’indipendenza della Banca centrale, ma nella sua eccessiva solitudine. Un comune istituto di emissione senza Europa politica sarà per forza di cose accusato di ingerenza e prepotenza. La banca centrale è, e deve rimanere, un’istituzione con compiti limitati; non può colmare le lacune della politica. Tuttavia, deve essere più che mai consapevole delle speciali difficoltà e responsabilità che derivano dall’anomalia di una moneta senza Stato.
UNA MONETA è legittimata se costituisce lo strumento di pagamento e di scambio di un territorio dotato di un governo, di un sovrano politico: in democrazia, un sovrano legittimato dalle urne. Se l’euro non è legittimato, è appunto perché continua a essere una moneta senza Stato. Contrapporre le riforme strutturali dell’eurozona al verdetto delle urne, affermare che le elezioni democratiche non hanno effetto alcuno sugli accordi di gestione della crisi che hanno prodotto disastri umanitari in uno Stato membro è una regressione gravissima. Questa regressione è in atto da molti anni: perdono peso le Costituzioni, i Parlamenti, gli appuntamenti elettorali. La crisi economica che traversiamo è sfociata in crisi delle democrazie. Cresce la propensione a ripetere errori del passato, precipitando un popolo nell’umiliazione: tende a ripeterli proprio Berlino, che sperimentò tale umiliazione dopo la Prima guerra mondiale. Continuare a ripetere che “l’euro è irreversibile” non ha più senso. È un sotterfugio performativo, che appartiene alla sfera del pensiero magico e non ha nulla a che vedere con la realtà e con la sua possibile evoluzione. Nessuna conquista politica o sociale è irreversibile. Non dobbiamo andare molto indietro nella storia per sapere che la nostra civiltà è, come tutte le altre, mortale.

Corriere 10.9.15
Se la sinistra attua politiche di destra
Liberali e cattolici. Tutto ciò che manca alla destra
di Ernesto Galli della Loggia

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Repubblica 10.2.15
I Partiti messi a nudo dalla corsa verso il Colle
di Piero Ignazi


LE ELEZIONI del presidente della Repubblica potevano costar care a Matteo Renzi se non avesse trovato un candidato in grado di unire il proprio partito e di aggregare consensi ulteriori. La prova è stata superata brillantemente gettando lo scompiglio nei campi avversi. Da un lato, il M5S si è trovato una volta di più isolato, incapace di cogliere una occasione propizia per incidere, come invece era successo al momento delle nomine dei membri per la Consulta e il Csm. Dall’altro, Forza Italia ha capito, una volta per tutte, che non ha più di fronte dei leader impacciati e percorsi da un inferiority complex, bensì un giocatore spavaldo e senza timori riverenziali.
La rivelazione della nudità del loro leader carismatico ha scatenato una crisi di identità tra i forzisti: questa volta non ci sono complotti di magistrati o di poteri forti, brogli elettorali o interventi esterni, per giustificare la sconfitta. Si è trattato di uno schienamento plateale e patente, consumato in diretta, ora dopo ora, sotto i riflettori di tutte le televisioni. Il Patto del Nazareno, continuamente invocato come un amuleto salvifico da Forza Italia, ha rivelato il suo vero fine che non riguardava tanto l’approvazione delle riforme, bensì la svirilizzazione dell’opposizione berlusconiana in vista di quel passaggio cruciale per tutti i segretari di partito che sono le elezioni presidenziali. Arrivati all’appuntamento del Quirinale tranquilli e sereni (anche loro…), i dirigenti forzisti si sono trovati di fronte un muro senza appigli, cioè un partito unito come non mai, grazie all’etica della responsabilità di Bersani. Solo allora è emerso che il Patto, ivi compresi tutti i suoi connessi opachi, serviva a Renzi per scollinare il Quirinale: gli serviva per ricondurre a sé la minoranza Pd nel momento in cui le avrebbe offerto l’occasione di contrapporsi frontalmente alla destra, e per blandire il Cavaliere illudendolo di poter tornare al centro del gioco.
Il successo, si sa, emana un profumo inebriante. Irresistibile. I primi effetti vengono dallo smottamento finale di Scelta Civica e dalla disponibilità di alcuni fuoriusciti del M5S. Quello che accade nelle aule parlamentari, però, non necessariamente si riflette a livello di elettorato. I cittadini moderati, conservatori e popu-listi, e quelli arrabbiati e disgustati, non seguono i quattro parlamentari che transumano verso il vincitore. Affinché il magnete renziano attragga e trattenga anche gli elettori, il Pd deve definire una propria identità, che vada oltre il pastiche, peraltro mal riuscito, post-democristiano e post-comunista, e oltre gli slogan e le battute ad effetto. Fin qui è stata la novità della leadership a trainare il Pd fuori dalle secche. Ma questo fattore si logora in fretta: facile per Renzi confrontarsi con un vecchio leone stanco e usurato come Berlusconi e con una wild card, a tratti inquietante, come Beppe Grillo. Il 41.8% delle europee si spiega così. Ma il futuro presenta dinamiche, e opportunità, diverse.
Certo, oggi Il Pd appare il perno di un nuovo sistema partitico, un sistema, per riprendere il classico schema di Giovanni Sartori, che ricalca il “pluralismo polarizzato” di un tempo (molti partiti molto distanti tra loro): il centro dello spazio politico è saldamente nelle mani di un grande partito (il Pd, appunto) il quale si avvale di piccole formazioni satellite alla sua destra e alla sua sinistra, e viene contrastato da due opposizioni vocali e fortemente antagoniste, posizionate a destra (Lega) e a sinistra (M5S). E Forza Italia dove si colloca in questo assetto? A destra, ovviamente, ma in posizione subalterna. Per sua responsabilità “storica”, sostanzialmente. Per troppi anni il berlusconismo ha solleticato, e legittimato, le pulsioni illiberali e populiste del suo elettorato, tanto da dar vita nei suoi anni d’oro ad un impasto, giustamente definito da Edmondo Berselli, di forzaleghismo. Allora, la dominante di quell’incrocio esibiva un doppiopetto perbenista, che si concedeva ogni tanto delle scivolate plebee e celoduriste; d’ora in poi, prenderà il connotato rozzo e diretto del leghismo in salsa lepenista di Matteo Salvini. A dimostrazione, una volta di più, che il moderatismo di stampo europeo, in Italia, non riesce ad attecchire.
Renzi naviga felicemente nella liquidità del sistema post-quirinalizio, come scriveva lunedì scorso Ilvo Diamanti. Ma i fluidi sono per definizione instabili. Per consolidare la sua posizione dominante il Pd, più che continuare a correre o nuotare, deve incominciare a pensare a sé stesso, al suo profilo valoriale: c’è una identità tutta da precisare, al di là di slogan usa e getta. Una vera egemonia da partito centrale del nuovo sistema partitico passa da questo sforzo collettivo.

il Fatto 10.9.15
Un servizio sulla scuola, ma lo staff del Ministero non gradisce le critiche ai provvedimenti del governo
Renzi, allergia alle inchieste. Raffica di tweet anti-Iacona
di Paola Zanca


C’è stato un tempo in cui arrivava la telefonata in diretta. Erano i Silvio Berlusconi, i Mauro Masi che, incapaci di contenere l’ira sul divano di casa, si intromettevano, puntualizzavano, sbraitavano. Ma nell’era di Matteo Renzi anche l’incursione nel talk show ha cambiato mezzo. E domenica sera si è messo in piedi il primo tweet-bombing ministeriale contro la videoinchiesta sulla scuola trasmessa da Presa Diretta di Riccardo Iacona. Stilettate da 140 caratteri contro chi ha osato mettere in discussione i programmi del governo su istruzione e edilizia scolastica.
LA PRIMA MOSSA, sia chiaro, l’aveva fatta lui, Matteo: due lunedì fa, guardando Piazzapulita, ha inaugurato la stagione del rosicamento via Twitter: “Trame, segreti, finti scoop, balle spaziali e retropensieri - scriveva - basta una sera alla Tv e finalmente capisci la crisi dei talk show in Italia”. Sull’argomento, qualche giorno dopo, si erano esercitati perfino gli inglesi del Guardian, immaginando che quel tweet potesse essere l’inizio della fine del pollaio politico in tv. Il conduttore, Corrado Formigli, aveva invece interpretato il messaggio con canoni decisamente più italiani: l’evoluzione (in peggio) della telefonata insofferente. “Trovo inopportuno che il presidente del Consiglio intervenga su come debba essere fatta l’informazione in Italia - disse Formigli al fattoquotidiano . it   - Mi pare uno sconfinamento. Dovrebbe stare a governare. Non è un utente qualsiasi che passa da Twitter e lascia il suo commento, è l’uomo più potente d’Italia”.
CONTRO Presa Diretta, Renzi non ha twittato. Ma che gli prudessero le mani lo si intuisce dalla raffica di retweet (citazione di frasi scritte da altri utenti) compulsata mentre andavano in onda i servizi di Iacona. Ne ha scelti 8, tutti provenienti da staff, sottosegretari e consulenti del ministero dell’Istruzione. Che nel frattempo, sui loro profili, si esercitavano nella demolizione della puntata in corso.
C'è il capo di gabinetto del ministro Stefania Giannini, Alessandro Fusacchia: “La cosa più importante che dovrà fare #labuonascuola è insegnare ai ragazzi l'onestà intellettuale. E il rifiuto degli slogan semplici”. C'è il suo collega Francesco Luccisano, capo della segreteria tecnica: “Peccato che #Presadiretta non abbia monitorato i 2000 eventi autorganizzati in giro per il Paese”. E ancora, il sottosegretario Davide Faraone, renziano doc: “Ma uno che ne parla bene di questa riforma sulla scuola lo avrete intervistato? ”. E pure la deputata Simona Malpezzi: “Spieghiamo a @Presa_Diretta come si legge la stabilità? I miliardi di investimento sono tre. Il miliardo vale solo x i mesi da settembre a dicembre”. Infine la responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi: “Governo @matteorenzi assume 148.000 docenti precari. La più grande assunzione della storia. Iacona, chiamali tagli”. Il suo collega senatore Andrea Marcucci va giù dritto: “Neanche uno, neanche per sbaglio, parla bene o con cognizione della riforma scuola”.
Ma il tweet bombing, almeno su Riccardo Iacona, non ha ottenuto l’effetto sperato. “Interessante nuova frontiera della comunicazione”, lo liquida. Piuttosto, rivendica il giornalista, sono i numeri che contano. E le opinioni di chi, tra i banchi, ci vive e ci lavora. “Abbiamo dimostrato che le scuole, senza il contributo dei genitori, non potrebbero nemmeno aprire il portone. Non bisogna spaventarsi dei problemi – dice Iacona al governo - così come non si possono rimpiazzare le risorse con le parole”.

il Fatto 10.9.15
Moretti e Pinotti: contro la crisi più armi per tutti


QUASI NESSUNO se n’era accorto, ma uno dei massimi problemi dell’Italia è che spendiamo troppi pochi soldi in armamenti da guerra. Per scoprirlo, bisognava assistere ieri al convegno a cui partecipavano l’amministratore delegato di Finmeccanica Mauro Moretti e il ministro della Difesa Roberta Pinotti. Spiega Moretti che in Italia ci sono “scarse risorse” destinate alla difesa , per questo "alla politica non bisogna chiedere solo più soldi, ma anche programmi pluriennali più certi”. Spendiamo meno della metà della Gran Bretagna, insiste, e non si tratta in questo caso “di un paese molto più grande di noi o con maggiori necessità di difesa”. A fianco, annuiva il ministro Pinotti, fresca di incontro con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (a cui ha illustrato il Libro bianco della Difesa): “Dobbiamo dare una mano alla nostra industria e alle sue eccellenze, perché questo può portare frutti a tutto il sistema-paese”. Contro la crisi, più armi per tutti. “Ricordiamoci  - ha concluso il ministro Pd - che il settore industriale militare è uno dei pochi ad essere rimasto forte”.

La Stampa 10.2.15
La Cassazione: “No alle nozze gay, ma sì ai diritti”
Il parere dei giudici: le coppie omosessuali godano di uno “statuto protettivo”

qui

La Stampa 10.2.15
“Renzi è d’accordo, a marzo in aula il testo sulle unioni gay”
La relatrice Cirinnà: stessi diritti degli etero, tranne l’adozione
di Francesca Schianchi


«Con Renzi ne abbiamo parlato l’ultima volta che è venuto al Senato, e ci siamo confermati il cronoprogramma: portare il testo sulle unioni civili in Aula a marzo».
Il testo di cui lei, senatrice Monica Cirinnà, è relatrice.
«Un testo che unifica oltre 15 proposte presentate: una legge per dare diritti, doveri e riconoscimenti a chi è unito da un legame affettivo e ha un rapporto di convivenza».
L’unione civile per i gay sarà come il matrimonio?
«Tra le proposte iniziali – io stessa ero una firmataria - c’era anche quella di estendere il matrimonio alle persone dello stesso sesso. Ma abbiamo preferito accantonare l’ipotesi per evitare di far morire il testo. Con le unioni civili, i gay avranno gli stessi diritti degli sposati eterosessuali, tranne l’adozione».
Sarà però possibile che il figlio biologico di uno dei due sia adottato dall’altro, giusto?
«Giusto. Per evitare quello che succede oggi, quando per esempio una donna che ha un figlio piccolo si ammala e non può chiedere alla propria compagna di andarlo a prendere a scuola o agli scout perché, di fatto, l’altra persona della coppia per la legge è un estraneo».
La sua legge segue il modello tedesco?
«Sì, ma noi abbiamo aggiunto, nella seconda parte della legge, anche una serie di diritti quotidiani a chiunque conviva, etero ed omosessuali, come la possibilità di fare visita in ospedale o in carcere».
Tutto il Pd è d’accordo?
«La stragrande maggioranza del Pd è favorevole: in Commissione giustizia al Senato, su 8 membri forse 1 solo ha dubbi».
Non è troppo ottimista?
«Io penso che sono forse 10 o 12 i senatori Pd che potrebbero non essere d’accordo: il vero problema non è dentro al Pd, ma è capire quanti sono gli ultra-cattolici di tutti gli schieramenti e se riescono a saldarsi trasversalmente».
Anche fra gli alleati di Ncd c’è chi ha dubbi…
«Temo che dentro Ncd siano più o meno tutti contrari. Ma quando dicono di voler difendere la famiglia tradizionale, mi chiedo, da cosa? Se due uomini o due donne fanno un’unione civile, cosa tolgono in termini di diritti a me e mio marito?».
Forse temono si apra la strada a future adozioni gay.
«In Audizione, psicologi dell’età infantile ci hanno spiegato che, per il bambino, l’importante è essere amato e accudito. Comunque questo testo non prevede l’adozione, cerchiamo di fare una buona legge senza mettere il carro davanti ai buoi».
Riuscirà a passare questa legge?
«Sono certa che avremo i numeri: laddove i cattolici sapranno costruire una trasversalità, anche i progressisti sapranno costruire la loro».

Il Sole 10.2.15
La lunga crisi
Pil pro capite: baratro tra Nord e Sud
Istat: livello del 45,8% inferiore rispetto al Settentrione

In testa Bolzano, in coda Calabria e Puglia
di Alfonso Ruffo


Il reddito d'impresa non abita nel Mezzogiorno. Se, infatti, il reddito da lavoro dipendente per occupato è superiore al Centro Nord di solo (potremmo dire) il 14,8 per cento, il complessivo prodotto interno pro capite che incorpora anche il risultato dell’intrapresa presenta tra Nord e Sud profondi divari che diventano voragine se si compara il territorio più ricco, la Provincia autonoma di Bolzano, a quello più povero, la Calabria, che non raggiunge il 40 per cento del livello della prima.
Sono alcuni tra i dati più interessanti che si ricavano dalla lettura dell’ultimo bollettino rilasciato dall’Istat, l’Istituto statistico nazionale che periodicamente misura lo stato di salute del Paese attraverso la fornitura e la comparazione di alcuni parametri indicativi dell’andamento dell’economia. In questo caso il riferimento è agli anni 2011-2013.
Dunque, persiste il divario tra le diverse parti del Paese con un pil per abitante che nel Nord-Ovest è di 33,5 mila euro, nel Nord-Est di 31,4 mila, nel Centro di 29,4 mila e nel Sud di 17,2 mila euro. Si può facilmente notare la ripida caduta tra i valori dei primi tre dati, abbastanza omogenei, e il quarto che è inferiore del 45,8 per cento rispetto la media degli altri.
Insomma, in termini di ricchezza pro capite le regioni meridionali valgono la metà di quelle settentrionali. E, come già detto, a fare la differenza sono soprattutto i ricavi delle attività d’impresa, i profitti, che al Sud devono essere giunti al lumicino se i dati del lavoro dipendente, in gran parte pubblico ma anche privato, in qualche modo tengono il passo.
Tra le curiosità che vale la pena di rilevare c’è che in sole due realtà territoriali, nel 2013, il pil procapite non diminuisce: sono la Provincia di Bolzano e la Campania, naturalmente tarate su livelli assoluti assai distanti dal momento che la prima è in cima alla classifica con 39,8 mila euro e la seconda al quart’ultimo posto con 17 mila euro. Stanno peggio la Sicilia, la Puglia e la Calabria che chiude la serie con 15,5 mila euro.
Anche la spesa per i consumi delle famiglie denuncia il classico divario – e non potrebbe essere diversamente – con una media nazionale di 16,3 mila euro che diventa 18,3 mila euro nel Centro-Nord e 12,5 mila euro al Sud con una differenza del 31,7 per cento e quindi inferiore alla distanza della ricchezza. Vuol dire che, stante il basso reddito complessivo, nel Mezzogiorno si consuma in proporzione più che al Nord dove aumenta il risparmio e il possibile investimento.
Quanto alle attività che determinano il valore aggiunto pro capite, sono i servizi alle imprese, finanziari e immobiliari a fare la parte del leone (29 per cento) con il Lazio al primo posto nel terziario (85 per cento). Il contributo dell’industria è più alto nel Veneto e nell’Emilia Romagna che pareggiano con il 24 per cento, nel Friuli e nelle Marche (23 per cento) e incredibilmente in Piemonte e Basilicata (22 per cento) risultando quest’ultima la più industrializzata regione del Mezzogiorno grazie alla presenza dello stabilimento Fiat a Melfi.
Quasi tutte le regioni presentano una caduta dell’occupazione (-2,2 per cento nella media) tra gli anni osservati 2011-2013 tranne le Provincie di Bolzano e Trento (+ 2,2 e +1,3 per cento), e la Lombardia (+0,4 per cento). Le peggiori perfomance riguardano la Calabria (- 8,1 per cento), il Molise (- 8 per cento ampiamente recuperato, tuttavia, dalle recenti assunzioni proprio a Melfi), la Sardegna (-7,5 per cento) e la Sicilia (-7,4 per cento) che già partivano da posizioni di grande sfavore.
In particolare, il settore più disastrato in termini di distruzione di posti di lavoro è quello delle costruzioni dal rilancio del quale, com’è intuitivo, ci sono le maggiori aspettative di ripresa.

Corriere 10.9.15
Embrioni congelati 19 anni fa, via libera all’impianto dopo la morte del marito
Accolto il ricorso di una 50enne ferrarese
Ora il Sant’Orsola dovrà provvedere immediatamente all’impianto degli embrioni

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Corriere 10.2.15
Prostituzione, il prefetto: zone rosse? È impossibile, sarebbero fuori legge
Giuseppe Pecoraro boccia la proposta del IX Municipio, e parzialmente sostenuta dalla giunta Marino, si istituire aree all’Eur in cui permettere alle prostitute di lavorare

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il Fatto 10.9.15
“I creditori siamo noi”
Perché Tsipras rilancia il contenzioso di guerra con la Germania
“Ci dovete 162 miliardi”
di Salvatore Cannavò


La richiesta di risarcimento per i danni di guerra, fatta da Alexis Tsipras alla Germania, può sembrare una battuta. Ma questa battuta è presente nel programma di Syriza fin dalla sua elaborazione a Salonicco nel settembre scorso. E vale circa 160 miliardi. Non è uno scherzo, insomma, se è vero che ieri il vice-cancelliere tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, ha voluto rispondere con nettezza alle pretese greche: non se ne parla nemmeno.
LA STORIA È VECCHIA quanto la Seconda guerra mondiale. La Grecia fu invasa dalla Germania nazista, che oltre alle morti e ai saccheggi, si fece “prestare” 3,5 miliardi di dollari dell'epoca che non sono mai stati rimborsati. Alla Conferenza di Parigi del 1946 fu inoltre previsto un indennizzo nei confronti di Atene di 7 miliardi di dollari. Entrambe le somme non sono mai state pagate dai governi tedeschi. Attualizzando queste cifre si arriva alla cifra di 162 miliardi di euro indicata da Syriza. Senza contare gli interessi.
Secondo uno studio del Comitato per l'annullamento del debito (Cadtm) se si calcolasse un interesse annuo del 3% si arriverebbe alla cifra enorme di mille miliardi di euro. Cifre stratosferiche che non sembrano rientrare nelle reali intenzioni del governo greco. Nei giorni scorsi, infatti, una speciale commissione presieduta dall’ex direttore generale del Tesoro, Panagiotis Karakousis, ha indicato il debito tedesco nei confronti della Grecia in 11 miliardi di euro. La cifra non contempla la voce riguardante le riparazioni per i danni subiti durante l’occupazione tedesca dal 1941 al 1944 che invece fa parte del conteggio
Per comprendere il contenzioso, però, occorre approfondire due altre vicende: la Conferenza di Londra del 1953, con la quale sono stati annullati gran parte dei debiti di guerra della Germania e il trattato di riunificazione della Germania del 1990 siglato a Mosca.
Nel primo grande appuntamento internazionale dopo la Seconda guerra mondiale, gli alleati occidentali (Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Belgio, Olanda e molti altri) decisero quello che oggi è impedito alla Grecia: una riduzione del 62,5% del debito tedesco.
QUESTO AMMONTAVA a 22,6 miliardi di marchi per la parte anteriore alla guerra e a 16,2 miliardi cumulato dopo la Seconda guerra mondiale. Fu ridotto a 14,5 miliardi e alla Germania furono garantiti altri benefici importanti: il rimborso in marchi, un tetto al rimborso annuo fissato al 5% dei redditi provenienti dalle esportazioni, un tasso di interesse oscillante tra lo zero e il 5%. Anche grazie a queste condizioni la Germania uscì dalla sconfitta disastrosa e divenne la potenza che è.
In quella conferenza, all’articolo 5 dell’accordo, si stabilì peraltro che “l’esame dei crediti scaturiti dalla Seconda mondiale dei Paesi in guerra con la Germania oppure occupati (…) saranno differiti fino al regolamento definitivo del problema delle Riparazioni”. Un rinvio sine die che impedì che la Grecia potesse beneficiare del rimborso dovuto.
Il sine die si è prolungato fino al 1990 quando si è verificata l’unificazione delle due Germanie e la vera fine geopolitica del periodo post-bellico. Il Trattato di Mosca del 1990, il cosiddetto trattato 4+2 (siglato dalla Repubblica federale e dalla Repubblica democratica di Germania insieme a Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Unione sovietica) non fa però alcuna menzione dei debiti di guerra e del capitolo delle Riparazioni. Ed è proprio su questo appiglio giuridico che si lega la posizione tedesca: non essendo menzionato il problema, si intende risolto. L’interpretazione è riportata nelle note all’accordo redatte dall’allora direttore degli affari politici del ministero degli Esteri francese, Bertrand Dufourcq: “Il trattato di Mosca non contiene tutte le clausole di un trattato di pace (…) in particolare non menziona il problema delle riparazioni”. Tuttavia, sottolinea ancora il diplomatico francese, il documento contiene “aspetti essenziali di un trattato di pace” ed è proprio “per il suo non-detto che mette davvero fine al periodo aperto nel 1945”.
IL CONTENZIOSO è molto raffinato e probabilmente non se ne farà nulla. Ma Atene ha deciso di tirare fuori la vicenda per avere più armi nella difficile trattativa con l’Europa. Il rapporto Karakousis, infatti, sarà girato al ministro degli Esteri il quale dovrà inviarlo all’Avvocatura di Stato. Inoltre, dovrebbe essere insediata una apposita commissione per consigliare il governo sulla strada da seguire. Per il momento, a giudicare dalle reazioni tedesche, la mossa di Tsipras ha ottenuto l'effetto di innervosire Berlino. E forse anche questo autorizza Tsipras alla dichiarazione fatta ieri dopo l’incontro con il collega austriaco: “È nell’interesse di tutti trovare una soluzione favorevole a tutti”, ha detto in previsione dell’incontro di domani a Bruxelles dei ministri dell’Eurozona: “Ecco perché sono molto ottimista. Finora non abbiamo sentito nessuna alternativa praticabile rispetto a quella che noi abbiamo proposto. Non vi è ragione per non raggiungere un accordo, a parte motivi politici”.

Corriere 10.9.15
Non solo l’Ucraina: la nuova leadership della Cancelliera
di Danilo Taino

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La Stampa 10.2.15
Israele, la Knesset specchio di una lotta all’ultimo voto in vista delle elezioni
Yizhak Herzog, leader del partito laburista che punta a strappare il governo a Likud, si aggira nell’area delle “stanze di partito”, per coordinare incontri di strategia elettorale
di Maurizio Molinari

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Corriere 10.2.15
Campagna anti Netanyahu
Soldi e consiglieri dagli Usa per i volontari porta a porta


TEL AVIV La mappa appesa al muro — le bandierine spillate sulle città israeliane — sembra quella di una campagna militare. Gli slogan e gli adesivi da appiccicare sul paraurti ricordano una campagna pubblicitaria. L’obiettivo è uno solo: scampare la rielezione di Benjamin Netanyahu, convincere gli elettori a non garantire il quarto mandato al primo ministro.
Il quartier generale sta su viale Rothschild in un palazzo circondato da case costruite agli inizi del Novecento, la città è nata e si è sviluppata partendo da questi incroci. E’ la parte giovane di Tel Aviv — almeno la notte, viverci costa sempre più caro — e giovani sono i fondatori del movimento che sta infastidendo il Likud più dell’opposizione ufficiale dei laburisti. Itamar Weizman ha 21 anni, è uno studente di storia e come ogni altro ragazzo israeliano ha già ideato un paio di start-up tecnologiche. Nimrod Dwek (32) la società digitale l’ha fondata, il profilo Linkedin lo definisce un «ninja del marketing».
Nella loro sfida a Netanyahu hanno importato le tecniche di mercato, lo studio dei big data e uno dei consiglieri di Barack Obama, lo stratega che ha pianificato la propaganda porta a porta — nel 2008 e quattro anni dopo — per la rielezione del presidente americano. Di porte Nimrod e Itamar vogliono riuscire a bussarne un milione: «Abbiamo già 4.500 volontari che girano per il Paese. Il messaggio non è contro Netanyahu, non lo nominiamo. Quello che diciamo è: andate a votare e scegliete il cambiamento. Non spingiamo nessun partito. Per questo ci chiamiamo semplicemente Victory 15, vogliamo vincere e vincere significa mandare a casa chi ci ha governato fino ad ora».
La formula senza bandiera non rilassa la destra, gli avvocati di Netanyahu hanno presentato una denuncia contro il gruppo, sostengono che l’attività sia illegale. I complottisti ci vedono un piano di Obama per vendicarsi del premier israeliano: nel 2012 aveva espresso in pubblico il sostegno per l’avversario repubblicano Mitt Romney. Fanno notare: dagli Stati Uniti non è arrivato solo un consigliere, scorrono anche i dollari messi a disposizione dal miliardario S. Daniel Abraham, che a 90 anni scommette su questi ragazzi. «Non sostengo nessun candidato — spiega al telegiornale del Canale 2 — sono un sionista e credo che Israele debba cambiare strada se vuole restare democratica e con una maggioranza ebraica». Abraham appoggia la soluzione dei due Stati, un accordo con i palestinesi. I volontari di Victory 15 sembrano più preoccupati dal costo della vita o da quanto costi mantenere le colonie in Cisgiordania.
La spaccatura con Washington era già profonda prima, riempita solo dai sospetti reciproci. Il premier resta ostinato nella decisione di parlare davanti al Congresso agli inizi di marzo. Anche se la Casa Bianca ha definito la procedura fuori protocollo (l’invito è arrivato dai leader repubblicani) e il vice presidente Joe Biden — considerato grande amico di Israele — ha già annunciato che non ci sarà. Obama ha spiegato ieri perché non incontrerà Netanyahu: «Sarebbe inappropriato a pochi giorni delle elezioni, significherebbe interferire nella politica interna di un Paese». E ha aggiunto sorridendo ad Angela Merkel, la cancelliera tedesca in conferenza stampa con lui: «Angela non l’avrebbe mai fatto, non l’avrebbe neppure chiesto».
Il Likud spera ancora di ottenere la messa al bando di Victory 15 — che ha risposto presentando una querela per istigazione alla violenza — prima del 17 marzo. Quel giorno Nimrod e Itamar contano di poter dispiegare davanti ai seggi almeno 15 mila attivisti: senza simboli di partito o nomi di politici esposti non devono rispettare le norme che impongono lo stop alla campagna durante le ore del voto. «Chiameremo di nuovo una a una le persone che abbiamo incontrato in questi mesi, al mattino presto, quando siamo ancora in tempo, e chiederemo loro di farci una promessa: andare alle urne».
Sanno che l’entusiasmo potrebbe non bastare. I sondaggi danno Netanyahu in crescita, vincerebbe con un paio di seggi di scarto e la destra avrebbe i numeri per formare una nuova coalizione .

Corriere 10.2.15
La scoperta
La prova del contattotra noi e i Neanderthal
Nei resti fossili trovati in una grotta di Israele la storia di quando vivevamo insieme
di Edoardo Boncinelli

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Corriere 10.2.15
Il comunismo sotto la lente di Venturi
di Giuseppe Galasso


Ora che il marxismo pare sepolto da ben più di tre giorni e si è quasi indotti a chiedersi «Marx, chi?», non è facile immaginare quel che Karl Marx e il marxismo significarono per un secolo e mezzo in ogni parte del mondo, soggiacendo poi all’alternanza del «servo encomio» (prima) e del «codardo oltraggio» (dopo) nelle grandi svolte storiche.
Lo ricorda con efficacia la pubblicazione di due inediti di Franco Venturi, Comunismo e socialismo. Storia di un’idea (Centro studi di storia dell’Università di Torino, pp. 176, e 14, disponibile presso il dipartimento di studi storici dell’ateneo, tel. 011.6703126). Il primo fu scritto, si ipotizza nell’introduzione, prima della firma nell’agosto 1939 del patto nazi-sovietico per la spartizione della Polonia, che poté indurre Venturi a desistere dall’idea di scrivere una storia dell’idea comunista «nella sua unità» originaria, comprensiva anche di socialismo e anarchismo. L’inedito ne era la prima parte, dedicata al «comunismo illuminista», seguito attraverso alcuni nuclei problematici fondamentali (l’utopismo, il rapporto ragione-natura, la questione del progresso) e, in specie, Diderot, Morelly, Rousseau. Il secondo inedito, del 1941-'42, è dedicato al socialismo «romantico» (Saint-Simon), ma giunge subito a Marx e al socialismo «moderno» (dopo Marx) e ad alcune riflessioni sulla natura e il destino del comunismo.
Non erano scritti di occasione. Come emerge anche dalla solida biografia di Adriano Viarengo ( Franco Venturi. Politica e storia del Novecento , Carocci, pagine 334, e 30), il problema del comunismo assillò Venturi fin dalla più giovane età. Egli aveva aderito, e restò sempre fedele, a Giustizia e Libertà, il movimento fondato da Carlo Rosselli con l’idea di un «socialismo liberale», alternativo al comunismo marxista. Venturi ne ribadì le idee in un opuscolo del 1943, Il socialismo di oggi e di domani (ora incluso nei suoi scritti politici, pubblicati nel 1996 dall’editore Einaudi, a cura di Leonardo Casalino, con il titolo La lotta per la libertà ); e il confronto con Marx e col «socialismo reale» che a lui si rifaceva rimase poi sempre al centro del suo spirito, e non per suggestione di partito o di scuola. Nella scia di Rosselli, egli aveva ben capito che quella comunista era la grande sfida del secolo. Una sfida che non si prestava a dubbi sul punto della «libertà», alla quale il «socialismo reale» si era negato, ma che imponeva anche ai più liberali il problema della «giustizia», insegna di quel socialismo, che Rosselli aveva sentito ineludibile nella moderna società industriale.
Si capisce da ciò quale sia stato il giudizio di Venturi su Marx e sul comunismo sovietico. Un giudizio formato nel fuoco delle passioni politiche di quel tempo, che fecero di Marx e del comunismo l’oggetto di confronti ideali e materiali di una intensità poche volte raggiunta in altre epoche, ma commisurata a tutto ciò che in quei confronti era in gioco.
Pur attraverso la passione politica, la non comune intelligenza storica di Venturi emerge, tuttavia, nei due inediti, che la confermano, poiché si legano alle prime prove del grande storico che egli sempre più divenne. Ma, come dicono i curatori del volume (Manuela Albertone, Daniela Stella, Edoardo Tortarolo, Antonello Venturi), essi attestano pure gli «stimoli che Franco Venturi è ancora in grado di offrire». Alcuni punti da lui qui affermati, come le radici illuministiche del comunismo, il suo fondamento religioso, la sua soluzione economicistica del problema della giustizia, sono idee o spunti di idee non banali, né del tutto scontati. Anch’essi rinverdiscono, perciò, il ricordo di uno studioso di straordinario rigore e originalità, che fu pure un appassionato testimone del suo tempo e un fedele dell’idea di libertà come condizione anche di quella di giustizia.

Corriere 10.2.15
La giustizia sociale non è una chimera
di Arturo Colombo


Da quando Tommaso Moro pubblicò nel 1516 il suo capolavoro, «utopia» significa non-luogo, cioè qualcosa di inesistente. Adesso, però, il presidente del Centro universitario di studi utopici, il professor Arrigo Colombo, ha pubblicato un volume dal titolo La nuova utopia (Mursia, pagine 454, € 26), che dà al termine «utopia» un significato diverso, come progetto di una società che non c’è, almeno finora, ma che occorre impegnarci a rendere operante, se vogliamo farla finita con il sistema politico-sociale in cui tuttora viviamo, che si identifica in una società «stratificata, discriminata, di ricchi e poveri, di potenti e deboli, di sfruttatori e sfruttati».
Giustizia, libertà e eguaglianza costituiscono altrettanti «valori etico-politici» indispensabili per rendere possibile quello «Stato giusto», senza il quale non potremo mai rendere effettivo un ordinamento capace di fare della democrazia e del benessere una concreta realtà estesa dovunque. Certo, è un processo lungo e complicato; ma per Colombo questo è «il grande tema del nostro tempo», l’unico in grado di coinvolgere tutti per un futuro migliore.

La Stampa 10.2.15
È un “sacro vuoto” la libertà dell’Occidente
La nostra società ha prodotto un’integrazione senza differenze

Solo il rispetto delle identità religiose e sociali può condurre a un mondo pacifico
di Wael Farouq


Negli Anni Trenta del Novecento, i giapponesi consideravano l’imperatore Hirohito pari ad un dio che li aveva condotti alla rinascita economica e alla costruzione di una forza militare in grado di dominare vaste regioni del mondo. Dopo la disonorevole sconfitta del Giappone in guerra, l’imperatore mantenne la sua sacralità, ma quest’ultima perse tutto il suo significato, anche perché l’imperatore aveva guidato la sua gente verso la distruzione altrui, prima ancora che alla distruzione del proprio Paese. Fu così che i giapponesi presero a chiamarlo «il sacro nulla» (Patrick Smith, Japan: a Reinterpretation, Knopf Doubleday Publishing Group, 2011). Il «sacro nulla» è l’espressione che meglio descrive i valori della civiltà occidentale di oggi. Sia sul piano pratico che culturale, questi valori sono svuotati del loro significato, sebbene tutti quanti li sacralizzino, come nel caso del valore della libertà.
Tutto è effimero
Purtroppo, la faccenda non si limita alla fallita esportazione di questi valori all’esterno, ma si estende anche al loro svuotamento di significato all’interno, sul piano intellettuale e pratico. Nella cultura contemporanea l’effimero è diventato centrale. Nulla reca un segno di distinzione, un significato, perché tutto è fugace. L’attenzione della cultura contemporanea si è così spostata dall’essere nel mondo al divenire, o al transitare, nel mondo. Questo è il mondo del transitorio e dell’effimero. Le ideologie sono cadute, ma la paura dell’altro è aumentata. Il nichilismo ha fatto marcia indietro, ma il suo posto è stato occupato da una neutralità passiva verso ogni cosa. Il termine «post», anteposto a ogni parola che indica un aspetto della conoscenza umana (come in post-industriale, post-storico, post-moderno, eccetera), non implica altro che l’incapacità di attribuire un significato alla condizione umana presente.
Jürgen Habermas vede in questo una conseguenza dell’esclusione della religione dalla vita pubblica. Ed è vero che tutte le sfide sociali cui dobbiamo far fronte sono fondamentalmente riconducibili all’incapacità di dare alla vita un significato, una fonte del quale è rappresentata proprio dalla religione.
L’uniformità
I post-modernisti ritengono di aver liberato l’umanità dalla prigionia di binomi intellettuali quali bene-male, presenza-assenza, io-l’altro, ma in realtà sono solo passati dal contrapporre gli elementi di questi binomi al porli sullo stesso piano – e all’incapacità che ne deriva di formulare giudizi, che a sua volta porta all’interruzione di ogni interazione con la realtà e all’uniformizzazione dell’identità individuale e collettiva.
Il post-modernismo ha combattuto contro l’esclusione dell’altro, il «diverso», operata dal modernismo, ma non ha trovato altra via per farlo che escludere la «diversità», poiché è opinione diffusa che la convivenza pacifica non possa avere successo se non escludendo l’esperienza religiosa ed etica dalla sfera pubblica. Questo, tuttavia, implica l’esclusione della differenza e, quando l’esperienza religiosa è uno degli elementi più importanti dell’identità, l’esclusione della differenza, in realtà, diventa esclusione del sé.
Ma questa laicità estremista è riuscita a realizzare il proprio obiettivo?
Non c’è metropoli europea, oggi, che non ospiti una «società parallela», dove vivono gli immigrati musulmani. Tentativi affrettati d’integrare gli immigrati hanno finito solo per rendere i confini culturali e religiosi invisibili nello spazio pubblico. In Francia è stata promulgata una legge che proibisce l’esibizione dei simboli religiosi nello spazio pubblico. Di conseguenza, la Francia è diventata uno Stato la cui Costituzione protegge la differenza e il pluralismo religioso, ma le cui leggi ne criminalizzano l’espressione.
Gli immigrati
L’esclusione della diversità dallo spazio pubblico ha fatto sì che l’adattamento, e non l’interazione, diventasse il quadro entro il quale s’inscrive la relazione degli immigrati con la loro nuova società. Questo e altri fattori di natura soggettiva, cioè relativi alla cultura degli stessi immigrati, hanno dunque portato alla creazione di società parallele in conflitto con l’ambiente circostante che rimane, per loro, un ambiente alieno, straniero.
In questo contesto culturale, se qualcuno chiedesse «cos’è la libertà?», la risposta sarebbe: qualsiasi cosa. Ma una libertà che significa qualsiasi cosa non è niente. La libertà vera ha un volto, un nome, dei confini rappresentati dall’esperienza umana, che tuttavia non può essere tale se alla persona si strappano la sua identità, la sua storia, la sua esistenza e il suo scopo. Diverrebbe una forma svuotata di significato e contribuirebbe, assieme alla cultura islamica contemporanea, all’esclusione della persona, della sua esperienza e della sua identità. Nel qual caso, passeremmo dal «sacro nulla» al «nulla è sacro». Infatti, nulla è sacro finché la forma sta al centro e la persona al margine.
Nel Corano, come nella Bibbia, Adamo inizia a relazionarsi con il mondo attribuendo un nome alle cose. L’Adamo contemporaneo, invece, perde ogni giorno un pezzo del suo mondo, perché dimentica i nomi delle cose, perché non dà più loro alcun nome, e perché nemmeno gli importa di dar loro un nome. L’uomo, oggi, è diventato un post-Adamo. Mentre per affrontare la sfida dell’oggi abbiamo bisogno come non mai di tornare al senso religioso, all’esperienza personale. Al vero Adamo.
(Traduzione dall’arabo di Elisa Ferrero)

La Stampa 10.9.15
Quando una pièce su Pio XII spaccò socialisti e democristiani
Compie 50 anniIl vicariodi Hochhuth, denuncia dei silenzi papali sull’Olocausto. L’Italia lo censurò e il centrosinistra rischiò di cadere
di Alberto Papuzzi


All’inizio era sembrato un caso di secondaria importanza. Uno dei tanti che negli Anni Sessanta agitavano le acque della borghesia intellettuale e alimentavano i pettegolezzi nel bel mondo romano. In realtà si rivelò un affare spinoso, con serie ripercussioni politiche, con denunce, provocazioni e accuse. Come sempre, nel nostro Paese, ci si ritrovò a fare i conti con quelli del sì e quelli del no, con il partito dei laici e quello dei credenti. Ci fu chi addirittura pronosticò beghe e rotture che avrebbero potuto mandare a carte quarantotto l’alleanza di centrosinistra, fra democristiani e socialisti, già per sé fragile; e si tornò a discutere circa l’interpretazione del primo articolo del Concordato del 1929.
Parliamo di un testo teatrale - Il Vicario del drammaturgo e scrittore tedesco Rolf Hochhuth - che cinquant’anni fa mise in scena i silenzi di Pio XII di fronte allo sterminio degli ebrei pianificato da Hitler.
Scritto nel 1963, in cinque atti, messa in scena nello stesso anno a Berlino e l’anno seguente a Londra, Il Vicario arrivò in Italia, agli inizi del 1965, accompagnato dagli echi di qualche inevitabile polemica, ma senza eccessivi imbarazzi. Soltanto Parigi aveva visto costituirsi due veri schieramenti, uno a favore, l’altro a biasimo, del lavoro di Hochhuth. Ma prima che su un palcoscenico, il testo era entrato nelle librerie, pubblicato da Feltrinelli nel 1964, con una prefazione dello scrittore e critico cattolico Carlo Bo. Come dramma teatrale finì nelle mani del regista Carlo Cecchi, con la compagnia di Gian Maria Volonté, attore di cui era arcinoto l’impegno politico. Attore popolare per gli spaghetti-western, però nel 1960 aveva fatto in teatro Sacco e Vanzetti, sul dubbio processo ai due anarchici, e nel 1962 aveva girato Un uomo da bruciare (storia d’un sindacalista assassinato dalla mafia).
Ma l’allestimento italiano del testo di Hochhuth fu oggetto di una censura che lo fece diventare un caso politico. Cecchi e Volonté riuscirono a organizzare soltanto una rappresentazione quasi clandestina nel retrobottega della Libreria Feltrinelli (11 febbraio 1965). Erano previsti successivi allestimenti in una cantina romana, ma furono vietati dalla Pubblica Sicurezza perché mancava il certificato di agibilità; quindi arrivò anche un decreto prefettizio che dichiarava l’opera di Hochhuth contraria alle norme del Concordato. Nel frattempo la polemica fra chi chiedeva rispetto per il Sommo Pontefice e chi difendeva strenuamente la libertà di espressione si era spostata anche a Firenze, dove teatranti e sostenitori si chiudono nel Teatro di Santa Apollonia, per mettere in scena (è il caso di dirlo) uno sciopero della fame. Sul quale si esercitò la satira di un settimanale di destra, Lo Specchio, che pubblicò fotografie di vassoi di salsicce destinate agli scioperanti. In altri ambienti, vicini al Vaticano, corsero invece voci sul coinvolgimento di agenti o ex, di servizi segreti dei Paesi dell’Est, che avrebbero fornito a Hochhuth materiali per costruire e far parlare il suo Vicario.
In realtà l’opera era la punta di un iceberg che osava affrontare in modo estremamente critico la figura, al tempo quasi sacrale, di Pio XII. «Per cinque lunghi anni assistette al sommarsi convulso degli addendi di un tragico quoziente di morti e distruzioni. Eppure non parlò mai», come scrisse Carlo Falconi, vaticanista dell’Espresso. Ma altrettanto impegnativi erano gli interventi a difesa del papa, alla morte del quale la statista israeliana Golda Meir riconobbe che aveva «levato la voce in difesa della vita».
Sul tema si registrano, fra gli altri, interventi di Mauriac e di Camus. Diversi personaggi pubblici, per esempio Alcide De Gasperi, hanno riconosciuto di aver trovato protezione nelle stanze vaticane. Hochhuth, che nel frattempo aveva scritto un altro testo polemico, Soldati, contro Winston Churchill (senza però destare scandali), chiuderà la sua carriera con la sceneggiatura di un opaco film di Costa Gavras, Amen.

Repubblica 10.2.15
Yalta
Dall’ordine mondiale al nuovo caos globale
Settant’anni fa i leader dei paesi vincitori con un tratto di penna ridisegnarono l’Europa Ora invece, con la Ue divisa e la crisi ucraina l’idea di una regia unica sembra tramontata
di Lucio Caracciolo


L’ORDINE mondiale è l’utopia di ieri. Sono passati settant’anni dalla conferenza di Yalta, quando Stalin, Roosevelt e Churchill decisero di coprire con la foglia di fico delle Nazioni Unite la spartizione dell’Europa e del mondo fra Occidente americano e Russia sovietica. Fu la guerra fredda, a suo modo una pace fra i potenti pagata con l’oppressione all’Est e i conflitti alle periferie del pianeta, dalla Corea al Vietnam, dal Medio Oriente al Congo. Crollata l’Unione Sovietica, toccò a George Bush padre evocare l’alba di un “nuovo ordine mondiale” che si sarebbe retto sulla benigna egemonia di un solo paese, il suo. Lo chiamammo Washington consensus.
Ci pensò Bush figlio a sabotarlo, con la “guerra al terrorismo”, seguita dalla crisi del 2007 scoppiata nella pancia della finanza privata americana. E adesso?
Immaginiamo che i leader del pianeta si dessero di nuovo appuntamento a Palazzo Livadija, già residenza estiva degli zar presso Yalta, in Crimea, dove i Tre Grandi si internarono dal 4 all’11 febbraio 1945. Ordine del giorno: rimettere ordine in questo caos. Non si potrebbe scegliere luogo più simbolico della corrente incertezza geopodiscussione litica. La prima disputa scoppierebbe sulla proprietà del palazzo. Siamo in Ucraina oppure in Russia? In un concerto di nazioni ben temperato, la questione non si porrebbe, vigendo un catasto unico — ogni Stato con le sue proprietà riconosce i suoi omologhi con le loro. Oggi, come minimo, Kiev minaccerebbe di bloccare le vie di accesso alla Crimea (senza essere presa troppo sul serio) e Mosca di forzare il passaggio a mano armata, se necessario (venendo presa terribilmente sul serio). Ma ammettiamo che un impulso di retto pragmatismo induca tutti a “concordare di dissentire” sulla proprietà della monumentale villa con il suo vasto parco. E siccome il fatto prevale sul diritto, finché non diventa tale, la vigilanza sia affidata agli “uomini verdi”, cioè agli “specialisti” russi senza divisa che nel marzo scorso requisirono la Crimea formalmente ucraina. Potremmo a questo punto celebrare la nuova Yalta? C’è da dubitarne.
Il contenzioso successivo riguarderebbe la verifica dei poteri. In parole povere: chi è abilitato a negoziare il nuovo ordine? Nessuno obietterebbe sui titoli del presidente degli Stati Uniti né sulle credenziali del collega cinese. Quanto al leader russo, la potrebbe essere chiusa dalla regola di ospitalità per cui in ogni competizione internazionale i padroni di casa sono ammessi di diritto. Buona educazione potrebbe consentire ai responsabili di Giappone, Canada, India, Brasile e Sudafrica di accedere ai marmi bianchi di Livadija, mentre all’Australia verrebbe proposto di accontentarsi di un consigliere nella delegazione britannica. È infatti scontato che il Regno Unito pretenderebbe il seggio che fu di Churchill.
Eccoci al terzo, decisivo scontro: chi parla per l’Europa? La battaglia si disputerebbe in teatri paralleli. Pro forma a Bruxelles, dove presidente del Consiglio europeo e presidente della Commissione si adatterebbero infine a uno strapuntino per ciascuno. Pro substantia fra Berlino e Parigi, con Roma, Madrid e Varsavia a litigare sul numero dei rispettivi auditori. Economia, demografia e influenza internazionale inclinerebbero la bilancia verso la Merkel. Bomba atomica e residuo impero transcontinentale direbbero Francia. Eppoi Hollande non vorrebbe rinunciare alla soddisfazione di sedere lì dove non poté de Gaulle. Cinesi, americani e russi finirebbero per gentilmente imporci la formula due più due. Stringendosi un po’, Merkel e Hollande occuperebbero insieme un’ampia poltrona di prima fila, con Tusk e Juncker appollaiati sull’annesso divanetto di coda.
Benvenuti alla seconda Yalta, in formato 9 (Stati Uniti, Cina, Russia, Giappone, Canada, India, Brasile, Sudafrica, Regno Unito) più 4 (Germania/Francia con l’appendice Ue/Commissione). Tredici a tavola, alla faccia della superstizione. Consesso comunque pletorico, considerando che i protagonisti dei due massimi tentativi di ordinamento del mondo in età moderna e contemporanea — Vienna 1815 e Yalta 1945 — vertevano su schieramenti rispettivamente a 5 e a 3. Esubero rivelatore: troppi sono i pretendenti al protagonismo. L’ordine fra diseguali presuppone ordinanti e ordinati. Abbiamo oggi un’abbondanza di aspiranti al primo status e una carenza di comparse disponibili a farsi comandare. Con una zavorra aggiuntiva: gli Stati di oggi non sono altrettanto autorevoli di quelli di ieri. Anche — o specialmente — quando sono autoritari.
Senza illusioni, ma in uno slancio di volontarismo, noi europei potremmo quanto meno contribuire a snellire il formato della Livadija bis. Basterebbe dare seguito alla retorica comunitaria, che ci vuole vocati a parlare “con una voce sola”. Quale migliore occasione di provarla vera? Allo stato della fisiologia e delle scienze biologiche attuali, disporre di una voce sola implica una condizione: avere un solo corpo, dotato di sano apparato fonatorio. Si pone dunque il dilemma di come ridurre i Ventotto a Uno. Tre possibilità, in teoria. La prima è l’Europa tedesca. Sembrerebbe la più ovvia. Ma è miraggio: la Germania non può e non vuole assumersi la responsabilità di armonizzare la cacofonia continentale. Non può perché ha sempre dimostrato, e continua a rivelare nel suo modo di concepire l’unione monetaria, di non sapere esercitare alcuna forma di egemonia, integrando parte degli interessi altrui nei propri calcoli strategici. Altrimenti non avrebbe tentato, con un certo provvisorio successo, di trasformare l’euro — la moneta concepita da francesi e italiani per abolire il marco — in un nuovo marco, a spese dei soci dell’eurozona. Non vuole perché la grande maggioranza dei tedeschi mira al proprio benessere e ai propri affari. Punkt. C’è molta “Grande Svizzera” nella “Grande Germania” che ossessiona i germanofobi. Almeno finché la maionese europea non finisce di impazzire.
La seconda soluzione è l’euronucleo, idea lanciata ventuno anni fa dall’attuale ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble. Una Confederazione Europea guidata da Berlino, con Parigi junior partner, più Benelux e qualche partner nordico o baltico, a cominciare dalla Polonia. Con noi italiani e altri periferici ridotti a satelliti, aggrappati alle Alpi per non affogare nel Mediterraneo. Oppure, nel caso più fortunato, con Roma riammessa in extremis nel club dell’Europa-Stato confederale, essendo finalmente riuscita a rimettere ordine in casa propria. Non riusciamo a concepire un’ipotesi più attraente per l’Italia e per il Vecchio Continente.
Infine, la guerra. L’ordinatore di ultima istanza, quando tutto il resto fallisce. Si obietterà che quasi nessun europeo (occidentale) ha voglia di farla, a differenza del 1914 e, in minor parte, del 1939. Eppure domenica scorsa, Hollande ha pronunciato la parola impronunciabile — “la guerre” — quale unica alternativa al fallimento dei negoziati sull’Ucraina. È bene che questo termine non sia più tabù. Perché fingendo che il pericolo, per quanto remoto, non esista, rischiamo di abbandonarci a una dolce deriva. Quasi che il disordine attuale possa prolungarsi impunemente all’infinito, senza suscitare gli spiriti animali che non cessano di abitare anche gli uomini di miglior volontà.

Repubblica 10.2.15
In quel febbraio del ’45 i veri sconfitti furono i sogni democratici dell’Est
Quando Stalin svelò il metodo “Contano solo i rapporti di forza”
di Massimo L. Salvadori


NEL corso della seconda guerra mondiale, quando ormai si profilava, dopo quella dell’Italia, la sconfitta della Germania e del Giappone, le potenze alleate — Usa, Gran Bretagna e Urss — si trovarono nella necessità di affrontare e risolvere non soltanto le questioni militari, ma anche i problemi relativi alla futura sistemazione politico-territoriale del mondo. Gli accordi tra le potenze non potevano non riflettere i rapporti di forza che andavano a mano a mano stabilendosi tra di esse. La conferenza di Yalta era stata preceduta da quella di Teheran fra il 28 novembre e il primo dicembre 1943, dove era già emersa la relativa posizione di secondo piano della Gran Bretagna. Qui era stato deciso che l’apertura del “secondo fronte” sarebbe avvenuta in Francia e non nei Balcani come invece chiedeva insistentemente Churchill e si erano delineate, seppure in maniera non ben definita, le sorti della Germania e della Polonia. Ancora precedente a Yalta era stato l’incontro nell’ottobre 1944 di Churchill con Stalin, in cui i due leader avevano siglato su un foglio le percentuali della loro influenza in Romania, Bulgaria, Jugoslavia e Grecia, senza tener conto alcuno della volontà e degli orientamenti politici dei popoli coinvolti.
La conferenza di Yalta, che si svolse dal 4 all’11 febbraio 1945 e che come quella di Teheran vide riuniti Roosevelt, Churchill e Stalin, fu fortemente condizionata dalla marcia inarrestabile delle truppe sovietiche verso Occidente. L’orientamento del primo era di cercare un’intesa con i sovietici atta a garantire in futuro la pace internazionale; quello del secondo di salvare l’integrità dell’impero britannico; quello del terzo di assicurare al suo paese la piena sicurezza mediante il controllo sull’Europa orientale. Le principali decisioni prese furono: 1) la divisione della Germania, dopo la fine della guerra, in quattro zone di occupazione, una delle quali, assegnata alla Francia, sarebbe stata ricavata da quelle affidate alla Gran Bretagna e agli Usa; 2) la totale smilitarizzazione del paese vinto; 3) la sua denazificazione; 4) il pagamento di ingenti riparazioni, richiesto ai vinti con vigore dall’Urss, che era stata letteralmente devastata dagli occupanti tedeschi; 5) la definizione delle frontiere della Polonia e un accordo, rimasto nel vago e del tutto ambiguo, riguardante il governo provvisorio polacco, da formarsi con esponenti sia filosovietici sia filo-occidentali; 6) la congiunta dichiarazione (già clamorosamente smentita dagli accordi Churchill- Stalin dell’agosto 1944) che i paesi liberati avrebbero dato vita a governi “responsabili di fronte alla volontà popolare” e fondati su “libere elezioni” (Stalin commentò: «Possiamo eseguirla alla nostra maniera. Ciò che importa è il rapporto di forze»); 7) la dichiarazione che l’Organizzazione delle Nazioni Unite sarebbe stata retta da un Consiglio di sicurezza, composto, oltre che da Usa, Urss e Gran Bretagna (i “veri grandi”), anche da Francia e Cina (“grandi” unicamente per concessione dei primi) e che soltanto il loro unanime accordo avrebbe consentito l’applicazione delle decisioni. Il che rappresentò un punto di forza per l’Urss, sola di fronte alle quattro potenze a ordinamento politico e sociale diverso dal suo; 8) l’impegno dell’Urss a entrare in guerra con il Giappone entro due-tre mesi dopo la capitolazione della Germania.
La conferenza di Yalta pose per aspetti decisivi le premesse di quella successiva di Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945), nella quale, avvenuta la resa tedesca, le potenze vincitrici sancirono quanto stabilito a Yalta circa la divisione della Germania in zone di occupazione (senza però dar seguito all’ipotesi presa in considerazione a Teheran di procedere alla formazione di più Stati tedeschi). Yalta e Potsdam da un lato costituirono un grande successo in particolare per l’Urss, che, nonostante futuri acuti contrasti con le potenze occidentali, fu in condizione di imporre il suo dominio imperiale sull’Europa Orientale; dall’altro segnarono la divisione sia della Germania sia dell’Europa in due sfere di influenza poste sotto gli ombrelli delle “superpotenze” americana e sovietica.

Repubblica 10.2.15
Yalta
di Henry Kissinger


D OPO la Conferenza di Yalta il giubilo fu generale. Riferendo al Congresso, Roosevelt sottolineò l’accordo raggiunto sulle Nazioni Unite, ma non le decisioni prese riguardo al futuro politico dell’Europa o dell’Asia. Quando la Conferenza di Yalta ebbe termine, si celebrò solo l’alleanza del tempo di guerra; le incrinature che in seguito l’avrebbero fatta crollare non erano ancora visibili. La speranza regnava ancora sovrana e “Zio Joe” (Stalin, ndr) veniva considerato come un socio che non creava complicazioni. Il tema che l’occupante del Cremlino fosse in cuor suo un moderato pacifico che aveva bisogno di aiuto per tenere a freno i suoi colleghi intransigenti fu per molto tempo una costante delle discussioni negli Stati Uniti. Ma Stalin era un maestro della Realpolitik, non un nobile cristiano. Questa guerra non assomiglia a quelle del passato; chiunque occupi un territorio impone anche il proprio sistema sociale.

Il Sole 10.2.15
È morto domenica a Roma, a 95 anni, il vicepresidente dell’Associazione Nazionale Partigiani
Massimo Rendina, partigiano della memoria
di Marco Mele


Bisogna evitare “l’interruzione della memoria”. Questa frase, pronunciata da Walter Veltroni alla Camera ardente in Campidoglio, in onore di Massimo Rendina, vicepresidente dell’Anpi nazionale, può rappresentare l’attività del Comandante Max, morto domenica a novantacinque anni. Fu proprio Rendina l’ideatore e l’anima della Casa della Memoria e della Storia in Trastevere.
Comandante partigiano - guidò la liberazione di Torino - e storico della Resistenza (scrisse il Dizionario della Resistenza Italiana nel 1995). Giornalista - dirige il Tg della rete nazionale della Rai dopo Vittorio Veltroni - e Docente di scienze delle comunicazioni. Per Massimo è stato fondamentale essere protagonista degli eventi senza esserne in balia ma, allo stesso tempo, analizzarli, comunicarli, affidarli al futuro, ai giovani.
Sempre coerente e intransigente sui valori della Resistenza e dell’antifascismo, non aveva certo paura di passare per eretico. Cristiano, entra nella Brigate Garibaldi e nel Pci. Salvo uscirne, «ma senza drammi, eravamo tutti amici. Decisero di espellermi, ma fu una cosa pacifica», perchè denuncia come il Partito fosse acquiescente verso l’Unione Sovietica. Non senza aver fatto in tempo a stampare a Torino la prima edizione dell’Unità clandestina, insieme a Giorgio Amendola.
Comincia a fare il giornalista al Resto del Carlino, a Bologna, insieme ad Enzo Biagi, conosciuto nel 1939. Inviato al fronte russo, rientra in Italia per malattia, entra nelle Brigate Garibaldi, dove diventa prima comandate di brigata e poi capo di stato maggiore; viene ferito gravemente.
Nell’immediato dopoguerra, con la vittoria della Dc nel 1948, fu tra gli organizzatori di alcune imprese vicino alla goliardia, «per recuperare la giovinezza perduta», ma anche per infrangere i tabù del conformismo. Tra queste, il rapimento della Secchia rapita da Modena, con tanto di processo e assoluzione e con ritorsione dei modenesi contro l’Università di Bologna. Giuseppe Dozza, “il sindaco”, costretto a intervenire per evitare il peggio. O la marcia per occupare San?Marino, in parte vestiti da garibaldini, in parte da antichi romani, bloccata dai carabinieri, tra le risate generali.
Alla Rai, Massimo Rendina è il secondo direttore del Telegiornale dopo Veltroni. Troppo indipendente, viene rimosso con il governo Tambroni. Dopo Piccioni sarà proprio Enzo Biagi a prenderne il posto. Odiava chi faceva la vittima: “non lo sono stato: mi hanno aumentato lo stipendio e nominato condirettore centrale”. Da responsabile delle tecnologie Rai lancia la ricerca e lo sviluppo di nuove modalità trasmissive, dal Televideo al satellite.
La piazza era la sua seconda casa e non solo il 25 aprile. Massimo Rendina non è mai stato uno che si chiudeva o che si poteva chiudere in una stanza, con una poltrona. Da giornalista partecipa all’attività della Federazione Nazionale della Stampa, si candida alle elezioni, va ai congressi, litiga e si batte contro ogni censura, per l’autonomia dell’informazione.
Va nelle scuole a raccontare la Resistenza e il dopoguerra, organizza eventi multimediali alla Casa della Memoria. Un piccolo ricordo personale: Rendina presenta, insieme a Marino Sinibaldi, nel 2001, il libro L’Ora del ritorno, di Stefano Tassinari, scrittore ferrarese, ma bolognese d’adozione, scomparso prematuramente. La storia di un partigiano tradito. Rendina viene e se va a piedi, e ha già più di ottant’anni. Continua a camminare, Massimo.

La Stampa 10.2.15
Depressione: un’utopia la risonanza magnetica
Le tecniche di imaging cerebrale funzionano
Impossibile però pensare di utilizzarle sempre per verificare l’effetto della psicoterapia
di Daniele Banfi

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