domenica 15 febbraio 2015

L’apprezzamento di Renzi va in particolare a Pierluigi Bersani che «si è dato fare». Ma anche Gianni Cuperlo «ha lavorato bene». Persino di Stefano Fassina, uscito dall’aula e aventiniano come le opposizioni, Renzi dice:«era contrario alla riforma ma è stato intellettualmente onesto».
«Adesso basta — ha twittato ieri Bersani prendende le distanze da Boccia — accendere micce. Da domani si lavora perché l’Aula non sia mezza vuota»
Repubblica 15.2.15
Il premier ora punta sul Pd
“Berlusconi è nel caos i suoi in aula piangevano”
“È stata brutta ma il partito ha tenuto, tutti sono stati leali”
E la minoranza rivendica i “miglioramenti” ottenuti sul testo
di Francesco Bei


ROMA Non sarà buonismo veltroniano, ma il giorno dopo la prova di forza alla Camera Matteo Renzi è soddisfatto, addirittura «felice», e il suo primo pensiero va a un bene che ritiene di dover preservare: l’unità del proprio partito. Ancora più essenziale ora dopo l’incattivirsi del clima in Parlamento con le opposizioni. Per cui, posata la polvere della seduta fiume, il premier in privato dà atto alla minoranza di non aver giocato allo sfascio. «In Forza Italia è scoppiato il caos e noi rischiavamo di fare la stessa fine. Invece il Pd ha tenuto».
Un passaggio importante, che sarà valorizzato domani nell’intervento del segretario in Direzione. Perché il Pd abbia la consapevolezza di essere «l’unica architettura politico-istituzionale » su cui si può reggere il paese. L’apprezzamento di Renzi va in particolare a Pierluigi Bersani che «si è dato fare». Ma anche Gianni Cuperlo «ha lavorato bene». Persino Stefano Fassina, uscito dall’aula e aventiniano come le opposizioni, «era contrario alla riforma ma è stato intellettualmente onesto». Insomma, la conclusione è una conferma del carattere «aperto» del Pd: «Certo, abbiamo litigato, ma poi ci siamo ricomposti e tutti hanno votato. Invece il Movimento 5 Stelle si è tirato fuori e Forza Italia è spaccata». Ai suoi Renzi ha raccontato un particolare della nottata in aula che l’ha molto colpito: «C’era la deputata forzista Elena Centemero, rimasta in aula a controllare, che piangeva al momento del voto finale e continuava a ripetere: “Dovevamo esserci anche noi, non riesco a capire perché ce ne siamo andati”. Piangeva, capite?». Con Fitto rimasto sulle barricate e il gruppo parlamentare forzista diviso tra favorevoli e contrari al confronto con il governo, il premier guarda a Berlusconi con sufficienza. Come se ormai non fosse più un suo problema: «È costretto a inseguire i suoi, ha un casino in casa tremendo ».
Certo, nella narrazione renziana quell’immagine dell’emiciclo di Montecitorio semi-deserto stona, è un vulnus alla sempre sbandierata volontà di procedere con una larga maggioranza per non ripetere gli errori del passato. «È stata brutta — confida in privato — ma del resto anche ad agosto, al Senato, Lega e grillini erano usciti quando ci fu il voto finale. L’importante è avercela fatta, noi rispondiamo agli italiani non a Brunetta o Salvini». Certo, la minoranza dem continuerà a invocare il ritorno al tavolo delle opposizioni, ma senza strappi. «Adesso basta — ha twittato ieri Bersani prendende le distanze da Boccia — accendere micce. Da domani si lavora perché l’Aula non sia mezza vuota». Ma la linea, a parte gli oppositori a prescindere, sembra essere quella di rivendicare il tanto ottenuto nel serrato confronto interno con Boschi, Fiano, Renzi e compagni. Il costituzionalista dem Andrea Giorgis, bersaniano, elenca puntigliosamente tutti i «miglioramenti» del testo nel passaggio dal Senato alla Camera: «Parlare di deriva autoritaria è un’accusa ridicola. È stato innalzato il quorum per l’elezione del capo dello Stato, è stato introdotto il controllo pre-venti- vo della Consulta sull’Italicum, è stato soppresso il voto bloccato — un sì o un no — sui provvedimenti del governo. Potrei andare avanti: sono tutte modifiche che aumentano le garanzie per le minoranze e rafforzano il carattere parlamentare della forma di governo ». Per Giorgis insomma, chi parla di democrazia a rischio «forse non ha letto la riforma».
Dunque, passata la bufera ora che fare? Per Renzi sulle riforme è il caso di aprire una fase di decantazione, una sorta di moratoria di qualche settimana per lasciar passare altri vagoni del convoglio. Il prossimo consiglio dei ministri sarà dedicato alle partite Iva, al decreto legislativo sul «Fisco amico» e al decreto sul Job Act per ridurre i contratti precari. Dunque l’economia e il lavoro tornano in primo piano. Ma anche i diritti civili saranno mandati avanti, con il ddl sulle coppie di fatto omosessuali pronto a ricevere luce verde a palazzo Madama. Quanto allo ius soli, ovvero la cittadinanza per i bambini figli di stranieri ma nati in Italia, ci vorrà un po’ più di tempo. «Meglio aspettare le regionali», sussurra il premier. In modo da non regalare a Salvini un vantaggio propagandistico per le elezioni in Veneto.

il Fatto 15.2.15
Riforme, Zagrebelsky: “Siamo quasi al punto zero della democrazia”
Il costituzionalista è intervenuto nel dibattito "Meno democrazia?" organizzato dalle associazioni "Libertà e giustizia" e "I popolari" a Torino: "Bisogna interrogarsi sulle cause e su chi ha determinato le condizioni in cui ciò si è verificato"

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Corriere 15.2.15
Il peggior modo di riscrivere la Carta di tutti
di Michele Ainis


La Costituzione è un pezzo di carta, diceva Calamandrei: lo lascio cadere e non si muove. Per animarla serve un popolo, un sentimento. Viceversa adesso circola solo risentimento.
N essun dorma, canta il tenore mentre aspetta Turandot. E infatti i nostri deputati sono rimasti insonni per tre notti, insultando, strattonando, lanciando giavellotti. Troppi caffè, evidentemente. Ma dovremmo svegliarci anche noialtri, invece dormiamo come pargoli.
Perché è questa la nota più dolente: la riforma costituzionale cade nel silenzio degli astanti, benché lassù non ci facciano caso. Saranno i doppi vetri che proteggono il Palazzo: loro non ci sentono, noi non li sentiamo. Ma che cos’è una Costituzione? È un pezzo di carta, diceva Calamandrei: lo lascio cadere e non si muove. Per animarla serve un popolo, serve un sentimento. Viceversa adesso circola solo risentimento.
Non era così, ai suoi tempi. Nel 1946 si tenevano comizi in piazze affollatissime, si discuteva nei partiti, c’era in edicola perfino una rivista ( La costituente ), che accompagnò i lavori dell’Assemblea. Anche nel 2005, però, durante il parto della Devolution un fremito percorse gli italiani. Di qua i circoli di Forza Italia, di là i comitati Dossetti, le Acli, i sindacati. E l’anno dopo al referendum, benché senza quorum, votò il 53% degli elettori.
Ma adesso, alla partecipazione, è subentrata l’astensione. Le Politiche del 2013 hanno registrato l’affluenza più bassa della storia repubblicana. Nel 2014, in Emilia-Romagna, altro record negativo: si presentò alle urne il 37% appena degli aventi diritto. E nel frattempo la «cittadinanza sfiduciata» è diventata il doppio, osserva Carlo Carboni ( L’implosione delle élite - Leader contro in Italia ed Europa ).
Come ci è potuto accadere? Magari sarà colpa della crisi: a forza di stringere la cinghia, ci siamo trasformati in un popolo anoressico. Ma è soprattutto colpa loro, la nostra inappetenza. Basta fare un po’ di conti: in un paio d’anni hanno cambiato gruppo 184 parlamentari, uno su cinque. Correndo per lo più in soccorso del vincitore, sicché il Partito democratico ingrossa le sue fila, mentre da Scelta civica s’apre un esodo di massa. Ma questa no, non è una scelta civica.
Dopo di che il Pd timbra la riforma in solitudine, perché le opposizioni escono dall’Aula. O meglio, non in solitudine: con i transfughi, con i 127 deputati eletti in virtù d’un premio annullato poi dalla Consulta. Totale, 308 voti. Curioso: gli stessi che, nel novembre 2011, incassò Silvio Berlusconi sul rendiconto dello Stato. Lui ci rimise la poltrona, ora quel numero basta per correggere quaranta articoli della Costituzione. Che Forza Italia approva al Senato, disapprova alla Camera.
Dice: ma è cambiato il clima. E tu chi sei, un costituente o un meteorologo? Nel secondo caso, meglio dotarsi d’un ombrello. Fuori piove, cerchiamo di non bagnare anche la Carta.

il Fatto 15.2.15
Gli abusivi autoritari
Dormite sereni, la svolta autoritaria è già avvenuta
di Maurizio Viroli


Un Parlamento eletto in base a una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte stravolge una Costituzione approvata da un’Assemblea costituente eletta secondo un equo sistema proporzionale che garantiva piena rappresentanza a tutte le forze politiche. Il che significa che chi non ha potere pienamente legittimo, neppure per legiferare e governare, rovina la Carta fondamentale approvata da un’Assemblea costituente che aveva piena legittimità.
Una Costituzione approvata a larga maggioranza (quasi l’88% dell’Assemblea costituente) dopo lungo, serrato, colto e serio dibattito nelle commissioni e in assemblea plenaria, viene modificata a stretta maggioranza senza seria discussione. Il metodo delle larghe intese, osannato da tanta parte dell’opinione pubblica e apertamente sostenuto dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano vale dunque per formare il governo e legiferare, ma non per riformare la Carta fondamentale che definisce le regole per governare e per legiferare. Nessuna parola, nemmeno un monito da parte del capo dello Stato? E quale sarebbe la necessità impellente di abolire il Senato elettivo per sostituirlo con un Senato di nominati da istanze inferiori, consigli comunali e regionali, con potere di concorrere alla riforma della Costituzione? Nessuna.
ILLUSTRI COLLEGHI costituzionalisti di chiara fama affermano che non c’è alcun rischio di svolta autoritaria o antidemocratica. Hanno pienamente ragione. Non esiste alcun rischio in tal senso: la svolta autoritaria c’è già stata e consiste nel metodo usato per riformare la Costituzione. Svolta autoritaria secondo uno dei significati propri del termine: un uomo animato da volontà di dominio scatena contro le istituzioni repubblicane una pletora di servi che dipendono da lui per avere il privilegio di rimanere in Parlamento o di essere rieletti.
Addirittura Renzi si permette di minacciare i recalcitranti che se non passa la sua riforma della Costituzione “si va alle elezioni”, come se avesse il potere di sciogliere le camere! Dimentica, o fa finta di dimenticare, il dinamico riformatore, che sciogliere le Camere è prerogativa del capo dello Stato. Ma per Renzi questa distinzione, che è fondamento dell’ordinamento repubblicano, è troppo sottile: si sente già capo del governo, capo dello Stato e padrone del Parlamento.
I giuristi del XIV secolo parlavano di tirannide tacita o velata: niente armi, niente proscrizioni, niente esili. Bastano dei servi tenuti al guinzaglio con la vecchia minaccia di togliere loro i privilegi e con loro dare a un uomo un potere senza limiti. Possibile che i cittadini italiani, tranne piccole minoranze, non si rendano conto dell’inganno messo in atto contro la loro dignità? Pare, purtroppo, che sia così.

Repubblica 15.2.15
Renzi pressa l’Onu: “Pronti a guidare un’operazione militare”
di Alberto D’Argenio


ROMA I CONTATTI con i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono già partiti. L’Italia a Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna ha detto di essere pronta a guidare un’azione militare in Libia. Ovviamente sotto l’egida dell’Onu. Ma il tempo stringe e se al momento, almeno per il governo, la situazione sul terreno con l’avanzata dell’Is fino a Sirte non sembra del tutto compromessa, Roma vorrebbe agire al più presto. Magari entro la fine di febbraio, anche se i tempi al Palazzo di Vetro sembrano ben più lunghi.
Il premier Matteo Renzi ha lanciato l’offensiva libica in prima persona giovedì notte al Consiglio europeo di Bruxelles. «È una crisi importante e drammatica come quella ucraina», è stata la tesi del presidente del Consiglio, più sensibile dei partner nordeuropei allo scacchiere nordafricano, per spronare i colleghi a non perdere altro tempo per contrastare il caos libico. Uno scenario di guerra a poche miglia dalle coste europee, la possibilità di uno Stato islamico di fronte a casa, la totale perdita di controllo sui flussi di immigrati con conseguente tragedia umanitaria nel Canale di Sicilia. E il premier di fronte ai partner dell’Unione ha formalizzato la disponibilità italiana «a intervenire in Libia in presenza di un mandato delle Nazioni Unite».
Il governo italiano chiede il via libera del Palazzo di Vetro innanzitutto a quello che il premier definisce «un mandato diplomatico ». Significa prendere la leadership dei negoziati con le diverse tribù e fazioni libiche che si contendono il controllo di Tripoli finora guidati dallo spagnolo Bernardino León, inviato speciale delle Nazioni Unite i cui sforzi — peraltro appoggiati da Roma e da Lady Pesc Federica Mogherini — non sembrano in grado di sbloccare la situazione. Ma l’Italia, ha spiegato Renzi agli interlocutori internazionali, è più che disponibile a fare di più: «Siamo pronti anche a ricevere un mandato più concreto», ossia militare. Già, Roma per arginare il caos libico è pronta anche a guidare, mettendoci uomini e mezzi, una missione di interposizione tra le diverse parti in causa in Libia sul modello di Unifil in Libano. Ma le condizioni devono permetterlo, per un’azione di peacekeeping serve un difficile accordo preliminare tra i combattenti sul campo e un governo di unità nazionale, che al momento sembra lontano dal poter arrivare. Ecco la ragione per cui Roma vorrebbe prendere in mano i negoziati. Senza un accordo sul campo, invece, il governo avrebbe difficoltà a trovare il via libera del Consiglio di sicurezza ad un’azione di peace-enforcing, un’operazione di combattimento pura per ristabilire la pace che probabilmente non è nemmeno pronto a mettere in piedi. Ad ogni modo, guardando al più classico peacekeeping, «in tutti i contatti — racconta Renzi ai collaboratori con in quali esamina lo scacchiere libico — i partner internazionali dicono che l’Italia guiderà l’operazione dell’Onu ». L’Italia d’altra parte ha una presenza unica a Tripoli, la nostra è la sola ambasciata ancora aperta nella capitale libica e poi c’è la storica presenza di Eni sul terreno. E il governo è già al lavoro con contatti sul campo, visto che il piano di Renzi e Gentiloni in caso di missione Onu è quello «di coinvolgere i libici», o almeno alcune fazioni.
Ma il timore è che la risoluzione delle Nazioni Unite non arrivi entro la fine del mese di febbraio, mentre Roma ha fretta di mettere fine all’anarchia libica. Tuttavia l’analisi del governo non è ancora drammatica, non è da punto di non ritorno visto che per gli esperti del premier «nonostante l’avanzata dell’Is il quadro non è peggiorato in modo drammatico, la situazione è ancora relativamente stabile». Così come, per quanto sul fronte della sicurezza ci sia preoccupazione, da Palazzo Chigi e dal Viminale dopo le minacce dell’Is al ministro Paolo Gentiloni e al Paese l’allerta nelle ultime ore non è cresciuta: «Le cose — spiegano — non sono cambiate, per quanto la situazione sia delicata, il livello di allarme in questo momento non è aumentato».
Dunque lo scoglio, dal punto di vista del governo, ora è quello di accelerare i lavori al Palazzo di Vetro per avere quella risoluzione che l’Italia sta sollecitando dall’esterno del Consiglio di Sicurezza. Già, rassicurava i partner politici Renzi, «perché senza un mandato Onu non possiamo fare alcun passo». Sarebbe vietato dalla Costituzione e comunque al primo incidente sul terreno in patria si verificherebbe un vero e proprio uragano politico.

il Fatto 15.2.15
Il renziano Roberto Giachetti
“Matteo non ha i numeri Ma se va sotto si vota”
intervista di Luca De Carolis


“Renzi non vuole le elezioni, è convinto che il Paese non le reggerebbe. Ma se il governo andrà sotto su un qualsiasi provvedimento saranno inevitabili: e a oggi in Senato i numeri per approvare l’Italicum non ci sono”. Il deputato Roberto Giachetti, renziano della prima ora, chiede da tempo il ritorno alle urne. E ora torna a invocarle: “Sarebbe sufficiente ripristinare il Mattarellum, approvando una mia proposta di legge di cinque righe”.
Giachetti, perché vuole il voto?
Perché siamo costretti a procedere con un motore a due cavalli anziché quattro: la maggioranza uscita dalle precedenti elezioni non è omogenea, ma soprattutto una parte dei nostri gruppi parlamentari svolge un’azione di contrasto e di freno a prescindere, su qualsiasi cosa. Piuttosto che essere obbligati a mille mediazioni, meglio dare al presidente del Consiglio una maggioranza chiara.
Nonostante i mal di pancia, alla Camera la minoranza dem ha votato compatta per l’Italicum. Dall’aula sono usciti solo in tre, Civati, Fassina e Pastorino.
Quel gesto non è stato bello dal punto di vista dell’immagine. E comunque il problema è in Senato: la scorsa volta in 27 non hanno votato la legge elettorale, e sulla riforma costituzionale ci hanno tenuto appesi.
Teme trappole a Palazzo Madama?
La minoranza sa di poter essere più determinante, e quindi sarà ancora più attiva. E poi si è rotto il patto del Nazareno, con Forza Italia che non vuole più votare provvedimenti su cui era c’era un patto.
Renzi però fa incetta di responsabili...
I parlamentari arrivati nel Pd da Scelta Civica erano già in maggioranza, a livello di numeri non è cambiato nulla. E loro non sono assimilabili ai responsabili, che nascevano da tutt’altra storia, lo strappo di Fini dall’allora Pdl. Certo, può darsi che alcuni in Fi possano votare comunque per l’Italicum, che hanno già approvato in base a un preciso patto.
Ma se i forzisti tenessero sulla linea del no...
Se la maggioranza è quella di governo, senza i 27 senatori del Pd i numeri sull’Italicum non ci sono.
Niente margini per ricucire? Sul Quirinale il Pd è rimasto unito.
Su Mattarella c’è stata unità, ma quella è diventata una vittoria di tutti. C’è qualcuno che non ha più visto il suo nome sul giornale, e che trae più visibilità dalle divisioni...
Come si fa a tornare al Mattarellum, in termini pratici?
Basta approvare una mia proposta che abroga l’attuale legge, cioè di fatto il Consultellum, e ripristina la precedente. Tornando al Mattarellum il Pd prenderebbe quasi tutti i collegi, tranne qualcuno che al Nord andrebbe alla Lega. Soprattutto, si ripartirebbe da qualcosa che c’è già stato. La cosa più semplice.
Andrebbero ridisegnati i collegi.
Basta una delega al ministro dell’Interno, non serve una legge. E si potrebbe fare in tempi brevi: vanno ridefiniti, non riscritti da capo.
Per Renzi le urne sono una possibilità concreta?
Lui non vuole andare al voto, me lo ha ripetuto poche settimane fa: ‘L’Italia non ce la farebbe a reggere nuove elezioni, dobbiamo prima rimettere a posto il Paese’. Però il nodo rimane: quanto possiamo ancora andare avanti con uno scenario come questo?
Parlamentari di Fi assicurano che il premier li abbia sfidati: “Se non si procede con le riforme si va a votare, tanto vinco io”.
Non mi esprimo sulla veridicità dell’aneddoto, non c’ero. Ma è ovvio che se il governo ‘va a bagno’, sull’Italicum come su un altro provvedimento rilevante, non esistono terze ipotesi: si vota. È un dato di fatto.
I dissidenti dem che ne pensano?
Sanno perfettamente che Renzi non vuole le elezioni. Ma anche che determinate condizioni le renderebbero inevitabili.
C’è il tema Mattarella. Appena arrivato al Colle, dovrebbe sciogliere le Camere.
Ovviamente il presidente della Repubblica farebbe tutte le valutazioni del caso, come è giusto. Però, se il premier e segretario del partito di maggioranza si dimettesse...
Niente incarichi bis, insomma.
Mi pare molto improbabile. Renzi ha il diritto di avere una maggioranza omogenea, anche all’interno del suo partito.
Nell’attesa, sull’Italicum si è andati avanti anche di notte. Le opposizioni parlano di ferita alla democrazia.
Lavoriamo sulla legge da agosto, il tempo per discuterne c’è stato. Le opposizioni hanno trascorso due terzi del tempo in aula su questioni regolamentari, senza confrontarsi sul merito. Volevano solo contrastare il governo, mi pare evidente.

Corriere 15.2.15
Il travaglio della minoranza pd che si divide sulla linea dura
Bersani ferma chi vuole lasciare l’Aula al voto finale: no a altre micce
di Andrea Garibaldi


ROMA Il tormento della minoranza Pd: cosa fare adesso? Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio alla Camera, amico di Enrico Letta, dichiara: «La Costituzione deve essere amata da tutti gli italiani e un’approvazione con i voti di una sola parte mina questo obiettivo. Renzi apra una mediazione offrendo anche la possibilità di modificare il testo in Senato». Poi, annuncia che se le opposizioni non partecipano all’atto finale della riforma costituzionale, «non voterò in un Aula semivuota e questa è la posizione di tanti altri». Civati approva. Il senatore Chiti giudica che sia stato fatto «uno strappo senza vittorie reali». Poi un intervento di Bersani invita alla calma.
Anche altri sono più cauti, vogliono che in Parlamento tornino tutte le forze politiche ma, prima di decidere le contromosse, attendono sviluppi. Venerdì, nell’assemblea del gruppo pd, Bindi e Bersani si sono battuti per «il riavvio del dialogo» con le opposizioni. «E Renzi — testimonia Bindi — ha detto: “Faccio mio lo spirito degli interventi di Bindi e Bersani”. Confido che da subito il segretario si adoperi per questo». Rosy Bindi chiede «che ci siano segnali già prima del voto finale a marzo. Mi fa paura quell’aula vuota». L’ex segretario Bersani, in un tweet: «Basta accendere micce. Da domani si lavora perché l’Aula non sia mezza vuota». «Bisogna smetterla da entrambe le parti con le frasi muscolari», aggiunge davanti ai suoi collaboratori. Alfredo D’Attorre chiede «una iniziativa di Renzi nelle prossime ore, nel merito del provvedimento, una riapertura reale del confronto. Come minoranza pd, dobbiamo lavorare per riportare le opposizioni in Aula e non per uscire anche noi. Boccia parla a titolo personale».
Minoranza del Pd, dopo l’uscita dall’Aula delle opposizioni di destra e di sinistra sulle modifiche costituzionali. Civati e Fassina non hanno votato con il loro partito. Gli altri non renziani della Camera — più di cento — hanno votato, ma adesso è un altro giorno: il capitolo conclusivo sarà prima della metà di marzo, con le dichiarazioni finali, e la minoranza chiede a Renzi «il possibile» per far tornare nell’emiciclo i nuovi «aventiniani».
Spiega Miguel Gotor, consigliere e amico di Bersani: «Le riforme devono andare avanti, ma Renzi trovi un nuovo punto di equilibrio: unità del Pd e ricostruzione del dialogo con le opposizioni, senza esclusività e ricatti del “Patto del Nazareno”». Insiste: «Il patto con Berlusconi è stato usato come una clava nei confronti di tutti gli altri. Ora Renzi deve riconquistare autonomia da Berlusconi e passare dalla clava al fioretto». Gotor chiede anche di smettere con la retorica «niente riforme negli ultimi venti anni»: «Nel 2001 e nel 2005 se ne sono fatte due, Titolo V della Costituzione e federalismo, ma tutte e due in fretta e male». E adesso non si deve riformare la Costituzione «in un clima da saloon, non siamo Bud Spencer e Terence Hill».
Di fronte all’annuncio di Boccia, Rosy Bindi vuole il rispetto di tutti i passaggi: «Aspettiamo le mosse del segretario e valuteremo. Dichiarare oggi che a marzo non voteremo significa non dare fiducia alle parole di Renzi. E offrire un pretesto per non riprendere il dialogo». Il dialogo ha due attori e dunque Bindi spera nella «disponibilità di tutte le opposizioni». Bersani vuole ritrovare «il filo del confronto in particolare con Sel».
Il capogruppo Roberto Speranza, che con pazienza ha cercato di evitare la rottura, ricorda che lo spostamento della dichiarazioni di voto a marzo ha già avuto «un significato di apertura, perché avremmo potuto chiudere venerdì.Ora lavoriamo tutti per riprendere il filo».
In serata, il presidente del partito, Orfini, lancia un velenoso tweet verso la minoranza: «Presente quelli che spiegano che fare le riforme senza le opposizioni è brutto? Sono gli stessi che se la prendevano col Patto del Nazareno». Renzi, per ora, non manifesta progetti di mediazione.

il Fatto 15.2.15
Montecitorio by night
La badante Boschi porta il caffè a Renzi

di fd’e

È notte ed è già San Valentino. Nell’aula vuota di Montecitorio, dopo le urla e le botte, Maria Elena Boschi è sola ai banchi del governo. Si vota fino alle due e quarantacinque. La ministra delle Riforme è stanca, ha il volto pallido come la giacca. La solitudine è un cioccolatino da scartare e da mordere con dolcezza. Dopo un po’ però arriva lui. Il premier. Renzi. “Matteo”, semplicemente. La seconda notte a Montecitorio del presidente del Consiglio.
Durante la prima, tra giovedì e venerdì, c’è stata la baraonda delle opposizioni, poi finite sull’Aventino. E “Matteo” dapprima minaccia l’azzurra Bergamini, “se non votate le riforme si va al voto anticipato”, poi va a sedersi accanto a “Maria Elena”. Lei è premurosa. Il premier vuole un caffè. E la ministra provvede. Il premier vuole un caricabatteria per lo smartphone. E la ministra provvede, ancora una volta. Il rapporto tra Renzi e i suoi ministri è stato spesso descritto come “dispotico”, senza tolleranza per le opinioni altrui. Con la Boschi è diverso. Gli ordini, le richieste diventano sussurri mai gridati, mai imposti. La ministra è una badante contenta di prendersi cura del suo premier.
Da soli al banco, i due attendono l’alba di San Valentino. È l’immagine di una riforma che nasce come il sole. Renzi e la Boschi sono il papà e la mamma della nuova Costituzione. Due teste e un monocameralismo. Il renzismo è questo. Solo il berlusconismo può evocare precedenti simili. Ai tempi del montismo, per esempio, la Cancellieri non avrebbe mai scartato un cioccolatino, aspettando il Professore dal loden verde.
L’ex Cavaliere, secondo la leggenda di Palazzo Grazioli, il caffè se lo faceva portare da Angelino Alfano, maggiordomo politico poi scissionista nel momento del dolore più grande, quello della decadenza del Condannato. In ogni caso, per i capi carismatici, per gli uomini soli al comando, funziona sempre così. Tra la richiesta di un caffè e quella di un provvedimento legislativo il confine è sottilissimo. Spesso non c’è. In fondo, ai suoi parlamentari, Renzi ha chiesto di approvarsi da soli le riforme della Costituzione come se fosse proprio un caffè da bere durante la notte, con la ministra prediletta accanto.

il Fatto 15.2.15
Quel che resta della sinistra sfila a Roma per Tsipras
Pippo Civati, Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre
Maurizio Landini, Susanna Camusso, Nichi Vendola e Luciana Castellina
di Carlo Di Foggia


La galassia è al completo, per una volta unita. I mille volti del soccorso rosso alla Grecia in bilico si snodano in un serpentone che si incunea in una Roma languida, distratta. Stupita soprattutto dal dispiegamento di forze spropositato. Sabato di metà febbraio, a piazza indipendenza la sinistra italiana corre in aiuto di Alexis Tsipras.
Mentre a Bruxelles si tratta oltranza – lunedì il verdetto dell'Eurogruppo - nella Capitale si alza il sipario della solidarietà europea. Madrid e Parigi seguiranno oggi, “inseme a decine di città dentro e fuori la Grecia”, ci spiega emozionato Argiris Panagopoulos, dirigente di Syriza. Domani a Bruxelles il ministro dell’economia Yanis Varoufakis chiederà un prestito-ponte per superare la fine del programma della Troika (scade il 28, ed è già stato ripudiato), cercando un accordo per rendere sostenibile il debito pubblico. La Grecia dipende dai prestiti internazionali (240 miliardi), ma è isolata, neanche gli altri paesi che hanno sperimentato la Troika la sostengono: non l’Irlanda e il Protogallo, non la Spagna alle prese con le elezioni di novembre e la cavalcata di Podemos, il partito di sinistra che terrorizza il governo Rajoy.
L'APPUNTAMENTO parte lento, poi a migliaia sfilano fino al Colosseo. Ci sono i sindacati, pezzi del Pd minoritario, Pippo Civati, Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre. Ci sono gli studenti, i movimenti e le associazioni. Molti figli, tantissimi padri: una demarcazione generazionale che segna il corteo. Aprono i volti noti, dal leader della Fiom Maurizio Landini e della Cgil Susanna Camusso, a Nichi Vendola. Chiudono i pro-Tsipras filorussi dell’Odessa: ucraini russofoni che denunciano i “crimini dei fascisti filo-europei” e chiedono al leader di Syriza di allearsi con Putin. In mezzo, studenti, collettivi e centri sociali. Una parte si stacca per andare sotto la rappresentanza della Commissione Ue a Roma, a pochi passi da piazza Venezia. Nessun incidente. La musica dai camioncini scandisce la marcia: Bella ciao, esportata in Grecia dalla brigata Kalimera - la pattuglia rossa che ha invaso Atene durante le elezioni - insieme al repertorio classico, gli Inti Illimani, Patti Smith, i 99 posse. Sfila anche il ventre molle del disagio sociale, che nessuno racconta più. C’é Lorenzo che non trova lavoro e rischia lo sfratto; Luca che sta per andare in Albania; Damerae, Giamaicano, ex addetto ai carrelli dell’Ikea di porta di Roma: “Il mio contratto è scaduto. Non me l’hanno rinnovato”, spiega alzando un cartello con scritto “viva Tsipras”. Poi ci sono i bancari della Cgil, che lottano per il rinnovo del contratto. Lo speaker dal camioncino urla contro “l’Europa dei banchieri”. “Non è un controsenso - sorride Paolo - Siamo stati le prime vittime della finanza spietata”.
L’obiettivo è il messaggio. Nessuno teme un passo indietro di Tsipras. “È rivoluzionario anche solo che ai vertici Ue tutti cerchino di incontrarlo, studiarne le mosse”, spiega Luciana Castellina, figura storica della sinistra italiana: “Poi ho visto due grillini, anche questo è rivoluzionario”. Paolo Ferrero (Rifondazione): “Solo un pazzo può pensare che si vinca in un giorno: comunque vada sarà un successo”. “Renzi decida: sta con Merkel o con il leader Greco? ”, chiede Landini. Da che parte sta lo chiedono anche a Pippo Civati, fermato continuamente: “Quando lo spacchi ‘sto Pd? ”, gli chiede un militante, mentre una signora lo prega di non lasciarlo. Lui ci scherza: “È sempre così, anche al bar”. Poi torna serio: “La battaglia greca non interessa al gruppo dirigente del pd, e Renzi ha bluffato con Tsipras”. Nessuno condivide l’analisi di Stefano Rodotà, che pochi giorni fa non ha usato parole dolci per i dirigenti della sinistra radicale italiana. Unica eccezione, Moni Ovadia: “La sinistra è ormai una galassia di narcisismi e gelosie identitarie. Una storia si è conclusa. O facciamo subito un unico soggetto, come in Grecia e Spagna, o saremo una generazione di falliti, e i nostri figli dovranno sputare sulle nostre tombe. Vedrete, lo dirò anche dal palco”.
INTANTO il corteo arriva al Colosseo. Gli speaker ricordano i sondaggi che danno Syriza in ascesa vorticosa. “Ci stanno rafforzando - spiega Panagopoulos – Rincoglioniscono gli italiani con la storia che perderanno 40 miliardi, ma non è così. Alla Germania non interessano i debiti, ma il lavoro e le privatizzazioni: vogliono che cancelliamo i contratti collettivi, come in Italia, e tagliamo le pensioni. Invece combatteremo l’evasione fiscale: in Grecia le grandi aziende tedesche hanno vinto appalti con le mazzette”. Al tramonto il corteo si dirada, resta un migliaio di persone ad ascoltare il comizio. Dopo tanti appelli, sale Ovadia: mantiene la parola. Gli applausi lo sommergono.

Corriere 15.2.15
Fiat Chrisler Automobiles
Pomigliano, allo sciopero della Fiom aderiscono in cinque su 1.478
La protesta contro i sabati di lavoro straordinario richiesti dall’azienda

qui

Corriere 15.2.15
Il flop clamoroso dello sciopero della Fiom
A Pomigliano trionfa il (buon) senso pratico
di Marco Demarco


A Pomigliano, solo in 5 hanno aderito allo sciopero della Fiom. Al di là del dato, che si commenta da sé, ecco un caso in cui morale e buon senso si dividono; in cui i buoni princìpi entrano in conflitto con l’istinto pratico e alla fine soccombono.
   Tutto succede dove si produce la Panda, nello stabilimento ora dedicato — vedi il caso — a Giambattista Vico. Non fu lui a contrapporre lo specifico all’universale, il concreto all’astratto? Accade, dunque, che grazie al felice andamento del mercato, servano più utilitarie. L’ultima versione della Panda piace molto agli europei. Il management di Fiat Chrysler decide di intensificare la produzione, e di farlo velocemente, prima che i clienti si stanchino di aspettare. A Pomigliano, dove la crisi ha fatto molto male, ci sono circa 2.600 lavoratori in fabbrica e poco meno fuori, in cassa integrazione permanente. Anche i primi hanno turni di fermo, ma non sempre, e comunque sanno che dopo qualche giorno possono tornare a lavorare. Gli altri non hanno certezze. Alle prese con l’offerta da ritoccare, l’azienda decide non solo di annullare il ciclo di cassa integrazione degli «interni», ma anche di indire tre giorni di lavori straordinari. Il primo ieri, i prossimi il 21 ed il 28 febbraio. All’annuncio che di sabato, e per tre volte consecutive, l’impianto resterà aperto, la Fiom insorge.    «Uno sciopero senza senso, perché è contro il lavoro», dicono gli altri sindacati. Macché. «Il ricorso allo straordinario con duemila lavoratori a casa è immorale» è la replica. Se c’è più lavoro — dicono i sindacalisti di Landini — bisogna distribuirlo a tutti, e automatica scatta anche la citazione di papa Francesco, quella sulla solidarietà. Risultato: un flop clamoroso. Vuol dire che ha vinto il senso pratico, perché altrimenti non avrebbe lavorato nessuno, e che ora sarà più agevole spingere l’azienda ad aumentare i livelli di occupazione. Ma almeno c’è stato chi si è battuto per il principìo astratto. Anche a Vico sarebbe andata bene così.

Repubblica 15.2.15
Né Renzi né l’Europa né la Germania conoscono se stessi
di Eugenio Scalfari


Il terribile guaio di questi tempi oscuri è che neppure la Ue sa chi è Dovrebbe mirare a essere uno Stato federale, ma i suoi governanti non cederanno la loro sovranità“
MATTEO Renzi è contento: malgrado l’assenza aventiniana d’una opposizione molto variegata, gli articoli della riforma costituzionale del Senato sono stati approvati a notte fonda tra venerdì e sabato, e soprattutto il Pd è rimasto compatto anche se il dissenso della sua ala sinistra è tuttora esistente. Lo sarà ancora di più quando tra alcune settimane sarà discussa in aula la quarta lettura della legge elettorale.
Ma dovrà fare i conti con un dissenso che, soprattutto sulla riscrittura della Carta, è diffuso tra i partiti e molto motivato: l’abolizione del Senato comporta un indebolimento del potere Legislativo e un rafforzamento dell’Esecutivo che può indurre a imboccare la strada d’un governo autoritario. Personalmente lo dico e lo scrivo da molto tempo; adesso lo dice anche Berlusconi che fino a ieri quella legge l’aveva approvata ma lui, lo sappiamo, cambia parere secondo le sue convenienze.
Ho ascoltato venerdì scorso, nella trasmissione televisiva guidata dalla Gruber, due colleghi politicamente esperti, Paolo Mieli e Giampaolo Pansa, che sostenevano entrambi questa tesi: Bettino Craxi e il suo partito socialista sostennero 35 anni fa quella che chiamavano “Grande Riforma” che assegnava appunto al Capo del governo tutti i poteri, come esistono da tempo in Germania con il Cancellierato e in Gran Bretagna con la supremazia del Premier. Ma la “Grande Riforma” craxiana non fece un solo passo avanti e non fu mai ripresa dai governi che gli succedettero, condizionati e taluni addirittura sconvolti da Tangentopoli. Adesso è finalmente arrivato Renzi che lotta efficacemente per il cambiamento, anche e soprattutto per quanto riguarda il potere Esecutivo.
IL CAMBIAMENTO può essere positivo o negativo e a questo aspetto della questione bisogna dare molta attenzione.
Questo rimpianto craxiano mi sembra significativo ed è un (pessimo) precedente per Renzi. Stupisce che il suo partito lo segua compattamente. La dissidenza di partito è motivata dal fatto che i parlamentari eletti dal popolo hanno ottenuto il consenso sulla base del programma del partito cui appartengono e quindi è loro compito di essere fedeli ad esso.
L’argomento è sostenibile ma il paragone è improprio, visto che i parlamentari del Pd che siedono in Parlamento hanno sostenuto nelle ultime elezioni il programma di Bersani e non quello di Renzi che ancora era nell’ombra. E poi: la Costituzione prescrive con apposito articolo che «ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione senza vincolo di mandato ». La Lega e il Movimento di Grillo vorrebbero abolirlo e sancire che il parlamentare in dissenso col proprio partito deve comunque votare come prescritto dagli organi deliberanti oppure dimettersi dal Parlamento.
Tutte le persone ragionevoli hanno giudicato la posizione dei leghisti e dei grillini come un incitamento alla dittatura nei partiti e quindi nel Paese, ma la riforma del Senato è un passo su quella strada. E chi ne dissente nel Pd dovrebbe votarla per disciplina?
Sul Corriere della Sera di ieri Antonio Polito nel fondo di prima pagina ha scritto commentando il voto notturno sulla legge elettorale in una seduta che Repubblica ha definito un “rodeo”: «Questo Parlamento è il più disossato nella storia della Repubblica, in cui alcuni partiti hanno come obiettivo quello di spaccare gli altri mentre i partiti che vorrebbero unire sono spaccati » è un’immagine efficace ma non completa. Nella realtà tutti i partiti non sanno chi sono e procedono perché c’è un boss che li comanda. Da solo. Sicché la definizione più aderente la riservo ad una poesia di François Villon di cui riporto i pochi versi che ci riguardano: «So riconoscere il monaco dall’abito / So distinguere il servo dal padrone / So riconoscere il vino dalla botte / So distinguere un cavallo dal mulo / So vedere chi sta bene e chi sta male / So tutto ma non so chi sono io».
Chi è a questo punto il Partito democratico? Sa tutto ma non sa chi è lui e non lo sappiamo neppure noi che lo osserviamo, così come non sappiamo chi sono i grillini e chi i berlusconiani.
* * *
Ma Renzi lui sa chi è lui? Bisognerebbe interrogarlo e magari vivergli accanto per sapere chi è veramente ed anche chi crede di essere.
A vedere le cose da lontano è difficile farne un coerente ritratto. Berlusconi ha detto più volte che Renzi era il suo “figlio buono”, di fatto il suo clone in bella copia, senza il difetto del bunga bunga (ma questo Berlusconi non l’ha ricordato).C’è una parte di vero in questa adozione berlusconiana ma non coglie completamente il suo modo d’essere e il suo carattere. È certamente un carattere forte, dove narciso gioca la sua partita. Un narciso un po’ provinciale che rasenta il bullo di quartiere. Però coraggioso, però intelligente, però volitivo. L’elezione di Mattarella fu un capolavoro e gli va riconosciuto. Ma proprio nella seduta di ieri notte Renzi ha detto ricattando i destinatari delle sue parole, sia esterni sia interni al Pd: «Se questa legge non sarà approvata andremo a nuove elezioni» dimenticando che lo scioglimento delle Camere non spetta a lui ma al Capo dello Stato. E qui si vede il narciso di provincia e il bullo di quartiere.
Ora Mattarella, su loro richiesta, riceverà i gruppi parlamentari dei partiti. Cercherà di pacificarli e far sì che le leggi di riforma elettorale e costituzionale siano approvate col più largo consenso o almeno senza le risse da rodeo. Poi darà il suo parere sul merito solo quando le leggi approvate andranno alla sua firma per la loro promulgazione.
Il Presidente ha appena lasciato dopo cinque anni la sua carica di giudice costituzionale ed ha quindi tutte le conoscenze per sapere se le leggi sono conformi oppure no. È un arbitro che sa vedere i falli e fischiarne la punizione. Speriamo vivamente che così si comporti, anzi ne siamo certi.
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Il terribile guaio di questi tempi oscuri è che neppure l’Europa sa chi è lei e neppure la Germania lo sa. Sa vedere la mosca nel latte, come diceva Villon, ma non sa chi è. L’Europa dovrebbe mirare dritta ad essere uno Stato federale e la Germania dovrebbe spingerla in quella direzione sapendo che sarebbe lei ad esserne la guida più autorevole. Ma i governanti europei non cederanno la loro sovranità e la Germania preferisce arbitrare che scendere in campo da giocatrice. Ci fu un tempo in cui sperava e voleva arbitrare tra Ovest ed Est, ma ora che Putin rimpiange l’Unione Sovietica e il suo impero, la “Ostpolitik” tedesca è diventata impossibile tanto più con la moneta unica.
Europa e Germania non sanno chi sono perciò brancolano mentre l’emergenza incalza. Vi ricordate i tempi di Eltsin che imperava a Mosca in perenne stato di ubriachezza molesta?
Putin beve poco, nuota come Mao, è sobrio e atletico. Lui sa chi è. Anche al-Sisi, il presidente egiziano, sa chi è. Anche Erdogan. Anche il Califfo. Anche l’Arabia Saudita, la Cina, il Brasile, sanno chi sono. In India c’è molta incertezza. Ma chi non l’ha mai saputo è purtroppo la Libia, che Gheddafi teneva sotto il tallone. Adesso la Libia non esiste più. C’è una fazione che occupa la provincia di Tobruch, gli islamisti dominano a Bengasi e a Tripoli, il Califfato a Derna e a Sirte. Questa è la situazione sulla costa africana che ci fronteggia.
Il nostro ministro degli Esteri ha visto giusto: a questo punto ci vuole un intervento militare autorizzato dall’Onu che intervenga a Tripoli e in tutto il territorio per ragioni addirittura di ordine pubblico. Ma sarà data quell’autorizzazione? Da un Consiglio di sicurezza in cui siedono tra gli altri la Russia e la Cina? E l’Europa non potrebbe gestire la sua politica estera in quella direzione? Nella guerra contro Gheddafi la Germania si rifiutò di intervenire neanche attraverso la Nato.
Immagino che Renzi la pensi come il suo ministro degli Esteri e intervenga anche lui sulla stessa linea. Queste sono le belle battaglie che narciso dovrebbe combattere perché gli darebbero molta più soddisfazione delle miserie d’un Parlamento a se stesso sconosciuto.

il Fatto 15.2.15
Cose loro
La banca del buco: all’Etruria prestiti facili ai soliti amici
di Davide Vecchi


IL CDA APPROVÒ UNA NORMA CHE CONSENTIVA AI MANAGER DI ELARGIRE FINO A 20 MILIONI CON UNA SEMPLICE FIRMA

Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio è l’unico istituto di credito quotato in Borsa sottoposto a commissariamento. I primi dati ufficiali parlano di una esposizione complessiva di circa 3 miliardi di euro, tra sofferenze e debiti verso altre banche, a fronte di un patrimonio netto di appena mezzo miliardo di euro. Ed emerge la tendenza della banca a elargire prestiti facili. Non solo, ma il Consiglio di amministrazione – ha riportato ieri Repubblica – si era approvato una norma nel regolamento che consentiva ai membri del board di ottenere fino a 20 milioni di euro in affidamenti per se stessi, sue società o amici. Il tutto con una semplice firma.
IL LAVORO dei commissari di Bankitalia nominati mercoledì dal ministero dell'Economia si annuncia decisamente delicato e promette molte sorprese. Scoperchiare i segreti di una banca è sempre garanzia di trasparenza. Quando i conti del Credito Cooperativo Fiorentino finirono in Procura si scoprì che il presidente Denis Verdini aveva usato quella banca come bancomat per gli amici, a cominciare da Marcello Dell'Utri cui aveva concesso una linea di credito illimitata e senza garanzia che superò i 10 milioni di euro. L'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena è stato un altro vaso di Pandora. Si scoprì che dalle casse della sola Fondazione uscirono oltre 17 miliardi di euro in appena quattro anni e distribuiti a pioggia ad associazioni di amici, politici, imprenditori. Sarà un caso dunque che i vertici di Banca popolare dell'Etruria stiano valutando di presentare ricorso al Tar contro il commissariamento. Ma la situazione dell'istituto, a quanto ha spiegato la stessa Banca d'Italia, è a dir poco drammatica. Mediobanca ha registrato in Banca Popolare dell’Etruria crediti dubbi alla clientela per 1,69 miliardi di euro, pari al 22,9%, il livello massimo tra le banche popolari; di queste, 770 milioni di euro sono sofferenze. I crediti dubbi valgono tre volte tanto il patrimonio netto. I commissari straordinari, Riccardo Sora e Antonio Pironti, su richiesta Consob hanno comunicato che “di seguito a quanto già rappresentato al mercato, risulta ampliata la situazione di insufficienza patrimoniale del gruppo rispetto ai requisiti prudenziali”, pertanto “non risulta possibile fornire elementi di dettaglio sulla situazione della banca”. I problemi dell’Etruria erano già stati evidenziati in un’ispezione di Bankitalia nel corso del 2013 e conclusasi nel 2014 con una multa di oltre due milioni di euro ai vertici, tra cui a Pier Luigi Boschi, padre del ministro per le riforme Maria Elena. Perché va ricordato che la vicenda riguarda anche un esponente del governo. Non solo perché figlia dell’ormai ex vicepresidente (presente nel cda dal 2011), né perché possiede azioni (poche) della banca e né perché nell'istituto lavora anche il fratello Emanuele, ma per il decreto varato a sorpresa dall'esecutivo il 20 gennaio che obbliga le popolari a trasformarsi in società per azioni. Decreto che ha movimentato gli acquisti sui titoli di queste banche, in particolare di quella dell’Etruria che ha registrato un aumento del 62% in pochi giorni. Movimenti dubbi su cui Consob e Procura di Roma hanno già avviato indagini.
Non è dunque una partita semplice quella che si trovano di fronte i commissari di Bankitalia ma che, come detto, già conoscevano la situazione dell’Etruria. Fotografata in una relazione redatta dal governatore Visco il 23 settembre 2014 nella quale si elencano tutte le problematiche dell'istituto individuate dalla Vigilanza. In particolare sei irregolarità: “Violazione delle disposizioni sulla governance”, “carenze nell’organizzazione e nei controlli interni”, “carenze nella gestione e nel controllo del credito”, “carenze nei controlli”, “violazioni in materia di trasparenza”, “omesse e inesatte segnalazioni agli organi di vigilanza”. Una relazione che spinse Bankitalia a multare i vertici dell’Etruria per complessivi 2,5 milioni di euro. Pier Luigi Boschi fu multato per 144 mila euro.
INOLTRE I VERTICI della banca furono costretti a rinnovarsi e invitati a trovare una soluzione per il già grave deterioramento del patrimonio: trovare una banca con cui potersi unire così da assorbire le perdite. Ma i tentativi sono andati a vuoto e la semestrale presentata a settembre registrava già 3 miliardi complessivi di sofferenze. Infine mercoledì, mentre il cda si stava riunendo per registrare i conti, Bankitalia è stata costretta a chiedere il commissariamento dell'istituto.
Da domani si apre una settimana complessa per la popolare, esclusa dalle contrattazioni di Piazza Affari. Da banca dell’oro a banca del buco.

il Fatto 15.2.15
Rivelazioni
La borsa di Calvi e la trattativa Vaticano-Carboni
di Fabrizio d’Esposito


GLI ULTIMI GIORNI DEL BANCHIERE PRIMA DEL “SUICIDIO” RACCONTATI DAL GIUDICE CHE INDAGÒ SULLA MORTE

Alle cinque del pomeriggio del 17 giugno 1982 Flavio Carboni telefona a Roberto Calvi. Il faccendiere dice al banchiere in fuga a Londra che gli ha trovato un nuovo alloggio. Calvi è nella stanza numero 881 del Chelsea Cloisters, un alveare malandato di 430 stanze. Un dormitorio di basso livello. Prepara le valigie, due, e si cambia d’abito. Ha una borsa nera che contiene lettere, documenti, le chiavi di due cassette di sicurezza alla Ultrafin di Zurigo, in Svizzera. I baffi sono più sottili, se li è spuntati. Con lui c’è Silvano Vittor, contrabbandiere triestino, amico di Carboni. A Londra, il 17 giugno 1982 il sole tramonta alle 21 e 21. Intorno alle 22, Calvi esce dalla stanza numero 881 e prende l’ascensore, accompagnato da due sconosciuti. In quel momento al Chelsea Cloisters arriva Carboni ma si rifiuta di vedere Calvi. Con Vittor va in un pub. Raggiungono le loro amanti, due sorelle austriache, Michaela e Manuela Kleinzig.
Mille milioni a Solidarnosc
Che mi siano restituite tutte le somme da me devolute per i progetti riguardanti l’espansione politica ed economica della Chiesa; che mi siano restituiti i mille milioni di dollari che, per espressa volontà del Vaticano, ho devoluto in favore di Solidarnosc; che mi siano restituite le somme che ho impegnato per organizzare centri finanziari e di potere politico in cinque Paesi dell’America del Sud, somme che ammontano a 1,75 milioni di dollari.
Lettera di Roberto Calvi, priva di data e di destinatario
Il “suicidio”
La mattina del 18 giugno, su una riva del Tamigi, Anthony Huntley va di corsa al suo lavoro di impiegato delle poste. Sono le 7 e 25. Huntley si ferma d’improvviso. C’è un corpo che penzola, legato con una corda a un traliccio del Blackfriars Bridge, il Ponte dei Frati Neri. A Londra, le sponde del Tamigi hanno due polizie diverse. La sponda dell’avvistamento segnalato dall’impiegato è di competenza della City Police, non di Scotland Yard. La City Police è alle dirette dipendenze del duca di Kent, cugino della regina e capo della massoneria d’Inghilterra. Il cadavere viene portato al dipartimento di medicina forense del Guy’s Hospital. Si tratta di Roberto Calvi. Il passaporto è intestato a “Gianroberto Calvini”. Calvi indossa ben tre paia di mutande e ha cinque mattoni infilati nelle tasche della giacca e dei pantaloni. Poi: un orologio Omega e due Patek Philippe; 10.700 dollari americani; 1.650 franchi svizzeri; 2.640 scellini austriaci; 54 mila lire italiane; 3,23 sterline inglesi: quattro paia di occhiali; due portafogli; un fazzoletto. Sul collo ci sono due solchi, uno orizzontale, l’altro obliquo, segni evidenti di strangolamento. Ma la City Police e la giustizia inglese, poi imitate dalla magistratura milanese, si pronunciano per il suicidio. Per uccidersi, Calvi avrebbe fatto sette chilometri a piedi, fino al Ponte dei Frati Neri. Avrebbe trovato la corda lungo il percorso, si sarebbe infilato i mattoni nelle tasche e infine avrebbe raggiunto acrobaticamente l’impalcatura cui impiccarsi.
Operazione Verità
Sono stati pagati, a titolo di anticipazione e rimborso spese, 14 miliardi e 500 milioni di lire. La somma preventivata e concordata per poter reperire utili documenti da tutto il mondo e neutralizzare l’azione dei nemici della Chiesa è stata di 51 miliardi di lire. Mancano al soddisfacimento degl’impegni assunti con i nostri alleati 37 miliardi circa. A seguito delle accuse mosse alla Chiesa per il caso Ior-Ambrosiano e al fine di ristabilire la verità sulla estraneità del Vaticano dai fatti infamatori, proditoriamente pubblicati sulla stampa mondiale, (...), il Gruppo ha così agito.
Documento di Flavio Carboni consegnato a padre Hnilica
Un’indagine per caso
Nel maggio del 1988, Mario Almerighi è un giudice istruttore del Tribunale di Roma. Indaga su una multinazionale criminale di narcos e falsari e risale a Giulio Lena, capo degli italiani implicati. Lena ha una villa a Monte Porzio Catone, vicino a Roma. Viene perquisita. Gli investigatori trovano due lettere. Una è dell’avvocato di Lena, indirizzata a Giulio Andreotti. L’altra è dello stesso Lena, inviata al cardinale Agostino Casaro-li nel maggio dell’anno prima, il 1987. Casaroli è il segretario di Stato del Vaticano.
Assoluzioni
Il pregiudicato, legato alla banda della Magliana, chiede al cardinale la restituzione di un miliardo e 450 milioni di lire versati al “sig. Flavio Carboni”. Il faccendiere avrebbe trattato il contenuto della borsa nera di Calvi con il Vaticano, tramite padre Paolo Hnilica. Perseguitato dal regime comunista di Praga, amico di Giovanni Paolo II, padre Hnilica (morto nel 2006) è responsabile della Pro Fratribus, che aiuta i cattolici dell’Est. Il 24 marzo 1992, Alme-righi deposita l’ordinanza di rinvio a giudizio di Flavio Carboni, Giulio Lena e Paolo Hnilica per la ricettazione della borsa di Calvi. Dopo una tribolata serie di processi, la Corte d’appello assolve Carboni e Lena nell’ottobre 2005. Il reato è prescritto. Almerighi indaga pure sull’omicidio del banchiere. La Corte d’assise di Roma riconosce che si tratta di omicidio volontario ma assolve Carboni; Pippo Calò, tesoriere della mafia; Ernesto Diotallevi, esponente della banda della Magliana.
La lista dei 500
Nella borsa di Calvi vi erano anche altri documenti importanti come la ‘lista dei 500’, vale a dire la lista delle persone alle quali era stati restituiti tutti i depositi con i relativi interessi, prima che la Banca privata finanziaria fosse dichiarata fallita e che Sindona partisse per l’America. Si trattava di persone che rivestivano cariche politiche, industriali e altre persone importanti.
Francesco Delfino, ex generale del Sismi ai pm di Roma
Il 1981 della loggia P2
Un anno prima del “suicidio”, il 20 maggio 1981, Calvi è il presidente e amministratore delegato del Banco Ambrosiano. Viene inquisito e arrestato per infrazioni valutarie. È condannato a 4 anni di carcere e 15 miliardi di multa. Ottiene la libertà provvisoria. Due mesi prima è esploso lo scandalo della loggia P2, la massoneria deviata di Licio Gelli e Umberto Ortolani. Calvi, come tanti altri, è un piduista. Il Banco Ambrosiano ricicla i soldi della mafia e fa spericolate operazione offshore con lo Ior di monsignor Paul Marcinkus. Lo Ior è la banca del Vaticano e ha un’esposizione nei confronti dell’Ambrosiano di un miliardo e 200 milioni di dollari.
“Io come Sindona”
In questo disgraziato Paese, nel quale la politica si mescola con la criminalità, siamo costretti ogni giorno ad assistere alla più vergognosa corruzione di tutti i centri di potere; anche la persona più onesta, se non vuole essere travolta, deve cedere alle estorsioni da parte delle mafie di ogni colore; (...). Molte delle cause che hanno determinato la tragica fine dell’impero di Sindona sono le stesse che potrebbero provocare il mio crollo.
Lettera di Calvi al massone Armando Corona
Uno strano tour
Calvi ha conosciuto Gelli e Marcinkus grazie a Michele Sindona, il banchiere mafioso dell’omicidio Ambrosoli, legato alla Dc di Giulio Andreotti. Nel 1982, l’uomo dell’Ambrosiano viene lasciato solo da tutti i suoi “alleati”. Chiede soldi al Vaticano, ma è lo Ior a pretendere la restituzione di 300 milioni di dollari. Anche la mafia rivuole i suoi capitali. Calvi progetta la fuga in Svizzera, per recuperare altri documenti e ricattare tutti. Invece cade nelle mani del faccendiere Carboni, che gli fa fare uno strano tour: Trieste, Austria, Londra. Il suo “suicidio” è rimasto senza colpevoli.

il Fatto 15.2.15
Il Vaticano sborsò fino a 6 miliardi per i documenti


NEGLI ANNI SETTANTA, il magistrato Mario Almerighi scoprì la prima vera Tangentopoli del nostro Paese: “la compravendita del Parlamento italiano da parte del potere petrolifero”. Poi ha indagato sulla borsa e sull’omicidio di Roberto Calvi, il banchiere dell’Ambrosiano al centro della triangolazione criminale tra massoneria, mafia e Vaticano negli anni Ottanta. Almerighi ha scritto molti libri sui misteri italiani. Nell’ultimo - La borsa di Calvi, Chiarelettere, con prefazione di Marco Travaglio - racconta ora per ora i giorni della fuga di Calvi a Londra e la successiva trattativa per restituire al Vaticano il contenuto della borsa del banchiere. La verità di Almerighi non collima però con quella giudiziaria. I protagonisti della vicenda vanno considerati innocenti a tutti gli effetti. Nel volume sono pubblicate lettere e documenti rimasti sinora inediti. Il magistrato stima che per la ricettazione della borsa di Calvi fu pagata dal Vaticano una cifra compresa tra un minimo di tre miliardi e 534.727.000 e un massimo di 6 miliardi e 234.727.000 di lire.

Corriere 15.2.15
Case chiuse, falsa soluzione seguiamo l’esempio svedese
di Gianpiero Dalla Zuanna

Senatore del Pd

Per limitare la prostituzione di strada, il Comune di Roma vuole concentrarla in alcune zone, come hanno già tentato di fare altre città, prima fra tutte Venezia/Mestre. Nello stesso tempo, alcune proposte di legge vorrebbero legalizzare pienamente anche in Italia la compravendita di prestazioni sessuali, seguendo l’esempio di Paesi come l’Olanda e la Germania. L’Italia dovrebbe affrontare con lungimiranza la questione prostituzione, perché è dal 1958 che il Parlamento non ne discute.
Tuttavia, la legalizzazione non è l’unica strada possibile. Paesi all’avanguardia nell’emancipazione sessuale e nei diritti civili seguono il cosiddetto «modello svedese», adottato — sulla spinta dei movimenti femministi — in Svezia dal 1999 e successivamente in Islanda e Norvegia.
Questi Paesi sanzionano chi acquista prestazioni sessuali (ma non chi vende sesso): non per moralismo o paternalismo, ma perché comprare sesso è considerato violenza contro la persona, anche quando il/la sex-worker afferma di svolgere tale attività per scelta. Nei Paesi citati, questa legislazione è integrata con l’accompagnamento e l’assistenza verso chi vuole lasciare il lavoro del sesso. Le prime ricerche sull’effetto di queste leggi sono incoraggianti, poiché si rileva una significativa riduzione del fenomeno, specialmente in strada. In Svezia nel 1995 operavano circa 3.000 prostitute/i, mentre nel 2008 stime analoghe parlano di 300 prostitute/i in strada e 350 in casa. La Svezia avrebbe un decimo delle/dei prostitute/i della Danimarca, a fronte di una popolazione quasi doppia. Inoltre, il numero di uomini che riferisce di aver comprato sesso scende dal 13% del 1996 all’8% del 2008, e gli uomini svedesi favorevoli alle sanzioni verso i clienti passano dal 20% del 1996 al 60% del 2008.
Quindi, se l’obiettivo è ridurre la prostituzione e ridimensionare tutto il mondo di sfruttamento che ci gira attorno, la strada seguita dalla Svezia sembra essere quella giusta.

Repubblica 15.2.15
Un’idea falsa non va vietata
di Massimo L. Salvadori


INVOCANDOLO come adempimento tardivo di un atto vincolante dell’Unione Europea, il Senato della Repubblica ha approvato con 234 sì, 3 no e 8 astenuti il disegno di legge — che ora passa alla Camera dei deputati — il quale punisce il negazionismo della Shoah e di altri genocidi comminando ai colpevoli fino a tre anni di carcere. La questione non è nuova. Ha già tutta una storia ormai ricca di capitoli in vari Paesi europei, il cui inizio risale al momento in cui un numero via via più largo di Stati hanno affidato ai tribunali il compito di punire i negazionisti, che sarebbe stato e sarebbe più saggio e più coerente con gli osannati principi di libertà lasciare alla miseria delle loro idee. Anche le idee più nefaste, se pericolose, lo diventano maggiormente quando si offrono loro le aule dei tribunali. Bisogna ammettere che questo gli americani lo hanno capito molto meglio degli europei. Numerosi storici e studiosi hanno cercato senza esito di spiegarlo ai legislatori, i quali si sono sentiti investiti della missione di servire una nobile causa di cui hanno mostrato di non cogliere le implicazioni.
Nel presentare al Senato il disegno di legge la senatrice Amati del Pd, prima firmataria, ha espresso la sua soddisfazione per il fatto che venga finalmente impedito a chiunque di falsificare la storia; e il ministro della Giustizia Orlando ha sentenziato che «è molto importante che nessuno possa più rimuovere la verità storica ». Bene, così si delega allo Stato il compito di stabilire quale sia e quale no la verità storica e di distribuire manette ai contravventori. Vien da domandarsi come ciò possa conciliarsi con l’articolo 21 della Costituzione — dettato da uomini da poco usciti da un regime che aveva assunto come proprio dovere di imporre con la forza della legge la verità — il quale recita: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione ». Tra i costituenti vi erano persone di spirito autenticamente liberale, che, forti delle esperienze loro trasmesse dai regimi autoritari, avevano capito la lezione intellettuale, morale e politica di un testo che dovrebbe essere regalato a spese del Senato a quanti oggi seggono negli scranni di quella augusta sede da cui sentenziano intorno a materie che richiederebbero le opportune cautele. Si tratta del Saggio sulla libertà di John Stuart Mill, che risale al 1858. Qui Mill spiega ai suoi lettori che le posizioni stupide e le idee menzognere non possono e non devono essere combattute con la repressione per tre motivi principali: perché la libertà di pensiero non finisce là dove incomincia l’errore; perché solo il libero confronto tra le opinioni consente di far emergere che cosa sia vero e cosa falso; perché la repressione non indebolisce ma rafforza l’errore. Scrive Mill: «Non possiamo mai essere certi che l’opinione che stiamo cercando di soffocare sia falsa; e anche se lo fossimo, soffocarla sarebbe un male. Se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono. Per vera che essa sia, se non la si discute a fondo, spesso e senza timore», un’opinione «finirà per essere creduta un freddo dogma, non una verità effettiva». Ancora una pregnante citazione dal saggio di Mill, attinente alle “sole sanzioni” che giustamente occorre dare ai diffusori di false teorie: esse «sono quelle strettamente inscindibili dal giudizio sfavorevole altrui». È chiaro il significato delle parole del grande pensatore liberale inglese; ed è triste che persone investite di una suprema responsabilità quale è quella di legiferare dimostrino di non comprenderne il significato e il messaggio.
Dove possa condurre l’approccio esaltato dal nostro ministro della Giustizia abbiamo avuto modo di constatarlo nel caso clamoroso occorso a Bernard Lewis, uno dei maggiori islamisti del mondo. Il quale è stato condannato in passato da un tribunale francese, seppure alla pena meramente simbolica di un franco, per avere sostenuto che, secondo la sua opinione, gli armeni durante la prima guerra mondiale erano stati vittime da parte dei turchi di “massacri” anziché di un disegno organico di “genocidio”. Faccenda umiliante per i giudici che hanno emesso la sentenza. Non occorre continuare. Ma vi è però qualcosa da aggiungere, e cioè un grazie alla senatrice Elena Cattaneo, la quale al Senato ha negato la sua approvazione al disegno di legge, con le parole di una degna seguace di Mill: «Credo che vietare il negazionismo per legge sia sbagliato. Non è ammissibile imporre limiti alla ricerca e allo studio di una teoria. Trovo ignobili le tesi dei negazionisti ma non credo che minino una disciplina. Nessuno storico prende sul serio queste teorie».

Il Sole Domenica 15.2.15
La storia non si fa in Parlamento
Negare il negazionismo?
Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani


Talvolta ragione e sentimento sembrano andare in direzioni opposte. Questo richiamo a una ottocentesca romanziera inglese emerge quando capita di affrontare gli interrogativi più scabrosi in materia di libertà di espressione. In altri termini, al sentimento che tende ad allontanare da sé (fino a proibire) i messaggi odiosi, ribatte la ragione che impone di tollerare anche le falsità, anche le tesi più ripugnanti.
E così, come ognuno deve consentire che le proprie credenze religiose siano dissacrate, anche in modo ritenuto irrispettoso, poiché ogni forma di potere può essere messa alla berlina, allo stesso modo a chiunque deve essere garantita la possibilità di affermare le più urticanti menzogne.
Quella più odiosa di tutte, per la nostra cultura, è la negazione della Shoah. E lo è perché si respira forte il puzzo dell’antisemitismo e perché le moderne società democratiche si sono rifondate anche sul ripudio del nazismo. Ciò è tanto vero che una buona parte dei Paesi europei ha introdotto una legislazione che proibisce il discorso negazionista, anche quando non si traduce in un’istigazione alla violenza e all’odio. Si va da Germania, Austria e Belgio che puniscono soltanto la «menzogna di Auschwitz», agli Stati dell’Est che estendono il divieto agli orrori del comunismo, alla Francia che reprime il disconoscimento dei crimini contro l’umanità sanciti da una Corte internazionale.
Almeno finora l’Italia si è posta, insieme al Regno Unito e ai Paesi scandinavi, tra gli Stati che non prevedono una legislazione repressiva specifica e, per una volta, l’atteggiamento del nostro Paese non ci pare sbagliato. Di recente, però, il Parlamento sembra orientarsi in modo diverso. È di mercoledì scorso ’approvazione al Senato di un disegno di legge che introduce un’aggravante qualora i reati di propaganda razzista o di istigazione alla discriminazione si fondino sulla negazione della Shoah o di crimini contro l’umanità. Non siamo certo davanti al reato di negazionismo in senso stretto, poiché da un lato si tratta di un’aggravante, dall’altro la parola è punita solo se vi è un’istigazione pubblica all’odio. Tuttavia, in tal modo il legislatore sanzionerebbe più severamente il discorso razzista, quando ciò comporta la negazione di fatti storici non controversi e particolarmente gravi.
Restano quindi molti i motivi che sconsigliano di imboccare anche questa strada. In primo luogo, affidare al diritto, specie a quello penale, il ruolo di custode della verità storica, della versione “ufficiale” del passato, significa consentire un’incursione dei pubblici poteri negli spazi riservati alle scienze e alla ricerca storica.
Inoltre, l’introduzione di tale aggravante contrasterebbe con il principio secondo cui in uno Stato liberale non esistono verità assolute. La verità – relativa, parziale, effimera, convenzionale – deve nascere dalla discussione e non dalla decisione politica o giudiziaria, anche con riguardo alle tragedie della storia. Ciò è connesso al principio di laicità e a quello di separazione tra Stato e società, ed è alla base della tutela rafforzata della libertà di ricerca storico-scientifica sancita dall’articolo 33 della Costituzione italiana.
Questa tesi ci pare in sintonia con le radici più profonde della Repubblica. Infatti, già in Assemblea costituente era prevalsa l’idea di lasciare aperta ogni via alla ricerca della verità. Dunque, anche ai «nemici della democrazia» fu garantito il diritto di sostenere nel freemarket of ideas finanche il falso. Sembra di intravedere nella trama della Costituzione una tale fiducia nella “forza” della democrazia da ritenere di non doverla proteggere con l’esclusione per via giuridica di chi ne nega il fondamento.
In tale prospettiva ragione e sentimento sembrano riconciliarsi nel ricordare al legislatore i principi liberali in materia penale: tra essi, campeggia la raccomandazione di evitare un eccesso di criminalizzazione. E dunque evitare altresì di allungare la lista di proclamazioni ad alto valore simbolico, lista che viceversa andrebbe sfoltita in modo robusto, specie in materia di reati d’opinione.

il Fatto 15.2.15
Nuovi cimiteri
Mediterraneo, il mare che hanno voluto chiudere
di Furio Colombo


Abbiamo chiuso il mare, reso impossibile ogni passaggio civile e garantito (parlo di salvezza fisica), da una sponda all’altra, come se in una pianura avessimo frantumato i binari e scavato nelle strade invalicabili fosse. Non tanto tempo fa, quando governavano Berlusconi e Bossi, con la piena approvazione dell’opposizione Pd, c’erano anche motovedette italiane con equipaggio libico che sparavano subito su chi si azzardava a mettersi in viaggio verso l’Italia. Intanto il grande spostamento di gente giovane in cerca di lavoro è diventato fuga di popoli spinti via da guerre, aggressioni, esercizi spaventosi di crudeltà, rapimento di giovani donne, torture ai bambini. Adesso è un immenso esodo di disperati che vogliono sopravvivere. Se arrivano vivi al mare, il mare è chiuso. E poiché non ci sono ferries e traghetti o vecchi piroscafi che stanno bene a galla, a cura del mondo civile, o trasporti militari per accettare chi ha diritto di asilo, arriva la malavita. E così il Mediterraneo è diventato un cimitero. Pensate che in meno di un anno di intervento bene organizzato (l’operazione detta “Mare Nostrum”), sono stati salvati centomila uomini, donne e bambini. Ma il soccorso è stato interrotto. Dicono per le spese. Credo per un eccesso di civiltà intollerabile ormai in Italia. In questo modo non arriva nessuno e basta. Se ci rompono le scatole, risponderemo che il problema è la Libia. Il Paese è fuori controllo. Se volete, precisa Renzi all’Europa, ci andiamo noi a raddrizzarli e a insegnargli come si fa con quelli che poi ti invadono il Paese. Si ricomincia quel prezioso lavoro a pagamento, intercettare i “clandestini” (la civiltà della Lega chiama così i profughi e gli scampati a guerre e torture), e fermarli in un modo o nell’altro.
NON DOBBIAMO dimenticare la frase di Angelino Alfano, ministro dell’Interno di questa Repubblica e di questo governo. Non può tacere mentre gli passano davanti centinaia di persone morte in mare, o morte di fame e di freddo. Riflette, e la frase che dice è una frase tragica: “Non esiste e non può esistere un’operazione che sconfigga la morte in mare”. Non è rassegnazione, è il pensiero triste e immobile di chi, come per una maledizione, non fa nulla e crede che non si debba fare nulla. Il fatto grave, allarmante, che va molto al di là del giudizio negativo che il personaggio merita, è che Alfano, ministro chiave di un governo che ambisce a un’immagine rapida e interventista, è come un medico che si piazza sulla porta della corsia e dichiara: “Inutile entrare. Non esiste e non può esistere una medicina che sconfigga la morte in ospedale”. La frase dimostra di avere un’immagine distorta dei fatti o una depressione pericolosa, ma anche una squalificante negazione della verità. L’impegno a salvare la gente in mare, mille volte sconfitto, ha mille volte vinto sulle tempeste peggiori, e nessuna difficoltà, per quanto grande ha mai cancellato l’impulso naturale a salvare gli altri. Ne fanno fede la storia, la letteratura, fin dal fondo dei secoli, e l’esperienza quotidiana nella vita di tutti. Perché Alfano fa finta di non sapere l’immensa differenza fra non riuscire a salvare tutti e la passiva, tranquilla decisione di non salvare nessuno? S’intende che Alfano non è che una triste comparsa, in questa storia. Il ruolo di protagonista spetta al capo del governo italiano. I cadaveri galleggiano, a centinaia, ma se glielo fate notare e gli dite che sarebbe bello e civile, e più grande dell’Expo, se l’Italia tornasse a salvarli, come quando c’era l’operazione Mare Nostrum, lui vi accusa di strumentalizzare i cadaveri. Come se l’antico grido “un uomo in mare”, che è sempre stato nei secoli un segnale di solidarietà e di speranza (infatti subito, qualcuno si tuffa per salvare una vita, specialmente quando sono in pericolo una donna o un bambino) si potesse strumentalizzare mentre interi villaggi muoiono davvero davanti a noi. È un pensiero che non era venuto in mente neppure alla Lega. Ma alla Lega dobbiamo riconoscere di aver fondato e di saper mantenere un solido disprezzo italiano per la gente stremata, disperata, in fuga. Per coloro che nonostante tutto si salvano, siamo il Paese in cui la vita dei nuovi venuti è la peggiore (parlo di quelli liberi, che riescono a sfuggire ai lager disumani di invenzione leghista detti centri di “Identificazione e di Espulsione”) e in cui la credenza che gli immigrati ricevano soldi (che in tal modo sono sottratti agli italiani) senza lavorare, si estende in un reticolato di notizie false che non conosce limiti.
POI CI SONO le lunghe storie sui “mercanti di carne umana”, una definizione della Lega Nord creata per incriminare i pescatori che arrivavano in porto con naufraghi salvati.
È stato mai accertato perché certi naufragi sono vistosamente criminali e altri invece sono o sembrano una disgrazia? E dove sono gli “scafisti” che quasi in ogni sbarco senza morti, e anzi con regolare approdo, vengono identificati e arrestati, mentre non c’è mai traccia degli “scafisti” assassini?
La verità è che l’Italia, il Paese che non smette di auto-lodarsi e di vantarsi di se stesso, ha chiuso il mare. Piccole teste egoiste e affannate nella rincorsa al consenso prima hanno, allo stesso tempo, sfruttato e respinto il lavoro e le persone giovani in grado di compensare i vuoti di nascite italiane. Poi fingono di ignorare che guerre spaventose (alcune vicine) tormentano il mondo e spingono a muoversi folle di disperati che non possono tornare indietro e non possono fermarsi. E così i “mercanti di carne umana” diventano i soci d’affari di quell’altro delitto che è il chiudere il mare. È vero che le piccole teste italiane hanno come complici del delitto piccole e chiuse teste europee. Ma quando ci sarà un Giorno della Memoria per tutta questa gente, famiglie, villaggi, città, popoli, morti in mare davanti alle nostre coste, perché il mare era stato chiuso, spero che non tutti i documenti e le testimonianze di questo tragico momento saranno stati perduti o distrutti.

Corriere 15.2.15
I nuovi tamburi di guerra e i tagli alle spese militari
di Danilo Taino


La settimana scorsa, alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, tra i presidenti, i ministri, i diplomatici e gli esperti di relazioni internazionali presenti, nessuno ha messo in dubbio il concetto al cuore della riunione: l’ordine geopolitico internazionale sta crollando. E l’Europa è uno dei maggiori punti critici di questo collasso: il conflitto in Ucraina dice che l’idea di una pace garantita e fuori discussione, nata con la fine della Guerra Fredda, 25 anni dopo si sta sbriciolando. Come ha sostenuto poco tempo fa l’ex primo ministro svedese Carl Bildt, «dopo decenni in cui troppe persone hanno dato la pace per garantita, ora è il potere delle armi che sta dettando la forza nell’immediato vicinato europeo».
Già, le armi. Sotto l’influenza di questa idea e sotto la pressione di ridurre le spese, tra la metà degli anni Novanta e oggi il numero delle piattaforme di Difesa in Europa si è ridotto sostanzialmente. Secondo l’International institute of strategic studies (Iiss), nel 1995 i veicoli da combattimento armati della fanteria erano 11.203 , oggi sono 7.460 . L’artiglieria, sempre nello stesso periodo, è passata da 39.556 pezzi a 22.441 . I sottomarini da 141 a 78 . Le portaerei da 17 nel 1995 a 21 nel 2005 per poi scendere a 18 oggi. L’aviazione tattica si è ridotta, nei vent’anni, da 5.418 aerei a 2.486 . Il numero dei carri armati da combattimento è addirittura crollato del 69% , da 22.049 a 6.924 : in Italia, per dire, da 1.077 a 160 ; in Germania da 2.695 a 410 ; in Francia da 1.016 a 200 . In parallelo, anche la presenza americana in Europa è crollata: da 326.400 militari di tutte le forze nel 1989 a 66.200 oggi; da dieci a zero brigate pesanti, da 28 a sei squadroni tattici d’aviazione, da cinquemila a 29 carri armati, da 279 a 48 elicotteri d’attacco e via dicendo.
Tra il 2010 e il 2014 — si è detto ancora alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, uno degli appuntamenti annuali più importanti del mondo sul tema — le spese per la Difesa sono calate del 18,4% nell’Europa del Sud, del 2,6% in quella centrale mentre sono aumentate del 4% nell’Europa del Nord.
In un’epoca di pace garantita, le riduzioni oltre che ovvie sarebbero benvenute, da festeggiare. In un’epoca in cui si tornano a sentire i rumori di guerra, tutto andrà rivisto. Nel 2013 , uno studio della McKinsey calcolava che mettendo in comune anche solo gli appalti l’Europa risparmierebbe 13 miliardi all’anno, utilizzabili per rafforzarsi: un primo passo in un mondo più pericoloso

il Fatto 15.2.15
L’ex premier Romano Prodi
Colpa nostra se ora bussano alla porta
intervista di Giampiero Calapà


“Una catastrofe per colpa nostra, dell’Occidente”, ripete Prodi. Altro che Iraq, Siria e Kobane. Le bandiere nere del Califfato islamico sventolano a trecento chilometri dalle coste italiane di Lampedusa, Paolo Gentiloni invoca l’intervento armato, perché “la situazione si sta deteriorando”, e viene citato dalla radio dell’Isis come “ministro nemico dell’Italia crociata”. Romano Prodi, ex premier, ex presidente della Commissione europea, già inviato speciale dell’Onu per il Sahel e padre della Fondazione per la collaborazione dei popoli, conosce bene il dossier Libia: “Non era difficile prevedere che si sarebbe arrivati a questo punto, davvero non lo era neppure nel 2011”.
Presidente, adesso che cosa bisogna fare?
Cosa bisogna fare non lo so. Oggi non lo so più, mi creda. So bene quanto si sarebbe dovuto fare dopo la caduta di Gheddafi. Bisognava mettere tutti attorno a un tavolo, invece ognuno ha pensato di poter giocare il proprio ruolo.
Cosa intende?
Si è preferito credere che un primo ministro (il primo nel 2011 fu Mahmud Jibril al-Warfali, ndr) e un parlamento legittimi potessero risolvere le cose da soli, facendo finta di non vedere che la situazione era compromessa in partenza, che alcune fazioni armate avrebbero finito per esser lasciate a loro stesse. Ma il primo ministro non ha mai avuto un potere reale sul territorio.
Come siamo arrivati a tutto questo?
Si tratta di un errore nostro. Delle potenze occidentali. La guerra in Libia del 2011 fu voluta dai francesi per scopi che non lo so... certamente accanto al desiderio di ristabilire i diritti umani c’erano anche interessi economici, diciamo così.
L’Italia?
L’Italia ha addirittura pagato per fare una guerra contro i propri interessi.
Credo che il suo acerrimo nemico di sempre, Silvio Berlusconi, sia d’accordo con lei su questo punto.
Ma sta scherzando? Berlusconi si è fatto trascinare dalla Francia ed è entrato in guerra.
Eppure Berlusconi si professava grande amico del leader libico...
Il presidente del Consiglio in carica era Silvio Berlusconi. Adesso la Libia è caduta nell’anarchia e nel caos più assoluti. La situazione è davvero di una gravità eccezionale, non possiamo fare finta che le nostre azioni non abbiano inciso nel produrre tutto questo.
Ravvisa un pericolo di sicurezza per l’Italia?
La Libia è dietro l’angolo. È un Paese ridotto a essere senza alcuna disciplina, senza controllo, senza alcuna forma di statualità, dove i commercianti di uomini imperversano buttando a mare i disperati che sognano una vita migliore in Europa.
Teme che i terroristi possano arrivare anche sui barconi, come ha detto qualcuno?
I terroristi sono organizzati, altro che barconi.
Ritorno alla prima domanda. Le cancellerie occidentali cosa dovrebbero fare in questo momento secondo lei?
Occorre senza dubbio uno sforza per produrre un minimo risultato nel tentativo di fare sedere tutti gli interlocutori al tavolo e impegnare in un lavoro comune Egitto e Algeria. Non c’è altra via che non produca una situazione ancora più catastrofica di quella attuale.
Pensa che anche gli uomini incappucciati dell’Isis debbano essere fatti sedere al tavolo dei negoziati?
A questa domanda non posso dare una risposta perché è relativa a un presente di cui non voglio parlare.

il Fatto 15.2.15
Lo storico Del Boca
Non perdonerò mai Napolitano per aver avallato quella guerra”
intervista di Giampiero Gramaglia


“È pazzesco pensare che si possa intervenire in Libia, sia pure nell’ambito di una missione dell’Onu”, che, comunque, nessuno ha ancora deciso, ammesso che lo sia mai. “È un’idea terribile, anche se non mi meraviglia, visto che Renzi e Gentiloni sono personaggi di quinto livello che non sanno nulla... Laggiù, ci sono tante armi da distruggere il Paese, Gheddafi aveva costituito arsenali immensi e micidiali”. Angelo del Boca, scrittore, giornalista, storico, è il maggiore conoscitore italiano della Libia: denunciò per primo le atrocità italiane durante la conquista e la colonizzazione, come pure in Etiopia, anche con i bombardamenti su centri abitati e l’uso dei gas, campi di concentramento e deportazioni. Partigiano non ancora ventenne, sta per pubblicare E la notte ci guidano le stelle, sulla guerra alla macchia contro i nazisti. Le sortite interventiste sulla Libia del premier e del ministro degli esteri, “persone – dice – che non hanno una cultura sufficiente”, lo lasciano sbalordito. “La Libia è allo sbando, che almeno 140 gruppi se ne contendono il territorio, si sono divisi il potere e i depositi di petrolio... L’abbattimento del regime di Gheddafi ha riportato il tribalismo, sono scomparsi i confini amministrativi, si è tornati indietro di due secoli, a prima dell’Impero Ottomano”.
Allora, contribuire al rovesciamento di Gheddafi fu un errore?
Io conoscevo Gheddafi, come prima avevo conosciuto re Idris…. Certo, era un dittatore, ma lo abbiamo deposto partecipando a una guerra che serviva soltanto alla Francia, anzi a Sarkozy... E farlo cadere così, senza alternative, è stato un errore, perché lui almeno faceva da cintura contro l’estremismo. Mi ha sempre colpito, e non glielo perdonerò mai, che l’ex presidente Napolitano abbia avallato quell’intervento armato, infrangendo la Costituzione”.
È possibile che la Libia torni a essere un’entità statale?
Non si può riportare la Libia allo stato di prima: le armi sono ovunque e finiscono nelle mani di chiunque, hanno alimentato i conflitti nel Mali e nel Ciad… Ci vorrebbe un intervento di pace insieme dell’Onu e dell’Unione africana, con l’accordo dei due attuali parlamenti, cioè quello integralista di Tripoli e quello elettivo di Tobruk.
L’irrompere sulla scena degli jihadisti può favorire il dialogo fra i due parlamenti, che, per ora, si parlano solo per interposta persona, l’inviato Onu Bernardino Leon
È difficile dirlo: è vero che c’è un terzo ingombro che s’affaccia, ma è anche vero che la situazione è un disastro. E Leon non ha poteri, è un po’ come Federica Mogherini nell’Ue, che dice che l’Europa è pronta a impegnarsi, ma non sa che cosa fare. In questo momento, non si può fare nulla: o scendi in campo sapendo che ci saranno decine di migliaia di morti o non fai nulla.

Repubblica 15.2.15
Lo storico Angelo Del Boca
“Torneremo nel paese ma dobbiamo lavorare per la ricostruzione”
Da ex potenza coloniale abbiamo precisi doveri.
Già fatti troppi danni
intervista di Giampaolo Cadalanu


NO, non è un addio. Torneremo, prima o poi. Angelo Del Boca non è ottimista sul futuro della Libia, ma crede che la partenza degli italiani sia solo provvisoria. A meno di quattro mesi dal suo novantesimo compleanno, il massimo storico del colonialismo nostrano può vantare uno sguardo fra i più lucidi sulle regioni teatro delle avventure imperiali fasciste.
Professore, con la partenza degli ultimi italiani dalla Libia, è la fine di una fase storica?
«Ma no, è solo una misura di sicurezza obbligata. Credo che chiuderà anche l’ambasciata, non c’è più la garanzia di una protezione».
Lei non vede un valore evocativo in questo esodo?
«Guardi, in Libia gli italiani rimasti erano pochissimi. Non ci sono più i grandi lavori, le imprese hanno sgomberato da tempo».
Che dice, torneremo?
«È già successo, più di una volta».
Ma torneremo con le uniformi militari?
«Spero proprio di no, guai se fosse così».
L’Italia può avere un ruolo reale nel cercare una soluzione?
«Nei giorni scorsi ho firmato assieme ad Alex Zanotelli un appello perché l’impegno dell’Italia, come ex potenza coloniale, non sia quello di preparare un intervento militare — da quelle parti, fra l’altro, abbiamo sempre fatto una pessima figura — ma di portare i libici al tavolo di pace, con le altre nazioni europee, con l’Unione africana e con le Nazioni Unite. La popolazione ha già sofferto abbastanza per poter affrontare un’altra guerra».
E questo obiettivo diplomatico è alla portata del nostro Paese?
«Ci vorrebbe una classe politica con la capacità di vedere e capire gli ultimi anni della nostra Storia. Una classe politica all’altezza, diversa da quella che abbiamo».
Finirà che rimpiangeremo i tempi di Gheddafi?
«Qualcuno pensa di sì. S’intende che stiamo parlando del Gheddafi uomo politico che aveva tante qualità, non il dittatore che fino agli anni Settanta e Ottanta inseguiva i suoi avversari con gli squadroni della morte. Dopo il bombardamento di Tripoli aveva cambiato le sue strategie. Aveva fatto un lavoro intelligente, realizzando una specie di cintura di protezione attorno alla Libia e all’Africa settentrionale, proprio pensando all’integralismo islamico. Personalmente, non ho mai avuto stima di Berlusconi, ma credo che il famoso patto che lui firmò con Gheddafi fosse una buona idea. Era un accordo politico e militare che noi abbiamo bistrattato, anche grazie all’assenso del presidente Napolitano, che ha permesso la guerra ignorando la Costituzione. Probabilmente anche oggi avrebbe bloccato gli integralisti, e non sarebbe stata la prima volta. Ovviamente avrebbe riempito le carceri, avrebbe usato il pugno di ferro, come la volta che per domare la rivolta di Bengasi coinvolse Esercito, Marina e Aviazione. D’altronde in Occidente dava fastidio la sua idea di raccogliere diversi Stati africani in una federazione, perché potessero trattare alla pari con le potenze mondiali».
Come vede la situazione libica in questi giorni?
«È molto grave: ai due governi che si contendono il paese, quello di Tripoli e quello di Tobruk, adesso si è aggiunto il Califfato, che rende tutto più complicato. Non credo che nemmeno il generale Khalifa Haftar possa riuscire a mettere ordine».
Lei conosce bene la cultura libica: crede che sia compatibile con il rigore e il fanatismo del Califfato di Al Baghdadi?
«Non direi. I libici sono persone tranquille, Gheddafi gli dava tutto e gratis, vivevano bene. Ora quasi la metà della popolazione è scappata via, si parla di sei-settecentomila libici rifugiati in Tunisia, un milione in Egitto».

Corriere La Lettura 15.2.15
Attenti, la linea di frattura non è tra noi e l’islam ma tra Europa e reazione
di Stefano Montefiori


La battaglia culturale è ormai quasi perduta, ma a dire il vero non è stata neppure combattuta. Dopo il 1989 l’Occidente ha creduto che il compito dei democratici di destra e sinistra si limitasse a gestire in modo efficiente l’esistente, occuparsi dell’età della pensione e delle ore lavorative settimanali, fissare le aliquote fiscali. «Tutti a dire che le ideologie sono finite, che bisogna soddisfare i bisogni concreti dei cittadini… È ovvio, certo, ma non basta. I valori, gli ideali, i sogni sono stati abbandonati nelle mani dell’estrema destra, dei reazionari. Sono loro gli unici ormai a proporre una visione, e gli elettori li premiano. Quante volte abbiano sentito dire, a proposito dell’avanzata di Marine Le Pen, che si tratta di un voto di protesta… Non lo è affatto: chi vota Le Pen aderisce a quelle idee. Anzi, le persone che sono d’accordo con il Front National sono ancora più numerose dei suoi elettori. Non importa quanto le ricette economiche siano strampalate. I reazionari stanno vincendo, perché hanno imparato, e rivendicano, la lezione di Gramsci: l’egemonia culturale, innanzitutto».
In un bistrot parigino «la Lettura» incontra Raphaël Glucksmann, ovvero quanto di più lontano ci possa essere dalla figura di intellettuale da bistrot. È tornato da poco da Kiev, dove è diventato consigliere dei leader della rivoluzione ucraina dopo avere assistito e partecipato alla rivolta di piazza Maidan. Gli anni precedenti li ha passati a Tbilisi, in Georgia, come braccio destro dell’altro presidente filo-occidentale dell’Europa orientale, Mikhail Saakashvili.
Il 26 febbraio Raphaël Glucksmann farà uscire in Francia Génération gueule de bois (Allary Éditions), traducibile più o meno come «Generazione post-sbronza»: un «manuale di lotta contro i reazionari» scritto dopo le esperienze in prima linea nell’Europa che cerca di sottrarsi alla sfera di influenza del Cremlino. Raphaël Glucksmann ne parla, in anteprima, con noi.
Il padre André Glucksmann nei primi anni Settanta venne definito nouveau philosophe — assieme a Bernard-Henri Lévy — perché denunciò i crimini del totalitarismo sovietico, in rottura con lo spirito intellettuale del tempo. Raphaël, 35 anni, continua quella lotta libertaria, oggi, contro gli opposti totalitarismi dell’islamismo radicale e della reazione nazionalista e antieuropea del Front National. Il percorso di Raphaël Glucksmann è unico, ed esemplare della sua visione cosmopolita, europea, anti-nazionalista, oggi così fuori moda. A Tbilisi ha sposato la giovane georgiana Eka Zgouladze, ministro dell’Interno che nello spazio di poche ore azzerò la corrotta milizia di era sovietica, sostituendola con una nuova polizia composta da giovani. Lo scorso Natale, il presidente Poroshenko ha chiamato Eka Zgouladze e altri due ex ministri di Saakashvili a Kiev, le ha dato la cittadinanza ucraina, l’ha nominata viceministro dell’Interno e le ha chiesto di ripetere la stessa cosa fatta in Georgia, riformare la polizia.
Nel suo libro Glucksmann riporta le parole di Saakashvili sulla sintonia tra i due Paesi: «La Georgia ieri e l’Ucraina oggi sono più che degli Stati, sono diventate delle idee: l’idea che la nostra regione sia europea e che la libertà può trionfarvi, l’idea che noi apparteniamo all’Europa dell’Illuminismo e non all’Eurasia di Putin, l’idea che la democrazia sia universale e che non abbia né frontiera né carta di identità. Siamo tutti europei, dunque siamo tutti ucraini!».
Il libro di Glucksmann jr. è molto ambizioso, perché tiene insieme tutto: gli attentati di Parigi, il nuovo antisemitismo, la follia dei terroristi islamici, la guerra in Ucraina, l’espansionismo di Putin, il successo di Marine Le Pen e delle altre forze conservatrici e identitarie, la nostalgia che i reazionari nutrono per una nuova Santa Alleanza che riesca a sconfiggere una volta per tutte il liberalismo e le conquiste della Rivoluzione francese.
«La linea di frattura fondamentale non è tra l’Occidente e l’islam — sostiene Glucksmann — ma è trasversale, tra chi crede ancora nell’Europa come libertà e apertura al mondo, come identità in continuo divenire, e chi invece spinge per il ritorno agli Stati nazionali, e approfitta della giusta lotta contro il terrorismo islamico per togliere libertà a tutti. Non è un caso che siano le banche russe a finanziare il Front National: il progetto per niente nascosto di Putin è dotarsi di una quinta colonna in ogni Paese occidentale». Non è un caso nemmeno che Éric Zemmour, il saggista nostalgico dell’ ancien régime che ha venduto mezzo milione di copie con Il suicidio francese , dichiari: «Preferisco cento volte vivere sotto Putin che sotto Cohn-Bendit». Nel «manuale di lotta contro i reazionari» c’è una buona dose di autocritica, perché la stessa superiorità intellettuale esibita dai progressisti francesi che poi perdono consensi a vantaggio del Front National l’ha sperimentata Glucksmann stesso in occasione delle elezioni in Georgia, incredibilmente perse da Saakashvili. «Non potevamo perdere. I risultati delle nostre riforme — scrive — erano stati spettacolari. Il Paese aveva conosciuto una crescita annua media tra il 6 e il 7%, nonostante l’invasione e l’embargo russi. La Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto con questo titolo: Come la Georgia è riuscita là dove tanti governi del mondo intero hanno fallito, anche dopo le rivoluzioni? Barack Obama ci ricevette nello studio ovale e celebrò davanti alle telecamere “un modello regionale di trasformazione”. Non potevamo perdere».
Eppure persero. Sconfitti dall’oligarca Bidzina Ivanichvili, dalla chiesa ortodossa e dall’influenza russa, riuniti nel partito del «Sogno georgiano». Il motto di Saakashvili e Raphaël Glucksmann era «più benefici ai cittadini»: «Parlavamo all’elettore come a un droghiere, quando il Sogno georgiano si rivolgeva alla sua anima». Contro i reazionari islamisti e nazionalisti, dice Glucksmann, gli europei devono tornare a parlare al cuore delle persone. L’ideale libertario e cosmopolita deve superare i confini dei duty free degli aeroporti.

Repubblica 15.2.15
“Perdoniamo i due marò ma per i nostri morti nessuno ha chiesto scusa”
In visita alla famiglia di uno dei pescatori uccisi tre anni fa “Per Celestine neanche una corona di fiori o una preghiera”
di Raimondo Bultrini


KOLLAM (KERALA) NELLA casa linda e spoglia della famiglia di Celestine Galestine, ucciso esattamente tre anni fa dai militari di una petroliera italiana, una volta tanto si ride di gusto. Dora, la vedova di Celestine, ha una voce argentea in un corpo massiccio, e sorridono con gli occhi bassi anche i figli Derrick, 21 anni, al terzo anno di ingegneria, e Jwen, 13 anni. È il racconto di un sacerdote del Kerala di ritorno da un anno in Italia a riportare un po’ di buon umore nel terzo anniversario di una vicenda dolorosa che coinvolge diverse famiglie: anche quella di Ajesh Binki, il giovane tamil ucciso il 15 febbraio 2012 insieme a Celestine su una barca da pesca scambiata per una goletta di pirati, così come le famiglie dei due marò italiani sospettati di aver sparato. Padre Tommy era stato parroco in Abruzzo e ricorda a Dora di quando lo scorso anno si recò a visitare i suoi ex parrocchiani. «Una signora mia amica era molto arrabbiata con l’India perché secondo lei teneva in ostaggio ingiustamente Massimiliano La Torre e Salvatore Girone. Allora propose a un gruppo di persone che era con lei di sequestrarmi per uno scambio...». Anche Dora è una kadel puram kaar , il popolo della spiaggia, uomini e donne che conoscono il mare e odiano le grandi navi che da tutto il mondo vengono a pescare con enormi reti nelle acque internazionali lasciando senza cibo i pescatori locali. Per questo — ci dice il loro leader — «gente come me e Celestine deve andare sempre più al largo con delle barchette e il rischio che comporta, come si è visto ». Tutti nel villaggio di Muthakkara conoscono bene le ultime vicende: le dure prese di posizioni dell’Ue rivolte all’India, l’operazione al cuore di La Torre e l’autorizzazione dei giudici al rinvio del suo rientro per il processo, che non si è ancora celebrato né sembra destinato a iniziare presto. Ma per Dora è un capitolo chiuso. «Ho già detto di non serbare alcun rancore — ci spiega — e per me i due marò possono tornare per sempre dalle loro famiglie, perché so bene cosa significa l’assenza di chi è caro». Seduto col fratello e la madre sotto al ritratto del padre morto, il figlio maggiore Derrick ci tiene però a dire che — a parte aver ricevuto i soldi per gli studi di ingegneria — «nessuno ci ha mai chiesto scusa».
Anche su questo l’ambasciata italiana di Delhi preferisce mantenere il silenzio, per timore che ogni azione o parola possa essere male interpretata. Lo stesso riserbo hanno quasi sempre seguito La Torre e Girone, mentre una speciale agenzia investigativa nazionale, la Nia, prepara i documenti dell’indagine per i magistrati di una Corte altrettanto speciale. Neanche sul fronte del governo indiano c’è disponibilità a parlare per confermare un’eventuale trattativa in corso. «È tutto in mano alla magistratura », è la posizione ufficiale.
A due passi da casa Galestine incontriamo A. Andrews, il leader dell’associazione dei pescatori del distretto, secondo il quale «spetterebbe a noi il diritto di processare e condannare i responsabili ». «Se le famiglie hanno perdonato — dice Andrews sotto a un colorato crocifisso di Cristo che pende su una parete — noi non lo faremo mai. È nella nostra tradizione punire chi uccide degli innocenti».
In un paese dove migliaia di processi aspettano molto più di tre anni per rendere giustizia, la vicenda dei marò resta un caso a sé, per il clamore internazionale e i troppi dettagli ancora avvolti nel mistero. La fantomatica nave greca, le presunte segnalazioni dei militari alla barca “pirata” in rotta di collisione, le raffiche di mitra sparate da 20 metri di altezza e destinate in teoria a finire in acqua, la decisione del capitano di entrare in porto e consegnare i due marò. La rabbia delle comunità locali — come ci racconta un testimone di quei giorni a Kochi — montò a maggio quando ai due marò consegnati dal capitano alla polizia del Kerala fu concesso di stare in un albergo da 10mila rupie a notte, 180 dollari, con pasti di uno chef italiano, e ospitalità per 20.30 persone in occasione degli arrivi dei familiari. Al loro seguito c’erano sempre anche tre ufficiali di Marina, un colonnello dei carabinieri e una psicologa, con un cambio trimestrale del team, tanto che per tagliare le spese ormai stratosferiche si pensò di affittargli una casa. La fine delle costose missioni è arrivata con la decisione di ospitare Girone e La Torre nell’ambasciata di Delhi. Da allora nessun rappresentante dell’Italia è tornato in Kerala, né ha mai pensato di mandare un segno a lungo atteso da Dora e dai suoi figli che non credono più alla giustizia degli uomini: «Almeno una corona di fiori o una preghiera» — dicono — in occasione delle tre messe celebrate ogni vigilia del 15 febbraio nella chiesetta del Bambin Gesù, dov’è sepolto un onesto pescatore scambiato per pirata.

La Stampa 15.2.15
F come Felicità
Momen Faiz nel 2009 finì sotto un attacco aereo dell’esercito israeliano, uscendone con le gambe amputate e un’esistenza costretta su una sedie a rotelle
di Massimo Gramellini

«Amo fotografare i bambini, fissare le loro espressioni spontanee quando ridono e mentre giocano, cogliere gli istanti in cui sono allegri e spensierati: voglio raccontare al mondo il volto bello della Palestina». Desiderava fare questa professione da quando a 16 anni prese per la prima volta una macchina fotografica in mano, e oggi, che di anni ne ha 27, Momen Faiz, ha finalmente coronato il suo sogno. Benché nel 2009 sia finito sotto un attacco aereo dell’esercito israeliano, uscendone con le gambe amputate e un’esistenza costretta su una sedie a rotelle. «Sono nato ad Al-Shejaiya, nella Striscia di Gaza, ultimo di due sorelle e cinque fratelli. Mio padre è morto quando io avevo sette giorni, ma mia madre, donna straordinaria, non si è persa d’animo e ha voluto per me l’istruzione migliore: mi sono così iscritto all’Università, alla facoltà di “Media e giornalismo”». 
Un gruppo di ragazzine che giocano con dei nastri colorati, una bimba che guarda negli occhi la sua bambola di pezza, tre palloncini rossi che punteggiano l’orizzonte al tramonto: sono alcuni degli scatti dal giovane fotografo, che non nasconde le immagini di rabbia, dolore e distruzione, ma crede che la pace si possa raggiungere anche mostrando momenti di serena quotidianità. Con il sostegno della moglie, Momen, con la macchina a tracolla e le mani salde sulle ruote della carrozzina, viaggia attraverso i territori occupati, cercando di essere sempre in prima fila alla ricerca di inquadrature che sappiano trasmettere empatia. «E’ estremamente difficile vivere da disabile in Palestina: c’è bisogno di molta forza di volontà e bisogna anche accettare il fatto che è necessario farsi aiutare dagli altri. Paradossalmente dopo l’incidente sono diventato più solido e ora ho nuovi stimoli per andare avanti e fare al meglio il mio lavoro. Per il bene della mia terra».

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La Stampa 15.2.15
Il “Premio Israel” accende la diatriba tra Netanyahu e gli intellettuali
Dalle polemiche interne sull’assegnazione del riconoscimento letterario allo scontro sul previsto discorso davanti al Congresso di Washington riunito in seduta congiunta
di Maurizio Molinari

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Corriere 15.2.15
La storia di Norma, uccisa davanti ai figli perché cercava la verità
Norma Bruno Roman, 26 anni, era una giovane attivista di un gruppo che si batte per scoprire la verità sugli studenti scomparsi a Iguala
di Guido Olimpio

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Corriere 15.2.15
Pechino: sesso, potere e videotape
Lo scandalo travolge la tv di Stato
L’emittente era diventata riserva di caccia femminile dell’ex capo dei servizi segreti
di Guido Santevecchi


PECHINO È sera, ma nel palazzo di vetro della Cctv , la China Central Television, si vedono pochissime luci accese. La tv di Stato di Pechino ha 10 mila dipendenti, 45 canali in mandarino e un’altra mezza dozzina in inglese, francese, spagnolo, arabo, russo, più 70 uffici di corrispondenza nel mondo. Eppure, nel grande piazzale quasi non si incontra anima viva. Il tassista che ci ha accompagnato a vedere il palazzo, soprannominato «grandi mutande» dai pechinesi per la sua forma ardita con due torri da 50 piani che sembrano gambe sormontate da un ponte di altri tredici piani, fa una battutaccia: «I giornalisti debbono essere tutti in cella».
Il tassista legge i giornali, sa che una grande purga ha colpito anche la Cctv , la potentissima voce dello Stato che intrattiene e indottrina ogni giorno 700 milioni di persone. Sono almeno 15 i dirigenti e giornalisti arrestati negli ultimi mesi. È una storia di corruzione, stelle del video, sesso e (forse) videotape compromettenti.
Il caso che ha fatto più scalpore è quello di Rui Chenggang, 37 anni, il più famoso giornalista economico della Cina. Un professionista che aveva fatto domande a Clinton e Obama, era di casa al World Economic Forum di Davos, vestiva Zegna e girava in Jaguar. La polizia lo ha portato via quasi in diretta una sera dell’estate scorsa: stava per entrare in studio per il suo talk show. Un’incursione tanto improvvisa che la puntata è andata in onda con la sua poltrona vuota. Rui era l’idolo dei trentenni (soprattutto delle trentenni) e aveva 10 milioni di followers su Weibo, il Twitter in mandarino. Era anche un nazionalista. Tanto potente che quando qualche anno fa denunciò la presenza di uno Starbucks nella Città Proibita, il locale fu subito chiuso. Tanto spigliato da aver messo in difficoltà l’ambasciatore americano Locke, famoso perché amava viaggiare in economy: «Lo fa per risparmiare i soldi dei contribuenti e aiutare a ripagare il debito del suo governo verso la Cina?». Rui Chenggang è accusato di corruzione: aveva costituito una sua agenzia di pubbliche relazioni sfruttando il nome della Cctv . Si dice che si facesse pagare per fare pubblicità ad aziende e gruppi industriali. Anche Guo Zhenxi, il direttore di Cctv2 , è finito in carcere per tangenti. Altri per malversazioni finanziarie, ruberie sui costi di produzione.
Dietro questi arresti ci sono anche regolamenti di conti politici, scontri tra poteri forti. Prima che la polizia andasse a prendere Guo e Rui, il loro canale aveva trasmesso uno speciale in cui si accusava la Bank of China di aver aiutato diversi miliardari a esportare illegalmente i loro capitali. Ma c’è un altro filone in questa inchiesta, molto più scabroso. Si tratta di storie di relazioni extraconiugali che coinvolgono giornalisti, dirigenti della tv e politici. Con contorno di video a luci rosse. Rui era l’amante della signora Gu Liping, moglie dell’ex braccio destro del presidente Hu Jintao, appena finito sotto inchiesta per corruzione. La signora ha una quindicina di anni più di Rui. Circola un gossip incontrollabile secondo il quale il giornalista aveva filmato scene intime come una sorta di polizza d’assicurazione nei confronti del potere: se anche fosse vero, non gli è servito.
E poi, secondo gli investigatori del partito, la Cctv era diventata anche la riserva di caccia femminile di Zhou Yongkang, l’ex capo dei servizi segreti arrestato per corruzione e tradimento: gli hanno addebitato anche «l’adulterio seriale» perché un dirigente della tv gli forniva ragazze che volevano fare carriera in tv.
In questo clima la Cctv sembra sotto choc, paralizzata. Le torri «grandi mutande» sono semivuote perché si è bloccato anche il trasloco nella nuova sede: nessuno avrebbe più il coraggio di prendere decisioni.

Corriere 15.2.15
Pena di morte
Le prime crepe nel muro cinese
di Guido Santevecchi


«Ho visto condannati a morte uccisi con un colpo alla testa davanti a me. Il fango, il sangue e il cervello schizzati sui miei pantaloni». «Qualcuno non muore subito, si dibatte a terra, con le mani che si contraggono per aggrapparsi alla vita». Sono parole del giudice della Corte Suprema cinese Lu Jianping, un uomo che sente «una tortura nell’anima». Il magistrato, 52 anni, è anche docente di diritto alla Normale di Pechino ed è sempre stato contrario alla pena di morte, fin da quando, studente di legge nel 1983, gli fu ordinato di assistere a un’esecuzione capitale per imparare le procedure. Quell’immagine di un condannato a morte davanti al plotone d’esecuzione non lo hanno più lasciato. Tre anni fa il professore e altri cinque giuristi universitari sono stati distaccati alla Corte Suprema di Pechino, che si occupa della revisione e convalida delle sentenze di morte. Lu Jianping racconta di aver dovuto scrivere «approvato» su diversi fascicoli che mandano a morte i condannati, perché ci sono casi chiari, 55 tipi di reati, per i quali la legge cinese non ammette interpretazioni e clemenza «e io oggi sono un giudice». «Nelle carte vidi la foto del primo condannato: giovane, di bell’aspetto. Lo avevano preso con un chilo e mezzo di droga. Esecuzione approvata. Di notte quel condannato esce ancora dai faldoni ed entra nei miei sogni». È l’agenzia Xinhua che rilancia le parole del magistrato con il titolo «La battaglia per la vita e la morte di un giudice cinese». È significativo che la voce del governo pubblichi una storia così forte che esprime dubbi sulla pena di morte: «Le autorità da molto tempo considerano la possibilità di abolire la pena capitale. La questione fu posta al Congresso del Popolo per la prima volta nel 1956». Si parla anche della riduzione da 55 a 46 dei reati punibili con la morte. Secondo statistiche non ufficiali nel 2013 in Cina sono state eseguite 2.400 sentenze di morte, un quinto in meno rispetto al 2012. Sempre più che in tutti gli altri Paesi del mondo messi insieme.

La Stampa 15.2.15
Berlino 2015, l’Orso d’oro a Taxi dell’iraniano critico del regime
Il regista è agli arresti domiciliari, il premio ritirato dalla nipote in lacrime

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La Stampa 15.2.15
Malcolm X, la tragedia oltre il santino della storia
Moriva cinquant’anni fa il simbolo del Black Power Ormai scettico sulla Nazione dell’Islam fu ucciso a New York da alcuni suoi ex compagni
di Gianni Riotta


Le figure storiche del Novecento, prima di essere narrate dai libri degli studiosi, sono tatuate nella coscienza popolare dai mass media in cliché indelebili. Kennedy presidente televisivo e Don Giovanni. Il reverendo King e Giovanni XXIII pastori buoni. Guevara Don Chisciotte dei poveri. Aldo Moro vittima impotente delle Br. Mao Grande Rivoluzionario. Tutti fissati nell’oleografia da stampa di Warhol, e inutilmente la Storia si sgola a precisare di Kennedy leader prudente e maturo, King infine solitario e amareggiato, della raffinatezza teologica e diplomatica di Roncalli, la violenza sprezzante di Guevara, l’etica di Moro, i 40 milioni di vittime delle follie maoiste.
Il cliché
È destino cui non sfugge Malcolm Little, celebrato leader afroamericano poi noto come Malcolm X o El Hajji Malik El-Shabazz, di cui ricorrono quest’anno il mezzo secolo dalla morte, fu ucciso da militanti della sua ex organizzazione Nazione Islam il 21 febbraio 1965 durante un comizio a New York, e i 90 anni della nascita, il 19 maggio 1925. Come i Kennedy, Guevara e King, anche Malcolm X muore giovane, 39 anni.
Piccolo gangster
Il Malcolm X dei poster è consacrato prima nell’Autobiografia redatta da Alex Haley (Einaudi), considerata dalla rivista Time «uno dei libri cruciali del XX secolo», poi dal film agiografico di Spike Lee. Un piccolo gangster di periferia, che si stira i capelli rossicci, eredità di un antenato scozzese, finisce in galera, tra droghe e prostitute, per scoprire l’ordine religioso dei musulmani e convertirsi alla Nazione dell’Islam di Elija Muhammad, diventando il leader nero radicale più temuto dai bianchi e controllato dall’Fbi. Macho, capace di riformarsi in carcere studiando come Gramsci e Mandela, il Malcolm X dei mass media è simbolo irriducibile del Black Power, il potere nero che darà poi paternità alle Pantere Nere 1968, e all’orgoglio del rap, con i loghi, musiche, mode e culture di identità afroamericana del XXI secolo, dal filosofo Cornel West alla narrativa di Morrison e Pinckney.
In realtà, come per i suoi compagni di viaggio nel secolo che lo storico Hobsbawm definì «breve», ma che è il più lungo della Storia, mutando il mondo da agricolo, coloniale e patriarcale in digitale, globale e «personal», Malcolm X non è il santino della propaganda, ma un ben più tragico personaggio, la cui eredità arriva fino a noi non per il Bianco-Nero delle foto sui rotocalchi, ma le contraddizioni, le incertezze, i passi indietro che ne rendono viva l’opera.
Fatalismo
Dettando a Haley le sue vicende giovanili ad Harlem, dopo la morte violenta del padre e la crisi nervosa della madre, Malcolm X esagera le esperienze criminali, offusca i giorni della prostituzione maschile e da lenone, drammatizzando il passaggio da teppista di quartiere a leader politico. La nuova biografia, opera nel 2011 dello storico afroamericano della Columbia University Manning Marable, Malcolm X, Tutte le verità oltre la leggenda (Donzelli), ritrae finalmente un uomo sofferente, il cui orgoglio confina con la depressione che lo rende quasi impotente negli ultimi giorni, quando nulla fa per difendersi dai killer che sa lo braccano, morendo con fatalismo (impedisce i controlli all’ingresso della sala dove morirà). La maschera da duro, musulmano nazionalista che considera i bianchi «diavoli», retore cinico che commenta nel 1963 «Chi la fa l’aspetti» l’assassinio del presidente Kennedy, muta, dopo il pellegrinaggio da sunnita alla Mecca del 1964, fino al punto di pronunciare una schietta autocritica che anticipa il dibattito odierno tra Islam, democrazia e modernità: «In passato… ho condannato… tutti i bianchi. Non sarò mai più colpevole di questo errore, perché adesso so che alcuni bianchi sono davvero sinceri e… capaci di essere fraterni con un nero. Il vero Islam mi ha mostrato che una condanna di tutti i bianchi è tanto sbagliata quanto la condanna di tutti i neri da parte dei bianchi. Da quando alla Mecca ho trovato la verità, ho accolto fra i miei più cari amici uomini di tutti i tipi - cristiani, ebrei, buddhisti, indù, agnostici, e persino atei! Ho amici che si chiamano capitalisti, socialisti, e comunisti! Alcuni sono moderati, conservatori, estremisti - alcuni sono addirittura degli “Zio Tom”! Oggi i miei amici sono neri, marroni, rossi, gialli e bianchi!».
L’incontro con King
«Zio Tom», dall’eroe del romanzo di Harriett Beecher Stowe, era l’insulto che i neri radicali lanciavano ai moderati, non comprendendo la stoica forza che per generazioni di afroamericani accompagnava la difesa delle famiglie dalla violenza razzista. In una sola occasione, nel 1964, King e Malcolm X si incontrano a Washington e le loro strade stanno convergendo, King dubbioso del presidente Johnson che teme troppo cauto, Malcolm persuaso che l’estremismo della Nazione Islam non produrrà progressi per le minoranze. Malcolm X è ucciso l’anno dopo, King nel 1968, attentati in cui l’Fbi è sospettato, almeno, di non aver agito con efficienza.
Quando le Poste americane stampano un francobollo con l’immagine pensosa di Malcolm X, nel 1999, il cerchio sembra chiudersi, il ribelle che odiava i bianchi è onorato perfino con un ritratto nel McDonald’s di Harlem. Invece, a partire dal saggio di Marable, dobbiamo ripensare da zero l’uomo che, senza l’odio fanatico dei killer suoi ex compagni, potrebbe essere, a 89 anni, ancor vivo tra noi, come King, che ne avrebbe 86. Possiamo solo immaginare dove contraddizioni, ideali, esperienze e maturità li avrebbero condotti, ma dobbiamo loro il rispetto di guardare all’intero arco di un percorso, senza ridurli a controfigure di cartapesta delle buone intenzioni correnti.

La Stampa 15.2.15
Uno spiraglio sul codice segreto che respinse i traduttori di Enigma
Un matematico brasiliano scopre una coerenza linguistica nel manoscritto Voynich, dal Rinascimento incubo dei crittografi
di Fabio Sindici


Il manoscritto prende il nome dal bibliofilo polacco Wilfrid Voynich (nella foto) che lo acquistò a Roma nel 1912, proveniente dalla biblioteca del celebre gesuita Athanasius Kircher inventore del fonografo e pioniere dell’Egittologia

L’imperatore Rodolfo II d’Asburgo pagò 600 ducati d’oro per averlo nella sua collezione, al castello di Hradacany a Praga. John Tiltman, uno dei migliori crittografi dell’intelligence britannica, che insieme ad Alan Turing penetrò i codici nazisti, ci si ruppe la testa per trent’anni, dalla prima volta che lo vide fino alla morte.
Il manoscritto Voynich è il miraggio, l’ossessione dei crittografi, dei linguisti, degli studiosi di simboli, degli appassionati di enigmi. E la loro nemesi. In circa sei secoli, i segreti del suo alfabeto oscuro e delle illustrazioni che lo accompagnano non sono mai stati scalfiti. Fino a poco tempo fa, quando Diego Amancio, professore dell’Istituto di Scienze Matematiche dell’Università di San Paolo, in Brasile, non ha messo un computer di ultima generazione a interrogare le pagine del «manoscritto più misterioso del mondo». Riuscendo, forse per la prima volta, a trovare un senso nell’affascinante foresta di segni e figure che riempie fitta le 240 pagine del codice rinascimentale.
Amancio ha elaborato un modello statistico capace di mettere in relazione i caratteri tracciati sul vello; non li ha tradotti in un significato, ma ha accertato l’esistenza di un linguaggio dietro i segni sconosciuti. «La nostra ricerca ha mostrato che il Voynich presenta una grande quantità di modelli statistici simili a quelli di un linguaggio reale», spiega il professore brasiliano. Non è una traduzione, ma non è poco. L’impossibilità di decifrare il manoscritto aveva portato molti a pensare che fosse un’elaborata beffa, o una truffa ben congegnata. Si era ipotizzato che l’autore fosse John Dee, celebre mago e alchimista inglese, che lo avrebbe confezionato - e attribuito al filosofo Roger Bacon - appositamente per stuzzicare le curiosità molteplici di Rodolfo II, appassionato di alchimia ed esoterismo. Ma una prova al carbonio 14 ha accertato che il manoscritto risale ai primi decenni del 1400, più di un secolo prima della nascita dell’Asburgo.
I modelli matematici dell’istituto di San Paolo hanno rilevato costanti, «clusters di parole» nella scrittura del Voynich simili a quelli presenti in un libro. E hanno rilanciato gli studi sul mistero del manoscritto. Lo scorso anno, Stephen Bax dell’Università del Bedfordshire, ha proposto una traduzione per dieci parole e diversi caratteri, utilizzando un metodo che unisce l’esame dei caratteri a quello delle figure.
Dal 2014, gli studiosi hanno potuto leggere il codice dagli schermi dei rispettivi personal computer, dopo che la Beinecke Library dell’Università di Yale ha deciso di metterlo interamente online, come un messaggio in bottiglia. Affidato all’indagine collettiva, dagli scienziati agli hacker. Ma cosa, in questo manoscritto oscuro, ha attirato la curiosità di crittografi, letterati, artisti?
Una strana bellezza, probabilmente. Che lo rende diverso da tutti i manoscritti dell’epoca. I segni hanno un’oscura eleganza. Le illustrazioni mostrano piante sconosciute (o assemblate da diverse parti di piante note, una sorta di ingegneria genetica); donne nude che percorrono un intricato sistema di tubi e si bagnano in ampolle che ricordano quelle di un fantastico laboratorio alchemico. E mappe astrologiche, diagrammi bizzarri, che contengono fornaci e vulcani, simboli di trasformazione, ninfe con corone da regine, che sorreggono stelle. Un’iconografia che ha colpito l’avanguardia artistica e letteraria. Tanto che il Codex Seraphinianus, libro d’artista degli Anni 70 di Luigi Serafini, ne cita le piante immaginarie e la scrittura fantastica. E il compositore contemporaneo Hanspeter Kyburz gli ha intitolato un concerto da Camera.
Parte del fascino è nella sua storia. Dalle biblioteche degli alchimisti di Praga, a quella di Athanasius Kircher, l’eclettico gesuita che inventò il megafono e fu tra i fondatori dell’egittologia. Dal rivoluzionario e bibliofilo polacco Wilfrid Voynich che lo acquistò a Frascati, e gli diede il nome attuale, ai crittografi della Nsa americana che tentarono inutilmente di aprirne il codice. Se un codice c’è. Il Voynich sembra arrivato da una dimensione parallela, o da una congiura di intellettuali, come nel racconto Tlon, Uqbar, Orbis Tertius di Jorge Luis Borges, dove un’enciclopedia rimanda a una serie di mondi immaginari. L’analisi statistica è riuscita a mettere in caratteri latini alcune parole del Voynich. E il tipo di linguaggio rivelato non fa pensare a un codice, ma a una lingua orientale, forse a un dialetto sino-tibetano. Ma cosa ci fa un dialetto dell’estremo oriente in un manoscritto dell’Europa del primo Rinascimento? La porta sul mistero del Voynich è stata appena socchiusa.

La Stampa 15.2.15
Google Cultural Institute, l’Italia dell’800
in mostra con le foto degli Archivi Alinari


Gli Archivi Alinari entrano a far parte del Google Cultural Institute, la piattaforma tecnologica sviluppata da Google per promuovere e preservare la cultura online, e presentano la loro prima mostra digitale: Antichi mestieri e costumi d’Italia fotografati tra il 1860 e il 1900 (www.google.com/culturalinstitute/collection/alinari-archives). Sarà così possibile ripercorrere sul web genere fotografico di grande fascino che riporta sotto i nostri sguardi l’Italia dell’Ottocento: oltre cinquanta immagini, scattate nel Diciannovesimo secolo, rappresentano la vita quotidiana, svolta per lo più per strada. Uno spaccato affascinante delle abitudin, del lavoro e della popolazione italiana nella seconda metà dell’Ottocento. Il progetto presenta la produzione fotografica di alcuni tra i più importanti fotografi attivi in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, come Alinari, Brogi, Sommer, Rive, Conrad, Chauffourier, affascinati dalla realtà della vita quotidiana e dagli antichi mestieri italiani e dei costumi popolari.

La Stampa 15.2.15
Oetzi, il primo trekker si curava con l’agopuntura
Nuovi tatuaggi scoperti sul corpo di oltre 5 mila anni fa: “Realizzati a scopo terapeutico per alleviare l’artrosi”
di Enrico Martinet

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Corriere 15.2.15
Germania, grande madre d’Europa parola di un inglese amante di Goethe
di Ricardo Franco Levi


Poco più di venticinque anni fa, il 9 novembre 1989, cadeva il Muro che divideva Berlino. Da allora la Germania è protesa in avanti a costruire il suo presente e il suo futuro. Al medesimo tempo, come nessun’altra nazione, è rivolta all’indietro, a meditare sul proprio passato, gravido di orrore e di colpa.
A un quarto di secolo da questo tornante della storia, qual è la memoria, quale l’identità, quale il volto della nazione tedesca? Una domanda antica, se già nel 1796 Goethe e Schiller, si chiedevano: «La Germania? Dov’è? Io non so dove trovare un tale Paese». Una domanda alla quale cerca oggi di rispondere il direttore del British Museum di Londra, Neil MacGregor.
Autore, qualche anno fa, di una straordinaria Storia del mondo in 100 oggetti , splendidamente pubblicata in Italia da Adelphi, nel suo nuovo libro, Germany. Memories of a Nation (Allen Lane, pagine 598, £ 25), MacGregor ci fa da guida in un viaggio che parte dal Siegestor, l’Arco della Vittoria di Monaco e finisce davanti al Reichstag, il Parlamento di Berlino.
In un mondo vissuto per secoli passando di guerra in guerra, non c’è quasi una grande città che non ospiti un arco di trionfo, modellato sugli esempi romani degli archi di Tito e di Costantino.
L’Arco della Vittoria di Monaco, il Siegestor, è diverso. Diverso e unico. Eretto nel 1840 per celebrare il valore dei bavaresi nelle guerre napoleoniche, nelle quali peraltro i nemici erano spesso altri Stati tedeschi, il Siegestor si offre allo sguardo nel suo lato Nord nel più tradizionale dei modi: ricche decorazioni, sculture e, a dominare il tutto, la statua in bronzo della Baviera su un carro trainato da leoni. Il lato sud è tutt’altra cosa. Danneggiato nella Seconda guerra mondiale, non è stato restaurato e tutta la sua parte superiore è un’unica pietra nuda e levigata. Su di essa, nient’altro che la scritta «Dem Sieg geweiht, vom Krieg zerstört, zum Frieden mahnend» («Dedicato alla vittoria, distrutto dalla guerra, incitante alla pace»): un messaggio ad un tempo di gloria e di vergogna, di unità e di divisione, di futuro e di passato.
Parlando nella Biblioteca del Congresso di Washington, il 29 maggio 1945, tre settimane appena dopo la fine della guerra, Thomas Mann, che aveva lasciato la Germania dopo l’avvento di Hitler, disse: «Per quanto io sia un cittadino americano, sono rimasto uno scrittore tedesco, fedele alla lingua tedesca che per me resta la mia vera patria... meine wahre Heimat».
Era al tedesco, alla lingua, che Thomas Mann si rivolgeva per ritrovare le proprie radici e il senso di una Germania migliore.
Indiscusso padre della lingua tedesca è Martin Lutero. Nel ritratto eseguito nel 1529 da Lucas Cranach lo vediamo sicuro di sé, con lo sguardo tranquillo, le mani giunte, il volto tondo con un marcato doppio mento a debordare sul colletto dell’abito tutto nero. Dodici anni prima, nel 1517, affisse al portone della chiesa di Wittenberg, le sue «Novantacinque Tesi», scritte in protesta contro la vendita delle indulgenze della Chiesa di Roma, che avevano scosso non la sola Germania ma l’Europa intera.
Dichiarato un eretico dalla Chiesa, considerato un fuorilegge dall’imperatore, Lutero, rifugiato nel castello di Wartburg, in sole undici settimane di folle lavoro tradusse in tedesco il Nuovo Testamento che già nel settembre 1522 fu posto in vendita alla Fiera del Libro di Lipsia.
Era nata la lingua della Germania. Lutero stesso spiegò come aveva costruito il suo vivo e vero tedesco: «Non dovete chiedere alla letteratura latina come parlare tedesco. Chiedetelo alla madre nella sua casa, al bambino nella strada, all’uomo comune al mercato — osservate come loro parlano, e traducete di conseguenza. Allora vi capiranno e vedranno che voi state parlando loro in tedesco».
Meno di settant’anni prima, nel 1455, a Mainz, Johannes Gutenberg, messo a punto un innovativo sistema di caratteri tipografici mobili e una speciale pressa, non in tedesco ma in latino (Lutero non era ancora nato), aveva stampato una Bibbia in centottanta esemplari. Era nato il libro moderno e con esso, secondo molti, addirittura il mondo moderno.
L’invenzione della stampa difficilmente sarebbe potuta avvenire altrove. La Mosa e la Saar erano da millenni centri della lavorazione dei metalli, arte indispensabile per la fusione dei caratteri. Con le loro attrezzature per la pigiatura dell’uva le grandi cantine della regione attorno a Mainz offrivano il modello per la pressa tipografica. Francoforte, con le sue due fiere all’anno, era un punto di incontro ideale per ordinare la carta dall’Italia e per vendere i libri una volta stampati.
Dalla Bibbia di Gutenberg parte una linea, una tradizione di produzione industriale di eccellenza che arriva sino al «Maggiolino» della Volkswagen e all’affermazione su scala mondiale del «Made in Germany».
Ma la Germania è anche altro e molto di più. È la birra dell’Oktoberfest di Monaco; le salsicce, una per ogni città (la bianca Weisswurst di Monaco, la classica Frankfurter e la Rindswurst di solo manzo di Francoforte, la Currywurst di Berlino); i ritratti dei mercanti anseatici di Hans Holbein e i disegni di Dürer; il cancelliere Bismarck in abiti da fabbro, la Bauhaus di Gropius, Breuer, Kandinsky e Klee. Ma è anche la scritta «Jedem das Seine», «A ciascuno il suo», sulla cancellata del campo di sterminio di Buchenwald.
Il lungo viaggio di MacGregor finisce davanti al Reichstag di Berlino, il Parlamento ristrutturato dall’architetto inglese Norman Foster con la costruzione della grande cupola in vetro dal cui interno il pubblico può vedere e controllare dall’alto i propri rappresentanti, dando autentico significato alle parole, «Al popolo tedesco», incise sulla facciata.
Questo rinnovato simbolo della nazione non sarebbe, tuttavia, stato né possibile né credibile se, prima, non fosse stato oggetto di un segno di rottura. Fu questo il vero, profondo significato dello spettacolare «impacchettamento» del Reichstag eseguito nel 1995 da Christo, il celebre artista statunitense.

Corriere Salute 15.2.15
Oggi siamo tutti un po’ smemorati
Non chiedere troppo alla tua memoria
di Danilo di Diodoro


La memoria di cui sono dotati gli esseri umani, in un mondo in cui ci sarebbero sempre più cose da ricordare, tende ad apparire ogni giorno meno adeguata. Sono tanti i ricordi e le informazioni che possono mancare all’appello nel momento in cui servirebbero: il nome di una persona già incontrata, il numero dell’ennesimo PIN, la password di quel sito internet al quale ci si era iscritti alcuni mesi prima, e così via. Quando le dimenticanze iniziano a ripetersi, subentra la preoccupazione, specie quando si avanza con l’età. Sarà normale una memoria tanto lacunosa?
Certo è che la quantità di informazioni da tenere a mente è aumentata a dismisura negli ultimi decenni, specialmente per chi è impegnato in attività professionali molto “esigenti” sotto questo profilo. Così, oltre ai veri disturbi della memoria, più o meno correlati al possibile sviluppo di demenze, gli specialisti stanno iniziando a individuare condizioni in cui la caratteristica fondamentale è l’insoddisfazione personale per le proprie prestazioni mnemoniche. È come se chi vive nel complesso mondo contemporaneo stesse prendendo coscienza della differenza tra una memoria ideale, capace di ricordare tutto quello che servirebbe, e la memoria reale, che non riesce invece a stare al passo.
Una di queste condizioni di memoria normale, ma percepita come insufficiente, è il cosiddetto disturbo funzionale della memoria . È uno stato nel quale ci si lamenta già da alcuni mesi delle prestazioni della memoria a fronte di un ambiente che richiederebbe di ricordare molte cose diverse. Non c’è nessuna specifica causa, né fisica né mentale. «È un disturbo più comune tra le persone che si collocano su un piano elevato dal punto di vista degli studi effettuati e dell’appartenenza professionale e socio-economica — spiegano gli autori di una ricerca in merito, guidati da Blackburn del Department of Neuroscience dell’University of Sheffield (Gran Bretagna) —. Persone che hanno un atteggiamento perfezionistico nei confronti delle prestazioni mnemoniche sono più a rischio di sviluppare una risposta di disadattamento a mancanze o errori di memoria, ma anche alle variazioni normali a cui questa funzione va incontro in seguito a cambiamenti dell’umore, allo stress, all’avanzare dell’età».
Il fenomeno può avere un carattere di automantenimento. Infatti, chi nota anche piccole difficoltà nella propria abilità di ricordare, aumenta il livello di attenzione nei confronti delle prestazioni cognitive, generando la sensazione che ci sia qualcosa che non va. «In poche parole — dicono i ricercatori — si sviluppa un vero sintomo cognitivo in seguito a un cattivo abbinamento tra una domanda di memoria molto esigente, ad esempio per motivi professionali o per la necessità di lavorare in multitasking, e le risorse mnemoniche disponibili». E più la condizione di stress si prolunga, più la memoria, spremuta, tende a funzionare male, così che la condizione diventa disturbante.
Un’altra condizione di memoria insoddisfacente, ma non necessariamente patologica, è il cosiddetto mild cognitive impairment (“deterioramento cognitivo lieve”). Si tratta di uno stato sulla cui natura, e soprattutto sulla cui evoluzione, ci sono molte perplessità anche tra gli esperti. Chi ne soffre manifesta una reale riduzione delle capacità cognitive, soprattutto quelle mnemoniche, ma il funzionamento della vita quotidiana è preservato. Può essere dovuta all’età, o essere la conseguenza di uno stato depressivo prolungato, di un cronico abuso di alcol. A questa variabilità di cause corrispondono sintomi sfumati e incostanti, e un’incertezza sull’evoluzione. «L’intenzione originaria di questa diagnosi era di consentire l’individuazione di persone ad alto rischio di Alzheimer o di altre condizioni neurodegenerative che possono portare alla demenza — spiegano i ricercatori —. Ma è un obiettivo che non si può considerare raggiunto». Infatti, in molti casi il deterioramento cognitivo lieve è una condizione transitoria, che consente un pieno recupero, come accade quando si supera uno stato depressivo protratto. Quindi, non ha nulla a che vedere con nessuna forma di demenza né presente né futura. «Eppure tra i non specialisti e la gente comune c’è la convinzione che qualunque grado di deterioramento cognitivo lieve indichi persone che procederanno inesorabilmente verso una forma di demenza» aggiungono gli autori dello studio. E una ricerca realizzata tra i neurologi americani ha dimostrato che perfino il 20% di loro aveva tale erronea convinzione.
Queste condizioni, un po’ a metà strada fra lo stato normale e quello patologico, indicano che tra di essi non vi è una netta separazione. Si può avere una perdita di alcune funzioni cognitive del tutto transitoria, o stabile ma che non procederà mai oltre, mentre solo pochi casi diventeranno vera demenza. La ricerca è impegnata a individuare il più precocemente possibile proprio quegli specifici casi.

Corriere Salute 15.2.15
Dimenticare
Perché è difficile cancellare le brutte esperienze
di D. d. D.


C’e chi cerca di ricordare e chi, invano, di dimenticare. È il caso di chi soffre del Disturbo post-traumatico da stress, tra
i cui sintomi principali vi è il continuo ripresentarsi di memorie di eventi traumatici
ai quali si è stati esposti. Una ricerca pubblicata sulla rivista Nature , realizzata al National Institutes of Health, indica ora che la persistenza di tali memorie sgradite potrebbe essere dovuta
al cambiamento del circuito cerebrale che ha il compito di recuperare i ricordi. Normalmente il recupero avviene per comunicazione diretta fra la corteccia prefrontale e l’amigdala; ma per i ricordi traumatici, dopo alcuni giorni, si attiva un circuito alternativo che coinvolge un’area cerebrale del talamo: un cambiamento che sembra stabilizzare tali ricordi. Ora l’obiettivo sarà provare a interferire con il funzionamento di questo circuito, per liberare la memoria dai traumi.

Corriere La Lettura 15.2.15
L’ossessione fatale deprecata da Marx: misurare in denaro anche la morale
L’economia invade l’etica e ci fa sentire perennamente in colpa
di Donatella Di Cesare


di Donatella DIcesareIl succedersi accelerato delle crisi finanziarie ha gettato tutti in una nuova condizione: quella di un debito permanente. Sconosciuto alle generazioni precedenti, l’indebitamento inizia con la nascita e incide sui comportamenti, sui modi di agire, sulle relazioni. Ne risulta una forma di esistenza ancora non indagata. Che cosa significa vivere sotto il peso di un debito inestinguibile? In che misura ciascuno è obbligato a rendere continuamente conto di sé? Come ricomporre la schizofrenia di due messaggi opposti: quello del consumo compulsivo che, proclamando l’innocenza di tutti, spinge a entrare nel paradiso delle merci, e quello della economia del debito, che imputa a ciascuno la colpa di vivere al di sopra dei propri mezzi? Si può parlare di «libertà» per il debitore costretto a uno stile di vita confacente al rimborso? E infine, se tutti sono debitori, che ne è del credito, della credibilità, non si volge, cioè, la fiducia in una diffidenza che mina ogni rapporto?
Da quando è stata introdotta, la carta di credito ha inserito chi la possiede nell’ingranaggio del debito, facendo del possessore un debitore. Così ha diffuso il debito, spingendo molti a spendere ben più di quanto guadagnino. Che dire poi degli Stati? Il debito pubblico ha mutato drasticamente il paesaggio politico dell’ultimo decennio. Nella storia non mancano precedenti. La crescita del debito pubblico contribuì al declino di Atene e delle città greche. Ma la novità, nella Grecia di oggi, è la figura inedita del cittadino indebitato. Anche chi è troppo povero per avere accesso al credito è costretto a rimborsare i creditori dello Stato. E coloro che nasceranno nei prossimi anni dovranno farsi carico del debito pubblico, quasi fosse un peccato originale. Ma il debito è un peccato? E l’economia non sconfina allora nella morale, o addirittura nella teologia? Certo che la morale altro non è che «ripagare i propri debiti», restituire il dovuto. A questo significato rinvia con chiarezza l’etimologia dell’italiano «debito» che viene dal latino debere . In breve: debito è il dovuto, ciò che si è avuto dagli altri, ma che non sempre è restituibile. In questo verbo si compendia non solo l’obbligo morale, ma anche il riconoscimento del vincolo che pervade ogni esistenza.
Su questo vincolo hanno riflettuto i filosofi. Che cosa non dobbiamo agli altri? A cominciare dalla vita stessa? Malgrado ogni fantasia parricida, ogni chimerica velleità di ergerci sovranamente a creatori di noi stessi, occorre ammettere gli innumerevoli debiti, esistenziali, morali, intellettuali, che ci legano ai genitori, ai maestri, ai fratelli, agli amici — a coloro che ci hanno preceduto, a coloro che ci seguiranno. Il rapporto con gli altri è definito dal debito. Dio è allora il Grande Creditore. Impagabile è il debito dell’esistenza, così come alla fin fine tutti gli obblighi che, eccedendo ogni metro e ogni misura, ci vincolano agli altri. Dovremmo perciò sentirci sempre in colpa?
È Nietzsche a rispondere. In tedesco Schuld vuol dire sia debito sia colpa. Il che porta a confondere tra la colpa morale e il debito materiale. Confusione gravissima, che ha improntato l’etica tedesca e da cui non è stato indenne neppure Kant. Deriva da qui la teutonica ascesi del debito imposta oggi ai popoli mediterranei, giudicati moralmente riprovevoli? Il nesso tra colpa e debito va smascherato. Avere un debito di denaro non significa essere in colpa. Perché la colpa dovrebbe investire — come avveniva già nel Medioevo — anche il creditore che, prestando denaro, vende l’attesa, cioè il tempo, un bene che non gli appartiene.
Nonostante il loro confluire, occorre tenere ben distinte morale e economia: l’obbligo, l’impegno verso l’altro, non è il debito in senso stretto. La differenza è il denaro. Il debito può essere misurato con precisione, proprio perché deve essere ripagabile. Che cosa c’è di peggio che prendere gli impegni morali per debiti? «Si pensi a tutta l’infamia che c’è nello stimare un uomo in denaro», scrive Marx. E aggiunge: «Il credito è il giudizio economico sulla moralità di un uomo». Non si tratta solo di ridurre l’etica agli affari, l’obbligo a una faccenda di denaro. L’ulteriore conseguenza è fare del debito una colpa smisurata, un peccato interiorizzato per il quale non può esserci riscatto.
Le cifre iperboliche che gravano oggi su molti cittadini europei assomigliano a una pena senza remissione, a un debito infinito, a una schiavitù perenne. Ci si dovrebbe allora chiedere se il default economico non rischi di essere anche una bancarotta etica e umana. Sarà un caso che la Bibbia, dove si distingue accuratamente tra debito e obbligo, preveda ogni sette anni la cancellazione dei debiti? Si dovrebbe pensare a un nuovo giubileo per interrompere l’indebitamento planetario?

Corriere La Lettura 15.2.15
La musulmana Commedia
Maometto è all’«Inferno», ma sempre più indizi suggeriscono che il poema abbia fonti arabe
di Paolo Di Stefano


Nel 750° della nascita di Dante, una cospicua serie di occasioni editoriali riporta sulla scena — in una fase storica peraltro tragicamente sensibile a questi temi — il discusso rapporto tra l’Alighieri e il mondo arabo. Intanto, la riproposta dell’autentico classico sull’argomento: lo studio del gesuita spagnolo Miguel Asín Palacios, L’escatologia islamica nella Divina Commedia (in libreria per Luni editore con introduzione di Carlo Ossola), che al suo apparire, nel 1919, fu tanto pionieristico da scatenare accese polemiche tra i dantisti italiani, scandalizzati dall’ipotesi di un influsso dei modelli arabo-islamici sul poema dantesco. Si sarebbe poi scoperto che tra questi testi agì certamente il cosiddetto Libro della Scala di Maometto , che narra il viaggio notturno del profeta e la sua ascesi al cielo: un’opera (il cui originale arabo, dell’VIII secolo, è andato perduto) diffusa in Europa attraverso due versioni, in latino e in francese. Fu sicuramente il notaio toscano Bonaventura da Signa, esule alla corte toledana di Alfonso il Savio dopo il 1260, l’autore della traduzione latina, edita nel 1949 da Enrico Cerulli e riproposta lo scorso anno per le attente cure di Anna Longoni (Bur).
Maria Corti ebbe il merito di riprendere la questione dei contatti tra cultura arabo-islamica e letteratura cristiana in epoca medievale (in primo luogo studiando il canto di Ulisse e il passaggio delle Colonne d’Ercole), e di approfondire in particolare l’ipotesi di un rapporto intertestuale tra il Libro e la Commedia . Si trattava poi di capire come Dante ne fosse venuto a conoscenza, tenendo presente che l’ipotesi ricorrente accreditava come chiave di volta la mediazione di Brunetto Latini, il maestro dell’Alighieri che frequentò la corte di Toledo; probabilmente l’opera era più diffusa di quel che si pensa. Di recente il filologo Luciano Gargan ha trovato il Libro citato nell’inventario di una piccola biblioteca raccolta da un frate domenicano, Ugolino, e donata nel 1312 al convento bolognese di San Domenico: e Gargan ( Dante, la sua biblioteca e lo studio di Bologna , Antenore) suppone che Dante abbia potuto avvicinarsi alla leggenda islamica durante i suoi soggiorni bolognesi.
A tutto ciò si aggiunge ora uno studio che uscirà nel prossimo numero dei «Quaderni di filologia romanza», diretti da Andrea Fassò (maggio-giugno 2015, Patron editore). Si tratta di una Lettura (faziosa) dell’episodio di Muhammad proposta dal filologo di origine egiziana Mahmaoud Salem Elsheikh, allievo di Gianfranco Contini, curatore di diversi testi italiani delle origini e fino al 2007 responsabile dell’Ufficio Filologico dell’Opera del Vocabolario Italiano. Il saggio dedica una prima parte al trattamento riservato, nelle varie traduzioni arabe, ai versi «offensivi» del XXVIII dell’ Inferno riguardanti il profeta dell’islam e il suo genero Alì: un canto «splatter» di rara violenza verbale in cui i due fondatori dell’islam, finiti nella nona bolgia come seminatori di scismi, esibiscono orrende ferite e mutilazioni, esatto contrappasso delle divisioni di cui sarebbero stati responsabili. Ecco Maometto squarciato dal mento «infin dove si trulla» (cioè fino all’ano, ovvero dove si scorreggia) e Alì con la faccia sfigurata dal mento alla fronte.
Non potendo tollerare una tale offesa, i traduttori arabi, pur inebriati dall’ipotesi di una influenza della loro cultura nel poema dantesco, lavorano di forbici. Siamo nel 1930 quando Taha Fawzi pubblica al Cairo un profilo biografico di Dante, con «una sobria e puntuale analisi delle opere minori e un garbato riassunto delle tre cantiche». In contemporanea, fra il 1930 e il ’33, tocca al libanese Abbud Abu Rašid, naturalizzato italiano, dare alle stampe una versione in prosa in cui vengono cassati i nomi di Maometto e di Alì: una «traduzione, resa quasi illeggibile dalle molte chiose sovrapposte e intricate». Più radicale sarà l’intervento del giordano cristiano Amin Abu Sha’ar, che nella sua traduzione in prosa dell’ Inferno , uscita a Gerusalemme nel 1938 e basata sulla versione inglese di Henry Francis Cary, decide di saltare non solo il canto XXVIII ma anche il XXIX e il XXX.
Servono quarant’anni di lavoro all’egiziano Hassan Uthman per portare a termine una «pregevole» traduzione apparsa tra il 1955 e il ’69, condotta sull’originale e corredata da un ampio commento didascalico. Uthman taglia però i versi 22-64, poiché «inadatti alla traduzione» e frutto di «un grossolano errore» dovuto all’influenza di «quanto in quell’epoca era opinione comune sul grande Profeta». Meno riuscito il tentativo di rendere la Commedia in versi da parte dell’iracheno Kazim Jihad, il quale nel 2002 con il contributo dell’Unesco, fornì, secondo Elsheikh, «una traduzione assolutamente incomprensibile»: i nomi di Maometto e di Alì vengono sostituiti da puntini di sospensione tra parentesi tonde. È la decisione che prende anche il siriano Hanna Abbud nella sua traduzione damascena dello stesso anno, cercando di «camuffare l’identità dei personaggi fino a rendere incomprensibile il passo dantesco».
Venendo all’immagine di Muhammad diffusa nel Medioevo cristiano, Elsheikh si sofferma sulle rappresentazioni offensive. Si comincia dalle cadute provocate dall’apparizione dell’arcangelo Gabriele, che vengono interpretate come stratagemma per mascherare l’epilessia. E si prosegue con le narrazioni che lo vogliono monaco arrivista, impaziente di diventare patriarca di Gerusalemme (così lo vede Ildeberto di Lavardin, arcivescovo di Tours, all’inizio del XII secolo), oppure mago pseudo-profeta e capo dei ladroni (secondo una leggenda tramandata anche da Jacopo da Varazze alla fine del XIII secolo). Altri (Ricoldo da Montecroce, morto nel 1320) lo descrivono come diavolo invidioso delle vittorie altrui.
C’è poi il filone che lo immagina cardinale romano, addirittura della famiglia Colonna: così nei rifacimenti toscani del Tresor di Brunetto Latini. Nel secondo in particolare, del 1310, con il nome di Pelagio vuole farsi eleggere papa ma non ci riesce per l’opposizione della maggioranza dei cardinali. Diventa così Malchonmetto (ovvero Maometto, perfida coniazione secondo etimologia popolare) e se ne va errando e predicando. L’anonimo versificatore prosegue narrando che Maometto, aggredito da un drappello di porci, viene morso da una scrofa che gli provoca la fuoriuscita del cervello e quindi la morte: sarebbe per questo che i musulmani non mangiano carne di maiale. La tradizione orale occidentale, che si cristallizza nella scrittura, tende a dimostrare che Muhammad fu «un cristiano o un mago ingannatore ammaestrato da un cristiano (con l’aiuto di qualche ebreo) e che l’islam è propaggine eretica del cristianesimo». Dunque Dante non fa che stare nel solco della leggenda vulgata nella sua epoca.
Il canto XXVIII, secondo Elsheikh, è strutturato su una «carica fonica irta e segmentata, che sottolinea la brutale aggressività delle immagini», con la ricerca di vocaboli comico-realistici, «al limite della volgarità» intenzionalmente orientati a dipingere il personaggio con coloriture grottesche e persino buffonesche che non hanno pressoché eguali in tutta la Commedia . Ma c’è di più. Lo studioso segnala vistose affinità tra il poema dantesco e l’archetipo del Libro della Scala , cioè la più antica versione dell’ascensione ( mi’raj ), attribuita ad Anas ibn Malik, discepolo del Profeta, morto nel 712: un testo a lungo tramandato per via orale fino ad arrivare, variamente elaborato, in opere latine antimusulmane diffuse in Europa.
È un racconto scabro del viaggio di Maometto, ma guarnito di elementi che non verranno ripresi dai testi latini e che rimangono dunque unici. Tra questi, l’immagine di Gabriele che, prima dell’ascensione, apre il ventre e il torace del Profeta, lo svuota e lo purifica riempiendolo di fede e di sapienza. Il taglio «dalla cavità della gola fino al basso ventre» è l’equivalente quasi letterale del dantesco «rotto dal mento infin dove si trulla». A ciò si aggiunge il passo che riguarda Alì, «fesso nel volto dal mento al ciuffetto», il cui squarcio prosegue idealmente quello del Profeta (sfregiato dalla gola in giù), a segnalare l’ulteriore divisione dell’islam tra sunniti e sciiti. Ebbene, di quella lesione, che avvenne nei fatti, Dante poté aver saputo solo attraverso la cronaca araba dello storico ibn al-Athir o da qualche suo ignoto derivato. Per quali vie l’Alighieri si appropriò delle immagini di ibn Malik e di ibn al-Athir? Non lo sappiamo, perché, secondo Elsheikh, il «mosaico che compone la conoscenza arabo-islamica di Dante» va ancora adeguatamente ricostruito.
Ed eccoci giunti a quella che lo stesso Elsheikh definisce una «mera ipotesi provocatoria». Si tratta di una congettura psicologica, la «sindrome del debitore». Dante si accanirebbe con particolare ferocia contro i suoi antichi modelli culturali in seguito ripudiati: tra questi il sodomita Brunetto con il suo carico di colpe panarabistiche; ma anche il poeta provenzale Bertran de Born, segnalato nel De vulgari eloquentia come il maggior cantore delle armi, che compare nello stesso XXVIII con il capo mozzo tenuto in mano «a guisa di lanterna», a saldare la simmetria strutturale del canto, nella bolgia dei «creditori colpevoli». Come furono Maometto e la sua cultura? Forse. Il crudele «contrappasso» (parola citata qui per l’unica volta in tutto il poema) sarebbe dunque, tutto sommato e per paradosso, un riconoscimento di cui i fratelli di Elsheikh dovrebbero andare fieri. Altro che censura…

Il Sole Domenica 15.2.15
Che figura, la Commedia!
Il facsimile dell’esemplare custodito nella casa del poeta a Roma ricco di miniature in una sfarzosa edizione
di Lina Bolzoni


La scoperta della scrittura, e poi della stampa, furono grandi rivoluzioni: non si trattava di semplici strumenti, ma di realtà, di esperienze nuove che avrebbero profondamente trasformato la mente stessa di chi li usava. Ce lo hanno insegnato, in anni ormai molto lontani, studiosi come Marshall McLuhan e Walter Ong; oggi noi siamo in grado di valutare con chiarezza i limiti dei loro studi ma anche la prontezza dell’intuizione e la loro sostanziale capacità profetica. I nuovi strumenti di comunicazione non segnarono tuttavia una cesura netta: il fascino del manoscritto, e del manoscritto miniato in primo luogo, dura a lungo, anche nell’età della stampa, fino a interagire con il libro stampato: note di lettura si dispongono per secoli ai margini della pagina stampata, turbando e arricchendo il suo carattere ordinato e riproducibile, e dandoci nello stesso tempo la possibilità di spiare dal vivo la ricezione individuale del testo. Ma, soprattutto nei primi secoli, sono i capilettera miniati e le immagini dipinte a intervenire negli spazi della pagina stampata, così da importare nel mondo della nuova tecnologia il fascino unico e raro del manoscritto prezioso, quello che aveva costituito il tesoro delle biblioteche principesche e delle grandi biblioteche private.
Uno splendido esempio ce lo fornisce un incunabolo della Commedia, stampato a Venezia il 18 novembre 1491, insieme con il fortunato commento di Cristoforo Landino; l’esemplare oggi custodito presso la casa di Dante in Roma presenta numerose postille manoscritte, in volgare e in latino, ed è arricchito da più di 400 miniature a colori. Lo si può ora ammirare nell’elegante facsimile pubblicato dalla Salerno Editrice, nell’ambito della Edizione nazionale dei commenti danteschi. Le postille dialogano con il commento di Cristoforo Landino, in un rapporto molto libero, che prevede il consenso e la lode, ma anche la critica aperta: «gran coionaria è questa di lo comentator – leggiamo a un certo punto – a reprender il poeta che dica mal di la sua patria tegnosa». Ma chi era l’autore di questa nota irriverente, così polemica contro la partigianeria fiorentina del Landino? Mettere a fuoco la sua identità ha comportato risolvere un vero e proprio giallo filologico e, insieme, arricchire la nostra conoscenza della «geografia e storia» della fortuna di Dante tra Quattro e Cinquecento. Il commento del Landino, si legge nel colophon dell’incunabolo, è «emendato per maestro Piero da Fighino dell’ordine de frati minori». Le ipotesi su questo sconosciuto francescano si sono susseguite, e la questione era tanto più rilevante perché gli venivano attribuite sia le postille che le miniature. Una svolta, con uno spettacolare colpo di scena, si è avuta con le ricerche di Giuseppe Frasso e Giordana Mariani Canova. Ne risultava del tutto ridimensionato l’apporto di “maestro Piero”, che si era limitato a rivedere il testo a stampa, mentre compariva sulla scena, da protagonista, un nuovo, interessante personaggio: Antonio Grifo, esule da Venezia, poeta ben inserito nelle corti settentrionali, che fra il 1494 e il ’96 leggeva e commentava Dante, con grande successo, alla corte di Ludovico il Moro. A lui sono ora attribuite le annotazioni e le miniature dell’incunabolo dantesco, sulla linea di un’altra simile impresa da lui compiuta, e cioè appunto le postille e le illustrazioni con cui decora l’incunabolo petrarchesco del 1470 conservato nella Biblioteca civica Queriniana di Brescia. Si capisce allora la coloritura settentrionale della lingua, e anche il rapporto a volte polemico con Cristoforo Landino, toscano come toscano era il misterioso revisore, quel «maestro Piero da Fighino» al quale Celestino Piana ha dato un volto e un’identità: si tratta con ogni probabilità del francescano Pietro Mazzanti, un teologo legato a Lorenzo de’ Medici. Ora che i diversi protagonisti dell’operazione hanno un nome e una precisa collocazione geografica, possiamo goderci ancor meglio questo splendido incunabolo miniato, in cui parole e immagini costruiscono, sul testo dantesco, una molteplicità di prospettive. Come abbiamo già notato, le postille dialogano, a volte polemicamente, con l’imponente commento del Landino, che inseriva Dante nel cuore della tradizione culturale fiorentina e ne suggeriva una lettura in chiave neoplatonica.
Ma ancora più complesso è il rapporto che le miniature intrattengono con il testo a stampa, in particolare con le immagini - 100 incisioni in legno- di cui l’incunabolo era dotato. Sembra di assistere a una specie di corpo a corpo fra il miniatore e l’illustrazione stampata: non soltanto la xilografia viene dipinta, ma a volte nuove immagini vengono applicate sopra le xilografie, quasi a sottolineare il trionfo dell’apporto individuale, della mano del miniatore. Il quale del resto si firma, a c.236r, in corrispondenza con la prima pagina del Paradiso, attraverso l’immagine del grifone: un autoritratto allusivo e emblematico, che colloca il postillatore poeta accanto a Dante e Beatrice sulla soglia dell’empireo. E crea un segreto legame con la spettacolare scenografia delle immagini che, nei canti XXIX e XXXII del Purgatorio, celebrano il trionfo del grifone, simbolo della duplice natura del Cristo. È uno splendido, vivace commento figurato, quello che si dispiega sotto i nostri occhi, ricco di eleganti capilettera, di fregi floreali e faunistici, di figurine ornamentali, e soprattutto rivolto a parlare al cuore e alla mente del pubblico cortigiano cui è indirizzato. Prevale il gusto per le armi, gli amori, le audaci imprese, per le fantasie mostruose ispirate dalle creature che popolano l’Inferno. La corte si rispecchia, attraverso le immagini, nelle eroine e negli eroi antichi, nei guerrieri che hanno combattuto per la fede, e tale rispecchiamento è agevolato da una particolare attenzione alla moda: nel cielo di Marte i paladini di Francia appaiono vestiti alla «fogia franzosa», come sottolinea una scritta, e anche Tristano, nel V canto dell’Inferno, indossa un «habito novo». L’eleganza, il culto degli ideali cavallereschi, la rêverie erotica, si nutrono dell’esperienza contemporanea e convivono con l’omaggio politico alla famiglia Sanseverino, protettrice del Grifo.
Ma la di là delle infinite suggestioni legate al gusto e alla cultura delle corti nordiche fra la fine del Quattrocento e l’inizio del nuovo secolo, possiamo semplicemente ripercorrere i fogli abbandonandoci al fascino delle immagini, al sofisticato gioco illusionistico che esse creano nei confronti stessi della pagina stampata: a cominciare dalla carta 11r, dove inizia il poema e la pagina stampata viene ridisegnata così da apparire come un foglio un po’ stracciato, dai margini smangiati e arrotolati; in basso Orfeo che incanta le fiere rievoca l’antichissima origine della poesia ricordata dal Landino nel suo commento, ma suggerisce forse anche la capacità che la poesia ha di vincere, o almeno di incantare le fiere che ostacolano il cammino del pellegrino.

Il Sole Domenica 15.2.15
Vita da critico, a capire il poeta
di Carlo Ossola


I primi due volumi di un vasto piano editoriale in sei tomi che raccolga l’insieme delle opere di Francesco Mazzoni (1925–2007) su Dante e la sua ricezione, inaugurano molto degnamente l’anno 2015 che celebra i 750 anni della nascita di Dante (1265). A lungo presidente della Società Dantesca Italiana (1968-2005), ha guidato l’impresa dell’Edizione Nazionale delle Opere di Dante, poeta al quale ha consacrato tutta la sua vita di studioso. Il primo dei due tomi si distingue per una sorta di «geografia dantesca» che riunisce saggi dedicati a luoghi essenziali dell’esperienza dantesca (Campaldino, l’Arno, il Casentino, la Lunigiana), ma anche più marginali come il Piemonte; mentre una parte cospicua è consacrata a un capillare censimento dei codici della Commedia e dei manoscritti delle opere di Dante. Il secondo tomo presenta un più organico percorso nella lunga storia della critica dantesca nei secoli, da Jacopo Alighieri sino a Giuseppe Vandelli e al discorso di Montale per il VII centenario della nascita di Dante. Libro nel libro sono i due lunghi saggi dedicati a Guido da Pisa e a Pietro Alighieri, tutti sorretti dall’idea di un’esegesi che conduca il lettore, come un nuovo «Dante personaggio», ad immergersi nella «conoscenza sperimentale dell’essere in se stesso», sì da sottolineare quanto Virgilio dice a Maometto nel canto XXVIII dell’Inferno: «ma per dar lui esperïenza piena / a me, che morto son, convien menarlo / per lo ’nferno quaggiù di giro in giro» (vv. 48-50). Sottolinea altresì, Francesco Mazzoni, che proprio allora iniziava a prendere corpo, a fronte di un «Dante retore, filosofo aristotelico e poeta», l’«accesa figura di Dante profeta» che condizionerà l’esegesi dantesca nei secoli a venire, soprattutto in epoca romantica, come ampiamente egli illustra nel capitolo «Il culto di Dante nell’Ottocento», sino alle parole con le quali il Mazzini introduceva la Commedia […] illustrata da Ugo Foscolo, con il voto che un giorno: «uomini imbevuti per lunghi studi della tradizione Italiana, e santificati dall’amore, dalla sventura e dalla costanza, sacerdoti di Dante, imprenderanno, monumento dell’intelletto nazionale, una edizione delle sue Opere».
Venendo ai contemporanei, è molto significativa la minuta analisi delle varianti del Discorso montaliano del 1965, nelle diverse fasi di redazione, dal dattiloscritto che fu letto, alla stampa 1965, a quella 1976; il sorvegliato lavorìo del poeta è attestato capillarmente (negli echi che si riverberano sulla poesia montaliana stessa), con speciale riferimento al libro di Irma Brandeis, The ladder of vision. A study of Dante?s Comedy (London, Chatto & Windus, 1960), la “Clizia” di decenni remota e che qui torna – come ebbe a chiosare Rosanna Bettarini – «non più Angelus novus delle Occasioni ma Doctor Angelicus in gonnella». Da quella meditazione – osserva Mazzoni – dirameranno altri versi come quelli dedicati appunto A C., (Ho tanta fede in te): «Ci troveremo allora in non so che punto / se ha un senso dire punto dove non è spazio / a discutere qualche verso controverso / del divino poema», con il corollario di Rimuginando: «Non mi sono addentrato nella selva / né ho consultato San Bonaventura come C. / che Dio la protegga.» Non così, infatti, pare distendersi la quotidianità del carteggio con Clizia, restituito con impassibile cura da Rosanna Bettarini (E. Montale, Lettere a Clizia, Mondadori 2006).
Tornando a Dante, tra le molte definizioni del poema che il critico trae – con misurata equidistanza – dai commentatori, una in particolare sembra essere quella più cara a Mazzoni, anteposta alla sua riedizione (1978) della Divina Commedia, munita del commento Scartazzini-Vandelli (Firenze, le Lettere, 1978). Concludendo la propria premessa, egli definiva il poema come «dantesco «itinerarium mentis in Deum» : viaggio di visione e di elevazione, secondo l’esperienza proposta da San Bonaventura stesso, ad esordio del proprio trattato: «nullus potest effici beatus, nisi supra semetipsum ascendat, non ascensu corporali, sed cordiali» («nessuno dunque può essere beato senza elevarsi al di sopra di se stesso, non per ascensione del corpo, ma del cuore»). Precetto d’esordio dell’Itinerarium (I.1) che vale egualmente per il poema di Dante, itinerario di elevazione per grazia e per visione, secondo il Salmo che Bonaventura cita e Dante applica alla Commedia: «Deduc me, Domine, in via tua, et ingrediar in veritate tua » (Ps., 85 [86], 11), itinerario dunque «beatificante e deificante» (Mazzoni).
Si può insomma dire di Francesco Mazzoni quello che Giovanni Andrea Scartazzini, altro esemplare esegeta di Dante, scriveva di se stesso: «pochi furono i giorni nei quali non avessi consacrato da 10 a 12 ore alla scienza dantesca»; sono figure che hanno illustrato un secolo, nella loro strenua fedeltà al Poema: così Michele Barbi, così Giuseppe Vandelli, così – più tardi – Giorgio Petrocchi; e rispetto a quella «vulgata» novecentesca questi volumi traggono (con le parole stesse di Francesco Mazzoni) titolo e ragione: «frutto della tenacia e della appassionata dedizione di uno Studioso che con Dante e per Dante volle vivere una intiera vita».

Francesco Mazzoni, Con Dante per Dante. Saggi di filologia ed ermeneutica dantesca , a cura di G. C. Garfagnini, E. Ghidetti, S. Mazzoni, vol. I: Approcci a Dante, vol. II: I commentatori, la fortuna, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, pahh. 422 + 792; ? 56,00 + 98,00. Il volume si può acquistare dal sito dell’editore.

Corriere La Lettura 15.2.15
Patroclo curava Achille senza medicine
di Umberto Curi


La massima de minimis non curat praetor significa che colui che è investito di un ruolo di particolare rilievo (ad esempio il praetor ) non si «preoccupa» delle bagattelle. La «cura» compare qui nella sua accezione originaria: non un complesso di pratiche rivolte a qualcuno che ne abbia bisogno, ma una disposizione soggettiva, uno stato d’animo, una condizione affettiva.
«Curare» nel senso latino indica lo «stare in pensiero» per qualcuno o per qualcosa, mentre il «curare» nel senso moderno implica un «trattamento», per lo più comprensivo anche della somministrazione di farmaci. Nel linguaggio corrente non è rimasta alcuna traccia di tale dualità. Dalla «cura» è scomparsa ogni connotazione «soggettiva», per il sopravvento di interventi che assumono come «oggetto» il «paziente», così chiamato proprio perché a lui è attribuito un ruolo «passivo» di chi debba subire gli atti in cui è incorporata la cura. Una netta differenza è riconosciuta invece da Martin Heidegger, quando distingue fra «prendersi cura» e «aver cura»: nel primo caso si ha a che fare con le cose di cui ci occupiamo nella maniera dell’utilizzabile, mentre nel secondo caso siamo di fronte all’azione diretta ad altri esseri.
I diversi quadri concettuali che sono a monte del concetto di cura sono esplorati con raffinata sensibilità teoretica e notevole acume da Luigina Mortari, nel suo Filosofia della cura , appena uscito da Raffaello Cortina Editore. L’orizzonte assunto come riferimento non riguarda esclusivamente gli aspetti specificamente «terapeutici» della cura, ma investe piuttosto direttamente i nodi più propriamente speculativi di questa problematica. Non solo, dunque, la cura rivolta agli altri, ma anche la cura di sé (alla quale nella Grecia classica era riservata una particolare attenzione, come ha sottolineato tra gli altri Michel Foucault) e la cura del mondo, con l’obbiettivo dichiarato di comporre una teoria descrittiva della cura che possa «costituire lo sfondo per disegnare una valida politica dell’esperienza».
Luigina Mortari troverebbe conferma della sua ricca e originale perlustrazione nel termine greco abitualmente considerato il corrispettivo del latino cura . Già in Omero, e poi negli autori arcaici, therapéia vuol dire essenzialmente «servizio». Non, dunque, un «trattamento», comunque definito, ma un atteggiamento, un modo di essere nei confronti degli altri.
Importante è anche almeno accennare alle modalità concrete, con le quali si esprime la therapéia . Essa implica, infatti, il «mettersi all’ascolto» dell’altro ovvero, per usare il corrispettivo latino, l’ ob-audire l’altro, e cioè essere a sua disposizione (Patroclo, ad esempio, è il therápon di Achille, anche se non gli somministra alcuna medicina, ma gli «obbedisce»). Cosa sia accaduto, nel percorso non rettilineo che ha condotto la cura-therapéia a mutare così radicalmente il suo significato, è questione sulla quale converrà ritornare, in ciò stimolati dal bel libro di Mortari.

Corriere La Lettura 15.2.15
Toussaint lo Spartaco di Haiti
di Antonio Carioti


La Rivoluzione francese ha anche un volto dalla pelle nera. È quello di Toussaint L’Ouverture, una sorta di Spartaco delle Antille, l’ex schiavo che capeggiò la rivolta sfociata nell’indipendenza di Haiti. Nel Settecento quel territorio era la più ricca colonia europea, ma la sua prosperità derivava soprattutto dal lavoro degli schiavi portati dall’Africa. Cyril Lionel Robert James, nel libro I giacobini neri (DeriveApprodi), descrive nei dettagli crudeltà e iniquità del sistema di sfruttamento e discriminazione razziale cui erano soggette le persone di colore, compresi neri e mulatti liberi, magari anche benestanti. L’insurrezione scoppiò nell’agosto 1791 ed ebbe diverse fasi. Prima i ribelli neri combatterono i coloni francesi. Ma dopo l’abolizione della schiavitù, sancita a Parigi il 4 febbraio 1794, Toussaint si schierò al fianco della Repubblica giacobina, sconfiggendo spagnoli e inglesi che volevano mettere le mani sulla colonia. Si arrivò poi allo scontro con Napoleone, che fece arrestare e deportare in Francia Toussaint (morto in carcere nel 1803), ma non riuscì a evitare che il suo luogotenente Dessalines, battuto il corpo di spedizione francese, proclamasse l’indipendenza. Dopo oltre un decennio di conflitti sanguinosi, Haiti non era più una colonia, ma si ritrovò impoverita e in macerie. James (1901-1989) era un militante nero, marxista eretico ed esperto di cricket: ovviamente esalta gli insorti. Ma per altri versi il saggio, la cui prima edizione risale al 1938, evidenzia in anticipo le difficoltà cui sarebbero andati incontro i successivi moti anticoloniali.

Corriere La Lettura 15.2.15
L’anniversario 15 giugno 1215
Il mito della Magna Charta
Sancì le libertà, è vero, ma dei baroni
Ivanhoe e Robin Hood? Dimenticateli
L’ottavo centenario di un documento dal nome solenne e un po’ ingannatore
Una vicenda più francese che inglese
di Franco Cardini


Grande anno di celebrazioni, questo 2015: centenario, o cinquantenario, o pluridecennale o comunque anniversario di un sacco di cose. Un tempo si diceva che la «storia per anniversari» era roba per assessori: oggi si comincia forse quasi a rimpiangere quel tempo felice nel quale politici e amministratori avevano talora un occhio per la storia. Il 15 giugno prossimo si celebrerà l’ottavo centenario di un documento dal nome solenne e un po’ ingannatore, Magna Charta Libertatum , attorno al quale aleggia ancora una specie di mito, garante del quale è la grande letteratura dell’Ottocento romantico inglese: quello di sir Walter Scott, del suo Ivanhoe , dell’immaginario «Ritorno del re giusto» rappresentato dal buon re Riccardo «Cuor di Leone» reduce dalla crociata.
Peccato solo che Riccardo I Plantageneto, peraltro coraggioso guerriero, non fosse per nulla un «buon re», sotto alcun punto di vista; e che dalla crociata (la «terza») rientrasse in effetti in Inghilterra nel 1194, ma vi si trattenesse soltanto poco tempo prima di trasferirsi al di qua della Manica, nel suo ducato di Normandia, dove in quanto tale era vassallo del re di Francia Filippo II Augusto, suo compagno d’arme nella crociata e suo avversario storico. Dal continente non sarebbe più tornato: una freccia che lo colse durante una modesta scaramuccia lo fece uscire, appena quarantaduenne, dalla scena della storia.
Che ne è quindi delle vecchie care storie di Walter Scott, quelle che hanno fornito materiale a tanti film da «medioevo in calzamaglia» — da Errol Flynn a Sean Connery — con il brigante-gentiluomo Robin Hood «che ruba ai ricchi per dare ai poveri», in realtà spirito folclorico dei boschi a suo tempo decrittato da Eric Hobsbawm e del quale ha poi finito con l’impadronirsi il solito Walt Disney? Fu l’Inghilterra della regina Vittoria e di re Giorgio V, la Grande patria liberale, imperiale e colonialista della democrazia costituzionale europea, a comporre i differenti episodi della sua storia in un trionfale cammino teso verso la libertà moderna e a stabilire su ciò un longevo mito paradigmatico. All’interno di esso, la Magna Charta rifulgeva di luce propria come documento ed episodio fondatore di un lineare cammino di liberazione scandito dalla Gloriosa rivoluzione di Guglielmo d’Orange, dalla Costituzione americana, dalla nostra democrazia.
Se accettassimo questa persistente e rassicurante affabulazione parastorica, tutto sarebbe chiaro e coerente. Ma le cose non stanno esattamente così; Max Weber, impartendoci la dura ma salutare lezione del «disincanto», ci ha insegnato a guardar bene dentro il passato per liberarlo da equivoci e contraddizioni. La Magna Charta Libertatum fu un documento promulgato dal re d’Inghilterra Giovanni I detto «il Senzaterra», fratello di Riccardo (erano entrambi figli di Enrico II e della grande Eleonora d’Aquitania), il quale — «graziosamente» e «spontaneamente», sul piano formale — limitava le prerogative regie nei confronti dell’aristocrazia feudale. In realtà si trattò del risultato di un braccio di ferro durato a lungo, di una duplice sconfitta — militare e politica — del sovrano e di un compromesso tra la corona e l’aristocrazia che fondò la vera e propria «monarchia feudale».
La vicenda affonda i suoi presupposti non tanto nella storia inglese, quanto in quella francese. Nel corso dei decenni centrali del XII secolo il re capetingio Luigi VII aveva lavorato al consolidamento del potere della monarchia. La sua opera fu continuata dal figlio Filippo II Augusto (sul trono dal 1180 al 1223), che riformò la cancelleria e la corte e dette ulteriore impulso sia alla riorganizzazione amministrativa della corona, sia al rapporto fra questa e i ceti mercantili, che si sentirono privilegiati e protetti. Era comunque per lui prioritario risolvere il problema costituito dal fatto obiettivo che il re d’Inghilterra, suo vassallo in quanto duca di Normandia, conte d’Anjou e del Maine, duca d’Aquitania e di Guascogna nonché conte del Poitou, era signore effettivo di gran parte del territorio francese: a lui guardavano tutti gli aristocratici che, in un modo o nell’altro, intendevano svolgere una politica autonoma rispetto al loro re.
In Inghilterra, intanto, il regno di Enrico II aveva posto fine a un periodo di torbidi, che tuttavia ripresero alla sua morte (1189): la situazione si andò deteriorando con i suoi figli e successori Riccardo «Cuor di Leone» (1189-99) e Giovanni «Senzaterra» (1199-1216). I due, d’indole entrambi labile e ombrosa e per giunta in discordia tra loro, si erano già ripetutamente ribellati al padre. Giovanni, che aveva prima tentato di usurpare il potere del fratello e gli era poi succeduto nel 1199, condusse una politica scriteriata che gli inimicò al tempo stesso la nobiltà laica e le gerarchie ecclesiastiche: giunse addirittura a confiscare i beni ecclesiastici attirandosi per questo la scomunica di papa Innocenzo III; dopo di che, intimidito dalla reazione, corse ai ripari prestando omaggio feudale al pontefice (il che peraltro rinnovava una consuetudine normanna dell’XI secolo).
Filippo Augusto di Francia colse l’occasione della debolezza e dell’incapacità del suo vassallo Giovanni e, sfruttandone la fragilità, nel 1202 lo dichiarò colpevole di «fellonia» (il delitto del quale si macchiava il vassallo infedele) e lo privò formalmente di tutti i suoi diritti feudali, Aquitania esclusa. La risposta di Giovanni, dopo lunga incertezza, fu l’alleanza con il suo congiunto Ottone IV di Braunschweig, pretendente alla corona reale di Germania e concorrente del candidato favorito del Papa, Federico di Svevia (il futuro Federico II). Si configurò dunque una guerra europea franco-anglo-germanica che vide la coalizione tra Giovanni e Ottone scontrarsi con quella tra Filippo Augusto e Federico. Le sorti si decisero il 27 luglio 1214 nella battaglia di Bouvines, una località franco-settentrionale poco distante da Lille. Fu, quella, la celebre Domenica di Bouvines celebrata in un indimenticabile libro di Georges Duby (Einaudi).
Sconfitto sul campo, Giovanni fu costretto a prestare di nuovo omaggio feudale al re di Francia e a piegarsi ai suoi baroni ch’erano guidati dall’energico Stefano Langton, arcivescovo di Canterbury, riconoscendo tutte quelle prerogative e quei diritti (le libertates ) sia della Chiesa, sia della nobiltà feudale laica, che aveva tentato di violare. In particolare dovette rinunziare al diritto d’imporre nuove tasse senza il consenso dei suoi nobili riuniti in un Magnum Consilium (dal 1242 definito Parlamentum ) e di consentire che essi, in caso di processo, venissero giudicati da una corte di loro pari.
Va da sé che la Magna Charta non fu evidentemente intesa come uno strumento di «modernizzazione»: al contrario, sotto il profilo giuridico essa rappresentava il ristabilimento di antiche consuetudini poi cadute in disuso. Mentre la corona francese, con la sua forte spinta all’accentramento dei poteri, poneva le basi dello Stato moderno, quella inglese non faceva che piegarsi dinanzi ai diritti tradizionali che la feudalità aveva sempre rivendicato e che essa aveva cercato di strapparle.
Ecco il paradosso che ci sfugge. In sé, il celebrato documento — considerato dal punto di vista «moderno» — fu un «passo indietro» sulla strada che avrebbe condotto allo Stato assoluto e quindi alla democrazia. Esso affermava comunque libertates che poi sarebbero state rivendicate dalle borghesie urbane. Ci sarebbe voluto ancora quasi un mezzo millennio: ma da lì sarebbe scaturita quella libertà britannica, madre dell’americana, nella quale noi riconosciamo una radice della democrazia. Sennonché, si trattava — e si tratta — della democrazia «aristocratico/oligarchica» delle libertà (al plurale), quella di Edmund Burke: non lontanissima sotto molti aspetti dall’ordine auspicato dai tradizionalisti de Maistre e Donoso Cortés, e ben diversa comunque dalla democrazia egalitaria della Liberté , quella di Jean-Jacques Rousseau, madre della Rivoluzione francese, ma anche dei totalitarismi.

Corriere La Lettura 15.2.15
I diritti della persona calpestati anche oggi
di Michele Ainis


Ha otto secoli, però non li dimostra. Anzi: per certi versi il suo linguaggio è più fresco, più diretto e colloquiale, rispetto alle contorsioni semantiche con cui ci allieta la «Gazzetta ufficiale» . Eccola dunque, la Magna Charta Libertatum , la Dichiarazione dei diritti che illumina l’alba della nostra civiltà giuridica. Concessa da un re debole — Giovanni Senzaterra — ai suoi baroni il 15 giugno 1215, rimane ancora valida nell’ordinamento inglese, benché modificata e integrata da altre leggi, da altre dichiarazioni normative. Tre soprattutto, battezzate nel corso del Seicento: il Petition of Rights (1628), l’ Habeas Corpus Act (1679), il Bill of Rights (1689).
Poi, certo, otto secoli non trascorrono invano. A curiosare fra i 63 articoli della Magna Charta , ti cadono gli occhi su enunciati che oggi suonano bizzarri, figli d’un tempo ormai concluso. Per esempio, l’ordine di rimuovere tutti gli sbarramenti per catturare pesci nel Tamigi. L’obbligo di pagare il frumento in contanti. Il divieto di costringere chicchessia a costruire ponti sui fiumi. O ancora la norma secondo cui gli eredi dei nobili non possono sposare persone d’estrazione sociale inferiore. Quell’altra che tutela i debitori degli ebrei. Infine la regola che proibisce di procedere per il reato di omicidio su accusa d’una donna, a meno che non sia la vedova.
Ma dopotutto non è per tali aspetti che celebriamo questo anniversario. Né, in realtà, perché il diritto cominci dalla Magna Charta . Prima vengono il Codice di Hammurabi (XVIII secolo a.C.), il Cilindro di Ciro il Grande (VI secolo a.C.), le leggi dei Greci e dei Romani. Non il diritto, bensì i diritti — nel senso in cui li concepiamo adesso — trovano nella Magna Charta la propria scaturigine. O meglio i diritti di libertà, dalla libertà dei commerci a quella religiosa. E soprattutto la libertà personale, che concettualmente le precede tutte, tanto che nel 1947 gli stessi costituenti italiani v’aprirono il catalogo dei diritti fondamentali. Usando parole che riecheggiano l’articolo 39 della Magna Charta : «Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, privato dei suoi diritti o dei suoi possedimenti, messo fuori legge, esiliato o altrimenti rimosso dalla sua posizione, né Noi useremo la forza nei suoi confronti o demanderemo a ciò altre persone, se non per giudizio legale dei suoi pari e per la legge del territorio».
Da qui il doppio strumento che ancora adesso ci difende dagli arresti arbitrari: riserva di legge e riserva di giurisdizione. Da qui l’ Habeas corpus , che alla lettera significa «abbi il corpo». Ossia l’atto ( writ ) col quale s’ingiunge a chi detenga in custodia una persona di presentarne il «corpo» davanti a un giudice legittimo. In quel testo forgiato nel Medioevo s’affaccia per la prima volta una tutela contro gli abusi del potere, e la tutela opera anche al di fuori del campo penale (per esempio nei riguardi dei malati di mente). Di più: v’è l’embrione del «giusto processo», come lo chiamiamo oggi. Sicché le prove devono apparire convincenti. I giudici vanno reclutati in base alla loro professionalità, e non possono trovarsi in conflitto d’interessi. Le pene devono essere proporzionate ai delitti.
Dall’ Habeas corpus all’ Habeas mentem , dalla libertà personale alla libertà morale. Nella giurisprudenza della Corte suprema americana così come di quella italiana (a partire dalla sentenza n. 30 del 1962), questa garanzia ha finito per proteggere, oltre alla libertà fisica degli individui, anche il processo di formazione della loro volontà, delle loro convinzioni. Dunque stop alla pubblicità subliminale, al siero della verità, e ovviamente a ogni forma di tortura poliziesca. Insomma, in otto secoli la Magna Charta ha dimostrato una potente capacità generativa. Ma l’esperienza, in Italia e nel resto del pianeta, è spesso degenere, segna un regresso della nostra libertà. Quanta ne abbiamo in circolo? In che misura possiamo disporre del nostro corpo, del nostro essere fisico? E siamo davvero tutelati dal sopruso, dall’invadenza dei poteri pubblici e privati?
Qualche dato alla rinfusa. Nelle carceri italiane (al 31 dicembre 2014) soggiornano 53.623 detenuti; fra questi, 19.590 non hanno mai ricevuto una sentenza definitiva di condanna. Presunti innocenti, per la Magna Charta e anche per la Carta costituzionale; ma puniti in via di fatto. E meno male che l’Italia bandisce la pena di morte, praticata tuttavia da 58 Stati al mondo (con 2.400 esecuzioni in Cina nell’arco del 2013). Dopo di che, dentro e fuori dei nostri confini, preme il terrorismo, una minaccia che oscura l’ Habeas corpus . È già successo dopo gli attentati alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, sta per succedere di nuovo.
D’altronde non è solo di questo che si tratta. Nei rigori di legge contro gli obesi e i fumatori, nelle restrizioni che colpiscono la fecondazione assistita, la transessualità, il rifiuto dell’accanimento terapeutico, aleggia la sinistra evocazione di Michel Foucault: lui ci insegnò come il potere miri a controllare innanzitutto il corpo delle persone, e come un potere dispotico in conclusione lo confischi, se ne renda padrone. Oggi come ieri, c’è quindi bisogno di liberare i nostri corpi, per liberarci l’anima. E possiamo farlo anche riscoprendo la lezione d’un testo normativo che ha 800 anni sul groppone.

Repubblica 15.2.15
Basaglia. Lettere dal manicomio
L’archivio dello psichiatra che diede la parola ai matti
A Sartre scriveva dei processi, al collega Maxwell Jones confidava quanto si sentisse in crisi come psichiatra
I documenti inediti raccontano la più pazzesca delle rivoluzioni: quella di un medico “interessato più al malato che alla malattia”
di Simonetta Fiori


A UN NUOVO PROGETTO DELL’ARCHIVIO STA LAVORANDO L’ASSOCIAZIONE LAVORO CULTURALE (WWW.LAVOROCULTURALE.IT) CHE RACCOGLIE UN GRUPPO DI GIOVANI STUDIOSI COORDINATO DA SILVIA JOP E MASSIMILIANO COVIELLO

L’APPUNTAMENTO CON SARTRE era alla Closerie des Lilas, una mattina di sole. Mi raccomando non fate tardi, aveva detto Franco Basaglia ai suoi giovani collaboratori, ancora più emozionato di loro. Il padre dell’esistenzialismo era un maestro, forse l’unico che avesse mai considerato tale. Avevano molte cose di cui parlare, com’era già capitato in passato. Il ruolo dell’intellettuale dentro istituzioni oppressive. La dignità delle persone fragili e ingarbugliate. La non neutralità della scienza. E il valore della libertà, la libertà del malato ma anche la libertà del medico. Il filosofo aveva scritto della rivoluzione basagliana nel suo Temps Modernes. Lo psichiatra lo ricambiava mostrando una lettura attenta dei sacri testi, L’essere e il nulla e anche L’idiota della famiglia, la ricerca sulla vita di Flaubert che da ragazzo l’aveva riscattato dal disagio di sentirsi “fuori posto”: anche a Franco era parso a lungo di essere l’idiot de la famille. Chissà se avesse mai osato confessarglielo, anche solo un accenno quel giorno di primavera del 1978. L’anno della legge che portava il suo nome.
La conversazione va avanti spedita fino all’arrivo di Simone de Beauvoir, algida nella sua eleganza perfetta, solo un lieve moto di irritazione che traspariva dall’impeccabile cappellino. «Sartre spinse bruscamente verso di me il suo aperitivo», ricorda oggi la ragazza che accompagnava Basaglia, Maria Grazia Giannichedda. «Con sguardo sorridente Franco mi invitò a prendere in mano il bicchiere. Sartre non poteva bere alcolici e dovevamo salvarlo dall’ira della
compagna». Non si sarebbero più rivisti.
SARTRE E BASAGLIA, FRAMMENTI D’UNA STAGIONE di disordine e furore che affiora dalle carte conservate in archivio, ora inventariate da Leonardo Musci e Fiora Gaspari. Per raccoglierne le tracce bisogna andare nell’isola dei matti, l’ex manicomio che guarda Venezia da San Servolo. Qui è la Fondazione dedicata a Franca e Franco Basaglia, diretta da Giannichedda che ci fa da guida, e qui sono custodite migliaia di documenti tra lettere, taccuini, agende, verbali, atti processuali, studi scientifici che raccontano una rivoluzione culturale, una delle poche che ci siano state in Italia. «L’impossibile che diventò possibile», dice la figlia Alberta Basaglia, che alla sua storia famigliare ha dedicato il bel libro Le nuvole di Picasso. Una storia che non è mai finita, e gli ottanta faldoni dell’archivio servono a ricordarlo.
Si rovesciava il mondo, tra gli anni di Gorizia e quelli di Trieste. Al fianco di Basaglia era la moglie Franca Ongaro, l’unica capace di insegnare agli altri basagliani come fronteggiare una personalità potente rimanendo se stessi. Tutti insieme cominciano a liberare i matti dalle catene, dai corpetti di costrizione, dall’elettroshock, dal mutismo in cui si erano rinchiusi anche per difesa. Nel marzo del 1968 esce da Einaudi il libro che suggella la rivoluzione psichiatrica. L’istituzione negata fu subito bestseller. Sessantamila copie, otto edizioni, traduzioni perfino in finlandese, e il premio Viareggio nella saggistica. Per la prima volta viene data voce agli esclusi. Parla Andrea che racconta della rete intorno al manicomio, di loro buttati a terra perché senza sedie, in ottanta in una sala e poi a letto alle sei del pomeriggio, anche d’estate con il sole ancora alto. E poi Margherita dice che faceva male stare legati come Cristo in croce, dalla mattina alla sera, coi piedi e con le spalle al letto, e se si usciva in giardino si stava legati all’albero. Lo stesso racconta Carla, che si sentiva come la principessa Mafalda chiusa nel lager e non sopportava di restare sporca. «Un enorme letamaio impregnato di un lezzo infernale», aveva detto Basaglia appena varcato il portone del manicomio di Gorizia. L’istituzione negata rappresenta un gigantesco “no”: alla «disumanizzazione» del malato e anche dei medici, a quella dei «violentati» e dei «violentatori». Del suo carattere sovversivo s’accorse subito Giulio Bollati, che il 26 gennaio del 1968, su carta intestata alla casa editrice Einaudi, annota: “Caro Franco, avrei voluto scriverti subito per dirti che il vostro libro è bellissimo e molto importante. Vive delle tensioni che si producono nel suo interno, si sostiene delle sue stesse tendenze autodistruttive”. Troppo sottile Bollati per lasciarsi sfuggire l’inquietudine di un movimento che si nutre di contraddizioni senza approdare a regole definite. “Non mi stupirei che voi dramatis personae ne foste scontenti, irritati, offesi anche più di quello che se non sbaglio già siete: è infatti come se un gruppo di persone si fosse raccolto non per raccontare o fingere la morte di Agamennone, ma per ucciderlo con le proprie mani”.
Moriva non la psichiatria ma un certo modo di intenderla, come insieme di norme e codificazioni. «Tra la malattia e il malato senza dubbio mi interessa più il malato», diceva Basaglia ai suoi interlocutori ormai diffusi nel mondo. Le lettere dell’archivio mostrano una rete vastissima di relazioni, da un maestro della fenomenologia come Eugène Minkowski, sulle cui pagine Basaglia s’era formato, agli esponenti dell’antipsichiatria quali David Cooper e Ronald Laing, che spingevano per il superamento della disciplina. Anche voci più ufficiali manifestavano attenzione per le sue posizioni eterodosse. Ignacio Matte Blanco aveva in mano Che cos’è la psichiatria?, un libro di Basaglia che introduceva parole nuove sul mondo oscuro della follia, quando nell’ottobre del 1967 gli scrive: “Non sono sicuro di essere d’accordo con lei in tutti i punti — il che sarebbe impossibile tra esseri pensanti — ma condivido fortemente l’impostazione generale ed ammiro l’altezza e la larghezza delle sue visioni”. Gli animatori dell’antipsichiatria vorrebbero condurlo dalla loro parte, ma Basaglia resiste. Vuole cambiare la psichiatria, non cancellarla, allargando i suoi confini ad altri campi, in una più vasta riflessione politico- culturale sulle istituzioni. Lo spiega bene in una lettera a Giulio Einaudi, che lo incalza con la richiesta di altri libri. “Nell’ultimo viaggio a Londra ho parlato con Laing, che suggeriva di organizzare un trattato di antipsichiatria di cui avrei dovuto curare la parte italiana. La cosa però a mio avviso è assurda: fare un trattato di antipsichiatria non ha senso in questo momento”. A Basaglia interessa di più trasformare la psichiatria in “un’occasione di incontro-discorso politico antistituzionale” che offra una possibilità di azione. Un progetto poi realizzato con Crimini di pace, volume collettaneo scritto insieme a Noam Chomsky e Michel Foucault, Vladimir Dedijer e il suo amico Sartre: al centro è la figura dell’intellettuale-tecnico che vuole liberarsi dal ruolo di “funzionario del consenso” cui lo costringe l’istituzione. Per Basaglia una riflessione autobiografica.
Anno di successi ma anche di tormento, il Sessantotto. A Gorizia il lavoro si fa sempre più duro, tra moltissime resistenze. “Caro Max, ci sono un sacco di difficoltà, non ultima il fatto che voglio andarmene da Gorizia”, scrive a Maxwell Jones, l’inventore britannico delle “comunità terapeutiche” dove il disagio psichico viene curato con la collaborazione reciproca di medici e pazienti. “Sono in crisi anche per quel che riguarda il significato più profondo del mio lavoro: vivendo all’interno di una struttura sociale sento sempre di più che il mio lavoro è funzionale all’attuale sistema politico ed economico rispetto al quale sono in disaccordo, e devo trovare qualcosa di diverso, altrimenti non vedrò alcun significato in quel che faccio”. Sarà un incidente ad allontanarlo da Gorizia. Nel settembre del 1968, un paziente ricoverato da tanti anni esce in permesso, litiga con la moglie e la uccide a colpi di scure. Per Basaglia, che pure sarebbe stato assolto, è un momento di «grandissima angoscia». Si dimette dalla direzione dell’Ospedale psichiatrico. L’anno successivo va a insegnare a New York.
Per realizzare il suo progetto — chiudere il manicomio e dare vita a un nuovo sistema di servizi di salute mentale — deve aspettare l’incarico a Trieste, sul finire del 1971. È la stagione più intensamente vissuta, in una esplosione di immaginazione e utopia. Sono gli anni di Marco Cavallo, il grande cavallo azzurro di cartapesta che nella pancia custodisce i desideri di chi l’ha costruito, «pazzi» e «sani», teatranti e pittori. Può capitare che, nel teatro del manicomio, all’armonica di un’anziana paziente risponda il sassofono di Ornette Coleman. E dall’aeroporto di Trieste decolla l’aereo dei matti, a bordo del DC9 solo pazienti, medici e personale volontario dell’Ati. Ma nel giugno del 1972 arriva l’altro fattaccio. Giordano Savarin, dimesso in esperimento dall’Ospedale psichiatrico, uccide il padre e la madre. Anche in questo caso per Basaglia la sentenza sarebbe stata di assoluzione, ma il processo si chiude tra molte ombre. Ancora una volta l’amico Sartre interviene pubblicamente in suo sostegno. Lui lo ringrazia con una lettera molto amara. “La cosa si è conclusa molto ambiguamente”, gli scrive Basaglia il 25 novembre del 1975. Era stato infatti condannato il medico del centro di igiene mentale cui spettava il controllo. “La responsabilità viene trasferita ai centri di igiene mentale, come un prolungamento poliziesco del controllo che l’ospedale psichiatrico non può più attuare”. Una vittoria e una sconfitta, “perché la sentenza lascia immutato il problema della prevedibilità o impre- vedibilità della pericolosità del malato di mente”. Una questione che dopo quarant’anni è ancora irrisolta, con lo scandalo dei manicomi giudiziari tuttora in vita.
È anche per questo che la famiglia Basaglia ha deciso di rendere pubblico l’archivio dell’isola di San Servolo. «Il discorso sui matti e sui più deboli resta attuale», commenta Alberta, che continua la tradizione famigliare con la sua attività di psicologa. «È una storia che va avanti e non dobbiamo fermarci». Sartre diceva che ci sono morti che vivono, e sono loro il nostro avvenire, il compito futuro. «Questo si può dire anche di Franco e Franca Basaglia e dell’impresa da completare che ci hanno lasciato », conclude l’antica collaboratrice Giannichedda. Morti che ci parlano da un tavolino assolato di Parigi, contenti di stare insieme, anche se per l’ultima volta.

Repubblica 15.2.15
Per vedere la città dei matti ho indossato il suo sguardo
di Fabrizio Gifuni


LO SGUARDO E LA VOCE. L’essenza inconfondibile del suo essere Franco. Un’intelligenza sfolgorante, certo. Una curiosità instancabile e un amore assoluto per il proprio lavoro, sicuro. Un visionario con i piedi ben piantati per terra, un ossimoro raro. Coraggio, pazienza e luce negli occhi.
Quando più o meno sei anni fa il regista di C’era una volta la città dei matti mi propose di interpretare il protagonista del suo film, il volto aperto, tranquillo, serio ma irriverente di Franco Basaglia iniziò lentamente a materializzarsi allo specchio. Notai subito che il suo viso era più largo del mio, la corporatura più massiccia. Aveva un modo tutto suo di muovere gli occhi. E poi la voce. Quel timbro, perfettamente aderente alla linea dei pensieri, mi risuonava dentro come una confidenza. Mi accade spesso, il suono di una voce può mettermi più velocemente in contatto con un altro essere umano.
Non possedevo ancora la gran mole di informazioni a cui sarei pervenuto dopo qualche mese di intenso lavoro. Non sapevo ancora quanto quello sguardo — indissolubilmente legato alla sua straordinaria capacità di ascolto — fosse centrale nella prassi del suo lavoro. Ma ricordo di aver pensato subito che se fossi riuscito a conquistare un po’ di “quello sguardo” qualcosa di importante sarebbe accaduto. Poi iniziarono le letture. Le mie diventarono le sue: l’esistenzialismo di Sartre e poi Foucault, Binswanger ma anche il Surrealismo a servizio della Rivoluzione.
Non lo faccio sempre, spesso non serve.
MA QUESTA VOLTA sentivo che era importante, per me che lo dovevo studiare, capire come e cosa avesse studiato lui. Chi fossero stati i suoi maestri e quanto lo avessero influenzato.
I padiglioni abbandonati del vecchio ospedale psichiatrico di Imola servirono a raccontare la maledizione dell’ospedale di Gorizia e la sua trasformazione. Giornate indimenticabili: alla troupe del film si unirono le ragazze e i ragazzi di alcune cooperative che avevano attraversato — nella realtà — problemi di disagio mentale. Riempirono con incontenibile e a volte silenzioso entusiasmo, con strabiliante professionalità, tutte le scene delle prime assemblee goriziane.
È lì, credo, che ha preso definitivamente corpo il personaggio di Franco Basaglia.
Per merito degli altri corpi e degli altri sguardi in cui mi impigliavo, tutto si confuse. Tutti ci perdemmo. Unendo le nostre forze, scambiandoci consigli o semplicemente osservandoci da lontano. Quando ci trasferimmo a Trieste, all’ospedale San Giovanni — “la città dei matti” immersa nel parco — Peppe Dell’Acqua, allievo e secondo successore di Basaglia, fu il mio Virgilio. Dopo le riprese lo accompagnavo nei suoi giri nei centri di salute mentale, nelle microaree, in tutti quei luoghi resi possibili da una delle leggi più avanzate al mondo. Avevo il privilegio di attraversare, per qualche settimana, un territorio dove, ogni giorno, persone pazienti e preparatissime mettono in gioco tutte le proprie energie per aiutare “i nostri fratelli più sfortunati”. In strutture pubbliche straordinariamente civili dove non esiste più, come diceva Basaglia, una psichiatria per i poveri e una psichiatria per i ricchi. Persone consapevoli che, una volta restituita dignità e diritti civili a individui per decenni privati di tutto, la maggior parte del lavoro sia ancora da fare. Potevo vedere finalmente con i miei occhi cosa significa cercare di applicare quotidianamente la Legge 180 per riempirla concretamente di senso. E come sia a tutt’oggi molto più facile disattenderla in tante regioni italiane dove ritardi, mancanze e cattiva coscienza consentono ancora abusi e degradi. Dove il peso viene scaricato con disinvoltura sulla famiglie, per poter dire “avete visto? È colpa di Basaglia”.
E poi la paura. Quella sempre. Il sentimento dall’innesco facile, virus di rapido e irrazionale contagio. Facilissimo alimentarla, lo sappiamo. Una cosa è certa, disponiamo oggi di uno strumento legislativo e culturale molto più avanzato rispetto alla sensibilità diffusa.
Ci sono uomini che cominciano a pensare dove gli altri finiscono. Restano soli, spesso. Intorno non capiscono, denigrano, procurano il fallimento.
Anche Basaglia ha fallito, in molti sensi.
Non siamo stati all’altezza del suo sguardo, non ancora.

Repubblica 15.2.15
Tutti i fiancheggiatori del grande genocidio
Non solo gli esecutori, ma anche impiegati e gente comune L’indagine di Levis Sullam sui responsabili silenziosi della shoah italiana
di Susanna Nirenstein


ITALIANI brava gente, si è sempre detto. Soprattutto quando si parla di Shoah. È vero, ci furono i “giusti”. Ma è anche vero che dietro la cattura di ogni ebreo ci furono almeno altrettanti italiani implicati: prefetti, questori, poliziotti, carabinieri, finanzieri, repubblichini, compilatori di liste, impiegati, delatori della porta accanto, traditori, autisti di camion, ferrovieri, persone che nel 1943-1945 non obbedirono solo agli ordini tedeschi, ma dichiararono gli ebrei “stranieri” e “nemici”, li identificarono su base razziale, li stanarono casa per casa, li arrestarono, li depredarono dei beni, li rinchiusero in campi di concentramento, li consegnarono al III Reich rendendosi colpevoli di genocidio, se, come si intende e come ha detto Raul Hilberg, furono responsabili tutti i gangli della macchina della morte e non solo gli esecutori finali. Le vittime furono oltre seimila. Il libro di Simon Levis Sullam dimostra questo.
Ogni caso ha la sua storia. Lo storico dell’università Ca’ Foscari, autore di molti saggi sull’argomento, ci avvolge di vicende cupe. All’inizio nomina gli ideologi, le leggi razziali del ‘38, la lenta disumanizzazione dell’“avversario”, gli antisemiti, i sostenitori della “totale eliminazione de- gli ebrei”. Ma è quando passa alle singole città, ai singoli provvedimenti, che vediamo quanto il veleno avesse conquistato spazio.
Andiamo a Roma, nel marzo 1944, la grande retata era già avvenuta da tempo, una bambina di sei anni, Emma Calò, e un cuginetto riescono a nascondersi mentre il commissario di Ps sta arrestando i genitori, i nonni e quattro fratelli. Il funzionario cerca e trova personalmente i piccoli. Tutta la famiglia non farà ritorno. A Venezia, 163 ebrei “puri”, in maggioranza anziani, vengono individuati, piantonati e infine rastrellati mentre, alla Fenice, Ar- turo Benedetti Michelangeli tiene un concerto. È il volenteroso Questore Filippo Cordova ad anticipare il ministero e a muovere la macchina, così come faranno molti colleghi e anche i prefetti. Trovano gli ebrei, i militari li scortano, qualcuno scova il vaporetto e lo conduce alla stazione. Un treno parte per Fossoli, dove giorni dopo due agenti ricongiungono dei bimbi tra i 3 e i 6 anni ai genitori: partiranno tutti in un convoglio per Auschwitz con oltre 640 prigionieri, tra cui Primo Levi. A nessuno venne in mente di salvare i piccoli, di ostacolare in qualche modo la ricerca delle vittime e il viaggio verso la morte. E così in tutta Italia.
Le delazioni riempivano le scrivanie dei funzionari. Migliaia. Anonime e no. E i funzionari non ne saltavano una. Così come le guide verso la Svizzera consegnarono spesso, depredandoli, i clienti alle guardie. Oppure era il vicino di casa che denunciava il condomino. Per invidia, rancore, soldi, per appropriarsi dei beni, andavano a prendere anche un solo ebreo nel mezzo della campagna. Perché in Italia catturarli, eliminarli dalla società, non fu un incidente, ma un cardine del totalitarismo.
I CARNEFICI ITALIANI di Simon Levis Sullam ELTRINELLI

Il Sole Domenica 15.2.15
Il sogno Bruno dell’Italia laica
Massimo Bucciantini ha scritto la storia del monumento di Campo dei Fiori dedicato al filosofo bruciato in quella piazza nel 1600
L’inaugurazione, nel 1889, fu la prima vera uscita della nazione senza timori verso la Chiesa
di Sergio Luzzatto


Di fotoreporter ce n’erano parecchi, quel giorno in Campo dei Fiori, anche se i loro nomi hanno poi faticato a entrare negli annali della grande fotografia: Carlo Rocchi, M.C. Sirani, T. Fabbri... La manifestazione popolare per l’inaugurazione della statua di Giordano Bruno – Roma, 9 giugno 1889 – è una delle primissime nella storia d’Italia che sia fotograficamente documentata, come nell’«istantanea» del «corteggio in via Nazionale» pubblicata di lì a poco dall’«Illustrazione italiana». In quel giorno di Pentecoste, l’Italia nuova si dà appuntamento in Campo dei Fiori, a un tiro di schioppo dal Vaticano, per celebrarsi come Italia laica. Per contestare al Sommo Pontefice di Santa Romana Chiesa non più soltanto il potere temporale, ormai cancellato da Porta Pia, ma anche il potere spirituale.
Treni speciali trasportano a Roma pellegrini laici a migliaia, da Pisa, da Napoli, dai quattro angoli di un Paese che è andato scoprendo negli anni precedenti – per effetto di un’insistita campagna d’opinione – la figura stessa di Giordano Bruno: il frate domenicano che la Chiesa della Controriforma aveva perseguitato come apostata, condannato come eretico e infine, il 17 febbraio 1600, bruciato vivo in Campo dei Fiori. Ventimila, nei calcoli della Questura, i manifestanti raccolti alla base dell’imponente statua di bronzo disegnata da Ettore Ferrari (ma sembrano di meno, a dire il vero, nel colpo d’occhio delle fotografie). Cui va aggiunta la gente affacciata alle finestre e ai balconi delle case prospicienti la piazza, romani benestanti che hanno pagato una specie di affitto giornaliero ai popolani residenti nel Campo.
Invano il cardinale Rampolla, segretario di Stato di papa Leone XIII, ha cercato di spaventare la cittadinanza prevedendo disordini di piazza, e arrivando a offrire biglietti ferroviari gratuiti a quanti volessero allontanarsi dalla capitale. La manifestazione del 9 giugno è un successo anche per l’ordine perfetto con cui le più varie delegazioni e associazioni d’Italia – consiglieri comunali, notabili provinciali, reduci garibaldini, operai mazziniani, studenti universitari – sfilano in corteo dalla stazione Termini a Campo dei Fiori. Il tutto in un clima di festosa animazione descritto l’indomani dal cronista del «Messaggero»: «Si vendono banderuole di carta, fazzoletti con il ritratto di Giordano Bruno, busti e statuette di gesso, opuscoli d’ogni specie». «La folla sparpagliata dovunque si fa sempre piu fitta», e «tutte le classi sociali vi sono rappresentate». «Moltissime le donne» (ma anche di queste, nelle fotografie scattate quel giorno, non se ne riconoscono poi tante).
Era un sospirato punto d’arrivo, l’apoteosi d’oltretomba di Giordano Bruno. Coronava un progetto – vendicare il rogo inquisitoriale del 1600 con il più parlante dei simboli, la statua della vittima eretta nel luogo stesso del martirio – che risaliva a una dozzina d’anni prima. Nel 1876 una manciata di studenti dell’università di Roma, intraprendenti giovanotti originari delle province dell’ex Stato pontificio, si erano visti regalare l’idea da un loro amico straniero: un rivoluzionario francese per nascita e cosmopolita per vocazione, un esule della Comune di Parigi che di nome faceva Armand Lévy. Progetto abbracciato con entusiasmo da Giuseppe Garibaldi («possa il monumento da voi eretto al gran pensatore e martire essere il colpo di grazia alla baracca di cotesti pagliacci che villeggiano sulla sponda destra del Tevere»), ma poi arenatosi fra le secche della politica politicante, quali davvero non mancavano lungo entrambi i versanti dell’Isola Tiberina.
Secondo Massimo Bucciantini, che della statua di Campo dei Fiori ha scritto adesso la fascinosa storia, il progetto sarebbe definitivamente fallito senza l’intervento di un professore universitario di filosofia destinato a contare nella vicenda del socialismo italiano: Antonio Labriola. Nel 1885, fu grazie al prestigio di Labriola che una rinnovata conventicola di studenti romani poté rilanciare l’idea della statua raccogliendo adesioni – e sottoscrizioni, cioè soldi – da tutta Europa e perfino dalle Americhe. Allora il progetto perse il suo carattere più provinciale e striminzito, di goliardata anticlericale, e assunse la cifra di un omaggio internazionale alla libertà di pensiero. Quelli di Victor Hugo, Ernest Renan, Henrik Ibsen, Walt Whitman, furono soltanto alcuni tra i bei nomi che accettarono di figurare nel Comitato d’onore dell’erigendo monumento a Giordano Bruno.
Una «brunomania» – come fu sdegnosamente qualificata dai gesuiti della «Civiltà cattolica» – percorse la cultura democratica italiana negli anni a ridosso dell’inaugurazione della statua. Libri, libelli, opuscoli, saggi, biografie romanzate, commedie teatrali, opuscoli commemorativi: oltre duecento titoli nel solo biennio 1888-89. A Roma, un Consiglio comunale politicamente moderato mantenne a lungo un atteggiamento ostruzionistico. Ma a partire dal 1887, quando alla presidenza del Consiglio dei ministri assurse un ex garibaldino del peso politico di Francesco Crispi, la bilancia prese a pendere in favore degli ammiratori di Bruno. E nell’autunno del 1888, quando gli elettori della capitale elessero al Campidoglio una maggioranza liberale, le condizioni furono riunite perché il bronzo della statua potesse finalmente essere fuso.
Cammin facendo, i promotori del monumento avevano dovuto rinunciare a raffigurare Bruno – come in un primo bozzetto di Ferrari – alla stregua di un profeta trascinante, o addirittura di un avatar capitolino della Statua della Libertà montata in quegli anni tra Parigi e New York. Pur di realizzare il progetto, avevano dovuto contentarsi di un Bruno statico e riflessivo, meno apostolo che filosofo. Ma che la statua inaugurata il 9 giugno 1889 in Campo dei Fiori rappresentasse comunque una dichiarazione di guerra contro ogni verità rivelata, è quanto riusciva chiaro a tutti i cattolici d’Italia, Sommo Pontefice in testa. Il 30 giugno, in un’allocuzione davanti al Concistoro, Leone XIII tenne a ribadire come Giordano Bruno fosse stato «doppiamente apostata, convinto eretico, ribelle fino alla morte all’autorità della Chiesa». «Così dunque le straordinarie onoranze tributate a tal uomo, dicono alto e chiaro, essere ormai tempo di romperla colla rivelazione e la fede: l’umana ragione volersi emancipare affatto dall’autorità di Gesù Cristo».
Punto d’arrivo, l’apoteosi d’oltretomba di Giordano Bruno non riuscì a costituire un punto di partenza. Nei decenni successivi al 1889, l’Italia laica avrebbe perso più battaglie (sul divorzio, sul riposo domenicale, sulle opere pie, sull’insegnamento religioso nelle scuole) di quante ne avrebbe vinte. E la storia d’Italia avrebbe evidenziato – sottolinea Bucciantini – tutti i limiti di un radicalismo astratto, da salotto borghese o da cattedra universitaria, che inneggiava alla poesia della scienza e della filosofia più di quanto praticasse la prosa della riforma politica e sociale.
Alla lunga, il monumento di Campo dei Fiori rischierà di sembrare niente più che il simbolo di un’inutile fuga in avanti: il bronzeo giocattolo di un pugno di vincitori perdenti. E quarant’anni dopo il 1889, nell’Italia dei Patti lateranensi, Benito Mussolini sarà costretto a smentire pubblicamente – nel suo discorso di ratifica del Concordato, il 13 maggio 1929 – le voci secondo cui lo Stato aveva promesso alla Chiesa la demolizione del monumento di Campo dei Fiori: «Bisogna che io dichiari che la statua di Giordano Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dov’è». Non avrà bisogno, il Duce, di abbattere la statua dell’eretico. Perché a quel punto l’Italia laica sarà già in macerie, sarà già crollata sotto i colpi di mazza del clerico-fascismo.

Massimo Bucciantini, Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto , Einaudi, Torino, pagg. 392, € 32,00.

Il Sole 15.2.15
Enciclopedia del filosofo
«Monumenti» di carta a Bruno
di Massimo Firpo


«Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nel subirla», aveva detto ai suoi giudici Giordano Bruno dopo averne ascoltato la lettura l’8 febbraio 1600, proprio all’aprirsi di un nuovo secolo. In virtù di essa dieci giorni dopo egli fu condotto a Campo dei Fiori con la bocca chiusa dalla mordacchia perché non potesse più dire nulla, denudato e arso vivo sul rogo. Un monumento di clamorosa ispirazione massonica inaugurato nella piazza romana il 9 giugno 1889 dal sindaco di Roma Ernesto Nathan, con l’approvazione dell’allora presidente del Consiglio dei ministri Francesco Crispi, destò l’indignazione del Vaticano, dove papa Leone XIII volle trascorrere l’intera giornata in preghiera. «A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse», recita la lapide sottostante, che celebra il frate nolano come martire del libero pensiero, simbolo dell’oppressione clericale, precursore di verità troppo profonde e rivoluzionarie per i tempi in cui gli accadde di vivere, cercando di farne partecipe l’Europa tutta, dall’Inghilterra della grande Elisabetta alla Praga di Rodolfo II d’Asburgo, da Tolosa a Venezia, dalla Svizzera calvinista alla Germania luterana, sempre lasciando dietro di sé una scia di libri provocatorii, di intuizioni geniali, di idee eversive, di aspre polemiche, di sospetti e di accuse.
Molto, moltissimo si è scritto di Bruno negli ultimi decenni, scavando sempre più in profondità e in molteplici direzioni nel magma incandescente della sua vita, della sua cultura, del suo pensiero, dei suoi scritti, e presentandolo anche in prospettive alquanto diverse: come potente filosofo dell’infinito, della pluralità dei mondi e dell’inesauribile creatività e vitalità della natura, o come mago ermetico e maestro di mnemotecnica e ars combinatoria, o ancora come vittima della sua tenace difesa della libertas philosophandi. Per orientarsi nel labirinto storico e storiografico dell’opera bruniana è oggi disponibile questa poderosa opera di sintesi in tre volumi, di cui uno di indici e apparati, strutturata come una sorta di enciclopedia che in circa 1.200 lemmi e oltre 2.000 fitte pagine su due colonne offre uno strumento prezioso per conoscere, comprendere, approfondire dottrine, parole, immagini, idee, concetti, uomini e luoghi in qualche modo collegati a Bruno, e solo in quanto a lui più o meno strettamente riferibili. Basti qualche esempio tratto dalla sola lettera A, limitandomi ad alcune parole di uso poco comune: Abstrahere, Acrotismus, Adiectum, Agglutinare, Anima mundi, Annihilazione, Apparenza, Appiscentia, Appulso, Ars deformationum, Ars memoriae, Ascenso, Asinità e Asino, auriculatus, auritus e via dicendo. A ciò si aggiungano i nomi di personaggi come Valens Acidalius, Agrippa di Nettesheim, Petrus Albinus (e cioè Peter von Weisse, professore di poesia a Wittenberg), di antichi filosofi greci come Anassimene e Anassimandro, o arabi come Al Gazali, Averroé, Avicebron e Avicenna, di letterati antichi e moderni come Apuleio, Pietro Aretino e Ludovico Ariosto, di figure mitologiche come Apollo o Atteone, di studiosi moderni come Romano Amerio o Giovanni Aquilecchia.
Non v’è dubbio che la prospettiva prevalente in queste pagine sia quella filosofica, tanto da includere in essa anche un grande giurista e pensatore politico come Jean Bodin o un filologo come Ludovico Castelvetro o un genio enciclopedico come Pierre Bayle. Ed è anzitutto il Bruno filosofo (com’è giusto che sia) a emergere da queste dense pagine, ma un filosofo talora inatteso, di cui si mette in evidenza anzitutto la potenza immaginativa, il vero e proprio pensare per immagini, la creatività intellettuale, il prodigioso sforzo di confrontarsi con tutta la cultura del passato e del presente. È di qui, del resto, che scaturisce la prospettiva unitaria e quindi la grande coerenza complessiva di questa enciclopedia bruniana, che si potrebbe dire “fatta in casa” (una casa molto attrezzata, a dire il vero, piena di risorse e ricca di porte e finestre), scaturito cioè dal lavoro collettivo di una scuola, quella di Michele Ciliberto fra l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento e la Scuola Normale Superiore di Pisa, in grado quindi di offrire un’interpretazione unitaria del pensiero bruniano e della sua contestualizzazione storica. Il che facilita l’orientarsi nel labirinto delle voci, abbassa fortemente il rischio di contraddizioni, agevola la comprensione dei problemi. In tal modo la frammentazione delle voci (ineliminabile da una enciclopedia) e la pluralità a volte divergente dei punti di vista sono compensate dalla coerenza complessiva della prospettiva ermeneutica.
Non entrerò nel merito del problema della modernità di Bruno e del Rinascimento sul quale Ciliberto si sofferma nell’Introduzione, perché sono d’accordo con lui nel ritenere sostanzialmente esaurita la prospettiva burkhardtiana o gentiliana del Rinascimento come nodale punto di svolta nella nascita del mondo moderno (anche se proprio allora fu coniata la parola moderno). Il che libera Bruno dal suo ruolo paradigmatico e simbolico di vittima dell’oscurantismo papale, la cui vita si chiude profeticamente con l’aprirsi di un nuovo secolo, e agevola il compito di storicizzarlo, di collocarlo nel suo tempo, di capire il senso delle sue peregrinazioni e delle sue polemiche, del suo coraggio e dei suoi «eroici furori», del suo straordinario sincretismo culturale, del suo febbrile scrutare tra «le ombre delle idee» alla ricerca della «causa, principio et uno» e dell’«infinito, universo et mondi». Titoli di alcuni suoi libri che rivelano la potenza intellettuale del filosofo nolano, nella cui opera talora oscura e visionaria quest’opera monumentale aiuta lettori e studiosi a orientarsi e capire.

Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, Direzione scientifica di Michele Ciliberto, voll. 3, Edizioni della Normale, Firenze-Pisa, Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, pagg. 2.012, € 180,00

Il Sole 15.2.15
L’abiura sotto tortura


Arda «Poiché mi splend’al col sì bella fiamma,
E mi stringe il voler sì bel legame,
Sia serva l'ombra, ed arda il cener mio» (Giordano Bruno).
Cella La cella di Giordano Bruno nelle segrete di Castel Sant’Angelo, una sola una piccola finestra in alto che dava sui giardini di Domizia, trenta piedi sotto la terrazza. Per accedervi bisognava percorrere una stretta scala dai gradini lubrichi, quindi un corridoio in pendenza, chiuso da tre porte di ferro arrugginite, in successione, poi attraversare una vasta camera sotterranea dal sentore di muffa, infine il vestibolo circolare sul quale si aprivano tutte le celle dei prigionieri in fase processuale, compresa la sua.
Sammalo Giordano Bruno, che temeva di finire nella Sammalo, la bruttissima caverna dov’era stato rinchiuso a vita Benvenuto Cellini: una segreta con quattro pareti senza alcuna apertura, cui si accedeva solo se calati dall’alto. Conteneva un letto di tavole, un pagliericcio, una coperta, una lampada a olio, un breviario, la Bibbia, le Epistole di San Pietro. Ogni tre giorni al prigioniero venivano forniti un barile d’acqua, tre pezzi di pane e una bottiglia d’olio per la lampada.
Necessità Bruno, chiuso per sette anni a Castel Sant’Angelo, s’era imposto di camminare da una parete all’altra della cella più volte al giorno per necessità vitale.
Bellarmino Roberto Bellarmino, gesuita, nominato da Clemente VIII Gran Penitenziere, considerato il massimo teologo del tempo, conosceva l’astronomia e combatteva gli eretici. Si gloriava di saper smascherare il Maligno sotto qualsiasi travestimento.
Rettile A Parigi Bellarmino veniva chiamato «rettile dai denti aguzzi», a Londra «furioso e diabolico gesuita». L’anagramma del nome, era «Robur bellum Arma Minae», il martello degli eretici.
Abiura Bellarmino chiese a Bruno, accusato dalla Chiesa di eresia, di abiurare otto sue proposizioni considerate contrarie alla fede cattolica. Questi lo fece una prima volta, per iscritto, rinnegandole tutt’e e otto; poi una seconda, rinnegandone sei. Infine, torturato per due volte, abiurò ogni cosa.
Tortura Il supplizio della corda: le braccia legate dietro la schiena, l’interrogato viene sospeso a quattro spanne dal suolo mediante una corda, stretta ai pugni, e che scorre in una puleggia attaccata al soffitto. I legamenti delle braccia si tendono, schioccano, gli omeri escono dalle scapole, i nervi cubitali si torcono, infine le braccia si slogano. I più recalcitranti vengono issati fino al soffitto, e poi lasciati cadere di colpo fin quasi a toccare il pavimento. Un monaco recita un Pater per misurare la durata della seduta.
Tribunale Il 21 dicembre 1599 Giordano Bruno si presentò ai giudici per l’atteso pentimento pubblico. E disse: «Vi dico che non devo né voglio voglio ritrattare, e che non c’è materia di pentimento».
Crocefisso Condannato al rogo, il 17 febbraio 1600 fu condotto a Campo de’ Fiori e lì costretto ad indossare un morso di ferro, in modo da zittirlo. Spogliato e legato a un palo, fu arso vivo. Quando le fiamme lambirono il suo corpo, i boia gli presentarono il Crocefisso. «Stornò il viso, per affermare nell’ultimo istante che aveva lasciato del tutto la finzione ai teologi».

Notizie tratte da: Jean Rocchi, Giordano Bruno davanti all’Inquisizione , Stampa Alternativa, Viterbo, pagg.112, € 8,00

Il Sole 15.2.15
Una libertà che non fa danno
Ecco un vademecum concettuale minimo per discutere sulla questione della blasfemia in una società laica
di Roberto Casati


1. In primo luogo, attenzione agli «argomenti-ma», denunciati da più parti, in particolare da Salman Rushdie, nonché dai redattori nell’editoriale del primo numero di «Charlie Hebdo» dopo gli attentati. «Io non sono razzista, ma...», «Sono d’accordo sulla libertà di stampa, ma...», «Non ho niente contro i mussulmani, ma...». Tipicamente gli «argomenti-ma» vengono presentati come espressione di una leggera sfumatura di dissenso rispetto a una tesi che si suppone condivisa, quando in realtà sottintendono il contrario della tesi.
2. Veicolo o contenuto? Chi difende la libertà di espressione difende un veicolo, l’esistenza di organi di espressione, indipendentemente dalla difesa del suo contenuto. Chi sottoscrive «JeSuisCharlie» può aderire a quanto «Charlie Hebdo» pubblica, o vuole invece soltanto dire che è d’accordo che «Charlie Hebdo» pubblichi qualsiasi cosa intenda pubblicare, anche se poi non aderisce ad alcuni o a nessuno dei contenuti pubblicati. Uno potrebbe dire senza contraddirsi «JeNeSuisPasCharlie, quindi JeSuisCharlie», non sono d’accordo con i tuoi contenuti, ma proprio per questo accetto il principio superiore della libertà della loro espressione.
Se poi si vuole discutere di contenuti e non soltanto del veicolo, si devono tenere presenti ancora altri aspetti.
3. Blasfemia o incitazione all’odio (razziale o religioso)? Irridere un certo X, considerato come sacro dal gruppo Y, è cosa diversa dall’irridere gli Y, dal dire che gli Y sono esecrabili in quanto credono in X; o che gli Y vanno sanzionati – privati di diritti, espulsi, sterminati eccetera – in quanto credono in X. Se si irride l’X considerato come sacro dagli Y non si prendono di mira esplicitamente gli Y che credono in X. L’incitazione all’odio ha forme ed espressioni diverse dalla blasfemia, che vengono giustamente sanzionate.
4. Offesa o danno? La legge francese non prevede il reato di blasfemia; negli Stati Uniti sarebbe inconstituzionale perseguire un blasfemo.
In Italia la blasfemia è un illecito amministrativo; in Pakistan è punibile con la pena di morte.
A fondamento della visione laica, che non considera sanzionabile la blasfemia, c’è un’idea di John Stuart Mill secondo il quale si deve distinguere tra offesa e danno. La blasfemia può anche offendere una persona, ma non può arrecarle alcun torto. Se viene impedito agli Y l’accesso a un luogo di culto, o se gli Y vengono calunniati, viene arrecato loro un torto, ma se viene irriso un X considerato sacro dagli Y, non viene arrecato alcun danno agli Y. Il danno deve essere quantificabile, mentre la nozione di offesa è eminentemente soggettiva e sostanzialmente imponderabile.
5. Desacralizzazione offensiva o sacralizzazione offensiva? A questo proposito, vorrei spendere una parola su una sottile asimmetria che sembra far parte del discorso comune e di quello dei media. Viene dato per scontato che vi sia un solo tipo di offesa in gioco, quella di chi crede nella sacralità di X, quando X viene dissacrato. Sarebbero solo i credenti (di qualsiasi religione) ad albergare sentimenti che verrebbero offesi da certi comportamenti o immagini dissacranti. Ma dovrebbe venir tenuto presente che anche i non-credenti hanno tutti i diritti di sentirsi offesi dalla sacralizzazione di comportamenti o immagini, ovvero dal fenomeno inverso.
Non c’è nessuna ragione di accettar e l’asimmetria, ovvero di pensare che un non-credente non possa e non debba sentirsi offeso dall’ostentazione di un simbolo religioso in un luogo pubblico. Se la questione della blasfemia è, come dovrebbe essere, una questione di sensibilità alle offese, allora tutte le sensibilità devono venir prese in considerazione, anche quella dei non-credenti. Per restaurare la simmetria abbiamo dunque bisogno di un concetto di “offesa ideologica” che include come sottoconcetto sia la blasfemia sia la sacralizzazione offensiva. Chiunque volesse sanzionare la dissacrazione offensiva, dovrebbe però anche accettare una sanzione nei confronti della sacralizzazione offensiva.

Il Sole 15.2.15
Neuroscienze/1
Neuroni oltre lo specchio
Una serie di obiezioni ai «mirror neurons»: su empatia, autismo e linguaggio le reali potenzialità esplicative sono molto limitate
di Gregory Hickok


Che cosa sono (i neuroni specchio) queste miracolose cellule cerebrali umane capaci di spiegare tutto, dalle erezioni all’autismo? Curiosamente, tutte le congetture sul comportamento umano non si fondano affatto sulla ricerca nel settore delle neuroscienze umane. La chiave di volta teorica è una classe di cellule scoperte nella corteccia motoria dei macachi nemestrini, animali che non sanno parlare, non apprezzano la musica e, francamente, non sono tanto gentili gli uni con gli altri. Il comportamento dei neuroni specchio è modesto, quanto meno nel contesto delle capacità umane che secondo alcuni permettono. La caratteristica fondamentale è che rispondono («scaricano», come dicono i neuroscienziati) sia quando una scimmia allunga una mano per afferrare un oggetto sia quando la scimmia lo vede fare a qualcun altro. Questo è tutto.
Quale aspetto di questo schema di risposta apparentemente semplice dei neuroni specchio dei macachi ha entusiasmato un’intera generazione di scienziati? Com’è possibile che una cellula nella corteccia motoria di una scimmia possa fornire il progetto neurale per il linguaggio, l’empatia, l’autismo e molto altro?
L’idea di base è semplice – e questo è il suo fascino. Quando una scimmia cerca di afferrare un oggetto, «capisce» la propria azione, qual è l'obiettivo, perché mira a quel particolare obiettivo e così via. In breve, la scimmia «sa» ciò che fa – e perché. Questa parte è banale. Ciò che la mente avida di sapere della scimmia vuole davvero sapere, tuttavia, è che intenzioni ha un’altra scimmia. Vuole impadronirsi del mio cibo o sta solo andando alla pozza d’acqua? Questo è un po’ più difficile da capire. La domanda è quindi: come interpretiamo (o capiamo) le azioni altrui? I neuroni specchio offrono una risposta semplice perché scaricano sia quando la scimmia esegue un’azione sia quando osserva azioni simili eseguite da altre scimmie: se la scimmia capisce il significato delle proprie azioni, allora simulando le azioni di altri nel proprio sistema neuronale di azione può, per la stessa ragione, capire il significato delle azioni altrui.
È uno stratagemma ingegnoso – usare la conoscenza delle proprie azioni per raccogliere informazioni sulle intenzioni altrui – con applicazioni potenziali che vanno ben al di là del laboratorio in cui si studiano le scimmie. Dato questo punto di partenza, i passi deduttivi dai neuroni specchio alla comunicazione e alla cognizione umana non sono difficili da immaginare. Anche gli esseri umani hanno bisogno di capire le intenzioni dei loro simili, quindi forse anche noi abbiamo un sistema specchio. Parlare è un’azione umana importante; forse un meccanismo di simulazione basato sui neuroni specchio è alla base della punta di diamante della cognizione umana: il linguaggio. Anche lo sport si basa senza dubbio sull’azione; forse siamo tanto fanatici della nostra squadra perché i neuroni specchio ci fanno sentire sul campo di gioco, simulando ogni lancio, ogni presa e ogni calcio. Non siamo capaci di capire soltanto le azioni degli altri, ma ne comprendiamo anche le emozioni e gli stati mentali; forse dietro all’empatia c’è un qualche meccanismo specchio. Di alcune malattie, come l’autismo, si pensa comunemente che abbiano a che fare con una mancanza di empatia; forse l’autismo deriva da un malfunzionamento dei neuroni specchio. La teorizzazione sui neuroni specchio ha una clausola nascosta che riguarda l’evoluzione: illustrando un collegamento (in precedenza mancante) tra un neurone di scimmia che partecipa al riconoscimento delle azioni altrui e le capacità cognitive umane di alto livello, i neuroni specchio offrono un appiglio a una teoria dell’evoluzione della mente umana.
Esempio: se nelle scimmie i neuroni specchio permettono la comprensione di semplici azioni gestuali, come afferrare un oggetto, per iniziare il percorso di evoluzione verso il linguaggio la selezione naturale non deve fare altro che ampliare la portata della comprensione delle azioni in modo che includa azioni collegate alla vocalizzazione, come i richiami. Il potere esplicativo di queste cellule solo apparentemente semplici sembra davvero impressionante.
[…] l’idea che siano la base della comprensione delle azioni ha ben poca coerenza.
– Non abbiamo prove dirette del fatto che nelle scimmie i neuroni specchio siano alla base della comprensione delle azioni.
– I neuroni specchio non sono necessari per la comprensione delle azioni.
– Le risposte dei neuroni specchio dei macachi e le risposte di tipo specchio negli esseri umani sono diverse.
– L’esecuzione e la comprensioni delle azioni negli esseri umani sono separate.
– Danni all’ipotizzato sistema specchio umano non causano deficit di comprensione delle azioni.
Iniziai a condurre una ricerca per verificare la teoria dei neuroni specchio nell’ambito della sua applicazione umana più importante (che è anche il settore di cui mi occupo): il linguaggio. La teoria non ha retto bene alla verifica. Per esempio, in uno studio a grande scala sul riconoscimento del linguaggio, a cui hanno partecipato più di cento soggetti con lesioni cerebrali (dovute per lo più a un ictus), abbiamo scoperto che i deficit di comprensione del linguaggio erano associati a danni non al presunto sistema specchio, ma a regioni cerebrali collegate all’udito.
Come avrete ormai capito, i miei scritti sui neuroni specchio sono per lo più critici, poiché danno rilievo ai molti modi in cui la teoria non regge per motivi logici o empirici. Ci si può fare una reputazione tutt’altro che favorevole con questo approccio.
[…] Quando iniziai a occuparmi dei neuroni specchio, gli scettici (o per lo meno quanti si dichiaravano apertamente tali) erano pochi. Per esempio, all’incirca nel 2010 la voce di Wikipedia sui neuroni specchio conteneva ben tre frasi che riassumevano la mia critica degli «otto problemi» sotto il sottotitolo «critiche». Il punto è non tanto che l’unica voce di dissenso fosse la mia, ma solo che probabilmente ero l’«asino» più in vista. Oggi la pagina di Wikipedia contiene una parte intitolata Dubbi sui neuroni specchio che consta di sette capoversi e riassume le critiche di vari scienziati importanti di diverse discipline. Il dibattito internazionale sui neuroni specchio e sulla natura della cognizione umana oggi è più animato. I neuroni specchio non sono più come un tempo le rock star delle neuroscienze e della psicologia e, a mio modo di vedere, una descrizione più complessa e interessante in relazione alle neuroscienze della comunicazione e della cognizione incontra un favore crescente.

Gregory Hickok, Il mito dei neuroni specchio , traduzione di Simonetta Frediani, Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 300, € 24,00. Pubblichiamo una anticipazione del volume che sarà libreria dal 19 febbraio.

Il Sole 15.2.15
Neuroscienze/2
La strana coppia mente-cervello


Il libro tascabile del neurofisiologo torinese Piergiorgio Strata è il resoconto stringato e ben riuscito del trasferimento della mente dalla condizione di res cogitans incorporea e immortale, tracciata da Cartesio nel ’600, ai meccanismi elettrochimici del cervello. A essi la «riduce» (è il termine tecnico) la neurobiologia, che del pensiero cerca e studia i meccanismi naturali che lo producono. L’autore si sofferma sulle difficoltà e le incertezze concettuali ed etiche che la riduzione del pensiero alla carne del cervello comporta, ma, data la «correlazione molto stretta fra eventi cerebrali ed esperienze mentali», non ha dubbi sulla realtà della mente nel cervello.
La correlazione è corroborata da innumerevoli dati, anche se «la vera natura della mente intesa non come operazione di simboli, ma come esperienza personale che accoglie in un tutto unico quanto abbiamo vissuto, ancora ci sfugge». Della scienza fa parte la consapevolezza dei suoi limiti cognitivi, che hanno basi naturali descritti dalle neuroscienze. La storia della mente, sottolinea Strata, non inizia da Cartesio ma con Alcmeone di Crotone e con la spettacolosa intuizione della scuola ippocratica di attribuire al cervello tutte le attività cognitive ed emotive che conosciamo oggi.
Aristotele, iniziando – dice Strata – la serie di filosofi «anche di grande prestigio che hanno costruito ipotesi senza alcun fondamento sperimentale», negò il legame mente- cervello. La barriera concettuale aristotelica fu infranta solo dopo duemila anni. I fondamenti nervosi di coscienza e attività mentale sono descritti da Strata principalmente con riferimenti a esperienze e ricerche recenti. È messa nel giusto rilievo la teoria della coscienza come attività globale del cervello, condivisa dai maggiori ricercatori. Essa fornisce l’indirizzo generale comune, e per questo molto produttivo, allo studio dei meccanismi della coscienza. È sottolineata la probabile casualità per la quale quando un’informazione diviene cosciente, molte altre rimangono inconscienti pur rimanendo attive nei meccanismi nervosi della coscienza. È importante la scoperta che fra attività cosciente e attività incoscia c’è differenza di grado dell’elaborazione dell’informazione, ma non di qualità e di sede.
Diverse pagine sono dedicate al problema, molto pesante anche per il sentire comune, del cosidetto libero arbitrio: se noi siamo ciò che la macchina del cervello ci fa essere, ha senso credere e agire con l’antico concetto di responsabilità? Qual è la strada corretta per affrontare il problema?
L’autore accenna marginalmente ai vecchi di decenni e benemeriti esperimenti di Benjamin Libet sulla fisiologia della volontà e della scelta, e riporta ricerche recenti che confermano che aree specifiche della corteccia cerebrale sono attive prima della consapevolezza di ogni atto della volontà. Struttura e funzione delle varie aree dipenderebbero dai geni e dall’ambiente. Le esperienze modificano continuamente struttura e funzione del cervello grazie alla plasticità corticale. Ogni percezione, diceva il neurofisiologo Gerard Edelman, è un atto creativo perché modifica la struttura del cervello. Il dato è ampiamente corroborato: resta da confermare se l’attività registrata prima della consapevolezza sia sempre la causa di ciò che avverrà, come quasi tutto lascia credere, o un’attività nervosa correlata.
Nel primo caso «il libero arbitrio sembra una pura illusione», dice Strada, in accordo con la maggioranza degli scienziati. Questo è uno dei campi di studio più intensi delle neuroscienze cognitive contemporanee ed è veramente il cuore del problema del libero arbitrio. L’approccio rigorosamente naturalistico al libero arbitrio, dichiarano alcuni filosofi, è motivo di imbarazzo. È un imbarazzo che imbarazza solo loro.
ajb@bluewin.ch

Piergiorgio Strata, La strana coppia. Il rapporto mente-cervello da Cartesio alle neuroscienze, Carrocci, Roma, pagg. 160, €12,00
Arnaldo Benini

Il Sole Domenica 15.2.15
La buona morte
Morfina, amore e whisky
Troppe ipocrisie sulla fine della vita, un processo lungo e doloroso. I consigli del grande clinico Giuseppe Remuzzi
di Gilberto Corbellini


Chi non ha pensato a come preferirebbe morire? E non è forse vero che quasi tutti sceglieremmo una morte improvvisa, magari nel sonno? E non ci augureremmo di morire per cancro. Ebbene questo luogo comune è stato sfidato e, nei primi giorni del gennaio scorso, un piccolo psicodramma intellettuale si è consumato per i cultori di temi medico-sanitari.
Richard Smith, per 25 anni editor del «British Medical Journal» e influente personaggio dell’economica pubblicistico-industriale che ruota intorno alla medicina, scriveva sul suo blog che una bella morte non è quella istantanea. E citava il regista Luis Buñuel, per il quale morire rapidamente priverebbe di alcuni piaceri, come ripercorrere il film della propria vita, accomiatarsi dagli amici eccetera. Buñuel morì per un cancro al pancreas, come Steve Jobs, e Smith ritiene che la malattia di cui oggi è preferibile morire, in compagnia di «morfina, amore e whisky», sia proprio il cancro.
Il modo peggiore di morire sarebbe in uno stato di demenza, secondo Smith, che en passant criticava la hybris degli oncologi, che non lasciano morire in pace i malati, e l’eccesso di investimenti nell’inutile tentativo di curare il cancro.
I commenti al blog sono stati quasi 200 in poche ore, la maggior parte dei quali insulti. Un certo numero da parte di genitori con bambini colpiti dal cancro. Per rintuzzare gli equivoci, Smith scriveva un nuovo blog in cui precisava che egli non voleva offendere nessuno, né sottovalutare l’impegno della lotta contro il cancro, ma solo esprimere un personale punto di vista in merito a un tema spesso discusso, alla luce del modo in cui la medicina di fine vita sta cambiando il modo di morire nelle società più sviluppate.
In effetti, nei Paesi governati da un classe politica intelligente e benevola, il tema delle scelte di fine vita è un’emergenza ascoltata, anche come istanza per migliorare la qualità della convivenza civile. La scelta di come morire, al di là della malattia, che non è nelle nostre disponibilità – salvo alcune forme di suicidio – è una sfida culturale non più eludibile.
L’ultimo libro di Giuseppe Remuzzi illustra bene le ragioni per cui l’atteggiamento medico verso le morti degenerative, cioè le morti lente, cronicamente dolorose e psicologicamente stressanti, non può continuare a essere quello che per secoli si è tenuto verso le morti acute, quando cioè il decorso di infezioni o traumi per cui non esistevano trattamenti portava rapidamente al decesso.
Anche perché nel mondo occidentale, oggi, circa un terzo di quello che si spende per la salute è destinato agli ultimi mesi di vita. Negli Stati Uniti si cominciò dai primi anni Novanta a incentivare, anche attraverso le direttive anticipate, la scelta di morire a casa e senza spendere soldi per trattamenti inutili. Per il momento senza risultati apprezzabili. Però ci vuole tempo per cambiare i comportamenti, dato che per oltre un secolo si è incoraggiato il ricorso all’ospedale e si è sovra-drammatizzata la morte. Un po’ più di sincerità e serenità aiuterebbero le future generazioni a gestire scenari che saranno complicati evitando involuzioni o scorciatoie.
«Chi vuole prolungare l’agonia della gente a tutti i costi – scrive Remuzzi – parla di dignità della vita. È un vecchio trucco retorico». Infatti, è spingendo le persone a morire nella disperazione e nel dolore che si toglie loro dignità e le si priva di un diritto fondamentale, cioè la libertà di vivere fino alla fine aderendo ai propri valori.
«Forse è ora che i medici - continua Remuzzi - cambino completamente il loro modo di guardare le cose. Vediamo sempre la morte come una sconfitta. Non dovrebbe essere più così. Aver aiutato qualcuno a morire bene, a casa sua, con un po’ di morfina se ha dolore, fra le cose sue e chi gli vuole bene, è un grande traguardo a cui dovremmo tendere, sempre». È auspicabile che l’Ordine dei medici ascolti le parole di saggezza di un clinico e ricercatore italiano tra i più riconosciuti internazionalmente.
Remuzzi pensa anche che la questione sia troppo complessa perché si possa imbrigliare giuridicamente. «Non si possono stabilire regole che valgano per tutti; questa è una materia delicatissima, fatta di pochi punti fermi e moltissime storie, diverse una dall’altra, e di tante sfumature che coinvolgono la sfera privata delle persone». In realtà, non serve entrare troppo in dettaglio e alcuni paletti formali sono invece necessari, soprattutto perché non tutti e non sempre i medici sono disposti a rispettare la libertà dei pazienti.

Giuseppe Remuzzi, La scelta. Perché è importante decidere come vorremmo morire, Sperling & Kupfer, Milano, pagg. 180, € 16,00

Il Sole Domenica 15.2.15
Comunità olivettiana
di Sebastiano Maffettone


Adriano Olivetti fu senza dubbio un personaggio straordinario. Imprenditore, intellettuale e politico meno apprezzato del dovuto, oltre ai risultati imprenditoriali nel campo delle macchine da scrivere e della nascente elettronica, dette contributi notevoli alla teoria dell’impresa, all’urbanistica e alle scienze sociali nel suo complesso. L’ordine politico delle Comunità è il libro in cui Olivetti formulò la sua proposta di riforma della società. Molto utile, quindi, questa ristampa, che rende possibile ai lettori, in specie quelli più giovani che non la conoscono, di leggere quest’opera centrale nel pensiero di Olivetti stesso.
Il pensiero di Olivetti è incentrato su di un originale socialismo cristiano, in cui l’ispirazione cristiana prevale su quella socialista. Cristiano è infatti il personalismo di Olivetti, che risale a Maritain e Mounier, cioè la base filosofica del suo pensiero. Socialista invece si può definire la tensione all’eguaglianza e la preoccupazione per il benessere dei lavoratori. Ma Olivetti aggiunge a questo socialismo cristiano un autentico amore per la libertà e un afflato per le istituzioni liberal-democratiche che altri pensatori in questo ambito spesso non hanno.
Da buon imprenditore, Olivetti sapeva che dio è nei dettagli e il libro cura minuziosamente l’articolazione della società, basata sul concetto di comunità, che l’autore ha in mente. In sostanza, l’utopia olivettiana si rivela profondamente realistica se non altro per la capacità di immaginare un sistema sociale imperniato su istituzioni coerenti con esso. Chi dubitasse del realismo del progetto comunitario di Olivetti, dovrebbe leggere questo libro, in cui il disegno utopico si coniuga con un’enorme ricchezza di progettualità concreta, sia imprenditoriale sia istituzionale.
Dal punto di vista istituzionale, che è poi quello centrale nel libro, la comunità olivettiana è una struttura elettiva a metà tra Comune e Regione, una sorta di area metropolitana di oggi o di cantone svizzero tradizionale. La visione istituzionale si basa così su di un originale federalismo in cui l’autonomia delle parti gioca un ruolo essenziale. Il fattore di integrazione è dato dalla cultura, che ha un ruolo fondamentale nella formazione del personale politico e in genere del capitale umano.
Rileggendo oggi queste pagine dense, piene di annotazioni acute e attuali, viene in mente una riflessione obbligata. Come è possibile che una visione così profonda sia stata sostanzialmente negletta, e come mai la politica main stream del dopo-Olivetti l’ha in buona misura ignorata? Forse perché era troppo avanti sui tempi? Oppure perché noi italiani siamo fin troppo bravi a sprecare le migliori occasioni che abbiamo? Ai lettori l’ardua sentenza.

Adriano Olivetti, L’ordine politico delle Comunità, edizioni Comunità e Fondazione Adriano Olivetti, Roma-Ivrea, pagg. 366, € 18,00

Il Sole 15.2.15
Piero Gobetti
Avvicinare il popolo allo Stato
di Sabino Cassese


Aveva 21 anni Piero Gobetti, quando, nel febbraio del 1922, scrisse il saggio che apriva il primo numero de «La rivoluzione liberale», il settimanale da lui fondato e diretto, che ora viene ripubblicato a cura di Pina Impagliazzo e di Pietro Polito quale primo volume di una nuova “collana gobettiana”.
Gobetti, come l’intellettuale avelline Guido Dorso, con cui fu a stretto contatto, si proponeva di formare una classe politica per assicurare la partecipazione del popolo alla vita dello Stato. Gobetti, come Dorso, partiva dalla constatazione della mancanza sia di una classe dirigente come classe politica, sia di una “coscienza dello Stato”. Lamentava che l'Italia dei Comuni avesse visto “l’esplodere delle passioni, non l'organizzarsi delle iniziative”, per cui vi era stata solo “disgregazione operosa”. Con l'Unità, “al popolo estraneo fu imposta la rivoluzione dall’esterno” e “lo Stato [venne] corroso da un intimo dissidio tra governo e popolo”, un governo fondato sul compromesso e un popolo “in perenne atteggiamento anarchico di fronte all’organizzazione sociale”. Gobetti concludeva: “il problema centrale dello Stato ci è parso problema di adesione del popolo alla vita dell’organismo sociale, problema di educazione politica (non di scuola), esercizio di libertà….” E vedeva la soluzione nella formazione di un partito dei contadini e di un partito operaio, riservando a sé stesso e alla sua rivista il compito di preparare degli spiriti liberi capaci di aderire all’iniziativa popolare, illuminandola ed educandola.
Diagnosi lucida, ma controcorrente, programma ingenuo. Che non ebbe il successo sperato. Gobetti scrisse a Croce, Gentile, De Ruggiero, Einaudi, Papini, nonché a Salandra, Burzio, Formentini, Ansaldo, Missiroli, chiedendo commenti, per suscitare una discussione. I primi non risposero. Gli altri o dettero risposte di cortesia ed evasive, oppure reagirono criticamente. E Gobetti prese atto, in brevi repliche, del silenzio degli intellettuali e dei giornalisti, forse presi in quegli anni del dopoguerra, da quel che stava per maturare, il fascismo. Commenti e repliche, apparsi nei fascicoli successivi della rivista gobettiana, sono raccolti nel volume.
Bisognerà aspettare vent’anni, la caduta del fascismo, la Seconda guerra mondiale, per vedere l’auspicata «partecipazione del popolo alla vita dello Stato», con il suffragio universale e il regime democratico. Invece, rimangono inattuati gli altri obiettivi indicati da Gobetti, «l’organizzarsi delle iniziative» e la formazione di una classe dirigente capace di “illuminare gli elementi necessari della vita futura (industriali, risparmiatori, intraprenditori) ed educarli a questa libertà di visione”.
Proprio perché il disegno gobettiano è rimasto ineseguito è grande il merito del Centro studi Piero Gobetti per avere iniziato questa “collana gobettiana” e per aver promosso, insieme con le Edizioni di storia e letteratura, la ristampa anastatica di tutti i 114 volumi pubblicati dalla casa editrice Gobetti.

Piero Gobetti, Manifesto , a cura di Pina Impagliazzo e di Pietro Polito, prefazione di Marco Scavino, postfazione di Pietro Polito, Aras Edizioni, Fano, pagg. 136, € 11,00

Il Sole 15.2.15
Storia dellla teoria economica
Keynes? Non era un keynesiano
Considerarlo come l’apostolo di uno Stato con le mani bucate non gli rende giustizia: è uno dei grandi pensatori del ’900
di Fabrizio Galimberti


«No, l’economista non è il re, è vero. Ma dovrebbe esserlo! È un governante migliore e più saggio del generale o del diplomatico o dell’avvocato declamatore. In questo mondo moderno e sovrapopolato, che può continuare a vivere solo con sottili aggiustamenti, l’economista non è solo utile ma necessario.
Mi devo fermare qua e corro a imbucare.
Un abbraccio,
Maynard».
Questa simpatica letterina era stata mandata da Keynes alla moglie, Lydia Lopokova. Dopo anni di avventure omosessuali, Keynes si accasò con questa ballerina russa, uno spirito libero che, come Anna Maria Carabelli e Mario Aldo Cedrini ricordano nell’incipit di un brillante saggio (Secondo Keynes), danzava di notte nei corridoi di quel Mount Washington Hotel che nel luglio del 1944 ospitò, a Bretton Woods, uno dei più importanti incontri del “secolo breve”. La letterina accampa una pretesa che pare, appunto, pretenziosa. Ma John Maynard Keynes è stato molto più che un economista. Ha cavalcato da par suo quella che John Hemingway chiamò la «hard countenance of the age», ha legato economia, politica e storia lasciando un’impronta indelebile nelle convulse temperie del Novecento. E non solo. Come sostengono i due autori (per brevità li chiameremo “CC”) oggi dobbiamo ancora rifarci a Keynes, alle sue intuizioni e ai suoi progetti, compiuti e incompiuti.
Vi è stato un tempo quando di Keynes si parlava poco – o peggio. L’economista americano Robert Lucas (Premio Nobel dell’economia 1995) disse, un terzo di secolo fa (nel 1980): «Non è possibile trovare bravi economisti sotto i 40 anni che si identificano - essi stesso o il loro lavoro - come keynesiani... Nei seminari la gente non prende più sul serio le teorie keynesiane. Se uno le menziona, sorgono mormorii e sorrisetti». Era il tempo delle aspettative razionali e dei mercati efficienti. Ma quando scoppiò il disastro - la Grande recessione - i governi non ci pensarono due volte ad applicare le ricette di Keynes: allentarono i cordoni delle borsa - meno tasse e più spese - per sostituire la mancata spesa dei privati con le erogazioni dello Stato, lo spenditore di ultima istanza. Magari poi gli anti-Keynes più cocciuti sparano ancora dicendo che i rimedi sono stati peggiori del male, e ci hanno consegnato una eredità di deficit e debiti pubblici; ma evitano accuratamente di dire che cosa avrebbero fatto di diverso (speriamo che il diverso non sia quello che propugnava Andrew Mellon, il Segretario al Tesoro americano dopo la crisi del 1929: «Liquidate il lavoro, liquidate le azioni, liquidate gli agricoltori, liquidate l’immobiliare ... spazzerà via il marcio dal sistema...»).
Ma CC non si occupano del ritorno del Keynes “keynesiano”. E apriamo qui una parentesi. Così come Marx un giorno esclamò, infastidito dalle posizioni di alcuni suoi accoliti, che lui non era un marxista, Keynes non era un keynesiano nel senso spicciolo del termine (lo Stato deve spendere e spandere per supportare l’economia...): come scrivono CC, «contrariamente alla vulgata che lo considera, semplicemente, il padre del keynesismo che pure non vide (Keynes morì nel 1946) e di cui non è, appunto, il padre... Keynes non è un keynesiano, come tutti gli studiosi di Keynes si affannano a ripetere, con scarso successo, dai tempi dello studio di Axel Leijonhufvud del 1968». Considerare Keynes come l’apostolo di uno Stato con le mani bucate non rende giustizia a uno dei grandi pensatori (non solo economici) del Novecento.
CC vedono l’attualità di Keynes in un aspetto trascurato della sua “economia politica”: il suo internazionalismo, il suo appassionato dibattere sulle fattezze ideali di un sistema monetario internazionale. Il sottotitolo di questo breve e succoso pamphlet - Il disordine del neoliberismo e le speranze di una nuova Bretton Woods - riporta a quel negoziato di Bretton Woods in cui Keynes uscì sconfitto nel suo tentativo di ridisegnare un’architettura dei rapporti finanziari fra le nazioni che potesse tener testa ai problemi presenti e futuri. Keynes voleva, essenzialmente, una simmetrica responsabilità nel controllare gli sbilanci dei pagamenti fra una nazione e l’altra. A un onere che viene addossato a una parte sola - i Paesi in deficit -il Nostro voleva sostituire una corresponsabilità del risanamento: i Paesi debitori dovevano sì stringere la cinghia, ma i Paesi creditori dovevano allargarla. Vi è qui un elemento di straordinaria attualità, come giustamente nota CC. La crisi europea è attizzata dal mercantilismo moralista della Germania, che vuole l’austerità per i Paesi devianti sul fronte dei bilanci pubblici, ma non vuole assumersi la sua parte del compito: espandere la propria domanda interna per facilitare gli aggiustamenti.
Keynes avrebbe approvato quella regola che l’Unione Europea si è data, la «Macroeconomic Imbalance Procedure», che stabilisce come un Paese non debba superare il limite del 6% del Pil nell’avanzo corrente. Regola che da sette anni la Germania trasgredisce, senza che venga messa sotto accusa.
Seconda attualità: lo schema di Keynes per un fondo di stabilizzazione dei prezzi delle materie prime. Due delle tre grosse crisi dell’economia mondiale nel dopoguerra sono state causate dal prezzo del petrolio. E anche il crollo attuale, benvenuto ma troppo rapido, rischia di portare altre dislocazioni.
Keynes era soprattutto, come lo definisce CC, «un pensatore della complessità». E non aveva illusioni sulle certezze dell’economia. L’economia è «un metodo anziché una dottrina», scrisse nella Teoria Generale , e l’essenza sta - CC cita da quel grande libro - nella capacità di «ritornare sui nostri passi», «dopo aver raggiunto una conclusione provvisoria isolando a uno a uno i fattori di complicazione», per poter così «tener conto come meglio possiamo delle probabili reazioni reciproche dei fattori considerati». Chissà, forse è per questo che Churchill si permise di punzecchiare Keynes. Echeggiando, ben prima di Truman, l’esasperazione del politico che chiede pareri ai consiglieri, disse: «Quando chiedo a due economisti la loro opinione su un problema, ho due risposte diverse.
A meno che uno dei due non sia Keynes, nel qual caso avrò tre opinioni».. .
fabrizio@bigpond.net.au

Anna Carabelli e Mario Cedrini , Secondo Keynes. Il disordine del neoliberismo e le speranze di una nuova Bretton Woods , Castelvecchi (Lit Edizioni), Roma,
pagg. 120, € 12,00

Il Sole Domenica 15.2.15
Novecento
Dieci, cento, mille fascismi
di Emilio Gentile


Due volumi ci guidano alla conoscenza di forme di nazionalismo e dittature in Europa. Il limite di una pura descrizione è compensato da una utile quantità di informazioni
La bibliografia sul fascismo, con un centinaio di migliaia di titoli che aumentano ogni anno, appare come un fitto bosco, dove si possono distinguere almeno due differenti tipi di alberi: da una parte, ci sono le ricerche empiriche che ricostruiscono la storia di singoli movimenti e regimi considerati, a torto o a ragione, fascisti; dall’altra, ci sono le interpretazioni teoriche, che propongono una definizione generale del fascismo come un fenomeno unitario sovrannazionale, se non addirittura universale.
Chiunque desideri leggere un nuovo libro sul fascismo dovrebbe aver presente questa distinzione per orientare la sua scelta. Per il lettore che preferisce la conoscenza storica, la scelta è spesso proficua, perché quasi sempre dalle nuove ricerche emergono aspetti sconosciuti o trascurati del fascismo. È il caso del libro di Alessandra Staderini Fascisti a Roma (Carocci 2014), che ricostruisce per la prima volta, con un’ampia documentazione inedita, la storia del partito fascista nella capitale, dove operò come «un vero e proprio laboratorio politico» per attuare l’esperimento totalitario. Su una documentazione inedita si basa anche Elena Vigilante, L’Opera nazionale dopolavoro (Il Mulino 2014) per mostrare come funzionava l’organizzazione più popolare del regime, dedicata al tempo libero e all’assistenza dei lavoratori, particolarmente efficace per suscitare l’adesione delle masse.
Invece, per il lettore interessato alle interpretazioni teoriche del fascismo, non sempre un nuovo libro appaga la sua curiosità con conoscenze nuove. In molti casi, infatti, si tratta di libri che si nutrono in modo parassitario delle ricerche storiche per costruire astrazioni concettuali, sacrificando i fatti alla pretesa di originalità, spesso soltanto verbale. Rari sono gli studiosi capaci di elaborare una interpretazione del fascismo unendo in modo originale la ricerca storica e la riflessione teorica.
Uno di questi è stato Angelo Tasca, che nel 1938 pubblicò in Francia il libro Nascita del fascismo, annoverato fra i classici della storiografia sul fascismo. Tasca non era uno storico di professione, ma un politico militante: giovane socialista, era stato nel 1921 uno dei fondatori del partito comunista italiano, poi membro dell’Esecutivo dell’Internazionale comunista dal 1926 al 1929, quando fu espulso perché antistalinista e passò alla militanza socialista in Francia. La recente pubblicazione di un’ampia scelta dei suoi scritti sul fascismo, pubblicati fra il 1926 e il 1938, dimostra come sia maturata, nel corso di un decennio di attività giornalistica, la sua interpretazione del fascismo, esposta nel libro sulla nascita del fascismo. Infatti, nonostante i limiti cronologici della sua storia, che si arrestava con l’avvento di Mussolini al potere, Tasca proponeva nell’epilogo una propria definizione del fascismo, fondata su un’esplicita premessa metodologica, ispirata allo storicismo di Benedetto Croce: «Per noi definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia». Tasca non escludeva la possibilità di elaborare una teoria generale del fascismo, ma riteneva che tale teoria dovesse emergere dallo studio «di tutte le forme di fascismo, larvate o aperte, represse o trionfanti»: «Definire il fascismo significa sorprenderlo in questo divenire, cogliere la sua “differenza specifica” in un Paese dato e a una data epoca».
Il metodo di Tasca si è dimostrato particolarmente fecondo per le ricerche storiche sul fascismo, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, come dimostra la vasta opera storiografica, sempre accompagnata dalla riflessione teorica, di Renzo De Felice, che al metodo di Tasca esplicitamente si richiamava. Un metodo analogo è stato adottato da un grande scienziato della politica, dotato di senso storico, Juan J. Linz, che negli anni Settanta ha elaborato una delle più convincenti teorie generali del fenomeno fascista. Data l’originalità e l’influenza di studiosi come Tasca, De Felice, Linz, stupisce la loro assenza nella introduzione al libro Altri duci, in cui Marco Fraquelli discute varie interpretazioni del fenomeno fascista e accosta un po’ alla rinfusa George Mosse e Adriano Romualdi, Ivo Andri? e Zeev Sternhell, Maurice Bardèche e Ernst Nolte, lasciando incerto il lettore su quale sia il concetto generale di fascismo e quali siano i «principali fattori di possibile inclusione o esclusione» in base ai quali l’autore ha narrato la storia degli «altri duci» dei «fascismi europei tra le due guerre», quasi fossero tutti figli politici del primo duce, l’italiano Mussolini, e del suo allievo di maggior successo, il tedesco Hitler, accompagnati dai capi di altri movimenti e regimi nazionalisti e autoritari, tutti arruolati in un unico fascismo, senza tener conto delle differenze del tempo e del contesto storico e geografico in cui sorsero e operarono, della loro dimensione e influenza politica, del loro successo o insuccesso.
La scelta di esporre con un «intento puramente descrittivo» le vicende dei singoli fascismi europei, secondo una successione meramente alfabetica, dall’Albania all’Ungheria, probabilmente non aiuta il «pubblico di non addetti ai lavori», destinatario del libro, a orientarsi nella fitta selva di “fascismi”, che furono storicamente e ideologicamente molto differenti, ebbero dimensioni che variavano dal minuscolo al gigantesco; così come molto diverse, per impatto e gravità, furono le conseguenze delle loro azioni sulla popolazione dei singoli Paesi e sul resto dell’umanità europea.
Non ci sembra neppure fondata l’affermazione dell’autore, che il fenomeno da lui illustrato sia stato «abbastanza trascurato da buona parte della storiografia “ufficiale”», dal momento che molta parte della storia narrata in questo libro è tratta da libri di storici “ufficiali”, se con questo termine si intende storici accademici o di professione. Al di là delle forti perplessità che tutto ciò può far nascere nel lettore, questi troverà comunque utile la quantità di informazioni su capi e movimenti dell’estrema destra nell’Europa fra le due guerre, raccolte dall’autore in oltre cinquecento pagine. E se da queste informazioni la sua curiosità di conoscenza sarà stimolata a nuove letture, anche la presentazione meramente alfabetica dei «fascismi europei», avrà avuto un’utile funzione.

Il fascismo in tempo reale. Studi e ricerche di Angelo Tasca sulla genesi e l’evoluzione del fascismo in Europa 1926-1938 , a cura di Giuseppe Vacca e David Bidussa, Feltrinelli, Milano, pagg.630, € 80,00
Marco Fraquelli, Altri duci. I fascismi europei tra le due guerre , prefazione
di Giorgio Galli, Mursia, Milano, pagg.624, € 28,00

Il Sole 15.2.15
Il bello dell’angoscia
Ai Musei Capitolini uno spaccato sull’arte spettacolare prodotta durante la terribile crisi che investì Urbe nel III secolo d. C.
di Cinzia Dal Maso


Cinquanta imperatori in cent’anni, morti quasi tutti per mano assassina: che altro dire per illustrare il Terzo secolo d.C., l’epoca più concitata della storia dell’Impero romano? L’età della crisi. Crisi politica: scomparvero le dinastie imperiali e gli imperatori furono poco più che fantocci in mano agli eserciti. Crisi istituzionale: le numerose riforme corrosero a poco a poco le fondamenta del governo e dell’esercito di Roma. Crisi economica, tra svalutazioni monetarie, guerre esterne e civili, e l’Impero che non garantiva più sicurezza. Crisi sociale, tra comunità disgregate, carestie, epidemie, e disperati migranti in cerca di fortuna.
Fu «L’età dell’angoscia», come recita il titolo della mostra in corso ai Museo Capitolini a Roma, richiamandosi alla famosa opera di Eric Dodds. Un titolo poco invitante, in questi nostri tempi che ricordano per molti aspetti le crisi antiche. E non del tutto calzante, come la mostra spiega molto bene: i curatori Eugenio La Rocca, Annalisa Lo Monaco e Claudio Parisi Presicce aggiungono che fu anche, e soprattutto, l’età dell’ambizione.
Durante le crisi la ricchezza non svanisce ma si distribuisce diversamente, concentrandosi in poche mani. Il Terzo fu il secolo delle grandi ricchezze private e delle proprietà fondiarie che s’ingrandivano a dismisura. Il secolo della decadenza dell’edilizia pubblica a vantaggio del lusso privato: ci sono in mostra argenterie sontuose, oltre agli eleganti affreschi da una dimora da via Nazionale a Roma da troppo tempo chiusi nell’Antiquarium comunale. E i modellini dal Museo della civiltà romana (tuttora chiuso) mostrano una Roma che cercò sempre più di catturare la popolazione con spettacoli e le terme più grandi e belle dell’antichità. Ma anche una città che si riempì di caserme per mantenere un ordine pubblico difficile, e che Aureliano cinse di potenti mura per proteggerla come mai prima. Una città sempre meno “capitale”, in un’Italia sempre meno centrale rispetto all’Impero. Dopo l’editto di Caracalla del 212 d.C. tutti i cittadini dell’Impero godettero degli stessi diritti, e con Diocleziano alla fine del secolo l’Italia non fu che una delle sue molte province. Fu anche il secolo del boom dei cosiddetti “culti orientali”, primo fra tutti il Cristianesimo che subì le persecuzioni più dure. E poi Mitra, Sabazio, Giove Dolicheno, Iside, Cibele: tutti culti molto antichi - si osserva in una ricca sezione della mostra - che nel III secolo hanno sicuramente fornito risposte alle inquietudini e ai pressanti bisogni di salvezza personale. Forse, però, la loro ampia diffusione in occidente è dovuta anche ai molti “migranti” che da un capo all’altro dell’Impero portavano con sé il proprio credo. Chi meglio di noi, oggi, può comprendere ciò?
L’ambizione del secolo, tuttavia, si vede soprattutto nei ritratti: sempre più gente comune amò farsi ritrarre in vesti divine o eroiche, come Ercole, Onfale o Venere. E gli imperatori - personaggi disposti a tutto per acquisire un potere che sapevano essere comunque precario – si astraevano sempre più dagli umani a rappresentare col proprio ritratto quel potere assoluto che di fatto non avevano. I loro tratti diventavano sempre meno realistici e più schematizzati, con gli occhi sporgenti e rivolti verso l’alto a significare il loro essere come un dio, simbolo della Roma eterna.
La mostra si apre con una galleria di ritratti, come oramai consuetudine nella serie di mostre «I giorni di Roma» di cui questo è il quarto appuntamento.
Se altre volte, però, la selva di volti rischiava di parlare poco al visitatore, in questo caso cattura a prima vista.
In un allestimento realmente spettacolare, scorrono i “grandi” del secolo in ordine cronologico, e si è spinti a scoprirne le gesta, a capire quale esercito li ha acclamati e quale ne ha decretato la fine. E nonostante le schematizzazioni e gli occhi tutti uguali, paiono avere più carattere dei loro più duraturi predecessori: allora si viveva d’immagine molto più che di sostanza.
Tra tanti volti “sognanti”, spicca sicuramente l’enorme statua bronzea di Triboniano Gallo dal Metropolitan, ma lo sguardo si posa curioso soprattutto sui raffinati filosofi in trono – il giovane, l’uomo maturo e l’anziano - dalla villa di Dioniso a Dion in Macedonia.
Oppure su alcuni volti di gente comune, benestanti che si facevano ritrarre come filosofi: mostrano, palpabile, tutto il «dolore di vivere» del secolo.

L’Età dell’Angoscia Da Commodo a Diocleziano (180-305 d.C.) , Roma, Musei Capitolini; fino al 4 ottobre. Catalogo MondoMostre