venerdì 13 febbraio 2015

La Stampa 13.2.15
Mai così in basso. Al livello minimo dall’Unità d’Italia: è in coda ai paesi occidentali
L'Italia precipita al 73esimo posto nell'Index sulla libertà di stampa
Tra Moldavia e Nicaragua
di Mimmo Càndito

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La Stampa 13.2.15
L’Italia si conta: mai così pochi bebè
L’Istat: è il record negativo dall’Unità d’Italia in poi. Meno figli anche tra gli stranieri
La ricerca avverte: “Il ricambio generazionale, di questo passo, non sarà sufficiente”
di Marco Sodano


Cinquemila neonati in meno - nel 2014 sono arrivati 509 mila pargoli, la cifra più bassa dall’Unità d’Italia in poi - e quattromila morti in meno, per un totale di quasi 600 mila decessi. Per un altro anno (succede dal 2007) l’Italia è in rosso dal punto di vista demografico. Il saldo tra nati e morti è negativo se si contano solo gli italiani, in leggerissimo aumento includendo gli stranieri residenti nel Paese. Dice l’Istat, che ha raccolto i dati di previsione sull’andamento demografico del 2014, che il tasso di natalità è «insufficiente a garantire il necessario ricambio generazionale»: non ci saranno, un domani, abbastanza italiani.
Boom di coppie senza figli
D’altra parte, un rapporto del Mulino dice che negli ultimi 10 anni le coppie che non hanno avuto figli sono aumentate del 40%: l’Italia è il paese in cui sono di più tra quelli europei. Tra le donne nate nel 1965 sono quasi una su quattro, in Francia una su dieci.
È pur vero che sull’altro piatto della bilancia l’Istat certifica un calo «significativo della mortalità». S’è allungata la speranza di vita, 80,2 anni per gli uomini e 84,9 per le donne, che si confermano più longeve anche se la distanza si assottiglia (4,7 anni). Il totale: siamo 60 milioni e 808 mila residenti, cifra che comprende 5 milioni e 73 mila stranieri. I cittadini italiani sono sempre di meno - il loro numero scende ormai da 19 anni - e sono circa 55 milioni e mezzo, 125 mila unità meno del 2013.
Meno bimbi stranieri
I dati principali confermano la tendenza degli anni scorsi, è in vece il primo anno che scendono le nascite tra le mamme straniere, la fetta di popolazione che fino a oggi ha collaborato più di tutte a tenere alto il livello demografico: nel 2014 hanno garantito il 19% delle nascite. L’insieme dei dati sui bebé arrivati nel corso dell’anno passato ci relega, come al solito, in coda all’Europa: il numero medio di figli per ogni donna è fermo a 1,39 (stesso livello del 2013), mentre la media dell’Unione europea è 1,58. La media delle donne straniere che vivono in Italia, invece, è 1,91 figli per una: hanno più fiducia nel futuro. Intanto, un paese attanagliato dalla crisi (ma anche nel quale si studia sempre più a lungo, e si resta più a lungo in casa con i genitori) sale l’età media del parto, nel 2014 a 31 anni e mezzo.
Meno figli nel Sud
L’Istat ha anche fatto i conti a livello regionale. Il record del tasso di natalità è assegnato al Trentino Alto Adige: 9,9 nuovi nati ogni mille abitanti. In Liguria si registrano invece il più alto tasso di mortalità (13,2) e uno tra i più bassi per le nascite (6,9, peggio solo la Sardegna con 7,1). Seconda regione per nuovi nati è la Campania (8,9). Il tasso di crescita risulta positivo nel Nord e nel Centro (+1,3), negativo nel Mezzogiorno (-1,1), la mamma del Sud circondata di bambini è un altro mito al tramonto. Infine, un milione e 350 mila italiani hanno cambiato residenza spostandosi nel Paese. Il Nord ha un flusso netto di migranti interni di 1 ogni mille residenti, il Centro dello 0,9. Nel Mezzogiorno è -2,1.

La Stampa 13.2.15
Nascite al minimo dai tempi dell’Unita d’Italia
Istat, sono 509mila i nuovi nati nel 2014, cinquemila in meno rispetto al 2013
Il numero medio di figli per donna è pari a 1,39, come nel 2013
L’età media del parto sale a 31,5 anni

qui

Salute Aduc 12.2.15
Italia. Fanalino di coda per uso contraccettivi

qui, segnalazione di Loredana Riccio

il Fatto 13.2.15
Pietà l’è morta
di Antonio Padellaro


Da come si comportano e da ciò che dicono, abbiamo l’impressione che Matteo Renzi, Angelino Alfano, Matteo Salvini (e molti altri ancora) non abbiano ben chiaro cosa è accaduto e cosa purtroppo ancora accadrà sui gommoni alla deriva nel Canale di Sicilia. A parte i pochissimi sopravvissuti, i più fortunati sono morti per annegamento. Un’onda più alta li ha trascinati nell’acqua gelata: ma se hanno avuto la forza di lasciarsi andare, per loro è sopraggiunta quasi subito l’asfissia. È andata peggio a chi cercava di resistere.
Aggrappato ai bordi dell’imbarcazione o rannicchiato sul fondo. L’ipotermia è un processo lungo che sale uno a uno tutti i gradini della sofferenza prima di concludersi con la liberazione finale. Sferzata dal vento gelido e senza adeguato riparo, la pelle comincia a ulcerarsi mentre il corpo è scosso dai brividi. I movimenti si fanno lenti e affannosi, il viso è sempre più pallido mentre labbra, orecchie, mani e piedi diventano blu. Chi tenta di parlare lo fa con crescente difficoltà, le dita s’irrigidiscono, la pelle si gonfia, la mente si annebbia, sopraggiunge l’affanno mentre aumenta la frequenza cardiaca. Infine, a causa della ridotta attività cellulare, il corpo richiederà più tempo per subire la morte cerebrale. I più giovani avranno il tempo di ricordare i momenti felici, i genitori, gli amori, tutto forse in quell’attimo racchiuso nel tasto del cellulare che non avranno più la forza di premere. Quanti, per non provare più quel rimpianto infinito, avranno implorato la fine? Ora, se Renzi, Alfano e Salvini fossero capaci di moltiplicare questa sofferenza per le 300 vittime di mercoledì e poi per le stragi infinite che hanno trasformato il Mediterraneo nella tomba gigantesca che sappiamo, si renderebbero conto di come le loro reazioni siano, oltreché politicamente inadeguate, “umanamente” insopportabili. Grida vendetta la fine di “Mare Nostrum” dettata da ragioni biecamente economiche come se le vite di migliaia di persone, salvate grazie al prodigarsi degli uomini della Marina Militare, avessero un prezzo (vero Alfano?). E che dire di chi ha trasformato una grande tragedia umanitaria in uno slogan da stampare sulle felpe (“Basta clandestini”) per fare il pieno dei voti nel becero qualunquismo imperante (vero Salvini?). Lascia infine basiti il tweet di Renzi: il solito cinico scaricabarile questa volta “sul caos in Libia”, un modo per lavarsene le mani indegno di un capo di governo. Di sceneggiate ne abbiamo viste abbastanza. Silvio Berlusconi che, nel 1997, a Brindisi piange sulla strage del barcone speronato dalla corvetta “Sibilla”, salvo poi – ritornato al governo – varare leggi ancora più disumane. Ed Enrico Letta che oggi s’indigna, ma che nell’ottobre 2013, a Lampedusa, s’inginocchiò davanti a centinaia di bare scusandosi per le “inadempienze” insieme all’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e all’immancabile Alfano. Verrebbe da chiedere cosa abbiano realmente cambiato quelle lacrime. Possibile che questa classe politica, eternamente inadempiente, non riesca a elaborare concetti che vadano oltre i 140 caratteri? Possibile che sulle lapidi di quei ragazzi morti di freddo non siano capaci di scrivere una parola di pietà, ma solo gli scarabocchi delle loro piccole, squallide beghe?

il Fatto 13.2.15
Lampedusa, torna la morte
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, apprezzerei molto se il primo gesto del nuovo presidente della Repubblica fosse la medaglia d’oro al valore civile all’isola di Lampedusa e a tutti i suoi abitanti che continuano a ricevere morti da quando è finita (costava troppo!) l’operazione Mare Nostrum. E apprezzerei ancora di più se il suo primo messaggio alle Camere fosse sugli immigrati. Sono abbandonati in mare a morire di freddo, o annegati, oppure senza il soccorso di un Paese che si ostina a occuparsi di problemi che non esistono, come abolire il Senato. Mentre la guerra in Ucraina e le decine di guerre in Africa e in Medio Oriente non sono più notizie di “varia” nei telegiornali, sono tragedia quotidiana.
Vincenzo

CIÒ CHE È ACCADUTO nel Mediterraneo in questi giorni, in queste ore, è una serie di fatti che indigna e spaventa per la cupa mancanza di comprensione di ciò che sta accadendo. Incomprensione italiana, e anche opaca indifferenza europea, un insieme di Paesi che si chiamano Unione ma scuotono solo se gli parli di banche e si eccitano ogni volta che ri-diventa probabile il fallimento della Grecia. Come per le vittime dell’Olocausto, che sono state portate via nel silenzio di tutti, non risulta che vi sia stato un solo tentativo di spiegare al Parlamento italiano perché, in questi giorni, e dopo l’esperienza di tanti tragici naufragi, decine di persone siano state lasciate morire di fame e di freddo davanti alle coste italiane. E centinaia sono scomparsi in mare senza che nessuno denunciasse la strage. “La loro morte”, spiega il disperato medico di Lampedusa davanti ai corpi assiderati, “è dovuta al ritardo dei soccorsi. Tutti potevano essere salvati”. Mi domando se la Procura competente non dovrebbe aprire un’inchiesta per omissione di soccorso. Mi domando perché non abbiamo notizie di urgenti interrogazioni parlamentari e di prese di posizione dei due presidenti delle Camere. Mi domando perché abbiamo visto questo titolo, citazione esatta della fonte governativa: “La linea dura del Viminale: interventi solo in casi gravi, e nuovo via libera a Triton. Timori di un boom di sbarchi” (Corriere della Sera, 10 febbraio). È stato il ministro dell’Interno a dare questo annuncio, con burocratica indifferenza, in un silenzio di morte. Intanto i telegiornali non avevano ancora smesso di trasmettere la testimonianza angosciata del sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, e le immagini dei corpi raggiunti con tale ritardo e trasportati con tale mancanza di protezione, che sono morti nel tragitto della salvezza o tra le braccia di chi li prendeva, a terra. Soltanto il Comitato Diritti Umani del Senato, presieduto da Luigi Manconi, si è preoccupato di convocare il prefetto Morcone che dovrebbe coordinare arrivi, salvataggi e smistamenti. Poi si è scoperta la morte di centinaia in mare aperto. Ma il rapporto con l’Europa e l’ottuso disinteresse di chiunque sia a capo di Frontex (l’agenzia europea responsabile dei salvataggi) potrebbe cambiare in qualcosa di vero la inutile e colpevole finzione dell’operazione Triton, in cui tutti gli europei si sono uniti per stare fermi e lasciar morire. Non dovrebbe l’Italia avere il coraggio di dire il suo ‘basta’ al finto aiuto che protegge le coste ma lascia morire le persone? Non dovrebbe riattivare subito Mare Nostrum e mettere il costo (obbligatorio perché è salvataggio di vite umane) sul conto dell’Europa? Potrebbe essere una buona occasione per dimostrare che noi italiani siamo affidabili nel dare ma anche nell’avere. Non ditemi che Renzi non ha il coraggio, con la sua giovane baldanza e la sua sfida ai sindacati sul Primo Maggio, di proporre con fermezza il problema “prima di tutto le vite umane” ai colleghi europei.

La Stampa 13.2.15
I 29 ragazzi uccisi dal gelo sul gommone della salvezza
Recuperati vivi, sono morti uno dopo l’altro nel viaggio di 20 ore verso l’Italia
Erano all’aperto e zuppi d’acqua. I soccorritori: “Sembrava che dormissero”
di Laura Anello

Per loro, abituati a esaminare corpi mutilati, bruciati, gonfi d’acqua, il compito questa volta è stato perfino più straziante. «Intatti, senza un graffio, sembrava che dormissero. Ventinove ragazzi uccisi dal freddo». Loro sono gli uomini del Gabinetto regionale della polizia scientifica, appena rientrati a Palermo dopo avere esaminato i cadaveri dei migranti assiderati nel viaggio di ritorno sul gommone della Guardia costiera di Lampedusa che era andato a prenderli nel mare in tempesta. A oltre 120 miglia dall’isola e a un tiro di schioppo dalla costa libica.
Il mare in tempesta
Tirati a bordo vivi, felici della morte scampata in mare, pronti a fare a pugni per salire prima degli altri sulla motovedetta della salvezza. Una barca di 27 metri, dove al coperto possono stare non più di dieci uomini, diventata la loro tomba. Temperatura di 3 gradi, mare forza 8, vento a 60 nodi, il mare che entrava dentro a ogni onda, nessun riparo se non la temporanea ospitalità a turno nel vano della tolda di comando, la coperta isotermica come un orpello inutile.
«Solo tre di loro indossavano giubbotti - raccontano gli uomini della Scientifica - gli altri avevano addosso tutto il guardaroba che possedevano, come fanno sempre i migranti che non possono portare bagagli. Biancheria, magliette, golf, pantaloni, uno strato sopra l’altro. Ai piedi al massimo ciabatte. Tutto inzuppato d’acqua, abbiamo dovuto faticare per togliere i vestiti ed esaminare i corpi alla ricerca di qualche elemento utile per l’identificazione: una cicatrice, un segno particolare...».
Le tasche piene di biglietti
Ma i 29 morti di freddo - tranne un ivoriano di 31 anni che aveva con sé la carta d’identità ed è riuscito a salvare almeno il nome - avevano addosso ben poco di particolare. Una sfilata di corpi intatti, qualcuno con una mazzetta di euro nascosta nelle mutande, qualcun altro con un biglietto con i numeri di telefono da chiamare all’arrivo.
I soccorritori si sono resi conto solo all’arrivo che erano morti, credevano che dormissero. Soccorritori che hanno messo in gioco la loro stessa vita e hanno fatto rotta verso Lampedusa, con condizioni del mare proibitive, nonostante la Libia fosse a poche miglia. Avrebbero potuto chiedere al Comando generale l’autorizzazione a riparare nel porto più vicino e restare alla fonda, come vuole la legge del mare. In un paio di ore di navigazione si sarebbero messi tutti in salvo. E invece sono tornati indietro, affrontando un viaggio di oltre 20 ore contro le sei dell’andata. E con un motore mezzo in avaria.
La tragica scoperta
Sono in tanti, sommessamente, con il rispetto dovuto a gente che ha rischiato di morire, a dire che è stato un errore, mentre altri sostengono che non ci fosse altra scelta: la Libia è un Paese nel caos, senza più interlocutori affidabili. Salvatore Caputo, 66 anni, infermiere volontario del Cisom, il corpo di soccorso dell’Ordine di Malta, era a bordo di quella motovedetta.
«Siamo partiti verso le tre del pomeriggio di domenica - racconta - dopo avere ricevuto l’allerta dalla centrale operativa e siamo arrivati nei pressi del primo gommone verso le otto e mezza di sera, con il vento che soffiava a 75 chilometri orari e i naufraghi che si accalcavano e si calpestavano per salire a bordo per primi. Dopo qualche ora, verso le 4-5 di mattina, il primo di loro non ha retto al freddo e agli sforzi del viaggio ed è morto». Via via, è toccato agli altri 28, nelle ore interminabili del viaggio verso le coste italiane. «Solo una volta, arrivati a poche miglia dal porto di Lampedusa - aggiunge Caputo - è stato possibile iniziare la conta dei cadaveri. Siamo approdati lunedì pomeriggio, ho avuto una crisi di pianto. Sono crollato, come molti vicino a me».
Le bare senza nome
Le bare sono arrivate ieri a Porto Empedocle, accolte dal prefetto di Agrigento Nicola Diomede. Saranno tumulate nei cimiteri del comprensorio che hanno risposto all’appello della solidarietà. Dentro le bare i ragazzi sono nudi, i loro vestiti laceri e duri come il cartone messi in una busta al loro fianco: difficile perfino rivestirli dopo l’esame dei cadaveri. Gli uomini della Scientifica hanno scattato fotografie, hanno preso le impronte digitali, estratto il Dna, tolto e schedato i pochi oggetti che avevano con sé. Reperti che saranno portati nel laboratorio dell’antico palazzo in via San Lorenzo, periferia di Palermo, che ospita il Gabinetto regionale della polizia. Accanto a quelli dei 366 morti del 3 ottobre 2013, nel mare dell’Isola dei Conigli. Ancora in gran parte fantasmi, senza nome né storia.

il Fatto 13.2.15
Bertone: “L’attico me l’ha dato Bergoglio...”


Lunga intervista di Tarcisio Bertone ad Andrea Purgatori per Huffingon Post: l’ex segretario di Stato vaticano ci tiene a chiarire un po’ di cose. L’attico da 700 mq in cui vive ora in realtà misura meno della metà e gli è stato “assegnato da Francesco”, che era d’accordo pure sulla “segreteria personale”. Bertone sostiene poi di aver avuto “una consultazione continua e fraterna” col Papa e di non essere affatto stato “cacciato”: “Mi ha pure confermato per due anni come membro della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli”. Autodifesa completa anche sullo Ior: “Non ero il padre padrone dell’Istituto, ma il presidente della Commissione di vigilanza, e agivo di comune accordo con i cardinali”, compreso monsignor Tauran - è la stilettata - cardinale “bergogliano” che ha preso il suo posto come Camerlengo.

il Fatto 13.2.15
Fondi 8 per mille, perquisito l’ex vescovo di Trapani


AGENTI della Guardia di Finanza hanno perquisito ieri sera a Monreale, alle porte di Palermo, l’abitazione dell’ex vescovo di Trapani Francesco Miccichè, al centro di altre indagini della Procura legate alla sparizione di fondi della Curia e rimosso dalla Santa Sede per una serie di irregolarità scoperte durante una ”visita apostolica”.
In questa inchiesta l’alto prelato è indagato per appropriazione indebita aggravata di fondi dell’8 per mille destinati alla Chiesa, una parte dei quali erano gestiti dalla diocesi trapanese. L’ex vescovo, indagato in concorso con un dipendente della curia arcivescovile, è al centro di un’altra indagine, non collegata a questa, su un ammanco di oltre un milione di euro nella fase di incorporazione della fondazione Auxilium da parte di un’altra fondazione gestita dalla Curia: per questa indagine i pm hanno chiesto due rogatorie in Vaticano per controllare due conti sospetti presso lo Ior, l’Istituto Opere di Religione. Sull’esito della perquisizione gli inquirenti mantengono il più stretto riserbo.
g.l.b.

il Fatto 13.2.15
Il costituzionalista Alessandro Pace
“Camere ricattate. La Carta a rischio”
di Silvia Truzzi


Queste riforme s’hanno da fare. A tutti i costi, nonostante il Nazareno rotto. E se il premier ha tanta fretta di concludere, sul Corriere della Sera ci pensa il professor Cassese a rassicurare gli italiani: non ci sono tirannie all’orizzonte, la democrazia non corre pericoli. Molti costituzionalisti, da tempo, hanno espresso più di un dubbio sull’esito del combinato disposto tra Italicum e riforme costituzionali. Tra loro c’è Alessandro Pace, emerito di diritto costituzionale alla Sapienza. “Sono d’accordo con Sabino Cassese che la democrazia, per il momento, non corre pericoli e che non è in atto una svolta autoritaria. Questo però non significa che, a seguito del combinato disposto dell’Italicum e della riforma costituzionale non vengano pregiudicati quei principi supremi ai quali lo stesso Cassese si richiama”.
Allude al principio di rappresentanza?
Non solo, ma a questo riguardo non posso non ricordare che nella sentenza sul Porcellum la Corte costituzionale ha chiaramente sottolineato che le ragioni della governabilità non devono prevalere su quelle della rappresentatività. Ammesso pure che tale principio non sia violato dall’Italicum - il che è discutibile date le circoscrizioni troppo vaste, i capilista bloccati, le pluricandidature ecc. -, dovrebbe sollevare più di una preoccupazione il fatto che l’Italicum conceda il premio di maggioranza ad una sola lista e che la Camera dei deputati, con i suoi 630 deputati, possa senza soverchia difficoltà ricoprire tutte o quasi tutte le cariche istituzionali.
Qualche altra perplessità?
Ne avrei molte, mi limito a tre di cui le prime due nessuno parla. Primo: nel procedimento legislativo alla Camera dei deputati viene eliminato del tutto il passaggio nelle commissioni in sede referente, tranne alcune importanti materie previste nel primo comma dell’articolo 70. Eppure è a tutti noto che nel dibattito in commissione sta il cuore del processo legislativo. Secondo: il testo della Renzi-Boschi tace del tutto a proposito dei diritti delle minoranze parlamentari, la cui previsione viene invece demandata ai regolamenti delle Camere che vengono approvati a maggioranza... Ma ciò che mi sembra soprattutto sbagliato e pericoloso, è che, alla faccia dell’articolo 1 della nostra Costituzione, i senatori non saranno eletti più dal popolo, ma dai così detti “grandi elettori” che non sono altro che i consiglieri regionali. In Francia, dove le elezioni indirette sono serie, i grandi elettori sono 150 mila, mentre in Italia sarebbero poco più di mille. Un’altra furbata, questa volta a favore delle consorterie locali! Eppure, nonostante tutto, il Senato continuerebbe a partecipare al procedimento di revisione costituzionale, a eleggere ben due giudici costituzionali e a partecipare alla funzione legislativa in non poche materie di grande importanza!
Siamo passati dalle riforme condivise con i due terzi del Parlamento alle riforme - e gentile concessione del referendum - a una riforma che alla fine sarà votata, al Senato, con voti raccogliticci.
Lei parla di voti raccogliticci, ma non pensa che tutta la legislatura sia stata, e sia, sotto “ricatto” del Premier, dal momento che la Corte costituzionale l’aveva delegittimata avendo ritenuto incostituzionale il Porcellum col quale era stata eletta? Con la conseguenza che le Camere potrebbero essere sciolte se i parlamentari non si adeguano? Il Parlamento viene convocato a tappe forzate: prima hanno contingentato i tempi, adesso stanno provando a sfiancarli con sedute notturne. Perché tanta fretta?
Perché Renzi sa bene che, per le ragioni appena dette, i parlamentari “eletti” della futura legislatura potrebbero essere meno docili di quelli “nominati” in questa.
La convince l’obiezione che la sentenza con cui la Consulta ha dichiarato il Porcellum incostituzionale, non crea problemi di legittimità al parlamento?
Sono d’accordo col mio amico Sabino che la sentenza n. 1 del 2014 “non tocca in alcun modo gli atti posti in essere” grazie al Porcellum, e che in essa è scritto “che non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali”, ma le “nuove” consultazioni elettorali - secondo la sentenza della Corte (e secondo logica) – avrebbero dovuto essere quelle conseguenti a scioglimento anticipato, e non quelle di lì a quattro anni. Ovviamente è sufficiente il buon senso, per rendersi conto che le Camere non possono essere sciolte in forza dell’intervento di un ufficiale giudiziario che ne esegua lo sfratto. Ma una cosa è riconoscere che non ci sono o non ci sono state le condizioni politico-istituzionali per lo scioglimento, altra cosa è trasformare una dichiarazione d’incostituzionalità in un semplice “memorandum” per le forze politiche...
Berlusconi, dopo il pentimento nazareno, si è detto preoccupato per una deriva autoritaria. Alcuni suoi colleghi lo vanno dicendo da tempo...
A me non piace parlare di deriva autoritaria: crea confusione con il regime di Pinochet e dei colonnelli greci. Più semplicemente dico che quella di Renzi sarebbe una svolta pericolosa perché elimina i contro-poteri, che non sono le autorità indipendenti, i magistrati o la Commissione europea. Sono i contro-poteri politici esterni come il Senato elettivo, e i contropoteri politici interni, e cioè i poteri parlamentari delle minoranze. Vi sarebbe invece il Partito della Nazione. Ebbene, più di Pinochet, ho paura che la Camera possa somigliare alla fattoria degli Animali.

Repubblica 13.2.15
Aut aut della minoranza Pd “Renzi dialoghi o sarà dissenso”
Il premier: “Non ci fermiamo”
Seduta-fiume e bagarre alla Camera. Ostruzionismo M5S
Boschi: “Noi andiamo avanti, l’obiettivo è cambiare l’Italia”
di G. C.


ROMA Nottate di filibustering, la minaccia dei 5Stelle — poi rientrata — di occupare l’aula, bagarre. A Montecitorio è caos sulla riforma costituzionale, con le opposizioni sulle barricate e sedute-fiume contestate dalla stessa minoranza del Pd. Il voto procede a singhiozzo. Durante una pausa tecnica, prima di riprendere la notturna, il governo cerca di trattare con Forza Italia e la Lega per contenere l’ostruzionismo. Ma lo scontro tra il Pd e i 5Stelle è totale e il compromesso su tre emendamenti dei grillini fallisce subito. Da Bruxelles il premier Renzi bacchetta: «Stupisce chi ha idee in minoranza e prova a fare ostruzionismo e tentativi di blocco. Ma la nostra maggioranza non si blocca, bello e positivo che lavori anche di notte».
Al clima di ostruzionismo si somma però l’aut aut della sinistra dem che chiede più «flessibilità»: «Abbiamo chiesto poche modifiche e ci è stato risposto di no. O c’è maggiore flessibilità oppure ciascuno sarà libero al momento del voto». I “niet” del ministro Maria Elena Boschi devono cadere, questa è una rigidità — accusa il bersaniano Alfredo D’Attorre — che dopo la fine del Patto del Nazareno suona «incomprensibile e comica». E Pier Luigi Bersani insiste perché sia inserita la norma transitoria che permetta un giudizio preventivo della Consulta sull’Italicum. Un emendamento su cui c’era il veto di Forza Italia, che però ora si è sottratta al Patto. «Con un po’ di buonsenso — rincara l’ex segretario — si possono approvare modifiche come questa. Se il governo si impunterà sul “no” alla richiesta di abbassare il quorum del 30% dei deputati per il ricorso, sarà solo per motivi politici, perché non c’è altra ragione». Il governo non intende sottostare a ricatti e veti. Il ministro Boschi annuncia: «Noi andiamo avanti senza farci bloccare, il nostro obiettivo è cambiare l’Italia». La lunghissima giornata parlamentare prosegue tra ostruzionismo e trattative. In mattinata a inizio seduta manca il numero legale, e la presidente Boldrini si irrita e osserva che «se i gruppi parlamentari di maggioranza pretendono che l’aula lavori a ritmi serrati e con sedute molto lunghe, devono essere in grado di garantire il numero legale». Stefano Fassina denuncia: «Andare avanti a tappe forzate è un problema, bisogna prendere atto che il Nazareno non c’è più. Invece ci si rifiuta di affrontare le conseguenze politiche».

il Fatto 13.2.15
Riforme, la seduta è fiume, ma il governo non ha i numeri
Risse fretta e nervosismo a Montecitorio
di Wanda Marra


Da seduta fiume a seduta palude. Ora Renzi è in un mare di guai”. La definizione-flash (affidata ovviamente a Twitter) è di Renato Brunetta. Il Parlamento che vota la grande riforma costituzionale offre uno spettacolo decisamente sconsolante e sconsolato. Mercoledì notte sono volati i faldoni. Ieri la giornata è andata avanti tra ostruzionismo e sfilacciamento. D’altra parte la “seduta fiume” concepisce solo “pause tecniche”. Anche per dormire.
IL PATTO del Nazareno ufficialmente è morto, ma pure ufficiosamente non sta tanto bene, ieri è fallita la mediazione del Pd con i Cinque Stelle, che non hanno ritirato gli emendamenti, dopo aver provato a strappare l’eliminazione del quorum per i referendum, abrogativi e confermativi. Come non l’ha fatto Sel. Alla Camera, il governo Renzi per approvare le riforme a colpi di maggioranza i numeri ce li ha. E allora, procede a testate, imponendo ritmi serratissimi e di fatto nessuna vera discussione sul merito. “Qui c’è una gestione assurda, c’è un nervosismo assoluto. E mica lo sappiamo se riusciamo a chiudere per sabato”, si sfoga un piddino. Renzi vuole finire, arrivare, esibire lo scalpo. E soprattutto, evitare trattative e problemi. Quindi si va avanti. Poi, come spiegano i suoi, si lascia decantare tutto e si va al voto finale l’11 marzo. Battute renziane: “Certo, ci diranno che stiamo uccidendo la Costituzione. Ma ce lo direbbero comunque”. Sembra di rivedere lo spettacolo di Palazzo Madama, che la prima lettura delle riforme l’ha votata prima della pausa estiva, con il premier pronto a minacciare la cancellazione delle ferie e il presidente del Senato, Pietro Grasso, caldamente invitato a procedere con il “canguro” (un cavillo tecnico per far fuori gli emendamenti, non consentito dal regolamento di Montecitorio).
Il nervosismo, anche da parte di chi è tenuto a dire che va tutto bene, è palese e si legge nei visi gonfi di sonno. E poi, dopo Montecitorio, si torna a Palazzo Madama. “C’è tempo”, getta acqua sul fuoco il vice segretario dem, Lorenzo Guerini. La realtà è che nessuno a questo punto è pronto a scommettere sui numeri di Palazzo Madama, dove sulla carta la maggioranza può contare su soli 11 voti di scarto. C’è l’operazione responsabili o in qualsiasi modo si voglia chiamare. Ma certo, raccogliendo un voto di qua e uno di là, litigando con la minoranza Pd, riducendo al silenzio nel partito chiunque voglia dire la sua, umiliando costantemente Ncd, non è esattamente facile riformare la Carta.
Altro che le grandi riforme condivise, che sarebbero passate per due terzi, senza neanche il bisogno del referendum confermativo (previsto rispetto a un voto a maggioranza). “Ce la facciamo, ce la facciamo. Poi, i decreti li approviamo con fiducia”, confessa un renziano del cerchio stretto. Sarà. Ma intanto, visto che a ogni giorno basta il suo affanno, quello di ieri non è piccola cosa. Anche perché il Pd è costretto a essere compatto. E compatto non è. Con la minoranza che reclama un gruppo dei componenti della Prima Commissione per capire su quali emendamenti il governo darà parere contrario.
I punti in gioco sono due: la richiesta di abbassare il quorum del referendum confermativo e l’inserimento di una norma transitoria che permetta un giudizio preventivo della Corte costituzionale sull'Italicum, se richiesto dal 30 per cento dei deputati.
La linea del ministro Boschi è di apportare il minor numero di modifiche al testo licenziato dal Senato, nella speranza che questo poi confermi quanto deciso dalla Camera in questa lettura. Speranza che per ora nessuno sa quanto ben riposta: oggi Fitto potrebbe fare una conferenza stampa per sfidare pubblicamente Berlusconi a dire no alle riforme. E poi, c’è il passaggio Italicum, che deve tornare alla Camera, con la minoranza dem sul piede di guerra per ottenere modifiche (e la delega fiscale congelata, nella speranza di persuadere B.). Certo, finora il ricatto elezioni ha funzionato. Ma fino a quando si tiene un quadro così logorato? E fino a quando conviene allo stesso Renzi tenerlo?
“LE CHIEDO la motivazione, perché stiamo lavorando a questo modo - così si rivolge il deputato M5S Riccardo Fraccaro a Marina Sereni - se è perché Renzi ha detto che le riforme dovevano essere approvate in una certa data, allora lei dovrebbe dimettersi”. Di carne al fuoco ce n’è molta. E la notte è lunga.

La Stampa 13.2.15
Le difficoltà senza la doppia maggioranza
di Marcello Sorgi


Dopo un altro giorno e un’altra notte di scontri in aula, la riforma del Senato a Montecitorio è entrata in dirittura d’arrivo, ma il voto finale (il secondo, ne occorrono altri due) avverrà in un clima molto pesante. Lo spostamento di FI all’opposizione ha reso l’ostruzionismo ancora più duro e ha convinto il governo a chiedere la seduta-fiume, per arrivare egualmente alla conclusione del dibattito in tempi certi. Ma di ora in ora il comportamento dei gruppi che si oppongono alla riforma in aula è peggiorato. In questo quadro il Pd ha tentato ieri un aggancio con il M5S, per verificare se ci fossero le condizioni per un ammorbidimento dell’ostruzionismo in cambio dell’accoglienza di alcune delle modifiche chieste dai grillini. Tentativo fallito, dato che M5S insisteva per introdurre un referendum consultivo sulla modifica della Costituzione, che il Pd non voleva accettare. Lo scontro è così ripreso peggio di prima, con il Movimento 5 stelle che paragonava il premier nientemeno che a Hitler, mentre anche la minoranza interna Pd provava a far valere le sue ragioni.
Ma l’idea che Renzi, privo del soccorso azzurro di Berlusconi, si rivelasse più disponibile, anche in nome dell’unità ritrovata dal suo partito nell’elezione del Presidente della Repubblica, s’è rivelata presto un’illusione. Il braccio di ferro tra il governo presieduto dal leader del Pd e la sua minoranza è andato avanti per ore sull’ipotesi di sottoporre il testo della riforma al vaglio della Consulta, riducendo il limite del numero dei deputati che sarebbero necessari per chiedere l’intervento della Corte costituzionale, o addirittura abolendolo: su questo punto, come su altri, Renzi ha tenuto duro e esponenti della minoranza come D’Attorre e Zoggia hanno a lungo protestato. In un modo o nell’altro la riforma dovrebbe arrivare al traguardo entro domani, o al più tardi domenica, dato che la prossima settimana la Camera è impegnata con l’esame di alcuni decreti urgenti. Ma il bilancio di questa settimana di guerriglia per Renzi non è positivo. Sebbene sia evidente che gran parte degli attacchi delle opposizioni sono legati alla campagna elettorale per le regionali ormai in corso, viene fuori che è molto complicato governare con una sola maggioranza, anziché due, com’era avvenuto per tutto il periodo in cui il patto del Nazareno era in vigore. Le pretese della minoranza interna Pd, che fino a qualche giorno fa venivano aggirate grazie ai voti parlamentari messi a disposizione da Berlusconi, ora devono essere messe in conto. Anche se Renzi, lo si è visto anche ieri, non ha alcuna intenzione di cedere, e i suoi oppositori interni hanno dovuto prenderne atto.

Corriere 13.2.15
La fine del Patto mette in luce anche i problemi di Palazzo Chigi
di Massimo Franco

Era inevitabile che i toni delle opposizioni crescessero contro il governo. Il fallimento di una mediazione tra Pd e Movimento 5 stelle, tentata ieri, e la rottura del patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi non potevano non avere conseguenze parlamentari. Il fatto che FI arrivi a chiedere l’intervento del capo dello Stato, Sergio Mattarella, perché richiami Palazzo Chigi a trattare in modo più corretto il Parlamento, si iscrive in questo clima di tensione e di guerriglia politica. Eppure non è facile liquidare quanto sta accadendo come una polemica fisiologica.
L’impressione è che i fattori di incertezza e la tensione stiano crescendo nella stessa maggioranza. Per paradosso, la fine dell’intesa con Berlusconi non ha messo a nudo solo le magagne dell’ex Cavaliere e del suo partito. Sta sottolineando anche le contraddizioni irrisolte del Pd, e i problemi dell’esecutivo con il Parlamento. Il patto del Nazareno «proteggeva» le esigenze berlusconiane. Ma una volta disdetto o comunque congelato, la domanda è se per caso non fornisse una copertura politica anche a Renzi; se non gli consentisse di far passare alcuni provvedimenti e di additare alcune priorità, giustificandoli con l’esigenza di non spezzare l’asse istituzionale con FI.
Dunque, è vero che il centrodestra sembra andare alla deriva, verso un’opposizione subalterna alla Lega di Matteo Salvini e con una leadership contestata. Lo stesso Pd, però, è in sofferenza. Quando la minoranza chiede più tempo su riforme costituzionali e sistema elettorale, lo fa partendo dal presupposto che non c’è più l’intesa con Berlusconi a impedirlo. La risposta renziana, tuttavia, non si discosta da quelle che venivano date «prima». Dunque, l’indicazione ai gruppi parlamentari è di procedere come se nulla fosse accaduto, ratificando agli accordi già raggiunti. Ma questo lascia prevedere sedute-fiume vissute come forzature; e polemiche tra i poteri dello Stato. Se si aggiungono i veleni che lambiscono Palazzo Chigi sulle speculazioni finanziare legate alla riforma delle maggiori banche popolari, e il rinvio a maggio del decreto sulle frodi fiscali, emerge uno sfondo di grande precarietà: come se il successo di Renzi sull’elezione di Mattarella fosse un ricordo. In realtà, il premier ritiene di avere tuttora un controllo ferreo della situazione; e di poter condurre i giochi parlamentari e di governo, conoscendo la debolezza di alleati e avversari e il loro timore di una fine anticipata della legislatura. Gli aut aut alla Camera nascono da questa sicurezza, che sembra proiettarsi anche sul piano internazionale. È stato notato che a differenza di quanto avveniva con Giorgio Napolitano, Renzi non ha ritenuto di consultarsi con Mattarella prima di andare a Bruxelles per il vertice europeo. Ma forse è solo perché i rapporti sono in fase di rodaggio.

il Fatto 13.2.15
Primarie in vista
Nel Pd parte la moltiplicazione delle tessere
di Enrico Fierro


Da seduta fiume a seduta palude. Ora Renzi è in un mare di guai”. La definizione-flash (affidata ovviamente a Twitter) è di Renato Brunetta. Il Parlamento che vota la grande riforma costituzionale offre uno spettacolo decisamente sconsolante e sconsolato. Mercoledì notte sono volati i faldoni. Ieri la giornata è andata avanti tra ostruzionismo e sfilacciamento. D’altra parte la “seduta fiume” concepisce solo “pause tecniche”. Anche per dormire.
IL PATTO del Nazareno ufficialmente è morto, ma pure ufficiosamente non sta tanto bene, ieri è fallita la mediazione del Pd con i Cinque Stelle, che non hanno ritirato gli emendamenti, dopo aver provato a strappare l’eliminazione del quorum per i referendum, abrogativi e confermativi. Come non l’ha fatto Sel. Alla Camera, il governo Renzi per approvare le riforme a colpi di maggioranza i numeri ce li ha. E allora, procede a testate, imponendo ritmi serratissimi e di fatto nessuna vera discussione sul merito. “Qui c’è una gestione assurda, c’è un nervosismo assoluto. E mica lo sappiamo se riusciamo a chiudere per sabato”, si sfoga un piddino. Renzi vuole finire, arrivare, esibire lo scalpo. E soprattutto, evitare trattative e problemi. Quindi si va avanti. Poi, come spiegano i suoi, si lascia decantare tutto e si va al voto finale l’11 marzo. Battute renziane: “Certo, ci diranno che stiamo uccidendo la Costituzione. Ma ce lo direbbero comunque”. Sembra di rivedere lo spettacolo di Palazzo Madama, che la prima lettura delle riforme l’ha votata prima della pausa estiva, con il premier pronto a minacciare la cancellazione delle ferie e il presidente del Senato, Pietro Grasso, caldamente invitato a procedere con il “canguro” (un cavillo tecnico per far fuori gli emendamenti, non consentito dal regolamento di Montecitorio).
Il nervosismo, anche da parte di chi è tenuto a dire che va tutto bene, è palese e si legge nei visi gonfi di sonno. E poi, dopo Montecitorio, si torna a Palazzo Madama. “C’è tempo”, getta acqua sul fuoco il vice segretario dem, Lorenzo Guerini. La realtà è che nessuno a questo punto è pronto a scommettere sui numeri di Palazzo Madama, dove sulla carta la maggioranza può contare su soli 11 voti di scarto. C’è l’operazione responsabili o in qualsiasi modo si voglia chiamare. Ma certo, raccogliendo un voto di qua e uno di là, litigando con la minoranza Pd, riducendo al silenzio nel partito chiunque voglia dire la sua, umiliando costantemente Ncd, non è esattamente facile riformare la Carta.
Altro che le grandi riforme condivise, che sarebbero passate per due terzi, senza neanche il bisogno del referendum confermativo (previsto rispetto a un voto a maggioranza). “Ce la facciamo, ce la facciamo. Poi, i decreti li approviamo con fiducia”, confessa un renziano del cerchio stretto. Sarà. Ma intanto, visto che a ogni giorno basta il suo affanno, quello di ieri non è piccola cosa. Anche perché il Pd è costretto a essere compatto. E compatto non è. Con la minoranza che reclama un gruppo dei componenti della Prima Commissione per capire su quali emendamenti il governo darà parere contrario.
I punti in gioco sono due: la richiesta di abbassare il quorum del referendum confermativo e l’inserimento di una norma transitoria che permetta un giudizio preventivo della Corte costituzionale sull'Italicum, se richiesto dal 30 per cento dei deputati.
La linea del ministro Boschi è di apportare il minor numero di modifiche al testo licenziato dal Senato, nella speranza che questo poi confermi quanto deciso dalla Camera in questa lettura. Speranza che per ora nessuno sa quanto ben riposta: oggi Fitto potrebbe fare una conferenza stampa per sfidare pubblicamente Berlusconi a dire no alle riforme. E poi, c’è il passaggio Italicum, che deve tornare alla Camera, con la minoranza dem sul piede di guerra per ottenere modifiche (e la delega fiscale congelata, nella speranza di persuadere B.). Certo, finora il ricatto elezioni ha funzionato. Ma fino a quando si tiene un quadro così logorato? E fino a quando conviene allo stesso Renzi tenerlo?
“LE CHIEDO la motivazione, perché stiamo lavorando a questo modo - così si rivolge il deputato M5S Riccardo Frac-caro a Marina Sereni - se è perché Renzi ha detto che le riforme dovevano essere approvate in una certa data, allora lei dovrebbe dimettersi”. Di carne al fuoco ce n’è molta. E la notte è lunga.

Corriere 13.2.15
Alle urne tra sgambetti e ipocrisie
Le chance pd nel caos Campania


Le primarie infinite e l’idea di evitarle. Ncd sospesa tra Caldoro e i dem
Ebbene sì. Francesco Nicodemo e Pina Picierno aspettano un bambino. Le cronache dettagliano. Lui è nello staff del premier per la comunicazione, lei è l’europarlamentare Pd che porta scompiglio nei talk show. Figure emergenti del nuovo corso renziano, quest’estate hanno provato ad animare l’Acciaieria: un’assemblea stile Leopolda convocata a Bagnoli, dove un tempo svettavano gli altiforni dell’Italsider, con l’intenzione di forgiare il candidato democrat alle regionali campane. Se fossero riusciti nell’intento, avrebbero rottamato davvero la storia della sinistra campana, la storia dei Bassolino e dei De Luca, dei sindaci di Napoli e di Salerno diventati padroni assoluti delle rispettive città e poi concorrenti irriducibili nello stesso partito.
Questa storia, fatta di contrasti, sgambetti e ipocrisie, è dura a morire: ha lasciato sul campo grandi opere e un’economia debole, molto orgoglio e tanto provincialismo. Tant’è che alla Regione è poi arrivato il berlusconiano Caldoro. Con una sinistra così, ancora in bilico tra figure mitiche e signori delle tessere, il tentativo di Nicodemo e Picierno non poteva che fallire. Nel frattempo, è nata la loro storia d’amore. E da quella storia un bambino, concepito quasi a chiudere il cerchio di una metafora perfetta: prende corpo il progetto di coppia, sfuma quello collettivo.
In sofferenza non è solo il Pd. Proprio a Bagnoli, sono ormai quattro mesi che Il governo non riesce a nominare un commissario per la bonifica e il rilancio dell’area. Più in là, al porto, sono anni che manca un presidente per attivare 184 milioni di finanziamenti. La cicogna renziana è dunque in volo. Ma a Napoli il renzismo difetta di decisionismo, nonché di nuova classe dirigente. E ancora manca il candidato ideale per le regionali.
Caldoro ha dalla sua il risanamento dei conti pubblici, ma è attualmente coinvolto in beghe di nomine e concorsi sotto inchiesta che ne offuscano l’immagine. Il suo partito, che cinque anni fa era potentissimo, ora è 12 punti in percentuale sotto al Pd, almeno secondo il dato delle Europee. Scontata la pena e ormai in odore di riconquistata libertà di azione, Berlusconi infonde ottimismo e promette rimonte. «Il 9 marzo terrò a Napoli la mia prima manifestazione pubblica», annuncia. Ma basterà una rimpatriata? Di sicuro basta a Caldoro. Lui, solitamente sobrio, è arrivato addirittura ad autodefinirsi «il miglior governatore d’Italia».
Ciò nonostante Renzi sa bene che la Campania potrebbe essere strappata all’avversario. Nonostante le liste di disturbo a sinistra, come quella di de Magistris, sindaco di Napoli, formalmente coordinata dal fratello e furbescamente chiamata Dema, democrazia e autonomia. O l’incombente presenza dei 5 Stelle, qui guidati dai giovani Luigi Di Maio e Roberto Fico. Ma allo stesso tempo Renzi non sa più dove sbattere la testa per trovare il candidato giusto. A distanza di mesi, e con le primarie rinviate già tre volte, si ritrova infatti con un numero crescente di aspiranti governatori. Nessuno convincente. Ogni volta che invia i suoi emissari per rimescolare le carte, inoltre, questi ritornano a Roma con una lista di candidati ancora più lunga. Così Guerini. Così Lotti. A Napoli tutti falliscono. In principio i candidati erano Cozzolino e De Luca: guarda caso un bassoliniano e un deluchiano che più di De Luca stesso non si può. Ora sono cinque: si sono aggiunti il socialista Di Lello, il dipietrista Di Nardo e l’ex vendoliano Migliore. E non è finita.
Da Roma comincia a farsi strada anche Gino Nicolais, presidente del Cnr, già assessore regionale con Bassolino, poi in rotta con lui e consulente scientifico di Vendola in Puglia, quindi ministro all’innovazione di Prodi su segnalazione di Fassino, e sempre veltroniano. Perché lui? Perché dopo aver provato con il solito magistrato, col noto giornalista e con il giovane accademico in carriera, e dopo aver ricevuto da tutti, spaventati dalle guerre intestine e dall’assenza di una regia forte, una serie di lusingati «no grazie», Nicolais potrebbe essere l’unica soluzione possibile. L’uomo giusto, cioè, per convincere il decisivo Alfano ad abbandonare Caldoro. Ma il problema è che Alfano ha Berlusconi che lo tira per l’altra manica. Deve decidere: ancora con Caldoro, sapendo che il clima elettorale non è più quello di 5 anni fa, e dunque rischiando; o con Renzi, in coerenza con l’alleanza di governo? In entrambi i casi ci sono pro e contro. Ma altra cosa sarebbe se l’offerta di Renzi si spingesse fino a rinunciare alla candidatura Pd. A quel punto, Alfano avrebbe già una rosa: l’ex ministra De Girolamo, il parlamentare Calabrò e il coordinatore nazionale Quagliariello. Di quest’ultimo, appena il nome è circolato, si è letta la seguente dichiarazione: «Ho altro da fare: devo sostituire Benitez». Ma vale come smentita? Vale se fatta da chi si definisce tifoso del Napoli anche sul profilo Twitter? Lo sapremo presto.

Affari Italiani 13.2.15
L’Unità, tutto da rifare: Veneziani deve riformulare l’offerta
di Carlo Patrignani

qui

il Fatto 13.2.15
Maxxi premio, la Melandri ha già incassato 24mila euro
di Marco Lillo


Giovanna Melandri non ha detto tutta la verità sullo stipendio ricevuto dal Ma-xxi per il 2013. Il ministro il 21 novembre del 2013, dopo che i giornali pubblicarono la notizia che sarebbe stata pagata dal Maxxi per il suo ruolo di presidente, disse al Messaggero: “Avrò uno stipendio sobrio: guadagnerò 45 mila euro netti all’anno”.
Il consiglio di amministrazione della Fondazione Maxxi, di cui Giovanna Melandri è presidente aveva approvato solo due settimane prima, il 6 novembre 2013 una delibera che non solo concedeva al presidente uno stipendio fisso di 91 mila e 500 euro lordi (più di 45 mila euro netti) ma anche un premio di produzione variabile. La delibera non è mai stata pubblicata sul sito e la notizia di questo premio è stata divulgata dal Fatto il 24 dicembre del 2014. In quell’articolo però, ingenuamente, scrivevamo che Giovanna Melandri avrebbe preso il premio a partire da quest’anno per l’eventuale aumento nel 2014 degli incassi dei biglietti e degli altri proventi e contributi.
POICHÉ la delibera portava la data del 6 novembre 2013, ci sembrava ovvio che il presidente Melandri avrebbe atteso l’anno 2014 per far scattare il meccanismo. Invece ci sbagliavamo. Giovanna Melandri è già passata all’incasso. La Fondazione Maxxi è un soggetto formalmente privato ma gestisce in gran parte soldi pubblici e non dovrebbe attribuire un premio di produttività al suo presidente a novembre 2013 per il periodo gennaio-dicembre dello stesso anno. Qualcuno potrebbe sospettare infatti che, a 55 giorni dalla fine dell’anno, l’ammontare delle voci prescelte dal consiglio per premiare il suo presidente fosse già prevedibile.
Giovanna Melandri ha incassato 24 mila euro per il 2013, quasi il bonus massimo previsto. Nella delibera del 6 novembre del consiglio di amministrazione presieduto da Giovanna Melandri (che si astiene) si prevede oltre al compenso fisso di 91 mila e 500 euro lordi “un ulteriore ammontare quale componente variabile (premio) da determinarsi in ‘misura fissa’ come sintetizzato nella tabella che segue”. Il bonus in questo caso è al netto delle tasse ed è in funzione dell’incremento “rispetto al precedente esercizio della sommatoria delle voci di proventi quali: I) biglietteria; II) Contributi di gestione; III) Sponsorizzazioni; IV) Altri ricavi e proventi”. Segue la tabella: se l’incremento va dal 5 al 15 per cento, il premio è di 12 mila euro (netti) se raggiunge la forchetta 15-20 arriva a 18 mila euro; se si pone tra il 25 e il 30 per cento il presidente prende un premio di 24 mila euro nette. Esattamente quello che Giovanna Melandri ha incassato. Quasi il massimo. Solo se l’incremento delle quattro voci avesse sfondato il tetto del 30 per cento, il premio sarebbe stato “quanto deliberato dal Cda”.
Come ha fatto Giovanna Melandri a ottenere questi risultati? Sul bilancio 2013 della Fondazione Maxxi si scopre che i proventi da biglietti sono scesi nel 2013 nella gestione Melandri dai 912 mila euro del 2012 a 905 mila euro. La voce ‘altri ricavi e proventi’ è invece salita da 2 milioni e 50 mila euro del 2012 a 2 milioni e 238 mila euro del 2013, comunque un incremento inferiore al 10 per cento e ben lontano dalla forchetta 25-30 che fa scattare il premio da 24 mila euro. Le sponsorizzazioni nella relazione del bilancio 2012 sono valorizzate 985 mila euro mentre nel 2013 con Giovanna Melandri salgono a 1 milione 216 mila euro. Infine la voce ‘contributi di gestione’ sale da 3 milioni e 972 mila euro a 4 milioni e 786 mila euro, un incremento che si aggira sul 20 per cento. A leggere la delibera e il bilancio si ha la netta sensazione che i contributi di gestione siano stati determinanti per l’incremento e quindi per il premio. I contributi di gestione, secondo la relazione al bilancio, sono quelli pagati dal Ministero dei beni culturali per 4 milioni e 286 mila euro e dalla Regione Lazio: mezzo milione. Se fosse così, Giovanna Melandri avrebbe preso il premio grazie alla generosità del ministero e della Regione, non grazie alla sua abilità (che pure emerge dal bilancio) nel reperire fondi privati per il Maxxi.
Al Fatto però Giovanna Melandri replica: “il premio approvato dal cda è collegato unicamente agli incrementi di risorse private che siamo stati capaci di raccogliere, quali sponsorizzazioni, cena di Fund raising, il programma di individual and Corpo-rate Friends”. Dunque il premio sarebbe stato connesso a un’altra voce, indeterminata e non evidente nel bilancio, invece che alla voce indicata nella delibera del 6 novembre: ‘contributi di gestione’. Ci sarebbe quindi una delibera firmata Melandri del 6 novembre 2013 che indica un parametro (i contributi dello Stato) presente nel bilancio firmato da Melandri per attribuire un premio a Giovanna Melandri. Che dice di avere preso a riferimento un parametro diverso per il suo premio. Comunque, alla fine della fiera, quanto guadagna Giovanna Melandri?
IL FISSO di 91 mila e 500 lordi dovrebbe essere pari a un reddito annuo netto superiore ai 45 mila euro di cui il presidente del Maxxi ha parlato nelle interviste. Nel 2013, per esempio, Giovanna Melandri dichiarava un reddito imponibile di 75 mila euro lordi e pagava un’imposta lorda di 25 mila euro per un netto di 50 mila euro. Il reddito lordo superiore di 91 mila e 500 euro previsto nella delibera dovrebbe portarle in tasca molto più dei 45 mila euro dichiarati a cui si aggiungono i 24 mila di cui non ha mai detto nulla a nessuno. Alla fine lo stipendio mensile, tra parte variabile e parte fissa, dovrebbe superare i 6 mila euro al mese. Comunque meno dello stipendio di parlamentare. Il 19 ottobre del 2012 Melandri si dimise da deputato per dirigere la Fondazione del museo di arte contemporanea. Se non avesse detto: “Prenderò 90 euro all’anno” allora e se avesse detto oggi: “guadagno un fisso di 50 mila e un variabile di 24 mila euro netti”, nessuno avrebbe avuto motivo di contestarle il suo Maxxi stipendio e Maxxi premio.

il Fatto 13.2.15
Di Stefano (M5S): ”Pd nazisti del XXI secolo”


“QUESTO PD versione Matteo Renzi è la rappresentazione del nazismo formato XXI secolo!”. Lo scrive su Facebook il deputato del M5S Manlio Di Stefano, facendo il punto sulle riforme in discussione a Montecitorio. “Giusto per chiarire - scrive Di Stefano, che posta un fotomontaggio con Benito Mussolino con la spilletta del Pd sul petto - Dopo un’estenuante battaglia, udite bene, per poter dialogare sulle riforme costituzionali dato che il Pd non accetta nemmeno confronto, siamo arrivati a chiedere una sola modifica a fronte delle 2.000 che avevamo presentato. Chiediamo una cosa che era, addirittura , nel programma elettorale del Pd ovvero il referendum propositivo senza quorum. La risposta del Pd? Nein! Nemmeno Mussolini fece tanto”. Ribatte il relatore del Pd Emanuele Fiano: “Avere un’insalata russa in testa invece che storia diventa un pericolo per tutti quando sei un legislatore”.

il Fatto 13.2.15
Il Pd salva la Chil, l'azienda di Tiziano Renzi
di Dav.Ve.


L'aula del consiglio regionale della Toscana ha bocciato la risoluzione proposta dall'opposizione per impegnare la giunta guidata da Enrico Rossi ad attivarsi anche in sede legale per recuperare “le somme irregolarmente riscosse” da Chil Post, l'azienda del padre di Matteo Renzi, nella quale il premier è stato dirigente per dieci anni, dal 2004 al 2014.
La vicenda è nota. L'azienda di famiglia ha beneficiato del fondo per le Pmi attraverso Fidi Toscana, la finanziaria della Regione, a garanzia di un mutuo da 496 mila euro acceso nel 2009 con la banca Cooperativa di Pontassieve. La proprietà di Chil poi passa di mano due volte. E cambia anche sede, lasciando la Toscana e trasferendosi a Genova. Comunicazioni che non sono state fornite a Fidi e per questo, stando da quanto la stessa finanziaria ha accertato, avrebbe perso i benefici della garanzia. Ma quando nel 2013 viene dichiarata fallita (Tiziano Renzi è indagato per bancarotta fraudolenta) la banca batte cassa e ottiene da Fidi il versamento di 263.114,70 euro. Fidi a sua volta si rivolge al Tesoro che stanzia dal fondo centrale di garanzia 236 mila euro. Ma come ha ricostruito a gennaio il Fatto Chil non aveva i requisiti. Lo stesso avvocato di Fidi ha inviato alla Regione un documento in cui invita la giunta “ad agire” per recuperare i fondi. Il capogruppo di Fratelli d'Italia e candidato governatore, Giovanni Donzelli, ha fatto sua la causa e presentato la risoluzione in consiglio regionale che però è stata bocciata dai consiglieri del Pd: 17 voti contrari. Eppure l'assessore al credito e al lavoro Gianfranco Simoncini ha annunciato di aver scritto a Fidi affinché sia la finanziaria a valutare cosa fare. Quasi scontato il commento di Donzelli, che annuncia: “Ognuno deve assumersi la responsabilità delle scelte che compie: invieremo il dossier Fidi-Chil alla Corte dei Conti, comprese le singole votazioni di ogni consigliere”.

il Fatto 13.2.15
Popolari, chi ci ha guadagnato?
La Procura indaga sui movimenti anomali dei titoli a ridosso del sì al decreto
di Valeria Pacelli


Alexis Tsipras sembra accerchiato da tutti i governi europei e quindi dai loro paesi. Però la solidarietà e la vicinanza che ha raccolto da quando ha preso la guida della Grecia non è trascurabile. Soprattutto se proviene dalla Germania.
L’appello La Grecia una chance per l’Europa, non una minaccia reca come prima firma quella di Reiner Hoffmann, presidente della Confederazione sindacale tedesca, la Dgb: “Il terremoto politico avvenuto in Grecia – si legge – è un’opportunità non solo per questo Paese afflitto dalla crisi, ma anche per ripensare e rivedere in modo sostanziale la politica economica e sociale dell’Unione europea”.
Il testo è siglato anche dalle sigle sindacali di categoria, molto importanti anch’esse negli equilibri politico-sociali della Germania: il sindacato dei Servizi, Ver. di, il più grande d’Europa, quello delle Costruzioni, Agricoltura e Ambiente, Ig. Bau, il sindacato dei Trasporti, Evg, dell’Alimentazione, Ngg, dell’Educazione, Gew e quello della metallurgia, IgMetall.
“I miliardi che sono confluiti verso la Grecia sono stati utilizzati soprattutto per la stabilizzazione del settore finanziario”, scrivono i sindacati tedeschi ricordando che “il Paese è stato spinto da una brutale politica di austerità verso la più profonda recessione”.
“NESSUNO DEI PROBLEMI strutturali del Paese è stato risolto, continua il documento che propone di “negoziare seriamente e senza ricatti con il nuovo governo greco per aprire nuove prospettive economiche e sociali per il Paese che vadano oltre la fallimentare politica di austerità”. Anche perché “la sconfitta alle urne dei responsabili delle politiche adottate finora in Grecia è una decisione democratica che va rispettata a livello europeo”.
Dunque, “bisogna dare una chance al nuovo governo e la continuazione del cosiddetto percorso di ‘riforme’ adottato finora, significa negare di fatto al popolo greco il diritto ad attuare nel proprio Paese un cambiamento di rotta della politica che è stato democraticamente legittimato”.
Una presa di posizione molto rilevante se si considera il ruolo e il peso del sindacato nella società tedesca. Con oltre 6 milioni di iscritti la Dgb svolge ancora un ruolo importante negli equilibri della Spd, la socialdemocrazia che è in calo da tempo ma che governa il paese nella coalizione con Angela Merkel.
Il sindacato, inoltre, gode della Mitbestimmung, il modello di cogestione che consente alle organizzazioni dei lavoratori di sedere nei Consigli di sorveglianza delle grandi aziende e di avere, quindi, una forte superficie di contatto con il mondo imprenditoriale.
Reiner Hoffmann ha preso parola subito dopo le proposte avanzate dal ministro dell’Economia greco Yanis Varoufakis, giudicando positivamente l’intenzione di non chiedere più il semplice annullamento del debito ma di optare per un’opzione più ragionevole come il legame tra il tasso di interesse e la crescita economica del paese. Ma il presidente della Dgb apre anche all’ipotesi di una Conferenza europea sul debito in modo “da ristabilirne la sostenibilità e conseguentemente stabilizzare la zona euro”.
La Dgb non si è mossa in solitudine perché sulla strada del sostegno alla Grecia si è incamminata anche la Confederazione europea dei sindacati (Ces). La sua presidente, Bernadette Segol, si è pronunciata in questo senso la scorsa settimana: “È vitale per la democrazia in Europa che sia rispettata la volontà chiaramente espressa dal popolo greco di mettere fine all’austerità”. In questo contesto si comprende meglio anche la decisione dell’italiana Cgil di schierarsi apertamente dalla parte di Tsipras e di fare propria la manifestazione che si svolgerà sabato prossimo a Roma in solidarietà
con la Grecia.
LA LISTA DEGLI AMICI di Syriza quindi si allunga anche se si distingue per la sua eterogeneità. Ieri, ad esempio, Beppe Grillo ha proposto alla stessa Syriza e alla spagnola Podemos di farsi promotori di una mozione al Parlamento europeo per una Conferenza internazionale sul debito. Ipotizzando anche l’adesione di forze di destra come la Lega Nord e il Front national di Marine Le Pen. La quale, alla vigilia delle elezioni greche, si era pronunciata a favore di Tsipras. Ma la Grecia può contare anche sui buoni auspici di Barack Obama che dal giorno della vittoria della sinistra greca sta spingendo l’Europa per offrire un compromesso accettabile. E poi c’è la Russia. Lo scambio di cortesie è stato molto visibile ieri, proprio durante la riunione dell’Eurogruppo. Il ministro degli Esteri russo ha aperto alla possibilità di “aiuti finanziari” diretti mentre la Grecia si è opposta alle sanzioni contro Mosca sulla vicenda ucraina.

il Fatto 13.2.15
Dagli annunci agli acquisti in Borsa: cronostoria di Vegas


NELLA MEMORIA consegnata mercoledì in Commissione dopo l’audizione del presidente Giuseppe Vegas in Commissione alla Camera, la Consob ricostruisce la tempistica della diffusione delle informazioni relative al decreto sulle Popolari.
3 Gennaio: l’agenzia Ansa riporta l’indiscrezione relativa alla possibile riforma delle banche Popolari allo studio del governo.
6 Gennaio: un articolo di Libero riporta indiscrezioni relative a un dossier allo studio del governo, finalizzato ad abolire il voto capitario negli istituti popolari quotati per consentire il consolidamento del sistema bancario.
16 Gennaio: a mercati chiusi, dunque dopo le 17.30, il Presidente del Consiglio annuncia la riforma delle banche popolari.
17-18 Gennaio: i giornali danno ampio risalto all’annuncio, anticipando le innovazioni principali contenute nella bozza della riforma. “Non è tuttavia risultato subito chiaro – sottolinea la Consob - quale fosse l’esatto perimetro degli istituti di credito interessati, mentre si affermava che il provvedimento, prelevato dal disegno di legge sulla concorrenza in fase di stesura al ministero dello Sviluppo Economico, sarebbe stato oggetto di discussione nel Consiglio dei Ministri, convocato per martedì 20 gennaio nell’ambito del cosiddetto Investment compact”.
19 Gennaio: Renzi conferma che le misure sarebbero state oggetto di discussione nel Consiglio dei Ministri convocato per l’indomani. In serata si tiene un vertice tra premier, ministro dello Sviluppo Economico e ministro dell’Economia per rifinire i dettagli della bozza del provvedimento.
20 Gennaio: il Consiglio dei Ministri discute il provvedimento e nel pomeriggio lo approva ma già dalla mattina circolano notizie più precise circa gli istituti interessati: sarebbero state le banche popolari di maggiori dimensioni (con soglia minima pari ad 8 miliardi di attivo). Ebbene, dal 3 gennaio al 9 febbraio 2015 i titoli delle Popolari sono saliti da un minimo dell’8% per Ubi a un massimo del 57% per Banca Etruria, a fronte di una crescita dell’indice del settore bancario dell’8% e con volumi consistenti.

il Fatto 13.2.15
Cdm? “La Boschi in Aula non c’era”
Dal resoconto dei lavori parlamentari risulta che non s’è vista né alla Camera né al Senato
Lei aveva detto il contrario
di Davide Vecchi


Dove era Maria Elena Boschi il 20 gennaio, mentre il Consiglio dei ministri approvava la trasformazione delle banche popolari in società per azioni? Non ai lavori della Camera né a quelli del Senato, come risulta dai resoconti stenografici delle rispettive aule.
Il decreto approvato durante la riunione dell'esecutivo, va ricordato, ha coinvolto la banca dell'Etruria di cui il ministro è azionista, il padre Pier Luigi è vicepresidente e il fratello Emanuele è dipendente. Nei giorni precedenti l'approvazione del decreto, le popolari e in particolar modo l'Etruria furono interessate da forti acquisti anche dall'estero. Con plusvalenze potenziali quantificate dal presidente Consob Giuseppe Vegas in 10 milioni di euro che hanno spinto l’autorità che vigila sulla Borsa e la Procura di Roma ad aprire un’indagine.
IL FATTO diede notizia degli acquisti anomali che interessarono le popolari, sollevò il dubbio che qualcuno dai Palazzi avesse confidato all'esterno l'approssimarsi del via libera del governo al decreto e sottolineò il possibile conflitto di interessi di Boschi. Dopo aver più volte tentato di contattare il ministro, il 27 gennaio abbiamo ricevuto e pubblicato una sua lettera: “Caro direttore, il suo quotidiano si rammarica del fatto che io non mi sia astenuta durante il voto in Cdm sul decreto legge che riguarda la trasformazione delle Banche Popolari in Spa. Non mi sono astenuta, è vero, ma prima di gridare allo scandalo basterebbe capire il perché: non mi sono astenuta semplicemente perché non ero presente a quella riunione. E non ho partecipato perché ero impegnata in Parlamento nel percorso di riforme costituzionali e sulla legge elettorale”.
Nel frattempo Camera e Senato hanno pubblicato i resoconti stenografici dei lavori del 20 gennaio 2015. A Montecitorio il ministro Boschi non si è vista. Tanto che alcuni deputati di opposizione si lamentarono dell'assenza. Arturo Scotto, capogruppo dei deputati di Sinistra ecologia e libertà, commentò: “Il governo ci dica, visto che sono due giorni che non vediamo da queste parti Boschi, se si stia già ragionando sul Renzi-bis”. Erano giorni in cui il patto del Nazareno traballava, ma si rinsaldò rapidamente visto che proprio grazie ai voti di Forza Italia passarono alcuni emendamenti all'Italicum.
E Palazzo Madama? La seduta si è aperta alle 16:31 e, sempre da quanto risulta dal resoconto stenografico pubblicato sul sito, è stata immediatamente sospesa dalle 16:34 e aggiornata alle 17:34. Boschi è intervenuta pochi minuti dopo l'apertura, intorno alle 17:40. Nel frattempo il Consiglio dei ministri, che si è svolto a Palazzo Chigi, a breve distanza dal Senato, si è aperto alle 15:45 e chiuso alle 17:20.
Il ministro era sicuramente impegnato in altre riunioni. Nel primo pomeriggio, a quanto riportato dalle agenzie di stampa, si trovava a Palazzo Madama insieme al premier Matteo Renzi per incontrare i parlamentari del Pd in vista del voto sull'Italicum. Poi ha rilasciato due brevi interviste a Sky e a Rai News.
Contattata telefonicamente dal Fatto, per conto del ministro ieri ha risposto il suo portavoce che ha confermato che nonostante non fosse in aula Boschi era comunque in una stanza di Palazzo Madama e qui è rimasta fino alla ripresa dei lavori. Dunque non ha preso parte al Consiglio dei ministri.
Il commissariamento della popolare dell'Etruria – deciso mercoledì da Banca d'Italia per il “grave deterioramento del patrimonio” dell'istituto di credito che vede ai vertici Pier Luigi Boschi – ha legittimato ulteriori dubbi: il provvedimento, che ha preso la forma del decreto legge soltanto pochi giorni prima del Consiglio dei ministri, può rivelarsi infatti un aiuto prezioso per la popolare.
FRATELLI d'Italia ha chiesto le dimissioni del ministro, Forza Italia minaccia barricate, i deputati della Lega Nord hanno presentato un'interrogazione chiedendo di conoscere con urgenza “le ragioni del commissariamento, anche in funzione di possibili incompatibilità, o conflitti di interesse, che esistevano, per questioni parentali, tra un componente del consiglio di amministrazione di Banca Etruria e un componente del governo”. Insomma: sarebbe utile rendere noto il verbale delle presenze al Cdm del 20 gennaio così da cancellare ogni dubbio sulla totale estraneità del ministro Boschi. Verbale che finora non è stato reso pubblico.

il Fatto 13.2.15
“Sul Banco 3,5 milioni”. Effetto Serra?
di Carlo Di Foggia


Dalle Cayman, passando per Ginevra, fino alle banche popolari. Da due anni, la cartina di tornasole dell’“effetto Serra”, inteso come Davide, finanziere, amico e sostenitore di Matteo Renzi si tinge spesso di rosso-imbarazzo. Non c’è solo la pista che porta al manager del fondo Algebris che emerge dalle carte della Consob (l’organismo che vigila sulla Borsa) sulle operazioni sospette a ridosso della riforma bancaria varata dal governo. Gli imbarazzi sono partiti molto prima: dal 19 ottobre 2012 – albori dell'ascesa dell'uomo di Rignano sull'Arno – quando Pier Luigi Bersani salutò così la prima cena di finanziamento del sindaco di Firenze (organizzata da Serra): “Non parlo con chi ha base alle Cayman (dove ha sede un fondo di Algebris, ndr) ”. “Lo querelo”, rispose lo squalo della City, finanziatore generoso (175 mila euro alla renziana fondazione Open). Poi Bersani smentì.
Nell’ottobre scorso, alla Leopolda, l’ex capo della ricerca globale sulla finanza di Morgan Stanley ha creato non pochi imbarazzi all'amico illustre, proponendo l'abolizione del diritto di sciopero (“è un costo”), salvo poi correggersi: “Va limitato a un solo giorno per tutti”. Si ricorda anche una proposta non del tutto disinteressata agli amici del governo: una “norma a costo zero” che consenta alle banche di recuperare in tre anni una casa con un mutuo non pagato. Il tutto, poco prima di lanciarsi nel mercato dei crediti deteriorati (nel mirino ci sono i pacchetti in vendita del Montepaschi), con tanto di apposito fondo e apertura di una sede milanese. Giusto in tempo per approfittare del progetto governativo di una bad bank di cui si discute ora.
Sposato con Anna Barrasi, quattro figli, londinese da 18 anni, ieri il suo nome è finito di nuovo alla ribalta: è uno dei 7.499 italiani della Lista Falciani, quella dei correnti della banca Hsbc di Ginevra che da anni rimbalza tra procure, servizi segreti e Finanza. Interpellato dall’Espresso, Serra ha confermato di essere titolare di un conto “in totale trasparenza e in accordo con il sistema fiscale inglese”.
Renzi si è innamorato di questo guru finanziario, (“sono considerato uno dei migliori analisti bancari nel mondo”), per i buoni uffici dell'amico in comune Marco Carrai (era tra gli invitati al suo matrimonio), ma le polemiche degli ultimi giorni si sono intensificate. Serra ha confermato di aver investito nelle popolari dal marzo del 2014, poco dopo l'ingresso di Renzi a Palazzo Chigi, e oltre dieci mesi prima del varo della riforma che abolisce il voto capitario per dieci grandi istituti. La Consob di Giuseppe Vegas ha confermato i “movimenti anomali” che hanno travolto i titoli delle popolari, con rialzi a doppia cifra, prima e dopo l'annuncio. Sotto i riflettori è finita la concentrazione di acquisti partita da Londra, dove - secondo indiscrezioni - si sarebbe svolto un workshop organizzato dal finanziere a ridosso dell’annuncio ufficiale del premier sulla trasformazione in spa, il 16 gennaio. Serra ha smentito tutto, ma confermato “una posizione importante, inferiore al 2% in una banca popolare in aumento di capitale”, cioè il Banco popolare.
LA CONSOB CERCHERÀ di capire se lui o altri intermediari hanno approfittato di informazioni privilegiate (con lo spettro di insider trading) o fiutato l'affare da esperti broker. Gli acquisti si sono concentrati tra il 2 e il 16 gennaio, il 19 è partita la cavalcata in Borsa. Le “operazioni sospette” hanno fruttato “10 milioni”. La parte del leone, scrive la Consob, l'ha fatta un “intermediario estero” sul Banco Popolare: “3,5 milioni di euro” di guadagni. Ieri Algebris ha spiegato “di non avere comprato titoli delle popolari dal 1 al 19 gennaio. Unica operazione di rilievo nel periodo è stata la dismissione di 5,2 milioni di azioni del Banco Popolare a un prezzo medio di 9,72 euro, acquistate nel 2014 a un prezzo medio di 13,76 euro, realizzando così una perdita”.

il Fatto 13.2.15
Monte Paschi, a luglio Renzi avrà una banca
di Camilla Conti


Milano A luglio Matteo Renzi potrà dire: “Abbiamo una banca”. Perché se il Monte dei Paschi non trova un socio strategico prima dell’estate, il ministero del Tesoro – ovvero lo Stato - diventerà azionista del gruppo senese con il 10%. Mps ha infatti dovuto alzare l’asticella dell’aumento di capitale a 3 miliardi dopo aver registrato nel 2014 oltre 5 miliardi di perdite. Ergo, entro il primo luglio deve trovare i contanti per ripagare allo Stato gli interessi dei Monti bond, altrimenti saranno girati al Tesoro in forma di azioni. L’unica speranza per evitare una semi-nazionalizzazione è che Mps trovi in fretta un cavaliere bianco sul mercato da far entrare con l’aumento di capitale. Una missione cui si starebbero dedicando soprattutto i soci sudamericani Btg e Fintech che non intendono restare impantanati nelle sabbie mobili senesi. Quanto alla Fondazione Mps, alleata dei due fondi nel patto che controlla il 9% della banca, dovrà decidere se mettere sul piatto 75 milioni per aderire all’aumento a fronte di un tesoretto di liquidità di 400 milioni. Nel frattempo, in una recente intervista, il presidente della Fondazione Mps, Marcello Clarich, ha dichiarato che l’ente ha deciso di affidare “la gestione dell’area finanza a una società esterna”. Secondo quanto rivelano fonti al Fatto si tratterebbe della stessa sgr Quaestio alla quale il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, ha affidato in gestione la partecipazione in Intesa per tutelare gli affari della sua Cariplo, diversificare il patrimonio e alienare i rischi finanziari della quota di cui comunque mantiene dividendo e voto. Per Siena sarebbe stata dunque trovata una soluzione simile per proteggere gli investimenti dell’ente. Basterà? Chissà. Ieri, intanto, a Piazza Affari il possibile ingresso del Tesoro è stato apprezzato: il titolo Mps ha guadagnato il 13% a 0,48 euro.

il Fatto 13.2.15
L’emendamento “porcata” del Pd che salva l’Ilva
di Giorgio Meletti


È stata la giovane senatrice marchigiana Camilla Fabbri, renziana di ferro con più di un pensiero alla candidatura per la presidenza della regione alle elezioni di primavera, a risolvere al governo lo spinoso problema. È lei infatti la prima firmataria dell'emendamento al decreto sull'Ilva che chiarisce l'incerto articolo 2, formulato da estensori poco avvezzi alla scrittura di leggi. E adesso, dopo che la commissione Industria del Senato ha approvato l’emendamento Fabbri, i senatori M5S notano che “il governo ha ottenuto l'avallo all'ennesima porcata”.
Il testo originario del decreto diceva che il piano di prescrizioni ambientali per la grande acciaieria inquinante di Taranto “si intende attuato se entro il 31 luglio 2015 sono realizzate, almeno nella misura dell'80 per cento, le prescrizioni in scadenza a quella data”. Non si capiva l’80 per cento di che cosa, visto che le prescrizioni dell'Aia (Autorizzazione integrata ambientale) sono oltre 400, ma solo alcune delle quali decisive, complesse e costose.
L'EMENDAMENTO Fabbri aggiunge la parola “numero”, così è chiaro che si intende l'80 per cento di prescrizioni delle quali una vale l’altra. L'Ilva potrà attuare l'80 per cento delle prescrizioni scegliendo quelle meno rilevanti e lasciando indietro quelle più importanti e costose. “Apporre un cartello di pericolo diventa equivalente a coprire i parchi dei minerali”, dicono i senatori grillini. Per farsi un'idea basterà sapere che coprire i parchi minerali (quelli da cui si diffondono le polveri cancerogene che stanno martoriando Taranto) costerebbe almeno un miliardo di euro. In pratica, con l'emendamento approvato due sere fa, l'attuazione delle prescrizioni ambientali dell'Aia diventa per l'Ilva sostanzialmente facoltativa, e questo indica con precisione in che modo il governo vuole perseguire la compatibilità tra siderurgia e ambiente, lavoro e salute.
L'altro nodo delicato del decreto Ilva è quello delle fattura non pagate alle imprese dell'indotto. Si tratta, solo per l'area tarantina, di circa 150 milioni di euro che stanno mettendo in ginocchio decine di imprese e in pericolo 4-5 mila posti di lavoro.
CON LA PARTENZA dell'amministrazione straordinaria, scattata lo scorso 21 gennaio, i crediti vengono tutti congelati nella cosiddetta procedura concorsuale, cioè nello stato d'insolvenza gestito sotto la supervisione del Tribunale di Milano. In questo modo i crediti delle aziende dell'indotto saranno forse pagati tra qualche anno. Questa è la regola fissata dalla legge Marzano a cui si è fatto ricorso, e adesso si cerca un modo per concedere alle imprese dell'indotto una sorta di deroga che eviti il loro quasi automatico fallimento.
Tra i più arrabbiati ci sono gli autotrasportatori di Taranto, che vantano crediti per 15 milioni di euro e sono decisivi per la vita dell'Ilva visto che con i loro camion consegnano circa un terzo della produzione ai clienti dell’azienda. Indietro di sei mesi con i pagamenti e con la prospettiva di non essere pagati per anni, gli autotrasportatori sbarcano oggi a Roma per una rumorosa protesta a piedi davanti a palazzo Chigi, visto il prevedibile divieto di presentarsi nella capitale al volante dei loro Tir. La speranza degli autotrasportatori di Taranto è di essere ricevuti da Matteo Renzi. Vedremo.

La Stampa 13.2.15Israele. Elezioni politiche il 17 marzo
L’ultima parola sul voto spetta al giudice arabo che rifiuta di cantare l’inno nazionale
Salim Joubran conterà i voti ed annuncerà i risultati, sarà lui a dirimere eventuali contese
di Maurizio Molinari

qui

il manifesto 13.2.15
Israel Prize. Netanyahu versus Grossman
Il premio letterario a rischio dopo le interferenze del premier che ha rimosso due accademici in giuria, giudicati troppo estremisti e favorevoli allo scrittore di sinistra

qui

Repubblica 13.2.15
Israele
Polemica con Netanyahu Grossman rinuncia al premio

Gerusalemme David Grossman ha ritirato la sua candidatura dal Premio Israele di letteratura. L’ingerenza del premier Netanyahu ha prodotto l’effetto dell’autoesclusione di uno degli scrittori israeliani più noti al mondo.
Grossman, probabile vincitore del premio, si è ritirato per protesta contro il recente intervento dell’ufficio del premier sulla composizione della giuria, con l’esclusione di due giurati giudicati «estremisti» con idee pericolose.
«La mossa di Netanyahu», ha detto lo scrittore in tv, «è un sotterfugio cinico e distruttivo che viola la libertà di spirito, il pensiero e la creatività di Israele. Io rifiuto di cooperare con tutto ciò». Anche vari giudici si sono dimessi per protesta, mentre lo scrittore Abraham Yehoshua ha condannato come «stupido e non necessario» l’intervento di Netanyahu.

New York Times 12.2.15
Obama Signs Suicide Prevention for Veterans Act Into Law
by Peter Baker

qui, segnalazione di Marcella Matrone

Barbadillo 13.2.15
Idee. Heidegger e le epifanie metafisiche nella cultura europea del ‘900
di Giovanni Balducci

qui

La Stampa 13.2.15
Perdere il lavoro spinge a togliersi la vita
Uno studio in 63 Paesi della rivista scientifica The Lancet Psychiatry: la disoccupazione è responsabile di un quinto dei suicidi
di Paolo Mastrolilli

qui

Corriere 13.2.15
Beccaria, l’Adam Smith italiano al crocevia tra diritto e mercato
di Sergio Bocconi


Di Cesare Beccaria tutti sanno che è stato il nonno di Alessandro Manzoni e conoscono Dei delitti e delle pene , l’opera scritta a 25 anni che gli ha dato fama universale in un mondo allora più globale di quel che oggi si pensi. Meno note invece sono le sue «fatiche» di economista e civil servant. A questi capitoli poco esplorati Carlo Scognamiglio Pasini ha dedicato il libro L’arte della ricchezza. Cesare Beccaria economista (Mondadori Università, pagine 328, e 22). Professore emerito alla Luiss di Roma, già presidente del Senato e ministro della Difesa, Scognamiglio riesce in un’impresa tutt’altro che semplice: quasi con lo stile di un romanzo intreccia vicende umane ed evoluzione professionale e del pensiero di Beccaria. Il risultato fa giustizia di una evidente sottovalutazione ed è un affresco della Milano dei Lumi, tra le prove e i tormenti della sua élite, le tipicità sociali, il rapporto con il «dominatore» austriaco.
«Quest’oblio merita una riflessione. Nel campo dell’economia è difficile per noi italiani poter contare più di un autore per secolo che abbia raggiunto una posizione di massimo rilievo sul piano internazionale», scrive Scognamiglio, che sottolinea come la ricostruzione della figura di Beccaria sia stata resa possibile grazie in particolare all’edizione completa delle sue opere promossa da Mediobanca. E sull’oblio occorre meditare, tanto più se si considera che Joseph Schumpeter definisce Beccaria «l’Adam Smith italiano»: «Le somiglianze fra questi due uomini e i loro risultati sono impressionanti». E in effetti il suo libro Elementi di economia pubblica , dato alle stampe nel 1804, 10 anni dopo la morte dell’autore e 35 dopo le lezioni di Economia a Milano, che rappresentano il periodo in cui sarebbe stato scritto, presenta grande sintonia con La ricchezza delle nazioni di Smith.
Scrive Scognamiglio che in entrambi i campi, giustizia ed economia, il pensiero di Beccaria risulta «eversivo». Laicizza la giustizia penale, introducendo la distinzione fra «peccati» e «crimini» che sarà fondamentale per il pensiero illuminista. In economia sostiene che la fonte della ricchezza delle nazioni non è costituita da risorse naturali e agricoltura, come affermava la scuola di pensiero dominante nel Settecento, ma dal lavoro umano. E ritiene che «l’economia pubblica sarà l’arte di fornire con pace e sicurezza non solamente le cose necessarie, ma ancora le comode, alla moltitudine riunita». Annota l’autore che questa base del pensiero, elaborata da Beccaria dalle sue lezioni nel 1768, si troverà nell’incipit della Ricchezza delle nazioni , pubblicato nel 1776. In entrambi i casi viene disegnata la svolta che rivoluziona il sapere economico e recide il fondamento della rendita che sosteneva i ceti dominanti: aristocratici e proprietari terrieri.
Beccaria, eclettico tra mercantilismo e fisiocrazia, sostegno al libero mercato e anticipazioni del moderno welfare, lascia però incompiuto il capolavoro economico. Forse lo frena anche il carattere (che gli farà scrivere, come propria immaginaria epigrafe: «Visse la vita tranquillamente, con poca ambizione»). Incline alla depressione, Beccaria si reca su invito a Parigi nei salotti illuministi, ma mal sostiene l’ira dei fratelli Verri; rifiuta l’incarico di consigliere di Caterina II di Russia, coltivando la promessa di una cattedra di Economia «creata» per lui; lascia l’insegnamento guardato con sospetto di «eversione» ed entra nella pubblica amministrazione; si muove insomma con una prudenza non sempre in linea con il suo «genio». Ma non può che destare stupore l’originalità dei suoi atti di governo: i documenti redatti in 23 anni sono oltre 6 mila. La sua azione di riforma ha basi liberiste ma anticipa il keynesismo: abolisce le corporazioni; dà vita al Monte delle sete, primo istituto di credito industriale; propone rimedi alla disoccupazione, da una sorta di cassa integrazione alla spesa in lavori pubblici; prefigura l’introduzione di un sistema metrico decimale di misure e pesi; porta a una riforma monetaria ammirata in Europa. Anche questi provvedimenti restano in ombra per lungo tempo. Il racconto di Scognamiglio diventa dunque un tributo più che dovuto al «nostro Adam Smith».

Repubblica 13.5.15
Quando la guerra tra i credenti è soprattutto il trionfo dei bigotti
di Nicholas Kristof


NEL North Carolina, tre giovani musulmani attivi in opere di solidarietà sono stati uccisi da un uomo che si è definito ateo e ha espresso ostilità verso l’Islam e le altre religioni. La polizia sta indagando per capire se si sia trattato di un crimine d’odio, mentre su Twitter è stata lanciata una campagna con l’hashtag #MuslimLivesMatter. In Alabama vediamo dei giudici che si rifiutano di approvare i matrimoni «di ogni genere», perché altrimenti dovrebbero approvare anche i matrimoni omosessuali. In un sondaggio condotto l’anno scorso, il 59% dei cittadini dell’Alabama si è detto contrario ai matrimoni gay. In qualche modo ci si richiama a un Dio d’amore per impedire di unirsi a delle coppie di innamorati.
Sono notizie molto diverse. Ma mi chiedo se si possa trarre da entrambe una lezione sull’importanza di resistere alla bigotteria, di combattere l’intolleranza che può infettare persone di qualsiasi fede — o prive di fede. Non credo che i musulmani debbano sentirsi in dovere di chiedere scusa per gli attacchi terroristici al Charlie Hebdo. Né credo che gli atei debbano scusarsi per l’uccisione dei tre musulmani. Ma forse è utile che ognuno rifletta sulla nostra capacità di “alterizzare” persone diverse per fede, razza, nazionalità o sessualità — e di trasformare questa alterità in una minaccia. Questo è ciò che l’Is fa nei nostri confronti. E, a volte, questo è quello che facciamo anche noi.
Alcuni di voi starà protestando: questa è una falsa equivalenza. È vero, c’è una grande differenza tra bruciare viva una persona e il non concedere una licenza matrimoniale. Ma, ripeto, non è molto più che uno slogan dire «siamo meglio dell’Is!». C’è stato un pugnace atteggiamento difensivo tra i cristiani conservatori nei confronti di eventuali parallelismi tra gli eccessi cristiani e quelli islamici, come si è visto nella reazione indignata di fronte alla recente ammissione di Obama che anche l’Occidente ha molto da rimproverarsi. Obama ha perfettamente ragione: come possiamo chiedere ai leader islamici di combattere l’estremismo nella loro fede, se non riconosciamo l’estremismo cristiano, dalle Crociate a Srebrenica?
Abbiamo già esortato i musulmani a riflettere sull’intolleranza nel loro campo, e questa è un’occasione in cui i cristiani, gli atei e gli altri possono fare lo stesso. Anche il dramma legale in Alabama rievoca la fede, perché è un modo di affermare, battendosi i pugni sul petto, “sono più santo di te”. Trovo strano che tanti cristiani conservatori siano ossessionati dall’omosessualità, di cui Gesù non parla mai, mentre sembra non si preoccupino di problemi che Gesù sottolinea, invece, come la povertà e la sofferenza. Nel 2012, un sondaggio tra gli americani tra i 18 e i 24 anni ha rilevato che la metà descrive il cristianesimo attuale come «ipocrita», «moralista » e «anti-gay». E ancora di più sono quelli che considerano più immorale guardare la pornografia che avere rapporti sessuali con una persona dello stesso sesso. L’Alabama, ancora una volta, è dalla parte sbagliata della storia.
Papa Francesco è stato come una boccata d’aria fresca per cattolici e non cattolici, perché sembra meno moralista ed è più disposto a tendere una mano per aiutare. Dopo la tragedia nel North Carolina e il caos legale in Alabama, forse è un buon esempio per tutti noi. © The New York Times ( traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 13.2.15
Il satirico nell’imbarazzo
di Guido Ceronetti


SE MI fosse domandato di definire che tipo di scrittore sono, o sono stato, naturalmente risponderei: «Uno scrittore satirico». Ma la Satira, Dea di ogni tempo — occorre dirlo? — non ha che incidentalmente il fine di colpire persone del potere o genericamente la politica di un’epoca o di uno Stato (anche Città-Stato, esempio luminoso Atene). Bevendo latte di Graecia capta la scrittura arcaica romana adotta fin dal principio il meraviglioso dramma satirico plautino, che istruisce il popolo tra le risate, e annuncia le vette satiriche di Molière e dei suoi comici. La straordinaria libertà del linguaggio plautino è figlio della commedia antica di Aristofane. Creazione, come la tragedia della democrazia ateniese, non certo così estesa e liberale come le nostre, repubblicane.
La lettura erudita, esoterica, dell’immenso Gulliver di Swift, ha rivelato un segreto ordito di allusioni politiche legate ai costumi del tempo e a storie di Corte, di cui in realtà ai lettori di trecento anni dopo non può importare niente. Sono le tappe di quei fantastici viaggi ad attrarci, scopertamente, e là tutte le acuminate frecce satiriche del Decano hanno per unico bersaglio l’uomo, la vanità dell’esistenza e della storia umana. In questo fu ineguagliabile e rimane solo. Io credo di aver scoperto la mia vocazione satirica traducendo integralmente gli Epigrammi di Valerio Marziale e soprattutto le sedici Satire di Giunio Giovenale, il più cupo dei latini, il più prossimo in visione repulsiva del genere umano, di Swift, Bosch, Hogarth... La satira oraziana non dà ombre a Mecenate, e quella di Montale non inquietò Scelba; ma Giovenale scrisse il suo libro sotto Traiano, per poter alludere senza grane al precedente, nordcoreano, regime di Domiziano. Ne avrebbe oggi, da noi, democrazia liberale, ma butterata dalla sua degenerazione, in libertà di stampa condizionata. Giovenale avendo graffiato un poco, e con stile, le donne, gli omosessuali, i mores invisi ai Romani degli Ebrei, verrebbe denunciato per omofobia e antisemitismo, deplorato duramente dai comitati di difesa, dalle associazioni, dagli editorialisti, uscirebbe dai dibattiti con qualche osso fracassato. A Hogarth, che dipinge a tinte fosche i bevitori di gin (Gin Street) e loda le pance gonfie di birra (Beer Street) farebbero causa agli spacciatori di superacolici e manderebbero botti ogni capodanno delle loro schiume i birrai. Immane, violento, chiaroscurale satiro di avvocati, magistrati, predicatori politici, Honoré Daumier sarebbe perseguitato, al punto di dover emigrare in America, dalle loro corporazioni di unghioni lunghi. Una mia raccolta di testi satirici, che scherzava con un po’ d’acido su Andreotti e Moro (ovviamente, prima del rapimento), “La Musa Ulcerosa”, sparì invenduta dopo pochissimo tempo e oggi è venduta all’asta sulla Rete. Gheddafi, il compianto colonnello di Giarabub, minacciò di far saltare “La Stampa” per una elegante canzonatura negli anni di Arrigo Levi, autori Fruttero e Lucentini.
— Cosa vuoi?, mi diceva un grande satirico come Ennio Flaiano, non si può più fare satira su niente, ti querelano subito, io ho una causa coi marziani di Roma! — Gli risposi che poco mancò io ne ricevessi una dai pizzaioli per aver scritto che la dieta italiana, fondata sulla pizza (e adesso associata all’indigesto kebab) è un cibo che fa ammalare. E adesso, dopo una redazione massacrata a Parigi, vuoi ancora scrivere satire, pover’uomo? Ahimè! La nostra Musa è più che mai ulcerosa ( the cankered Muse la chiama Alexander Pope), e la libertà di esserne devoti è molto incerta, dove prevale il cretino.
Charlie Hébdo , con troppa facilità e rimozione di paura ne siamo sgusciati via, e Papa Francesco, col suo parallelo degli insulti alla mamma ne ha rimpicciolito le dimensioni catastrofiche. Un guerrasantista d’oggi non esiterebbe, a un comandamento divino come quello che fa ad Abramo alzare il coltello sul suo Isacchino, a sacrificare sua madre. E se un pugno è un pugno, Santità, un kalashnikov è un kalashnikov, una macchinetta per sterminare, e chi lo impugna per vendicare una negazione d’immagine, appartiene a una specie rara di psicopatia criminale. Ma per lo più non abbiamo definizioni che calzino davvero, queste apparizioni che si vanno riproducendo dappertutto scherniscono le nostre limitatissime percezioni razionaliste del Male. Altro freno, altre manette per il satirico che non sappia oltrepassare quei limiti. Posso dire, nel mio recinto d’impotenza, che confortava vedere alla marcia di Parigi la nobile barba del capo della Grande Moschea che c’è dietro al Jardin des Plantes.
Come direttore del settimanale non avrei pubblicato quelle vignette, per la loro bruttezza e volgarità essenzialmente, ma anche per consapevolezza responsabile dei rischi. Mettere così, ciecamente, la testa sul ceppo non è saggio né responsabile. Un vero satiro è un uomo avveduto, e il suo fine non è di sfidare un potere occulto che ignoriamo ma di castigare ridendo mores . Alla marcia avrei partecipato, conservando il diritto di riserve critiche di fondo.

Repubblica 13.2.15
Le metamorfosi esistenziali di Elias Canetti
La forza e l’attualità dello scrittore in una raccolta di aforismi inediti
di Franco Marcoaldi


FA un certo effetto pensare a Elias Canetti — così duro, determinato, tutto preso dal titanico progetto di «afferrare il secolo alla gola» — mentre se ne sta intento a preparare con delicatezza un libretto fatto a mano per la sua amica-amante, la pittrice Marie Louise von Motesiczky, in occasione del suo compleanno: il 24 ottobre del 1942. Quel manoscritto, dalla grafia minuta e chiara, in inchiostro blu, con pagine legate insieme da un cordoncino dorato, fu ritrovato tra le carte della pittrice dopo la morte ed esce ora per Adelphi nella traduzione di Ada Vigliani: Aforismi per Marie Louise ( pagg. 101, euro 12).
IL LIBRO
È un piccolo, quanto significativo tassello da aggiungere a quello strepitoso libro parallelo di appunti e aforismi , La provincia dell’uomo , che Canetti andò scrivendo per decenni nel dichiarato intento di allontanarsi almeno un poco dal claustrofobico impegno di Massa e potere — l’indefinibile “poema scientifico” che lo consacrerà come uno dei pensatori più originali e acuti del Novecento, e che ora sta per essere ripubblicato da Adelphi. Siamo in piena guerra e Canetti vede intorno a sé soltanto orrore e distruzione, ragione in più per affondare la lama del pensiero nella «mostruosa struttura » del potere, il cui primario intento è procurare la morte e allontanarla da sé: «La confusione, che ebbe origine allora, si chiama storia». Da qui dovrebbe prendere le mosse il vero illuminismo, e da qui, anche, dovrebbe partire un’indagine sulla proliferazione della massa e la sua supina ossessione nei confronti del potere. A maggior ragione nel Novecento, secolo in cui la morte ha rivestito «una forza di contagio che non ebbe mai prima» — assurgendo a figura onnipotente, «nocciolo stesso di ogni schiavitù».
Leggendo questi Aforismi per Marie-Louise si intravede già, in filigrana, la successiva, tenace trama che intercorre tra la morte, il potere e la massa — quella dell’uomo eretto e vivo di fronte all’uomo morto, a terra.
Perché l’individuo non crede mai del tutto alla morte finché non l’ha sperimentata in quella altrui. Superata, nella scomparsa altrui. Quando poi il senso di questa dissimulata soddisfazione diventa una passione insaziabile, colui che ne sarà invaso, «non più appagato dagli sparsi momenti di sopravvivenza offertigli dall’esistenza quotidiana », conoscerà finalmente il segreto del potente — che, nell’azzardo di Canetti influenzato dalla presenza terrificante di Hitler, va strettamente apparentato allo psicopatico, al paranoico. «L’idea di essere l’unico, unico tra i cadaveri, è decisiva sia per la psicologia del paranoico sia per quella del potente, che in tal modo spinge all’estremo il suo potere». Sorge da qui una domanda bruciante, vera e propria «quadratura morale del cerchio ». Se vincere è sopravvivere, come si può continuare a vivere senza essere vincitori? Solo facendosi “custode della metamorfosi”, suggerisce lui. Ovvero immedesimandosi in tutte le creature: comprese le più picco- le, ingenue, impotenti. Ecco perché, già in questi Aforismi, assumono un peso decisivo gli animali — continuamente offesi, eppure capaci di imprevedibili, illuminanti insegnamenti.
Per questo Canetti invita a diffidare di «tutte le filosofie che cercano di ricondurre la vita a un unico principio». Perché si tratta sempre di una riduzione, un impoverimento, un raggelamento. Mentre il suo obiettivo, al contrario, è quello di intensificare la circolazione del flusso vitale. «Nei passi forti della Bibbia troviamo questo grandioso battere e pulsare, e perfino quando l’uomo dorme e sogna, il suo sangue non conosce sosta».
Chi si trova a vivere nell’inferno bellico — per quanto cerchi di rimanere ragionevole — deve per forza ricorrere al sogno, alla visione, all’immaginazione più sfrenata. A maggior ragione se, come Canetti, è impegnato anima e corpo nell’allucinato tentativo di «bandire la morte», con ogni mezzo. Ivi incluso l’ascolto attento e costante delle voci dei morti — che scuotono e incalzano e tormentano i vivi.
C’è una pagina particolarmente toccante di questi Aforismi per Marie Louise , in cui l’autore di Massa e potere suggerisce una singolare modalità per tenere in vita, il più a lungo possibile, l’anima del morto. Evitate di parlarne bene a tutti i costi, ammonisce. Piuttosto litigate con lui e la sua memoria, mettete in luce aspetti sorprendenti del suo carattere — anche quelli più maligni, se necessario. Non ricorrete alla pietà, contrassegno del malcelato desiderio di renderlo inoffensivo: «Affinché il morto, nella sua impalpabi-lità, continui a vivere, bisogna consentirgli di muoversi». Per essere anche lui passibile di trasformazione, e quindi di metamorfosi.
* Aforismi per Marie-Louise di Elias Canetti (Adelphi)

Repubblica 13.2.15
Nella prossima guerra non ci saranno armi potremo solo morderci
di Elias Canetti


COMBATTONO tra le dita dei piedi, nell’ombelico, dentro le narici, combattono nel didietro, sotto le ascelle, dentro le orecchie e in bocca, non c’è luogo nascosto, non c’è palmo, non c’è poro, nelle cui profondità non combattano l’uno contro l’altro all’ultimo sangue.
Si aboliscono tutte le armi, e durante la prossima guerra non sarà consentito altro che mordere.
Troppo poco abbiamo studiato i cani: sono la quintessenza dell’”umano”, e quanto disumano è questo.
Chi adora il successo è comunque perduto: se lo ottiene, finisce per assomigliargli; se non lo ottiene, si strugge nel più falso degli aneliti.
La meraviglia vive del caso. Nella legge soffoca. Ormai riesce a ridere solo tra gli animali. Cercò di restare ragionevole all’inferno. La birra non ha più, per lui, il buon gusto di una volta: dal boccale sbircia la guerra.
In ciascuno di noi l’anima abita luoghi diversi: quest’uno ce l’ha nei polmoni, quell’altro nelle viscere; quest’una nel cuore e quell’altra nel sesso; in me si sente a suo agio nelle orecchie, più che da qualsiasi altra parte.
Gli attacchi di panico giungono con una regolarità che li rende sospetti: ci sono attacchi mensili, attacchi settimanali, attacchi diurni e notturni.
Si annunciano, come esistessero semplicemente per segnare il tempo.
Testi tratti da Aforismi per Marie-Louise (Adelphi)