giovedì 12 febbraio 2015

Repubblica 12.5.12
La versione di Heidegger
risponde Corrado Augias


Dott. Augias, a leggere le ultime rivelazioni dei nuovi “Quaderni neri” di Heidegger viene da pensare a quali abissi possano portare le astrattezze di un filosofo che, chiuso nel suo studio, ignora che cosa sia la Shoah. Con sgomento, si apprende che il filosofo giustificava lo sterminio degli ebrei. Lo considerava non un indicibile genocidio, ma un “autoannientamento”. Gli ebrei si sarebbero autoannientati vittime dei demoni da loro stessi sprigionati con la tecnica e il progresso. Gli ebrei, infatti, sarebbero gli agenti della modernità, cioè di quell’epoca che, nel linguaggio “esoterico” del filosofo, ha obliato l’Essere in favore dell’Ente, sradicando l’umanità dalla sua dimora per spingerla ad una perenne deriva verso l’inautenticità e il nichilismo. All’ebraismo vanno attribuiti tutti gli aspetti della vita e del pensiero moderni: dalla Riforma alle Rivoluzioni, agli ideali di libertà, di progresso, al capitalismo, alla democrazia, al bolscevismo.
Ezio Pelino

Il signor Pelino si riferisce alle anticipazioni che la studiosa Donatella Di Cesare, autrice del recente saggio Heidegger e gli ebrei ( Bollati Boringhieri), ha fatto sul Corriere della sera. Si tratta di questo: il “Quaderno nero” numero 97 che sta per essere pubblicato in Germania (presto anche in Italia per Bompiani) contiene sulla Shoah e sugli ebrei affermazioni che sconfessano la diffusa credenza di un “silenzio di Heidegger” dopo Auschwitz. Il filosofo scrisse infatti queste note dopo la guerra quando cominciavano a diffondersi notizie su ciò che era davvero avvenuto nei campi di sterminio (non di concentramento — di sterminio). L’atroce verità non lo scosse. Al contrario egli inserì anche le camere a gas in quella Storia dell’Essere che stava elaborando. Nella sua visione, gli Ebrei, agenti e motori della modernità, avevano distrutto lo spirito dell’Occidente grazie al contributo dato all’accelerazione della tecnica. Il loro sterminio, anch’esso tecnico, era stato il momento apocalittico in cui gli agenti della distruzione si erano a loro volta autodistrutti — il termine è “autoannientati” ( Selbstvernichtung ). Il disciplinato popolo tedesco avrebbe potuto fermare la rovina ma gli Alleati non lo avevano capito sconfiggendo improvvidamente la Germania. Il pensiero di Martin Heidegger non può essere preso alla leggera tale l’importanza che ha avuto. Tuttavia anche in questa complessa elaborazione arriva l’eco di quella congiura mondiale giudaica propalata dai falsi “Protocolli dei savi anziani di Sion” diffusi dalla polizia dello zar. Apprendere di questi giudizi fa pensare che il vero demone della tecnica sia quello che si nasconde in un’astratta tecnica filosofica che arriva a far perdere a un uomo di genio ogni contatto con l’umanità.

si ringraziano Pina Mercuri e Thomas  Spielman

il Fatto 12.2.15
Lampedusa.Testimoni su una strage immane
“330 morti in mare” Triton ha fallito, il governo lo difende
di Giuseppe Lo Bianco


Alfano celebrava il nuovo programma europeo che ha sostituito Mare Nostrum. Costa meno di prima, ma non evita la catastrofe: oltre ai 29 migranti assiderati raccolti, ce ne sarebbero stati molti altri su due gommoni arrivati vuoti in Italia.

“A LAMPEDUSA PIÙ DI 300 MORTI”
L’AGENZIA ONU PER I RIFUGIATI: OLTRE AI 29 ASSIDERATI, C’ERANO ALTRI DUE GOMMONI PIENI, FORSE TRE I PM: “ANCORA NESSUN RISCONTRO”. I SUPERSTITI: “SIAMO PARTITI SOTTO LA MINACCIA DELLE ARMI”

Palermo Li hanno costretti a imbarcarsi sotto la minaccia di bastoni e di armi, li hanno imbrogliati spacciando che il mare sarebbe stato calmo, per la traversata gli hanno fatto pagare un “biglietto” di 650 euro e li hanno mandati a morire a poche decine di miglia dalla riva di partenza: in duecento, forse trecento. I racconti di due dei nove sopravvissuti nel centro di accoglienza trasformano l’ultima tragedia di Lampedusa in una vera e propria orribile ecatombe con circa 300 morti. Tra le lacrime nel centro di accoglienza i due hanno raccontato agli operatori umanitari di Oim e Save the Children che il primo gommone si è bucato e ha cominciato ad afflosciarsi, trascinando in acqua il suo carico umano. Il secondo si è sgonfiato a prua, e tre ragazzi di 13-14 anni “della Costa d’Avorio’’ Amhed li ha visti scomparire sott’acqua accanto a lui, inghiottiti dai flutti del mare in tempesta insieme ad un altro centinaio di connazionali: su quel gommone sono rimasti in due. Altri cento migranti circa sarebbero scomparsi da un terzo gommone, sul quale ne hanno ritrovati solo sette.
“Ci siamo aggrappati, gli altri scomparivano”
Erano tre, forse quattro, i gommoni messi in acqua nonostante il mare forza 8 dai trafficanti di esseri umani da una spiaggia della Libia con oltre cento uomini e donne a bordo e di questi nell’isola ne sono arrivati solo 75 vivi e 29 morti per assideramento: i dispersi, hanno raccontato ieri tra le lacrime nel centro di accoglienza due degli ultimi nove sopravvissuti, sono oltre 300. Per tutta la giornata le motovedette della Guardia Costiera, quattro mercantili e due aerei hanno pattugliato l’area di mare dov’è avvenuto il naufragio e dove sono stati avvistati tre dei quattro gommoni: sul primo c’erano i 29 morti e i 75 sopravvissuti salvati lunedi scorso, sul secondo, avvistato da un mercantile poco lontano, solo due migranti e sul terzo sette. Ma dei sopravvissuti nessuna traccia, nonostante l’allarme All Ships immediatamente lanciato dalla sala operativa della Guardia costiera di Roma. “Se qualcuno è caduto in acqua – dice il comandante Filippo Marini, della Guardia costiera – c’è ben poca speranza di trovarlo vivo. Mandare la gente su un gommone in queste condizioni meteo marine vuol dire commettere omicidi’’.
“Ci hanno assicurato che le condizioni del mare erano buone, ma in ogni caso nessuno avrebbe potuto rifiutarsi o tornare indietro: siamo stati costretti a forza a imbarcarci sotto la minaccia delle armi – hanno raccontato i due superstiti –. Il primo gommone si è bucato e ha cominciato a imbarcare acqua prima di essere travolto dalle onde del mare, l’altro si è sgonfiato nella parte prodiera prima di affondare. Noi siamo finiti in acqua e ci siamo aggrappati alle cime mentre i nostri compagni annaspavano prima di scomparire tra le onde del mare in tempesta”. Capolinea orribile di un viaggio iniziato a Garbouli, a pochi chilometri da Tripoli: “Da alcune settimane eravamo in 460 ammassati in un campo vicino Tripoli in attesa di partire. Sabato scorso i miliziani ci hanno detto di prepararci e ci hanno trasferito a Garbouli, una spiaggia non lontano dalla capitale libica. Eravano circa 430, distribuiti su quattro gommoni con motori da 40 cavalli e con una decina di taniche di carburante”. “I migranti sono tutti giovani uomini, l’età media è di circa 25 anni, provenienti da paesi subsahariani, in particolare Mali, Costa d’Avorio, Senegal, Niger. Per alcuni di loro la Libia era un paese di transito, mentre altri vi lavoravano da tempo, infatti parlano anche un pò di arabo. Hanno raccontato di essere stati costretti a salire sui gommoni con la forza, minacciati da bastoni e pistole, e derubati dei loro averi da parte dei trafficanti”.
I verbali e le perplessità del procuratore
La Procura di Agrigento ha aperto un fascicolo, ma i magistrati sono scettici sul reale numero delle vittime: “Dalle testimonianze raccolte dalla Squadra mobile ci sarebbero stati su ogni barcone circa cento persone per ciascuno a bordo ed essendo giunti solo in nove ci sarebbero centinaia di vittime – dice il procuratore aggiunto di Agrigento Ignazio Fonzo – ma non abbiamo alcun riscontro. Non c’è traccia di cadaveri galleggianti e non esiste alcuna individuazione satellitare, resto molto perplesso sulla verosimiglianza di questo racconto’’. Secondo fonti dell’Unchr “nel mese di gennaio sono stati registrati 3.528 arrivi solamente in Italia, rispetto ai 2.171 rilevati nel gennaio del 2014’’. E lo scorso anno “almeno 218.000 persone hanno attraversato il Mediterraneo e in più di 3.500 hanno perso la vita’’.

Corriere 12.2.15
La strage dei migranti svela l’ipocrisia Ue


La grande menzogna è durata lo spazio di una strage. O almeno: della prima strage di cui abbiamo notizia, perché nessuno può sapere quanti barconi e quanti morti si siano accumulati in fondo al Canale di Sicilia negli ultimi mesi.
I dettagli del naufragio e del calvario dei 460 migranti partiti sabato scorso su quattro gommoni dalla Libia li conosciamo dai racconti dei pochi superstiti (le vittime, dicono, potrebbero essere più di 300 ma, ammonisce la Procura, «non ci sono riscontri»). Ove, come più spesso accade, non ci siano superstiti, non c’è racconto e, in definitiva, non c’è problema. Quale che sia il conto finale delle bare (29 son già sulla terraferma) pare svelarsi lo scopo non dichiarato dell’operazione Triton: risolvere la questione epocale delle migrazioni nel Mediterraneo semplicemente ignorandola. Pattugliare a trenta miglia dalla costa un braccio di mare largo quasi duecento miglia è infatti come non farlo per nulla.
Quando, il 1° novembre, venne varata l’operazione Triton, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, sorrise alle tv: «L’Europa per la prima volta scende in mare! A presidio della frontiera mediterranea!». Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, gli diede sostegno pur rassicurando i più sensibili (è cresciuta nel Pd): «Il soccorso in mare non viene meno, l’Italia non si volterà indietro».
Ora, contando di nuovo morti e dispersi, possiamo dire che non è andata così. Mare Nostrum, con le navi della Marina italiana spinte sino alle coste libiche, ha salvato oltre centomila vite dopo il doppio naufragio dell’ottobre 2013, quando a centinaia annegarono proprio davanti agli scogli di Lampedusa. Nacque dunque sull’onda dell’emotività e dell’emergenza: come tutto ciò che si riesce a decidere in un Paese altrimenti immobile.
Quando emergenza ed emotività cominciarono a scemare, quando gli orrori della jihad islamica iniziarono a proiettare assurdi bagliori sinistri su quel fiume di poveretti che proprio dalla jihad e dalle guerre scappava, quando insomma la propaganda prese il posto della pietà, Mare Nostrum ebbe i giorni contati. Apre le porte ai terroristi, si farneticò. Aumenta gli afflussi (quest’ultima affermazione è smentita dall’Alto commissariato per i rifugiati: nel gennaio del 2015, senza Mare Nostrum, gli arrivi via mare sono stati il 60 per cento in più del gennaio 2014).
I vertici della Marina italiana si sono battuti in solitudine per proseguire i salvataggi in alto mare fino a prendersi accuse di insubordinazione: perbacco, era tempo che Triton entrasse in scena e Mare Nostrum in archivio! L’Italia era riuscita a coinvolgere la riottosa Europa! Ora sappiamo che l’Europa sulle questioni extracontabili (quelle politiche, vere) non esiste ancora.
Triton era una finzione. Siamo soli, più che mai, davanti al consueto dilemma: accettare da nazione adulta un ruolo nel Mediterraneo, che porti fino alle spiagge libiche un nostro avamposto di umanità e legalità, o continuare a versare lacrime di coccodrillo quando le correnti ci trascinano a riva qualche cadavere?
Certo, Mare Nostrum costava 9 milioni al mese: tanti. Poi dipende sempre da come si spendono. Per dire: la banda di Franco Fiorito, Er Batman del Lazio, se ne fece fuori 21, di milioni, tra teste di maiale, ostriche e festini. Gli altri briganti di Rimborsopoli non sono stati da meno. Qualche risparmio, suvvia, possiamo pur farlo.

Repubblica 12.2.15
Mezzi ridotti, aree di sorveglianza ad appena 30 miglia dalle nostre coste
Dal caos della Libia ai mancati soccorsi tutte le falle di Triton
di Fabio Tonacci e Francesco Viviano


E i trafficanti di uomini che sfruttano la situazione “fuori controllo” di Tripoli costringendo i migranti a partire comunque
Ecco perché la missione europea che ha sostituito Mare Nostrum, due mesi dopo il suo inizio è già un fallimento

ROMA Triton non funziona perché non poteva funzionare. Perché è nata come operazione di pattugliamento e non di soccorso, e tale è rimasta nonostante i morti. Perché i mezzi impiegati, inferiori per dimensioni e numero rispetto a quelli di Mare Nostrum, non bastano durante le emergenze nel Canale di Sicilia. E perché di quel “principio di deterrenza” su cui si basa, secondo il quale retrocedendo l’area sorvegliata a 30 miglia dalle coste italiane sarebbero diminuite le partenze dalla Libia, Eremias Ghermay, Abdel Raouf Qara e gli altri trafficanti se ne infischiano.
LA SAR DI COMPETENZA
Loro continuano a fare quello che hanno sempre fatto, Triton o non Triton: sulle spiagge libiche inzeppano un gommone di disperati a cui danno un satellitare e un numero di telefono da chiamare, quello della Guardia Costiera. Li costringono a partire anche se il mare è forza 8 e ci sono onde alte 9 metri, come è successo per i gommoni dell’ultima strage. Ora, in quel tratto di Mediterraneo, Frontex (agenzia europea che gestisce Triton), le convenzioni nautiche e gli accordi tracciano linee che dividono il mare in zone di soccorso: le Sar, aree Search and Rescue in capo a ogni Stato. Ma si sono rivelate inutili. Tocca alla capitaneria o alle altre forze di polizia italiane a intervenire. Un esempio? 8 febbraio: il primo gommone con 104 migranti (di cui poi 29 morti di freddo) intercettato da due motovedette italiane a 58 miglia a nord di Tripoli, il secondo (quello semi-affondato con sole 2 persone a bordo delle 105 partite) avvistato dall’aereo “Manta 10-03” della Guardia Costiera a 71 miglia a nord est da Tripoli, il terzo (con 7 superstiti) soccorso, oltre che da un mercantile di passaggio, da due motovedette della capitaneria più o meno alla stessa distanza. Fuori dalla Sar di nostra competenza.
I DISPOSITIVI NAVALI
La verità è che, con Malta senza risorse economiche e la Libia in mano alle katibe, bande tra le quali alcune «a forte connotazione jihadista», come sostiene un report della nostra intelligence, chi si prende l’onere dei soccorsi è sempre e solo l’Italia. Col risultato che Triton, entrata a regime il 1 gennaio 2015, finisce per ribaltare l’effetto cui puntava il ministro dell’Interno Alfano, ovvero responsabilizzare gli altri paesi Ue nel controllo del confine meridionale dell’Europa. «Triton non è all’altezza, l’Europa ha bisogno di un sistema di ricerca e salvataggio efficace», dice il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks.
Triton, dunque, è un fallimento. Non disincentiva i migranti, non aumenta l’efficacia dei salvataggi. Lo dicono i fatti. Mare Nostrum costava al governo italiano 9 milioni di euro al mese, ma dispiegava, in una fascia che si allargava fino a poche miglia dalle coste libiche, una nave e due corvette della Marina militare, 2 pattugliatori, 6 elicotteri, 2 aerei droni e circa 700 militari. Triton la paga Frontex, però i finanziamenti sono di appena 2,9 milioni di euro al mese, divisi per i 17 paesi che offrono il loro sostegno. E il dispositivo navale varia a seconda dei soldi. Oggi dentro le trenta miglia attorno alla Sicilia, Lampedusa e Pantelleria ci sono 4 motovedette (2 della Guardia di Finanza e 2 della Guardia costiera), 2 pattugliatori (uno della Marina e l’altro islandese), 2 aerei (maltese e islandese), 1 elicottero della Finanza, 2 mini pattugliatori maltesi. «Nessuna carretta del mare può arrivare fino a lì», osserva una fonte del Viminale, «affondano tutte prima, a meno che non siano grossi barconi». Quindi il potenziale di soccorso di Triton è minimo, i suoi mezzi intervengono nei salvataggi fuori dalla zona di pattugliamento solo se chiamati nelle emergenze.
“NON POTEVA FUNZIONARE”
Gli sbarchi, poi, sono cresciuti dal primo gennaio a oggi del 60 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014. Le crisi in Siria e in Libia stanno alimentando i flussi di etiopi, sudanesi, malesi, eritrei, siriani, intercettati sulle coste a est di Tripoli, nella zona di Gharabulli, da gente tipo Abdel Raouf Qara, comandante di un gruppi di fondamentalisti islamici che col business dei barconi porta soldi alla Jihad. Oppure l’etiope Eremias Ghermay, che un’indagine dello Sco ha individuato come uno degli organizzatori del viaggio del peschereccio affondato nell’ottobre 2013 a Lampedusa con quasi 400 morti. «Le nostre unità — spiega l’ammiraglio Giovanni Pettorino, del comando generale della Guardia Costiera — sono adeguate per navigare anche fuori dalla Sar, ma attrezzate per prestare cure mediche durante i trasferimenti a non più di 10-12 persone. Se ci troviamo con centinaia di naufraghi, come nei giorni scorsi, diventa impossibile».
Nemmeno i mezzi dispiegati da Frontex sono equipaggiati per questo. Triton non funziona, perché non poteva funzionare.

Corriere 12.2.15
L’Italia e la linea della fermezza: ci pensi l’Ue
Così il governo respinge gli attacchi interni
di Fiorenza Sarzanini


I dati diffusi dal Viminale su Mare Nostrum: le unità di soccorso agevolavano gli scafisti
ROMA M antenere la linea dura per costringere l’Europa a intervenire, impedendo che sia l’Italia da sola a doversi fare carico dell’emergenza immigrazione provocata dalle crisi in Medio Oriente e in Nordafrica, in particolare in Libia. Ma soprattutto frenare subito gli attacchi politici, anche a costo di arrivare allo scontro istituzionale. Ha un duplice obiettivo la scelta del presidente del Consiglio Matteo Renzi di intervenire in serata con un’intervista al telegiornale di Sky per ribadire che «indietro non si torna e dunque non ci sarà una nuova missione umanitaria come Mare Nostrum». E arriva alla fine di una giornata convulsa, con il governo compatto nel mantenere un atteggiamento di fermezza. Del resto già in mattinata era apparso chiaro che in tema di immigrazione l’esecutivo sarebbe stato determinato a difendere la necessità di continuare i pattugliamenti congiunti con gli altri Stati dell’Unione Europea nel tratto di mare a Sud della Sicilia, proprio come sta avvenendo con «Triton», nonostante la consapevolezza che l’operazione non ha dato i risultati che si sperava.
La festa dell’Arma
L’appuntamento è fissato alle 10.30 per l’inaugurazione dell’anno accademico alla scuola ufficiali dei Carabinieri. Oltre a Renzi ci sono il ministro della Difesa Roberta Pinotti e quello dell’Interno Angelino Alfano. La conferma che nel naufragio di due giorni fa al largo della Libia sono morti oltre 300 migranti c’è già. Ma nessuno ne parla nei discorsi ufficiali, nulla viene detto al termine della cerimonia. La parola d’ordine appare chiara: la tragedia è avvenuta in acque internazionali, non è un problema dell’Italia, dunque non spetta a noi intervenire per affrontare l’emergenza. La polemica però monta, intervengono politici di destra e di sinistra — molti anche del Partito democratico — per attaccare il governo e stigmatizzare il fallimento di Triton. Da più parti si chiede l’avvio di una nuova missione umanitaria. Durissime sono le prese di posizione internazionali e quelle delle organizzazioni umanitarie.
I numeri del Viminale
Dal ministero dell’Interno cominciano a filtrare i dati che mettono a confronto Mare Nostrum e Triton nel tentativo di dimostrare che il problema non riguarda la missione, ma la necessità di pianificare interventi strutturali che coinvolgano tutta l’Europa. Perché, sostengono al Viminale, «mettere in mare unità di soccorso serve soltanto ad agevolare gli scafisti. Se il problema è salvare i profughi allora l’Europa deve pensare a un corridoio umanitario, altrimenti bisogna tenere la posizione e proseguire nella lotta contro i trafficanti di esseri umani». E allora si fa sapere che «nel 2014, quando la Marina militare pattugliava sistematicamente il tratto di mare immediatamente antistante le acque territoriali libiche con cinque unità navali, ci sono stati 3.538 tra morti e dispersi in mare, a fronte di 170.100 migranti complessivamente giunti sulle coste nazionali mentre dal 1° novembre 2014 ad oggi, dopo la conclusione di Mare Nostrum e l’avvio dell’operazione Triton, i morti e i dispersi sono stati 206 su 19.688 sbarcati».
Restano fuori da questo conteggio dell’orrore gli oltre 300 morti di due giorni fa, le vittime dell’ennesima tragedia in un’emergenza che appare ormai senza fine. Disperati che fuggono dalla miseria e dalla guerra. Uomini, donne e bambini che attendono anche settimane prima di riuscire a trovare un posto su pescherecci e gommoni. Partono dall’Africa, ma negli ultimi mesi si è aperta anche la nuova rotta dalla Turchia, dove salpano la maggior parte dei siriani in fuga dalla guerra.
Lo scontro istituzionale
Di tutto questo parlano i vertici delle istituzioni, dai presidenti del Parlamento fino al capo dello Stato in dichiarazioni ufficiali che esprimono dolore per le centinaia di morti. La polemica continua a montare, le consultazioni tra i membri del governo convincono Renzi sull’opportunità di intervenire.
La decisione di archiviare Mare Nostrum era stata presa nell’ottobre scorso proprio nella convinzione che non fosse risolutiva per affrontare il problema dei flussi migratori, ma anche perché l’Italia riteneva troppo oneroso — sia in termini economici, sia politici — accollarsi da sola la gestione dell’assistenza e dell’accoglienza dei profughi. E si era ottenuta la collaborazione della Ue nel varo di Triton che coinvolge 29 Stati. Anche perché, dicono adesso al Viminale, «su 63.041 richieste di protezione internazionale presentate nel 2014, ne sono state effettivamente esaminate 16.603 (pari al 26,34 per cento) dalle competenti Commissioni territoriali, di cui 7.553 con esito positivo (pari al 45 per cento) e questo significa che oltre ai profughi sono giunti nel nostro Paese anche migliaia di irregolari».
Alle 19 il presidente del Consiglio parla in tv e spiega che non ci sarà alcuna marcia indietro. Il tono è duro, difficile che basti comunque a placare lo scontro.

Repubblica 12.2.15
L’ammiraglio Angrisano
“Non è più soltanto un’emergenza c’è un intero popolo in fuga dalle guerre”
intervista di F. V.


QUESTA non è più una emergenza, è un popolo in fuga, una nuova Nazione di migranti e rifugiati che noi, tra mille difficoltà, metereologiche e politiche, cerchiamo di salvare». L’ammiraglio Felicio Angrisani, comandante generale delle Capitanerie di Porto, non usa mezzi termini per definire quel che è accaduto e sta accadendo nel Canale di Sicilia, dove centinaia di disperati continuano a morire annegati o di freddo, nel tentativo di raggiungere l’Europa.
Come affrontate questa, che non è più solo un’emergenza?
Con i gommoni d’altomare in mezzo a un mare a forza 8, diventato cimitero?
«Questa è una valutazione politica e non tecnica. Noi, uomini delle capitanerie di porto, dobbiamo agire subito. Il tempo, le onde alte quanto palazzine di tre piani, e distanze che in questa ultima tragedia era di circa 200 chilometri - lo dico in chilometri così la gente comprende - non ci fermano, perché dobbiamo salvare uomini, donne, bambini che vengono infilati dai trafficanti su imbarcazioni scassate anche se sanno che andranno incontro alla morte con il mare in tempesta».
Ma si poteva fare di più? Se ci fossero state navi militari o mercantili, si potevano salvare più persone?
«Con quel mare tutto sarebbe stato difficile: gli unici mezzi erano quelli che abbiamo inviato, costruiti e realizzati per affrontare onde altissime che hanno messo a rischio anche la vita dei miei uomini. Senza quei mezzi ci sarebbero stati moltissimi altri morti».
Lei e l’ammiraglio Pettorino, capo delle operazioni, dalla capitaneria di porto di Lampedusa avete seguito “in diretta” quest’ultima tragedia con centinaia di morti.
«Temevamo per la vita di quei disperati che stavano annegando e che morivano di freddo ma anche per la vita dei nostri uomini: abbiamo assistito ad autentici omicidi, di cui quei trafficanti sono responsabili. Hanno mandato al massacro quella gente. Per noi al centro di tutta questa situazione c’è l’uomo da salvare, ma questo va fatto anche con interventi strutturali, non si può più andare avanti con l’emergenza».

il Fatto 12.2.15
Disastro Triton, ma Renzi lo difende
Il premier: “Il problema è in Libia
di Enrico Fierro


BUFERA SUL GOVERNO E SUL PROGRAMMA UE: “TORNIAMO A MARE NOSTRUM”. IL PREMIER: “IL PROBLEMA È IN LIBIA”

I300 morti di Lampedusa, donne, bambini, uomini che fuggivano da guerre e fame, annegati nelle gelide acque del Canale di Sicilia, li portano sulla coscienza loro: politici arruffoni che hanno trasformato la tragedia dell’immigrazione in una disputa da bar dello sport, e governanti senza idee che hanno piegato la testa spaventati dalle varie ondate leghiste e neofascistoidi. Ha ragione Gino Strada quando dice che si “vergogna di essere italiano e di far parte di questa Europa indifferente alle sofferenze e complice delle stragi”. Già, l’Europa. Matteo Renzi la invoca ancora in queste ore. “Il problema non è Mare Nostrum o Triton, si può chiedere all’Europa di fare di più e domani lo farò, ma il punto politico è risolvere il problema in Libia. Non è che con Mare Nostrum non si moriva e adesso si muore”. Lo ha detto in tv in risposta a Enrico Letta (“ripristinare Mare Nostrum, che faccia perdere voti oppure no”), dimostrando, ancora una volta, la totale ignoranza di una tragedia che nei prossimi mesi ci costringerà a contare altri morti. Perché il problema c’è, ha un nome anche suggestivo, e si chiama Triton, l’operazione europea di controllo delle frontiere e dei mari che ha sostituito Mare Nostrum. Sigle diverse, “filosofie” opposte.
TRITON DOVEVA rappresentare l’impegno dell’Europa nel Mediterraneo, la fine della solitudine dell’Italia nell’affrontare le grandi migrazioni, ma si è ridotta in un semplice controllo delle frontiere che non contempla affatto l’idea che le navi militari operino i primi soccorsi in mare. Klaus Rosler, direttore della divisione operativa di Frontex, lo ha scritto in modo chiaro in una lettera inviata al Viminale lo scorso dicembre. Le richieste di intervento delle navi fuori “dall’area di operazione” per eventuali soccorsi, “non sono coerenti con il piano operativo… non sono ritenute necessarie e convenienti sotto il profilo dei costi ” e “in futuro non saranno prese in considerazione”. Basterebbe questo per dire che la chiusura di Mare Nostrum, l’operazione iniziata il 18 ottobre del 2013 e conclusa il 31 ottobre 2014, si è rivelata un fallimento. Perché l’Europa non c’è, Frontex e Triton sono illusioni che possono affascinare solo un ministro dell’Interno debole e inconcludente come Angelino Alfano. “Grazie a Frontex plus si potrà ottenere il più grande risultato degli ultimi anni, il primo, concreto risultato del semestre di presidenza italiano”, dichiarò alla vigilia della partenza dell’operazione Triton. I grandi risultati li abbiamo visti, molti riposano nel Canale di Sicilia.
Mare Nostrum doveva chiudere, lo voleva la Lega di Salvini (“Ci costa 300 mila euro al giorno, così si finanziano gli scafisti e l’invasione delle nostre case”), Maroni (“bisogna bloccarla subito”), Gasparri (“La Marina è stata trasformata in un traghetto per clandestini”). E il governo piegò la testa. Ora tutti si appellano all’Europa, ma nessuno ha imposto all’Italia di chiudere Mare Nostrum. I responsabili di Frontex avevano chiarito che Triton “risponde solo parzialmente alle reali e attuali esigenze di soccorso in mare per salvare vite umane”. Ieri la Commissione Ue ha invitato a “non puntare l’indice” ma Nils Muiznieks, commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, ha detto che “Triton non è all’altezza” e che serve “un sistema di ricerca e salvataggio efficace”.
GOVERNO E PARTITI sono stati indifferenti ai richiami delle organizzazioni internazionali (da Amnesty all’Organizzazione internazionale delle migrazioni) e alle sollecitazioni dell’ammiraglio Giuseppe Di Giorgi, capo di Stato maggiore della Marina Militare. Davanti ai senatori della Commissione diritti umani, l’ammiraglio disse che Triton era un’altra cosa, che il tratto di mare controllato si era ridotto del 65%, che i compiti della Marina erano stati depotenziati e questo non era un bene. De Giorgi smontò anche le tesi semplicistiche di chi accusava Mare Nostrum di essere responsabile di un aumento degli sbarchi, calcolando che nel novembre 2013 erano arrivati 1.883 migranti, un anno dopo, a operazione cancellata, ne erano sbarcati 9.134. In un anno di Mare Nostrum sono stati soccorsi 156 mila migranti, il 99% in alto mare; 366 gli scafisti individuati e arrestati, 9 navi madre sequestrate. Numeri che dicono poco a chi sull’immigrazione fa becera propaganda politica, molto a chi in balia della notte e del mare cerca una luce di salvezza.

il Sole 12.2.15
Il nodo-Libia c’è ma intanto salviamo le vite
di Marco Ludovico


La strage di ieri non è stata e non sarà l’ultima. Molte altre, del resto, sono avvenute silenziose e ignote: corpi inghiottiti dalle onde del canale di Sicilia senza testimoni, senza soccorsi, senza nessuna pietà. Migliaia di morti, donne, uomini, bambini. Lo sanno tutti, a cominciare da Bruxelles. Da sempre. Ma quando si è trattato di rimboccarsi le maniche è stata soltanto l’Italia, per quanto possibile, a mettersi in prima linea nel Mediterraneo per salvare vite umane. Impegno straordinario di uomini e risorse finanziarie, a cominciare dalla Marina Militare, come non era mai accaduto in tempi recenti. Un’operazione finita, ormai, e triturata nel paradosso della critica spietata di essere, Mare Nostrum, fattore di incentivo ai viaggi dei migranti. Un attacco che - oltre ad alcune frange politiche nostrane - è partito ripetuto e poderoso dai consessi di altri Stati europei. Obiezione ingenerosa, risibile e smentita dai fatti: oggi, con la formazione Triton - unità interforze Ue di pattugliamento e non di missione umanitaria, come Mare Nostrum - i viaggi della disperazione sono ancora più intensi, gli sbarchi a gennaio sono il 60% di più dello stesso periodo del 2014. Ennesima prova che l’essere umano in lotta per la sua vita e in fuga da un’esistenza indegna ignora o non considera alcun disincentivo: dalla carenza di soccorsi fino al rischio di morire. Figuriamoci se pensa ai divieti di legge come il famigerato reato di clandestinità, rivelatosi una banderuola politica priva di ogni deterrenza ed efficace soprattutto nell’ingrossare le fila già affollate all’inverosimile delle carceri italiane. Adesso la lungimiranza e la sensibilità delle autorità politiche nazionali ed europee si misurerà dal senso di concretezza, di immediatezza, di disponibilità - compresa quella di rimettersi in discussione - e di efficacia delle misure da prendere. Subito, perché i viaggi della disperazione non attendono le riunioni dell’Ue. Certo, come dice il premier Matteo Renzi c’è il nodo della Libia. Non è affare soltanto dell’Italia, si tratta di un teatro esplosivo e incontrollato, l’Europa finora ha assistito impotente alle dinamiche laceranti di Tripoli e delle fazioni in lotta. È anche vero, però, che dietro ai dibattiti e agli inviti alla solidarietà collettiva, al sostegno e all’impegno comuni, che tra gli stati dell’Unione si lanciano e si rilanciano davanti alle stragi in mare, resta poco o nulla. Com’è sempre accaduto. Un valzer di ipocrisie che nasconde la sommatoria di imbarazzante impotenza e cinica indifferenza: non risparmia nessuno. Ecco perché nelle valutazioni all’esame del presidente del Consiglio, insieme al ministro dell’Interno, Angelino Alfano, non può che consolidarsi, sopra ogni altro, un solo, unico obiettivo: salvare le vite umane. Forse non si può tornare a Mare Nostrum sic et simpliciter. Forse si può immaginare una missione umanitaria europea. Certo è che il sistema italiano dei soccorsi, di cui siamo e siamo stati sempre orgogliosi, oggi non ammette più alcuna esitazione di fronte a queste tragedie disumane. 

Repubblica 12.2.15
La risposta sbagliata del premier
Il governo italiano non si è mostrato all’altezza del dramma in corso e delle scelte che esso impone
Non basta dire che il problema è la Libia
di Gad Lerner


SOLO proteggendoci con una scorza di disumanità, accontentandoci di non vederli in faccia mentre annegano a centinaia e a migliaia nel nostro mare, possiamo soffocare il senso di vergogna suscitato dalla strage infinita del Canale di Sicilia. Ma resta la domanda: salvarne il più possibile rientra o non rientra fra i doveri della nostra civiltà europea?
I trafficanti che in Libia depredano e poi spediscono nel mare in tempesta i loro volontari ostaggi paganti, su gommoni sgangherati, compiono evidentemente un atto criminale. Ma noi abbiamo fatto tutto ciò che era in nostro potere per salvarli? L’altrui crimine non fornisce un alibi a chi si fosse macchiato di omissione di soccorso. Ieri, balbettando per l’imbarazzo, i funzionari del Consiglio d’Europa hanno riconosciuto l’insufficienza del dispositivo Frontex.
LAfinalità di Frontex è limitata al presidio delle frontiere di Schengen, entro un raggio di 30 miglia. Non a caso i suoi costi sono un terzo dell’operazione Mare Nostrum dispiegata dalla Marina Militare italiana al di là di quel limite, in acque internazionali. Grazie a Mare Nostrum, fino alla scadenza del 31 dicembre 2014, sono stati effettuati oltre cinquecento interventi e sono stati salvati più di centomila profughi, anche se purtroppo ne risultano ugualmente dispersi — dati del Viminale — più di tremilatrecento.
Dunque non è una contesa ideologica, o peggio una strumentalizzazione politica, la contrapposizione del modello Triton al modello Mare Nostrum. Cinque unità militari italiane dotate di attrezzature ospedaliere (ricordate l’elogio di Napolitano alla dottoressa Petricciuolo che ha fatto nascere a bordo della nave Etna una bimba nigeriana la notte di Natale?) hanno sconfinato per quattordici mesi nel Mediterraneo. Per la verità lo hanno fatto anche a dicembre, sebbene la loro missione fosse ufficialmente scaduta. Ma ora, da gennaio, non lo fanno più, a seguito di una revoca che l’Ue peraltro non ci imponeva. Certo, nessuno può sostenere con certezza che un tempestivo intervento della nostra Marina Militare nelle acque internazionali avrebbe salvato la vita degli oltre trecento naufraghi, la notte di domenica scorsa. Anche se è probabile che avrebbe impedito la morte per congelamento di ventinove ragazzi imbarcati vivi sulle motovedette della Guardia Costiera, sprovviste di medici e ambulatori.
Per questo avvertiamo che il governo italiano e il premier non si sono mostrati all’altezza del dramma in corso, e delle scelte immediate che esso impone. Non basta dire che il problema è la Libia, divenuta preda di clan jihadisti. È mortificante, poi, che la richiesta avanzata dalle organizzazioni umanitarie, dalla Chiesa e da alcuni esponenti del Pd — cioè l’immediata riattivazione di squadre di soccorso in acque internazionali — venga liquidata da Renzi come se si trattasse di una manovra antigovernativa. Chi se ne frega, scusate. Davvero la lotta politica può scendere a livelli di insinuazione così meschini?
Giusto pretendere un coinvolgimento logistico e finanziario dell’Unione Europea, mostratasi fin qui campionessa di cinismo. Ma nel frattempo? Fonti del ministero della Difesa ammettono che nel giro di due o tre giorni al massimo, se il governo prendesse una decisione in tal senso, la nostra flotta potrebbe riprendere il presidio di cui tutti siamo andati orgogliosi. Quale motivazione po- litica o di bilancio (stiamo parlando di una spesa di centomila euro al giorno) si oppone a una decisione di carattere umanitario, se non forse l’imbarazzo di dover ammettere che la revoca di Mare Nostrum è stata una scelta avventata, magari dettata da calcoli di consenso?
Eppure dovrebbe essere ormai unanimemente riconosciuta l’infondatezza della tesi secondo cui le missioni umanitarie creano un fattore di attrazione involontaria, spingendo i migranti a tentare la pericolosa traversata (che per loro rappresenta comunque il rischio minore).
Il ministro Alfano ieri sera si trincerava dietro l’argomento della fatalità ineluttabile: «Non esiste e non può esistere un’operazione che sconfigga la morte in mare». È for- se questa la posizione del governo? Confermiamo la ritirata nelle nostre acque internazionali? È così che intendiamo il nostro ruolo di potenza mediterranea?
Certo, Mare Nostrum è solo un tampone, più di una volta i nostri marinai sono arrivati troppo tardi. Ma è, questo, un buon motivo per desistere?
Il flusso di profughi dalle zone di guerra, che secondo l’Unhcr nel 2014 ha portato almeno 218mila persone ad attraversare il mare Mediterraneo, non accenna a diminuire. Ciò impone scelte strategiche difficilissime per regolarlo, identificarlo, delimitarlo. Ostacoli insormontabili al momento impediscono la creazione di presidi internazionali per lo smistamento dei profughi sulla sponda sud del Mediterraneo. Ma ciò non deve impedirci di riconoscere l’assurdità della situazione venutasi a creare col monopolio instaurato dai trafficanti sulla terraferma e sul mare.
Un biglietto aereo da Tunisi a Roma costa 100 euro. Il traghetto, se ci fosse, ancora meno. Per la traversata della morte risoltasi in ecatombe, i passeggeri dei gommoni hanno pagato 650 euro ciascuno ai criminali. Il proibizionismo dissennato della comunità internazionale finisce per versare centinaia di milioni nelle tasche delle mafie e dei jihadisti.
Subiamo la condanna a morte di centinaia di giovani, la cui età media — riferisce l’Unicef — oscilla fra i 18 e i 25 anni. E intanto lasciamo che finanzino un nemico ogni giorno più pericoloso. Se anche non bastasse la vergogna, dovrebbe spingerci ad agire l’istinto di autodifesa. Nella tragedia di cui siamo spettatori, il governo e la classe dirigente europea stanno recitando la parte di comparse senza passione, impaurite e mediocri.

La Stampa 12.2.15
La politica e i fratelli che muoiono
di Michele Brambilla


È abbastanza deprimente sentir dire al presidente del Consiglio che, di fronte alle stragi nel Mediterraneo, «L’Europa deve fare di più». Le stesse parole le aveva dette, o meglio dovute dire, il ministro degli Interni un anno e mezzo fa, il 3 ottobre del 2013, quando era atterrato a Lampedusa e si era trovato davanti agli occhi 366 morti.
Adesso i morti di Lampedusa sono trecento, dicono che nella macabra contabilità del Mediterraneo questa sia la seconda strage dopo - appunto - quella del 3 ottobre 2013: e insomma quello che deprime, per una volta, non è la ripetitività dei nostri politici, ma il fatto che abbiano ragione. Perché l’Europa faceva poco o nulla allora e fa poco o nulla adesso.
Questa Unione Europea, così attenta e puntuale quando si tratta di controllare i nostri conti, è così poco reattiva quando si tratta di controllare i nostri confini. Che poi sono anche i suoi, di confini. È del tutto evidente che la migrazione dei disperati sui barconi che partono dalle coste dell’Africa non è, e non può essere, un problema solo italiano. La maggior parte di chi chiede asilo politico non lo chiede all’Italia, e neppure alla Spagna, ma alla Germania, alla Svezia e alla Francia. Eppure, a intervenire in soccorso dei naufraghi del Mediterraneo finora ci siamo stati soprattutto noi italiani.
Diciamo la verità: l’Italia la sua parte l’ha fatta. Dopo la strage del 3 ottobre 2013 il governo di Enrico Letta varò Mare Nostrum, un piano di soccorso certo non perfetto (3.400 migranti sono comunque morti, nel 2014 nel Mediterraneo) ma che ha permesso di salvare 156.139 vite umane. Era però un piano interamente sulle nostre spalle, che non sono fra le più robuste del continente, e a un certo punto lo abbiamo dovuto interrompere. L’Europa si è impegnata finalmente a collaborare e ha varato un piano alternativo, che si chiama Triton. Ma il risultato è qui da vedere: rispetto a Mare Nostrum, Triton è meno efficace. Meno risorse, meno uomini, meno mezzi, meno salvataggi.
Per questo ieri Enrico Letta ha chiesto, con un tweet, di ripristinare Mare Nostrum «che faccia perdere voti oppure no». Renzi dice invece che la soluzione migliore sarebbe intervenire alla radice, cioè sulle coste della Libia, e può darsi che abbia ragione: è là che ci sono i criminali che gestiscono le partenze dei barconi, un business da 32 miliardi di dollari, secondo solo al traffico di droga. Ma anche per andare sulle coste della Libia avremmo bisogno dell’Europa.
E se l’Europa non si decide ad occuparsi anche di vite umane, oltre che di debito pubblico, noi italiani abbiamo solo due opzioni davanti. Una è lasciar continuare le stragi, sostenendo - anche a ragione - che se in mare si muore non è solo colpa nostra. Un’altra è mettere davanti a tutto il cuore, che è poi la cosa che sappiamo fare meglio, e pensare che prima delle discussioni politiche ci sono nostri fratelli da non lasciar morire di disperazione. Mare Nostrum è stata un’operazione che probabilmente non ci potevamo permettere: ma, oltre a salvare vite umane, ha avuto il pregio di farci sentire, per una volta, un po’ meno peggio di come ci dipingono in Europa. Anzi, un po’ migliori degli altri.

La Stampa 12.2.15
“Comando, fatica e ambizione”
Renzi contro i tabù della sinistra
Il premier parla agli allievi ufficiali dei carabinieri: e si lancia nell’elogio dell’uomo solo alla guida
di Fabio Martini


Dall’ incipit, un po’ irrituale, si intuisce che non sarà il solito discorsetto. Davanti ai vertici dell’Arma dei carabinieri, riuniti per l’apertura del corso allievi ufficiali, Matteo Renzi esordisce così: «Vorrei cogliere questa occasione, col suo permesso signor Comandante generale, non per lanciarmi in una dissertazione dentro i confini nazionali...». E da quel momento il presidente del Consiglio si produce in una sequenza di espressioni spiazzanti: l’elogio del concetto di comando («non è una parolaccia»), ma anche l’apologia della «paura», della «fatica» e dell’«ambizione» di chi si trova a prendere una decisione. In altre parole, un argomentato panegirico dell’«uomo solo al comando». Alla fine, una demolizione sia dell’etica della irresponsabilità, tipica della mentalità italiana, ma anche della fobia del comando: un discorso col quale Renzi ha smontato un altro pezzo della cultura politica della sinistra italiana.
Discorso, con qualche passaggio da presidente americano, nel quale Renzi ha mixato patriottismo e politica. Esordio retorico sulla cerimonia dell’alzabandiera, ma poi Renzi va al sodo: «In Italia c’è tradizionalmente un racconto per cui comandare è quasi una parolaccia» e questo soprattutto per ragioni storiche («una dittatura vissuta come ferita non risarcita») da esorcizzare. Dice Renzi: «Quante volte si dice: attenzione all’uomo solo al comando! Un’espressione che in realtà non ha nulla di militare né di politico ma è stata usata da un radiocronista» per raccontare «l’epica ciclistica di Fausto Coppi». E qui parte il contrattacco, musica per le orecchie dei carabinieri: «Il comando è un servizio al Paese che non dura per sempre ma ha un termine e dunque non è al servizio delle persone ma delle istituzioni».
Smaltito il primo messaggio - parlando a braccio ma seguendo il filo di un testo che aveva preparato in anticipo - Renzi è arrivato a un altro concetto non rituale in un discorso da cerimonia: «Quando vi dicono: al comando non sarai mai solo.... Bene, sappiate che non è così: nel comando c’è una componente di solitudine». E a questo punto il premier ha «estratto» la citazione di uno scrittore, Dino Buzzati: «Poco più in là della sua solitudine, c’è la persona che ami». Citazione letteraria, ma che per una volta non è parsa appiccicaticcia: «Ciascuno di voi, poco più in là della vostra solitudine, ha una dimensione affettiva, ma lasciatemi dire che anche nella gestione della vostra solitudine c’è un pezzo della vostra formazione...».
Un inedito Renzi intimistico, associato al consueto Renzi volontaristico, che si concede un tric-trac finale, di nuovo spiazzante: «Io vorrei augurarvi tanta fatica, lo so che non si augura la fatica; vorrei augurarvi tanta paura e lo so che non si augura la paura, ma come ha detto Nelson Mandela, il coraggio non è la mancanza di paura, è avere paura e vincerla». E finalmente: «Vorrei augurarvi tanta ambizione: slegata da un disegno collettivo e da una capacità di relazione, l’ambizione è un male, ma intesa come desiderio di puntare in alto, è tipico di chi appartiene ad una grande storia». Prolungati applausi dagli uomini in divisa.

il Sole 12.2.15
Jobs Act. La maggioranza in commissione Lavoro ha approvato il parere sul Dlgs che modifica l’articolo 18
Pd diviso sui licenziamenti collettivi
I senatori dem: si torni alla reintegra - Taddei: mantenere l’impianto della riforma
di Giorgio Pogliotti e Claudio Tucci


ROMA È braccio di ferro nella maggioranza, e all’interno del Pd, sulla sorte dei licenziamenti collettivi. I senatori dem, in occasione della discussione ieri notte in commissione Lavoro, sono usciti allo scoperto chiedendo al Governo, con un emendamento (votato anche da Sel e M5S) di cancellare l’estensione delle nuove regole (indennizzo e non più reintegra) ai licenziamenti di almeno 5 dipendenti. Ma il presidente della commissione, Maurizio Sacconi (Ap), si è detto contrario, auspicando che «il Consiglio dei ministri non recepisca questa richiesta».
Anche il Pd, in realtà, è diviso sul tema: per il responsabile economico, Filippo Taddei: «Non si tratta di cambiare un aspetto o un altro, ma di mantenere l’impianto di una riforma che mette al centro il lavoro stabile e introduce l’indennizzo come tutela ordinaria del lavoratore». D’accordo Pietro Ichino: «La legge delega esclude esplicitamente l’applicabilità della reintegra in tutti i casi di licenziamento economico. Non si può sostenere che questa espressione non comprenda il licenziamento collettivo».
Il punto in discussione è il mantenimento della tutela reale in caso di violazione dei criteri di scelta previsti da accordi aziendali. A chiedere il dietrofront sui licenziamenti collettivi sarà anche la commissione Lavoro della Camera presieduta da Cesare Damiano (Pd) che preme l’Esecutivo anche per rivedere, al rialzo, gli indennizzi minimi (attualmente fissati a 4 mensilità, 2 in caso di conciliazione standard).
Fin qui la cronaca parlamentare. Va infatti ricordato che si tratta di pareri non vincolanti per il Governo che ieri, per bocca del sottosegretario, Teresa Bellanova, ha annunciato l’intenzione di voler portare al Consiglio dei ministri del 20 febbraio tutti i restanti decreti attuativi del Jobs act, compreso quello sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Un’operazione difficile, soprattutto sul riordino della cassa integrazione visto che bisognerà ottenere l’ok del ministero dell’Economia. Strada in salita anche per la nuova agenzia nazionale per l’occupazione, alla luce delle critiche mosse dalle Regioni, ancora competenti sulla materia (a Titolo V non modificato).
In vista del 20 febbraio ieri pomeriggio al ministero del Lavoro si è svolta una nuova riunione tecnica con gli esperti di palazzo Chigi. A buon punto è il Dlgs sul riordino delle tipologie contrattuali. Qui si va verso un graduale superamento delle collaborazioni a progetto (l’ipotesi è fissare la deadline al 1° gennaio 2016), e una ridefinizione complessiva delle cococo. Verso la cancellazione anche delle associazioni in partecipazione e del lavoro ripartito (il job sharing utilizzato in agricoltura, che conta qualche centinaio di rapporti). Ci sarebbe una semplificazione dell’apprendistato di 1° livello (per il diploma e la qualifica professionale) e di 3° livello (di alta formazione). Per il lavoro a chiamata è ancora in corso una riflessione, per evitare di penalizzare alcuni settori produttivi (commercio e ristorazione). Ancora in bilico è pure l’intervento sui contratti a termine (la cui durata potrebbe scendere da 36 a 24 mesi).
Sulle mansioni, si amplierebbero i margini di intervento del datore di lavoro nei casi di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale.
Tornando al parere, votato ieri dalla maggioranza, c’è il richiamo all’applicazione omogenea delle nuove disposizioni a tutto il lavoro privato e pubblico, con l’eccezione delle carriere d’ordine. In termini generali, è scritto nel parere, «la regolazione dei nuovi contratti permanenti deve allinearsi alle discipline vigenti negli altri paesi europei, anche a quelle più protettive».

il Sole 12.2.15
Ragion politica
di Fabrizio Forquet

Ai fasti della cronaca è nota come la norma 3 per cento “salva-Berlusconi”, in realtà è l’attesissimo decreto sull’abuso del diritto, il nucleo della riforma fiscale approvata ormai 12 mesi fa e non ancora attuata. Ieri l’ennesima proroga, questa volta per legge, perché i vecchi termini sono ormai scaduti. Le ragioni della politica, ancora una volta, vengono prima di quelle del Paese, dei cittadini, delle imprese. Il “fisco amico", certo e non persecutorio, può attendere. Non possono attendere, invece, le convenienze politiche. Troppi rischi, nei rapporti con l’opposizione e con la minoranza Pd, meglio riparlarne dopo le riforme istituzionali e dopo le elezioni regionali. Forse, chissà.

Repubblica 12.2.15
Rinviato il salva-Berlusconi
A maggio la norma del 3%
di Goffredo De Marchis


E’ IL giorno in cui Matteo Renzi si ferma, smette di correre e apre a una doppia trattativa, sul decreto fiscale e sulle riforme. Lo fa a modo suo. Fissando tempi certi, rilanciando subito un ultimatum sulla legge costituzionale in discussione alla Camera. «Vogliamo una risposta entro la sera. Se è negativa, procediamo con lo strumento della seduta fiume».
Ma è lo stesso premier, la mattina, ad attivare Maria Elena Boschi e Roberto Speranza per aprire un “corridoio” diplomatico con Forza Italia e la Lega in modo da far sparire i 3 mila subemendamenti, numero peraltro sempre in crescita visto che quel tipo di modifica si può presentare in qualsiasi momento. Ieri, per dire, Brunetta ne ha presentati altri 175, praticamente uno fotocopia dell’altro. Ostruzionismo puro. «Facciamo il possibile per evitare l’accusa di riforme approvate a colpi di maggioranza. Poi però andiamo avanti», ha spiegato Renzi ai suoi “ambasciatori”, affidandogli il mandato di pace. Senza però accettare di essere messo in scacco da Forza Italia, di bloccare il processo. E quando la risposta è stata un no, il Pd ha rispinto sull’acceleratore.
Un lungo rinvio è invece arrivato sul decreto fiscale e sulla norma più contestata, la non punibilità sotto l’evasione del 3 per cento dell’imponibile, quella della “manina”, quella del blitz alla vigilia di Natale, quella ribattezzata salva Silvio. «Facciamo decantare la situazione », è stato il ragionamento del premier. «Non è il caso di mettersi controvento all’opinione pubblica», è il ritornello ripetuto a Palazzo Chigi. Correre a perdifiato verso il consiglio dei ministri del 20 febbraio significa anche spalancare le porte a un nuovo scenario di scontro dentro l’esecutivo e con una parte delle forze politiche, minoranza del Pd inclusa.
Nei giorni scorsi infatti Renzi ha ricevuto il nuovo testo dal ministero dell’Economia e leggendolo ha scoperto che era stato «ripulito» dalle norme maggiormente contestate compresa la soglia del 3 per cento. Bisognava quindi, come la volta scorsa (era il 24 dicembre scorso), far intervenire la “manina”, aprire un contenzioso con Piercarlo Padoan e i tecnici di via XX settembre, rimettere il governo al centro di una bufera, piccola o grande che fosse. Meglio aspettare.
Nel frattempo si può organizzare meglio tutto il sistema perché sia davvero possibile, come ha spiegato il premier a Skytg24, recuperare le cifre evase fino in fondo. Anche con la non punibilità ma facendo scattare sanzioni pecuniarie veramente efficaci. In più, l’appuntamento del 20 si era caricato veramente di troppe aspettative e non tutte si potevano soddisfare. Finora Renzi ha ammesso un solo errore nei suoi 11 mesi di governo: l’inasprimento fiscale per le partite Iva. Bene, il Tesoro aveva promesso di risolvere il caso già nel decreto Mille proroghe poi aveva dovuto fare marcia indietro. L’obiettivo allora era correggere lo “sbaglio” nel decreto fiscale all’esame la prossima settimana. Ma gli uffici hanno fatto presente che nulla era cambiato nelle ultime ore: mancava la copertura per il Milleproroghe e manca la copertura per intervenire adesso.
Stavolta Renzi non ha forzato, pur convinto che «la norma del 3 per cento non riguarda Berlusconi e questo ormai è chiaro» e che la cosa più importante «sia recuperare i soldi punendo economicamente gli evasori». Però non era il momento di ripetere un braccio di ferro. Con Padoan e con una parte del suo governo, perché i Giovani turchi di Matteo Orfini e Andrea Orlando gli avevano espresso la loro posizione: valutiamo bene tutte le opzioni e prendiamo tempo, se necessario. A fare definitivamente chiarezza è arrivata una «tecnicalità », come la chiama l’ex sindaco di Firenze. Non è detto infatti che approvare il decreto il 20 avrebbe consentito di rientrare nei tempi della delega fiscale, che scade il 27 marzo. Fra passaggi vari (esame non vincolante delle commissioni competenti e vaglio istituzionale) il rischio era di sforare il termine. Chiedere una proroga è la soluzione per «far decantare» la vicenda e preparare al meglio il dossier.
Superata la partita del Quirinale, Renzi è alla prese con la ridefinizione degli equilibri della maggioranza. Ha bisogno, in questo momento, di rinsaldare i bulloni fuori dal recinto del patto del Nazareno. Di mettersi al centro di un nuovo assetto che comprende a pieno titolo i dissidenti del suo partito, i fuoriusciti del Movimento 5 stelle, i nuovi arrivi nel Pd. La direzione di lunedì è il primo passaggio per mettere alla prova un sistema che da una parte ha rafforzato la leadership del premier e dall’altra ha portato Forza Italia a sfilarsi da un ruolo di sponda che andava oltre le riforme. Quando Renzi ripete «abbiamo i numeri anche da soli» in qualche modo deve fare i conti con questo cambio di quadro. Il rinvio del decreto silenzia la polemica nel Pd. «Io continuo a pensare che il decreto andava approvato con una robusta correzione. Dopo di che, se lo slittamento consente una maggiore riflessione e la cancellazione di concetti inaccettabili, meglio così», dice Stefano Fassina. Un rinvio che evita il testo votato il 24 dicembre, spiega l’ex viceministro, non può non essere una buona notizia.

il Fatto 12.2.15
Il salva-evasori slitta: “A maggio lo faremo”
di Marco Palombi


LA SANATORIA PER CHI FRODA IL FISCO RINVIATA A DOPO LE REGIONALI, CONTINUA LO SCONTRO CON IL TESORO: “COSÌ CALERÀ IL GETTITO”

Per la norma che perdona i peccati fiscali – frode compresa – commessi sotto la soglia del 3% del fatturato annuo s’è deciso di lasciar passare la nottata. Il decreto attuativo della delega fiscale sull’abuso di diritto – quello con l’aiutino ai grandi evasori – non andrà al Consiglio dei ministri del 20 febbraio come annunciato dopo il ritiro del primo testo (pubblicato a dicembre): lo ha detto ieri il viceministro all’Economia, Luigi Casero, dopo che lo stesso Renzi gli aveva comunicato la decisione. Il governo chiederà di estendere la delega fiscale, che scade il 27 marzo, per sei mesi: la settimana prossima arriveranno in Cdm “i dlgs sui giochi, sulle imprese e per l’attrazione dei capitali”, il resto è rimandato addirittura a maggio.
“La situazione deve decantare: aspettiamo le Regionali”
Secondo qualificate fonti di governo, Matteo Renzi non vuole affatto rinunciare alla sanatoria penale per chi evade e froda il fisco sotto il 3% del fatturato e nemmeno alle altre norme “aggiusta processi” presenti in quel decreto: “Il premier ha solo deciso di far decantare la situazione: è convinto che dopo le elezioni regionali (si dovrebbe votare a fine aprile, ndr) la situazione sarà più favorevole, perché il centrodestra berlusconiano verrà massacrato”. Dopo, insomma, sarà più facile anche andare a una prova di forza con la minoranza Pd e l’opinione pubblica. D’altra parte c’è pure una questione di mero calendario, che però finora Renzi aveva preferito ignorare: le commissioni parlamentari avrebbero avuto a disposizione solo un mese per esaminare diversi decreti legislativi, peraltro assai complessi.
Lo scontro con Tesoro e Entrate, le partite Iva prese in giro
Anche la guerra sorda col Tesoro e, soprattutto, l’Agenzia delle Entrate sta dietro il rinvio a maggio del decreto più atteso dai grandi evasori. Il ministero guidato da Pier Carlo Padoan continua a sottolineare che quel dlgs, così com’è stato concepito, comporterebbe anche una diminuzione del gettito da recupero
dell’evasione (attorno ai 10-15 miliardi secondo tecnici che hanno seguito l’iter del provvedimento). Non è una preoccupazione che paia togliere il sonno al presidente del Consiglio, che però paradossalmente parla proprio di lotta all’evasione come motivo del rinvio: “Sono 70 anni che il sistema non funziona, si può aspettare tre settimane per non fare pasticci. Il punto è che l’Italia è l’unico Paese che non riesce a portare a casa i soldi dell’evasione, solo 29 milioni su 740: l’impegno è che dal 1° settembre parte un nuovo sistema per cui se contesto 740 milioni bisogna portare a casa 740 milioni e non 29”. Strano che per farlo si stabilisca che sotto una certa soglia la frode fiscale non è nemmeno reato. Anche la correzione del pasticcio sulle partite Iva è entrato nel gioco: l’aumento delle tasse sugli autonomi che scelgono il regime dei “minimi” era stato inserito nella legge di Stabilità, ma il premier aveva garantito che avrebbe corretto l’errore. A chi gli chiedeva di farlo nel dl Milleproroghe, però, Renzi rispondeva che la sede adatta erano i decreti fiscali: il problema è che attenuare la stangata ha un costo - va cioè trovata la copertura - e il bilancio non è così elastico (aspettiamo ancora, per marzo, la pagella Ue). Risultato: niente interventi nel Milleproroghe, niente nei decreti, scippo su redditi bassi o molto bassi.
Cui prodest? Il 3% tra Silvio, le banche e gli amici toscani
“Oggi abbiamo deciso di verificare bene la delega fiscale. Tutti dicono che salva Berlusconi. Ma Berlusconi con questa vicenda non c’entra niente”. Matteo Renzi ieri è tornato a spiegare le sue ragioni sulla sanatoria fiscale. D’altra parte lo stesso ex Cavaliere – nonostante Denis Verdini gli abbia venduto la norma come “salva-Silvio” – ha capito che lui c’entra poco e niente: quando entrerà in vigore avrà finito di scontare la sua pena, ma gli resterà il problema dell’incandidabilità sancita dalla legge Severino (di cui continua a chiedere invano che sia sancita per legge la non retroattività). Fonti di governo, invece, hanno raccontato al Fatto Quotidiano che della soglia al 3% sarebbero assai felici i vertici del colosso farmaceutico Menarini, Lucia e Giovanni Aleotti, fiorentini in ottimi rapporti con Renzi e il suo entourage, sotto processo per una ma-xi-frode al Servizio sanitario nazionale con relativi soldi nascosti al fisco. Ma gli effetti della sanatoria sono difficilmente quantificabili: si salverebbero (anche grazie alla norma sui “flussi finanziari nelle scritture contabili obbligatorie”) Alessandro Profumo e Corrado Passera, sotto processo rispettivamente come ex ad di Unicredit e BancaIntesa, l’immobiliarista caro al Parlamento Sergio Scarpellini, l’ex numero uno di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini, alcuni dirigente Ilva e giù giù persino Fabrizio Corona e Lele Mora. Capito perché Agenzia delle Entrate e magistrati la prendono così male?

Corriere 12.2.15
E Cottarelli disse: la riforma Madia? Non ha risparmi
Le accuse nel suo ultimo discorso: al governo nessuno dice che una spesa è inaccettabile
di Antonella Baccaro


ROMA Gli ormai mitici testi della spending review de ll’ex commissario Carlo Cottarelli, reclamati da più parti in nome della trasparenza, restano tuttora coperti dal mistero. In compenso l’Istituto Bruno Leoni ha dato alle stampe l’ultimo discorso ufficiale del commissario: la «Lectio Marco Minghetti», tenuta a fine 2014, commentata da Lucrezia Reichlin (London Business School) e Nicola Rossi (Università Tor Vergata Roma).
Parole, quelle di Cottarelli, che suonano talvolta caute, talatra accusatorie. Come quando afferma che «non bisogna farsi illusioni: la riforma è stata avviata ma è lontano dall’essere completata», o quando ammette che la parte del leone nella spending «l’hanno fatta i tagli alle spese di beni e servizi», e che va verificato ex post che «gli enti territoriali siano riusciti effettivamente a raggiungere i risparmi» senza aumenti di tasse.
Ed ecco i messaggi in bottiglia: al ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, dice che «gli obiettivi della riforma della P.a. non sembrano includere, almeno non esplicitamente, il risparmio di risorse»: «Spero si possa ovviare» è la chiosa. E ancora: «Non si può far finta che (con i tagli ndr ) non ci siano risparmi in termini di personale». Al governo (Letta e Renzi, l’incarico di Cottarelli è a cavallo tra i due esecutivi) rimprovera la mancanza di obiettivi: «In un anno non ho mai sentito dire che una certa proposta di spesa non è accettabile perché è contraria ai nostri principi fondamentali su quello che lo Stato dovrebbe fare». Ma anche che «occorre riconoscere che spesso scelte impopolari sono necessarie». E possono «comportare revisioni che toccano non solo i soliti “pochi privilegiati”, ma anche un’ampia fascia della popolazione».
Ed è ancora un’accusa quella del commissario che dice: «La complessità dei testi legislativi è tale che i vertici dei ministeri a partire dai ministri hanno difficoltà» a seguirne la definizione: «Non è talvolta chiarissimo chi abbia scritto materialmente questo o quell’altro comma». O quando, sull’attuazione delle leggi, sollecita «controlli di sostanza e non di forma» e «penalità in caso di mancata implementazione». Infine una curiosità: proponendogli l’ incarico, il ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, spiegò che «si cercava una figura che elevasse il profilo del dibattito sulla revisione della spesa». D’accordo sul profilo ma il bilancio, commenta Rossi, è «piuttosto deludente». Alla spending è «mancata una motivazione» di fondo, conclude Lucrezia Reichlin.

Corriere 12.2.15
Il pasticcio delle alleanze che non fa bene al paese
Le conseguenze della fine di un Patto troppo ambiguo
di Aldo Cazzullo


Il caos politico di questi giorni non annuncia una guerra Renzi-Berlusconi, che entrambi hanno interesse a evitare; ma questo non significa che non sia accaduto nulla. Anzi, una fase si è chiusa; e questo implica qualche rischio non tanto per i contraenti del patto del Nazareno, quanto per il Paese.
Dal novembre 2011 l’Italia di fatto è stata retta da una grande coalizione, voluta da Giorgio Napolitano e guidata prima da Monti, poi da Letta, quindi da Renzi, che con il patto del Nazareno si coprì le spalle prima di salire a Palazzo Chigi. Non è stata un’alleanza organica, come quella al governo a Berlino e a Bruxelles; ma finora aveva resistito.
Questi tre anni e mezzo di intese più o meno larghe non hanno dato grandi risultati, ma se non altro hanno assecondato una uscita — sin troppo lenta — dall’emergenza legata all’instabilità finanziaria e alla depressione economica. Ora l’equilibrio si è rotto. E tutti rischiano qualcosa.
Renzi non ha mai sperimentato cosa significa avere Berlusconi e la sua intatta macchina editoriale contro. Il fuoco concentrico di tv, quotidiani, magazine politici e riviste di gossip può ancora logorare qualsiasi personalità, come è accaduto in tempi e forme diverse a Scalfaro, a Prodi, a Fini, in parte allo stesso Veltroni.
Finora l’impero mediatico di Berlusconi ha mostrato per Renzi una simpatia non inferiore a quella del proprietario: le ospitate da Maria De Filippi e da Barbara D’Urso erano parse quasi il segno di un passaggio di testimone, come se Berlusconi considerasse Renzi il proprio vero erede politico e si sentisse il socio di minoranza del suo governo. E Renzi ha ricambiato la simpatia, preferendo i talk show di Porro, vicedirettore del Giornale , e Del Debbio, protoideologo di Forza Italia, a quelli di Formigli o Floris, con cui ha litigato a distanza o di persona.
È vero che nel renzismo è consustanziale la figura del nemico; ma quel nemico non è mai stato Berlusconi, semmai la vecchia classe dirigente della sinistra; Renzi si è sempre presentato non come antiberlusconiano ma come postberlusconiano, pronto a ereditare parte dei voti del vecchio leader e a servirsi di lui come alternativa alla riottosa minoranza interna. Uno schema che ora è saltato, o comunque si è complicato.
Dall’altra parte, sono 15 anni che Berlusconi non ha un governo contro. Dal 2001 in poi (tranne pochi mesi di un Prodi debolissimo) il Cavaliere è sempre stato a Palazzo Chigi o nell’area della maggioranza, sia pure con un impegno decrescente. Questo ha senz’altro giovato alle sue aziende, se non altro perché nessun governo ha messo mano alla legislazione, dalla Gasparri in giù, che ad esempio consente ancora oggi a Mediaset di intercettare molta più pubblicità della Rai pur avendo nel complesso ascolti inferiori. Il passaggio di Berlusconi all’opposizione e un vero scontro con Renzi farebbe male a entrambi, e alla fine il vincitore più che Salvini o Alfano sarebbe Grillo. È probabile pertanto che lo scontro non ci sarà.
Tutto bene quindi? Non proprio. La situazione di incertezza che si apre non fa gli interessi del Paese; i quali sono ovviamente molto più importanti di quelli dei leader politici (che in una democrazia matura sarebbero da tempo regolati da norme universali sul conflitto d’interessi). All’Italia le riforme servono. Quella elettorale e quella costituzionale, senza dubbio. Ma a maggior ragione la riforma del lavoro (che deve ancora essere attuata), del Fisco, della pubblica amministrazione, della giustizia. Il percorso che dovrebbe rendere il Paese più efficiente, più competitivo e più giusto è appena cominciato.
Le riforme hanno bisogno di numeri e di tempi certi. A queste condizioni, è bene che la legislatura continui, magari fino alla conclusione naturale. In caso contrario — per quanto la leadership di Renzi abbia mostrato capacità di attrazione presso i transfughi dei vari partiti —, la situazione internazionale, la crisi europea e la lentezza della ripresa interna non consentono affatto il clima di confusione e incertezza visto in questi giorni in Parlamento.

La Stampa 12.2.15
Denuncia del M5S per il volo di Stato preso da Matteo Renzi per andare in vacanza a Courmayeur. Scrive su Facebook il deputato 5 stelle e membro del direttorio Luigi Di Maio: «Siamo stati alla Corte dei Conti per denunciare Renzi e presentargli il conto. Sembra che il suo volo di Stato per recarsi a Courmayeur a capodanno sia costato più di 70.000 euro. Per andare a sciare «in condizioni di sicurezza» in 24 ore ha speso tre volte lo stipendio annuo di un cittadino italiano».

Corriere 12.2.15
Negazionismo, ok del Senato al ddl
«Pene fino a tre anni di carcere»
Vietate anche l’apologia e la minimizzazione della Shoah, dei genocidi, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra
Gattegna (Ucei): «Pagina importante»

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Repubblica 12.2.15
Ok del Senato alla legge sul negazionismo
È reato solo se c’è istigazione alla violenza


ROMA Se la prima versione del disegno di legge sul negazionismo era stata considerata dagli studiosi inaccettabile, questa seconda — approvata ieri dal Senato — è giudicata inutile. Il ddl è passato con il massimo dei consensi (234 sì, 3 no e 8 astenuti), con il plauso della comunità ebraica e la soddisfazione dei senatori storici che si erano adoperati in questi mesi per depotenziarlo (ora dovrà essere esaminato dalla Camera). Nella prima versione era reato negare «la Shoah, i crimini di guerra e quelli contro l’umanità». In questa seconda versione, per essere perseguiti penalmente non basta negare: occorre anche istigare alla violenza. Reato già previsto dalle leggi esistenti. «La novità è che ora non viene più minacciata la libertà intellettuale», dice Miguel Gotor che ha lavorato alla correzione della legge. Il testo approvato prevede che incitare pubblicamente a commettere un delitto sarà tanto più grave «se l’istigazione si fonderà sulla negazione della Shoah, dei crimini di guerra o di quelli contro l’umanità». Non un reato ma un aggravante, insomma. Tra tanti consensi — il presidente Grasso, il presidente delle comunità ebraiche Renzo Gattegna, il presidente della comunità romana Riccardo Pacifici — spicca la voce contraria della senatrice a vita Elena Cattaneo, che si è astenuta: «Tesi ignobili, ma vietarle per legge mi sembra sbagliato».

il Fatto 12.2.15
Nella casa chiusa del Nazareno Marino è in trappola
di Tommaso Rodano


RISCOSSA DEGLI ANTI-SINDACO RIDOTTI AL SILENZIO DOPO “MAFIA CAPITALE”. BOCCIATA LA ZONA-PROSTITUTE E DERISO IGNAZIO: “È STATO ISTINTIVO, ORA POLITICHE SERIE”

Per Ignazio Marino, è il caso di dirlo, il Nazareno è una casa chiusa. Sbarrata. Ieri il Pd romano si è riunito nella sede di Sant’Andrea delle Fratte: c’era mezzo partito cittadino, ma non il sindaco. Ordine del giorno: smontare definitivamente l’idea del quartiere a luci rosse (o meglio, le “zone di tolleranza” della prostituzione nelle strade dell’Eur). L’iniziativa era stata lanciata dal mini-sindaco del IX Municipio, Andrea Santoro. Doveva partire ad aprile. Marino l’aveva sposata con entusiasmo: “È ora, finalmente, di dare una risposta alla città su questo argomento”. Ecco le risposte, arrivate in rapida sequenza: la furia della Chiesa, il siluro del prefetto Pecoraro (per il quale lo zoning è “favoreggiamento alla prostituzione”) e – neanche a dirlo – le proteste del suo stesso partito. Pochi giorni dopo, il sindaco ha chinato il mento. La partita è stata chiusa martedì sera: il diktat è arrivato dal commissario Matteo Orfini, prima di una riunione della giunta capitolina. Ieri, poi, la riunione del Nazareno ha affossato le sue velleità: le zone di tolleranza nonsono tollerate. Marino, come detto, non era nemmeno presente. C’era Orfini, con i presidenti dei municipi, diversi consiglieri comunali e alcuni parlamentari romani. Una su tutti: la super-renziana Lorenza Bonaccorsi, presidente del Pd Lazio, una delle critiche più feroci del salto in avanti di Marino sulla prostituzione. La sua espressione, all’uscita, era tutta un programma: “Si riparte dalle politiche sociali, l’ipotesi delle strade a luci rosse è tramontata. Si faranno politiche serie. In maniera seria” (quelle del primo cittadino, per deduzione, dovevano essere barzellette). Il capogruppo del Pd in Campidoglio, Fabrizio Panecaldo, ha usato parole diverse, con un’intonazione simile: “Per l’idea di Santoro e Marino mancano coperture normative e politiche. Ignazio ha voluto dare una risposta immediata, forse è stato un po’ istintivo. ”
È IL RITORNO del sindaco “alieno” e la rivincita del partito che lo ha combattuto a lungo. La stessa Bonaccorsi era stata una delle più rapide a picconare Marino, quando i sondaggi sul suo gradimento lo descrivevano come uno dei più impopolari d’Italia: “Qui a Roma l’effetto traino di Renzi sui risultati del Pd non si è avvertito – disse –. Urge rinnovamento”. C’era Tor Sapienza e le multe alla Panda rossa, non erano in pochi a pronunciare ad alta voce ragionamenti di questo tipo. Poi è arrivata l’inchiesta su Mafia Capitale e si è portata via un bel pezzo del Pd romano, commissariato da Renzi col presidente nazionale Orfini, appunto. Marino è stato riscoperto, improvvisamente, come baluardo di trasparenza e legalità. Ieri le lancette sono tornate indietro: il sindaco “guascone” ha provato ad appoggiare una proposta forte, su un tema delicato. Il partito l’ha preso per le orecchie e l’ha riportato alla realtà. Niente luci rosse: “La prostituzione è un fenomeno che non va governato, ma contrastato”, ha scritto Orfini – che ha evitato i giornalisti – in un comunicato. Ma non si dica che il Pd non fa nulla per aiutare le schiave del sesso, ecco il “progetto Roxanne”. L’iniziativa non è originale: fu approvata nel 1999 dalla seconda giunta Rutelli. Alemanno aveva cancellato i fondi per finanziarla. Da ieri la copertura è tornata: 2 milioni di euro. Cos’è Roxanne? Ha provato a spiegarlo l’assessore alle politiche sociali, Francesca Danese: “Un piano che prevede appartamenti protetti, sinergia e coordinamento con le forze di polizia, assistenza alle donne sfruttate anche dal punto di vista sanitario”. Intanto uno dei 12 disegni di legge in materia che languono in Parlamento, è stato calendarizzato al Senato, in commissione giustizia. Porta la firma di Maria Spilabotte (Pd). Propone la regolamentazione della prostituzione volontaria, con tanto di partita Iva, ricevuta fiscale e controlli sanitari. Era nel dimenticatoio dal dicembre 2013. Ieri ha scoperto una nuova giovinezza e il mini-sindaco Santoro nasconde così un po’ di delusione: “Abbiamo fatto più in quattro giorni che in quindici anni”.

Corriere 12.2.15
"La legge Merlin va cambiata"
Il sindaco di Roma ai presidenti di Senato e Camera:
«In merito alla prostituzione, subito nuove norme, dobbiamo agire insieme»
di Ignazio Marino

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il Fatto 12.2.15
Rcs, conti in disordine: balla la poltrona di Jovane
di Cam. Con.


C'È TEMPO fino al 29 marzo per presentare le liste dei candidati al nuovo consiglio di amministrazione di Rcs. Ma le grandi manovre sono partite e nel mirino sarebbe finita anche la poltrona di amministratore delegato oggi occupata da Pietro Scott Jovane, sponsorizzato dagli Agnelli. Secondo quanto riferiscono fonti finanziarie al Fatto Quotidiano, qualcuno starebbe già sondando alcuni candidati disponibili a prendere il suo posto. Tra questi, Gaetano Micicché – direttore generale di Intesa Sanpaolo nonché ad di Banca Imi – che però avrebbe respinto le avances sostenendo che il suo lavoro è fare il banchiere e non il manager di un gruppo editoriale. Di certo, la “macchia” sulla gestione Jovane è il debito che a fine 2012 era di 845,8 milioni e a fine 2014 scenderà soltanto a 496 milioni. Il tema delle nomine non sarà comunque all’ordine del giorno del cda di oggi che farà il punto delle ulteriori dismissioni (Finelco, Digicast e area Libri), sui conti 2014 e sugli obiettivi 2015 in vista dell'assemblea dei soci convocata per il 23 aprile. Ma è chiaro che è su questi punti che Jovane si giocherà la riconferma.

La Stampa 12.2.15
Cogne, la Cassazione: da rivedere il sì ai domiciliari per la Franzoni
Accolto il ricorso della procura di Bologna. La donna è detenuta dal 2008 per l’omicidio del figlio Samuele

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La Stampa 12.2.15
L’ineguaglianza che aggrava la crisi greca
di Stefano Lepri


Non si può più continuare a gestire l’area euro così. Baruffe tra governi come quelle sulla Grecia all’Eurogruppo di ieri accendono passioni nemiche tra nazionalità; un tipo di passioni che resta a lungo dentro le teste. In un ipotetico Parlamento comune dotato di poteri, la questione sarebbe assai più facile da risolvere.

Le istituzioni odierne affrontano male le interdipendenze economiche che l’euro ha creato. Il governo greco rivendica di avere ricevuto dagli elettori il mandato di farla finita con l’austerità. Gli altri governi ribattono che delle promesse elettorali greche non possono pagare le spese i cittadini degli altri Paesi.
C’è legittimità democratica in ambedue le posizioni. Purtroppo, non essendo chiaro il confine tra la sovranità nazionale e l’interesse collettivo, i toni virano sull’assurdo.
Prima di entrare nella sala delle riunioni, da un lato si sosteneva che 10 milioni di greci possono decidere per i 320 milioni dell’area euro, dall’altro che i greci non hanno diritto a decidere nemmeno per sé stessi.
Meno male che una conciliazione può tentarla Jean-Claude Juncker, primo presidente della Commissione europea ad essersi presentato agli elettori. Ma lo intralciano le solidarietà politiche transnazionali frattanto create: Angela Merkel tiene duro per non danneggiare i primi ministri spagnolo e portoghese, anche loro del Ppe, alle non lontane verifiche nel voto.
Dentro organismi collettivi dell’area euro democraticamente legittimati, ai quali cedere sovranità, sarebbe assai meno difficile decidere – perché di questo si tratta – a quali condizioni concedere alla Grecia un aiuto aggiuntivo di forse il 10% rispetto ai prestiti già forniti, e di quanti altri anni dilazionare la restituzione che dovrebbe cominciare nel 2023.
Dietro i contrasti fra nazioni inoltre si camuffano ideologie che sarebbe opportuno confrontare alla luce del sole. Dentro Sýriza, il partito di Alexis Tsipras, si tende a vedere l’austerità come un perfido complotto mondiale dei ricchi per impoverire ancor più i poveri, di cui la Grecia sarebbe stata la cavia. In Germania si continuano a predicare dottrine di efficacia ormai dubbia.
Può darsi che in Spagna e in Portogallo la cura dell’austerità stia funzionando almeno in parte; il responso spetterà agli elettori, nella seconda metà dell’anno in entrambi i Paesi. Al momento, i sondaggi lo anticipano sfavorevole; e le dosi rispettive erano meno della metà di quella imposta alla Grecia.
I sostenitori dell’austerità avevano promesso successi a breve termine, che non si sono manifestati. In una seconda fase, sono passati ad argomentare che il fattore chiave era la «svalutazione interna», ossia un calo forte del costo del lavoro, oppure che occorreva tagliare le spese più che aumentare le tasse, punti sui quali Atene non è inadempiente.
Sono invece mancate in Grecia riforme a cui nell’originaria ricetta si attribuiva scarso peso, ovvero quelle per rendere più efficiente, più equo, meno corrotto lo Stato. I governi precedenti non le hanno realizzate nemmeno sotto la pressione della penuria. E’ dubbio che altra penuria riuscirebbe a convincere Tsipras e compagni, pronti a rifiutare gli introiti delle privatizzazioni per pura ideologia.
La sorte di un piccolo Paese (meno di un ottavo dell’Italia) racchiude tanto potenziale distruttivo a causa della fragilità di insieme dell’unione monetaria. Anche trovando un accordo continuerà a incombere sul benessere di tutti, con scia di rancori, la durezza di una regola ineguale, il Patto di stabilità: forse troppo severo con gli Stati spendaccioni, certo troppo tenero con gli Stati tirchi.

La Stampa 12.2.15
Tsipras telefona a Pechino e torna a giocare la carta russa
L’appuntamento chiave lunedì. Voci su un incontro con Putin
di Tonia Mastrobuoni


Sono due i fatti di cronaca che potrebbero inquinare i negoziati tra la Grecia e i partner dell’eurozona, ma soprattutto con la Germania e la Bce. Ieri il premier Alexis Tsipras, riporta una fonte governativa, ha avuto un colloquio telefonico con il premier cinese Li Keqiang. Nelle stesse ore, il ministro filorusso degli Esteri Nikos Kotsias si è fatto fotografare accanto al suo sorridente omologo Sergey Lavrov a Mosca. Soprattutto, Lavrov ha detto di «apprezzare» la cautela di Atene sulle sanzioni contro Mosca, e i russi sembra che abbiano nuovamente offerto la loro disponibilità ad aiutare finanziariamente la Grecia. Gira voce, inoltre, che lo stesso Tsipras potrebbe volare presto nella capitale russa per incontrare Vladimir Putin.
Dopo un tour europeo deludente, che è servito a Tsipras e al ministro delle Finanze Yanis Varoufakis per appurare che nelle altre capitali la disponibilità a rinegoziare i piani della trojka è ancora limitato, Atene ha scelto di continuare a giocare su due tavoli. Mantiene ostentatamente un canale aperto con i russi e i cinesi per segnalare ai partner europei di avere un piano B. Sa che il tempo gioca a favore dei tedeschi - più si allungano i negoziati, più la Grecia rischia lo scenario peggiore - e tentano di conquistare spazi di manovra garantendosi un’alternativa. Ma secondo fonti tedesche, che rievocano il «caso Cipro» è un gioco «pericolosissimo». E la stessa fonte greca assicura che «il nostro rapporto con la Russia e la Cina è totalmente indipendente dai negoziati in corso sugli aspetti economici. Il futuro della Grecia è nell’Unione europea».
Il fatto è che il gioco di sponda con i cinesi, ma soprattutto con Mosca, provoca immediate chiusure negli interlocutori tedeschi, che si considerano comunque meno «falchi» di finlandesi e olandesi. Una fonte vicina a Schaeuble ricorda che fu Helsinki a stoppare un allungamento del piano e degli aiuti della trojka fino a giugno e a imporre il termine di fine febbraio - ad aprile si vota, in Finlandia. Arrivando all’Eurogruppo, il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble ha detto ieri che la riunione «è l’inizio di un processo, dipende da cosa ci diranno, un programma c’è ed è già stato esteso». Poi ha aggiunto che «ognuno è libero di fare quello che vuole, ma un programma esiste e o viene portato a compimento o non abbiamo più un programma». Tra le righe, il messaggio è che il vertice dei ministri delle Finanze di ieri sera serve a una prima analisi del programma dei greci, una seconda ricognizione avverrà oggi al vertice dei capi di Stato e di governo, ma l’appuntamento chiave potrebbe essere invece l’Eurogruppo di lunedì.
I tedeschi non sono del tutto indisponibili a un compromesso con Atene, sia su un negoziato che riguardi una modifica delle condizioni sul debito ellenico, sia sugli aspetti economici come un aumento del salario minimo. Non sono neanche contrari all’idea che la Grecia blocchi le privatizzazioni concordate con la trojka - cosa che ha stabilito peraltro, unilateralmente, al suo primo consiglio dei ministri, due settimane fa. Per Berlino l’importante è che i conti restino in ordine ma anche che Atene presenti un piano dettagliato delle riforme e delle misure su cui intende impegnarsi. Riassume una fonte italiana: «Il problema è che io ho visto una decina di piani greci in dieci giorni»: un’iperbole che rende l’idea della confusione che regna ancora nelle cancellerie sui programmi dei greci.
Ma se Atene dovesse tirare troppo la corda, una fonte tedesca ricorda il caso Cipro: giocò di sponda con i russi, due anni fa, finché la Bce non minacciò di tagliare i fondi di emergenza «Ela» alla banca centrale. Una mossa che li avrebbe buttati fuori dall’euro. Anche oggi la Bce garantisce ormai l’unica boccata d’ossigeno ad Atene attraverso l’Ela. Una decisione, tuttavia, che il consiglio direttivo deve rinnovare ad ogni riunione. La prossima è mercoledì.

il Sole 12.2.15
Atene «spariglia» con Cina e Russia
di Vittorio Da Rold


Nel giorno in cui la Grecia era sotto esame a Bruxelles, il capo della diplomazia ellenica Nikos Kotzias volava a Mosca, dal possibile alleato russo che prometteva aiuti finanziari alternativi e il premier cinese, Li Keqiang, invitava Alexis Tsipras a Pechino per «approfondire la cooperazione economica tra i due Paesi».
Due mosse che hanno il sapore della provocazione diplomatica, anche perché l’avvicinamento tra Grecia e Russia è fortemente temuto, per i dirompenti riflessi geopolitici nell’area, sia dagli Stati Uniti che dall’Unione europea.
Il ministro degli Esteri greco, Kotzias, ha incontrato ieri a Mosca l’omologo Serghej Lavrov, una vecchia volpe della diplomazia russa e prima sovietica, da cui era stato invitato. Nonostante Tsipras abbia negato che la Grecia voglia accettare aiuti finanziari offerti dal presidente russo Vladimir Putin (e anche dalla Cina, sebbene quest’ultima abbia smentito l’esistenza di accordi in tal senso), la visita di Kotzias sembra fatta apposta per alimentare le voci di un aiuto extra Eurozona per Atene, così come avvenne per la crisi di Cipro.
Dal canto suo Lavrov ha dichiarato che la Russia «prenderà in considerazione» la possibilità di concedere «aiuti finanziari alla Grecia se tale richiesta arriverà» da Atene. A questo gesto di comprensione ed amicizia, il ministro Kotzias ha risposto che «la Grecia non sostiene l’idea di esercitare pressioni sulla Russia attraverso le sanzioni per la crisi ucraina». «C’è bisogno - ha aggiunto - di altri strumenti, altre soluzioni adeguate».
In materia di sanzioni Atene sa bene che ci vuole l’unanimità e quindi il premier greco ha un diritto di veto, peraltro già fatto balenare sul tavolo dei negoziati il giorno dopo l’elezione del nuovo esecutivo greco, quando il 26 gennaio Tsipras si recò a salutare l’ambasciatore russo ad Atene (per informarlo del segnale forte inviato a Bruxelles sul possibile veto greco alle sanzioni sull’Ucraina) e poi al rappresentante diplomatico cinese (per tranquillizzarlo delle incaute parole del neo-ministro delle Infrastrutture che aveva annunciato il congelamento della privatizzazione del 67% del Porto del Pireo, destinata alla Cosco cinese).
Non è un mistero che Pechino ha due mega-terminal portuali in Grecia e con la privatizzazione vuole rendere il Porto del Pireo la porta principale delle merci cinesi verso i Balcani e l’Europa orientale. In progetto c’è anche il rafforzamento delle rete ferroviaria che dal Pireo dovrebbe collegarsi verso il Nord Europa .
Il premier Tsipras sembra aver scelto di aprire due “forni” diplomatici: uno verso l’Ue e l’alleato americano, l’altro verso Est, a Mosca e a Pechino, le due capitali dell’ex Internazionale comunista, a cui l’ala radicale di Syriza guarda ancora con nostalgica deferenza ideologica.
Anzi. La dirigenza di Syriza ad Atene oggi punta a diventare la sede di un nuova Internazionale dei «popoli oppressi dalle politiche di austerità» del Mediterraneo.
Vero è che la Russia è il principale fornitore di gas della Grecia e il gigante russo dell’energia, Gazprom, era stato a un passo, dall’aggiudicarsi la privatizzazione della rete di gasdotti ellenici. Una cessione che aveva allarmato le cancellerie occidentali con conseguente veto di Washington e Bruxelles che avevano voluto dissipare tentazioni di far tornare a calare delle “ombre russe” sull’Egeo.
Pechino, invece, ha puntato su Atene, investendo nelle infrastrutture portuali del Paese per renderlo un alleato strategico nel Mediterraneo all’interno della sua espansione commerciale globale.

Corriere 12.5.15
In Piazza Syntagma contro Berlino e guardando a Mosca


ATENE « Silenzio, le campane suoneranno, questa è la nostra terra e nessuno ce la toglierà». Dall’altoparlante la voce di Mikis Theodorakis canta i versi del grande poeta Yannis Ritsos. Si stringono i greci nella sera gelida, in piazza Syntagma. Narrano la battaglia di Bruxelles, sostengono a distanza i loro campioni. Si scaldano con l’ouzo nell’ultima neve di una giornata campale, davanti al Parlamento di Atene ma anche a Tessalonica, Patrasso, Lamia, «un soffio di dignità» che arriva a Cipro. «Venceremos» dice in spagnolo uno striscione che unisce la Grecia alla Spagna all’Europa. La lotta all’austerità, la promessa di riscatto di Alexis Tsipras è il collante della nuova coesione che dà forza al governo nei negoziati. Pure, i versi partigiani di Ritsos, le parole d’ordine della resistenza, il rinnovato sentimento antitedesco: nel clima di questi giorni tutto porta il segno di vecchie contrapposizioni. Lo stesso esecutivo mescola nella propria identità populismo di sinistra e nazionalismo. Il recente richiamo di Yanis Varoufakis alla minaccia dell’estrema destra non era solo un tentativo di far leva sulla paura. La tregua sociale è fragile. I giochi interni hanno già superato l’unità dello stato d’emergenza. Prima del voto di fiducia, l’ex premier Antonis Samaras ha criticato la rotta di collisione del nuovo esecutivo. E c’è chi osserva da lontano. Il ministro degli Esteri Nikos Kotzias ieri era a Mosca, i fratelli russi tendono la mano. Da Pechino arrivano i primi inviti. Nell’accordo che Tsipras cerca in Europa si gioca la possibilità dei greci di credere ancora nella politica. «Non ci sottometteremo» ha detto prima di partire. La piazza innalza e abbatte.

il Fatto 12.2.15
Quelli che tifano Tsipras: anche il sindacato tedesco contro Angela
di Salvatore Cannavò


Alexis Tsipras sembra accerchiato da tutti i governi europei e quindi dai loro paesi. Però la solidarietà e la vicinanza che ha raccolto da quando ha preso la guida della Grecia non è trascurabile. Soprattutto se proviene dalla Germania.
L’appello La Grecia una chance per l’Europa, non una minaccia reca come prima firma quella di Reiner Hoffmann, presidente della Confederazione sindacale tedesca, la Dgb: “Il terremoto politico avvenuto in Grecia – si legge – è un’opportunità non solo per questo Paese afflitto dalla crisi, ma anche per ripensare e rivedere in modo sostanziale la politica economica e sociale dell’Unione europea”.
Il testo è siglato anche dalle sigle sindacali di categoria, molto importanti anch’esse negli equilibri politico-sociali della Germania: il sindacato dei Servizi, Ver. di, il più grande d’Europa, quello delle Costruzioni, Agricoltura e Ambiente, Ig. Bau, il sindacato dei Trasporti, Evg, dell’Alimentazione, Ngg, dell’Educazione, Gew e quello della metallurgia, IgMetall.
“I miliardi che sono confluiti verso la Grecia sono stati utilizzati soprattutto per la stabilizzazione del settore finanziario”, scrivono i sindacati tedeschi ricordando che “il Paese è stato spinto da una brutale politica di austerità verso la più profonda recessione”.
“NESSUNO DEI PROBLEMI strutturali del Paese è stato risolto, continua il documento che propone di “negoziare seriamente e senza ricatti con il nuovo governo greco per aprire nuove prospettive economiche e sociali per il Paese che vadano oltre la fallimentare politica di austerità”. Anche perché “la sconfitta alle urne dei responsabili delle politiche adottate finora in Grecia è una decisione democratica che va rispettata a livello europeo”.
Dunque, “bisogna dare una chance al nuovo governo e la continuazione del cosiddetto percorso di ‘riforme’ adottato finora, significa negare di fatto al popolo greco il diritto ad attuare nel proprio Paese un cambiamento di rotta della politica che è stato democraticamente legittimato”.
Una presa di posizione molto rilevante se si considera il ruolo e il peso del sindacato nella società tedesca. Con oltre 6 milioni di iscritti la Dgb svolge ancora un ruolo importante negli equilibri della Spd, la socialdemocrazia che è in calo da tempo ma che governa il paese nella coalizione con Angela Merkel.
Il sindacato, inoltre, gode della Mitbestimmung, il modello di cogestione che consente alle organizzazioni dei lavoratori di sedere nei Consigli di sorveglianza delle grandi aziende e di avere, quindi, una forte superficie di contatto con il mondo imprenditoriale.
Reiner Hoffmann ha preso parola subito dopo le proposte avanzate dal ministro dell’Economia greco Yanis Varoufakis, giudicando positivamente l’intenzione di non chiedere più il semplice annullamento del debito ma di optare per un’opzione più ragionevole come il legame tra il tasso di interesse e la crescita economica del paese. Ma il presidente della Dgb apre anche all’ipotesi di una Conferenza europea sul debito in modo “da ristabilirne la sostenibilità e conseguentemente stabilizzare la zona euro”.
La Dgb non si è mossa in solitudine perché sulla strada del sostegno alla Grecia si è incamminata anche la Confederazione europea dei sindacati (Ces). La sua presidente, Bernadette Segol, si è pronunciata in questo senso la scorsa settimana: “È vitale per la democrazia in Europa che sia rispettata la volontà chiaramente espressa dal popolo greco di mettere fine all’austerità”. In questo contesto si comprende meglio anche la decisione dell’italiana Cgil di schierarsi apertamente dalla parte di Tsipras e di fare propria la manifestazione che si svolgerà sabato prossimo a Roma in solidarietà
con la Grecia.
LA LISTA DEGLI AMICI di Syriza quindi si allunga anche se si distingue per la sua eterogeneità. Ieri, ad esempio, Beppe Grillo ha proposto alla stessa Syriza e alla spagnola Podemos di farsi promotori di una mozione al Parlamento europeo per una Conferenza internazionale sul debito. Ipotizzando anche l’adesione di forze di destra come la Lega Nord e il Front national di Marine Le Pen. La quale, alla vigilia delle elezioni greche, si era pronunciata a favore di Tsipras. Ma la Grecia può contare anche sui buoni auspici di Barack Obama che dal giorno della vittoria della sinistra greca sta spingendo l’Europa per offrire un compromesso accettabile. E poi c’è la Russia. Lo scambio di cortesie è stato molto visibile ieri, proprio durante la riunione dell’Eurogruppo. Il ministro degli Esteri russo ha aperto alla possibilità di “aiuti finanziari” diretti mentre la Grecia si è opposta alle sanzioni contro Mosca sulla vicenda ucraina.

Corriere 12.2.15
Stefano Fassina:
«Tassarci per la Grecia? No, ma si deve investire»
intervista di Andrea Garibaldi


ROMA Stefano Fassina, sinistra pd, ha chiesto al premier Renzi di chiarire la sua posizione sulla Grecia in Parlamento. «Ma Renzi non verrà», dice.
Ha chiesto anche che si discuta di Grecia in direzione Pd.
«La direzione si terrà lunedì, anche su questo tema».
Cosa direte, da sinistra del partito?
«Che i greci hanno votato Tsipras e quindi hanno giudicato il programma della troika (Bce, Fmi, Ue) insostenibile. Chiudere la porta in faccia a Tsipras vuol dire che la democrazia è diventata impossibile».
E poi?
«Che gli squilibri struttuali della Grecia c’erano prima dell’euro, ma la cura della troika ha aggravato la malattia. Ora tutti rischiamo il naufragio: dopo 7 anni di “medicine” l’eurozona ha 7 milioni di disoccupati in più».
Renzi ha approvato la chiusura della Banca centrale europea sui titoli garantiti dalla Grecia.
«Chiediamo una conferenza sul debito. E che l’Italia si distingua dalla “ricetta unica” secondo cui si crea crescita tramite esportazioni e svalutazione del lavoro».
Voterete in direzione Pd?
«In base alle posizioni che Renzi esprimerà, decideremo se presentare un ordine del giorno».
C’è la possibilità di una spaccatura grave nel partito?
«Penso che sulla necessità di un cambio di rotta nell’eurozona si possa ritrovare larga parte del Pd».
Si arriverà a una Syriza italiana?
«Non è questo il progetto, ci battiamo per spostare il Pd dall’Agenda Monti».
Lei ha detto che il Jobs act è il contrario del programma di Syriza.
«Syriza ha ripristinato la normativa dei contratti collettivi, l’opposto della delega sul lavoro».
Potreste proporre una nuova tassa per aiutare la Grecia?
«No, ma una nuova tassa rischia di arrivare se si continua sulla linea della troika. Il debito greco è aumentato di 60 punti dall’inizio di quel programma (2010). La strada invece è sostenere investimenti e domanda aggregata».
Sabato lei sarà a Roma alla manifestazione «Cambiamo l’Europa» con Cgil, Fiom, Sel.
«Sabato e domenica ci saranno manifestazioni in tutta Europa».
Il suo collega di partito Magorno ha chiesto se lei appartenga al Parlamento italiano o a quello greco.
«Il collega forse non ha piena consapevolezza che la Grecia vive in forma acuta errori politici ed economici che riguardano tutti. Il Pd dovrebbe preoccuparsi degli interessi dell’Italia».
Ppe e Pse hanno una linea simile?
«La vittoria di Syriza e la possibile vittoria di Podemos in Spagna stanno dando la sveglia al Pse, che è stato prigioniero di varie “terze vie” e subalterno a un impianto neoliberista».

La Stampa 12.2.15
Nella testa di Putin
Le radici ideali e gli autori di riferimento dietro il nuovo volto imperiale del leader russo Da uno studioso francese, un libro che fa discutere
di Cesare Martinetti


C’era una volta un Putin che citava Kant e il suo Trattato per la pace perpetua; c’è ora un Putin che si annette la Crimea e combatte nel Donbass per affermare l’«unità spirituale con gli ucraini».
Quel liberale che, pur combattendo una feroce guerra in Cecenia (sulla quale l’Occidente, Stati Uniti compresi, non ha mai detto una parola), si voleva modernizzatore del magmatico caos postosvietico, si è ora incarnato nella «guida» panslavista che celebra la Santa Russia e attizza il vecchio sentimento antiamericano, di nuovo vivo nell’80% dell’opinione pubblica.
Giusto un anno fa i più alti funzionari dell’amministrazione presidenziale hanno ricevuto in omaggio i libri di tre filosofi: Ivan Ilin, Nikolaj Berdiaiev e Vladimir Soloviev. Più che un messaggio, un ordine: leggere e imparare. C’è da sorridere a immaginare la caricatura che ne avrebbe fatto una scrittore come Gogol: questi ormai ricchi e grassi funzionari, abituati alla vita feroce ma luccicante della nuova Mosca, costretti a curvarsi come studentelli su libri di filosofia per un ukaze dello zar.
Il filosofo antisovietico
Ma a leggere cosa c’è in quei libri si capiscono molte cose del «nuovo» Putin, e non c’è niente da ridere.
Ivan Ilin, per esempio, diventato il filosofo di riferimento che Putin cita in quasi tutti i discorsi più importanti. È stato uno specialista di Hegel, antisovietico e anticomunista, espulso dalla Russia da Lenin nel 1922, esponente della tradizione di pensiero religioso influenzato dall’idealismo tedesco. Riparato in Germania, saluta l’arrivo al potere dei nazisti nel 1933 con queste parole: «Il patriottismo, la fede nell’identità del popolo tedesco, la forza del genio germanico, il sentimento dell’onore, il fatto di essere pronti al sacrificio di sé, la disciplina, la giustizia sociale... basta vedere la fede nei loro volti per chiedersi: c’è un popolo che rifiuterebbe di creare per sé un movimento di questa dimensione e di questo spirito?».
Da Syriza a Salvini
Cosa c’è dunque nel cervello di Vladimir Vladimirovic Putin per andare a recuperare un filosofo morto nel 1954 e tutto sommato marginale nella stessa storia della filosofia russa in esilio? Michel Eltchaninoff, redattore capo di Philosophie Magazine, ha pubblicato in questi giorni una meticolosa ricognizione dentro i discorsi e i contesti del capo del Cremlino. Il suo libro, didascalicamente intitolato Dans la tête de Vladimir Poutine (ed. Actes Sud) sta facendo discutere in Francia per i riferimenti all’attualità ucraina e le letture che fornisce delle ultime mosse di Putin sulla politica europea, in particolare il finanziamento di Marine Le Pen, il ponte aperto con Syriza e Podemos, l’apertura fatta alla Lega di Matteo Salvini. Da notare che anche Nicolas Sarkozy ha portato domenica scorsa il suo sostegno al putinismo definendo legittima l’annessione della Crimea.
Il giornale online francese Mediapart ha scovato e pubblicato il video di un incontro che si sarebbe detto inimmaginabile fino a non molto tempo fa. Philippe De Villiers, il politico monarchico-vandeano-ultrareazionario, a colloquio con Putin al quale si rivolge come al salvatore della cristianità: «Presidente, i popoli d’Europa confidano in lei...». Ora si capisce meglio perché due anni fa una delle manifestazioni francesi contro il matrimonio gay fece tappa davanti all’ambasciata russa di Parigi invocando la solidarietà del Cremlino contro la Francia «americanizzata». Commenta Eltchaninoff: «Putin conta sull’arrivo al potere dei partiti populisti o d’estrema destra per diventare il leader dell’Europa».
L’idea base del judo
Ma chi sono gli intellettuali del presidente? Si sapeva che la sua azione politica, sempre ispirata a un crudo pragmatismo, si fondava sull’idea base del judo: far forza sui punti deboli dell’avversario. Nessuno ha mai pensato che conoscesse i testi di Ilin o Berdjaiev. Secondo Eltchaninoff i pilastri della testa di Putin erano i seguenti: il patriottismo, nel senso della patria da difendere dallo straniero; il militarismo, la società sovietica era una società militarizzata (Svetlana Aleksievic, nel suo straordinario memoir Tempo di seconda mano edito da Bompiani, parla di «militarizzazione nella carne e negli spiriti»); il Kgb, non inteso come l’agente della repressione, ma la punta di lancia della patria sovietica. Infine un’alleanza solida con la Chiesa ortodossa.
Putin è un «sovietico di base», dice Eltchaninoff, non comunista ma rispettoso dei valori cardinali della società sovietica. È un conservatore con un’idea del mondo che afferma una «Via russa» e che coltiva il tradizionale sogno imperiale ispirato dai pensatori euroasiatici. Ivan Ilin gliel’ha «presentato» Nikita Mikhalkov, il regista di Oci Ciornie e del Sole ingannatore, diventato da un po’ di anni il leader di una Russia bianca nostalgica e imperiale.
Una «Guida» per il Paese
Dal 2005 le citazioni di Ilin sono un crescendo inarrestabile nei discorsi di Putin. «Alla caduta del comunismo - profetizzava Ilin - si dovrà costruire una nuova idea russa, religiosa e spirituale...». Bisognerà essere sempre pronti a una potenziale aggressione dall’esterno. Ilin sognava una «dittatura democratica» e/o una «dittatura nazionale» confidando nell’arrivo di una «Guida», capace di dirigere il paese e non di venderlo agli stranieri. Ecco il modello putiniano della «verticale del potere», la «democrazia sovrana» che dovrà lottare contro le potenze occidentali e la loro «ipocrita promozione di valori come la libertà» e in difesa dei «piccoli fratelli». Per esempio? Gli ucraini.

Corriere 12.2.15
Premio Israele per la letteratura: il premier contro l’anima pacifista
Netanyahu rimuove i giurati favorevoli a Grossman
di Davide Frattini


GERUSALEMME Chi teme? I giudici o il loro giudizio? Come investigatori che mettono insieme un indizio dopo l’altro, i commentatori sui giornali stanno cercando di ricostruire il movente di una decisione presa da Benjamin Netanyahu che altrimenti non sanno spiegare.
Il premier israeliano è anche ministro ad interim dell’Educazione, un ruolo che gli permette di scegliere i critici da inserire nella giuria del Premio Israele per la letteratura, il più importante del Paese. Ha deciso di rimuovere due professori universitari, Avner Holtzman e Ariel Hirschfeld, perché «troppo spesso — scrive sulla sua pagina Facebook — sembra che membri estremisti concedano la vittoria ai loro amici. La composizione deve essere bilanciata, riflettere le varie correnti della società israeliana».
I consiglieri del primo ministro ricordano che Hirschfeld ha pubblicato un commento in favore dell’obiezione di coscienza: «È inaccettabile in un Paese dove il servizio militare è fondamentale». Di Holtzman — assicura chi lo conosce — non si conoscono le idee politiche, se le è sempre tenute per sé, preferendo dedicarsi agli studi all’università ebraica di Gerusalemme.
Il premio è stato vinto tra gli altri da Aharon Appelfeld, Avraham B. Yehoshua, Amos Oz, Natan Zach. Nomi quasi scontati: «Se non loro, chi altro?», scrive l’editorialista Yaron London sul quotidiano «Yedioth Ahronoth». Già, chi altro? Manca — fa notare London — David Grossman. La paura di Netanyahu e della destra (amplificata dalla campagna elettorale, si vota tra un mese) sarebbe stata proprio la predilezione di Holtzman e Hirschfeld per il romanziere amato dagli israeliani e conosciuto in tutto il mondo.
Uno scrittore che non ha mai nascosto le sue posizioni di sinistra, che già si è rifiutato di stringere la mano a un primo ministro (Ehud Olmert), che ogni anno accetta di parlare in piazza Rabin (e ogni parola è una critica ai governi), che ancora crede in un accordo di pace e ancora rimpiange di non aver gridato prima il suo no all’offensiva — all’inizio l’ha sostenuta—– contro l’Hebzollah libanese, dopo il rapimento nove anni fa di due soldati israeliani.
Il figlio Uri, carrista, è stato ucciso il 12 agosto del 2006, nelle ultime ore di battaglia. L’orazione funebre pronunciata da Grossman davanti alle spoglie del giovane è il manifesto di quella Israele — avversaria politica di Netanyahu — che spera sia possibile cambiare con il dialogo il destino di guerra: «La nazione ora si farà un esame di coscienza, noi ci chiuderemo nel nostro dolore, attorniati dai nostri buoni amici, circondati dall’amore immenso di tanta gente, che per la maggior parte non conosciamo. Vorrei che sapessimo dare gli uni agli altri questo amore e questa solidarietà anche in altri momenti. È forse questa la nostra risorsa più particolare. Vorrei che potessimo essere più sensibili gli uni nei confronti degli altri. Che potessimo salvare noi stessi ora, proprio all’ultimo momento, perché ci attendono tempi durissimi».

Repubblica 12.2.15
Bufera su Netanyahu “Vuole escludere Grossman dall’Israel Prize”
Il premier: “Troppo spesso radicali, anti-sionisti e pacifisti scelgono soltanto i loro amici” I giurati si dimettono: “Il premio non è politico”
di Fabio Scuto

GERUSALEMME L’ISRAEL Prize per la Letteratura con ogni probabilità quest’anno non potrà essere assegnato dopo che l’intera giuria si è dimessa per protesta contro i tentativi del primo ministro Benjamin Netanyahu di influenzare la scelta. Un intervento quello del premier, mirato nel tentativo — raccontano i retroscena — di impedire che il prestigioso premio letterario venisse assegnato quest’anno allo scrittore David Grossman, uno dei più noti e ascoltati critici della politica del leader del Likud. È stato Netanyahu nella sua qualità di ministro dell’Istruzione ad interim ad aprire lo scontro con il mondo letterario israeliano rimuovendo dalla giuria due stimati professori di Letteratura — Avner Holtzman e Ariel Hirschel — uno dei quali indicato come un uomo di sinistra e sostenitore dell’obiezione di coscienza di quanti si rifiutano di servire nell’esercito nei Territori palestinesi occupati. In gesto di protesta anche gli altri quattro giudici hanno rassegnato le dimissioni, denunciando il diktat di Netanyahu che non ha precedenti nella storia dell’Israel Prize. «L’intervento del premier rappresenta la politicizzazione del più importante riconoscimento di Israele, che dovrebbe essere concesso esclusivamente su considerazioni professionali e artistiche», hanno scritto gli ex giurati nella loro lettera di dimissioni.
Ieri Netanyahu, incurante della polemica, sul suo account facebook ha rincarato la dose. «Troppo spesso sembra che membri estremisti della giuria concedano premi ai loro amici e poi ci sono troppi anti-sionisti, radicali, pacifisti e pochi rappresentanti delle altre componenti della nazione», ha malignato il premier, ben deciso secondo il gossip a evitare in ogni modo che il premio quest’anno fosse attribuito a David Grossman; l’unico (nonché il più giovane) dei tre grandi rappresentanti della letteratura israeliana di fama mondiale (Amos Oz lo ebbe nel 1998 e A. B. Yehoshua nel 1995) a non aver ricevuto questo premio.
L’intervento a gamba tesa del premier ha provocato una pioggia di ritiri fra i candidati anche in altre discipline dell’Israel Prize. Yigal Schwartz, professore di all’Università del Negev e candidato per le “Ricerche letterarie” non solo ha annunciato il suo ritiro in segno di protesta contro il premier ma ha invitato i colleghi di tutte le altre discipline a fare altrettanto. «È uno scandalo senza precedenti », denuncia Schwartz, «Netanyahu vuole minare l’élite di Israele per guadagnare voti, è un sabotaggio a cui è impossibile non opporsi. Anche questa istituzione, l’Israel Prize che era rimasta incontaminata, è stata sabotata». L’ingerenza dell’ufficio del premier non si è limitata solo all’ambito letterario: anche per le selezioni del Cinema, dopo che Netanyahu aveva posto il veto sul cineasta Haim Sharir, altri giurati, come il produttore Ram Loevy, si sono ritirati. Nel corso delle ultime settimane i componenti dello staff del ministero dell’Istruzione — che abitualmente si occupano della selezione delle giurie — avevano cercato di dissuadere gli assistenti del premier dall’intervenire sulla composizione delle liste ma l’ufficio di Netanyahu ha ignorato il consiglio. Un alto funzionario del ministero racconta a Repubblica che già due settimane fa, i collaboratori di Netanyahu si lamentavano del fatto «che la lista dei giurati non andava bene» perché comprendeva «nomi inaccettabili per noi». Lo staff del ministero aveva avvertito che manipolare la composizione delle giurie avrebbe danneggiato il prestigio del premio, ma anche questo monito è stato inascoltato. Adesso sarà davvero difficile trovare accademici prestigiosi e esponenti del mondo della cultura che accetteranno di far parte della “lista di Bibi”.
Negli anni il prestigioso riconoscimento letterario è stato attribuito anche a Amos Oz e Yehoshua

Corriere 12.2.15
Stupri in Darfur (ma l’Onu ora smobilita)
di Alessandra Muglia


Khamisa, Rufeeda, Nadia, Mahassan, Asal, Jamey, Najma… ventenni o poco più che hanno visto l’inferno. Ripetutamente violentate dai soldati nelle proprie case, e anche fuori, insieme ad oltre 200 donne del villaggio. A Tabit, 7mila abitanti nello stato sudanese del Darfur.
Sono passati più di tre mesi da quell’atroce stupro di gruppo, ma soltanto ora c’è un rapporto che lo documenta, preparato Human Rights Watch con fatica e coraggio. Perché Khartoum nega lo scempio e ha intralciato in ogni modo le indagini, anche quella della missione congiunta Onu-Unione africana (Unamid), che non ha potuto trovare riscontri, non autorizzata a recarsi sul campo se non scortata da agenti. Almeno 220 donne e ragazze stuprate in un villaggio da militari nell’arco di 36 terribili ore rappresenta una tragedia inedita nelle sue dimensioni persino in una regione dilaniata da oltre 10 anni di guerra civile, teatro di massacri di ogni genere che hanno indotto la Corte penale internazionale a incriminare nel 2009 il presidente Omar Bashir per genocidio e crimini contro l’umanità commessi nel Darfur.
Le voci su questo orrore riportano l’attenzione su un conflitto dimenticato che ha portato 2 milioni e mezzo di persone a vivere nei campi profughi. Hrw parla di nuovo «crimine contro l’umanità» e chiede che Unamid faccia di più per proteggere i civili. Ma nonostante la recrudescenza dei combattimenti nell’ultimo anno (che ha registrato il picco di trasferimenti forzati del decennio) i segnali che arrivano dalla comunità internazionale vanno nella direzione opposta: la corte dell’Aja ha sospeso l’inchiesta su Bashir, sotto pressione del governo Unamid ha chiuso il suo ufficio di Karthoum; e l’Onu ritirerà gran parte delle sue truppe in Darfur, cambiando la natura del suo mandato: non più di peacekeeping ma soltanto di assistenza umanitaria nei campi profughi.
Con Bashir favorito alle prossime elezioni di aprile, il Darfur sembra condannato a diventare sempre più una prigione a cielo aperto.

Repubblica 12.2.15
Cina. Il paese di Mao si converte, Pechino teme l’onda cristiana
Entro quindici anni sarà la nazione con il maggior numero di cattolici e protestanti al mondo: 250 milioni
di Giampaolo Visetti


PECHINO ENTRO quindici anni la Cina potrebbe diventare la nazione con il maggior numero di cristiani al mondo, superando Stati Uniti, Brasile e Messico. Il Paese simbolo dell’ateismo di Stato, uscito solo alla fine degli anni Ottanta dalle persecuzioni anti-religiose di Mao Zedong, teme che la rinascita della fede in un dio possa attenuare la fedeltà in un partito, minando la stabilità dell’autoritarismo di Stato.
Nel mirino del presidente Xi Jinping finisce in particolare il cristianesimo, religione che secondo Pechino ispira più in generale i valori dell’Occidente, a partire da quelli democratici. La censura comunista impedisce di avere dati certi sulla crescita di protestanti e cattolici, che se non si riconoscono nelle associazioni cinesi, governate dal partito, restano perseguitati e costretti alla clandestinità. Il sociologo Yang Fenggang, autore di numerosi studi sulla storia delle religioni in Cina, calcola però che entro il 2030 i cristiani cinesi potrebbero sfiorare i 250 milioni, rispetto ai 61 del 1949, anno della vittoria della rivoluzione comunista. In sei decenni, nonostante l’ostilità politica, anche i cattolici sono ufficialmente triplicati, passando da 3 a 9 milioni, il doppio rispetto alla crescita demografica nazionale. Mentre Pechino torna a dichiarare guerra alle “credenze straniere”, la Chiesa sommersa rivela che i cattolici cinesi potrebbero in realtà già sfiorare i 20 milioni e che i protestanti entro il 2025 potrebbero toccare quota 160 milioni.
Un vero e proprio boom, considerata la crescente laicizzazione di Europa e Usa, che giustifica l’allarme che negli ultimi mesi suona nella Città Proibita. La leadership rossa ha seguito con grande attenzione la doppia visita di papa Francesco in Asia, spintosi in Corea del Sud, Sri Lanka e Filippine nel giro di sei mesi. In entrambi i viaggi, per la prima volta, il pontefice ha ottenuto il permesso di sorvolare la Cina e ha inviato la sua benedizione al popolo cinese, senza ottenere risposta da Pechino. Le diplomazie sono riservatamente al lavoro per riaprire relazioni ufficiali interrotte nel 1951, i segnali di apertura si alternano agli stop, ma la prodismo spettiva di una cristianizzazione cinese pone ostacoli nuovi a un dialogo che il Vaticano considera oggi decisivo.
A fine gennaio l’Amministrazione statale per gli affari religiosi, che per conto del partito controlla ogni aspetto dei culti riconosciuti, si è detta pronta a consacrare nuovi vescovi, senza l’autorizzazione pontificia. L’ultima ordinazione risale al 2012 e da allora i negoziati si erano orientati sulla possibilità che Pechino scegliesse i vescovi all’interno di una rosa di nomi proposta da Roma.
Lo strappo di Xi Jinping sarebbe ispirato da tre obiettivi: impedire un incontro tra papa Francesco e il Dalai Lama, già naufragato in extremis in dicembre, costringere il Vaticano ad allontanarsi politicamente da Taiwan e da Hong Kong, riconoscendo solo le autorità della Repubblica popolare cinese, e rallentare il più possibile la conversione dei cinesi al cristianesimo, per poterla controllare. L’incubo di Pechino, impegnata a rilanciare buddismo e confucianesimo quali «fedi tradizionali e patriottiche», è la saldatura tra le religioni e i valori politici dell’Occidente. Urbanizzazione, crescita della classe media, soggiorni di studio all’estero, boom dei consumi e del web, minacciano l’ideologia unica dello Stato socialista. Per milioni di giovani colletti bianchi cinesi, ormai turisti appassionati dell’Europa, abbracciare la fede cristiana è spesso una moda, un’esibizione di snobismo, o una forma di opposizione meno pericolosa al regime.
Per questo Pechino, decisa a trasformare il buddismo nel collante culturale del Paese e nell’arma per reprimere l’islam nello Xinjiang, negli ultimi mesi ha posto il diffondersi delle religioni occidentali e dei valori democratici sullo stesso piano, ordinando di «contenere siti di culto eccessivi e attività religiose troppo popolari». Xi Jinping ordina di ricostruire i monasteri buddisti distrutti dalle Guardie rosse di Mao, trasforma la città natale di Confucio nella meta obbligata di pellegrinaggi di Stato e avvalla l’abbattimento delle chiese e la demolizione delle croci. Un documento riservato del politburo osserva che «un partito con 80 milioni di iscritti può essere messo in difficoltà da una Chiesa occidentale con 250 milioni di fedeli» e che in autunno i cattolici sono stati i più attivi sostenitori della rivolta pro-democratica degli studenti a Hong Kong.
Il governo la scorsa primavera ha anche ordinato ai funzionari locali di «arginare i culti importati dall’Occidente» e di «promuovere invece le più controllabili tradizioni culturali cinesi». Le settimana scorsa il ministero dell’Istruzione ha messo al bando i testi occidentali dalle università, intimando che «l’insegnamento dei valori occidentali non deve più avere spazio negli atenei della nazione ». Il pugno che Pechino abbatte sulla “cultura straniera” è lo stesso che colpisce la “fede importata”, nemici che Xi Jinping definisce «contrabbandieri di idee e valori democratici in meno di una generazione». Le aperture si limitano dunque alle “chiese patriottiche”, soggette al partito, mentre la libertà di culto si profila sempre più condizionata all’ascesa dell’influenza globale del Paese. Una Cina “intollerante” non può guidare il mondo: ma una Cina «minata dalle religioni che hanno segnato la storia dell’Occidente» rischia di non riuscire a farlo.

Corriere 12.2.15
Il paradosso del familismo che porta ad avere meno figli
di Antonio Carioti


Apparentemente è un controsenso, ma i dati parlano chiaro: un solido attaccamento ai vincoli famigliari nuoce al tasso di natalità. Lo sottolineano Francesco C. Billari e Gianpiero Dalla Zuanna in un articolo sul nuovo numero del «Mulino»: nel nostro Paese, come in Spagna, in Giappone e in Corea del Sud, «nascono pochi figli perché c’è troppa famiglia, non perché ce n’è troppo poca». Il fatto è che, quando i genitori si sentono fortemente responsabili per il futuro dei loro bambini, ci pensano molto di più prima di metterli al mondo e spesso finiscono per rinunciare. Soprattutto nelle situazioni, tipo quella italiana, in cui non vi sono efficaci politiche pubbliche di sostegno a chi deve allevare figli.
Succede così che Stati come la Norvegia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti registrano un tasso di natalità significativamente più alto del nostro, con tutti i conseguenti vantaggi che ne derivano per la crescita economica e la tenuta del sistema di protezione sociale. E tuttavia, proseguono Billari e Dalla Zuanna, non bisogna disperare. In Italia gli adulti continuano a desiderare più figli di quanti riescano ad averne e «le misure economiche possono incidere sulle scelte delle coppie». Qualche passo utile di recente è stato compiuto, sostengono gli autori, anche se la crisi economica ha colpito duramente le famiglie con tre o più figli e ha avuto un effetto fortemente depressivo sulla natalità: altre misure «per una società a misura di bambino» potrebbero consentire di far coincidere l’auspicata ripresa economica con un aumento della fecondità.
Il guaio è che una nuova stagione di sviluppo non pare affatto alle porte, almeno a giudicare da quanto scrive, sempre sulla rivista diretta da Michele Salvati, l’economista Salvatore Biasco. Il suo articolo è un forte monito per tutti coloro che auspicano l’uscita dall’euro o il ripudio del debito pubblico italiano. La conseguenza sarebbe che «un giorno ci sveglieremmo con le banche chiuse, i conti correnti congelati, i movimenti di capitale e i viaggi all’estero proibiti». Non solo il nostro Paese dovrebbe affrontare una situazione terribile, con il crollo della produzione e una massiccia disoccupazione, ma ne scaturirebbe «un contagio bancario» internazionale di grandi proporzioni. Insomma, meglio lasciar perdere.
Tuttavia, aggiunge Biasco, proseguire sulla via dell’austerità comporta «un soffocamento continuo del Paese» con «un declino prolungato negli anni». Sarebbe uno scenario certamente «meno doloroso» e preferibile a quello traumatico della rottura con l’eurozona, ma lascerebbe pochi «fili di speranza», in prevalenza «esogeni», cioè legati alla ripresa economica mondiale e a una svolta incisiva nelle politiche dell’Unione.
Per alcuni versi l’emergenza economica si presenta quindi più grave di quella demografica. Entrambe comunque, reclamano l’azione di una guida governativa salda, il che apre il capitolo del giudizio da dare sulla leadership attuale: un tema su cui al «Mulino» il dibattito è aperto.
Su questo fascicolo c’è chi esprime un’opinione sfavorevole sulla condotta di Matteo Renzi, come Pablo Escobar e Agazio Loiero, e chi nel complesso mostra invece di apprezzarlo, come Nicolò Addario e Luciano M. Fasano. Più sfumato, ma in sostanza abbastanza critico, appare Mario Ricciardi, che paragona l’attuale capo del governo italiano all’ex premier laburista britannico Tony Blair. Ma anche la riforma del lavoro fa discutere: si veda, sempre sulla rivista bolognese, il confronto in presa diretta tra Paolo Pini e Marco Leonardi.

Corriere 12.2.15
L’amor folle tra Modigliani e Achmatova
di Sebastiano Grasso


Nel 1906 Amedeo Modigliani arriva a Parigi dalla natìa Livorno. Ha 22 anni e vuole fare lo scultore («ténere colonne per un tempio della bellezza»). Montmartre, alberghetti; Bateau-Lavoir e La Ruche; Montparnasse, il primo mecenate (il medico Paul Aleixandre); l’amicizia con Soutine (che «adotta») e con Brancusi (che gli presta studio e attrezzi per scolpire); le lesioni polmonari che lo porteranno – con alcol e droghe – alla tubercolosi; la declamazione — per strada e nelle bettole — di Dante, Leopardi, Baudelaire e D’Annunzio (dal quale, guardando al superuomo di Nietzsche, trae insegnamento per il proprio «eccesso nell’opera e nella vita»). Esuberante, irrita Picasso. Indossa abiti lisi, ma che, dicono «porta come un principe». Le donne lo idolatrano: non si contano le relazioni. Ha avuto un figlio (mai ammesso) da una studentessa canadese, Simone Thiroux («Il mio pensiero più tenero è per voi in occasione di questo nuovo anno che io vorrei fosse quello della nostra riconciliazione. Giuro sulla testa di mio figlio, che per me è tutto, che non ho in mente niente di cattivo. Vi ho amato troppo»), ma frequenta la poetessa inglese Beatrice Hastings di cui è gelosissimo. Giocando all’«amore folle», i due litigano dappertutto: «Scenate, seguite da incontri di pugilato», ricorda qualcuno. Le leggenda comincia.
Nella primavera del 1910 una coppia di russi — poeti entrambi — fa il viaggio di nozze a Parigi. Si chiamano Nikolaj Gumilëv e Anna Achmatova ed hanno, rispettivamente, 24 e 21 anni. La donna è nipote di una principessa tatara, discendente diretta di Gengis Khan. Non particolarmente bella, ma interessantissima. «Alta, slanciata e flessuosa», la descrive un’amica. Fascino misterioso e gran classe. Forse è lo scultore bielorusso Ossip Zadkine a presentarli al Café La Rotonde. «Un vero uomo è poligamo, mentre una vera donna è monogama», afferma Nikolaj. Anna non è d’accordo. E, poi, la sua natura è troppo libera per adattarsi a sciocchi detti. «Erano inadatti ad una vita in comune», dirà un conoscente della coppia.
Modigliani e «il signore e la signora Gumilëv» si frequentano.
Che cosa avviene?
È Boris Nossik a ricostruire la vicenda in 178 pagine ( Anna e Amedeo , Odoya, € 14). Occhiate intensissime fra i due e qualche stretta di mano furtiva, seguite da «lettere folli» di Modigliani per tutto l’inverno («Lei è come un’ossessione») che accompagna con ritratti a matita, quando i coniugi rientrano in Russia. Cui la donna risponde con versi («Oh come ritrovarsi, rapide settimane / del suo amore, etereo e fugace»).
La passione fisica esplode l’anno dopo. Anna ritorna da sola nella capitale francese ed affitta una casa in rue Bonaparte, dove Modigliani riempie di schizzi il suo taccuino blu. Settimane, giorni, ore vengono ricostruiti da Nossik nei minimi particolari. Soprattutto attraverso documenti e testimonianze.
Romanzo, racconto lungo? No. Piuttosto, una sceneggiatura. Manca solo il sottofondo musicale per accentuare il pathos dei momenti culminanti. «Mi diverte quando sei ubriaco / e nelle tue storie non c’è più senso. / Un autunno precoce ha sparpagliato / gialli stendardi sugli olmi», scrive l’Achmatova. Vanno in giro a visitare gli studi degli amici pittori; infilano le viuzze di Montmartre e Montparnasse; passeggiano per i giardini del Lussemburgo e in rue Tournon, dietro il Panthéon, per vedere la casa di Giacomo Casanova.
Ma arriva il momento dell’addio. Il Canto dell’ultimo incontro verrà scritto a Carskoe Selo: «Gettai uno sguardo alla casa buia. / Solo in stanza da letto le candele / ardevano di un lume indifferente e giallo». La leggenda continua.

La Stampa 12.2.15
Viaggio al termine di Londra
Defoe reporter del Male
Gli articoli dell’autore di Robinson Crusoe sul sottobosco criminale nella capitale inglese d’inizio 700. Dove i cattivi si mascheravano da buoni
di Mario Baudino


Nel prologo alla sua «Storia universale dell’infamia», Jorge Luis Borges evoca come ispiratori i nomi di Stevenson e di Chesterton, ma si guarda bene dal citare l’idea dell’assassinio come opera d’arte di Thomas De Quincey. Paradossale e metafisica, è troppo vicina alla sua idea del «delittuoso» che può innalzarsi «fino alla redenzione e alla storia». Allo stesso modo non cita il precursore di tutti questi scrittori, e cioè Daniel Defoe, che nella Londra del primo Settecento indagò, affascinato e orrificato, l’infamia universale e particolare, insomma i criminali e le loro gesta.
Pubblicava resoconti accuratissimi sull’Applebee’s Journal, la sua rivista e soprattutto li rielaborava in pamphlet di enorme successo. L’autore di Robinson Crusoe (e di Moll Flanders, una storia assai criminale) riuscì a precorrere di qualche secolo un «new journalism» che ricorda A sangue freddo di Truman Capote, con l’immersione totale nell’ambiente indagato, i rapporti stretti, persino amichevoli, con i suoi protagonisti. Uno dei più famosi, soprattutto per le sue rocambolesche evasioni, lasciava fuggendo dal carcere lettere di ossequio a lui rivolte. E prima di salire sul patibolo, gli consegnò davanti a centinaia di persone assiepate per assistere al supplizio, il proprio memoriale.
I più importami di quegli scritti vengono ora tradotti - in parte per la prima volta - dall’editore Clichy. I peggiori criminali del nostro tempo (a cura di Fabrizio Bigatti) narra le vite disperate di John Sheppard, il re delle evasioni, l’ascesa irresistibile e l’improvvisa caduta di un certo Jonathan Wild, insieme ricettatore e cacciatore di banditi, e le avventure di sei «famigerati ladri di strada», punte di diamante di un banda che terrorizzò Londra per molti anni.
Non c’è perfezione né tantomeno opera d’arte nella gesta di costoro, culminate immancabilmente con la forca. Defoe, puritano e uomo rigoroso che pure aveva subito egli stesso la carcerazione per debiti, e persino la gogna, racconta il crimine come fatto sociale e non come avventura. Ha qualche forma di simpatia per Sheppard, l’uomo che riesce a liberarsi di qualsiasi catena e far saltare le sbarre o le serrature di qualsiasi prigione, ma certo non lo considera un Robin Hood. Non discute le punizioni feroci (deportazione o impiccagione, e non solo per reati di sangue) e neppure la tortura: ce ne racconta un episodio con neutrale distacco. Non è Cesare Beccaria; gli è chiaro però che il sistema repressivo non riesce a risolvere il problema di una criminalità crescente e dal volto per molti aspetti nuovo, moderno; che la prigione è solo una scuola di crimine, e che il destino di chi si mette su questa strada è segnato fin dall’inizio.
Non è più questione di banditi vecchio stile. Furti e rapine sono ormai un problema gravissimo, la città è terrorizzata, le carrozze vengono assalite per strada, le case svaligiate e soprattutto i nuovi criminali hanno cominciato a uccidere. Non Sheppard, che è ancora una sorta di ladro «galantuomo», rocambolesco e forse meno minaccioso di quanto possano pensare i lettori dell’epoca. Ma gli altri sì. Wild, per esempio, emerge come figura di un male inafferrabile: non ruba direttamente, di persona, ma domina col ricatto e con la minaccia di consegnarli alla polizia su quasi tutti i ladri della città: e dato che è ancora difficile guadagnare bene rivendendo la refurtiva, si incarica lui di farla restituire dietro congruo pagamento ai derubati, intascando una percentuale.
Nella Londra del primo Settecento c’è già un capomafia: gentile, elegante, autorevole. La gente si rivolge a lui per riavere i propri beni (lo fece anche Defoe, una volta, senza successo però), i furfanti lo temono perché se qualcuno non sta alle sue regole viene denunciato e fatto catturare dall’esigua forza di polizia. Wild è nello stesso tempo il capo di tutti i ladri, e il più importante cacciatore. Una delle sue vittime, in attesa del processo, «beve un bicchierino con lui» (le norme di sicurezza erano quel che erano), si divincola dalle guardie e tenta, senza successo, di tagliargli la gola. Ma lo ferisce gravemente, mettendolo fuori combattimento per un bel po’. Wild è considerato un benefattore, ha un potere immenso. Per fermarlo ci vorrà una legge «ad personam», che vieta questo genere di riscatti, comminando a chi li compie una pena eguale a quella del ladro o del rapinatore. Finirà sul patibolo - e dove, se no? - tra due ali di folla inferocita che lo prende a sassate.
Era dura, caotica e violenta la Londra di Defoe. E si rubava di tutto, non solo oro e denaro, ma pezze di stoffa, merci d’ogni genere, persino parrucche. Uno dei personaggi qui descritti si era specializzato nel tagliare il cuoio sul retro delle carrozze, e strappare con un rapido gesto la parrucca al passeggero. Altri, eccellevano in un furto con destrezza ancora più particolare: sfilare ai soliti gentiluomini, quando appiedati, l’immancabile spada, e nei casi più fortunati anche il fodero. Va da sé che il derubato non s’accorgeva di nulla, se non quando il borseggiatore aveva già fatto perdere le tracce.

Repubblica 12.2.15
Carlo Rovelli, in vetta alla classifica dei libri
“Che sorpresa la mia fisica è un bestseller”
intervista di Marco Cattaneo


“Raccontare ciò che cerchiamo non quello che già sappiamo”
“Suscitare curiosità nei lettori è stata la mia sfida vincente”

AI VERTICI delle classifiche dei libri più venduti ci sono Umberto Eco, un premio Nobel come Dario Fo e un bestseller annunciato come Sottomissione di Michel Houellebecq. Ma sul podio c’è anche, in forte ascesa — come confermato sia dai dati della grande distribuzione che dalla società di rilevazione Eurisko — Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli, fisico teorico italiano e professore all’Università di Aix-Marsiglia. Alla fine di gennaio, al Festival della scienza di Roma, la fila per avere un suo autografo era chilometrica, ma nessuno avrebbe scommesso che il suo libro sugli enigmi della fisica scalasse fino a questo punto le classifiche di un paese di cui si lamenta di continuo la scarsa alfabetizzazione scientifica.
«Forse è proprio perché in Italia sappiamo poco di scienza, che viene più voglia di leggere un libro che parla della scienza», ipotizza Rovelli.
A che pubblico voleva arrivare?
«Non pensavo certo di scrivere un bestseller. Pensavo avrei avuto i miei venticinque lettori. Sono stato incerto se scriverlo pensando a un lettore già appassionato di fisica, un liceale o un giovane universitario, oppure a un lettore curioso, ma con tutt’altro per la testa. Ho scelto il secondo tipo, perché il primo lo sa già che la fisica è bella e fa sognare, non c’era bisogno che stessi a raccontaglielo io».
Pensa che l’interesse che ruota intorno ai Festival della scienza, di cui è spesso protagonista, possa essere anche uno degli ingredienti del successo in libreria?
«Penso che le due cose abbiano la stessa causa: la curiosità per una scienza piena di fascino. Penso, forse spero, che la gente sia un po’ stufa di sentir parlare male della scienza».
Già, c’è anche il lato oscuro. A fronte del grande interesse per la scienza c’è una buona quota di società che non si fida. Dagli ogm in agricoltura ai vaccini.
«La diffidenza nella scienza, ancora molto radicata in Italia, è farsi male da soli. C’è chi sta peggio di noi: in queste settimane in Africa medici che cercano di prendersi cura dei malati di Ebola sono aggrediti dalla popolazione che, appunto, “non si fida”. Non siamo esseri ragionevoli. Per secoli in Europa per curare i malati si facevano i salassi, fiduciosi nella tradizione: e tuttora in Europa moltissimi si curano con cure altrettanto inefficaci. La scienza ha limiti, fa errori, non risolve tutti i problemi. Ma resta lo strumento più affilato che abbiamo per capire come succedono le cose, dove sbagliamo e come non sbagliare ulteriormente ».
Ma parliamo di Sette brevi lezioni. Perché suscita un interesse tanto vasto?
«Di quanto il mondo reale sia diverso dall’immagine quotidiana che ne abbiamo dal nostro cantuccio: lo spazio e il tempo che si incurvano, il fluttuare quantistico della materia, l’immensità del cosmo, la sua evoluzione, la trama con cui sono intessuti tempo e spazio... Ma soprattutto la bellezza e lo stupore che suscita quel mondo al di là di questo cantuccio. Che è strano, all’inizio poso co familiare, ma a suo modo semplice, incantevole. E poi c’è un capitolo finale, la settima lezione, in cui parlo di noi: cosa siamo noi esseri umani, in questo caleidoscopio che è il mondo fisico».
Cosa trovo nel suo libro che non c’è in altri sullo stesso tema?
«Penso che persone diverse ne hanno apprezzato aspetti diversi. Se in Italia tante persone lo hanno comprato e letto, è perché qualcosa di quello che volevo comunicare è stato trasmesso. È questo che in questo momento mi fa felice, e un po’, se posso permettermi, mi commuove. È un libro che ho scritto con amore, cercando di metterci molto di quello che sono, del modo in cui percepisco e comprendo le cose, le domande che mi pongo, i tentativi di cercare risposte. Non è un libro che parla anonimo da dentro una disciplina scientifica stabilita. È un messaggio dal fronte, di uno scienziato che sta provando a capire, e prova a offrire, a chi voglia ascoltare, i suoi sforzi per comprendere».
Certo non possiamo aspettarci che l’Italia diventi all’improvviso il paradiso dei paladini della scienza. Che cosa ci serve per fare un pas- avanti nella società della conoscenza?
«Ben altro che un piccolo libro che parla di scienza. La cultura italiana non è povera: è ricca, intensa, e in movimento. È carente dal lato del pensiero critico, della razionalità, della scienza. I valori fondanti dell’Illuminismo fanno fatica ad affermarsi in Italia perché ci sono grandi forze che si oppongono. Ma spero stiamo evolvendo nella direzione migliore».
Che cosa potrebbe suggerire il successo del suo libro a chi racconta la scienza?
«Forse di non raccontare solo quello che abbiamo capito del mondo, ma soprattutto quello che ancora non abbiamo capito, quello che stiamo cercando. E di essere chiari nel distinguere la conoscenza acquisita dai voli di fantasia per cercare di comprendere. Entrambe le cose sono affascinanti, ma alla gente non piace sentirsi dare per certe quelle che sono solo ipotesi. Raccontare l’incertezza è raccontare la verità della scienza».
E a un mondo, quello della politica, che sembra esserne completamente estraneo?
«La politica e — mi perdoni Repubblica — la stampa hanno dato ripetutamente prova della poca cultura scientifica in Italia, ad esempio nel brutto caso delle staminali. Ma non sempre: la nomina da parte di Napolitano di scienziati come senatori a vita mi sembra il marchio di un paese molto civile».
E lei personalmente come vive il successo?
«Il mio mestiere, la mia passione, non è scrivere libri, è studiare fisica. Ma prima mi sentivo più solo, anche nelle mie idee. Le reazioni di vicinanza e l’affetto che ho ricevuto mi hanno stupito e riempito di felicità».
IL SAGGIO Carlo Rovelli è l’autore di Sette brevi lezioni di fisica ( Adelphi pagg. 88 euro 10)