lunedì 16 febbraio 2015

La Stampa 16.2.15
Il Papa: “Anche negli atei c’è la presenza di Dio”
Francesco: la Chiesa non condanna eternamente nessuno
di Andrea Tornielli


«La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno», ciò che conta «è salvare i lontani, reintegrare tutti» anche se questo oggi come duemila anni fa «scandalizza qualcuno». C’è la logica «dei dottori della legge», che è quella di «emarginare il pericolo allontanando la persona contagiata»; e «la logica di Dio, che con la sua misericordia, abbraccia e accoglie». Un Dio che «è presente anche in coloro che hanno perso la fede, o che si dichiarano atei». Perciò i cristiani non devono isolarsi «in una casta» senza «voler stare con gli emarginati».
Lo sguardo del pastore
Francesco ieri mattina in San Pietro, davanti ai nuovi e vecchi cardinali, ha pronunciato una delle omelie più importanti del pontificato, che esprime in profondità il suo sguardo di pastore ed è destinata a marcare anche il percorso verso il Sinodo sulla famiglia del prossimo ottobre.
Il Papa come sempre ha predicato a partire dalle Letture del giorno, in particolare l’episodio evangelico della guarigione del lebbroso, che secondo la legge mosaica andava emarginato dalla città e isolato. «Gesù, nuovo Mosè - dice Francesco - ha voluto guarire il lebbroso, l’ha voluto toccare, l’ha voluto reintegrare nella comunità», senza pregiudizi, senza preoccuparsi del contagio, e senza «i soliti rimandi per studiare la situazione e tutte le eventuali conseguenze!». Gesù, spiega Bergoglio, non fa caso «alle persone chiuse che si scandalizzano di fronte a qualsiasi apertura, a qualsiasi passo che non entri nei loro schemi mentali e spirituali, a qualsiasi carezza o tenerezza che non corrisponda alle loro abitudini di pensiero e alla loro purità ritualistica».
No al pregiudizio
La finalità della norma mosaica era di «salvare i sani, proteggere i giusti e, per salvaguardarli da ogni rischio, emarginare “il pericolo” trattando senza pietà il contagiato». Ma Gesù «rivoluziona e scuote con forza» quella mentalità «chiusa nella paura e autolimitata dai pregiudizi». Non abolisce la legge di Mosè ma «la porta a compimento».
La strada della Chiesa, sottolinea con forza il Papa, «è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione. Questo non vuol dire - precisa - sottovalutare i pericoli o fare entrare i lupi nel gregge, ma accogliere il figlio prodigo pentito; sanare con determinazione e coraggio le ferite del peccato; rimboccarsi le maniche e non rimanere a guardare passivamente la sofferenza del mondo. La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero; la strada della Chiesa è proprio quella di uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani nelle “periferie” dell’esistenza».
La carità
La carità, aggiunge Francesco, «non può essere neutra, indifferente, tiepida o imparziale! La carità contagia, appassiona, rischia e coinvolge! Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita! La carità è creativa nel trovare il linguaggio giusto per comunicare con tutti coloro che vengono ritenuti inguaribili e quindi intoccabili».
«Cari nuovi cardinali - è l’appello del Papa - questa è la strada della Chiesa: andare a cercare, senza pregiudizi e senza paura, i lontani manifestando loro gratuitamente ciò che noi abbiamo gratuitamente ricevuto». I cristiani non devono essere tentati di isolarsi «in una casta che nulla ha di autenticamente ecclesiale». «Vi esorto - conclude - a vedere il Signore in ogni persona esclusa che ha fame, che ha sete, che è nuda; il Signore che è presente anche in coloro che hanno perso la fede, o che si sono allontanati dal vivere la propria fede, o che si dichiarano atei... Sul vangelo degli emarginati, si scopre e si rivela la nostra credibilità!».

Repubblica 16.2.15
Il Papa ai cardinali “Non temete le aperture Dio c’è anche negli atei”
di Marco Ansaldo


CITTA’ DEL VATICANO . «Salutiamoli tutti, e facciamo un bell’applauso per i nuovi cardinali». All’Angelus, dalla finestra del Palazzo apostolico, il Papa invita i 60mila fedeli accorsi a Piazza San Pietro a festeggiare le 20 berrette rosse create nel Concistoro di sabato, e provenienti per lo più da aree lontane del mondo, nel più puro stile di Francesco. Ma nell’omelia della prima messa celebrata insieme a loro, Jorge Bergoglio li ha sferzati, avvertendoli prima che dei loro compiti, dell’importanza del ruolo rivestito.
«Vi esorto a servire la Chiesa» ha detto il vescovo di Roma, invitandoli a non isolarsi «in una casta che nulla ha di autenticamente ecclesiale». Al Papa non servono «persone chiuse in un accampamento», cardinali «che si scandalizzano di fronte a qualsiasi apertura, a qualsiasi passo che non entri nei loro schemi mentali e spirituali, a qualsiasi carezza o tenerezza che non corrisponda alle loro abitudini di pensiero». La strada della Chiesa, invece, è quella delle periferie, dei «lontani», del «contatto» con il lebbroso.
Nell’omelia Francesco ha poi toccato un tema, a lui caro e rilevante per molti, credenti e non credenti, affermando che anche negli atei c’è Dio. «Il Signore — ha dichiarato il Papa — è presente anche in coloro che hanno perso la fede, o che si sono allontanati dal vivere la propria fede, o che si dichiarano atei», ha esclamato Bergoglio, aggiungendo a braccio quest’ultima espressione non contenuta nel testo scritto. «Il Signore è in chi è in carcere, è nell’ammalato, è in chi non ha lavoro, in chi è perseguitato. Non scopriamo il Signore se non accogliamo in modo autentico l’emarginato. In realtà, sul Vangelo degli emarginati si scopre e si rivela la nostra credibilità».
Anche i tre nuovi porporati italiani sono stati festeggiati ieri dalle loro comunità: l’arcivescovo di Ancona, Edoardo Menichelli, quello di Agrigento, Francesco Montenegro, e il cardinale sardo ultraottantenne (dunque non elettore in Conclave) Luigi De Magistris. Nella messa svolta in serata al rientro nella sua città Menichelli ha avuto parole dure nei confronti di due pericoli: la presunta autosufficienza del «sistema sacrale» e le «ingiustizie sociali». La Chiesa, invece, deve essere «strana», come diceva don Orione: «Estranea alla mondanità ma mai estranea alle sofferenze del mondo».

il Fatto 16.2.15
I rottamatori diventati piccoli boiardi
Dalla Leopolda alle partecipazioni statali


Si sprecano le nomine di matrice toscana nei consigli d'amministrazione delle grandi partecipate statali: Rossella Orlandi, empolese, si è trovata dalla sera alla mattina l'Agenzia delle Entrate, Alberto Bianchi sta all'Enel, Fabrizio Landi a Finmeccanica, Elisabetta Fabri alle Poste, Marco Seracini all'Eni. All'Eni è arrivata anche Diva Moriana, aretina trapiantata a Firenze vicepresidente di Intek la società di Vincenzo Manes finanziatore di Renzi. In Ferrovie c'è Gioia Ghezzi che ha in passato ha aiutato Renzi a Firenze a scrivere un progetto di legge sull'omicidio stradale. E pure Federico Lovadina, 32 anni, tributarista fiorentino legatissimo a Boschi e Bonifazi. Nel 2001 Renzi lo aveva nominato nel Cda di Mercafir, il mercato ortofrutticolo. Ora sta nel Cda delle Ferrovie. Toscano è anche Ferdinando Nelli Feroci, ambasciatore in pensione: è il commissario italiano in Europa al posto di Antonio Tajani. GRUPPONE I fedelissimi del premier-segretario (Boschi, Guerrini, Serracchiani, Lotti) controllano il 67% della direzione del Pd e appoggiano in pieno il suo progetto. Nel gruppo anche i seguaci di Dario Franceschini.

il Fatto 16.2.15
Bacioni a Firenze. Il poltronificio di Renzi&Boschi
di Emiliano Liuzzi e Davide Vecchi


LA GEOGRAFIA DEL POTERE CHE HA TRASLOCATO A PALAZZO CHIGI E DINTORNI NASCE TUTTA IN TERRA DI TOSCANA. NON A CASO LI CHIAMANO IL GIGLIO MAGICO

Dalla Leopolda al Governo. Chi è rimasto al fianco di Matteo è stato premiato. Da uomini del rottamatore, sono poi diventati normalizzatori di un Pd che è sempre molto più Margherita, molto più centro che sinistra. Ma di rivoluzionario c’è rimasta la vecchia stazione Leopolda, i panel e le slide. Insomma, l’impressione di essere proiettati in un mondo politico del futuro e che nella realtà è molto attaccato al passato. Molto governativo. Ma con accento fiorentino. Tanto che le persone al suo fianco sono state ribattezzate “giglio magico”. Ma quasi nessuno è del capoluogo: arrivano tutti dalla provincia. Come lo stesso Matteo da Rignano sull’Arno, paesello alle porte di Firenze Sud che guarda la provicnia di Arezzo.
Giannizzeri e nani
Il consigliere più fedele di Renzi è Luca Lotti. Siede nel cda della fondazione Open, cassaforte personale di Renzi, e nei palazzi cura i rapporti più delicati: forze dell’ordine, servizi segreti e il livello riservato degli uffici romani. Oltre ad avere la delega fondamentale per chi ha fatto della comunicazione la sua fortuna: quella all’editoria. La professione riconosciuta è infatti quella di sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega all’editoria. Vuol dire tenere in pugno i giornali: è lui, e il suo dipartimento, che aprono o chiudono i finanziamenti pubblici agli editori.
Nato il 20 giugno 1982 a Empoli, vive a Montelupo Fiorentino, una cittadina di 13.000 abitanti a 22 chilometri da Firenze. Figlio del primo direttore della banca di Cambiano Marco Lotti e nipote del terracottaio Gelasio, Luca è cresciuto a Samminiatello, piccola frazione di Montelupo. Il nonno prima e il padre poi hanno dedicato buona parte della vita alla tutela della terracotta. Luca si è fatto affascinare prima dal calcio, allenando la squadra femminile del paese, e poi da Renzi. Le grandi passioni della sua vita sono queste. Altre non se ne conoscono pubblicamente.
Nel 2004, quando Matteo sbarca in Provincia, lo porta con sé come capo del suo staff. Nel giugno del 2009 Lotti è eletto in consiglio comunale a Montelupo, ma in quella stessa tornata elettorale Renzi diventa sindaco di Firenze e lui lo segue di nuovo. Il 1° luglio 2009 è assunto a chiamata come responsabile della segreteria del sindaco, e nove giorni dopo, il 10 luglio, lo segue la moglie Cristina Mordini, impiegata nello stesso ufficio. Quando Renzi conquista il Pd, Lotti lo segue nella segreteria nazionale, diventando responsabile dell’organizzazione e coordinatore. Renzi premier? Lotti sottosegretario. La sua carriera politica è dunque interamente scandita dalla benevolenza dell’amico Matteo.
Non è l’unico. Altro protetto, cresciuto a pane e Renzi è Maria Elena Boschi. Anche lei inserita nel cda della fondazione Open, di cui è ancora oggi direttore generale. Nel 2009 lei sosteneva, insieme a Francesco Bonifazi, l’avversario alle primarie di Matteo: il dalemiano Michele Ventura. Ma poi, con Bonifazi, è salita sul carro del vincitore. Oggi è più realista del reuccio. E Renzi l’ha premiata. Prima nominandola in una controllata del Comune, poi ministro. Una fulminante carriera.
Anche lei, comunque, ha un suo gruppo di potere ben strutturato. Uomo cardine della sfera Boschi è l’avvocato Umberto Tombari, il professionista che ha battezzato verso la pratica legale una giovane Maria Elena ancor non folgorata dalla politica. Nel suo studio la ragazza, appena laureata, svolse la pratica. E Tombari, nei giorni del massimo splendore renziano, lo scorso maggio, è diventato presidente dell’Ente Cassa di risparmio di Firenze. Un ruolo che, nel capoluogo toscano, vuol dire dirigere il potere come un vigile urbano fa col traffico. Classe 1966 Tombari è legato anche a Renzi: fu l’attuale presidente del consiglio che gli chiese di guidare la partecipata del Comune Firenze mobilità. Una società chiave nella gestione delle casse fiorentine pari alla Firenze Parcheggi che aveva come amministratore delegato Marco Carrai, oggi anche lui nel cda dell’Ente cassa dove guida il comitato d’indirizzo. L’avvocato ha cresciuto un’altra stella del firmamento renziano, Anna Genovese che è diventata commissario della Consob.
Nelle fila dei giovani e forti (e renziani) milita Filippo Bonaccorsi a cui il premier ha affidato la cabina di regia del Miur per ristruttura 21.230 scuole italiane e un pacchetto da un miliardo di euro da gestire. Fratello della deputata renziana e componente del consiglio di vigilanza Rai Lorenza Bonaccorsi, il 46enne Filippo, dirigente in Provincia e poi ex assessore della giunta Renzi, è un avvocato un po’ ragioniere e un po’ sceriffo a cui piace lo scontro frontale. Nel 2011 Bonaccorsi mostrava i denti ai sindacati confederali riuscendo a privatizzare l’Ataf, l’azienda del trasporto pubblico fiorentino. Altra pedina fondamentale del giglio magico è Antonella Manzione. Da capo dei vigili di Firenze e direttore generale del Comune toscano a responsabile del dipartimento degli affari giuridici di palazzo Chigi. In passato aveva ricorperto lo stesso ruolo di capo dei vigili anche a Livorno, ma in quel caso la sua stella non è che brillasse come oggi. La ricordano come un’onesta impiegata. Nulla di più. Sorella di Domenico Manzione, ex magistrato e oggi sottosegretario agli Interni, per essere portata nel Palazzo Renzi ha dovuto imporla alla Corte dei Conti: la magistratura contabile, infatti, aveva bocciato l’incarico di Manzione a capo del dipartimento affari giuridici e legali di Palazzo Chigi perché non aveva i requisiti. L’incarico quindi è stato “congelato” ma Renzi, in risposta, lo ha confermato mandando un nuovo contratto alla Corte dei Conti. Imposta dunque nel cuore normativo del Governo, Manzione è uno dei dirigenti di massima fiducia dell’ex sindaco.
Meno traumatico lo sbarco di Tiberio Barchielli, fotografo di fiducia del premier nonché originario di Rignano sull’Arno, alla presidenza del Consiglio, insieme a Filippo Sensi, ex vicedirettore di Europa e massimo esperto di comunicazione politica, fine stratega che adora agire dall’ombra da quando era assistente di Francesco Rutelli. Sensi è l’unico a non essere renziano dalla prima ora né toscano. Per il resto, anche le nomine, sono tutte dirette sul nucleo del giglio magico. L’avvocato del premier, per dire, Alberto Bianchi, tesoriere della fondazione Open, è stato nominato nel Cda di Eni. Mentre il suo commercialista, Marco Seracini, fondatore della prima associazione che si è occupata di raccogliere fondi per finanziare l'ascesa renziana (la Link, creata nel 2007 e tra i cui fondatori figura anche Simona Bonafè) è stato inserito nel Cda dell’Enel. L’elenco sarebbe realmente infinito. Disegnando l’intero sistema di potere renziano con incarichi e nomine assegnate ad honorem per amicizia e rapporti personali, emerge una sorta di albero genealogico in stile nobiliare al cui vertice c’è ovviamente il novello principe Mattteo e scendendo si trovano i suoi fedelissimi, parenti, amici, e parenti e amici dei fedelissimi. Come Lotti e la moglie.
Intrecci economici
Questo per quanto riguarda le poltrone politiche. Poi ci sono gli intrecci economici e finanziari. E di questi se ne occupa per conto del principe il fidato Marco Carrai. Basti dire che lo scorso settembre al suo blindatissimo matrimonio, con Matteo testimone di nozze, tra gli invitati c’era Michale Leeden, l’uomo dei servizi segreti americani già consigliere di Reagan, e Fabrizio Viola, ad di Monte dei Paschi di Siena. E molti altri. Carrai porta a Renzi i finanziatori. “Gli si dice: c'è uno bravo che ha bisogno di aiuto”, ha spiegato al Fatto mesi fa Carrai ricostruendo come è riuscito a raccogliere in pochi anni 4 milioni di euro per sostenere negli anni le campagne elettorali di Renzi. Quattro milioni di cui meno della metà si conosce la reale provenienza. Perché la trasparenza è come la meritocrazia: concetti da usare come slogan ma a cui poi si preferisce la fedeltà e l'amicizia. Tra gli imprenditori amici del premier c’è anche Nerio Alessandri, patron di Technogym, fabbrica per attrezzi da palestra, l’ideologo e proprietario della catena di ristoranti Eataly, Oscar Farinetti e l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne.

il Fatto 16.2.15
La grandeur gigliata
Aeroporto, doppione costato 150 milioni
di D. V.


“Useremo solo finanziamenti privati”. È scritto nero su bianco su una delibera della Regione Toscana, l’hanno detto e ripetuto per anni sindaci, assessori, amministratori: la realizzazione della seconda pista dell’aeroporto di Firenze sarà pagata senza usare fondi pubblici. Ma le intenzioni cambiano. Come i Governi. E così una volta arrivato a Palazzo Chigi, Matteo Renzi, ha inserito nello Sblocca Italia 50 milioni di euro da spedire alla Adf, la società che gestisce Peretola e che, guarda caso, è guidata da Marco Carrai, il fedele amico e fund raiser del premier. Ma visto che l’Enac aveva sollevato dubbi sulla necessità di creare una nuova pista per voli internazionali perché una identica esiste già ed è nella vicina Pisa, l’ostacolo è stato aggirato: gli aeroporti sono stati interamente privatizzati e uniti in un polo unico. E soprattutto Roma ha stanziato altri 150 milioni di euro. E c’è chi sostiene che Renzi non faccia nulla.
IL VIA LIBERA alla fusione tra Adf e Sat, società di gestione dell'aeroporto Galileo di Pisa, è stato votato lunedì 9 febbraio. I soci hanno votato ad ampia maggioranza: il sì è arrivato dai principali, quindi Comune e Provincia di Pisa, Fondazione Pisa e Camara di Commercio pisana. Mentre i piccoli azionisti di Sat hanno espresso voto contrario. La società dello scalo pisano cambia anche la propria denominazione in Toscana Aeroporti Spa, società quotata con sede legale a Firenze e sarà guidata, con ogni probabilità, da Carrai. Come ha riportato Carlotta Scozzari su Repubblica, da più di un anno le due società, Adf e Sat, hanno come prima azionista la Corporacion America, holding che fa capo alla famiglia Eurnekian e a Eduardo Eurnekian, noto in Italia per essere stato socio di riferimento della compagnia aerea Volare, fallita a inizio millennio. Corporacion possiede il 53% di Sat e il 48,9% di Adf. A dare il via libera, alla fusione, al suo fianco, si sono schierati anche gli altri azionisti di peso. A partire dall’Ente cassa di risparmio di Firenze, in Adf al 13%, la Regione Toscana guidata da Enrico Rossi (5%) e il Comune di Firenze (2,18 per cento) oggi affidato al sindaco ereditiere Dario Nardella.
Un’operazione prettamente renziana.
Mentre a Firenze e Pisa la fusione andava in porto, a Roma il Palazzo si muoveva per stanziare fondi. Il fedelissimo Luca Lotti è riuscito a far passare (per ammissione del viceministro alle infrastrutture, Riccardo Nencini) i nuovi fondi e la mattina del nove febbraio il ministro Maurizio Lupi firmava il via libera a “porre in essere ogni azione utile per sostenere l'attuazione degli interventi infrastrutturali programmati da Aeroporto di Firenze fino a un massimo di 150 milioni di euro”. Inoltre si è impegnato a firmare e inviare “al ministero dell’Economia il decreto per l’intervento pubblico di 50 milioni per l’adeguamento infrastrutturale dell’aeroporto” tra cui la nuova pista da 2400 metri. Quella che nessuno voleva. Neanche lo stesso Enrico Rossi: “Ci metto la faccia”, disse nell’ottobre 2013 esprimendosi contro l’ipotesi di una pista di lunghezza superiore ai due mila metri. E aveva minacciato di andare “tutti a casa” se non fosse passata, in Regione, la variante per la pista dell’aeroporto.
LE PRIME RIPERCUSSIONI si sono registrate sul piano politico. La giunta di Pisa ha visto un assessore dimettersi e ventilare l’ipotesi di rimpasto, mentre in Regione si è aperto il fronte contro Rossi che fra l’altro è ricandidato presidente. A dare battaglia per primi gli uomini del Prc. Il segretario Paolo Ferrero e la consigliera Monica Sgherri hanno sintetizzato facilmente: “Renzi spadroneggia e Rossi impara velocemente, il risultato sono soldi pubblici per l’ennesima opera inutile, dannosa e costosissima”. Ancora: “Renzi continua a spadroneggiare in Toscana e il Governatore Rossi ad adeguarsi, sempre più a suo agio per altro. Parliamo di un vero e proprio nuovo aeroporto, l’opposto di quanto già adottato dal Consiglio Regionale. Tutto appare funzionale solo alla sua ricandidatura”. Ma certo è che Rossi nulla poteva per fermare o opporsi alla fusione. Un progetto fortemente voluto da Renzi e realizzato dall’amico Carrai.

Corriere 16.2.15
Il birraio socio che produce la birra preferita da Matteo Renzi e il giallo Etruria
Le coop e il re delle farmacie. I soci e i misteri dell’affare di Etruria
L’operazione «Palazzo della Fonte», società che ha comprato gli immobili dell’istituto
di Mario Gerevini


A fine 2012, la Popolare dell’Etruria conferì immobili da 82 milioni a una società le cui azioni erano nelle mani di soci come il produttore della birra preferita di Renzi. L’indagine dovrebbe essere alle battute conclusive.

AREZZO Cinquantanove immobili, una banca e sei investitori: il farmacista di Piazza di Spagna, una società romana di consulenza finanziaria, il manager che produce la birra preferita da Matteo Renzi, il palermitano re delle scommesse, la grande cooperativa quotata in Borsa, il mister x «coperto» da una barriera di fiduciarie.
L’affare «Palazzo della Fonte»
L’operazione «Palazzo della Fonte» era già finita nel mirino della Banca d’Italia durante le ispezioni (2012-2013) alla Banca Popolare dell’Etruria. Poi le carte sono state girate a Roberto Rossi, capo della Procura di Arezzo che a marzo dell’anno scorso ha fatto perquisire dalla Guardia di finanza anche gli uffici di Palazzo della Fonte oltre che le filiali di Roma, Civitavecchia, Firenze e Gualdo Tadino. E’ uno degli affari più oscuri e controversi della banca appena commissariata. E l’inchiesta dovrebbe essere alle battute conclusive.
Obiettivo liquidità
La complessa manovra si chiuse a fine 2012 con il principale obiettivo per l’Etruria di raccogliere liquidità e migliorare i parametri patrimoniali (i cosiddetti ratios ). La banca allora guidata da Giuseppe Fornasari (indagato ad Arezzo con altri due dirigenti, gli unici di cui si abbia notizia ad oggi) già arrancava, inchiodata da Bankitalia alla precarietà di un portafoglio crediti gonfio di sofferenze.
Viene creata così una società consortile, «Palazzo della Fonte», a cui l’Etruria conferisce un pacchetto di 59 immobili (gestione e debito ipotecario compresi) per un valore di mercato di 82 milioni. Il 90% delle azioni ordinarie va a «selezionati partner industriali e finanziari», secondo la definizione della banca. Alla fine l’istituto di Arezzo si trova ancora in tasca il 27% del capitale in azioni privilegiate e l’8% in ordinarie oltre a 75 milioni di liquidità. Così può annunciare «un impatto molto positivo sui ratios patrimoniali (37 punti base)».
Ma il presupposto è che effettivamente il «pacchetto immobili» sia uscito dal gruppo, dunque deconsolidato. E infatti gli ispettori di Bankitalia, che ormai hanno piantato le tende ad Arezzo, costringono nel 2014 la banca a escludere dal computo del patrimonio di vigilanza gli effetti dello spin off immobiliare del 2012. Non è solo una questione di semplice maquillage «stanato» perché le carte di «Palazzo della Fonte» finiscono in cima al fascicolo aperto in Procura. Tra l’altro l’Etruria è quotata a Piazza Affari.
Farmacie, birra e scommesse
Ma chi sono gli investitori che hanno preso la maggioranza (tutta in pegno a un pool di banche) del consorzio? Manutencoop, un gigante nei servizi agli immobili, e Methorios, consulenza finanziaria, entrambi quotati in Borsa, i due nomi noti. Poi privati, tutti azionisti tramite le loro holding più o meno schermate da fiduciarie. Come la Finnat intestataria indiretta per conto di Vincenzo Crimi, un impero in farmacie a Roma e provincia compresa quella all’angolo di Piazza di Spagna.
Oppure Matteo Minelli, giovane (34 anni) imprenditore con il centro degli affari a Gualdo Tadino nelle energie rinnovabili. E una passione per la birra che produce con il birrificio Flea. Le cronache locali raccontano che alla cena di autofinanziamento del Pd a Roma lo scorso novembre la birra ufficiale (800 bottiglie) fosse proprio quella di Minelli, «scelta personalmente da Matteo Renzi». Orgoglio locale, forse un po’ esagerato. Da notare che Minelli è stato finanziato dall’Etruria proprio in concomitanza con il suo ingresso nell’operazione Palazzo della Fonte.
L’eco dell’affare è arrivata anche a Palermo e una quota del 9% circa è stata rilevata da Francesco Ginestra, ex numero uno di Snai, titolare di sale da gioco in Sicilia e presidente dell’Associazione giochi e scommesse. Resta il mistero sull’ultimo investitore, il titolare della Findi una finanziaria con asset per 75 milioni ma totalmente blindata da fiduciarie. Quattro soggetti apparentemente lontani anni luce dalla realtà locale dell’Etruria, dei suoi immobili e delle sue sofferenze.

Corriere 16.2.15
Il birraio, le coop e il re delle farmacie. I soci e i misteri dell’affare di Etruria
Tra i soci anche il produttore della birra “amata” da Matteo Renzi
L’operazione «Palazzo della Fonte», società che ha comprato gli immobili dell’istituto
di Mario Gerevini

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il Fatto 16.2.15
Forbici sulla sanità
“Tremila posti in meno negli ospedali”


Sono 3 mila i posti letti in meno negli ospedali che ci saranno in Italia con l’applicazione del regolamento sui nuovi standard ospedalieri sul quale Governo e Regioni avevano raggiunto l’accordo lo scorso agosto. Il provvedimento è stato trasmesso per la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Il primo effetto sarà quello di una sforbiciata di 3.000 letti, in base ai nuovi standard del 3 per mille per gli acuti e dello 0,7 per mille per la lungodegenza e riabilitazione. In Italia secondo l’Istat ci sono 210.406 posti letto (quelli pubblici e quelli privati accreditati). Tagli anche per le cliniche private, ma con calma: dal gennaio 2017 non potranno più essere accreditate quelle con meno di 60 letti per acuti.

Repubblica 16.2.15
La Repubblica extra-parlamentare
di Ilvo Diamanti


I PARLAMENTARI del M5s hanno ingaggiato una lotta serrata, quasi un corpo a corpo, contro la riforma del Senato, progettata dal governo.
AFFIANCATI dai parlamentari di Sel e della Lega, insieme ad alcuni dissidenti del Pd. E alla stessa FI, che, in un’altra epoca politica, aveva contribuito a scrivere e a sostenere la riforma. Un’opposizione tanto aspra appare dettata da ragioni di metodo, oltre che di merito. È, cioè, una reazione al rifiuto di discutere gli emendamenti. Dunque, di discutere. Votando a oltranza, giorno e notte. Questa vicenda sintetizza, plasticamente, questa difficile fase della nostra democrazia. Da un lato, Renzi e il “suo” Pd, decisi a tutto, pur di raggiungere gli obiettivi dichiarati, nei tempi più rapidi. Dall’altro, il M5s, specializzato nel fare controllo, resistenza. Intorno, gli altri partiti, di sinistra e, soprattutto, di destra. Poco influenti, se non in-influenti. Da un lato, la “democrazia decisionale e personalizzata”, di Renzi. Dall’altra, la “contro-democrazia” (come la chiama Rosanvallon), la democrazia della sorveglianza di Beppe Grillo. Un modello che spiega, in larga misura, il consenso di cui, oggi, sono accreditati i due principali soggetti politici, dai sondaggi. Non solo il Pd, stimato intorno al 36-37%. Ma anche il M5s. Nonostante che il suo gruppo parlamentare appaia diviso e sempre più ridotto. Nonostante svolga un’azione — prevalentemente — di controllo, difficile da spendere, sul piano del consenso. Eppure, resta il secondo partito in Italia. Stimato, dai principali istituti demoscopici, fra il 18 e il 20%. Lontano dal Pd. Circa la metà. Ma molto sopra gli altri partiti, che non superano il 14- 15%. Lega e FI comprese.
La relativa ampiezza del bacino elettorale del M5s, in effetti, si spiega, anzitutto, con la base del dissenso verso le istituzioni e gli attori politici, molto estesa in Italia. Un disagio senza voce e senza bandiere. Senza storia e senza utopia.
La quota di elettori del M5s che esprime (molta o moltissima) fiducia nei confronti del Presidente della Repubblica appena eletto, per esempio, è circa il 30% (Demos, febbraio 2015). Metà, rispetto alla media della popolazione. Mentre la fiducia verso il Parlamento, fra gli elettori del M5s, scende al 5%. Circa un terzo rispetto alla media degli elettori. Si potrebbe, per questo, parlare di un’opposizione “antipolitica”. Ma il discorso non è così semplice. La componente “esterna” allo spazio politico, coloro, cioè, che rifiutano di collocarsi lungo l’asse destra/sinistra, è, infatti, ampia, ma comunque, minoritaria (circa un terzo, Demos gennaio 2015). Mentre, in maggioranza, gli elettori del M5s appaiono distribuiti un po’ in tutti i settori “politici”. A destra (18%), sinistra (28%) e al centro (20%). Peraltro, il M5s è anche il partito meno “personalizzato”. Nel senso che Beppe Grillo è il meno “stimato” fra i leader dei principali soggetti politici. Esprime, infatti, fiducia nei suoi riguardi quasi il 19% degli elettori. Circa 10 punti meno, rispetto allo scorso maggio. Certo, fra gli elettori del M5s la sua popolarità sale al 70%. Ma si tratta, comunque, del livello di fiducia più limitato ottenuto dai leader fra gli elettori del proprio partito. A conferma che il voto al M5s non è “personalizzato”. E nemmeno “progettuale”. Unito da un’identità comune. Ma, piuttosto, largamente e radicalmente “critico”. Verso i principali partiti, verso le principali istituzioni. Insomma, verso la democrazia rappresentativa.
E ciò induce a riflettere, di nuovo, su questa particolare fase della nostra storia politica. Della nostra democrazia. Caratterizzata da una sorta di “tripolarismo imperfetto”. Dove agisce un solo soggetto politico di governo, il Pd, sfidato da alcuni soggetti che fanno opposizione, in Parlamento e nella società. Ma senza proporre alternative reali. Una situazione che potrebbe evocare la (cosiddetta) prima Repubblica, quando la Dc governava senza che il principale partito di opposizione, il Pci, potesse davvero subentrare al governo. A causa del vincolo internazionale, risolto solo dopo la caduta del muro — e dei regimi comunisti — nel 1989. Oggi, però, la questione è diversa. In quanto il Pd di Renzi appare senza alternativa non per vincoli esterni, ma interni. Anzitutto: per il declino di Berlusconi, che, per vent’anni, ha occupato lo spazio di centrodestra. Personalizzandolo e rendendolo impraticabile per altri soggetti politici liberal-democratici. In secondo luogo, per l’emergere e l’affermarsi di un crescente malessere contro i soggetti e le istituzioni della nostra democrazia rappresentativa, intercettato e canalizzato dal M5s. Così, oggi le opposizioni, in Parlamento e all’esterno, appaiono deboli e im-proponibili. E ciò appare particolarmente critico, mentre si lavora per riformare le istituzioni democratiche — superando, anzitutto, il bicameralismo “paritario”. E per ridefinire la legge elettorale. Perché è difficile, oltre che discutibile, riformare la Costituzione e le regole della democrazia senza dialogo e senza condivisione. Tanto più se il partito di maggioranza — l’unico soggetto politico effettivamente organizzato — è, comunque, “minoranza” (per quanto larga) fra gli elettori. E riesce a garantirsi la maggioranza, alle Camere, attraverso alleanze variabili e la transumanza di diversi parlamentari (come hanno segnalato, nei giorni scorsi, Stefano Folli e Roberto D’Alimonte). Mentre le opposizioni sono, fra loro, eterogenee, in parte estranee. Lontane. Da ciò questo strano tri-polarismo imperfetto, che “oppone” il Pd di Renzi — personalizzato come il “suo” governo — a soggetti politici, che oggi non appaiono alternativi. Da un lato, a centrodestra, FI e la Lega sono concorrenti. E nessuna delle due pare in grado di affermare la propria leadership. FI continua a dipendere dal destino di Berlusconi. Mentre la Lega investe sul sentimento anti-europeo e anti-politico. Ma per questo le è difficile proporsi come attore di governo. Anche se si proietta a Sud. D’altra parte, il M5s propone un’alternativa alla democrazia rappresentativa, più che di governo. Per questo, appare in contrasto con il funzionamento stesso del Parlamento. Fino a minacciare le dimissioni dei propri parlamentari, per provocare lo scioglimento delle Camere. Dove, per motivi diversi, “non” siedono Renzi, Berlusconi, Grillo e Salvini, i leader dei principali partiti, di maggioranza e opposizione. È l’ennesima singolarità (per non dire anomalia) della nostra democrazia. Di questa Repubblica extra- parlamentare.

La Stampa 16.2.15
La minoranza Pd avvisa Renzi: cambia o noi non ci stiamo più
Boccia: “Inaccettabile continuare così”. Possibili nuove defezioni Oggi direzione. “Riaprire il dialogo e rivedere anche l’Italicum”
di Francesca Schianchi


A due giorni dalla fine dei voti sulla riforma Costituzionale, dopo un weekend di riposo e di polemiche per quell’approvazione in notturna e in solitaria, sarà oggi l’occasione per tornare a discuterne dentro al Pd. Oggi pomeriggio alle 17, quando il segretario-premier riunirà la direzione del partito.
Le accuse di Forza Italia
«Addebito al Pd il fatto che si è voluto proseguire di notte con 308 voti per approvare una riforma della Repubblica: 308 voti sono quelli per i quali Napolitano chiamò al Colle Berlusconi per verificare la maggioranza», ricorda il forzista Giovanni Toti. «A Mattarella diremo che la riforma costituzionale e quella elettorale sono una ferita mortale nella democrazia», aggiunge il capogruppo Renato Brunetta, attaccando Renzi «bullo di periferia» e anticipando quello che dirà al presidente della Repubblica, «lo dicono anche i costituzionalisti di sinistra: è una deriva autoritaria e plebiscitaria».
Le minoranze Pd
«Le accuse di Forza Italia di svolta autoritaria sono ridicole», sospira il deputato Andrea Giorgis, costituzionalista, esponente della minoranza bersaniana. «Ma proprio perché sono ridicole, il Pd deve cercare in tutti i modi di coinvolgere le altre forze politiche», aggiunge. E’ quello che molti nella minoranza interna, come ha già fatto Pierluigi Bersani, stanno chiedendo. Riaprire un dialogo, almeno con le opposizioni meno radicali. Altrimenti, qualcuno come Francesco Boccia già prevede di non poter dare il voto finale alla legge: «Se dovremo ritrovarci solo noi a votare, questo lo ritengo inaccettabile». Un altro bersaniano, Alfredo D’Attorre, spiega qual è la proposta da fare oggi in direzione: «Chiederemo a Renzi di prendere un’iniziativa politica per riprendere il dialogo con l’opposizione: dia disponibilità a ritoccare la riforma al Senato».
Il prossimo fronte
Ma la minoranza chiederà anche qualcosa in più: che si riapra pure la partita della legge elettorale, destinata a tornerà a breve alla Camera, ma che Renzi e la Boschi considerano chiusa («non si torna indietro», ha detto chiaramente il ministro). «Quando ne discuteremo il Pd dovrà adoperarsi affinché si corregga ogni irragionevolezza», insiste invece Giorgis. «Che la Camera non possa più intervenire mi sembra uno scenario irrealistico», aggiunge D’Attorre, convinto che si debbano fare modifiche su capilista bloccati, apparentamenti al secondo turno, e altre per creare uno stretto collegamento tra l’Italicum e la riforma del Senato. «E’ scontato che, quando arriverà a Montecitorio, rimetteremo mano alla legge». Lo diranno stamane a Renzi: per lui, non è così scontato.

Repubblica 16.2.15
Il Pd ora cerca il disgelo “Si può ricucire con Fi”
Toti: “Noi ragionevoli” Bersani: calmiamoci tutti
L’ipotesi di nuove trattative senza Verdini L’ex segretario: il vertice dem cambi verso
di Francesco Bei


ROMA Profumo di tregua da Pd e Forza Italia. Dietro le sparate a pallettoni di Brunetta, che ancora ieri è andato a Skytg24 a parlare di una «ferita mortale alla nostra democrazia», le diplomazie sono al lavoro per ricucire.
La prova la si avrà oggi stesso, alla direzione del partito democratico. Dai toni del discorso di Renzi si capirà quanto sia grande l’interesse del premier a non balcanizzare ulteriormente il Parlamento. Gli indizi convergono tutti nella stessa direzione. Lorenzo Guerini confida che gli piacerebbe «provare a riannodare i fili con Forza Italia, anche perché la riforma costituzionale non solo è stata solo votata da loro sia in Senato che in commissione alla Camera, ma è stata anche scritta insieme a loro». E dunque ora si tratterà di scontare qualche giorno di fuochi d’artificio «comprensibili», ma poi tutto si dovrebbe normalizzare. In vista del voto finale previsto per il 10 marzo. Parole felpate, le stesse che si ascoltano a palazzo Chigi. Dove viene valutata l’idea di riaprire le trattative ma con un’altra delegazione forzista: via Denis Verdini, ormai bruciato, e sotto con Giovanni Toti e — udite udite — lo stesso sulfureo Brunetta.
Tutti al vertice del Pd si spendono per il rientro di una parte delle opposizioni al tavolo da gioco. Non il Movimento cinque stelle, considerato un’opposizione antisistema e inaffidabile. Ma gli altri sì. «Ci sono tutte le condizioni — spiega il presidente Matteo Orfini — per riaprire un dialogo. Forza Italia ha rotto sulle riforme perché si è... rotta. Ora si sono posizionati su una linea oltranzista, ma lì già c’è Salvini che rischia di fagocitarli». Anche perché, è il sottotesto di tutto il ragionamento di Orfini, «in Parlamento a occhio e croce i numeri per le riforme ci sono, quindi noi andremo avanti comunque».
Dal campo berlusconiano si alzano specu- lari segnali di fumo. Giovanni Toti, consigliere dell’ex Cavaliere, ha smussato parecchio la battuta di Brunetta sui «sorci verdi» da far vedere a Renzi: «I sorci di Forza Italia sono sempre ragionevoli. Se ci propongono cose ragionevoli, noi ragioniamo». E Renzi ha considerato come un primo gesto di distensione — meglio, come un tentativo di rientrare in partita — la dichiarazione di Berlusconi sulla Libia. Smentendo la linea dura espressa dal Mattinale di Brunetta la mattina — «È tipico dei regimi compattare intorno a sé il Paese in una avventura» — nel pomeriggio il leader da Arcore ha annunciato infatti il sostegno di Forza Italia a un’eventuale missione. E lo strappo della seduta-fiume? Ettore Rosato, vicecapogruppo dem, sparge balsamo sull’orgoglio ferito dei forzisti: «Dopo che loro sono usciti siamo stati attenti a non stravolgere i contenuti del testo che avevamo concordato con loro al 100%. Anche i pochi subemendamenti, approvati dopo l’uscita di Fi, sono stati quelli che avevamo concordato con loro».
Su questa linea buonista, in fondo, sarà più facile per Renzi anche placare il malumore della sua minoranza interna. Con i suoi ieri si è fatto sentire Pierluigi Bersani, che oggi potrebbe ripetere gli stessi concetti in direzione: «Il problema non è Boccia, ma di chi ha la responsabilità del partito. Ci si mette pure Orfini con quei tweet irritanti come punture di spillo. In direzione dovremmo raffreddarci la testa tutti quanti». Sul merito, l’ex segretario non cambia idea: «È la maggioranza del partito che deve “cambiare verso”. Se il patto del Nazareno non esiste più, allora perché andare avanti come se ci fosse ancora? E questo vale sia per il metodo sia per i contenuti ». Secondo Bersani, Renzi dovrebbe in- vertire l’ordine degli interlocutori: «Prima dovrebbe parlare con il Pd, poi con la coalizione, e infine con quelli che il Pd dovrebbe sentire più vicini». Ovvero Sel, un partito «con cui dovremmo allearci alle regionali». Anche il bersaniano Andrea Giorgis, pur rivendicando il lavoro della minoranza Pd per migliorare la riforma, invoca una «parlamentarizzazione del confronto con le opposizioni ».
Nel suo intervento Renzi parlerà ovviamente anche di Libia e della situazione economica. «Si moltiplicano i segnali positivi — farà notare — e questi segnali vanno incoraggiati, colti con fiducia e senza enfasi». Con questo schema in mente il premier lavora sia al prossimo Consiglio dei ministri (lavoro e fisco) che al “format” del suo tour in giro per l’Italia «nei luoghi della ripartenza possibile».

Corriere 16.2.15
Gotor: no a nuovi patti ma con Forza Italia va ripreso il dialogo
intervista di Monica Guerzoni


ROMA «Il clima da saloon non aiuta le riforme».
Di chi è la colpa se la riforma costituzionale finisce in rissa, senatore Miguel Gotor?
«Sbaglia il governo a pensare di fare le riforme di notte, con l’Aula abbandonata dalle opposizioni. Ma queste fibrillazioni sono anche frutto di un cambiamento di fase».
Rotto un patto, se ne fa un altro?
«Se andiamo avanti con gufi e sorci verdi da un lato e con derive autoritarie dall’altro, il processo riformatore rischia di bloccarsi. E sarebbe controproducente, per il governo e per il Pd. Siamo tutti sulla stessa barca. Spero che il mese che ci separa dal voto finale rassereni il clima e aiuti a individuare i punti da tarare meglio».
Darete battaglia?
«Bisogna recuperare un po’ di realismo se si vuole per davvero fare le riforme. Fino a oggi il baricentro era il patto del Nazareno, il rapporto esclusivo con Berlusconi e Verdini utilizzato come una clava da parte di Renzi. Anche contro di noi. Il premier usava quella rendita di posizione per dividere il Pd e usava la minoranza Pd per tenere a bada Berlusconi».
Come uscire dal cul de sac?
«Trovando un nuovo baricentro riformatore, che parta dall’unità del Pd. Renzi ha il dovere di cercarla riprendendo il dialogo con le opposizioni, Berlusconi compreso. Non però nella posizione esclusiva e a tratti ricattatoria del patto del Nazareno».
Orfini ironizza: contestavate il patto e ora dite che fare le riforme senza Berlusconi è brutto?
«Abbiamo sempre detto che le opposizioni vanno coinvolte, ma che il problema era nel concetto di patto, una camicia di forza che rischia di scolorire l’identità del Pd e di esaltare la disponibilità al trasformismo di una parte del gruppo dirigente, sedicente giovane».
Come si riparte dal Pd, se continuate a litigare?
«Se Renzi abbandona il giorno per giorno e guarda al medio periodo, non dividendo ma unendo, ho fiducia che possa accadere. Non possiamo passare dal patto del Nazareno al patto del trasformismo. Esiste un’altra via che Renzi ha il dovere di percorrere, a partire dall’unità del Pd».
Quando le opposizioni gli hanno dato del «bullo» voi bersaniani non lo avete difeso.
«Sono nervosismi propri di una fase di assestamento. Dovremmo anche dire che il Titolo V nel 2001 e il federalismo nel 2005, due riforme costituzionali caratterizzate da troppa fretta e da spallate di maggioranza, non sono state memorabili. Il governo e il Pd farebbero bene a non ripetere gli stessi errori. Non possiamo definire un tipo di democrazia oligarchico, dove pochi decidono e si autopromuovono tra loro».
Governo oligarchico?
«Alla crisi di legittimità della politica non si risponde chiudendosi in un fortino, per quanto carismatico e lideristico, ma spalancando le porte. Il rinvio a marzo del voto finale ci deve servire a costruire un nuovo baricentro politico. Sia alla Camera sia al Senato c’è una maggioranza che può tenere unito tutto il Pd e gran parte delle opposizioni, compreso un pezzo di Forza Italia».
I «ribelli» del Senato voteranno le riforme?
«Non può esserci un Senato composto da eletti di secondo grado e, contemporaneamente, una legge elettorale che prevede una maggioranza di nominati. Bisogna intervenire. La prova del budino sarà lì. I nominati interessavano a Berlusconi, sono il cuore del patto Verdini style. La prova che il patto è rotto si avrà quando si invertiranno le proporzioni tra nominati ed eletti nell’Italicum».
La minoranza bersaniana al Senato è determinante.
«Renzi può contare in pieno sulla nostra lealtà e volontà riformatrice».

La Stampa 16.2.15
Bodrato: il premier un po’ Cesare
C’è un declino della vita democratica
“Ma il mio amico Mattarella non farà compromessi sulla Carta”
intervista di Jacopo Iacoboni


«Quando c’è una tentazione di cesarismo, bisogna ricordare ai cesaristi che tutti i Cesari hanno sempre dietro di sé, prima o poi, l’ombra di Bruto. Se crei una condizione di sistema in cui l’unico modo per batterti è ucciderti (contro l’idea di Popper, che pensava che l’avversario potesse sempre rivincere la volta successiva, e non dovesse esser mai annientato), produrrai
prima o poi una congiura e un pugnale». Guido Bodrato, ex ministro, un uomo formato con i Moro e gli Zaccagnini, fondatore dell’area Zac, vero amico di Mattarella e Martinazzoli, insomma, testimone della migliore dc, sta vivendo una seconda giovinezza. Fuori da tutto chissà perché, è infine riscoperto come una delle voci più libere e colte per com’è l’Italia oggi. Sabato era a Torino con Gustavo Zagrebelsky, a un dibattito su democrazia e Costituzione.
Cosa sta accadendo con questa riforma della Costituzione? Per Zagrebelsky siamo «quasi al grado zero dlela democrazia», lei è d’accordo?
«Zagrebelsky è condivisibile. Siamo di fronte a un declino della democrazia. Dinanzi a situazioni così gli esiti di solito sono due: o questo declino diverrà inarrestabile, o le tentazioni cesariste spingeranno prima o poi - magari non oggi, non domani, non dopodomani - a una congiura. Julien Benda, con la Wehrmacht che entrava a Parigi, scrisse un saggio bellissimo sulla crisi delle democrazie che si concludeva così: «La democrazia si nutre di passione, noi avremo ancora la passione per difendere la democrazia?».
Renzi le pare un Cesare, anche nello stile di leadership?
«Io non conosco Renzi. Proviene in linea di massima dalla mia storia, ma la sinistra dc è una storia molto vasta. Renzi assomiglia più a un Fanfani che a un Moro, uno che già ai suoi tempi avvertiva sull’Italia come “democrazia difficile”. C’è in Renzi un elemento di volontarismo troppo evidente, preoccupante. Il rischio di questo personaggio, diciamola in breve, è la tentazione pericolosa del cesarismo».
Nel 2006 ci fu una rivolta, contro la riforma di Berlusconi e il modo in cui voleva plebiscitarla col referendum del 25 giugno. A Renzi si perdona di tutto, non trova?
«Vero. Anche se bisogna ricordare che la campagna al no alla riforma berlusconiana venne più da sindacati e associazionismo (penso alle parrocchie, quel che restava dell’Italia dossettiana) che dal centrosinistra politico. Che traccheggiò a lungo, era per un ni alla riforma; divenne un no quando si capì che Berlusconi usava il referendum come strumento per una rivincita contro Prodi, che lo aveva appena battuto».
Prodi e Ciampi però ricordarono una cosa che un tempo era ovvia: le riforme «si fanno a larghissima maggioranza». Prodi in una lettera all’Unità, e Ciampi in una famosa intervista a Giannini su Repubblica.
«Erano entrambi molto diversi dal centrosinistra attuale. Pensi a quello che ha detto Prodi oggi sui rischi del “combattiamo” in Libia...».
Che dice del referendum confermativo? Un argomento di Renzi e dei suoi amici è sempre: tanto ci sarà un referendum alla fine.
«Vede, il referendum è uno strumento per dare un’ultima possibilità di espressione alla volontà popolare, non è lo strumento per cercare un’unzione plebiscitaria. E ciò mi pare accadere, anche nella situazione mediatica italiana».
Il Pd però potrebbe fare, oltre che dire, qualcosa, non trova? C’è un’area ampia del partito che queste cose che lei dice le pensa eccome.
«Quello che impressiona non è tanto Renzi - un personaggio così nella politica ci può stare - ma il fatto che nel suo partito su inginocchiano a ogni sua intenzione».
Bodrato, lei di Mattarella è amico davvero. Anche chi è di sinistra vede in lui un solido garante. Sarà così anche su questa materia?
«Credo, se posso prevedere, che il mio amico Sergio sarà una figura più rigorosa, e meno disponibile al compromesso, su una cosa come la Costituzione».

Repubblica 16.2.15
Massimo Luciani, docente di diritto costituzionale alla “Sapienza” di Roma
“Giusto dare alla Consulta il controllo sull’Italicum”
intervista di G. C.


ROMA «Escludo che questa riforma costituzionale porti a una deriva autoritaria». Massimo Luciani, docente di diritto costituzionale alla “Sapienza” di Roma, avverte di vantaggi e rischi.
Professor Luciani, la riforma costituzionale va nella direzione giusta?
«Va nel verso giusto per alcuni aspetti, il più rilevante dei quali è avere riservato il rapporto fiduciario alla sola Camera. Solo i deputati voteranno o negheranno la fiducia al governo. È importante perché i governi italiani sono stati spesso instabili proprio a causa di questo doppio rapporto fiduciario, oltretutto a fronte di maggioranze spesso diverse alla Camera e al Senato. Gli altri aspetti positivi sono l’attenzione per un ripensamento della riforma del Titolo V frettolosamente fatta nel 2001 e una maggiore considerazione per gli istituti di democrazia partecipativa in particolare i referendum e l’iniziativa popolare».
Mentre le cose negative?
«Una delle cose negative riguarda le autonomie regionali. Se fa bene la riforma a rimediare ad alcuni eccessi della revisione costituzionale del 2001, tornando ad accentrare nelle mani dello Stato attribuzioni che allora erano state erroneamente collocate in sede regionale, è anche vero che forse adesso si è maturato l’eccesso opposto con una riduzione del ruolo delle Regioni che non è funzionale all’efficienza del sistema».
La fine del bicameralismo perfetto la giudica positivamente?
«La fine del bicameralismo perfetto è positiva, quello che non va è un problema tecnico e non politico e riguarda il procedimento legislativo: per come è stato disegnato corre il rischio di essere molto farraginoso e di non funzionare».
Gustavo Zagrebelsky ha avvertito del rischio di una deriva autoritaria. Anche lei ha questo timore?
«Escludo che i timori di una torsione autoritaria abbiano fondamento. Mi preoccupa di più la possibile inefficienza tecnica delle soluzioni istituzionali approvate. Oltre alla questione del procedimento legislativo, c’è quella del rapporto Stato-Regioni. Ho sempre pensato che una buona soluzione sarebbe quella delle materie concorrenti, e cioè di leggi statali di principio alle quali fanno seguito leggi regionali di dettaglio. Il presente e il futuro del regionalismo è nel modello cooperativo tra Stato e Regioni».
I nuovi senatori non saranno eletti direttamente dai cittadini.
«Questo non è un vulnus per la democrazia. Ci sono molti regime democratici nei quali la seconda Camera non è eletta direttamente ».
Come giudica l’ultima modifica che prevede il sindacato di costituzionalità delle leggi elettorali, e anche dell’Italicum, da parte della Consulta prima dell’applicazione?
«È meglio che i dubbi sulla legittimità della legge elettorale siano risolti immediatamente invece di trovarsi nella condizione che abbiamo sperimentato con la legge Calderoli. Era incostituzionale. Ma il controllo preventivo rende il sindacato della Corte più lineare di quanto non sia stato».
Giudica uno strappo votare le modifiche alla Costituzione a maggioranza in un’aula semi vuota?
«Sul piano della procedura, l’approvazione a maggioranza è consentita dall’articolo 138 della Carta. È stata una scelta delle opposizioni chiamarsi fuori. E una garanzia del loro rientro in gioco è assicurata dal referendum popolare che potrà essere chiesto se la riforma non sarà approvata con la maggioranza dei 2/3».

Repubblica 16.2.15
Il noir di Bertinotti
di Alessandra Longo


CHI ha ucciso l’articolo 1 della Costituzione? Il nuovo pamphlet di Fausto Bertinotti (titolo: «Colpita al cuore». Perché l’Italia non è una Repubblica fondata sul lavoro. Castelvecchi editore, 12 euro) mutua il linguaggio di un noir ma l’autore ha già in mente sin dalla prima riga chi sono l’assassino e i suoi complici. Nessun «destino cinico e baro», scrive Bertinotti, dietro «lo smantellamento dell’articolo 1, cardine dell’ordinamento democratico », bensì «la vittoria di una ideologia su tutte le altre, l’ideologia del mercato», contestuale al declino del partito operaio e del «sindacato confederale di classe». Un lungo ciclo di impoverimento dei diritti conquistati che è culminato, puro linguaggio gauchista, «nel rovesciamento del conflitto di classe». «La rivincita delle classi dirigenti», l’affermazione del «pensiero unico» hanno ucciso l’articolo 1. Ma Bertinotti continua a sperare in un secondo tempo.

Corriere 16.2.15
Sprechi in Comune, le case del Campidoglio in affitto a 52 euro
È il canone mensile medio dei 43 mila immobili di proprietà del Comune di Roma
Mentre per usufruire di quasi 5 mila abitazioni private, spende 21 milioni l’anno
di Sergio Rizzo

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La Stampa 16.2.15
L’Isis minaccia: «Siamo a Sud di Roma»
Libia, italiani in fuga. Intervento militare, Berlusconi apre a Renzi. Ma il premier: niente guerra
“Calma e gesso”. E alla fine Renzi frena gli interventisti
Intervento del Professore, il premier adotta la dottrina-Prodi
di Fabio Martini

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Corriere 16.2.15
Minacce Isis a Italia, 007 avvertono: «Doppio fronte, mai così esposti»
Secondo i servizi segreti, flussi migratori e minacce jihadiste in Libia formano una miscela che costituisce un unico pericolo per il nostro Paese
di Fiorenza Sarzanini

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Corriere 16.2.15
La guerra rimossa
Cattiva coscienza europea
di Ernesto Galli della Loggia

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Corriere 16.2.15
Le nuove crisi: Ucraina, Grecia e Libia
Mai stati così insicuri
di Angelo Panebianco

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Repubblica 16.2.15
La campana stavolta suona per tutti
di Stefano Folli


LA POLITICA estera torna di prepotenza al centro della scena e spazza via le confuse polemiche domestiche sui patti violati e gli Aventini parlamentari .
NON si tratta dell’Ucraina, dove l’Italia non ha voce in capitolo, ma della Libia, dove invece è in prima linea. Unica ambasciata dell’Unione fino a ieri aperta, ultima bandiera di fronte all’avanzare dello Stato Islamico. Ma anche unico paese, l’Italia, che presta soccorso ai migranti in mare, mettendo in campo gli uomini e i mezzi della sua Marina Militare e della Guardia Costiera nonostante le infinite lacune europee.
Non solo. Quello di Roma è il governo che ha dovuto subìre un attacco frontale e diretto dai fondamentalisti, nella persona del ministro degli Esteri definito un “crociato” e un “nemico”. La colpa di Gentiloni è di aver detto la verità in un’intervista a SkyTg24: e cioè che le forze armate italiane sono pronte ad andare in Libia per una missione internazionale sotto la bandiera dell’Onu. Anzi, Gentiloni ha usato l’espressione «sono pronte a combattere», che non è politicamente corretta ma oggi è molto pertinente. Il presidente del Consiglio e il ministro della Difesa hanno poi confermato il progetto e si capisce che le alternative sono quasi inesistenti, benché l’ultima speranza sia, come è ovvio, la soluzione diplomatica.
La minaccia è reale e incombente, tocca da vicino gli interessi italiani e si somma all’emergenza dei profughi. L’Europa sembra ancora gravemente inerte, ma sono gli Stati Uniti che dovrebbero sollecitare un’iniziativa internazionale e chiedere la copertura delle Nazioni Unite. Il governo di Roma è e resterà il più esposto, quello su cui peserà un’importante e primaria responsabilità negli sviluppi della crisi. L’interrogativo è se questo determinerà conseguenze nei rapporti politici e parlamentari. Dovrebbe essere così. Con una missione militare alle porte in uno scenario di guerra sembra improbabile che si possa ristagnare nel solito ”tran tran” polemico. La stessa tentazione delle elezioni anticipate, peraltro inconsistente fin quando non sarà in vigore la nuova legge, l’Italicum, viene di fatto accantonata. Ma c’è di più.
Fino a ieri l’opposizione rifiutava persino di sedersi in Parlamento e si preparava a recarsi da Mattarella per denunciare le trame “autoritarie” di Renzi. A loro volta i deputati e i senatori Cinque Stelle annunciavano di volersi dimettere per far saltare la legislatura. La Libia ha creato quasi all’improvviso un fatto nuovo che rende obsoleti certi comportamenti e richiama tutti alla serietà. Compreso il premier che finora ha usato le riforme costituzionali anche come un grimaldello per allargare le lacerazioni parlamentari e mettere in difficoltà la minoranza del suo partito.
Lo scenario cambia nel profondo, come sempre quando sono in gioco scelte essenziali che toccano la politica estera e di sicurezza. È tradizione che su questi temi il Parlamento si ritrovi concorde, salvo le forze che si pongono fuori del sistema. Non c’entra il patto del Nazareno, vivo o morto che sia, bensì la Costituzione. Il ruolo del presidente della Repubblica acquista la sua naturale centralità come garante dell’unità nazionale, mentre spetta al governo parlare con chiarezza al Paese e cercare di fronte alle Camere il massimo del sostegno.
Sarà una prova di maturità per tutti. Per il presidente del Consiglio e la sua maggioranza, ma anche per le varie opposizioni. Berlusconi è stato lesto a comprendere la posta in gioco e a dichiararsi pronto a sostenere l’azione dell’esecutivo. Segno che si rende conto dei limiti dell’Aventino e desidera uscire in qualche modo dall’isolamento. Ma la Libia è un terreno scivoloso anche per lui: non a caso Romano Prodi gli ricorda, con malizia, il coinvolgimento dell’Italia nella campagna franco-inglese che portò alla caduta di Gheddafi. Quanto alla Lega, ecco un autentico bivio. Se Salvini imbocca la via della responsabilità, si troverà ad appoggiare il governo; se si arrocca nel “fronte del no”, magari insieme a Grillo, diventerà marginale e renderà ancor meno credibile l’alternativa di destra a Renzi. La campana della Libia suona per tutti.

Il Mattino 16.2.15
Svegliamoci, c’è una nuova guerra
di Franco Cardini


C’è chi, dopo l’attentato a Copenhagen, comincia a chiedersi se per caso l’Isis non faccia sul serio e, sotto sotto, a domandarsi come si fa a spiegare a quelli là che noi non c’entriamo. Dàtti una mossa, Biancaneve, la ricreazione è finita: magari non è più tempo, ormai, di centri commerciali e di karaoke. C’è chi, se i media del califfo danno del “crociato” al ministro Gentiloni – che, detto fra noi, a tutto somiglia meno che a un emulo di Goffredo di Buglione – si preoccupa e dice che siamo al nuovo medioevo. Dàtti una regolata, Panda-in-Pigiama, questo non è un film di Mel Brooks. E la parola “crociata”, in arabo (harb as-salibiyya), fino al secolo scorso nemmeno esisteva. È un neologismo. L’Islam, che gli facevamo contro le crociate, non si era mai accorto. Se usa ora quel termine, e lo fa per offenderci e farci paura, ciò dipende non dal fatto che siamo ancora nel medioevo ma da quello che ormai siamo al postmoderno. Queste sono
guerre nuove, nuovissime. Abbiamo continuato troppo tempo a pensare, nonostante tutto quello che ci capitava attorno, di vivere in un’isola felice dove il tempo era sempre sereno e non ci sarebbe mai stata tempesta. A svegliarci non sono bastati né gli anni di piombo, né la crisi balcanica degli anni novanta, né l’immenso pasticcio afghano cominciato quarant’anni fa e ancora in atto, né le due guerre irakene. La nostra “sovranità limitata”, di tutti noi europei che abbiamo perso la guerra – tutti, anche inglesi e francesi: la guerra l’hanno vinta Roosevelt e Stalin – in fondo ci faceva dormir tranquilli: c’era la Nato a farci la guardia, no?
Ma la guerra fredda, per la quale la Nato è stata pensata, è finita da un pezzo: eppure non ci siamo posti né il problema di come mutare istituzioni e strutture ormai logori, né di come evitar di continuar a pagar di tasca nostra i giochi altrui.
La politica dello struzzo non è mai servita a nulla. Ora siamo in ballo anche noi: e non possiamo nasconderci dietro il dito della Nato, se non altro perché allearsi con qualcuno è una cosa seria anche se noi seri non siamo granché. L’operazione Mare Nostrum si è chiusa, ma le cose vanno peggio di prima e noi non possiamo illuderci di uscirne semplicemente chiudendo i porti e lasciar annegare la gente. E se, da quella Libia piena di fondamentalisti che noi quattro anni fa abbiamo aiutato a prevalere dando ascolto allo stolido Sarkozy che a Gheddafi non perdonava di avergli mandato all’aria un po’ di business della Total e della telefonia interafricana, ora qualcuno ci punta contro dei missili, ciò dipende dal fatto che senza rendercene conto anche noi abbiamo accettato di giocare a un gioco pericoloso pur sapendo che non spettava a noi né tenere il banco né distribuire le carte. Ricordate come diceva il buon Machiavelli mezzo millennio fa? Credevano, i principi d’Italia, che bastasse avere una bella ed elegante cancelleria per uscire dalle peste. E che cosa credevano i nostri politici, che bastasse comprare a scatola chiusa un po’ di F35 per liberarsi da tutte le rogne? Cari miei, siamo in guerra. E, se la guerra la si fa da gregari, il nemico ce le suona lo stesso: come se fossimo noi i protagonisti. Tanto più che c’è un obiettivo dato geopolitico: questa è una guerra asiafrico-mediterranea, giocata tra Nord e Sud (anche se ciò non significa automaticamente «del Nord contro il Sud»): e noi siamo in prima linea. Lo siamo in Libia, ma anche in Grecia e quasi quasi perfino in Crimea (o vi siete dimenticati che un secolo e mezzo fa fu proprio una guerra in Crimea a decidere del nostro futuro di nazione unitaria?).
Ma questa è una guerra nuova e sui generis, dove non si sa quale sia il fronte e dove il nemico potrebb’essere già in casa. E non basta chiudere le frontiere, come blatera qualcuno, perché questa è una guerra civile: i musulmani, che la chiamano fitna, lo hanno capito benissimo: sono ormai dieci anni da quando un teorico di Al Qaeda ha sentenziato con grande lucidità che il terreno di scontro per il futuro doveva essere l’Europa. Non è che, se avremo qualche attentato nel nostro paese, potremo spedire la nostra aviazione a bombardare Mosul. Il califfo può anche atteggiarsi a capo di Stato, ma per la comunità internazionale non lo è: e non si può certo rispondere alle sue provocazioni e alle sue violenze andando ad ammazzare degli innocenti sparando nel mucchio. Lui Mosul non la governa: la occupa esattamente come i pirati di Salgari occupavano Maracaibo; e non ne governa gli abitanti, li opprime. Noi abbiamo il diritto e il dovere di difenderci, ma anche quello di restare un paese civile e uno stato di diritto. E allora?
Allora, questa guerra si vince con tre tipi di armi: l’intelligence, la prevenzione-infiltrazione nelle possibile cellule jihadiste che operano nel nostro paese, l’informazione corretta. Bisogna vigilare, migliorare il nostro sistema mediatico a cominciare dalle informazioni che arrivano ai nostri politici e ai nostri mezzi di comunicazione e che gli uni e gli altri gestiscono, intenderci bene su chi sono i nostri nemici.
Con una cosa che dev’esser chiara, tanto per cominciare. Questa non è una crociata: altrimenti avrebbe ragione il califfo, che invece non ce l’ha. Il nostro nemico non è affatto, genericamente globalmente, l’Islam. Quella islamica è una cultura che interessa quasi un miliardo e mezzo di persone la stragrande maggioranza delle quali vorrebbe solo stare in pace a casa sua (e se deve migrare, è perché gli altri ce la costringono: siano essi gli energumeni dell’Isis o le lobbies che affamano l’Africa).
Se spariamo nel mucchio, facciamo il gioco del califfo: è quello che vuole, non aspetta altro. Per esempio, al legge regionale lombarda che impedisce la costruzione delle moschee è un favore che gli è stato servito su un piatto d’argento:così potrà convincere ancora di più i suoi correligionari che egli è il rappresentante del puro Islam e che gli altri, i “crociati” e gli “apostati” (vale a dire i musulmani che desiderano la convivenza) ad avercela con lui. Europa, svegliati. E comincia una buona volta a camminare con le tue gambe.

Il Sole 16.2.15
Truppe italiane in Libia: tutti i rischi dell’opzione militare
di Alberto Negri

qui

La Stampa 16.2.15
Berlusconi applaude il governo: “Sì a un’azione militare”
E anche Salvini offre una sponda al premier. “Meglio schierare le truppe lì che al confine ucraino”. Ma Pinotti precisa: solo come parte di una missione Onu
di Ugo Magri


Eccezion fatta per i Cinque Stelle, tutti gli altri partiti in Parlamento sono sostanzialmente d’accordo con il governo: la Libia, affermano in coro, è una drammatica emergenza, bisogna fare qualcosa. E quel qualcosa non esclude affatto un intervento diretto dell’Italia, sul piano militare si capisce. La condizione è che la missione si svolga sotto l’egida dell’Onu. E non basta: Castagnetti, esponente politico cattolico del quale è nota l’amicizia con il Presidente Mattarella (tornato ieri sera a Roma da Palermo, sempre con volo di linea), avverte che dovrà trattarsi di missione «decisa», non soltanto «autorizzata» dal Palazzo di Vetro. La differenza è sostanziale perché in passato le Nazioni Unite hanno dato il benestare a operazioni molto divisive. E Prodi, che conosce l’umore delle cancellerie, si mostra al riguardo ottimista poiché, sostiene l’ex premier, «tutte le grandi potenze hanno paura dell’Isis», dunque «siamo nella situazione ideale perché l’Onu intervenga».
La mossa del Cavaliere
Di punto in bianco, dopo giorni in cagnesco contro il governo, Berlusconi si è fatto vivo con una nota per sostenere che un intervento di forze militari internazionali, «sebbene ultima risorsa, deve essere oggi una opzione da prendere in seria considerazione per ristabilire ordine e pace». Il Cav ne profitta per ribadire quanto egli fosse nel giusto allorché si oppose alla guerra contro Gheddafi «ben prefigurando quali nefasti scenari futuri avrebbe prodotto». E molto si potrà discutere sul senso di questa mano tesa al premier, che prefigura una situazione emergenziale, quasi da unità nazionale. Sia come sia, sulla destra il governo non trova ostacoli. Anche la Lega prende posizione tramite il suo leader Salvini: «Quelli dell’Isis ci hanno dichiarato guerra, meglio schierare le truppe lì anziché ai confini tra Russia e Ucraina».
Grillini contro
Isis o non Isis, dice M5S, guai a intervenire perché «l’uso delle bombe peggiora la situazione». Per conto dei Cinque Stelle si pronunciano i parlamentari delle commissioni Esteri e Difesa con un secco no a «qualunque intervento militare in Libia», sia pure con la benedizione dell’Onu (circostanza non esclusa, viceversa, da Sel). Divisi i centristi. C’è chi partirebbe per Tripoli domani, come Cicchitto e Quagliariello, ma ci sono anche quanti (per esempio Schifani) vedono scenari inquietanti da «guerra di religione» che ci converrebbe in ogni modo evitare.
L’impegno del governo
Riferiremo in Parlamento, confermano tanto Gentiloni (titolare degli Esteri) quanto la Pinotti (responsabile della Difesa). Il dibattito inizierà da giovedì, con l’occhio agli sviluppi al di là del Mediterraneo. Dopo qualche uscita pubblica informale, su cui si erano accesi focolai di polemica, i due ministri adottano ora un linguaggio assai ponderato. Gentiloni parla di «impegno straordinario» e di «maggior assunzione di responsabilità», senza entrare troppo nel merito. L’Italia è al lavoro con la comunità internazionale, aggiunge il capo della diplomazia, «per combattere il terrorismo e ricostruire in Libia uno Stato Unitario». Da Palazzo Baracchini, via Twitter, la Pinotti conferma: «L’Italia è pronta a fare la sua parte in una missione Onu. Ora sosteniamo lo sforzo diplomatico». Poi si vedrà.

La Stampa 16.2.15
Le diplomazie cercano il sì delle Nazioni Unite
Pressing francese per un’accelerazione
di Francesco Semprini


Le diplomazie sono alla ricerca di un’autorizzazione dell’Onu per procedere a un’eventuale azione militare in un quadro di legalità internazionale. E’ quanto emerge, secondo fonti informate, alla luce degli ultimi accadimenti in Libia, al Palazzo di Vetro, dove le consultazioni hanno preso un corso preciso. C’è ormai una convergenza ampia nell’ammettere che l’onda d’urto dello Stato islamico fa della Libia un Paese ad «altissimo rischio».
L’Italia, come del resto la Francia, già da qualche tempo pensa che tra le opzioni non può essere esclusa a priori quella di un’eventuale missione di «peacekeeping», ovvero un intervento militare seppur blindato nel quadro di legalità che prevede lo Statuto Onu. La Francia da parte sua, in vista della presidenza di turno del Consiglio di Sicurezza di marzo, sembra stia già lavorando su alcune proposte relative a terrorismo e sicurezza, che includono anche il dossier libico.
Anche di questo si occuperà Federica Mogherini, attesa all’Onu entro la prima decina di marzo, questa volta nella veste di Alto rappresentante europeo per la politica estera e di sicurezza. In occasione dell’Assemblea generale di settembre, l’allora titolare della Farnesina si adoperò molto sulla questione libica, rilanciando la necessità di sforzi congiunti col rappresentante speciale Onu, Bernardino Leon. Sforzi che sono proseguiti anche da Bruxelles, come conferma il tweet di alcuni giorni fa, nel quale diceva di «aver appena parlato» con Leon, e con «il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, per coordinarsi su come procedere».
Certo, sino alla missione di Lady Pesc al Palazzo di Vetro molte cose potrebbero accadere, perché l’atteggiamento sembra cambiato anche da parte di chi, come alcuni Stati membri e lo stesso segretariato dell’Onu, consideravano un anatema solo pensare ad un’azione di forza. Per alcuni l’effetto di quanto sta accadendo in Libia è figlio della missione militare del 2011, ma il punto è che anche chi considerava quell’azione sciagurata, oggi ritiene che più di allora ci siano i presupposti per l’intervento. a maggior ragione perché timori più forti si percepiscono ora anche ai piani alti dell’Onu. Il rappresentante speciale Leon «prosegue nei suoi sforzi di trovare un consenso per porre termine al conflitto», ci dice il portavoce del Segretario generale, interpellato sugli ultimi sviluppi in Libia. «Tuttavia - spiega Stephane Dujarric - Leon ha ammesso che le condizioni di sicurezza sono peggiorate», e più ci saranno ritardi nel riprendere il dialogo, «più la situazione diventerà complicata».

La Stampa 16.2.15
Peace-keeping sì o no?
L’Italia non può agire da sola
di Antonella Rampino


Peace-keeping, peace-making, peace-enforcing. Portare la pace, costruire la pace, imporre la pace. Tre gradazioni nel ricorso alla forza militare nei teatri di crisi, fino all’ultima che è un eufemismo da organizzazione multilaterale perché approda al «si vis pacem, para bellum» degli Antichi.
Nel caso della Libia fu il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni a dire mesi fa «l’Italia farà peace-keeping» e questo perché, per quanto strano possa parere per un Paese squassato da una guerra civile tra bande armate fino ai denti senza pensare alle dotazioni sofisticate dei jihaidisti, anche il peace-enforcing (cioè la guerra) rientra per l’Onu nella «categoria» del peace-keeping. Ma richiede tassativamente un risoluzione del Consiglio di Sicurezza. E questo è il punto: se una missione di interposizione (peace-keeping tipico) come l’Unifil in Libano si può allestire ragionevolmente in alcune settimane, per una risoluzione del Consiglio di Sicurezza occorrono mesi e mesi di diplomazia, e riuscire a superare i veti di Russia e Cina. Per il via libera ai bombardamenti su Tripoli nel 2001 ci si riuscì faticosamente, sotto pressioni fortissime anche delle pubbliche opinioni, solo perché ci si poté richiamare all’inadempienza da parte di Gheddafi di una precedente risoluzione.
Ma in queso caso? Ci sono state due giornate sorprendenti, non a caso nel più sonoro silenzio di tutte le Cancellerie occidentali, a partire da quella frase di Renzi appena arrivato a Bruxelles per il Consiglio europeo: «Bisogna risolvere la Libia».
Vasto programma. Il ministro degli Esteri e quello della Difesa hanno poi fatto coro con i dettagli: serve una missione internazionale di peace-keeping (sic), la guida deve essere italiana, siamo pronti a mandare 5.000 uomini. Non si capiva bene se si chiedesse all’Onu una risoluzione, se minacciassimo di operare comunque, se si trattasse di fare interposizione (non pare quella la situazione sul terreno). Poi, un po’ di chiarezza o forse una frenata, in Libia ci si va solo con l’Onu. Tutto era partito da un tweet di Pierluigi Castagnetti «Il governo chiarisca che la missione deve essere decisa, e non solo autorizzata dall’Onu».
Ed è proprio questo il punto: non può essere l’Italia a prendere l’iniziativa, o anche a guidare una missione militare - e di peace-enforcing - in un Paese che è stato sua colonia sin dai tempi pre-fascisti, e per giunta preso con una guerra condotta dagli italiani con una ferocia ai limiti della stupidità, come ha ben documentato lo storico Del Boca. Perchè la storia ha un peso. E un peso doppio, se è la pace che si vuole portare.

Corriere 16.2.15
il tempo delle scelte per l’unione inquieta
di Mauro Magatti


In tempi recenti, la sgradevole percezione della realtà della guerra non è mai stata così forte in Europa come in queste ultime settimane.
A Sud, i morti senza fine nel Mediterraneo sono l’«effetto collaterale» di una guerra che infiamma gran parte del Centro-Nord Africa e del Medio Oriente. Dietro i diseredati in fuga dal fondamentalismo che guardano all’Europa come la terra della salvezza, il Califfato (ora a meno di 200 miglia dalle coste italiane) sogna di portare la guerra santa anche nel Vecchio Continente. Come sembrano voler confermare i tanti deliranti proclami messi online dopo gli attentati di Parigi e Copenaghen. Eppure, sulla frontiera meridionale, l’Europa si mostra ancora incerta: le risorse investite in Triton sono minime e la discussione su natura e limiti di un’azione che trovi un equilibrio sensato tra umanità, prevenzione e rigore sembra destinata a non raggiungere punti fermi.
A Est, l’Ucraina è l’ultimo teatro di una ferita che nella storia ha sanguinato ripetutamente. Dove sta il confine tra l’Europa d’Occidente e quella d’Oriente? Ambizione e potere sembrano tornare ad agire intemeratamente, incuranti delle conseguenze sulla vita e la sicurezza di tanti. Al tavolo dei negoziati si sono seduti Merkel e Hollande, a esprimere il punto di vista dei due principali Paesi continentali. La speranza è che la tregua ottenuta sia un passo nella giusta direzione. Ma, anche in questo caso, il ruolo dell’Europa resta una chimera.
Da ultimo, c’è la «guerra economica» che si sta combattendo con la Grecia. Al cittadino, la contraddittorietà della situazione suona incomprensibile: da una parte le sofferenze di un popolo che paga anni di mal governo e corruzione; dall’altro le istituzioni europee — tecniche e non politiche — che hanno buoni argomenti ma che non possono non vedere come le cose in questi anni siano peggiorate. Se si parte solo dai conti, la soluzione non c’è. Perché il compromesso che tutti cercano non sia al ribasso, la condizione è ammettere che esiste un bene comune europeo di medio-lungo termine. Tutti dicono che è difficile. Ma il cittadino europeo si chiede che cosa impedisca di partire da ciò che appare buon senso.
Si annusa una brutta aria. Troppi scontri, troppa violenza. Interessi che sembrano insanabilmente divergenti. Chi è più anziano ricorda il 1938-39. Far finta di nulla non si può. In giro si avverte un misto di trepidazione, coinvolgimento, senso di impotenza. Ci si sente dentro vicende troppo grandi, rispetto a cui non è chiaro che cosa fare. Si capisce che le istituzioni di cui disponiamo sono, almeno in parte, inadeguate. La storia ha sempre questo di caratteristico: passa per la decisone di pochi e investe la vita di tanti. Travolti come da un’onda che rompe gli argini.
Siamo già a questo punto? No. Siamo però al punto in cui le decisioni devono essere prese: per fortuna qualche passo in avanti negli ultimi giorni è stati compiuto. Ma siamo, soprattutto, al momento in cui la coscienza europea ha l’occasione per forgiarsi un po’ di più. Riconoscendo se stessa di fronte alle sfide del tempo.
Dai sentimenti contraddittori di questi giorni affiorano almeno tre indicazioni. Primo: nonostante tutto, l’Europa continua a essere percepita/sperata come area di libertà, benessere, democrazia e pace. È questo il bene che condividiamo e che va perseguito con una continua innovazione istituzionale in grado di farci superare l’ incertezza in cui versiamo. Le minacce da parte di nemici esterni possono forse convincerci a compiere i passi che in questi anni non siamo riusciti a fare.
Secondo: come europei non possiamo più sottrarci alla responsabilità di difendere questi valori. Mostrandoci inflessibili con chi li nega. Senza paure e infingimenti. Il dialogo va cercato sempre. Ma l’aggressione va fermata insieme. E l’integrazione economica non potrà sussistere senza quella militare e internazionale.
Terzo, l’Europa è un progetto che si struttura attraverso un processo di convergenza graduale ottenuta con un metodo comune: la moneta unica e la progressiva armonizzazione/integrazione delle politiche. L’idea resta buona e va perseguita. A 360 gradi, però: non solo dove comandano gli interessi economici e politici più forti. Senza dimenticare che a reggere lo stress della convergenza dev’essere l’intero corpo sociale, ampio e variegato culturalmente e economicamente. Ci vogliono regole, certo. Ma anche una certa arte: l’arte della politica. Nella storia, come nella vita, la coscienza si fa facendosi. Ecco: per l’Europa, ancora una volta, ci siamo.

Corriere 16.2.15
Simona Bonafè
«Nessuna alternativa all’uso della forza, ma sotto l’egida Onu»
intervista di V. Pic.


ROMA «È ora di aprire gli occhi. In Libia non può esserci un’operazione di peace-keeping . Semplicemente perché la peace , la pace, da mantenere non c’è». Simona Bonafè, parlamentare europea renziana, va dritta al punto. «Sono sulla stessa linea dei ministri Paolo Gentiloni e Roberta Pinotti. Si deve intervenire, sempre con la copertura Onu, ma con la forza».
Quindi con un intervento militare?
«In Libia c’è una situazione di anarchia totale. Dove di fatto sono avanzate le forze dell’Isis. Lì la pace occorre portarla. E non può essere che con un intervento di peace-enforcing . Sempre nell’ambito di una iniziativa Onu».
Questo atteggiamento non ci espone a ritorsioni?
«L’alternativa qual è? Per noi la Libia non è solo un problema di sicurezza, ma anche di emergenza immigrazione. Se non si risolve quel conflitto è inutile dibattere di Triton o di Mare Nostrum. Perché i profughi e gli immigrati in fuga saranno sempre più numerosi».
L’Europa ha fatto poco?
«Sì, qui occorre fare autocritica. Ha fatto bene il premier Matteo Renzi a sottolinearlo in tempi non sospetti e a porre la questione all’attenzione del meeting informale dei capi di Stato. La Merkel deve smettere di pensare che esiste solo l’Ucraina. Da ora la Libia deve essere il nuovo dossier all’attenzione dell’Europa».
C’è chi ha criticato come incaute le dichiarazioni dei ministri Gentiloni e Pinotti. Lei che ne pensa?
«Quello che intendevano dire è chiaro. Non possiamo piu aspettare c’è una situazione che rischia di degenerare e dobbiamo correre ai ripari. Ad oggi non c’è uno Stato, quindi serve la forza».
C’è chi dice che le dichiarazioni di Gentiloni ci hanno reso obiettivo.
«Che sia in corso una guerra tra noi e i terroristi è un dato di fatto. L’abbiamo visto con i tragici eventi di Parigi e Copenaghen. È un attacco ai valori dell’Europa e quindi dobbiamo essere in grado di reagire. Il fatto che abbiano messo all’indice il ministro non ne è che la prova. Tanto più che Gentiloni non ha un approccio guerrafondaio ai temi internazionali».
Ma l’Italia ora è nel mirino?
«La dichiarazione di guerra era già contro tutta l’Europa. Non penso che ci sia un innalzamento del rischio. E per questo che la risposta non può che essere europea e di sistema».
Perché questo ritardo dell’Unione Europea sul dossier Libia?
«L’agenda degli ultimi mesi è stata monopolizzata dalla questione Ucraina da un lato e dalla Grecia dall’altro, quindi non si è prestata la giusta attenzione. Abbiamo votato risoluzioni sulla crisi umanitaria in Iraq e Siria causata dall’Isis e un’altra sul terrorismo in generale, ma non sulla Libia».
Cosa pensate di fare?
«Portare la questione all’ordine del giorno con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione».
Teme che qualcuno, leggi Merkel, sia insensibile?
«Questo ancora non posso dirlo. Dico solo che sicuramente è mancata la giusta attenzione da parte dell’Europa. Ma oggi tutto il mondo è in subbuglio. E con l’euroscetticismo che dilaga se non creiamo le condizioni affinché l’Europa parli con una sola voce negli equilibri, anzi negli squilibri internazionali, perdiamo una grande occasione».
Cosa l’ha colpita in questa vicenda
«L’uso molto accorto che l’Isis fa dei media, ma soprattutto del web. Per questo una efficace lotta al terrorismo non può prescindere da un controllo della Rete, attraverso la quale arruolano le loro forze. La fatwa a Gentiloni è tutta lì».
Non si rischia di ridurre la nostra libertà?
«Creare paure e mettere un freno alle nostre libertà è proprio il loro obiettivo. Noi dobbiamo garantirle pur nella consapevolezza che possono esserci anche strumenti diversi della sicurezza come il controllo della Rete».

La Stampa 16.2.15
Aprirsi all’altro islam
di Roberto Toscano


L’emozione suscitata dagli attentati di Parigi aveva indotto qualche commentatore a parlare iperbolicamente di un «11 settembre europeo». Purtroppo non è così, nel senso che nelle stesse dimensioni di quell’attacco all’America e nella complessità della sua organizzazione era insita una difficile ripetibilità. Negli attentati di Parigi e Copenaghen ci troviamo invece di fronte a qualcosa di tragicamente ripetibile, di facile organizzazione e a basso costo, e soprattutto di impossibile prevenzione. Corriamo il rischio di entrare in una sconcertante fase in cui – se dovessimo mantenere quell’improprio paragone – potremmo avere, se non un 11 settembre quotidiano, un 11 settembre mensile. C’è da chiedersi comunque se sapremo tenere i nervi a posto e soprattutto contrastare e reprimere senza per questo abbandonare i nostri principi di legalità e libertà.
Cerchiamo per prima cosa di rispondere ad alcune domande. Gli attentati di Parigi e Copenaghen sono stati prodotti dalla questione della blasfemia? E se è così, non sarebbe bene mettere un limite di natura legale alla libertà di satira, e più in generale alla libertà di espressione? Vi è, in questo modo di porre la questione, un grave rischio.
Se lasciassimo alla potenziale «parte lesa» la possibilità di definire la soglia dell’offesa, il permissibile e l’impermissibile, finiremmo forse per garantire la nostra tranquillità, ma a prezzo di un silenzio generalizzato, di un impoverimento culturale, di una regressione politica difficilmente compatibile con la democrazia. Diverso è invece il discorso su quella «etica della responsabilità» che ci dovrebbe imporre una valutazione degli effetti della nostra azione, inducendoci in alcune circostanze ad astenerci dall’esercitare un diritto che pure rimane nostro.
E poi, questo discorso su offesa e blasfemia può essere fuorviante, se pensiamo che sia a Parigi che a Copenaghen sono stati presi contestualmente di mira non soltanto i blasfemi caricaturisti, ma anche gli ebrei – ancora una volta colpiti, come tante volte nella storia, per quello che sono piuttosto che per quello che fanno. E questo come facciamo a prevenirlo? Chiudendo le sinagoghe o forse, come Netanyahu torna demagogicamente a proporre, facendo emigrare in Israele le comunità ebraiche europee?
Sorge anche un’altra domanda: chi sono i terroristi e cosa li ispira? Negli ultimi tempi è capitato spesso di sentir dire che gli attentatori «non sono musulmani», ma solamente pazzi criminali. Lasciamo che a questa affermazione risponda la dichiarazione di un gruppo di intellettuali musulmani (fra cui Tariq Ramadan, un moderato ma pur sempre islamico, se non islamista): «Affermare che gli atti terroristi commessi in nome dell’islam non hanno niente a che vedere con la religione è come dire che le crociate non avevano niente a che vedere con il cristianesimo». Vengono qui subito in mente le recenti dichiarazioni di Obama che, ad un «breakfast di preghiera» alla Casa Bianca, ha affermato – citando in particolare crociate e Inquisizione – che tutte le religioni, storicamente, si sono rese colpevoli di crimini contro l’umanità. Cosa che ha suscitato una violenta reazione settaria da parte degli ultrà repubblicani, «cristianisti» piuttosto che evangelicamente cristiani. Il fatto è che le religioni non possono pretendere di essere giudicate soltanto sulla base dei principi dei loro fondatori e dei loro testi sacri, e non sul comportamento dei loro fedeli e sul concreto impatto sulle società in cui si radicano. Come dice il Vangelo, «dai loro frutti li riconoscerete».
Tutte le religioni, tutte le ideologie politiche, possono avere versioni intolleranti e anche violente. Versioni che – con una definizione forse storicamente impropria ma politicamente centrata – si possono definire come «fasciste».
Da tempo imperversa la polemica sull’uso del termine «islamofascismo». Per i musulmani si tratterebbe di un’inammissibile e razzista denigrazione della loro fede, di un’ennesima manifestazione di islamofobia. Certo, hanno torto quando pretendono di chiudere la bocca a qualsiasi critica che viene loro rivolta definendola islamofoba, ma hanno senz’altro ragione nei confronti di quelli che (esistono, e come) usano il termine in modo indiscriminato nei confronti di tutta una religione, appiattendo ogni differenza fra islamici, islamisti, islamisti radicali e terroristi.
In modo paradossale e perverso sembra oggi che, come conseguenza del terrorismo e della sfida jihadista in Medio Oriente e Nord Africa, l’opinione pubblica occidentale tenda a prendere per buona la definizione dell’islam che viene data dai wahabiti assassini: un islam intollerante, violento, retrogrado. Servirebbe un po’ meno d’ignoranza su una civiltà che, del resto come la nostra, attraverso i secoli ha prodotto il peggio ma anche il meglio. Non tutti hanno il tempo di approfondire la storia dell’islam, ma basterebbe guardare uno straordinario documento che in questi giorni circola su internet. In una registrazione fatta con un cellulare si vede una donna molto anziana che, in una zona controllata dallo Stato Islamico, affronta con il coraggio della fede religiosa e della umana indignazione una pattuglia di jihadisti accusandoli di essere assassini e di non rispettare i precetti di misericordia di Allah. Lo fa citando a memoria brani del Corano (che certo, pur essendo chiaramente una persona semplice, conosce molto meglio dei bruti che l’ascoltano sghignazzando) e persino testi di poesia.
Un altro islam. Un islam che dobbiamo rispettare ed accogliere. Un islam che dovrà prevalere.

La Stampa 16.2.15
“Noi libici non siamo integralisti. L’Italia ci aiuti a unirci contro l’Isis”
I leader delle milizie di Misurata: “Hanno pochi uomini, li batteremo
Sì al dialogo anche con il Parlamento di Tobruk e le forze di Zintan”


L’appuntamento telefonico è per le cinque del pomeriggio. Nella hall di un albergo di Misurata, via Skype, abbiamo fissato l’intervista con i due delegati di Misurata alle trattative di Ginevra. Si tratta di Abu Baker Alhriash e di Ali Abusetta. Che annunciano novità importanti: «La costituzione di due commissioni di saggi che presto dovranno incontrare sia il Parlamento di Tobruk e il generale Khalifa Belqasim Haftar, alla guida dell’offensiva contro gli islamisti a Bengasi, che la città e le milizie di Zintan. Dobbiamo trovare un accordo e poi sconfiggere i gruppi estremisti islamisti».
Oggi è stata chiusa l’ambasciata italiana a Tripoli. E anche un gruppo di italiani è stato evacuato. Qual è la situazione dal vostro punto di vista?
«Intanto Misurata ringrazia l’Italia, il governo e il popolo italiano per tutto quello che hanno fatto per noi. Sappiamo che siete il Paese che ha più a cuore il futuro della Libia. Speriamo che molto presto si creino le condizioni perché l’ambasciata possa riaprire. L’Italia dovrà giocare un ruolo importante per la ricostruzione della Libia».
Dall’esterno, il Paese sembra sempre di più fuori controllo.
«La situazione è molto critica. La nostra speranza è una scommessa sui giovani e sui consolidati rapporti tribali».
Misurata è considerata una città vicina agli estremisti islamici. Ma adesso che le milizie nere dell’Is stanno venendo allo scoperto, voi di Misurata che farete?
«È vero, la nostra è una città moderata ma non integralista. Vi sono esponenti politici legati ai Fratelli Musulmani ma la politica della città è contro questi movimenti integralisti. Proprio oggi una nostra milizia ha liberato la radio di Sirte e ben presto nostri uomini presidieranno Sirte per impedire future aggressioni da parte di questi estremisti».
Voi stessi parlate di situazione molto critica. Potete essere più chiari?
«Siamo in guerra tra di noi. Sarebbe stupido negarlo. Zintan, il generale Haftar, il Parlamento di Tobruk. Dall’altra parte noi, il Parlamento di Tripoli. Non possiamo continuare ad andare avanti così. Dobbiamo trovare una strada alternativa alle armi».
Che cosa propone Misurata?
«Il dialogo. Sappiamo bene che senza una capacità di ascoltare le ragioni di tutti non si troverà mai una soluzione. Veniamo da Ginevra e siamo consapevoli che la questione libica non può essere un problema militare ma deve essere risolta con la diplomazia».
Il tempo a disposizione ormai è sempre più ridotto. Cosa fare?
«Proprio oggi l’assemblea cittadina ha deciso di formare due delegazioni di saggi con il compito di aprire il dialogo con gli altri. Da giorni, abbiamo iniziato a parlarci via telefono. Adesso dobbiamo incontrarci. Una commissione andrà in uno dei terminal della “mezzaluna petrolifera”, Cidra, Ras Lanuf, Brega, per incontrare il Parlamento di Tobruk e gli uomini del generale Haftar, un’altra andrà a Zintan. Ci auguriamo che se il dialogo dovesse marciare, a queste riunioni partecipino anche i Paesi che ci sono stati vicini, anche l’Italia».
Che giudizio date del lavoro svolto dal delegato delle Nazioni Unite, Bernardino Léon?
«Lo consideriamo un lavoro eccellente. È molto paziente e la direzione del cammino sta andando nella direzione giusta».
Per l’Italia è un cammino inconcludente.
«I risultati si vedranno».
Come pensate di affrontare il problema degli estremisti islamici, dell’Is?
«Intanto non sono tanti e non sono ancora decisivi. Sono presenti a Derna, a Sabratha, gruppi a Tripoli. A Sirte li abbiamo cacciati. In ogni caso possiamo sconfiggerli. Dovremo essere noi a farlo. Ma prima, dobbiamo firmare una pace tra di noi».

il Fatto 16.2.15
Vittorio Emanuele Parsi
“La guerra sarà lunga e dispendiosa”
intervista di Alessio Schiesari


L’intervento in Libia sarebbe molto lungo e dispendioso, anche in termini di vite umane”. Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell’Alta scuola in economia e relazioni internazionali, ipotizza gli scenari che si aprirebbero se l’Italia desse seguito alle parole del ministro Gentiloni, che ha aperto alla possibilità di un intervento militare.
Per il titolare della Farnesina, l’Italia sarebbe disposta anche a guidare un intervento sotto l’egida dell’Onu.
È apprezzabile la disponibilità ad assumersi delle responsabilità, ma bisogna prima capire con quali obiettivi. Combattere l’Isis è un’operazione complessa: Obama per la Siria e Iraq ha chiesto tre anni. Per stabilizzare la Libia non è sufficiente armare delle milizie o bombardare, è necessario cercare degli alleati e accettare la prospettiva di un impegno lungo. Però, se non se ne occupa l’Italia, non lo farà nessuno perché siamo noi i primi a dover essere preoccupati di quanto sta accadendo.
Che tipo di opzione militare servirebbe?
Non bastano i bombardamenti per fermare l’avanzata dell’Isis, com’è evidente in Siria e Iraq. E là comunque ci sono truppe di terra che combattono.
Mentre i jihadisti puntano Tripoli, in buona parte del Paese mancano anche i servizi essenziali. Come si è arrivati fino a qui?
Il Paese è scivolato progressivamente in una situazione prima di guerra civile, poi di semi-anarchia. Nessuna delle due autorità che reclamano legittimità ha il controllo del territorio. Questo ha permesso la penetrazione dell’Isis, la milizia jihadista più preparata, da est. È uno scenario somalo, solo un po’ più ordinato perché l’Isis è organizzata.
Gli interlocutori che l’Occidente si è scelto, a cominciare dal comandante dell’esercito regolare Khalifa Haftar, si sono rivelati inadatti. Quali sponde occorre cercare?
Si può provare a insistere con il governo di Tobruk, ma è chiaro che non ci sono interlocutori affidabili, capaci di coordinare gli interventi. Il governo non è stato all’altezza della complessità della situazione. Gheddafi aveva deistituzionalizzato il paese, la sua caduta ha lasciato il vuoto. La Libia è un paese molto complesso a livello tribale che il Raìs riusciva a governare solo per i metodi brutali che adottava.
È stato un errore intervenire per deporlo?
Com’è risaputo, sono stati i francesi a insistere per deporre Gheddafi, ma non hanno pianificato la fase successiva. L’Italia ha provato per quanto possibile a starne fuori perché non condivideva gli obiettivi dell’intervento. La responsabilità di questo pasticcio grava su Londra e Parigi ma, anche se la frittata l’hanno fatta gli altri, ora chi se la ritrova davanti alle proprie coste siamo noi.
L’Egitto, anche grazie al supporto finanziario degli Emirati Arabi, ha appena acquistato 24 cacciabombardieri Rafael perché – lo dice la commissione difesa del Parlamento francese – al-Sisi è preoccupato dalla guerra libica. Quali partner arabi bisogna interpellare?
L’Egitto lotta contro l’Isis nel Sinai e sarebbe disposto a farlo anche in Libia. Poi bisognerebbe sondare Algeria e Lega Araba se sono disponibili a una missione con legittimità internazionale. E anche i paesi del Golfo, nonostante il loro giochi poco trasparenti, sono inquieti.
Dopo la caduta dei dittatori laici, da Gheddafi a Saddam, il Medio Oriente sta cadendo nelle mani dei jihadisti. Perché?
Il ritorno della religione in politica è un fenomeno antico che riguarda anche l’Occidente, penso a Carter negli Usa negli anni ’70. Le forme inaccettabili di islamismo radicale invece sono da imputare alla volontà politica di certi Paesi – Arabia Saudita e gli altri Stati del Golfo – che da trent’anni finanziano un certo tipo di Islam.

Repubblica 16.2.15
I migranti che Salvini vuol lasciare in mare
di Michele Serra


UNO dei pochi veri vantaggi di chi fa politica è che il mondo è complicato, e dunque nessuno si aspetta soluzioni facili.
SOPRATTUTTO su questioni che impiegano anni e a volte secoli per essere sbrogliate. Di questo vantaggio non ha fatto uso Matteo Salvini, che perfino di domenica si è sentito in dovere di intervenire sull’esodo epocale dei barconi nel Mediterraneo.
Tradito (anche) dalla superficialità tentatrice di Twitter, il segretario della Lega ha diramato una manciata di parole dalla logica molto precaria: soccorrere i migranti, sì, ma lasciandoli in alto mare. Ammesso che quella tragedia consenta una lettura comica, si immaginano bastimenti carichi carichi di coperte e cibo che riforniscono quelle macchie galleggianti fatte di umani in fuga e poi salutano cordialmente, «torniamo domani, aspettateci qui e mi raccomando copritevi, che fa freddo». Altro sviluppo del piano di Salvini, dal punto di vista operativo, non è intuibile.
Più intuibile, forse, è la molla psicologica che ha fatto scattare quel curiosissimo tweet: uno scrupolo umanitario (se preferite: la paura di sembrare troppo cinico) che fa breccia nel muro ideale con il quale il segretario di uno dei più antichi partiti xenofobi europei vorrebbe cingere i confini nazionali. L’idea di donne e bambini, e comunque di esseri umani in larga parte innocenti e deboli, lasciati alla morte per assideramento o annegamento non è facile da gestire per nessuno, e dunque portiamo cibo e coperte; ma ancora più difficile da gestire è il proprio elettorato spaventato dall’arrivo dei migranti in generale e dei potenziali criminali in particolare, e dunque lasciamoli in mezzo al mare. Con i panini e le coperte.
Sia un furbo compromesso da politicante, sia lo svarione ingenuo di una domenica che era meglio trascorrere in silenzio, il lodo Salvini almeno un pregio ce l’ha. La sua stessa goffaggine illustra quanto l’enormità del dramma dei migranti sovrasti, e di molto, qualunque intenzione di speculazione politica. È un cataclisma che cambia storia e geografia, gonfio di conseguenze funeste (specie per chi migra), di cozzi tra identità culturali e religiose, di problemi giganteschi, come pure di vitalità e cambiamento. È del tutto legittimo, come fanno la Lega e le forze omologhe in Europa, essere contrari all’accoglienza e considerarla un mero strumento di invasione e assoggettamento da parte, soprattutto, dell’Islam. Ma bisogna, allora, avere il coraggio delle proprie opinioni, dunque il coraggio di far pagare a loro, e non a noi, il prezzo intero dello sconquasso in atto nei loro Paesi d’origine, in Africa, nel Medio Oriente, nel Magreb. «Che affoghino e non ci disturbino mai più» è una posizione odiosa, ma comprensibile. «Soccorriamoli ma lasciamoli in mare» assomiglia terribilmente a una facezia.
Le politiche umanitarie hanno un loro costo (anche politico) e una loro coerenza, espongono al rischio di infiltrazioni dolose non di migranti ma di nemici; e chi le pratica, se non è uno sciocco, deve conoscere il prezzo del soccorso. Allo stesso modo le politiche anti-umanitarie, di rifiuto e di chiusura, hanno il prezzo dell’egoismo. Si capisce che, di fronte a certe immagini di quei gusci nel Mediterraneo in tempesta, anche il capo di un partito xenofobo possa sentirsi in difficoltà. Ma quel prezzo, se si è contro gli sbarchi, tocca pagarlo fino in fondo.

Corriere 16.2.15
Francia nella morsa antisemita. Scempio al cimitero israelitico
Profanate le tombe a Sarre-Union. Hollande: «Atto odioso e barbarico»
di Stefano Montefiori


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI Le devastazioni sarebbero cominciate giovedì, e sono continuate fino a ieri. Intorno alle 17 una donna si è accorta che la porta di ingresso era danneggiata, e ha dato l’allarme avvertendo la gendarmeria. Quando sono arrivati gli agenti hanno scoperto centinaia di tombe scoperchiate, altre rotte. In totale sono stati profanati circa 300 dei quattrocento sepolcri nel cimitero ebraico di Sarre-Union, una cittadina di neanche 3.000 abitanti in Alsazia, a una trentina di chilometri dal confine tedesco. È stato rovinato anche il monumento alle vittime della Shoah.
È un crimine orrendo che viene scoperto poche ore dopo l’attacco alla sinagoga di Copenaghen e per questo desta ancora più indignazione, come se ci fosse un qualche legame diretto. Ma non c’è bisogno di andare a scomodare i fatti in Danimarca per trovare l’occasione concreta, la spinta che ha fatto passare qualcuno — «dovevano essere in tanti», dice il procuratore — all’azione. Il ritorno dell’antisemitismo in Francia è nell’aria, è evidente per esempio negli spettacoli di Dieudonné, negli atti del terrorista islamico Amedy Coulibaly che entra sparando in un supermercato kosher e uccide quattro ebrei per il solo motivo che sono ebrei il 9 gennaio, nell’azione del suo quasi omonimo Moussa Koulibaly che il 3 febbraio a Nizza si avventa su tre soldati che proteggono il concistoro ebraico; l’antisemitismo è tra noi perché il 13 febbraio erano il nono anniversario della morte — dopo tre settimane di tortura — del 23enne ebreo Ilan Halimi, e perché il numero di atti antisemiti è raddoppiato in Francia nel 2014 rispetto all’anno precedente (851 contro 423).
Su questo sfondo, alcune persone hanno trovato la forza per entrare nel cimitero ebraico e «aprire le tombe, soprattutto nella zona più recente», dice il presidente del Consiglio regionale dell’Alsazia, Philippe Richert. Non ci sono scritte o graffiti, ma la maggior parte dei sepolcri sono devastati. Ieri sera il cimitero era illuminato a giorno, bisognava fare l’inventario dei danni e cercare qualche traccia per risalire ai colpevoli. Non è la prima volta che succede a Sarre-Union. Nel 1988 erano state abbattute una sessantina di stele funerarie ebraiche e, nel 2001, 54 tombe furono saccheggiate. A dare la notizia della nuova profanazione è stato il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve appena tornato dal viaggio di solidarietà in Danimarca.
«Non ne posso più di tutti questi atti antisemiti, sotto diverse forme, che abbiamo visto il 9 gennaio a Parigi, sabato notte a Copenaghen e oggi in Alsazia. Questo odio dimostra che abbiamo completamente fallito nell’educazione dei nostri giovani», si è sfogato il presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif), Roger Cukierman. Tutte le autorità dello Stato hanno espresso lo sdegno più totale, dal presidente della Repubblica François Hollande — «Atto odioso e barbaro, la Francia è determinata nella lotta contro l’antisemitismo» —, al premier Manuel Valls — «Un atto ignobile, troveremo i responsabili» —, al capo dell’opposizione Nicolas Sarkozy — «la lotta implacabile contro l’antisemitismo deve coinvolgere tutti i cittadini democratici» —, fino al deputato del Front National Gilbert Collard, «un atto abietto». Ma al di là delle formule, la sensazione è che ad ascoltare queste parole siano solo le persone normali, che non hanno bisogno di essere convinte. Gli altri, gli antisemiti, saranno probabilmente galvanizzati dal rifiuto unanime, che in questi anni non è mancato.
Jacques Wolff è un anziano ebreo che ha la famiglia sepolta al cimitero di Sarre-Union. «Non resta che un campo di rovine — ha detto al Parisien —. Mio padre è morto ad Auschwitz nel 1943, mia nonna è morta di stenti nel 1944. Riposano qui, e non posso che commuovermi. Non siamo a Praga durante la guerra, quando si lastricavano le strade con la pietra delle tombe ebraiche. Siamo in Francia».

Repubblica 16.2.15
La rabbia di Netanyahu “Ebrei tornate in Israele ci saranno altri attentati”
Il leader ai ministri: “L’Europa non è più un posto sicuro” Profanate centinaia di tombe in un cimitero dell’Alsazia
di F. S.


GERUSALEMME «L’Europa non è più un posto sicuro per gli ebrei, Israele li aspetta a braccia aperte». All’indomani degli attentati a Copenaghen, in cui è stata presa di mira anche una sinagoga, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha rinnovato l’appello agli ebrei d’Europa a immigrare in Israele. «Gli ebrei sono uccisi sul suolo europeo solo perché sono ebrei», ha detto il premier durante il consiglio dei ministri. «Questa ondata di attentati continuerà. Io dico agli ebrei dell’Europa: Israele è la vostra casa». Mentre dalla Francia arrivava anche la notizia di centinaia di tombe ebraiche profanate a Sarre-Union, in Alsazia («un atto odioso», l’ha definito il ministro degli Interni francese Cazeneuve), Netanyahu ha aggiunto che Israele si prepara ad un massiccio afflusso di immigrati dall’Europa, annunciando la discussione di un piano da 180 milioni di shekel (oltre 40 milioni di euro) per sostenere l’afflusso di nuovi cittadini in arrivo da Francia, Belgio e Ucraina. Netanyahu aveva già esortato gli ebrei francesi a emigrare in Israele dopo gli attentati a Parigi, suscitando l’irritazione del presidente Hollande. Ieri è stato il turno del rabbino capo della Danimarca Jair Melchior, che si è detto «deluso» dall’appello di Netanyahu. «La gente parte per Israele perché ama Israele, per il sionismo. Non per il terrorismo. Se il modo di affrontare il terrorismo è quello di scappare altrove, allora dovremmo tutti rifugiarci su un’isola deserta». Le dichiarazioni di Netanyahu riflettono anche il fatto che in Israele il 17 marzo si vota, e per Netanyahu è una dimostrazione di forza politica l’offrire ospitalità in un momento in cui i sondaggi danno il suo partito, il Likud, in svantaggio rispetto alla coalizione di centrosinistra guidata dal tandem Herzog Livni. Lo scontro è senza esclusione di colpi. Due video “elettorali” stanno dando scandalo. Un cartone animato del Consiglio dei Coloni dipinge organizzazioni pacifiste di sinistra come composte da collaborazionisti pagati da antisemiti europei. “Peace Now”, una delle Ong citate, ha inviato una denuncia al procuratore generale Yehuda Weinstein. «In questo video è stata chiaramente superata la linea fra la libertà di parola e l’incitamento alla violenza», ha dichiarato il direttore di “Peace Now”. E poi c’è lo spot del Likud dove si vede un gruppo di jihadisti che chiede indicazioni per arrivare a Gerusalemme. La risposta è «Girate a sinistra», poi compare la scritta: «La sinistra capitolerà davanti al terrorismo».

Repubblica 16.2.15
Grossman: “Ma il nostro premier fa propaganda”
intervista di Fabio Scuto


GERUSALEMME «RITENGO che la libertà di espressione sia un diritto supremo di tutti coloro che vivono in una società democratica, finché ciò non comporta l’incitamento alla violenza e all’attacco di altri uomini. Ma ciò non significa che dobbiamo per forza usare sempre ogni diritto che abbiamo». Lo scrittore David Grossman è sgomento di fronte a quest’ondata di violenza che in Europa sta colpendo gli ebrei dalla Francia alla Danimarca. Liberal fin nel fondo dell’anima, Grossman difende a spada tratta il diritto di espressione e la libertà di stampa, ma invita anche a un uso prudente di questo diritto acquisito delle democrazie moderne. «A volte», spiega, «tutta la saggezza sta nella comprensione che la complessità di vivere in una società multiculturale ci obbliga alla moderazione e a una certa misura di prudenza, quando dobbiamo a fare uso del diritto alla libertà di espressione. Ciononostante si tratta di un diritto inalienabile, nella misura in cui non incita alla violenza e all’attacco fisico di altre persone».
I “lupi solitari” che hanno colpito in Francia e in Danimarca hanno però tratto altre conclusioni...
«Posso capire la rabbia e il dolore dei musulmani che si sono sentiti offesi dalle caricature contro il Profeta Maometto, ma non si possono giustificare nel modo più assoluto tali barbari omicidi. Da come vedo le cose io, l’Europa occidentale si deve aspettare ancora molti brutali attacchi omicidi di questo genere».
La religione e la politica ovunque cercano di dettare i ritmi e i tempi della nostra vita, obbligandoci a schierarci da una parte o dall’altra. Lei è stato al centro di uno scontro fra il mondo della politica e quello della cultura, con l’intromissione del Primo ministro nel processo di selezione dell’Israel Prize. Perché lei insieme a molti altri ha ritirato la sua candidatura?
«L’attacco scatenato dal primo ministro contro tutto l’apparato scientifico e contro l’apparato creativo — fuori dal comune per il suo estremismo — è collegato con la campagna elettorale. Per dimostrare di essere più nazionalista dei partiti di estrema destra e per sottrarre loro ancora un seggio o due, il premier Netanyahu è stato disposto a colpire l’istituzione che gode di una forma di sacralità laica per moltissimi israeliani. L’Israel Prize viene conferito in diversi campi dello scibile per l’eccellenza e non per le idee politiche. Il primo ministro, a suo dire, vuole che settori più ampi della collettività possano vincere questo premio: è un desiderio logico e positivo, ma penso che nessuno vorrebbe vincerlo solo perché è di un certo partito o di una determinata etnia, ma per le sue capacità».
Allargare la “base” per scegliere sembrerebbe un’idea condivisibile...
«Certo, ma quando Netanyahu parla dell’ampliamento di coloro che hanno accesso al Premio a tutta la collettività israeliana, non comprende gli arabi d’Israele, il 20% della popolazione, o le donne, decisamente sempre sottorappresentate. Si preoccupa dei membri del suo partito: ha trasformato il premio, che ha un valore umano e spirituale unificante ed emotivo in una meschina questione di partito».
I giornali dell’opposizione sono insorti, parlando di attacco alla democrazia. Lei condivide questo tono?
«Questo atteggiamento rivela una basilare incomprensione dei rapporti che devono esistere in ogni Paese democratico fra l’apparato governativo e gli apparati creativi, scientifici e umanistici. Da sempre esiste una qualche tensione fra il potere politico e questi apparati, e per me è proprio da questa tensione che sgorga il segreto della forza e della resistenza della democrazia. Quando il potere politico attacca gli intellettuali, gli scienziati, gli artisti, dimostra di avere un problema nella comprensione dell’essenza della democrazia ».
L’Avvocato dello Stato ha costretto il premier a fare marcia indietro, che comunque sembra aver ottenuto quello che voleva. Non crede?
«Il colpo che Netanyahu ha inflitto all’Israel Prize è un successo politico a breve scadenza, ma si tratta di un danno gravissimo a valori che sono alla base della democrazia israeliana. Ho la sensazione netta che anche persone di centro-destra o di destra moderata siano imbarazzate dal suo modo di agire e delle sue provocazioni. La prossima sarà quella di andare a pregare alla Grotta dei patriarchi a Hebron (che si trova all’interno della Moschea Ibrahim, ndr ), cosa che non ha fatto nei sei anni in cui è stato premier. E tutto per provocare una sollevazione palestinese e raccogliere ancora qualche voto di qualche ultrà».

il manifesto 14.2.15
Israele
La censura preventiva blackout della democrazia
Il divieto imposto allo storico israeliano Pappè a parlare all'Università di Roma danneggia la società, la libertà di parola e il censore stesso, che fugge il dialogo per paura
di Moni Ovadia

qui segnalazione di Anna Schettini

Il Sole 16.2.15
La sfida. Il business globale dei turisti cinesi
Così l’Italia si deve attrezzare per accoglierlidi Antonio Pavan e Cristiano Rizzi

L’organizzazione mondiale del turismo ha previsto che entro il 2020 la Cina sarà il Paese con il maggior numero di turisti all’estero. Nel 2013 sono stati quasi 100 milioni i cinesi che hanno effettuato viaggi all’estero (dati CeSIF), il 18% in più rispetto al 2012, e anche il 2014 appena concluso ha visto crescere il flusso. Per il futuro si prevede un ulteriore incremento, grazie alle prospettive di crescita della classe media in Cina.
In Italia l’Istat ha registrato nel 2011 circa due milioni di turisti cinesi, e per gli anni 2012 e 2013 tassi di crescita a doppia cifra. I dati del 2014, che si stanno ancora raccogliendo, dovrebbero confermare questo trend. Quel che più conta, secondo un rapporto di Fortune Character, è che il consumatore cinese ha acquistato, in generale, il 47% di tutti i beni di lusso nel mondo.
Questa tendenza, che ha risvolti assolutamente importanti per il settore retail in Italia, dovrebbe venire sfruttata intercettando i facoltosi turisti cinesi nel modo più efficace possibile. Ciò, in particolare, in vista dell’Expo 2015 ormai alle porte.
A Milano, in effetti, esiste già un settore di nicchia specializzato nel portare turisti cinesi in Italia (che sono anche investitori), i quali vengono a cercare non solo le nuove tendenze nel fashion, ma anche nel retail, inteso come modalità di presentazione dei prodotti al grande pubblico, con l’intento di riproporli poi in Cina. Non vi è pertanto dubbio sul fatto che chi opera nel settore retail in Italia dovrà attrezzarsi per farsi conoscere e avere una visibilità sempre maggiore, utilizzando anche il canale online, che rappresenta il metodo principale e preferito dai cinesi per fare shopping. Si pensi agli oltre 250 milioni di cinesi che preferiscono fare acquisti online, oppure al record stabilito lo scorso 11 novembre 2014 (battezzato “il giorno dei single”) registrato da Alibaba - e principalmente dalla sua piattaforma B2C Tmall - con oltre 9 miliardi di dollari in transazioni in una sola giornata.
Gli operatori di settore dovranno quindi essere in grado non solo di attrarre i turisti-investitori cinesi, ma anche di saper vendere i loro prodotti in Cina, appoggiandosi a quelle organizzazioni che sono deputate a mettere in contatto le realtà imprenditoriali dei diversi Paesi, oppure a quei professionisti che sono in grado di aiutarli a strutturare una loro presenza in Cina.
Gli strumenti a disposizione esistono: si potranno usare le piattaforme di commercio elettronico locali e poi, per aver maggior successo, servirà costituire una presenza fisica attraverso la creazione di società commerciali che potranno servire anche come punti vendita off-line e che sapranno fornire quella “customer care” sempre più ricercata dai consumatori cinesi.
I prodotti del made in Italy, e in particolare i prodotti di lusso, rappresentano un’icona dell’Italia, e anche in Cina inizia a farsi strada una certa sensibilità verso la tutela dell’originalità del prodotto. A conferma dell’attivismo nell’affrontare il problema della contraffazione, e in generale della tutela della proprietà intellettuale, le dogane cinesi hanno compiuto oltre 200 milioni di controlli e sequestrato milioni di prodotti contraffatti.

Il Sole 16.2.15
I capitali cinesi a caccia di Pmi
di Micaela Cappellini


Il governo cinese dà l’input alle banche di sostenere l’espansione all’estero delle Pmi. Questo potrebbe fornire enormi opportunità alle piccole imprese italiane, considerando tra l’altro che nel 2014 gli investimenti cinesi all’estero sono stati pari a 120 miliardi di dollari e che l’Italia è stata la sesta meta di questi capitali. Alimentare, elettronica e turismo sono i settori con le migliori chance.
Per noi italiani il bilancio 2014 degli investimenti cinesi all’estero offre tre buone notizie. La prima è che i capitali cinesi in uscita hanno raggiunto la ragguardevole somma di 120 miliardi dollari e hanno superato per la prima volta quelli in entrata: segno che il ruolo di Pechino sullo scacchiere economico mondiale sta cambiando. La seconda è che, di questi 120 miliardi di dollari, a sorpresa noi siamo stati la sesta meta d’elezione. Appena dietro la Francia, più dell’Olanda, decisamente più della Germania e della Spagna.
Infine, la terza buona notizia è un assist promettente per le Pmi italiane: le (ricche) banche cinesi hanno ricevuto da Pechino l’imput di far crescere le piccole e medie imprese del Paese, e di farlo soprattutto sostenendo le loro attività di acquisioni e joint venture all’estero. Tra le aziende candidate al sostegno delle banche cinesi c’è un po’ di tutto, ma è noto che l’ultima tendenza degli investimenti cinesi all’estero è quella di concentrarsi meno sugli idrocarburi e sulle risorse naturali - come fu all’inizio della politica del “Go global” - e più sull’elettronica, l’agribusiness, l’alimentare e la ristorazione.
Eccola qui, la grande occasione per l’Italia. La sintetizza Roberto Giovannini, partner Kpmg, la società di consulenza che ha appena dedicato agli investimenti esteri da e per la Cina un ampio report: «Le banche cinesi hanno preparato le liste delle Pmi che cercano partner all’estero e che loro stesse sono pronte a finanziare. Sono tutte realtà da 4, 6, massimo 20 milioni di euro di fatturato annuo: per le aziende italiane che entrano in contatto con loro, non c’è nessun rischio di acquisizione ostile, perché data la dimensione è più corretto parlare di joint venture. Le imprese cinesi acquisiscono know how, e quelle italiane si vedono aprire le porte del più vasto mercato asiatico».
Un rapporto win-win, insomma, che secondo Giovannini potrebbe portare alla «fase 2» delle relazioni fra Italia e Cina. Ad oggi, nel nostro Paese, ci sono 272 imprese partecipate da aziende cinesi. Se siamo al 6° posto nelle mete preferite per il 2014 dai capitali di Pechino, però, è grazie a operazioni come l’acquisto del 35% di CDP Reti (che ha in pancia il 28,98% di Snam e il 29,85% di Terna) da parte del colosso pubblico cinese State Grid Corporation, per un esborso di 2,8 miliardi di dollari. Sommiamo a questo le partecipazioni in Enel e Saipem, o le acquisioni di Krizia e dell’olio Sagra: si capirà perché qualcuno abbia mano facile nell’agitare lo spauracchio della svendita del patrimonio industriale italiano.
«Con questo nuovo tipo di alleanze fra Pmi italiane e cinesi, ogni alibi viene a cadere - sostiene Giovannini - personalmente, le ritengo un’ottima opportunità nel campo dell’alimentare e della ristorazione: per i cinesi, l’Italia è la patria del bel vivere e della cucina migliore al mondo. Ma se nella moda per loro il brand è tutto, nel food non saprebbero distinguere un marchio dall’altro. Per loro, è tutto caffé italiano, o sono tutti spaghetti made in Italy. Il che, tradotto per noi, significa pari opportunità anche per le aziende più piccole e meno conosciute». Ora, insomma, con la Cina si può iniziare a fare business. E l’Expo, manco a dirlo, sarà il volàno d’oro.
Tra i target della Cina all’estero, si legge nel rapporto di Kpmg, il settore del food ha un posto di prima fila. Dopo gli scandali alimentari, tra la classe media cinese cresce la domanda di prodotti sicuri e sempre più produttori locali cercano di farvi fronte anche acquistando impianti di produzione in Australia, in Nuova Zelanda o negli Stati Uniti. Anche il settore immobiliare è sugli scudi, complice l’imput a investire all’estero che il governo di Pechino ha dato alle grandi assicurazioni nazionali. Si spiegano così lo shopping di Piang An Insurance, che si è aggiudicata il palazzo dei Lloyd’s a Londra, o quello di Anbang Insurance, che lo scorso ottobre si è comprata il Waldorf Astoria di New York.
Anche le mete dei capitali cinesi all’estero, negli ultimi anni, sono cambiate, mostrando una maggiore attenzione per le tecnologie e i servizi. L’anno scorso, delle prime dieci più grandi operazioni di M&A della Cina, nove sono avvenute nei Paesi avanzati: cinque anni prima, le maxi-acquisizioni in Occidente erano state soltanto quattro.
La nuova fase dell’espansione all’estero di Pechino passa infine dal cambiamento dei soggetti che la portano avanti: sempre meno grandi conglomerate di stato, sempre più aziende private. Come si conviene a un’economia moderna. Nel 2014 il 41% delle acquisizioni realizzate all’estero è stato ad opera di società private. Nel 2010 questa percentuale sfiorava appena il 10%: tutto il resto, erano operazioni - prevalentemente nel settore delle materie prime - condotte dalle aziende di Stato di Pechino.
Del resto, questo innalzamento di livello dell’economia cinese lo si vede anche nella composizone degli investimenti stranieri in entrata in Cina: l’anno scorso quelli nei servizi sono aumentati del 7,8%, mentre quelli nel manifatturiero sono diminuiti di oltre il 10 per cento.

Corriere 16.2.15
Il rosso e il nero di Dickens
di Pietro Citati


Con la sua prodigiosa sensibilità istintiva, Charles Dickens avvertì che nella realtà esistono due universi, morali, psicologici, simbolici: quello del caldo e del colore (specialmente il rosso) e quello del gelo e del nero. Questa opposizione tra caldo e freddo, tra rosso e nero è molto più ricca, comprensiva e drammatica di quella che, da secoli, oppone il bene al male nelle chiese e nei libri.
Se vogliamo conoscere l’universo «rosso» nella sua purezza, dobbiamo aprire il David Copperfield (Einaudi, traduzione di Cesare Pavese), alle incantevoli pagine dedicate ai Peggotty e alla loro barca-casa sulla spiaggia di Yarmouth. Clara Peggotty, la domestica-balia di David, ha guance e braccia così sode e rosse che David si chiedeva «come mai gli uccelli non le beccassero a preferenza delle mele». La barca-casa è tutta colorata. Persino le vignette della Bibbia , così tetra sulla bocca dei predicatori, mostrano Abramo vestito di rosso, Isacco d’azzurro, Daniele giallo, i leoni verdi: la coperta multicolore di David «fa male agli occhi tant’è fiammante». Il bianco delle pareti squilla come il latte: le aragoste, i granchi e i gamberi, ammucchiati vivi in una rimessa, si preparano a diventare rossi nella cottura; e quando il signor Peggotty si lava nell’acqua bollente, esce talmente rubicondo che David pensa «che la sua faccia abbia questo in comune con le aragoste, i granchi e i gamberi — che entra nera nell’acqua bollente e ne esce tutta rossa». La famiglia di Peggotty è la vera famiglia dickensiana, senza il padre e la madre naturali e le costrizioni del sangue: raccoglie degli orfani, degli errabondi e dei sopravvissuti sotto la protezione di una mano amorosa. Essa è l’Arca dove gli animali vengono accolti nella barca-casa di Noè: il tiepido nido familiare, il piccolo mondo chiuso e protetto, dove creature sperdute si scaldano al calore del reciproco affetto, senza temere il vento che ulula al largo del mare.
Di fronte all’Arca di Peggotty, Dickens dispone, come il loro rovescio speculare, i tetri e sadici personaggi che fecero scoppiare in lacrime Henry James bambino. Ecco il signore e la signora Murdstone, con i neri occhi loschi, i capelli e i favoriti neri, le sopracciglia folte e nerissime: il solido borsello d’acciaio rinchiuso nel carcere di una sacca appesa al braccio con una pesante catenella; due inflessibili e solide casse nere, con solide borchie d’ottone, un enorme cane nero, e l’anima tenebrosa, fosca e metallica.
***
Il carattere di David Copperfield non dipende in nulla dal rosso o dal nero, e nemmeno dal carattere drammatico, concentrato ed esibizionista del suo autore. Come altri giovani protagonisti dei romanzi di Dickens, David è ingenuo, candido, femminile, anche quando scrive e racconta di sé stesso. Egli ha qualcosa di straordinario: da bambino vede e ricorda la propria infanzia, possiede una ricchissima capacità di osservazione, che scorge, uno per uno, uno accanto all’altro, tutti i piccoli frammenti della realtà e li ricompone in un quadro. Spia: è il dono dei grandi scrittori. E questo dono di osservazione si trasforma a poco a poco: diventa fantasia, visione, dono di prolungare all’infinito le sensazioni e le osservazioni infantili.
Le grandi doti di David sono quelle di essere flessibile e ondivago: ciò gli permette di avvicinarsi alla realtà, di avere simpatia per essa e di rappresentarla, diventando il tramite tra Dickens e il mondo. In compenso, come lo accusano Agnes e zia Betsey, egli manca di fermezza, di energia, di risolutezza, di decisione, di carattere: soprattutto di quel carattere che siamo abituati a definire virile. La storia del libro è di come David, a poco a poco, acquisti la forza di cui è privo, trasformando la sua natura flessibile in un carattere fermo. Imparando la stenografia, per esempio, egli educa in sé stesso quella paziente e diuturna energia che prima gli mancava. Quando comincia a scrivere, la perseveranza è la sorgente del suo successo. «Non avrei potuto fare quanto feci — egli dice — senza le abitudini di puntualità, ordine e diligenza», senza la risoluzione di concentrarsi su un solo dato alla volta. «Non posseggo un solo dono naturale che non abbia sforzato», insiste: mentre Dickens possedeva un immenso dono naturale, che non aveva nessun bisogno di sforzare e di costringere.
Come si usa dire, David è vittima di un potentissimo complesso edipico: egli adora la madre pallida, esile e inesistente, che immaginava di essere una madre-bambina e finì per diventare una madre-bambina. Quel topos femminile si stabilisce e si fissa nella sua anima; e, dopo di allora, egli non può amare che una donna bambina, una moglie bambina, che ripete tutti i caratteri della madre. Dora Spenlow era «affascinante, infantile, occhilucente, adorabile»: non voleva che si parlasse mai, intorno a lei, di «cose pratiche», e persino le sue zie erano degli uccellini saltellanti, che camminavano frusciando, come se i loro vestiti fossero fatti di foglie autunnali. «Ero immerso in Dora. Non soltanto ero innamorato di lei dalla testa ai piedi, ma ne ero imbevuto tutto quanto». David non voleva che Dora crescesse, egli stesso non voleva che il suo amore diventasse adulto, come di solito accade tra un uomo e una donna.
* * *
In collegio David Copperfield conosce James Steerforth, che ha sei anni più di lui, e diventa il fondamento e l’ala della sua vita. Le pagine che Dickens gli dedica sono un meraviglioso saggio sul fascino: il più bello che sia mai stato scritto. C’era nel modo di fare di Steerforth una disinvoltura — un modo gaio e leggero, non ostentato — che portava con sé una specie di incanto. «Credo che in virtù di questi portamenti, dei suoi spiriti vitali, della sua voce deliziosa, del viso e dell’aspetto bellissimo, e per quanto ne so io, in virtù di un’innata potenza di attrazione (come credo che ben pochi posseggano) egli portasse con sé un fascino al quale era naturale debolezza abbandonarsi e a cui ben pochi sapevano resistere».
Molti accenni fanno supporre che, nel rappresentare Steerforth, Dickens pensasse a Byron: come lui, era un dilettante di sensazioni, che provava e sperimentava tutte le cose. La coscienza di riuscire a sedurre sempre nuove persone gli ispirava una nuova delicatezza di percezione. Ma ogni sensazione era anche un gioco brillante, giocato con l’eccitazione del momento, nello spensierato gusto della superiorità. Afferrava e possedeva tutte le persone e le cose: poi si annoiava di loro e le buttava via, come spugne, come stracci. Liberandosi per un momento da Steerforth, Copperfield gli disse: «Ciò che mi stupisce in voi, Steerforth, è che vi contentiate di fare un uso tanto volubile delle vostre facoltà». Steerforth era volubile: ma non si accontentava affatto della propria volubilità, sebbene non facesse che cercare sempre nuove sensazioni ed emozioni. Come quella di Stavrogin, l’eroe dei Demòni di Dostoevskij, la sua anima era vuota e gelida: non poteva piegarsi a passioni, persone e mete; dominata dal tedio, inseguiva sensazioni sempre più frenetiche, la distruzione e la morte.
Il giovane Copperfield — l’orfano, il nonamato, il derelitto, che non possedeva nessuna delle qualità di Steerforth — lo amava con una travolgente passione femminile: qualcuno direbbe con un vero raptus omoerotico. Il fascino di quell’angelo colpevole, dalle grandi ali nere bagnate di luce, travolgeva senza limiti David, felice di essere un oggetto infantile nelle mani di lui. La sera Steerforth, disteso nel lettuccio del collegio Salem, non riusciva a prendere sonno; e mentre avanzavano le ore della notte, David gli raccontava, confondendoli e mescolandoli l’uno con l’altro, tutti i libri che aveva letto — il Don Chisciotte , Gil Blas , Robinson Crusoe , Tom Jones , Il Vicario di Wakefield , R oderick Random , Le Mille e una notte —, come la sultana Schahrāzād inganna la morte raccontando al suo signore le complicate storie di Oriente. L’istinto fabulatorio di David Copperfield nasce così: nella notte e nell’ombra, dal cui alone romanzesco resta fasciato; dal desiderio dell’orfano femmineo di vincere l’esclusione e la separazione, dall’ansia di salvarsi, di servire e adorare, propiziando l’angelo protettore.
Tra i culmini del David Copperfield si estende la sterminata pianura delle lacrime e del riso. Più si legge profondamente il romanzo, più ci si rende conto che il riso più sgangherato e le lacrime più commoventi sono esattamente la stessa cosa. Il riso nasce da tutto: dall’orrore e dalla tragedia: dall’eccesso di emozioni e di sentimenti, come i bottoni di Clara Peggotty, che saltano e schizzano via, ogni volta che piange o è commossa. Tutto fa ridere: persino Uriah Heep, che è certamente la persona più malvagia del libro, è un concentrato ineguagliabile di comicità e di virtuosismo grottesco — con i suoi repellenti occhi rossi e insonni, con le sue mani fredde e umidicce, con le righe sulle guance che fingono il sorriso, le narici dilatate e contratte, le contorsioni serpentine del corpo, e l’espressione ripetuta: «sono soltanto una persona umile».
Dall’altra parte del romanzo c’era Agnes. «Il suo viso era calmo e felice, aveva intorno una calma — uno spirito di pace, di bontà, di pacatezza — che non ho più dimenticato e non dimenticherò mai». Il suo fare modesto, ordinato e placido esercitava un influsso benefico sul cuore altrui: «Agnes, la mia dolce sorella, il mio consigliere e il mio amico, il buon angelo della vita di tutti coloro che entravano sotto il suo tranquillo, benefico, disinteressato influsso». Agnes era una massaia: aveva tutte le virtù che la madre di David e Dora Spenlow non possedevano; conosceva la realtà, la placava, la vinceva, la dominava e la trasformava in una pianura celestiale. David commette un immenso errore: non la ama e non la sposa appena la conosce: si innamora di Dora, il doppio di sua madre; e solo dopo aver errato a lungo nella «pianura della dissimilitudine», arriva nella distesa celeste di Agnes. Là tutto è come una volta: là apprende che lei «l’ha amato per tutta la vita». «Stretta tra le mie braccia tenevo la fonte di ogni nobile ispirazione avuta fino a allora; il centro di me stesso, il cerchio della mia vita, mia moglie; che amavo di un amore fondato sulla roccia».
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Tutta la narrazione del David Copperfield , sebbene affondi in un passato che diventa sempre più ricco, è portata al presente, che coincide con lo sguardo affabulatorio di David: il presente del tempo; non quello assoluto di Dio, che Dickens ignora. Segno del presente è la rappresentazione dei personaggi, la quale non esclude l’analisi psicologica ma la traduce in violenti, robustissimi, ripetuti tratti fisici, come nel caso della signorina Dartle. «Guardando lei fissa, vidi il suo viso affilarsi e impallidire e la traccia dell’antica ferita allungarsi finché non passò il labbro sformato e affondò in quello inferiore, traversando la bocca di sghembo». Queste rappresentazioni fisiche del viso torneranno, con straordinarie somiglianze, in Guerra e pace e in Anna Karenina . Come sempre, Dickens, così molteplice e polimorfo, non si accontenta dei precisi lineamenti fisici: corteggia l’inesprimibile; l’espressione fisica del sentimento si capovolge nell’indefinito, nell’«orrore di non so che», perdendosi nel puro enigma in cui egli bagna così volentieri.

La Stampa 16.2.15
Ai politici inglesi servirebbe lo psicologo
Alistair Campbell, ex portavoce di Blair: con l’analisi migliorerebbero le performance
di Maria Corbi

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La Stampa 16.2.15
Borgna, bilancio sentimentale di uno psichiatra
di Luigi La Spina


Un viaggio affascinante sul crocicchio più misterioso della nostra vita: dove il tempo di tutti, quello dei nostri orologi, si scontra con quello di ciascuno. Là dove la regolarità dello scatto delle lancette si allunga nella noia o nel dolore, si affretta nella speranza o nella gioia e s’arresta nel brivido della paura.
È quello che uno dei più illustri psichiatri italiani, Eugenio Borgna, fa compiere anche al lettore comune, ignaro dei labirinti della specialità medica più intrigante, ma curioso di scendere nella profondità delle nostre emozioni, con l’ultimo suo libro, edito da Feltrinelli e intitolato, appunto, Il tempo e la vita. Un viaggio a tre tappe, quella della letteratura, quella dell’esperienza di una vita professionale spesa sul confine tra sanità e follia, e quella più intima dell’autore, il quale sembra tracciare quasi un bilancio sentimentale e culturale della sua esistenza. Così Pascal, Leopardi, Proust, Rilke, indagatori rabdomantici del tempo, anzi dei mutevolissimi tempi della vita, sembrano dialogare, attraverso i secoli e in una sorprendente miscellanea di voci, con le parole dei pazienti di Borgna. Tutti ugualmente incantati e stupefatti dalle dolcezze della malinconia, dalle asprezze dei rimpianti, dalle stanchezze divoranti del tedio di una esistenza privata di ogni fine. Sullo sfondo dei bagliori di ricordi che si affacciano nella memoria dell’autore bambino.
Passato, presente e futuro, triade mirabilmente esplorata da sant’Agostino, sono ripercorsi da Borgna, nei tempi non misurabili delle nostre anime e negli spazi dilatati dalla sofferenza o ristretti negli attimi della felicità, alla ricerca di un significato della nostra vita. Il libro, proprio all’ultimo capitolo, suggerisce la chiave per trovarlo. Il segreto è quello di «ascoltare nel silenzio» le parole di coloro che ci circondano. Una formidabile lezione di inattualità nelle nostre frenetiche e forse assurde giornate e, proprio per questo, ancor più preziosa.

Corriere 16.2.15
Si potrà leggere il pensiero, ecco opportunità (e rischi)
di Edoardo Boncinelli


Sorseggiando un Campari potremmo leggere nella mente dei nostri simili. Una battuta? Fino a un certo punto. La rivista Science ha infatti pubblicato un metodo rivoluzionario per osservare l’attività di un singolo neurone nel cervello di un animale vivo e in attività. Il metodo prende il nome di CaMPARI dal reagente fondamentale, basato sulla messa in rilievo di molecole di calcio opportunamente modificate e introdotte sotto forma di integratori alimentari. Si mette così in rilievo la prima attivazione di una singola cellula nervosa.
Esistevano già metodi per osservare i neuroni, ma non in vivo. Ed è questo a interessarci di più, per potere avere un’idea di attività nervose istantanee in animali superiori. Il metodo è stato infatti provato in moscerini, larve di pesci e topi, ma sono l’uomo e il suo cervello l’obiettivo finale. Che cosa si può studiare così? I meccanismi di apprendimento, sonno e risveglio oltre ai processi di strutturazione del cervello, che matura mentre funziona, anzi perché funziona. Si è visto ad esempio che la corteccia ottica, che nell’adulto elabora gli stimoli visivi ricevuti, si sviluppa sulla base di segnali nervosi fittizi e spontanei provenienti dalla retina di un occhio in via di sviluppo. In altre parole, la visione è preparata da processi spontanei programmati che hanno luogo durante lo sviluppo embrionale.
Riusciremo a leggere nel pensiero? Certamente sì, anche se al momento non è chiaro se con questo metodo o con il perfezionamento della risonanza magnetica. E soprattutto a distanza, perché è questo l’obiettivo finale: consigliare e magari persuadere le persone. Un consulto medico, una psicoterapia o una generica richiesta di pareri saranno così drammaticamente semplificati. Certo: tutto ciò può anche essere usato per imbrogliare e sedurre le persone. La scienza crea le opportunità; adoperarla per il bene o per il male dipende da noi. E dalla natura della società di domani. Occorre imparare per anticipare il futuro e forgiarlo per il meglio.

Corriere 16.2.15
Il sogno del Cern, trovare la «supersimmetria»
Gli scienziati: con un po’ di fortuna sarà una scoperta più importante del bosone di Higgs


Dalla California arrivano ventate di ottimismo sul futuro della nostra conoscenza: «Entro la fine dell’estate con un po’ di fortuna potremo essere in grado di “acchiappare” il gluino», ha detto infatti alla Bbc Beate Heinemann, la scienziata di Berkley portavoce del progetto Atlas del Cern.
C’era la nostra Fabiola Giannotti nel ruolo dell’americana Heinemann quando nel 2012 venne trovato il bosone di Higgs. E adesso che LHC, l’acceleratore del Cern, il più potente del mondo, sta per riaccendere i motori (probabilmente in marzo), il nuovo obiettivo è trovare il «gluino», ovvero la particella supersimmetrica del gluone (la particella colla dei quarks). «Sarebbe come la scoperta dell’America per Colombo», dice Luciano Maiani, l’accademico dei Lincei che da direttore del Cern (tra il 1999 e il 2003) mise per la prima volta in moto L’ LHC.
Trovare il gluino vorrebbe dire spalancare le porte su un mondo nuovo. Primo perché si potrebbe finalmente provare la teoria della supersimmetria. E, soprattutto, perché si potrebbe partire alla scoperta della natura della Materia oscura.
Non è esattamente un dettaglio la conoscenza della Materia oscura che, infatti, costituisce oltre il 90 per cento del nostro universo.
È più di una ventata di ottimismo quella che arriva dalla California: «La scoperta di questo nuovo mondo per me è molto più eccitante di Higgs», gongola la dottoressa Heinemann.

Il Sole 16.2.15
Così finirà il mondo: ecco gli 8 modi in cui l'umanità rischia di scomparire
All'epoca della Guerra Fredda (1948-89) non c'erano dubbi: il mondo sarebbe finito con l'Olocausto nucleare
Ma nel 2015 sono comparse anche altre sinistre minacce, dalla ribellione delle macchine alla catastrofe climatica
Ecco i risultati della ricerca del Future of Humanity Institute dell'Università di Oxford e della Global Challenges Foundation
di Enrico Marro

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