mercoledì 18 febbraio 2015

Repubblica 18.2.15
La religione incompresa
La cultura moderna, la nostra cultura illuministica, è nata e si è radicata per domare il potere del fenomeno religioso
Ma la convinzione di averne ridotto la forza le si è ritorta contro
di Nadia Urbinati


A COMMENTO dell’attacco criminale degli estremisti islamici ai vignettisti e ai giornalisti di Charlie Hebdo , l’intellettuale francese Abdennour Bidar nella sua “Lettera aperta al mondo islamico” ha scritto che gli intellettuali occidentali sembrano aver smarrito la capacità di comprendere il fenomeno religioso. Per molti di loro la religione è un segno che sta per qualcos’altro: la narrativa che sostituisce le ideologie politiche decadute; il mezzo per mostrare contrarietà a leggi e sistemi politici; l’arma per denunciare la discriminazione, la marginalità, l’esclusione.
Certamente, la religione gioca e ha giocato tutte queste funzioni. Del resto, proprio per la sua capacità di muovere la paura e comandare l’obbedienza, ad essa si sono rivolti fondatori di Stati e loro consiglieri per indurre uomini e donne a fare cose che mai avrebbero altrimenti avuto il coraggio di fare. Spiega Machiavelli che solo quando i romani furono portati a sentire la paura della punizione divina i loro capi militari riuscirono a imporre il comando supremo nei campi di battaglia, perché la paura di dio superava quella della morte. Del resto, l’uso politico della religione ha un senso solo perché chi la usa e la mobilita ne conosce il potere tremendo e tragico, che sta oltre la vita e la morte.
La cultura moderna, la nostra cultura illuministica, è nata e si è radicata per domare e de-potenziare questo potere tremendo. Ci è riuscita permeando la vita civile della cultura dei diritti. Ma la convinzione di averne domato la forza le si è come ritorta contro, rendendola incapace di comprendere appieno le risorse di cui la religione dispone, di leggerla come nient’altro che un segno che sta per qualcos’altro, un fenomeno arcaico e un rifugio per chi non ha, per esempio, risorse culturali ed economiche sufficienti. Opium populi .
La religione è un fenomeno radicale che la cultura dei diritti ha modificato ma non cambiato nella natura. Ecco perché essa ha difficoltà ad accomodarsi con la tolleranza, un termine che designa ancora una virtù fredda o una non-virtù proprio perché richiede di accettare l’esistenza di quel che da dentro la propria fede si considera un errore. Come ci ha ricordato Norberto Bobbio in un articolo magistrale, i credenti accettano la tolleranza come una regola di prudenza ma non l’abbracciano come un imperativo o un principio in sé. Ci è voluta la retorica semplice di Papa Francesco per ricordarcelo: «se offendi mia mamma ti mostro il pugno». Certo, mostrare il pugno non è la stessa cosa di usarlo. Ma è bene ricordare che è alla cultura dei diritti che dobbiamo riconoscenza per farci capire appieno quella differenza.
Criticare l’autore di una satira invece di sopprimerlo: qui sta tutta la differenza del mondo. Ma questa differenza è segno che la tolleranza funziona come regola di prudenza, ovvero che sa suggerire comportamenti strategici senza bisogno di cambiare l’attitudine spirituale del credente. Ora, è evidente che se nei Paesi occidentali questa regola di prudenza non costa tanto e funziona abbastanza bene è perché chi la pratica opera all’interno di una cultura etica che è imbevuta di un seme religioso preponderante. La cultura europea ha una sua omogeneità, sia quando parla la lingua della religione che quando parla la lingua dei diritti. E usare la regola della tolleranza mostrando il pugno è tutto sommato un fatto eccezionale. Essere tolleranti tra eguali costa meno, rende l’autocontrollo meno difficile. E soprattutto, ci fa dimenticare la radicalità del fenomeno religioso.
Fa dimenticare che la cultura dei diritti è un bene delicato; che l’abitudine che abbiamo acquisito in questi due secoli di dissentire con ragioni invece che con i pugni non ci ha al fondo cambiati, che la religione non è diventata una filosofia o una visione del mondo come le altre; che, infine, anche il pluralismo, quando riesce a stabilizzarsi, non è proprio lo stesso di quello che si trova nel libero mercato delle idee dove si sceglie tra varie opzioni (diceva Antonio Labriola agli ottimisti positivisti del suo tempo che i valori non sono come “caciovalli appisi” che troviamo già fatti al mercato). Questo per dire che l’argomento che ci invita a considerare le condizioni del dialogo e dei suoi limiti, che ci ricorda la natura irriducibile e radicale della religione, che ci mette in guardia dal pensare che le condizioni materiali di vita siano, al fondo, la sola e vera posta in gioco di chi crede in un dio, è sensato e saggio. Nessuna giustificazione e nessuna tolleranza verso coloro che usano il pugno. Ma sarebbe riduttivo pensare che se la religione è permeabile all’intolleranza ciò è perché le persone non sono abbastanza benestanti, colte, integrate, riconosciute; che il fenomeno religioso sia segno di qualcosa d’altro.

il manifesto 18.2.15
La longevità dei pontefici
«Il papato e altre invenzioni. Frammenti di cronaca dal Medioevo a papa Francesco» di Agostino Paravicini Bagliani: cronaca di un'istituzione che si avvia a completare il secondo millennio di vita, fra solitudini, dimissioni e nuova popolarità

di Marina Montesano

qui

Celebrazioni per la ricorrenza dei Patti Lateranensi a palazzo Borromeo, sede dell’ambasciata Italiana presso la Santa Sede a Roma.

La Stampa 18.2.15
Falso in bilancio
Forza Italia si impunta
Tempi più lunghi
di Francesco Maesano


Al culmine di un pomeriggio di opposizione senza sconti, Giacomo Caliendo lo ammette: «Sì, è vero, sono emendamenti ostruzionistici». Almeno così riporta il collega del M5S Enrico Cappelletti, che ascolta, registra e twitta. Alla fine resteranno sul campo appena cinque emendamenti, esaminati e bocciati, e quella minaccia di far «vedere i sorci verdi» al governo che ieri dopo pranzo ha preso forma al piano ammezzato di palazzo Madama, aula della commissione giustizia del Senato.
Sul ddl anticorruzione Forza Italia ha alzato le barricate, facendo intervenire tutti i suoi commissari su ogni singolo emendamento e obbligando il presidente Nitto Palma ad aggiornare la seduta ad oggi. Il provvedimento è previsto in aula per giovedì 26, ma a questi ritmi è escluso che si possa completare il lavoro in commissione. Tutto perché il governo ha annunciato di essere orientato a presentare direttamente in Aula l’emendamento sul falso in bilancio.
Nel nuovo testo del governo dovrebbero sparire le soglie di non punibilità, sostituite da una differenziazione legata al volume d’affari della società con un doppio binario di pena: da 2 a 6 anni al di sopra di un certo volume d’affari e da 1 a 3 anni al di sotto di una soglia ancora da stabilire. Il viceministro Costa ha provato a tenere la linea dura. «Lo portiamo in Aula», ha detto lasciando la commissione. A quel punto, per tentare di rendere un po’ meno accidentata la strada del provvedimento, il ministro Orlando ha lasciato via Arenula e si è chiuso in riunione con Costa, Nitto Palma e Lumia. Nessun annuncio di una soluzione raggiunta, ma non è escluso che già oggi l’emendamento possa essere mandato in commissione per provare a sbloccare l’iter.
Almeno a sentire il capogruppo Pd in commissione, Beppe Lumia, che ieri spiegava come «l’estensione dell’area della punibilità è un vero passo in avanti. Ora - ha proseguito Lumia - siamo pronti a discutere di questa norma e per questo riteniamo che sia giusto e necessario che il governo presenti in fretta in commissione l’emendamento che traduce l’accordo ritrovato. Apprezziamo la disponibilità dimostrata dal ministro a procedere in tal senso».
@unodelosBuendia

il Fatto 18.2.15
Accordicchi e ostruzionismo: anti-corruzione nel pantano
Forza Italia di traverso, poi con il Pd boccia il raddoippio della prescrizione
di Antonella Mascali


Non c’è ancora nessun testo sul falso in bilancio scritto nero su bianco. Dal ministero di via Arenula ribadiscono che vogliono presentare un emendamento in Aula e non in commissione Giustizia del Senato. Non c’è ancora l’accordo politico. Ieri è cominciata la votazione in Commissione sul disegno di legge anticorruzione, con tutta calma. Appena cinque gli emendamenti approvati su un centinaio.
Le riforme turbo del presidente del Consiglio Renzi sono diesel, anzi a passo d’uomo, con Forza Italia che fa ostruzionismo. Salvo quando nel pomeriggio si è rivisto il patto del Nazareno: la maggioranza e gli Azzurri hanno bocciato insieme un emendamento di M5s, votato anche dal Carroccio, che proponeva il raddoppio dei tempi di prescrizione per i reati contro la Pubblica amministrazione. “Chissà perché – chiede ironico il primo firmatario Maurizio Buccarella – ma lo abbiamo votato solo noi e la Lega... ”.
SE L’ANDAMENTO dei lavori sarà quello, ci vorranno settimane perché si chiuda su un provvedimento depositato nel marzo 2013, a firma del presidente del Senato Piero Grasso. Ieri, il senatore di M5S, Enrico Cappelletti, ha chiesto al presidente Nitto Palma, forzista, di calendarizzare anche sedute notturne, ma Palma si è riservato di decidere.
Forza Italia si è detta scandalizzata che il governo non presenti in commissione il suo testo, il presidente ha parlato di atteggiamento “poco rispettoso” verso la Commissione.
Il senatore ed ex sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, anche lui di Forza Italia, ha confessato l’obiettivo dell’ostruzionismo. Lo ha fatto in un momento di stizza, quando il capogruppo del Pd, Giuseppe Lumia, lo ha accusato di aver illustrato emendamenti incoerenti. Caliendo, a quel punto, a denti stretti ha ammesso che erano ostruzionistici. Proprio Lumia, insieme al collega del Pd, Felice Casson si è battuto contro le soglie di impunità per il falso in bilancio che gran parte del partito avrebbe voluto presentare. Rispetto al nuovo testo che circola, ma non ufficiale, a cui ha lavorato anche il responsabile Giustizia del Pd, David Ermini, Lumia pensa che sia “buono”, un passo avanti e sta facendo di tutto perché ci sia l’accordo definitivo Pd-Ncd. Accordo che per ora sembra lontano. Lo testimonia anche un nulla di fatto di una riunione ristretta Palma-Enrico Costa-Lumia con la comparsa dello stesso ministro Andrea Orlando. Ecco il vero motivo per cui il governo dice che preferisce presentare l’emendamento sul falso in bilancio in Aula. Ma Lumia vorrebbe la proposta di modifica subito in Commissione, senza rinviare la partita in aula. “Siamo pronti a discutere di questa norma e per questo riteniamo che sia giusto e necessario che il governo presenti in fretta in Commissione l’emendamento che traduce l'accordo ritrovato”. Il testo che gira da lunedì sera prevede: procedibilità d’ufficio, pene da 1 a 3 anni (con prescrizione sostanzialmente certa) per le piccole imprese con un volume d’affari inferiore a 600 mila euro. Per le altre, pene da 2 a 6 se non quotate in Borsa e da 3 a 8 anni per quelle quotate. Negli ultimi due casi, sono possibili le misure cautelari e le intercettazioni.
ANCHE M5S vorrebbe che il governo presentasse l’emendamento in Commissione, ma a certe condizioni: “Che lo presenti entro 48 ore – ci dice il senatore Cappelletti – in modo che possiamo votare e chiudere entro la settimana, altrimenti è meglio che lo porti in Aula, assumendosi la responsabilità di quello che presenterà. Finché non leggiamo il testo non ci fidiamo”.
In merito a Forza Italia, lo stesso Cappelletti su Twitter ha scritto: “Votare il provvedimento anti-corruzione è proprio contro la loro natura”.
La Commissione è stata aggiornata a oggi pomeriggio.

La Stampa 18.2.15
Lavoro: ok le tutele crescenti ma la maggioranza si spacca
L’agenzia unica ispettiva riaccende lo scontro
di Roberto Giovannini


Torna ad animarsi lo scontro sul «Jobs Act» voluto da Matteo Renzi. Quattro sono i fronti aperti in queste ore: la minaccia di referendum abrogativo della delega ipotizzato da Sel e dal leader Fiom Maurizio Landini. La spaccatura tra Pd e Ncd sul parere da dare al decreto attuativo sul contratto «a tutele crescenti» senza più articolo 18. L’imminente varo del decreto attuativo sui contratti precari. La diffusione della bozza del decreto sulla nuova Agenzia unica per le ispezioni sul lavoro.
Insomma, torna a crescere la tensione. Il governo aveva sperato che dopo le polemiche dei mesi scorsi la questione dell’abolizione del reintegro per i licenziamenti scomparisse dalle cronache, ma gli oppositori della riforma alzano il tiro. Maurizio Landini, numero uno Fiom, intende proseguire la mobilitazione senza «escludere nulla»; e considera il referendum abrogativo «una delle possibilità». Una iniziativa sostenuta anche dal deputato di Sel (ed ex dirigente Fiom) Giorgio Airaudo, e invece bocciata da altri dirigenti Cgil, come il leader dei bancari Agostino Megale. Di tutto questo discuterà oggi il direttivo della Cgil, che potrebbe proclamare nuove iniziative di protesta. Per oggi è previsto un incontro tra il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e i sindacati.
In teoria si dovrebbe discutere del merito dei nuovi decreti attuativi sul riordino delle tipologie contrattuali (su cui non dovrebbe cambiare granché rispetto ad oggi), la conciliazione vita-lavoro e l’Agenzia unica delle ispezioni. Ma l’esperienza ha dimostrato l’inutilità di questi incontri per i rappresentanti di Cgil-Cisl-Uil: non c’è nessuna possibilità di discutere i contenuti, e neanche di conoscerli in dettaglio. E ad alimentare l’ira dei sindacati c’è anche la bozza sul nuovo sistema delle ispezioni sul lavoro. La nuova Agenzia unica partirà dal 2016, e integrerà i servizi ispettivi del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, dell’Inps e dell’Inail. Avrà sede principale a Roma e 18 sedi territoriali, con una dotazione organica complessiva di 5982 unità. E vedrà la contestuale soppressione delle Direzioni interregionali (Dil) e territoriali (Dtl) del lavoro, 85 uffici, con il trasferimento del personale amministrativo: circa 1000 unità andranno all’Agenzia e le restanti circa 1760 verranno invece trasferite «anche in soprannumero, all’Inps, all’Inail o alle Prefetture-Uffici territoriali del governo».
Sono previsti risparmi totali per 26,1 milioni di euro. Ai sindacati non piace: sembra di capire perché potrebbe rappresentare un peggioramento di stipendio e condizioni per parte dei dipendenti. E anche perché non verrà discussa con loro.
E infine, l’eterna guerra tra i due ex ministri. Cesare Damiano (minoranza Pd, Commissione Lavoro della Camera) ha fatto varare un parere che chiede che il contratto a tutele crescenti non sia applicato ai licenziamenti collettivi. Ncd vota contro: «È una sconfessione della già timide innovazioni prodotte», accusa Maurizio Sacconi (Ap, Commissione Lavoro del Senato). Deciderà, come sempre, soltanto Renzi.

il manifesto 18.2.15
Caos totale sui contratti
La maggioranza si spacca (Ncd vota contro) sul parere sul "tutele crescenti"
Oggi incontro Poletti-sindacati
La Cgil lancia la mobilitazione per un nuovo Statuto
Nessuna certezza sui decreti attuativi
La promessa di Renzi di cancellare i cocopro slitta al 2016?
Camusso pronta a lanciare legge di iniziativa popolare
di Massimo Franchi

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Corriere 18.2.15
La Buona scuola? Frutti acerbi per tutti (precari inclusi)
Una riforma a metà non salva la scuola
di Gianna Fregonara


Il testo della Buona scuola, anche dopo la profonda revisione di queste ultime settimane, resta una proposta di riforma della professione di insegnante più che una riforma del sistema educativo. È un tentativo comprensibile e ambizioso di modernizzare la scuola attraverso gli uomini e le donne che ci lavorano. I due pilastri su cui si reggeva la proposta presentata a settembre non hanno retto al tentativo di essere trasformati in legge. Il primo, il sistema degli scatti solo premiali per i due terzi degli insegnanti di ogni scuola, è scomparso dal decreto in preparazione. Nelle intenzioni del governo, questo avrebbe dovuto innalzare il livello di preparazione, di impegno e di performance degli insegnanti italiani: si è capito che sarebbe stato impossibile da applicare e iniquo nei risultati, oltre che inutile. È stato sostituito da un sistema misto di scatti di anzianità e di scatti di merito assegnati con un più complicato sistema di valutazione della quantità e della qualità del lavoro e dell’aggiornamento degli insegnanti.
Un sistema che funzionerà soltanto, nel suo intento di premiare i più bravi, se ci saranno fondi sufficienti a spezzare quel patto non scritto del «ti pago poco ma ti chiedo poco».
Il secondo pilastro era il mega piano di assunzioni di precari, pensato con la lodevole quanto illusoria idea di chiudere per sempre il problema dei supplenti nella scuola, si sta rivelando inattuabile, quanto meno iniquo ( lo dicono i sindacati) e addirittura dannoso (giudizio della Fondazione Agnelli) per il sistema scolastico perché riempirebbe le scuole di insegnanti spesso senza cattedra in quanto abilitati in materie secondarie e non utili. Mentre per materie fondamentali come la matematica gli studenti continuerebbero ad avere supplenti e altri precari. C’è da aspettarsi che nel decreto si trovi una soluzione migliore, magari quella dettata dai tribunali con le ultime sentenze: assumere a tempo indeterminato chi ha lavorato 36 mesi negli ultimi cinque anni.
La scelta fatta a settembre di impiegare tutti i fondi disponibili per le assunzioni — salvo briciole per gli altri capitoli come l’innovazione tecnologica — e di rinviare la formazione degli insegnanti e le loro nuove competenze al prossimo concorso autorizza a pensare che per una riforma vera anche della professione ci sarà ancora da aspettare.
Lo slogan affascinante — «La scuola che cambia l’Italia» — ha trasmesso l’idea che una riforma della scuola serva a far ripartire il Paese: ma qual è l’idea di scuola che guida la nuova legge? Le parole chiave scelte dalla Buona scuola sono: concorso, alternanza scuola-lavoro, laboratori, autonomia, inglese, Internet, programmi contro la dispersione, formazione, scuole aperte. Tutti istituti o programmi già in vigore da tempo (i concorsi dai tempi della Costituzione) o in via di sperimentazione, ma che finora non hanno funzionato per motivi vari, e che i provvedimenti del governo cercheranno di rilanciare. Norme complicate e la burocrazia hanno frenato le innovazioni ma principalmente sono mancati i fondi e questo si ripeterà.
Dei grandi temi della scuola, a partire da quello che dovrebbe essere il curriculum degli studenti — un’ora di musica alle elementari e una di economia e arte nei licei non bastano —non c’è traccia nelle bozze: davvero così come è impostata la scuola italiana è al passo con i tempi? In passato si era parlato di riformare i cicli, di cambiare le medie, di rendere più flessibile l’ultimo biennio delle superiori, di migliorare l’offerta scientifica, solo per citare i principali temi del dibattito. Ci si attenderebbe che le nuove proposte, contrariamente al testo presentato nei mesi scorsi, parlassero di questo.
Altrimenti, come spesso avviene in Italia, se non si troverà un futuro credibile per la scuola pubblica, la riforma la faranno nei fatti gli studenti. Come dimostrano già i dati anticipati ieri sulle scelte per le superiori: i genitori e i ragazzi considerano che oggi sia utile una formazione scientifica e che servano le lingue, tanto è vero che i due licei con più iscrizioni sono lo Scientifico e il Linguistico. Due genitori su 5 — sono dati della ricerca pubblicata ieri dal Corriere — pensano che i propri figli avranno un futuro professionale all’estero: sarà questa scuola all’altezza di prepararli?

il Fatto 18.2.15
Tutti in fila da Mattarella. Ma lui ha la bocca cucita
di Luca De Carolis


PRIMO GIRO DI INCONTRI DELLE OPPOSIZIONI CON IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA BRUNETTA E SEL CHIEDONO ASCOLTO. LUI PRENDE ATTO (ALTRO CHE

Dal Napolitano che interveniva al Mattarella che ascolta. Un padrone di casa di poche parole: tutte sul metodo. In un martedì mattina simil primaverile, Sergio Mattarella inizia i colloqui con i partiti di opposizione al Quirinale, il primo vero passaggio politico della sua presidenza. E marca la differenza con il predecessore. A parlare, principalmente di riforme e Libia, sono soprattutto gli altri: il solitario Brunetta, ricevuto alle 10, e la delegazione di Sel, entrata alle 11. Il presidente ascolta proteste e preoccupazioni, osserva documenti e lettere. E risponde con un pugno di frasi, promettendo attenzione per le opposizioni, rimaste fuori dell’aula alla Camera sulla riforma costituzionale. Di più non dice e non promette Mattarella, che in giornata riceve la telefonata di congratulazioni di Barack Obama (“un lungo colloquio” secondo la nota del Colle).
A BREVE, quasi certamente la prossima settimana, incontrerà l’M5S e Beppe Grillo, che gli hanno chiesto formalmente udienza il 4 febbraio. Il presidente ha risposto lunedì sera, e Grillo ha subito pubblicato sul suo blog la lettera in cui Mattarella “ringrazia per gli auguri” e assicura: “Sarò lieto di riceverla al più presto”. Al Quirinale dovrebbe salire anche la Lega Nord. Probabilmente senza Matteo Salvini, che ieri su Radio Padania ha ostentato disinteresse: “ Cosa devo chiedere a Mattarella? Chiedergli il numero di telefono del parrucchiere? ”. Parole che hanno provocato “stupore” sul Colle, secondo indiscrezioni riportate dall’Agi. Anche perché l’incontro l’hanno chiesto i parlamentari leghisti, pochi giorni fa. La certezza è che il neo presidente vuole incontrare tutte le opposizioni. Ieri ha iniziato con Brunetta. Solo soletto, il berlusconiano varca la soglia del Quirinale alle 10. Di fronte, oltre a Mattarella, si trova il segretario generale uscente Donato Marra e il suo successore Ugo Zampetti (la sua nomina è stata ratificata dal Consiglio dei ministri ieri pomeriggio): silenti. Il capogruppo alla Camera di Fi presenta subito un documento contro le riforme renziane, come concordato con Berlusconi. Un testo in 25 punti, in cui si protesta contro la “grave forzatura” del governo, per poi sostenere: “Il combinato disposto di riforma costituzionale e legge elettorale porta a un mostro giuridico che pregiudica i principi supremi della Costituzione”. Il resto lo aggiunge in viva voce il forzista: “Presidente, Renzi va avanti a colpi di maggioranza. Noi non potevamo che uscire dall’aula”. Mattarella replica auspicando “la ripresa del dialogo”, spiega che vedere le opposizioni fuori dell’aula lo ha “colpito molto”. Il colloquio dura una mezz’ora.
POI È LA VOLTA della delegazione di Sel, con i capigruppo De Petris e Scotto e il presidente Nichi Vendola. Parla soprattutto lui, che conosce Mattarella dai tempi in cui erano entrambi in commissione Antimafia (anni ‘90). Si lamenta subito del Renzi scappato avanti sulla Libia “con dichiarazioni improvvide”. Poi gli consegna la lettera di un artigiano romano sfrattato. Infine, gli chiede dei segnali sulle riforme, “da garante della Costituzione”. Mattarella assicura attenzione, fa capire che eserciterà la sua moral suasion per chiedere al governo maggiore condivisione. Sul contenuto di legge elettorale e riforma della Carta non entra, neppure di sfuggita. Si sofferma sul metodo, sull’importanza del confronto parlamentare. Davanti ai microfoni, sia Brunetta che Vendola manifestano soddisfazione. Secondo il forzista, “Mattarella userà tutti gli strumenti previsti dalla Costituzione per ripristinare un clima di confronto”. E Vendola: “Abbiamo espresso la preoccupazione che l’umiliazione della funzione parlamentare possa diventare insopportabile quando si tratta delle riforme costituzionali”. A margine, le schegge per Brunetta. La sua ascesa al Colle ha irritato una bella fetta di partito, fittiana e non. Come Maurizio Bianconi: “Di uomini soli al comando a Forza Italia ne basta uno solo, Silvio Berlusconi. Vediamo con disappunto che ce n’è un altro, nato Brunetta, che se ne va al Quirinale con un documento che sicuramente non ha confrontato col gruppo che rappresenta”. Mentre i renziani infieriscono: “Siamo passati da Forza Italia a Forza Brunetta”. Dai 5 Stelle invece continuano ad arrivare segnali positivi a Mattarella. “Vogliamo instaurare un dialogo col nuovo Capo dello Stato visto che col vecchio presidente non c’è stato” afferma la capogruppo alla Camera, Fabiana Dadone. Che aggiunge: “Al Quirinale andremo io, il capogruppo in Senato Cioffi e Grillo”. Ma più d’uno parla della possibile presenza di Casa-leggio. Ipotesi da verificare, per il Movimento che non vede l’ora di salire al Colle.

Corriere 18.2.15
L’ultima tegola sui conti Etruria Emerge una perdita di 400 milioni
La perdita, per ora «congelata», emerge dal preconsuntivo 2014
di Mario Gerevini

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La Stampa 18.2.15
Campania, quarto rinvio
De Luca non si ritira e il Pd vola verso primarie-suicidio
di Jacopo Iacoboni


Ci trasciniamo da prima di Natale, e siamo quasi in vista della Pasqua. Per fortuna che oggi è carnevale e possiamo buttarla in burla.
La battuta sulle primarie in Campania - che ieri sono state rinviate per la quarta volta (si terranno, o meglio, si dovrebbero tenere, non più domenica prossima, ma il 1 marzo) - circolava ieri ampiamente nel pd napoletano, non importa neanche più chi l’abbia detta per prima (probabilmente la deputata Luisa Bossa), ma descrive a metà ciò che rischia il partito democratico dopo la figuraccia in Liguria (brogli e silenzio tombale del leader), una burla che però è anche un suicidio collettivo. Nel momento in cui scriviamo (domani chissà) i contendenti principali rimangono tre, in mezzo a faide inestirpabili e esiti imprevedibili: Andrea Cozzolino, potente democratico napoletano, molto insediato in città (e nelle disperate periferie), da sempre capace di mobilitare truppe consistenti, anche al centro di enormi polemiche (non solo per i cinesi e le primarie annullate nel 2011); Vincenzo De Luca, il potentissimo sindaco di Salerno, al momento decaduto per via di una condanna a un anno per abuso d’ufficio (ma pende il suo terzo ricorso); e Gennaro Migliore, che è stata l’unica carta trovata da Renzi per provare a scardinare un minimo gli insediamenti di correnti e sottocorrenti (nel napoletano si arriva anche a sei-otto sottocorrenti dentro il partito). Il problema è che Migliore - che è comunque il primo tentativo che Renzi fa sui territori per rompere un po’ con gli assetti di potere locali - è debole, almeno se De Luca non si ritirerà e deciderà di aiutarlo. La qual cosa, nonostante il pressing di Luca Lotti (che gli ha fatto balenare un posto da sottosegretario, o un cda di una partecipata), non è finora avvenuta. Lotti stavolta sta fallendo, col vecchissimo osso duro De Luca, che insiste nel dire «chiedere a me di ritirarmi è come chiedere a Maradona che sta facendo la finale della Coppa Campioni: te ne vai in panchina?». E anzi, attacca: «Con questo ulteriore rinvio di copriamo di ridicolo». Dice che solo se Renzi convincesse Raffaele Cantone a candidarsi lui si farebbe da parte. Ma Cantone resiste e dunque, per ora, il suicidio collettivo può andare in scena.
Renzi non le vuole, queste primarie. Ma il tempo e le idee per evitarle latitano.

il Fatto 18.2.15
Grillo. Il blog precipita nella classifica dei big


Nove anni fa era tra i primi dieci siti di informazione più consultati, preceduto da Cnn, Bbc e Usa Today. Tre anni dopo, Forbes lo presentava come settima web star del mondo (basandosi sui dati di traffico elaborati dalla società di monitoraggio Alexa). Oggi, il blog di Beppe Grillo ha fatto un enorme balzo indietro. Beppegrillo.it   non attira più e, secondo i dati ottenuti dagli stessi siti di monitoraggio di qualche anno fa, la piattaforma del leader del Movimento 5 Stelle è arrivato al 154esimo posto in Italia e al posto n. 7488 nel mondo. A diffondere per primo queste stime è il settimanale Oggi: è vero che si tratta di proiezioni suscettibili di cambiamento, ma un cambiamento tale da riportare il sito ai fasti dei primi tempi è comunque inverosimile. I numeri sono stati confermati anche da altre società. Secondo Traffic Estimate, il blog è passato da 5 milioni di visite a giugno a 2,2 milioni. E Calcustat.com   gli assegna un ranking di fascia C. Per fare un confronto, la fascia A è attribuita ai siti come quelli del Fatto Quotidiano, di Repubblica e del Corriere della Sera. La B per il sito de La Stampa. Sul fronte social, nella classifica delle pagine Facebook dei politici che ottengono il maggior numero di “Mi piace”, Grillo resta al comando con 1, 776 milioni di apprezzamenti. E tra i primi undici ci sono anche i grillini Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio e Paola Taverna.

Corriere 18.2.15
Scrittori, attori e politici «Presero soldi in nero dal Grinzane»
Torino, l’appello all’ex patron del premio. Chiamparino e Bresso chiamati in causa Augias: «Io vorace e indecente? Sono sconvolto, si sta vendicando» Placido: «Ha detto solo fesserie»
di Luca Mastrantonio


MILANO «Guardi, è una tale enormità, Madonna... sfiora l’indecenza!». Finisce così la conversazione telefonica con Corrado Augias, iniziata nella tarda mattinata di ieri, quando il giornalista e scrittore aveva appreso, filtrata nei toni, l’accusa di Giuliano Soria. L’ex patron del premio letterario Grinzane Cavour, condannato a 14 anni e sei mesi per peculato e violenza sessuale, all’apertura del processo di appello, ieri, ha indicato Augias nella lista di presunti destinatari di pagamenti in nero per il premio. «La cosa mi ha sorpreso — esordisce Augias —, stiamo parlando di alcune migliaia di euro ricevute per rimborso spese o come premio letterario, di cui ho dato conto all’Agenzia delle entrate. E poi sono passati, quanto? Dieci anni? Per dire: Soria mi chiese di presentare Orhan Pamuk, premiato nel 2002; autore che per altro non conoscevo. Ecco, il valore del Grinzane era la capacità d’intercettare anzitempo grandi autori mondiali».
Come Pamuk, che riceverà il Nobel nel 2006, altri futuri Nobel sono stati premiati con il Grinzane internazionale: Gunther Grass, J. M. Coetzee, Doris Lessing, V. S. Naipaul e Mario Vargas Llosa. In trasferta a New York, il Grinzane premiò anche Philip Roth, del quale, al processo, ieri, Soria ha detto: «Per farlo venire non bastavano 30 mila dollari». Le cronache dell’epoca parlavano di un assegno da 25 mila euro. Ma più delle presunte cifre, colpiscono i giudizi di Soria. L’atteggiamento di Augias, infatti, cambia dopo aver appreso che in aula è stato descritto da Soria come «il più vorace, assillante sui pagamenti in nero. Sfiorava l’indecenza». A questo punto Augias sbotta: «Guardi, non è assolutamente vero, mi sgomento, cado dalle nuvole. Si tratta di un insulto personale. Non so, sembra una vendetta personale. Nella mia lunga vita nessuno mi aveva detto qualcosa del genere, siamo alla calunnia». Quale può essere il motivo di un tale attacco? «Non riesco a seguire nessun ragionamento, sono sconvolto, devo assorbire la cosa».
In serata, Augias scrive una lettera in cui si riserva di «esaminare gli atti processuali per valutare un’azione di risarcimento danni». C’è spazio anche per un ricordo personale, ora amaro: «Anni fa, nella casa di Quai St. Michel a Parigi, alla presenza tra gli altri di sua madre, Soria ebbe parole di così grande apprezzamento e simpatia da spingersi a offrire a mia moglie Daniela Pasti di lavorare per lui».
Chi non ha ricordi, né amarezza, è Giancarlo Giannini, anche lui indicato da Soria: «Chi? Sorìa, Sòria, Sorél non so chi sia. Un premio? Mi coprono di premi! Alla carriera, sperando che io muoia. Comunque se insiste — dice accelerando la voce — lo querelo, così mi prendo i suoi soldi... Neri!».
L’ha presa molto sul serio Michele Placido: «Sporgerò querela. A Sorì, che vuol dire che nel mondo dello spettacolo si paga tutto in nero? Che vuol dire? Che il Piccolo di Milano che ospiterà la mia compagnia mi pagherà in nero? Che fesseria!». Certo, aggiunge, ci sono delle ambiguità: «Per Romanzo criminale ho ricevuto il Premio di Qualità del ministero della cultura: 20 mila euro. Esentasse, uno dice: lo Stato che fa, si tassa sui premi che dà? Sì! La Guardia di Finanza mi ha fatto un controllo e una multa da diecimila euro. Soria forse ha giocato su queste ambiguità per intascare meglio, ma a me non mi frega».

La Stampa 18.2.15
Se il Rosario si recita in azienda
Parte da Torino l’iniziativa di “Impresa Orante”: dire il rosario nei luoghi di lavoro per combattere la crisi e riscoprire il valore educativo della preghiera
di Mauro Pianta

qui

il Fatto 18.2.15
Ultimatum, Perché Atene sta già per capitolare
di Stefano Feltri


Il bluff sta per finire: domani si capirà se la Grecia di Alexis Tsipras preferisce tradire le sue promesse elettorali o uscire dall’euro e dall’Unione europea. Secondo le indiscrezione che Bloomberg rilanciava ieri sera, il governo greco sarebbe orientato a chiedere un’estensione del programma imposto dalla Troika che scade il 28 febbraio. Ci saranno condizioni un po’ diverse, certo, ma alla fine Angela Merkel potrà spiegare agli elettori tedeschi che i greci rimangono sotto la tutela europea e non vengono lasciati liberi di cancellare tutte le riforme dell’austerità di questi anni. Tsipras spiegherà in Grecia che ha vinto perché la Troika non si chiamerà più Troika, anche se i creditori (Unione europea, Fondo monetario, Bce) continueranno a vigilare sui 240 miliardi che hanno prestato alla Grecia in questi anni.
La rottura dei negoziati lunedì sera all’Eurogruppo ha spinto tutti a riflettere sull’ipotesi che davvero Atene possa essere congedata dall’Unione e dall’euro: niente riforme e niente austerità significano niente più finanziamenti a uno Stato che ha le casse vuote. Sempre Bloomberg ha raccontato il clima al vertice dell’Eurogruppo a Bruxelles: il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, avrebbe “perso le staffe” e spiegato al suo omologo greco Yanis Varoufakis che rimanere nell’euro “è una decisione interamente nelle mani della Grecia”. E il premier Tsipras ha ripetuto che “l’austerity è morta” e che non accetta compromessi.
MA LA POLITICA si ferma dove cominciano le esigenze concrete della finanza. Le banche greche stanno affrontando da dicembre, quando sono state convocate le elezioni anticipate, una fuga di capitali verso l’estero, almeno 7,6 miliardi di euro. Fiumi di denaro continuano a lasciare il Paese, come dimostra la decisione della Bce di Mario Draghi di alzare da 60 a 65 miliardi la linea di credito di emergenza Ela in questi giorni di tensione. E, secondo la stampa greca, non sarebbero già più abbastanza. Sul Financial Times di ieri l’economista tedesco Hans-Werner Sinn sottolineava il paradosso di questa situazione: “In definitiva i cittadini degli altri Paesi europei, senza che nessuno li abbia consultati, stanno fornendo credito a proprio rischio e pericolo per consentire ai greci benestanti di spostare i loro capitali al sicuro”. I piccoli risparmiatori o i tanti ateniesi ridotti in povertà dalla austerità non hanno ingenti depositi da spostare all’estero. I ricchi – spesso evasori – invece sì. Hans-Werner Sinn suggerisce quindi che ci dovrebbe essere un blocco ai movimenti di capitale, come a Cipro nel 2013 durante la crisi bancaria che portò all’arrivo della Troika. Una crisi bancaria spingerebbe la Grecia fuori dall’euro ma le misure che servono a evitarla certificherebbero comunque la fine della moneta unica. Per questo Tsipras non ha altra scelta se non cedere.

La Stampa 18.2.15
Che cosa succede ad Atene se l’accordo non si trova?
I soldi bastano solo per un mese: poi il rischio è la bancarotta

E’ uno dei litigi interni più feroci della storia dell’Ue. Messa al tappeto dalla crisi finanziaria esplosa nel 2007, la Grecia s’è trovata con troppo debito e senza i denari per finanziarlo. Europa, Bce e Fmi hanno costruito un programma di salvataggio, 240 miliardi di prestiti condizionati a una serie di riforme strutturali destinate sulla carta a rendere competitiva l’economia ellenica. Il controllo del rispetto degli impegni presi da diversi governi ellenici è stato affidato alla famigerata Troika, il terzetto dei creditori internazionali. Il pagamento di ogni rata è stato vincolato alla realizzazione delle promesse. Dopo essere precipitato, il pil è tornato crescere (+1% nel 2014), ma la disoccupazione resta a livelli insostenibili (26%,6).
Perché la trattativa è urgente?
«Il programma d’aiuti scadeva a fine 2014 ed è stato prorogato sino a fine febbraio. Se non verrà rinnovato, o esteso, la Grecia dovrà andare sul mercato da sola per finanziarie l’immenso passivo pubblico (176,3% del pil a dicembre). I tecnici greci affermano di avere soldi per un mese. Solo in marzo scadono 4,3 miliardi di titoli, mentre poco meno di un miliardo va reso al Fondo. Tsipras può accettare di allungare l’aiuto della Troika. Oppure può far da solo e rivolgersi ai mercati, dove il denaro gli costerebbe oltre il 10%. Sarebbe l’inizio della bancarotta, dunque della possibile sortita dall’eurozona. A meno che non intervenissero prestatori esterni, magari la Cina o la Russia. Difficile».
Cosa offre l’Europa?
«Invitano Atene a chiedere una estensione tecnica di sei mesi del programma esistente come mossa temporanea. In questo modo, si potrebbe guadagnare i giorni necessari per discutere un nuovo accordo. Nel semestre, i greci dovrebbero mantenere buona parte degli impegni precedenti, in termini di riforme e controllo dei conti pubblici. Ogni misura tolta andrebbe compensata con un’altra per non mettere a rischio la stabilità».
Come risponde la Grecia?
«Alexis Tsipras ha vinto le elezioni promettendo uno stop all’austerità e la liberazione dalla Troika per risolvere la “crisi umanitaria” greca. La via d’uscita proposta insieme col ministro dell’Economia, Yanis Varoufakis, consiste nell’archiviazione del vecchio programma e nella definizione di una intesa che chiamano “Contratto a lungo termine”, ancora soldi e riforme, ma con un mix differente. Nel frattempo, chiedono una fase di transizione senza vincoli esterni e senza controlli. Un allungamento del piano dei prestiti con condizioni a piacere».
Perché l’Eurozona non vuole?
«Il motivo istituzionale è la difesa delle regole, non si può permettere che un solo socio faccia saltare gli accordi del club. Le ragioni politiche sono due: i paesi già usciti dal programma (Spagna, Portogallo e Irlanda) non possono accettare che i greci la facciano franca; gli stessi governi, soprattutto gli spagnoli e i popolari, non possono darla vinta a Syriza per non rafforzare gli emuli locali, nel caso Podemos».
Come finirà?
«Lo stesso Varoufakis ricorda che l’Europa è la terra dei compromessi, dunque questa resta la soluzione più probabile. In caso di rottura, marzo può essere ancora un mese di tempi supplementari estremi per trattare. Sennò Tsipras può liberarsi dall’Europa e restare da solo. Oppure può, insieme con i partner, trovare una formula semantica che permetta a tutti di dire “Abbiamo vinto!”, quindi negoziare in fretta un nuovo accordo. L’alternativa è il crac probabile. Che non conviene a nessuno».

il manifesto 18.2.15
Tsipras cerca una via di uscita
di Antonio Sciotto
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il manifesto 18.2.15
Ilan Pappé: «Se si risolve la questione palestinese, il Medio Oriente cambierà faccia»
Intervista allo storico israeliano
«L'Isis pesca adepti tra i marginalizzati dell'Occidente. Non è una questione religiosa, ma socio-economica. E Tel Aviv lo sfrutta per avere supporto dall'Europa»
di Chiara Cruciati

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La Stampa 18.2.15
Tra le musulmane di Danimarca: “Nessuna pietà per chi uccide in nome del Profeta”
La rabbia delle donne: “Qui abbiamo welfare, asili, efficienza: perché colpire chi ci offre rifugio?”
di Francesca Paci

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La Stampa 18.2.15
Il sogno Usa: libero web in libero Stato
La legge sulla sostanziale libertà della rete divide il Congresso. In ballo c’è la possibilità di privilegiare solo i servizi e i contenuti preferiti dagli operatori internet
di Nicola D’Angelo


Di come funzionano le tecnologie poco si parla in Italia, soprattutto a livello politico. Eppure si tratta di temi che non possono essere riservati agli addetti ai lavori, visti i riflessi che hanno sullo sviluppo della nostra società.
Tra essi si colloca certamente il tema della cosiddetta net neutrality, cioè del funzionamento aperto di Internet. È sotto gli occhi di tutti quanto sia diventato importante l’accesso alla rete e alle sue immense possibilità di conoscenza e di comunicazione. Fino ad oggi siamo stati abituati a navigare senza ostacoli. Con una buona capacità di banda ogni parte dell’universo del web può essere raggiunta. Le cose però in futuro potrebbero cambiare se dovesse essere messo in discussione il funzionamento aperto di Internet.
IL TRAFFICO DATI POTREBBE essere trattato in modo discriminatorio, con priorità e maggiore velocità ai servizi e ai contenuti scelti sulla base delle preferenze degli operatori di rete. Uno scenario preoccupante nel quale anche le affascinanti idee di una libera conoscenza e di una democrazia on line andranno a farsi benedire.
Fortunatamente c’è almeno un paese nel quale l’argomento arroventa le discussioni tra i cittadini e le istituzione. Negli Stati Uniti la diffusa popolarità nazionale dei principi di neutralità della rete ha spinto anche il nuovo Congresso repubblicano ad abbracciare, contrariamente a tutte le previsioni, alcuni dei suoi concetti fondamentali. Con un disegno di legge in discussione nelle prossime settimane, i Repubblicani hanno proposto di vietare ai fornitori di banda larga la discriminazione del traffico web.
Tutto bene dunque? Non proprio. Il progetto di legge, che sembra far rispettare i principi fondamentali della neutralità della rete, mina in modo esplicito l’autorità legale della Federal Communication Commission (l’Autorità americana delle comunicazioni).
Nel dettaglio, la proposta vieta la limitazione dei dati, il blocco e le corsie preferenziali su internet. In cambio però i fornitori di banda larga non dovrebbero essere più classificati ai sensi del titolo II del Communications Act (la legge fondamentale sulle telecomunicazioni) e quindi perdere la qualifica di “servizi essenziali per la comunità”. Così la Fcc non avrà più la competenza a regolarli, in barba anche all’idea di Obama di considerare Internet un servizio di pubblica utilità. In realtà i Repubblicani ritengono che la banda larga deve rimanere un “servizio di informazione”, una denominazione che offre meno possibilità di intervento per il regolatore. In sostanza, a chiacchiere i Repubblicani vogliono la neutralità della rete, mentre privano Internet di possibili maggiori tutele. Alcuni commentatori hanno addirittura ipotizzato che la proposta di legge sia il frutto di una scrittura dei lobbisti dell’industria delle telecomunicazioni per far fronte alla montante marea.
Comunque la si voglia vedere la proposta rappresenta un punto di svolta nel dibattito. La popolarità dell’argomento ha posto un problema ai Repubblicani che non possono sottrarsi all’ampio sostegno che nell’elettorato trova il tema della net neutrality. La gente infatti si sta rendendo conto che è venuto il momento di adottare misure significative e giuridicamente sostenibili per proteggere Internet così come lo conosciamo. Il problema è che vietando solo pochi tipi di discriminazione del traffico si finisce per legalizzare ogni altro tipo di discriminazione. Limitando i poteri dell’Fcc infatti si impedirà in futuro all’Autorità di tenere conto del dispiegarsi degli sviluppi del mondo della rete.
Sarà solo la legge che vieta, mentre l’Fcc non potrà creare nuovi obblighi in capo ai grandi operatori di telecomunicazione. Fortunatamente, nessuna forza politica in America si sogna di andare contro la tutela dei consumatori e la correttezza della concorrenza. Quindi la grande discussione congressuale sarà sulle vere motivazioni alla base della proposta dei Repubblicani.
SOLO UN PROGETTO DI LEGGE che costituisce un tentativo cinico di eliminare il potere della Fcc o invece una genuina iniziativa che introduce un vero cambiamento nel modo di pensare la politica di settore di quel partito? Certo, il disegno di legge non si avvicina a quello che gli attivisti di internet e i democratici chiedono. Evitando la classificazione come servizio essenziale della banda larga e lavorando per rendere impotente l’Fcc, il nuovo Congresso repubblicano sembra suggerire che non vuole veramente la neutralità della rete, ma solo agire di facciata.
Sullo sfondo poi, il potere di veto del presidente Obama, che molto si è speso sull’argomento negli ultimi mesi. Ma anche se fosse, non sarà la fine del problema. A quel punto, i leader della Camera e del Senato richiederanno una rielaborazione bipartisan della legge. E sarà difficile per i Democratici resistere, perché il settore delle telecomunicazioni è straordinariamente generoso con i suoi contributi alle campagne elettorali. Secondo il Centro indipendente Responsive Politics, AT & T, Comcast e Verizon sono infatti tra i primi dieci spender aziendali in lobbying.

La Stampa 18.2.15
Turchia: 800mila tweet in poche ore, la rivolta delle donne corre sui social
A pochi giorni dal brutale assassinio di Özgecan Aslan, pugnalata e bruciata dopo un tentativo di stupro, è partito l’hashtag #sendeanlat (“spiegalo anche tu”): dalle star dello show biz alle donne comuni si moltiplicano nella rete le testimonianze di violenze subite
di Marta Ottaviani
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Repubblica 18.2.15
Nel carteggio tra il filosofo e lo storico la genesi di una visione rivoluzionaria della Resistenza
Quando Bobbio scrisse a Pavone “Ma in Italia fu guerra civile?”
di Norberto Bobbio e Claudio Pavone

Torino, 14 aprile 1987
Caro Pavone, grazie dell’estratto del tuo articolo, molto interessante, che avevo già adocchiato (ndr si tratta dell’intervento di Pavone alla Fondazione Micheletti in cui per la prima volta formula in modo organico la sua tesi sulla Resistenza anche come “guerra civile”). Ma c’è differenza tra adocchiare e leggere: gli estratti servono proprio per questo. Il tema da te affrontato è di grande interesse: non avevo ancora chiaro quanto esteso fosse il riconoscimento della guerra di liberazione come guerra civile: da una parte e dall’altra. Avevo sempre avuto l’impressione che fosse più grande la rimozione da parte degli antifascisti.
E invece non è vero, almeno per quel che riguarda i tempi della lotta medesima (ndr Pavone spiega che la censura della nozione di “guerra civile” era più diffusa nel dopoguerra di quanto fosse stata tra gli stessi resistenti).
La rimozione da parte degli antifascisti è avvenuta sostituendo il concetto di «guerra partigiana » a quello di «guerra civile »: la guerra partigiana non è nel linguaggio tecnico o tecnicizzato una guerra civile, perché è una guerra contro lo straniero, se pure interno, o combattuta internamente. Guerra civile poteva essere soltanto quella contro i fascisti, ma una guerra di liberazione nazionale (di libertà dallo straniero) non può essere considerata nel senso rigoroso della parola una guerra civile. E la guerra dei partigiani fu, nella storia scritta dai vincitori, interpretata esclusivamente come una guerra di liberazione nazionale, un’interpretazione in cui si fece prevalere l’aspetto di lotta contro lo straniero su quello di lotta dell’alleato italiano (considerato come un servo e uno strumento del più potente alleato tedesco). È così?
Grazie ancora e cordiali saluti Norberto Bobbio Roma, 12 maggio 1987 Caro Bobbio, ti ringrazio molto per l’attenta lettura che hai fatto della mia relazione sulla «guerra civile». Quella relazione fu come l’estratto anticipato, e concentrato, di un capitolo del lavoro più ampio per concludere il quale avevo chiesto un anno di congedo (ma mi sono fratturato un ginocchio, e più che biblioteche e archivi ho dovuto frequentare ospedali). L’idea di questo lavoro mi venne dopo il seminario che tenni qualche anno fa al vostro Centro Gobetti. Poi si è sviluppato e anche aggrovigliato. Ho in mente un titolo provvisorio: «Saggio storico sulla moralità della Resistenza italiana». Oltre a intitolare alcuni capitoli a temi quali la scelta, il tradimento, la violenza, ne ho previsti tre che dovrebbero costituire proprio un trittico: la guerra patriottica, la guerra civile, la guerra di classe. Ti scrivo questo per comunicarti che i dubbi che tu esprimi nella tua lettera sulla piena liceità dell’uso del concetto di guerra civile per designare la resistenza sono anche i miei, nel senso che non considero quel concetto esaustivo. Penso invece che esso si combini in modo vario, talvolta nelle stesse persone, con il carattere patriottico (guerra di liberazione) e con il carattere «di classe» che ebbe la lotta. Per un «badogliano» il carattere patriottico poteva essere tutto; per un operaio comunista il nemico ideale e riassuntivo sarebbe stato un padrone fascista e servo dei tedeschi (ma non sem- pre i padroni davano questa soddisfazione agli operai...).
Ti ringrazio ancora e ti ricambio tanti cordiali saluti Claudio Pavone Torino, 10 aprile 1991 Caro Pavone, eccoti il discorso sulla Resistenza, inedito, di cui ti ho parlato ieri alla fine del seminario. Ricordavo di aver parlato delle tre guerre, ma non l’avevo mai più riletto, neppure quando scrissi l’articolo sulla «Stampa» che fu intitolato Le tre guerre, e scrivendo il quale probabilmente avevo in mente, pur senza averle rilette, le cose scritte da te, e lo scambio di lettere che vi fu tra noi due qualche anno fa, e di cui però ho un vago ricordo. Confrontando le tre guerre d’ora con le tre guerre del discorso del 1965 ci sono delle differenze, che mi paiono retrospettivamente di un certo interesse: la seconda guerra nel discorso del 1965 non viene mai chiamata «guerra civile»: segno evidente che allora questa espressione non si poteva ancora usare per una sorta di autocensura; la terza guerra non viene chiamata guerra di classe ma eufemisticamente di «emancipazione popolare» o d’«emancipazione sociale». (...) Cambia così anche il giudizio finale sulla terza guerra: completamente fallita nell’articolo di qualche mese fa, non fallita del tutto ma ancora in fase d’attuazione, nel discorso del 1965. Superfluo precisare che tra il 1965 e il 1990 c’è stato l’evento catastrofico della fine dei regimi comunisti. Il che spiega l’inconsapevole aggiustamento. (...) Norberto Bobbio Roma, 14 luglio 1991 Caro Bobbio, (...) mi sembra che nel discorso del 1965, a parte la diversa terminologia usata per designare le tre guerre, vi sia una meno rigida distinzione dei soggetti che combattono le tre guerre. (...). Ti unisco la premessa e il sommario del volume. Il titolo è frutto di lunghe discussioni con Bollati. La guerra civile ha finito col fare aggio sulle altre due. (...) Claudio Pavone

La Stampa 18.2.15
La nuova Italia nata dalla guerra civile
La triplice vittoria della Resistenza in un inedito del ’65 Che, nella parte finale, evoca il tabù poi infranto da Pavone
di Norbero Bobbio


Dobbiamo giudicare i risultati di un’azione dagli scopi che questa azione si era proposta. Poiché gli scopi del movimento di liberazione erano molteplici, dobbiamo giudicare i risultati della Resistenza tenendo conto di questi diversi piani su cui si dispose l’azione di coloro che vi parteciparono, cioè, ripeto, come guerra patriottica, come guerra per la libertà politica e come lotta per il rinnovamento sociale. Nel suo primo aspetto, la Resistenza mirò a liberare l’Italia dal dominio straniero, e fu un anello della lotta impegnata dagli eserciti alleati per la sconfitta della Germania e il crollo definitivo del nazismo. Sotto questo aspetto, il principale scopo della Resistenza fu quello di staccare le sorti dell’Italia da quelle della Germania e di evitare le tragiche conseguenze di una sconfitta che sarebbe stata, come infatti fu per la Germania, terribile. [...] 
Conseguenze decisive
Come guerra antifascista, cioè nel suo secondo aspetto, le conseguenze della lotta di liberazione sono state ancor più decisive e risolutive. Il fascismo è stato debellato, e gli Stati fascisti, che negli anni intorno al ’40 dominavano quasi tutta l’Europa, sono scomparsi (sopravvivono nella Penisola Iberica, che si sottrasse al conflitto mondiale). Non diciamo che sia stato merito soltanto della guerra di liberazione: la Resistenza italiana ebbe il merito di inserirsi nella direzione giusta della lotta al momento giusto. Questo risultato è, per quel che riguarda l’Italia, definitivo: la storia non torna indietro, nonostante la sopravvivenza di gruppi fascisti politicamente attivi ancor oggi in alcune città italiane, soprattutto nella capitale. Che vi siano gruppi politici che si ricollegano sentimentalmente e passionalmente a un regime che ha dominato per vent’anni, non deve sorprendere. Ci sarebbe da restar sorpresi se non ce ne fossero più. Che esistano non vuol dire che abbiano un peso politico. Ci furono per tanti anni in Italia, dopo l’Unità, nostalgici del Regno borbonico o dello Stato pontificio: poi furono sommersi dalle ondate della storia che spazzano via i relitti dei naufragi. Il problema più interessante che nasce sul terreno storico è quello che riguarda il terzo aspetto della Resistenza, la Resistenza come moto tendente alla trasformazione radicale della società italiana (e dei rapporti di forza tra le classi). Qui i giudizi sono disparati. Coloro che avevano riposto speranze rivoluzionarie nella guerra di liberazione sostengono che la Resistenza è fallita, e i morti sono morti invano. Al lato opposto, ci sono coloro che, trascinati volenti o nolenti dalla retorica celebrativa, si lasciano andare a panegirici senza limiti, quasi che attraverso la Resistenza sia sorta una nuova Italia. La verità, come sempre, sta nel mezzo: la Resistenza è stata una riscossa, non una rivoluzione; un risveglio da un cattivo sonno popolato da incubi, non una completa metamorfosi. Ha creato una macchina in gran parte nuova; ma il funzionamento di una macchina dipende dall’abilità e dalla audacia dei manovratori. 
La Costituzione
Usciamo dalle metafore: sul piano delle strutture politiche e sociali, il grande risultato della Resistenza è stata la Costituzione. La Costituzione è stato il risultato di un compromesso democraticamente raggiunto tra le nuove forze politiche, nate o rinate dopo lo sfacelo del fascismo, di due grandi forze, soprattutto, quella del movimento operaio (diviso tra il Partito comunista e il Partito socialista che ebbero alle prime elezioni del ’46, congiuntamente, circa il 40% dei voti) e quella del movimento cattolico (il cui partito, il partito della Democrazia cristiana, ebbe, nelle stesse elezioni, da solo, il 35%dei voti). Fu un grande risultato perché portò la democrazia italiana molto più innanzi di quella che era stata prima del fascismo: repubblica invece di monarchia; anche la seconda Camera democraticamente eletta e non più nominata dall’alto; il suffragio esteso alle donne; il riconoscimento dei partiti, senza i quali nessuno Stato democratico è in grado di funzionare; l’affermazione dei più ampi diritti sociali accanto alla riaffermazione dei tradizionali diritti di libertà (ammessi nella loro accezione più ampia); l’istituzione di una Corte costituzionale chiamata a garantire anche contro il Parlamento i diritti dei cittadini dichiarati nella Costituzione. Dallo Statuto Albertino alla Costituzione repubblicana del 1948 il passo è stato lungo: non è stato un rovesciamento radicale, perché la nostra Costituzione resta pur sempre nel solco delle Costituzioni ispirate ai principi della democrazia parlamentare, ma non è stata neppure una restaurazione dell’antico, come pur da molte parti si chiedeva. 
Un punto di partenza
La nuova Costituzione ha rappresentato un avanzamento decisivo pur nel rispetto della tradizione, in una parola rinnovamento nella continuità. Dalla Costituzione è cominciata una nuova storia civile d’Italia. Anche per questo terzo aspetto, dunque, il significato storico della Resistenza è stato importante. Come movimento patriottico, come movimento antifascista, come rivoluzione democratica, dobbiamo riconoscere che la Resistenza ha vinto. Questa è storia, la nostra storia, piaccia o non piaccia. Chi rifiuta la Resistenza, rifiuta questa storia: si mette fuori dell’Italia vivente, invoca un’Italia di fantasmi o peggio di spettri. 
La Costituzione non è solo un punto di arrivo; è anche un punto di partenza. Dalla Costituzione in poi, poste le basi del nuovo Stato, la nostra storia non appartiene più se non indirettamente alla Resistenza: è la storia della nuova democrazia italiana, di cui la Resistenza ha posto le basi, e tracciato a grandi linee il cammino. Il merito della Resistenza è stato di gettare le basi di una nuova piattaforma su cui si sarebbe dovuto erigere l’edificio della nuova democrazia italiana. Nonostante le crisi di sviluppo la piattaforma è solida; ha dimostrato di saper resistere all’usura del tempo e al logorio delle forze avverse. È avvenuto della Resistenza quel che avvenne del Risorgimento all’indomani dell’Unità: si disse anche allora che il Risorgimento era fallito perché l’Italia non era quella che i suoi padri avevano sognato: eppure il Risorgimento aveva raggiunto il suo scopo che era l’Unità, e l’Unità era una piattaforma su cui si sarebbe sviluppata la futura storia d’Italia. Il Risorgimento, come la Resistenza, che è stata spesso chiamata il secondo Risorgimento, aveva posto le premesse per la nuova storia: l’Unità d’allora, come la riconquistata unità della nuova Costituzione, non era soltanto un punto d’arrivo; sarebbe stata anche un punto di partenza per una nuova storia che non era più, allora, quella del Risorgimento, così come non è più, ora, negli anni trascorsi dalla Costituzione, quella della Resistenza. A mio parere - ma qui esprimo un’opinione personale - il modo più giusto di considerare il significato storico della guerra di liberazione è quello di vederla come una mediazione tra l’Italia prefascista e l’Italia di oggi e di domani, l’anello di congiunzione che permette di stabilire una continuità tra la storia passata e quella futura oltre la rottura operata dal fascismo: una saldatura, là dove la catena era stata interrotta. Il Risorgimento finì e si esaurì con la Prima guerra mondiale che ricongiunse all’Italia Trento e Trieste. Alla fine della Prima guerra mondiale, le prime elezioni politiche del 1919 furono dominate dai due partiti che rappresentavano le forze sociali, rimaste al di fuori del processo di formazione dello Stato unitario italiano: i socialisti e i cattolici. Uniti, avrebbero avuto la maggioranza in Parlamento; divisi, lasciarono aperta la strada a combinazioni anacronistiche, ad alleanze labili, a giochi parlamentari effimeri che spianarono la strada al fascismo. 
La storia ricomincia
Tra coloro che volevano un ordine nuovo, e coloro che volevano ripristinare l’ordine antico, vinsero coloro che volevano puramente e semplicemente l’ordine (e finirono per gettare il Paese nel disordine di una sconfitta e di una guerra civile). La Resistenza ha permesso all’Italia di riprendere la propria storia là dove era stata bruscamente interrotta: ha rimesso la storia d’Italia nella storia del mondo, ci ha fatto di nuovo procedere all’unisono col ritmo con cui procede la storia delle nazioni civili. Rispetto al fascismo è stata una svolta, rispetto all’Italia prefascista, un ricominciamento su un piano più alto: insieme frattura e rinnovamento. 
© 2015 Bollati Boringhieri

La Stampa 18.2.15
Il filosofo e lo storico, il coraggio
di chiamare le cose col loro nome
di Maurizio Assalto


In cauda venenum, si dice, ma invece qui, nella coda, c’è il coraggio intellettuale di infrangere un tabù. Confinata in una parentesi, verso la fine del discorso che Norberto Bobbio tenne a Vercelli nel ventennale della Liberazione, c’è l’espressione rivelatrice: là dove, a proposito di Mussolini e dei suoi, osserva che «finirono per gettare il Paese nel disordine di una sconfitta e di una guerra civile».
«Guerra civile», a proposito del conflitto (anche) fratricida che si insanguinò l’Italia tra il ’43 e il ’45, era a metà degli Anni Sessanta, come già negli Anni Cinquanta e ancora in tutti i Settanta, una locuzione proibita, almeno a sinistra. Non che fosse ignota, anzi era stata correntemente usata dagli azionisti: Franco Venturi la considerava l’unica guerra che, per il suo valore etico, meritasse di essere combattuta; Dante Livio Bianco, nella sua corrispondenza con Giorgio Agosti, ne parlava come di una guerra della civiltà e per la civiltà. I comunisti invece preferivano parlare genericamente di guerra patriottica. Ma l’interdetto scattò quando l’espressione cominciò a essere agitata a fini polemici dai neofascisti. E quando negli Anni Ottanta Claudio Pavone prese a rimetterla in circolo, su basi storiograficamente argomentate - in un seminario su «Etica e politica» al Centro Gobetti di Torino, nell’aprile 1980; in un convegno a Brescia nell’ottobre ’85 - subito si levarono le voci di dissenso dell’Anpi e di vecchi combattenti come Giancarlo Pajetta.
Il fatto è che «questa espressione non si poteva ancora usare per una sorta di autocensura», come avrebbe riconosciuto Bobbio in una lettera del 10 aprile ’91 a Claudio Pavone, che in quei mesi stava ultimando il suo epocale lavoro intitolato proprio Una guerra civile (con il significativo sottotitolo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza). Nella risposta, datata 14 luglio, lo storico osservò tra l’altro che le tre guerre (patriottica, antifascista e di classe) «spesso convivono, non senza contraddizioni, negli stessi soggetti individuali e collettivi. Si potrebbe anche dire che le tre guerre sono disposte una dentro l’altra: la scatola più grande è la guerra patriottica, la media è quella civile antifascista, la terza quella di classe».
Nelle lettere che Bobbio e Pavone si scambiarono tra il 1983 e il 2001 - ultima parte del volume Sulla guerra civile, in uscita da Bollati Boringhieri, che raccoglie scritti vari, in larga parte inediti, dei due studiosi - si può seguire il cammino sofferto, non privo di dubbi e ripensamenti da parte di entrambi, di una nozione storiografica oggi acquisita. Ma che per riemergere aveva bisogno di personalità capaci di superare le sterili ottiche degli schieramenti.

La Stampa 18.2.15
Una lettera conferma che Hemingway voleva donare la casa a Cuba
Lo svela un biglietto della moglie Mary. Si pensava che la Finca Vigía fosse stata espropriata
di Mario Baudino


Fu una donazione, un esproprio o semplicemente il far buon viso a cattiva sorte? La vicenda della casa cubana di Hemingway, la Finca Vigía dove visse fra il 1939 e il ‘61 scrivendo Per chi suona la campana e Il vecchio e il mare oltre a una gran quantità di testi pubblicati postumi, dedicandosi a battute di pesca e circondandosi negli ultimi anni di gatti, sembra giunta a un punto finale. O quasi.
E’ andata all’asta in America una lettera finora sconosciuta della sua quarta moglie, Mary, che a un mese dal suicidio dello scrittore dichiara la sua intenzione di lasciarla al «popolo cubano», in base ai desideri del marito. Non è una lettera vera e propria, semmai un appunto, scritto in inglese, e destinato a un comune amico cubano, Roberto Herrera, che evidentemente doveva tradurlo e consegnarlo a chi di dovere. Non venne mai spedita, perché fu data a Herrera solo a cose fatte, quasi per una sistemazione «a posteriori» della intricata faccenda.
Al popolo
Mary Hemingway in questo appunto è molto chiara: «Sarebbe stato felice che le sue proprietà cubane passassero al popolo», dice del marito da poco scomparso, per «diventare un centro di cultura e di ricerca, anche in sua memoria». E dunque «con questo documento, in quanto unica erede, consegno la proprietà al popolo di Cuba, sperando che ne approfitti per imparare e trarne piacere, almeno quanto ne abbiamo avuto Ernst ed io». Le vicende successive, fra restauri infiniti e polemiche internazionali sulla conservazione della Finca (costruita dall’architetto catalano Miguel Pascual y Baguer nel 1887, affittata nel 1930 da Martha Gelhorn, terza moglie di Hemingway, e acquistata l’anno seguente) non hanno forse realizzato del tutto questo augurio.
Il tassello storico è però importante. Per decenni si è infatti discusso se la Finca fu spontaneamente donata al governo cubano o se molto semplicemente la vedova fu costretta a cedere la proprietà, in un momento storico in cui, fallito lo sbarco anticastrista alla «Baia dei porci» sostenuto dagli Usa, il regime rivoluzionario, sotto embargo economico, sequestrò tutte le proprietà nordamericane. Hemingway, che si uccise pochi mesi dopo, il 2 luglio 1961, nell’Idaho, di Castro era amico, o comunque figurava come tale nell’iconografia ufficiale. Un gesto di imperio nei confronti della sua eredità non sembrava politicamente consigliabile. Ci furono, secondo i biografi, trattative più o meno segrete, che coinvolsero anche l’amministrazione Kennedy.
Nel giro di pochi mesi la villa passò ai cubani, come era nell’ordine delle cose, per diventare un centro culturale; però Mary e la nuora Valery (ex segretaria dello scrittore, che ne sposò il figlio, conosciuto al funerale) riuscirono a salvare il salvabile. Non certo la barca Pilar - che continua a far bella mostra di sé alla Finca - e nemmeno la macchina da scrivere: ma qualcosa di molto più importante, e cioè i manoscritti ancora inediti, sigillati e depositati al Banco National, oltre a oggetti di famiglia come i quadri, tra cui un Klee e un Gris.
Fidel Castro
Fu una trattativa complessa, anche se felpata. Fidel Castro, proprio in quei giorni, aveva cerimoniosamente invitato Mary a trasferirsi a Cuba. Lei si limitò a chiedere e ottenere un visto. Nelle memorie (pubblicate nel ‘76 col titolo, How It Was), la vedova Hemingway parla ovviamente della controversa faccenda senza però citare l’appunto per l’amico cubano. Definisce il passaggio di proprietà una «acquisizione» o una «appropriazione» e menziona una telefonata con Cuba in cui diceva di non essere sicura di voler donare la Finca, ma chiedeva di poter venire sull’isola a recuperare le carte personali. Quasi a suggerire uno scambio.
La barca con cui Mary trasportò quadri e manoscritti dall’Avana a Tampa fu l’ultima a fare un viaggio regolare fra le due sponde. Dopo più di mezzo secolo si dischiudono nuove prospettive. Dall’anno scorso la «JFK Presidential Library» di Boston ha reso disponibile le scansioni digitali di 2.500 documenti e materiali che si trovavano a Finca Vigía . E la lettera a Herrero, proposta con una valutazione tra i due e i tremila dollari, ne ha realizzati solo mille.

Corriere 18.2.15
Treccani, l’antenna della cultura che trasmette e riceve da 90 anni
di Alberto Melloni


La data del 18 febbraio 1925, che vede nascere a Roma l’Istituto della Enciclopedia Italiana, ha un carattere che segnerà tutta la vicenda di questa grande antenna della cultura e della politica culturale nazionale. In quel febbraio, che già portava i semi dei due manifesti degli intellettuali fascisti e degli intellettuali antifascisti, si iniziava una storia e se ne finiva un’altra.
La storia che si concludeva era il disegno con cui alcuni audaci editori fin dal 1907 avevano immaginato una enciclopedia che colorasse con la tempera del sapere la parete dell’orgoglio nazionale, senza sapere ancora quanto resistente sarebbe stata la tempera, quanto ruvida la superficie. L’idea sarà ripresa dopo la Grande guerra da Ferdinando Martini, già ministro di Salandra, e da Mario Menghini, editore di Mazzini. Pensano a Vito Volterra — matematico, primo presidente del Cnr nel 1923 — come direttore scientifico e a Bonaldo Stringher, direttore generale della Banca d’Italia e ministro di Vittorio Emanuele Orlando, come amministratore.
Manca il quid che arriva con l’editore Angelo Fortunato Formiggini: egli capisce che non sarà l’asse politici-dotti a far l’enciclopedia e crea il primo contenitore. Nel 1921 fonda l’Istituto per la propaganda del libro, poi diventato Fondazione Leonardo. S’appella agli editori e chiama gli intellettuali a fare un’opera basata sulla pluralità delle voci e l’italianità del carattere. È allora che Benedetto Croce raccomanda a Formiggini di fare una enciclopedia con «un pensiero suo». Tesi a suo modo simile a quella di Gentile che, mentre è ministro, organizza la sua «marcia sulla Leonardo» — come la chiamerà Formiggini nell’amaro pamphlet scritto molti anni prima di suicidarsi per protesta contro le leggi razziali: ma la macchina che il filosofo si fa consegnare non ha ruote finanziarie.
Le porterà in dote il 18 febbraio l’imprenditore Giovanni Treccani. L’uomo che aveva comperato a peso d’oro la Bibbia di Borso d’Este, per riportarla in Italia, fa nascere con propri capitali un nuovo Istituto: sia per fare quella che ancora oggi su eBay si chiama «la Grande» enciclopedia, sia per produrre un Dizionario onomastico degli italiani «illustri». La direzione scientifica affidata a Gentile, quella manageriale a Tuminelli, questa fabbrica del sapere ha efficienze incredibili. I volumi della enciclopedia escono a tempo di record. E se il fascismo si vanterà di questo vitalismo produttivo, non potrà incidere su voci e collaboratori — antifascisti, modernisti, ebrei emancipati — antipodici alla cultura di regime.
Una efficienza costosa che modifica più volte l’assetto editoriale: finché nel 1932 si rileva che «cento impiegati dove basterebbero sei, stipendi inauditi da direttore agli uscieri, donne voraci, locali principeschi, enormi sperperi nella stampa hanno stancato alla fine il Treccani, mentre arricchivano molte persone». Si aprono le porte ai capitali pubblici che non riescono a condizionare l’impianto dell’enciclopedia, conclusa nel 1937, sotto la presidenza del camerata Luigi Federzoni.
Il passaggio ad «ente» non garantisce le opere «fasciste» che qualcuno pianifica, mentre tutela la durata della Treccani. La guerra travolge infatti tutto e tutti, incluso Giovanni Gentile. Ma nella Roma liberata l’istituto riparte: nomi noti come Gaetano De Sanctis e Luigi Einaudi, nomi meno visibili come Alberto Pincherle, Mario Niccoli o Fortunato Pintor; i giovani come Tullio Gregory, che curano le Appendici, le nuove opere come il Dizionario Enciclopedico Italiano e il Lessico Universale Italiano, l’avvio del Dizionario Biografico degli Italiani. E da lì la costruzione di una lunga fase repubblicana, che vede nascere le nuove enciclopedie tematiche e passare da piazza Paganica altre tre generazioni di dotti. Con una dirigenza che da Aldo Ferrabino e Vincenzo Cappelletti arriva fino alla presidenza di Rita Levi Montalcini. E da lì fino ai presidenti scelti da Giorgio Napolitano (il capo dello Stato è l’erede del diritto regio di nomina del presidente di quella che è una società per azioni): cioè Giuliano Amato, che dal 2009 al 2013 ha messo a disposizione della cultura la sua autorevolezza; e poi dal gennaio 2014 Franco Gallo, già ministro di Ciampi ed ex presidente della Corte costituzionale.
A Gallo tocca così il compito di festeggiare il novantesimo di un inizio, di una storia e di un mito. Un mito che, per merito di Franco Tatò, si è digitalizzato ed è accessibile a tutti in un portale gratuito. E costituisce ancora la riprova di quel «grigiore filologico» che minimizza l’enfasi persino nel discorso dello specialista. Un mito che deve trovare il suo posto in una cultura nella quale l’intuizione originaria di far da antenna a zone diverse della cultura ha ancora senso. Una antenna che trasmette e riceve, nobilita e seleziona. La Treccani è saper fare questo, da novant’anni.

Corriere 18.2.15
Una donna con troppi misteri Intrighi di guerra a Berlino
Il regista tedesco Petzold affronta il passato nazista con un dramma noir
di Paolo Mereghetti


Ci sono dei film che finiscono per essere più interessanti per le suggestioni che lasciano nello spettatore che per la storia che raccontano, perché capaci di offrire spunti di riflessione che vanno al di là della loro semplice invenzione narrativa. Proprio come è il caso di Il segreto del suo volto del tedesco Christian Petzold (in originale Phoenix ), capace di far venire in superficie una serie di temi che ruotano intorno alla «cattiva» memoria dei suoi connazionali.
Ambientato nella Germania giusto alla fine della Seconda guerra mondiale, il film inizia con il ritorno alla libertà di Nelly (Nina Hoss), una cantante ebrea sopravvissuta ai campi di concentramento da cui è uscita con il volto gravemente sfigurato. L’amica Lene (Nina Kunzendorf), membro di un’associazione sionista che vorrebbe convincerla a emigrare con lei in Israele, l’accompagna da un chirurgo per restituirle un viso nuovo. Ma con grande sorpresa di tutti, Nelly vuole riavere la sua faccia: sa che sarà impossibile tornare proprio com’era ma anche qualcosa di approssimativo le sembra meglio di una nuova «identità». Per lei, il campo di concentramento è stato una specie di parentesi da dimenticare: spera di ritrovare il marito pianista, con cui faceva coppia sulla scena, e con lui riprendere la carriera ma soprattutto ritrovare l’amore che li legava.
Lene la mette in guardia: non è detto che non sia stato proprio il marito a denunciare il suo nascondiglio alla Gestapo e quindi essere all’origine della sua prigionia, ma lei non vuole sentire ragioni e si mette a cercarlo in una Berlino che cerca di sopravvivere tra le macerie. E lo trova anche il suo amato Johnny (Ronald Zehrfeld), uomo di fatica in un locale per soldati americani dal promettente nome di Phoenix, la fenice che rinasce dalle sue ceneri, ma lui non sembra riconoscerla. O meglio, intravede una qualche identità con la moglie scomparsa e allora le propone di collaborare a un piano che ha preso forma nella sua mente dopo aver notato la rassomiglianza con la Nelly di ieri: le chiede di fingersi la scomparsa per entrare così in possesso della cospicua eredità della «defunta».
A questo punto Nelly diventa una specie di donna che visse due volte: lui la crede un’altra ma vuole che assomigli a chi è veramente. Ed è qui che la sceneggiatura (del regista e di Harun Farocki, ispirata al romanzo di Hubert Monteilhet Le retour des centres ) comincia a perdere coerenza e credibilità. Troppi salti logici, troppi punti oscuri che non vengono chiariti, a cominciare dal ruolo di Lene, troppo remissiva di fronte alla decisione di Nelly, per continuare con la protervia di Johnny che sembra far di tutto per non accorgersi che la Nelly di oggi e quella di ieri sono la stessa persona.
Eppure è proprio questa specie di «negazionismo» logico a fare l’interesse del film, perché dà una forma cinematografica a quella voglia di dimenticare che la Germania ha coltivato per tanto tempo. Lei non vuole credere che proprio il suo amato marito l’abbia tradita e denunciata, nonostante le prove contrarie si accumulino.
Lui cerca in tutti i modi di cancellare gli anni della guerra e di come si era comportato in quel frangente per tornare indietro a un periodo senza colpe. E curiosamente entrambi sembrano voler nascondere a loro stessi non tanto l’adesione collettiva al nazismo ma proprio gli anni in cui quel nazismo aveva scatenato gli istinti più bassi e bestiali. Come se si potesse far distinzione tra la causa e gli effetti.
Forse solo Kluge aveva affrontato con altrettanta chiarezza (ma con più stringente analisi) questa svoglia di smemoratezza nazionale, che trasforma un giallo con qualche illogicità in un piccolo trattato di sociologia collettiva. Lo fa chiaramente nella scena in cui Johnny mette in scena il falso ritorno della moglie dalla prigionia. Alle domande di lei, preoccupata che gli amici possano fare troppe domande imbarazzanti, lui risponde che nessuno noterà o chiederà niente, perché sarà tale la contentezza per un lutto in meno (Nelly è tornata sana e salva) che tutti si comporteranno come se nulla fosse accaduto.
Naturalmente alla fine non tutto andrà come previsto, ma ci vorrà la forza della disillusione per poter finalmente aprire gli occhi e guardare davvero quello che in tedeschi hanno fatto alla Germania.

Corriere 18.2.15
La conferma Il Maggio fiorentino costretto a cancellare il suo corpo di ballo

Dopo le indiscrezioni, la conferma: il Maggio musicale fiorentino ha detto addio al suo corpo di ballo. Il sovrintendente Francesco Bianchi ha spiegato che «i mezzi economici non consentono di sviluppare la danza così come un teatro come il nostro merita» aggiungendo: «Abbiamo già incontrato i sindacati. Ci sono in questo momento 17 tersicorei: 5 sono prossimi alla pensione e il piano triennale prevede mezzi per prepensionarli. Ne restano 12: con 12 non si fa un corpo di ballo. I mezzi per arrivare a questo sono molto rilevanti». Bianchi ha parlato di «una scelta dolorosa: avevo un letto di 2 metri ma una coperta di 1,5, ho deciso cosa lasciare scoperto. Se non avessi fatto così avrei portato la fondazione in una situazione identica a quella in cui si trovava al momento del commissariamento». L’ipotesi della cancellazione del corpo di ballo era stata paventata dai sindacati, dopo che era fallita l’esternalizzazione di MaggioDanza.

martedì 17 febbraio 2015

Repubblica 17.2.15
Le responsabilità della filosofia
risponde Corrado Augias

Caro Augias, si vorrebbe che i grandi filosofi fossero anche uomini di grande livello, non sempre è così, dell’adesione al nazismo di Heidegger si sapeva, e tuttavia, passando per la fenomenologia di Husserl a cui Essere e tempo è dedicato, e agli sviluppi successivi dell’Esistenzialismo di cui Heidegger è un fabbricatore, non si può non prendere ciò che di nuovo e di spessore ci sia nella sua filosofia. Anche Furtwangler è stato nazista, ma resta un grande direttore d’orchestra. Forse bisogna separare, in alcuni (o molti?) casi, l’uomo dall’opera, Andrea Emo, grande metafisico, poco conosciuto è stato fascista, e tuttavia leggere (grazie a Cacciari) i suoi quaderni di metafisica, è necessario, per chi ami la filosofia, che se non aiuta a vivere a volte è sicuramente una consolazione (vedi Boezio). Gli uomini sono complessi, figuriamoci i filosofi, questo certo non giustifica certe scelte ma dobbiamo essere giusti, qualcuno lo ha detto che Heidegger è stato un grande filosofo e un piccolissimo uomo, quindi lasciamo perdere l’uomo…
Gianfranco Coci

Il signor Coci si riferisce alla recente scoperta di un quaderno nero del filosofo Heidegger da cui si ricava che egli era al corrente delle atrocità commesse nei campi di sterminio ma non per questo cambiò idea. La domanda se bisogna ancora una volta separare l’uomo dalla sua opera è più che legittima. Ho chiesto un parere alla studiosa Donatella Di Cesare, autrice del recente saggio Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri). Mi ha cortesemente inviato la risposta che trascrivo: “Il pensiero più elevato si è prestato all’orrore più abissale? L’antisemitismo metafisico, emerso nei Quaderni neri, muta profondamente la visione che abbiamo di Heidegger. E ora viene meno anche il suo silenzio sullo sterminio. Sarebbe comodo continuare a leggerlo, facendo finta di nulla, oppure gettare alle ortiche la sua opera. Il nazismo non è stato una ‘follia’, ma un progetto di rimodellamento biopolitico del pianeta. Gli ebrei non avrebbero più dovuto avere posto nel mondo. Heidegger non è isolato; proviene da una lunga tradizione di odio verso il popolo ebraico. Se Kant auspica una ‘eutanasia dell’ebraismo’, se Hegel esclude gli ebrei dalla storia della salvezza, non ci deve sorprendere che Heidegger definisca la Shoah l’autoannientamento degli ebrei. Certo, ben diverse sono le responsabilità che si assume così negli anni Trenta e Quaranta. Prendere alla lettera le metafore dei filosofi è stato il lavoro dei boia. Ma l’accusa metafisica di tanti filosofi che hanno condannato gli ebrei al non-essere, al nulla, ha avuto esiti devastanti. Credo che sia venuto il momento — con Heidegger e oltre Heidegger — di interrogarsi sulle responsabilità della filosofia verso lo sterminio”.

il Fatto 17.2.15
In Vaticano, barba e capelli ai clochard sotto il colonnato


L’HANNO CHIAMATA “barberia del Papa”: è il gruppo di parrucchieri che ieri, sotto il Colonnato di piazza San Pietro, ha accolto i clochard della Capitale per tagliare loro i capelli. Il servizio è disponibile negli stessi locali adibiti a bagni per iniziativa dell’Elemosineria apostolica, il braccio operativo della carità del Pontefice. Dopo l’attivazione delle docce (aperte tutti i giorni tranne il mercoledì durante l’udienza generale) il barbiere voluto da papa Francesco sarà a disposizione tutti i lunedì dalle 9 alle 15. E ieri, nel giorno dell’inaugurazione, decine di senzatetto hanno usufruito del servizio. "Qualcuno - racconta Andrea, 33 anni, ristoratore e volontario Unitalsi - sedendosi sulla sedia da barbiere ha voluto raccontarci di sé, come un ragazzo italiano che ci ha detto di essere stato cacciato di casa dai genitori. Tutti comunque, ringraziandoci ci hanno detto che qui si sono sentiti a casa”. E alcuni, hanno spiegato i parrucchieri, hanno chiesto tagli alla moda, con il ciuffo o come George Clooney.

Corriere 17.2.15
I clochard dai barbieri del Papa: «Lui non si dimentica di noi»
di Paolo Conti


In fila sotto il colonnato di San Pietro. I volontari: chiedono tagli alla moda e barbe alla George Clooney
ROMA I romani che girano spesso nell’area intorno a San Pietro, li conoscono bene di vista. Hanno i volti scavati, sdentati, sporchi, stanchi di chi si ritrova ai margini della società, non ha più una casa né affetti. Sono i senza casa, i clochard, i barboni che dir si voglia. Uomini e donne che sopravvivono, dormono all’aperto o magari al riparo di portoni, tra coperte e cartoni, o magari nel centralissimo Oratorio dell’Angelo Custode in piazza Poli o, in periferia, nella parrocchia di San Frumenzio ai Prati Fiscali.
Da ieri questi Ultimi tra gli Ultimi hanno un nuovo servizio completamente gratuito: le docce e la barberia alla destra del colonnato di San Pietro. Un’idea di Papa Francesco realizzata dal suo elemosiniere, l’arcivescovo polacco Kondrad Krajewski. Locali puliti, shampoo e saponi regalati da un privato, spogliatoi, una classica sedia da barbiere. Un kit con asciugamano, spazzolino e dentifricio a disposizione di ogni ospite. Taglio gratuito dei capelli da barbieri e parrucchiere delle scuole professionali o di professionisti di riposo, tutti coordinati dall’Unitalsi, i volontari che di solito portano i malati a Lourdes e in altri santuari. Tra loro il parrucchiere e maratoneta per la pace di Trento, Marco Patton. Divieto a stampa e tv di fotografare gli interni, di riprendere chi si avvicinava agli ingressi, nel nome della riservatezza e del rispetto della persona.
Ieri, primo giorno di apertura tra le 9 e le 15, circa trenta tra uomini e donne sono entrati malmessi e usciti ben puliti. Lo aveva detto giorni fa padre Krajewski: «Se non hai un aspetto dignitoso, accettabile, qualsiasi cosa è più difficile». Come ha raccontato Arianna, parrucchiera romana volontaria, «c’è chi ha chiesto tagli alla moda col ciuffo, barbe alla George Clooney». Pavel, un uomo rumeno di età indefinibile, parla volentieri con i giornalisti appena fuori piazza San Pietro: «Il Papa ci vuole bene, se sei sporco e puzzi è impossibile riprendere una vita o trovare un lavoro». I volontari hanno raccolto frammenti di esistenze disperate, di abbandoni e di solitudini, di marginalità e malattie. Anche la storia di un ragazzo italiano che ha sostenuto di essere stato cacciato di casa. E chissà mai potrà capire o stabilire dove finisca la fantasia e cominci la realtà.
Come racconta a New York il barbiere di lusso Mark Bustos, che la domenica regala tagli gratuiti ai senza casa, qualche clochard il giorno dopo è andato a ringraziarlo raccontando di aver subito ritrovato un posto di lavoro. Piccoli miracoli laici che possono trasformare l’universo di una persona.

il Fatto 17.2.15
Il giurista Paolo Maddalena
“Riforme sballate, lo Statuto albertino era meglio”
intervista di Salvatore Cannavò


Quando sente parlare delle riforme di Matteo Renzi a stento trattiene l’indignazione anche se sui fatti avvenuti in Parlamento non vuole esprimere giudizi: “Secondo me le cose devono andare secondo le regole. Non mi occupo di quanto avvenuto”.
Ma sul contenuto delle riforme del governo ha un’idea precisa?
Certo, a condizione che le guardiamo nel loro insieme, comprese quelle economiche. Io, ad esempio, sono rimasto sconcertato dallo “sblocca Italia”.
Perché?
Perché capovolge i valori. La Costituzione pone in primo piano la persona umana. Ma nell’articolo 1 di questa “riforma” si dice che nel caso in cui i rappresentanti degli interessi ambientali, artistici o storici o dell’incolumità pubblica non convengono sulla costruzione dell’opera decide il commissario entro dieci giorni. Perseguire l’opera diventa più importante dell'incolumità pubblica. Uno scadimento totale della nostra capacità di autogoverno, visto che governano i cittadini e questi hanno un dovere di resistenza.
Che tipo di resistenza?
Sul piano amministrativo, secondo l’articolo 118 della Costituzione, svolgono attività di interesse generale. E i portatori di interessi diffusi, della salute, dell'incolumità pubblica, del paesaggio, sono legittimati a prendere parte dei procedimenti amministrativi e l’amministrazione ha l'obbligo di tenerne conto.
Il suo giudizio su atti significativi del governo è piuttosto netto.
Su questi punti ho un vero groppo alla gola, perché vedere le conquiste ambientali stravolte e calpestate mi sembra molto grave. Così come sull’economia. Il governo e la Bce finanziano imprese e banche. All’orizzonte si profila un accordo internazionale, il Ttip, che sottrae gli operatori economici e commerciali alle giurisdizioni internazionali. In ossequio al liberismo degli anni 30 rifiutato da Roosevelt che, giustamente, seguì i consigli di Keynes.
C’è un filo che lega tutto questo alle riforme costituzionali?
Sì, c’è un’idea di neoliberismo da applicare in relazione alla globalizzazione internazionale. E che si traduce anche nelle restrizioni democratiche.
Considera un errore l’abolizione del Senato?
Siamo d’accordo che il bicameralismo perfetto fosse eccessivo ma bastava ridurre il numero dei senatori e il numero delle materie da sottoporre al Senato. Invece, si realizza una struttura composta da nominati. Ma nominati da chi? I nominati, in realtà, sono nominati da “intrallazzi” con accordi trasversali che incrementano il malcostume. Meglio, allora, lo Statuto albertino che poneva la nomina in capo al Re. C’era addirittura un rappresentante dei diritti. La riforma, a mio avviso, è sballata.
Cosa pensa della legge elettorale?
Anche in questo caso non si capisce cosa sia: è quella di Berlusconi, è il Porcellum o altro? A questo punto sarebbe meglio il Mattarellum. Ha una logica e assicura l’alternanza. Altra cosa grave è l’innalzamento del numero delle firme in materia di referendum e di legge di iniziativa popolare.
Cosa bisognerebbe fare?
Mettere le cose a posto. Innanzitutto, eliminare Berlusconi dalla vita politica italiana. Non perdonerò mai a Renzi di essersi messo d'accordo con colui che ha portato l’Italia alla rovina. Non dimentichiamoci che è lui ad aver firmato il Fiscal compact.
E anche in questo caso lei invoca il diritto di resistenza?
Certamente. Bisognerebbe, infatti, distinguere tra il “potere di revisione” della Costituzione e il “potere costituente”. Oggi non siamo in presenza di una semplice revisione, ma vengono intaccati i principi costituzionali con un potere costituente che in realtà non si ha. Ci sarebbe quindi tutta la possibilità di impugnare e prendere posizione contro una riforma tutta sbagliata. La Corte costituzionale ha i poteri di abrogare leggi costituzionali se queste sono andate oltre il potere di revisione e hanno invaso il potere costituente. Così come ha anche la possibilità di annullare provvedimenti conseguenti alle decisioni della Troika se questi violano i diritti fondamentali del popolo italiano: la vita, la salute, il lavoro.
Secondo lei, il presidente della Repubblica può e deve fare qualcosa?
Il presidente Mattarella è stata la scelta migliore che si potesse fare. Un uomo straordinario, dalle doti eccezionali. Lui sa sicuramente cosa fare.

il Fatto 17.2.15
Degenerazioni
Svolta autoritaria anzi impunitaria
di Roberta De Monticelli


Svolta autoritaria o svolta impunitaria? L’espressione “svolta autoritaria” è stata recentemente esposta al rischio di suscitare sarcasmi amari. Perché adottata, cinque minuti dopo la scucitura di un opaco accordo fra un leader spregiudicato e uno pregiudicato, da quello dei due che l’astuzia dell’altro rischiava di turlupinare. E questo basta a riassumere l’alto livello della riflessione in atto fra principali nuovi Padri Costituzionali italiani.
Ma questa espressione l’hanno usata anche persone serissime. Nadia Urbinati in diverse occasioni, Maurizio Viroli in altre – per esempio in un ottimo articolo uscito domenica sul Fatto – molti costituzionalisti, ad esempio Gustavo Zagrebelsky, autore anche di una articolatissima e costruttiva riflessione su una riforma più razionale del Parlamento (che la ministra Boschi non si è degnata di ricevere). Esponenti di spicco di associazioni devote agli ideali della democrazia, come Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia, e molti altri. Tutte queste persone hanno parlato a più riprese di “svolta autoritaria”.
NE HANNO parlato soprattutto in relazione al metodo con cui si sta procedendo, fra forzature di regolamenti parlamentari e prepotenti riduzioni dei tempi di discussione, alla riforma del Senato, oltre che in parte al contenuto di questa riforma, ma anche in relazione alla “crisi trentennale che attanaglia insieme Costituzione, sistema politico, etica pubblica” (Giovanni Ferrara, Il Manifesto, 14-02-15). Zagrebelsky è arrivato a denunciare “un degrado, quasi il punto zero della democrazia”, a proposito della decisione del presidente del Consiglio di andare avanti nonostante le polemiche dell’opposizione (Il Fatto Quotidiano, 14/02/15). Sabino Cassese invece ha voluto rassicurare tutti sul fatto che la democrazia, per il momento, non corre pericoli e che non è in atto una svolta autoritaria (Corriere della Sera, 12-02-15) – e infatti è stato ripreso da tutti i media con insolita enfasi. Alessandro Pace gli ha obiettato la possibilità che il combinato disposto dell’Italicum e della riforma costituzionale pregiudichi “quei principi supremi ai quali lo stesso Cassese si richiama”. E non solo il principio di rappresentanza, ma lo stesso articolo 1 della Costituzione, dato che i senatori non saranno eletti più dal popolo, ma dai così detti “grandi elettori” che non sono altro che i consiglieri regionali, un migliaio di persone. O infine l’idea stessa di deliberazione, dal momento che “nel procedimento legislativo alla Camera dei deputati viene eliminato del tutto il passaggio nelle commissioni in sede referente” – il cuore stesso del processo legislativo.
Ci si può chiedere: ne parlano persone troppo diverse, di “svolta autoritaria”? Il fatto che ne parli anche il politico che fino a cinque minuti prima ci aveva le mani in pasta svaluta l’obiezione? E perché fra le persone serie i costituzionalisti non sono unanimi? Di fronte a questi dubbi, forse non è peregrina una mossa di approfondimento concettuale, che per una volta può rendere utili i poveri mezzi della filosofia rispetto al sapere specifico – giuridico e politologico.
Ma nessun approfondimento concettuale dovrebbe prescindere dai dati. E c’è un fenomeno specificamente italiano che scienze e filosofia pura non avevano previsto: il lungo processo, giunto forse al “punto zero”, di svuotamento graduale del senso e anche dell’efficacia delle istituzioni. A volte le parole non dicono veramente quello che vogliono dire. La parola “svolta autoritaria”, che spesso viene usata in riferimento al presente italiano, evoca un rafforzamento unilaterale dell’esecutivo a danno della rappresentanza e dell’equilibrio dei poteri. Ma ciò cui assistiamo più che una svolta è un processo che sembra senza fine, il cui limite già si vede: la completa erosione dello spirito delle leggi tutt’intero, del rule of law: non a vantaggio di un tiranno o di una compatta oligarchia, ma a vantaggio dell’arbitrio di molti e spesso briganteschi amministratori pubblici (locali e nazionali) di interessi particolari, anzi spesso di particolari pulsioni a delinquere.
C’è un’essenza nazionale anche nello stile delle degenerazioni, forse: e la nostra sembra resti del tutto... guicciardiniana, per parlar colto. O insomma per parlar chiaro basata sul carisma del menefreghismo (rispetto alle norme e forme) e sulla libertà dei servi cui serve approvare, come giustamente suggerisce Viroli. Senato, Parlamento, Divisione dei Poteri: parole alte e antiche.
GUARDIAMO però che non servano a dimenticare che i Neo-Padri Costituzionali stanno negoziando sulle percentuali di frode allo Stato cui si toglierà il nome di frode e la sanzione. Come se non bastasse la straordinaria crescita dei nostri primati, che avanza inarrestabile: primo posto in Europa e nell’intero Occidente per corruzione percepita, 69° per grado di tutela dell’interesse pubblico. Ultimo risultato il passaggio – a proposito di libertà dei servi – dal 57° al 74° posto nella classifica dell’indipendenza dell’informazione, che ci mette gloriosamente a ridosso del Nicaragua. A conclusione dell’analisi, proporrei di sostituire l’espressione “svolta autoritaria” con la più realistica constatazione della caduta dei veli nella gestione rapace e auto-assolutoria del potere: “Svolta impunitaria”.

il Fatto 17.2.15
Armiamoci e partite
di Antonio Padellaro


Morire per Sirte? Nel 1939, con la domanda che passò alla storia – “Morire per Danzica?” –, in quell’Europa che sperava ancora di ammansire Hitler, il deputato collaborazionista francese Marcel Déat chiese se valesse la pena scatenare una guerra per difendere una piccola città contesa tra la Polonia e la Germania. Settantacinque anni dopo, in questa Europa divisa e distratta mentre Al-Thani, premier del governo libico filo-occidentale, chiede di agire subito “o l’Is arriverà in Italia”, Renzi, premier del paese più minacciato dal Califfato, tra un tweet e l’altro, liquida così la questione: “Non è tempo di interventi militari” (smentendo Gentiloni e la Pinotti).
Èevidente che tra le due frasi non esiste nesso alcuno perché delle due l’una: o il libico drammatizza il pericolo jihadista e chiede un intervento per puntellare il suo traballante governo, o l’italiano minimizza per non avere problemi nel cortile di casa. Poi c’è la realtà delle cose che ci mostra un’Europa stretta tra il martello delle nere milizie che avanzano “a sud di Roma” e l’incudine del terrorismo che dopo Charlie Hebdo colpisce Copenaghen, mentre la furia antisemita fa scempio nei cimiteri israelitici della Francia. Che l’Italia si trovi in primissima linea è un dato di fatto per due motivi almeno. Perché un missile Scud potrebbe essere lanciato dal Golfo della Sirte verso Lampedusa (come da comunicato Is). E perché sotto la spinta della catastrofe libica 200 mila migranti potrebbero sbarcare sulle nostre coste (come da dossier dei servizi segreti). Come al solito, invece di convocare un gabinetto di guerra, perché nel pieno di una guerra ci troviamo, il consueto teatrino italiano mette in scena la nota pochade: armiamoci e partite. C’è chi chiede “prudenza” e di “accelerare con la diplomazia” (Nicola Latorre, presidente pd della commissione Difesa): un modo lodevole per non fare nulla visto che i tagliagole trattano solo a colpi di ascia. Poi c’è “l’uso della forza, ma sotto l’egida Onu” della renziana Simona Bonafè: proposta che, immaginiamo, non farà morire di paura l’autoproclamato califfo al-Baghdadi. Nel settembre 2014, al ritorno da Seul, Papa Francesco evocò il pericolo imminente di una terza guerra mondiale “combattuta a pezzi, con crimini, massacri, distruzioni”. Ora ci siamo dentro e Renzi lo sa. Ma a morire per Sirte (e per l’Italia) ci vada qualcun altro.

La Stampa 17.2.15
L’illusione che non ci riguardi
di Mario Calabresi


Viviamo circondati dalle crisi, facciamo finta che non ci siano, poi d’improvviso, costretti dagli eventi, scopriamo che non esiste solo la crisi italiana. Da un paio d’anni ormai ci guardiamo l’ombelico, come se quello che accade fuori dai nostri confini fosse ininfluente, impegnati a dibattere esclusivamente di problemi di politica interna, caparbiamente chiusi nella nostra bolla.
Così ci accorgiamo che la crisi ucraina e le sue conseguenze ci riguardano, non solo in termini di sicurezza ma anche economici, che dipendiamo dalle esportazioni verso la Russia come dai turisti di Mosca che sono scomparsi dalle nostre Alpi. Così nel mondo globale la Grecia ci riguarda e cosa fare non può essere solo un tema di simpatie o antipatie e non possiamo lasciare che il nostro giudizio sui debiti da pagare sia influenzato dal modo di vestirsi di un ministro dell’Economia.
Adesso ci è venuta addosso la Libia, con tutto il suo carico di pericoli e destabilizzazione. L’abbiamo di fronte a casa, siamo i più esposti alle ondate migratorie e al pericolo terrorismo e le spiagge dove sono stati sgozzati gli operai egiziani si affacciano sul nostro mare. Ma finora nel Parlamento che urla e grida continuamente, dove da un anno si discute di legge elettorale, non abbiamo visto nessuno alzarsi per dire ad alta voce che dobbiamo occuparcene.
L’Italia ha fatto grandi cose con l’operazione Mare Nostrum, mostrando capacità operative e coscienza umanitaria, ma anche su questo non c’è stato un dibattito profondo capace di coinvolgere l’opinione pubblica e quando abbiamo chiesto all’Europa di fare la sua parte la risposta è stata debole e poco credibile.
Ora è tempo di affrontare seriamente il tema Libia, di aprire un dibattito vero nella società e in Parlamento, in cui si valutino i rischi di un’azione ma anche i pericoli dell’inazione.
Abbiamo di fronte uno Stato che non esiste più, uno spazio occupato da bande rivali, con due governi contrapposti e in cui si moltiplicano gli avamposti di un estremismo islamico che si richiamano al Califfato.
Tutto era cominciato esattamente quattro anni fa a Bengasi, sull’onda delle primavere arabe, quando migliaia di persone scesero in piazza dando il via alla «Rivoluzione del 17 febbraio». Prima che la rivolta venisse schiacciata nel sangue da Gheddafi cominciarono i raid aerei francesi - una scelta ancora oggi non chiara nelle sue motivazioni e nelle sue finalità - a cui si accodò la Nato.
Nessuno pianse la caduta di Gheddafi e basterebbe leggere le testimonianze delle persone torturate e imprigionate dal suo regime per farsi passare la voglia di rimpiangerlo. Ma pensare che bastasse bombardare per liberare le migliori energie, capaci da sole di costruire una società nuova e democratica era non solo una pura illusione ma un modo di lavarsene le mani.
Il dibattito pubblico europeo nel frattempo si è dimenticato della Libia, ci sono voluti i barconi dei migranti cacciati a forza in mare in pieno inverno, le immagini delle decapitazioni dei cristiani copti e le minacce dell’Isis, oltre che la precipitosa fuga degli ultimi occidentali con la chiusura dell’unica ambasciata rimasta aperta - quella italiana - per svegliare la nostra attenzione.
Ora c’è bisogno di tutto tranne che di avventate fughe in avanti, di nuovi exploit senza un disegno stabilizzatore alle spalle e c’è bisogno di avere chiaro cosa si vuole provare a fare. Parlare di missione di pace è una evidente finzione, come già in passato, perché nessuno accoglierà militari stranieri a braccia aperte, di certo non i jihadisti.
Dall’altra parte rifugiarsi nell’illusione dell’inazione può essere pericolosissimo, non ci possiamo permettere di convivere con basi terroristiche sull’uscio di casa facendo finta di niente.
Ma perché le scelte siano serie e ponderate bisogna cominciare con il chiarire non tanto il numero di soldati necessari per un’azione militare, ma piuttosto la reale situazione della Libia e cosa si può provare a fare contro il caos. Non possiamo nemmeno pensare un intervento senza avere chiaro il peso e l’orientamento delle fazioni che sono in lotta e senza aver scelto quali potrebbero essere gli alleati sul terreno. E poi per fare cosa? Con chi? Solo a quel punto si potrà discutere se intervenire nel quadro di un mandato dell’Onu. Ma anche qui è necessario costruire le condizioni per un’operazione ampia, a cui partecipino innanzitutto i Paesi dell’area e che abbia ben chiari finalità e obiettivi.
In questo quadro però noi italiani dobbiamo tenere presente un’altra cosa: il nostro passato. La nostra avventura coloniale fu fatta di stragi e torture e dobbiamo muoverci con molta cautela, la memoria in Libia è viva e sarebbe facile denunciare un altro colonialismo e chiamare alla guerra contro i nuovi crociati. Anche per questo è necessario che qualunque iniziativa avvenga insieme ai paesi arabi dell’area e non ci siano fughe in avanti italiane o europee.
Bisogna muoversi con chiarezza e serietà. Ci siamo illusi per troppo tempo di poter chiudere la porta ai problemi del mondo, di poter discutere solo di Imu, Tasi o articolo 18, ma ora i problemi sono entrati in casa e ci è richiesto di essere responsabili. Questo mondo è troppo complicato e interdipendente per permettere a noi italiani il lusso di stare alla finestra o l’illusione di essere immuni dal contagio.

Repubblica 17.2.15
La rivincita di Al Sisi. Ora il mondo si affida al nuovo raìs d’Egitto per battere il terrore
Affievolite le “Primavere”, il terrorismo ha preso vigore. E per sconfiggere il Califfato sono proprio i regimi arabi gli alleati indispensabili dell’Occidente
di Bernardo Valli


La reazione del Cairo dopo la decapitazione dei ventuno cristiani copti è stata immediata E il presidente ha spiegato alla nazione che i suoi uomini sono pronti a morire per la patria

LA REAZIONE è stata immediata. Poche ore dopo la decapitazione dei ventuno cristiani copti sulla spiaggia libica, gli aerei egiziani bombardavano le basi jihadiste in Cirenaica. L’esecuzione collettiva, secondo il rituale in vigore a Raqqa e a Mosul, in Siria e in Iraq, ha annunciato l’arrivo dello Stato islamico sulla sponda del Mediterraneo. La rapida risposta militare del raìs del Cairo, Abdel Fattah Al Sisi, ha annunciato l’intervento ufficiale dell’Egitto nella guerra civile libica. Quello non dichiarato era già in corso, meno intenso, più contenuto: dopo il massacro di egiziani sulla spiaggia non era più il caso di agire con discrezione. L’incursione dell’alba sulle basi jihadiste di Derna, tra il mare e le montagne, si è poi ripetuta nella giornata per dimostrare che non si trattava di salvare la faccia ma di avviare operazioni militari prolungate.
Un breve pezzo di deserto separa la Libia dall’Egitto: uno spazio semivuoto che gli islamisti cacciati diciotto mesi fa dal potere al Cairo attraversano per incontrare gli amici jihadisti in piena attività. E ormai convertiti al lontano Califfato della valle del Tigri e dell’Eufrate. I più frustrati o perseguitati tra i fedeli dell’islamista Mohamed Morsi, l’ex capo dello Stato egiziano destituito dal generale (poi maresciallo e adesso presidente) Fattah Al Sisi, trovano facilmente conforto e aiuto nelle “province” amiche. Senza precisare dove si trovano, i capi jihadisti le hanno dichiarate parte dello Stato islamico.
Forse il legame tra l’Islam estremista della Libia da un lato e quello di Siria e Iraq dall’altro è più simbolico che reale: ma pratica e regole appaiono le stesse. Le decapitazioni ne sono la prova. Nella confusione capita che i libici si sbaglino nelle dichiarazioni. Ogni tanto si riferiscono ad Al Qaeda, oggi meno influente e abbandonato, oltre che concorrente dello “Stato islamico”. Ma il terrorismo non ha un codice, né una teologia.
Rispetto al grande, storico e povero Egitto, la Libia è un ricco, bellissimo deserto abitato da tribù litigiose. Che si odiano da sempre. Dai tempi dei datteri al petrolio. L’Italia coloniale ci mise decenni prima di domarle con repressioni sanguinose e con quelle poi chiamate pulizie etniche, cioè con spostamenti in massa di popolazioni decimate. Nel primo, in Egitto, c’è un regime dominato dai militari che non sopportano chiunque contesta il loro diritto di esercitare il potere. La confraternita dei Fratelli musulmani, portata al governo da libere elezioni, era un rivale settario e incapace di governare. L’ondata jihadista è la peste per colonnelli e generali. È l’indisciplina, il fanatismo senza le regole che i militari prediligono.
La Libia è un mosaico di clan per i quali valgono le affiliazioni regionali. I poteri locali sono la base su cui si può creare lo Stato. Il denaro li divide ancora di più. Tutti vogliono controllare i terminali del petrolio af- facciati sul mare, i pozzi disseminati nel deserto, le vie attraverso le quali far passare il greggio di contrabbando.
Adesso c’è chi rimpiange Gheddafi, raìs schizofrenico e inaffidabile, oltre che crudele e corrotto, perché teneva il Paese unito e le tribù in riga con la forza o i dollari. Sbagliato sarebbe stato dunque l’aiuto militare occidentale che ha contribuito alla sua fine. La verità è che il raìs libico era ormai sfiatato, indebolito, contestato: e che dopo avere favorito la sua cacciata, si doveva accompagnare la transizione. Non intervenire con l’aviazione e lasciare il Paese in preda alle tribù fameliche e inconciliabili, imbottite di armi e di dollari. “Spara e scappa” non è un comportamento responsabile. Ma è quello che hanno avuto gli occidentali, interessati soltanto al petrolio.
Domenica sulla spiaggia, nel presentare la decapitazione degli ostaggi copti, il boia ha tenuto a precisare che si trovava «a Sud di Roma». Una capitale da conquistare. E ha definito l’esecuzione «un messaggio firmato col sangue alla nazione cristiana». In realtà il suo era anche un affronto alla più grande nazione araba. Il Cairo ha infatti preso come tale l’uccisione dei connazionali appartenenti alla numerosa e antica comunità cristiana della valle del Nilo.
Il presidente Al Sisi si è rivolto al Paese. E subito dopo, alla televisione, una voce solenne ha ripetuto più volte la parola d’ordine del momento: «Onore e nazione». Lo slogan degli uomini «pronti a morire per la patria ». Sugli schermi apparivano immagini di guerra: caccia bombardieri, carri armati, soldati in tenuta da combattimento, mezzi della marina militare. Il repertorio delle grandi occasioni. La voce era quella dello speaker che al Cairo interviene, pure lui, per avvenimenti eccezionali. Ad esempio, quattro anni fa, quando i militari presero il posto di Hosni Mubarak, il vecchio raìs, dopo l’insurrezione di piazza Tahrir. Insomma al Cairo è stato come se la nazione andasse in guerra.
Centinaia di migliaia di egiziani vanno e vengono dalla Libia da quando il petrolio sgorga dal deserto in cui i nostri coloni piantavano granoturco e fagiolini. I libici comandano e litigano tra di loro. Gli immigrati lavorano. E sono indifesi. Vulnerabili. Sono in molti a fuggire verso Lampedusa. Adesso se ne andranno in tanti. Ma l’Egitto nazionalista del presidente Al Sisi non può tollerare che gli egiziani vengano umiliati e massacrati. Gli amici americani l’hanno messo un po’ da parte. In quarantena. Gli hanno centellinato le forniture militari, in seguito alla repressione e ai processi speditivi contro gli islamisti e i giovani libertari di piazza Tahrir. Ma lui si è presa qualche bella rivincita. Vladimir Putin gli ha fornito una centrale nucleare che darà energia elettrica al Paese, come l’Unione Sovietica la dette a Nasser con la diga di Assuan più di cinquant’anni fa. E il presidente socialista François Hollande gli vende i caccia bombardieri centellinati dagli americani. L’Arabia Saudita elargisce miliardi di dollari in concorrenza con gli Emirati del Golfo, e Israele resta un interlocutore essenziale per arginare le bande jihadiste annidate nel Sinai.
Al Sisi ha superato la cattiva reputazione abbattutasi su di lui con la brutale presa del potere e le successive repressioni. La minaccia dei terroristi jihadisti, che decapitano gli ostaggi, uccidono giornalisti ed ebrei e spuntano sulla sponda del Mediterraneo, rivaluta la figura del raìs. In quanto dighe dell’islamismo, i dittatori arabi erano apprezzati in Occidente. Poi le primavere arabe li hanno cacciati o squalificati. Appassite le primavere, con l’eccezione tunisina, la figura del raìs è di nuovo rispettata e ricercata. Soprattutto se come nel caso egiziano è alla testa di un grande Paese.
Affiancato a Hollande, Al Sisi ha chiesto la riunione del Consiglio di sicurezza per la Libia. Ed è lui che ha cercato di colpire i tagliatori di teste in Libia, dove nessun altro per ora osa inoltrarsi. L’etica weberiana della responsabilità invita a riconoscere che i regimi arabi, quali che siano, sono gli alleati più efficaci per combattere il terrorismo islamico. Sono indispensabili. Solo la loro aperta collaborazione può arginare l’inquietante presenza sull’altra riva del Mediterraneo. E soprattutto il presidente Al Sisi dovrà impedire che il veleno jihadista trapeli attraverso il breve tratto di deserto che separa l’Egitto dalla Libia, e destabilizzi il suo regime che può non essere il nostro ideale, ma che l’emergenza rende opportuno.

Repubblica 17.2.15
Ma attaccare oggi è un regalo al Califfo
Un’operazione militare a Tripoli porterebbe a nuovi disordini e alimenterebbe soltanto la propaganda contro l’Occidente
di Lucio Caracciolo


IL “califfo” al-Baghdadi non potrebbe sperare di meglio: l’invasione armata di ciò che resta della Libia, condotta da ”crociati” (italiani, francesi e altri europei) e “apostati corrotti” (egiziani più arabi e africani vari). Eppure del nuovo sbarco sulla quarta sponda si discetta nelle cancellerie europee e nei palazzi dei monarchi e delle giunte militari arabe, con il discreto ma pressante incoraggiamento americano. Una operazione di controguerriglia da sviluppare su un territorio largamente desertico grande sei volte l’Italia, in totale caos geopolitico, dove si affrontano decine di bande e milizie di vario colore e appartenenza etnica, locale o regionale, tutte armate fino ai denti. Una campagna che in teoria si presenta non dissimile dalle guerre sovietica o americana in Afghanistan, solo in un contesto molto più confuso e senza i mezzi delle superpotenze. Ma con la stessa carenza di obiettivi chiari e perseguibili. Perché, contrariamente a quanto affermano i suoi portavoce, lo Stato Islamico non sta conquistando la Libia. Semmai, alcune fazioni che continuano a massacrarsi senza pace usano il marchio “califfale” in franchising, per ottenere visibilità e attirare reclute.
In ogni caso, per una spedizione oltremare toccherebbe esibire una bandiera Onu autorizzata dal Consiglio di Sicurezza — percorso non scontato — in modo da vestirla da “operazione di pace”. Come ha avvertito il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, l’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale». Stavolta però la foglia di fico onusiana non potrebbe mascherare la natura della guerra: non c’è nessuna pace da preservare, nemmeno in embrione.
Non basta: il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha annunciato che Roma aspira a guidare l’agognata missione schierando un contingente di cinquemila uomini. In effetti, più che di soldati avremmo bisogno di carri armati (Rommel docet), che non abbiamo: quelli davvero efficienti si contano sulle dita delle mani o poco più. Peggio, sembra che alcuni esponenti del governo abbiano persa la memoria del nostro passato coloniale in Tripolitania e in Cirenaica. Certo non l’hanno dimenticato i libici. «Tutto ciò cui aspiriamo è avere di nuovo gli italiani qui fra le mani», ha twittato uno dei più seguiti blogger di Misurata, nemmeno fra i più radicali. Per vendicare Omar al-Mukhtar e i suoi gloriosi martiri.
Quattro anni dopo aver partecipato controvoglia, su uno strapuntino dell’ultimo minuto, alla liquidazione franco-britannica di Gheddafi (e della Libia), adesso rischiamo dunque di tornarci in pompa magna, per ritessere la tela che abbiamo strappato. A supportare le ambizioni egiziane sulla Cirenaica e gli interessi francesi nel Fezzan. Invece del Colonnello, con cui flirtammo per quattro decenni, lavoreremmo stavolta per un sedicente generale dalle ambigue credenziali, Khalifa Heftar, appoggiato da egiziani, sauditi, emiratini e altri petromonarchi del Golfo. Il quale ha saputo abilmente intestarsi la “guerra al terrorismo” (sezione libica), certificato di qualità ad uso dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali meno avvertite, utile a legittimare l’eliminazione dei propri avversari — in questo caso anzitutto le milizie di Misurata e altri gruppi presuntamente “islamisti”. Puro avventurismo geopolitico, che fra l’altro significherebbe esporci gratuitamente al terrorismo jihadista sul nostro territorio molto più di quanto non lo si sia adesso. A rimettere ordine nel dibattito pubblico alimentato dai suoi stessi ministri ha pensato Matteo Renzi, avvertendo che «non è tempo per una soluzione militare». Il nostro premier ha preso tempo: meglio “aspettare l’Onu”. E ha correttamente osservato: «In Libia non c’è un’invasione dello Stato Islamico, ma alcune milizie che combattevano lì hanno iniziato a fare riferimento a loro». Renzi mostra così di non voler cadere nella trappola della propaganda del “califfo”, che si annuncia “a sud di Roma”. E, se volessimo davvero combattere lo Stato Islamico, potremmo attaccarlo dove effettivamente si trova, fra Siria e Iraq. Non risulta però che i nostri piloti siano autorizzati a colpirlo.
Ma qualcosa si può e si deve fare. Prima di tutto, non accendere nuovi focolai di guerra senza speranza di vincerla. Poi, usare le leve finanziarie di cui ancora disponiamo per bloccare i flussi di denaro che arrivano ai gruppi armati — operazione tutt’altro che impossibile. In terzo luogo, colpire i traffici che alimentano i miliziani, compresi i jihadisti che fanno riferimento allo Stato Islamico. Tra Iraq e Siria gli americani hanno bombardato con qualche successo raffinerie e impianti controllati dal “califfato”. In Libia le Marine occidentali potrebbero affondare, prima che partano, le barche con cui i mercanti di essere umani attraversano il Canale di Sicilia, lucrando su migliaia di disperati. Un blocco navale di fatto, accompagnato da operazioni di forze speciali nei porti libici, infliggerebbe un colpo severo al più osceno dei traffici. E alla cassa degli aspiranti emuli del “califfo”.

Repubblica 17.2.15
Dalla diplomazia all’attacco militare così l’Occidente può fermare il Califfato
di Vincenzo Nigro


All’intervento della Nato e alla caduta di Gheddafi nel 2011, non è seguita un’operazione che disarmasse le milizie. Ora la Libia è al collasso e si è aperto lo spazio per i jihadisti. Una missione internazionale è ancora possibile: ma solo se le fazioni raggiungeranno un accordo

LO STATO ISLAMICO È ENTRATO IN LIBIA PERCHÉ NEL PAESE SI COMBATTE UNA GUERRA CIVILE PER IL CONTROLLO DEL PETROLIO. PERCHÉ LA CRISI È PRECIPITATA? E CHE PUÒ FARE L’ONU?

Il Consiglio di sicurezza dovrebbe riunirsi mercoledì, su richiesta francese. La crisi in Libia si è aggravata con l’orrendo assassinio di 21 cristiani egiziani compiuta dall’Is. Il che conferma che i miliziani del “Califfo” si stanno installando a 300 chilometri dall’Italia. Mercoledì il Consiglio potrebbe iniziare a prendere in considerazione la creazione di una forza di stabilizzazione, ma per ora probabilmente darà mano libera all’Egitto per i suoi attacchi aerei.
E’ ANCORA POSSIBILE UN «INTERVENTO MILITARE» A TUTTO CAMPO IN LIBIA?
Realisticamente no, senza nessun dubbio. Un intervento militare a tutto campo per imporre la pace oggi in Libia sarebbe un rischio insostenibile per le democrazie occidentali, anche a fronte dei pericoli che il paese ci pone. Un’azione possibile con finalità di peace-keeping o anche di peace-enforcing (mantenere la pace oppure imporre la pace) doveva essere annunciata nel 2011 alla fine dell’operazione Nato. Oggi è impossibile per questi motivi: le milizie, e non solo i gruppi terroristici, non accetterebbero di sottomettersi a una forza militare, anche targata Onu. Ci sarebbero atti di ritorsione contro i militari stranieri, che costringerebbero in pochi mesi i governi intervenuti a ritirare le loro truppe (è avvenuto in un contesto molto meno pericoloso in Somalia).
DAVVERO GLI ESERCITI EUROPEI NON POTREBBERO IMPORRE LA PACE?
Come è accaduto anche agli Usa in Afghanistan (nonostante i pur gravi danni collaterali provocati ai civili), una forza Onu sarebbe costretta a fare un uso limitato e non indiscriminato della forza. Per capirci: per imporre la pace i militari Onu non potrebbero neppure lontanamente fare un uso del potere aereo come quello esercitato dagli israeliani l’estate scorsa a Gaza per proteggersi dai missili di Hamas. L’Onu a cosa si appellerebbe per bombardare massicciamente Derna?
MA ALLORA UNA FORMA DI INTERVENTO MILITARE È DA ESCLUDERE?
Paradossalmente non è da escludere, ma va ben calibrato. Va limitata e asservita a un progetto politico. Contro l’Is e il terrorismo sicuramente sarebbero necessari attacchi aerei autorizzati dall’Onu in maniera esplicita (e non autogestita come fa oggi l’Egitto) per colpire i santuari terroristi. Ma l’uso del potere aereo e di piccoli contingenti di addestratori o anche di forze speciali dovrebbe essere collegato a un processo di unificazione delle fazioni libiche meno intransigenti.
QUALE POTREBBE ESSERE UN POSSIBILE PIANO POLITICO?
Bisognerebbe cercare di creare le condizioni perché le milizie trovino un accordo per l’autogoverno delle parti principali del paese. la Libia limiterà il terrorismo se si auto-governerà da sola. Bernardino Leon, inviato Onu, senza poter minacciare uso della forza militare, aveva iniziato individuare fra i soggetti da mobilitare le comunità locali, le tribù e i consigli comunali di Libia. Un obiettivo insperato sarebbe di iniziare a consolidare un autogoverno di tribù/gruppi locali che saranno anche collegati alle mafie del posto, ma che scelgano di coordinarsi fra di loro per amministrare le comunità. Un analista dice «per decine di anni il potere centrale italiano ha accettato che il Sud Italia venisse governato col contributo di mafia e camorra: una governance simile per la Libia sarebbe un risultato insperato».
TRA GLI IMMIGRATI POSSONO ESSERCI MILIZIANI INFILTRATI DELL’IS?
Nonostante quel che si creda, è molto improbabile. I fenomeni sono paralleli, possono incrociarsi, ma sono diversi. Affrontare un’odissea nel Mediterraneo imbarcandosi su un barcone di migranti viene considerato poco probabile da Mattia Toaldo, analista che a Londra lavora per l’European Council on Foreign Relations: «In tanti anni c’è stato un solo caso di jihadista arrestato tra i migranti arrivati via mare. Attraversare il Mediterraneo su certe imbarcazioni è molto pericoloso come dimostrano i continui disastri. È vero invece che le organizzazioni jihadiste possono trarre profitti dal traffico di esseri umani».
I FLUSSI MIGRATORI POSSONO CRESCERE ANCORA IN UNA LIBIA SENZA CONTROLLO?
Assolutamente sì. Il vero problema dell’immigrazione clandestina che attraversa la Libia è che i migranti vengono gestiti dalle potenti mafie di trafficanti libici che li prendono in consegna nel sud del paese, in Fezzan e li trasferiscono sulle coste. Poi li imbarcano anche con la forza. Sono bande potenti, spesso collegate a milizie che hanno una presunta agenda politica. Finchè l’Italia e l’Europa non avranno di fronte un governo libico o governi locali libici con cui trattare, i trafficanti avranno la meglio.
LA PRESENZA IS IN LIBIA: CHI SONO, QUANTI SONO?
Non ci sono ancora migliaia di miliziani dell’Is trasferiti in Libia dal teatro siro/iracheno. Secondo la Rivista Italiana Difesa ad oggi i combattenti dell’Is sono fra i 2000 e 3000, un contingente comunque assai pericoloso. La verità è che si tratta in gran parte di miliziani jihadisti che hanno cambiato bandiera: appartenevano per esempio ad Ansar Al Sharia, ora hanno scelto di passare con il “Califfo”. L’unico grosso contingente rientrato dalla Siria sarebbe il “Battaglione Bitar”, un gruppo di 500 miliziani schierati in precedenza a Mosul e Deir Ezzor. Adesso sono a Derna, la loro capitale.
QUALE TIPO DI INTERVENTO MILITARE SAREBBE EFFICACE CONTRO L’IS?
Dice ancora Toaldo, dell’Ecfr: «Un certo grado di forza militare è imprescindibile. L’elemento fondamentale, che finora è mancato in Siria e in Iraq, è l’accordo politico nella popolazione locale che permetta di isolare gli estremisti e far ripartire un minimo di macchina statale: alcuni posti di confine, la polizia, i servizi di base. Una delle fonti di consenso dell’Is è proprio la sua capacità di «farsi Stato»». E per questo torniamo alla «casella uno»: si potrà combattere l’Is se si ricostruirà uno Stato libico, o anche solo un accordo politico fra tribù, milizie e fazioni libiche.

Repubblica 17.2.15
Il sentiero stretto di Renzi in cerca di una strategia per la Libia
L’”isteria” lamentata dal premier è tipica di una classe politica che affronta una guerra come l’Italicum
di Stefano Folli


SAREBBE un errore considerare le parole di Renzi sulla Libia come un soprassalto d’incertezza o, peggio, un voler chiudere gli occhi davanti alla minaccia evidente. Più semplicemente il presidente del Consiglio vuole evitare di commettere errori irreparabili. Quello che sta accadendo sulla costa nordafricana pone problemi enormi di tipo politico, diplomatico e militare, ma né a Roma né altrove in Europa esiste già una strategia chiara e concordata.
Ecco perché il presidente del Consiglio si preoccupa intanto di richiamare i ministri del suo governo a una maggiore sobrietà di linguaggio. Inutile parlare di cinquemila soldati pronti a partire, quando nessuno — e certo non l’Italia — è in grado di prendere un’iniziativa solitaria. Sul punto Renzi non ha torto: la corsa a rilasciare interviste, rendendo più elettrico un clima già teso, serve a poco, se non a complicare la gestione di un conflitto drammatico. Rispetto al quale l’Italia è solo un tassello, sia pure rilevante. L’”isteria” lamentata dal premier è tipica di una classe politica poco preparata alle grandi crisi e portata a credere che una guerra nel Mediterraneo si possa affrontare con la stessa aggressiva verbosità di una «querelle» sulla legge elettorale. Del resto, come diceva Talleyrand, «soprattutto mai troppo zelo ». Ed è in fondo ciò che chiede Renzi, consapevole del sentiero stretto su cui il governo deve muoversi.
Da un lato l’Italia non può star ferma e fingere di non vedere. Nell’assenza di una politica europea (Emma Bonino aveva chiesto invano un commissario per il Mediterraneo), esiste nei fatti una divisione territoriale e pragmatica dei compiti. Per cui la Germania è chiamata a occuparsi dell’Ucraina e all’Italia spetta l’estremo Sud, quindi la Libia. La comunità internazionale si attende un’iniziativa sul piano politico e diplomatico: proprio il genere di passi che Renzi ha evocato nel momento in cui ha precisato che l’intervento militare non è imminente. Ma cosa vuol dire in concreto? Nel recente passato l’Italia avrebbe avuto l’occasione di giocare un ruolo diretto nel teatro libico con Romano Prodi, un mediatore fra le tribù bene accetto dai locali quando l’Isis non era ancora minaccioso.
Non si capisce perché, ma la nomina non fu sostenuta dal governo — lo stesso di oggi — e l’opportunità tramontò. Oggi è tutto più difficile. L’Italia può adoperarsi per favorire una presa di posizione delle Nazioni Unite. Il che non significa invio di «caschi blu», ipotesi fuori della realtà, bensì ottenere la bandiera dell’O-NU come copertura a una coalizione di «volenterosi ». Questo vuol dire una riunione del Consiglio di sicurezza, già chiesta dalla Francia, a cui si dovrà andare preparati. È indispensabile quindi tessere una rete diplomatica soprattutto con Mosca e Pechino, due capitali con diritto di veto. Ne deriva che il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri dovrebbero essere assorbiti in questi giorni in un giro vorticoso di telefonate con russi e cinesi, ma ovviamente anche con Washington, Berlino e Parigi. Prima di questo passaggio — ha ancora ragione Renzi — è inutile parlare di spedizione militare.
Dall’altro lato, il governo di Roma non può rischiare di non essere preso sul serio dai partner; ovvero di ritrovarsi isolato di fronte al precipitare degli eventi, magari costretto a uniformarsi a decisioni prese da altri. Nel 2011 Berlusconi si accodò malvolentieri alla guerra di Sarkozy contro Gheddafi, adesso non sarebbe possibile comportarsi da gregari in un’azione multinazionale contro lo Stato Islamico. Certo, la Libia è un inferno prodotto dagli errori occidentali. Dopo la caduta di Gheddafi nessuno o quasi si è posto il problema di gestire il vuoto di potere che si era creato. Adesso che la responsabilità è in parte sulle spalle del governo Renzi, l’aspetto più importante è la solidarietà reale, non solo retorica, della comunità internazionale. Al tempo stesso ci sarà bisogno di quella coesione interna da verificare sul piano parlamentare. Non è tempo di baratti, del genere prima il patto del Nazareno poi la politica estera. Semmai è l’ora di rivolgersi agli italiani nel segno della concordia. Una sfida decisiva per Renzi e il «renzismo».

La Stampa 17.2.15
“Entrare in guerra è facile ma si rischia il pantano”
Il generale Mini: 5 mila uomini? Ne servirebbero 50 mila
intervista di Francesco Grignetti


«Andare in Libia a fare la guerra è fin troppo facile. Una volta che ci fossimo infilati in quel pantano, però, difficile sarebbe uscirne. Guardate che cosa accade dopo 14 anni di Afghanistan». Non è usuale sentire un generale del nostro esercito usare tanta freddezza nei confronti della guerra. Eppure Fabio Mini, che è stato il comandante della missione Nato in Kosovo, e capo di stato maggiore del Comando Nato delle forze alleate Sud Europa, non si nasconde dietro le parole.
Generale Mini, perché intervenire in Libia sarebbe una missione tanto sbagliata?
«Perché ho sentito molta frettolosità nell’analisi del presente, e nessuna parola sul futuro. Per parafrasare un mio libro, diteci quale guerra verrebbe dopo la guerra. Spiegateci quale è la strategia complessiva. Parlare di “peace keeping” alla maniera libanese, non ha senso: non ci sono due fazioni che si affidano a noi per consolidare una tregua. Fare come nel 2011 con i raid aerei, poi, lascerebbe le cose come stanno. Se proprio si deve controllare il territorio, in Libia ci sarebbe da combattere sul serio e non so se è chiaro che avremmo 50 morti nella prima settimana. Né si pensi che bastino 5 mila uomini, ce ne vorrebbero 50 mila e forse sarebbero ancora pochi».
L’alternativa sarebbe un’operazione alla kosovara o alla curda. Noi ci mettiamo potenza aerea e consiglieri militari, loro le forze di terra.
«Possibile. Ma allora ci devono dire chi sono gli alleati e chi no. Cioè quali fazioni appoggiamo e quali contrastiamo. Perché è evidente che l’Isis è soltanto una bandiera, e sotto ci sono le stesse milizie che prima pagavamo e che ora indossano la tuta nera perché da quelle parti è diventato un marchio vincente».
I jihadisti sembrano essere diventati i terzi incomodi tra due fazioni in rotta, gli islamici di Tripoli e i laici di Tobruk. Un intervento occidentale rischia di rompere gli equilibri e coalizzare tutti gli islamisti contro di noi?
«Appoggiando lo schieramento del generale Haftar, gli egiziani e gli americani avevano già provato a chiudere la partita con una spallata. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Egiziani e francesi, da quel che vedo, tentano ora una nuova spallata ma non penso che avranno successo neppure stavolta».
E allora, che fare?
«Innanzitutto andrei a rivedere quell’accordo di amicizia tra Italia e Libia che si firmò ai tempi di Berlusconi. Se un ampio spettro di forze libiche ci chiedessero aiuto... Ma abbandoniamo idiozie come l'esportazione della democrazia. Ipocrisia. Come quella che in questi anni ci fossero uno Stato, elezioni regolari, e governi legittimi. La Libia è terra di tribù, ciascuna con i suoi pozzi di petrolio. Se devo dirla tutta, converrebbe che gli equilibri locali si chiariscano da soli. Con un intervento occidentale ora, la crisi si internazionalizza e in prospettiva diventa ancora più ingestibile».

Corriere 17.2.15
Servono 60 mila soldati
di Paolo Rastelli

I raid aerei non bastano. Ma se in Libia andranno truppe europee quanti dovranno essere i soldati? Una stima prudente dice non meno di 60.000 con equipaggiamento pesante.

Per partire servono 60 mila soldati
Impossibile intervenire se non con un’ampia coalizione, necessarie truppe sul terreno L’Italia si troverebbe a impiegare almeno una brigata pesante, circa 7 mila uomini

L’ex primo ministro iracheno Nouri al Maliki l’ha definita senza mezzi termini «Terza guerra mondiale», visto che viene combattuta contro un’organizzazione, il Califfato di Al Baghdadi, che aspira al dominio universale. Maliki in quel momento (ottobre 2013) aveva tutto l’interesse a drammatizzare gli attacchi dell’Isis per avere il massimo dell’aiuto possibile. Ma certo la minaccia portata dallo Stato Islamico si sta allargando, producendo una risposta multinazionale i cui aderenti aumentano giorno per giorno.
Oggi si sono uniti gli egiziani, che dopo la decapitazione dei cristiani copti diffusa via video in tutto il mondo, hanno eseguito tre raid aerei in forze in Libia, aiutati anche da quel poco che rimane di aviazione libica rimasta fedele al governo di Tobruk, riconosciuto come legittimo dalla Comunità internazionale: secondo rapporti diffusi dallo stesso governo libico, una cinquantina di militanti dell’Isis sarebbero rimasti sul terreno anche se un effettivo controllo di queste cifre è allo stato impossibile. Qualche giorno fa in Siria erano intervenuti gli F-16 (in generale il velivolo più diffuso nell’area mediterranea, in possesso anche dell’Aeronautica militare italiana) della Forze aeree reali giordane, in risposta all’immolazione del pilota Maaz al Kassasbeh, bruciato vivo in una gabbia. Sempre in Siria e Iraq hanno lanciato incursioni, in momenti diversi, aerei americani, australiani, britannici, francesi, sauditi, del Qatar e degli Emirati arabi.
La Libia non è raggiungibile agevolmente da tutte queste aviazioni, soprattutto da quelle degli Stati arabi del Golfo in assenza di basi più vicine all’obiettivo. Ma comunque sul nuovo fronte aperto dal califfato è ipotizzabile, se mai avverrà, l’impegno di una robusta coalizione, più o meno analoga a quella che aiutò i ribelli a rovesciare Gheddafi nel 2011: Francia, Gran Bretagna, Italia, Canada, Danimarca, Norvegia, Spagna, Emirati arabi uniti, Qatar, Egitto (che proprio ieri ha concluso con la Francia l’acquisto di altri 24 sofisticati caccia Rafale), con l’appoggio degli Stati Uniti, che può anche essere solo di Elint (informazioni elettroniche) con i velivoli Awacs e individuazione/illuminazione degli obiettivi.
Da questa lista si capisce che un eventuale intervento italiano (sul quale peraltro il presidente del Consiglio Matteo Renzi si è dimostrato per ora alquanto tiepido) non potrà che essere inquadrato in un’iniziativa Nato con il via libera dell’Onu. Chiunque interverrà non potrà certo limitarsi ai raid aerei, per controllare un territorio ci vogliono, come dicono gli americani, i boots on the ground , gli stivali sul terreno: contro Gheddafi le forze di terra erano fornite dai ribelli, ma adesso dovranno essere mandate anche truppe europee. Quante? Secondo una stima prudente, dovendo bonificare e controllare un territorio vasto senza rilievi naturali importanti, almeno 60 mila uomini con equipaggiamento pesante: carri armati, elicotteri di attacco, mezzi trasporto truppe, genio.
Nel caso dell’Italia, non meno di una brigata corazzata o meccanizzata tipo Ariete o Garibaldi: due reggimenti di fanteria, uno di cavalleria corazzata, uno di carri armati, uno di artiglieria semovente, per un totale di almeno 7 mila soldati. Cosa troverebbero ad attenderli? Secondo un’analisi diffusa ieri dal Rid , Rivista italiana difesa, in Libia l’Isis ha un nucleo «duro» di 800 uomini (tra cui molti reduci del teatro siriano-iracheno) nell’area di Derna. A queste vanno aggiunte bande sparse, di consistenza incerta, nella Sirte e in Tripolitania, in parte scissioniste dalle milizie della Fratellanza musulmana. Per il momento l’armamento sarebbe leggero: mitragliatrici, razzi anticarro Rpg, mortai. Niente carri armati, per ora.

La Stampa 17.2.15
La scelta guerrafondaia non pagava
di Marcello Sorgi


Parola d’ordine: niente isteria. Così Renzi ha frenato ogni ipotesi di intervento in Libia, rinviando ogni decisione a un pronunciamento dell’ONU e frenando rispetto all’annuncio del ministro della Difesa Pinotti, che aveva parlato di 5000 soldati pronti a partire e di quello degli Esteri Gentiloni, che non aveva escluso l’intervento militare.
Renzi ha espresso le sue valutazioni davanti alla direzione del Pd e ha fatto capire che le sue decisioni erano frutto di un’approfondita valutazione fatta in campo internazionale e legata anche al colloquio con il leader egiziano Al Sisi, che aveva inviato i suoi bombardieri in Libia dopo la strage dei cristiani copti perpetrata e filmata per propaganda dai terroristi dell’Is. Il premier ha detto di aver dato la propria solidarietà al vicino del Cairo, ma ha chiarito che al momento non c’è alcuna prova che la Libia sia stata conquistata dalle milizie dell’Is. È possibile invece che quelli che si sono proclamati esponenti del Califfato siano esponenti locali impegnati nella guerra civile che da mesi insanguina la Libia.
La frenata del premier non vuol dire che l’Italia possa chiamarsi fuori definitivamente da un intervento militare. La risoluzione dell’ONU, chiamata in causa dall’Italia ma anche da altri paesi europei, potrebbe infatti arrivare entro la settimana. La coalizione destinata a intervenire, di cui oltre a Italia e Francia potrebbero far parte Spagna e Gran Bretagna, potrebbe essere formata nei prossimi giorni e l’intervento vero e proprio, se reputato necessario, partire più o meno negli stessi tempi. Questo dovrebbe spiegare domattina alla Camera Gentiloni, che sta coordinando una fitta rete di contatti internazionali da cui alla fine dovrebbe scaturire la decisione sull’iniziativa da prendere in Libia.
Quanto al rischio di attentati sul territorio italiano (il governo e in particolare Gentiloni, definito “ministro crociato” sono entrati nel mirino dei terroristi), Renzi ha spiegato che non può essere escluso, ma va valutato senza emotività, come dire che oggi non è più, ma anche meno, probabile di ieri. All’affermarsi della linea prudente del governo, che ha corretto l’impazienza delle prime ore, non sarebbe stato estraneo il Quirinale. Ma non nel senso di un richiamo diretto del Presidente Mattarella a Renzi, quanto di una identità di vedute sulla necessità di aspettare una valutazione compiuta dell’ONU, sotto la cui egida, del resto, avvenne anche l’intervento voluto da Sarkozy e dalla Francia nel 2011, che portò all’eliminazione di Gheddafi e, malauguratamente, al caos che adesso ha reso possibile l’aggancio della Libia ai deliranti programmi del Califfato.

Corriere 17.2.15
La maschera del nemico
di Sergio Romano


È giusto che l’apparizione in Libia dell’Isis, l’autoproclamato Stato islamico, susciti le nostre preoccupazioni. È naturale che il governo, anche se il premier dichiara che non è tempo d’interventi, debba prendere in considerazione la possibilità di un conflitto. Il riferimento all’Onu, soprattutto in una situazione in cui l’Italia avrebbe un ruolo di primo piano, è inevitabile. Ricordiamo che cosa accadde quando Berlusconi desiderava competere con la Gran Bretagna per l’ambito ruolo di alleato degli Usa nella guerra irachena. Bastò una riunione del Consiglio superiore di Difesa e un richiamo all’art. 11 della Costituzione sul «ripudio» della guerra, perché la missione militare italiana divenisse una paradossale missione di pace. Per chi voglia opporsi con le armi all’Isis occorre un mandato internazionale.
       Ma il mandato dell’Onu da solo non basterebbe. Vorremmo qualche notizia in più sulla natura dei nemici. Chi sono? Una delle tante milizie libiche create dopo la dissennata operazione franco-britannica del 2011? Sono salafiti (una delle varianti più radicali dell’Islam) provenienti dal Sahara? Obbediscono al «Califfo» Al Baghdadi o hanno scelto il marchio di fabbrica che è oggi vincente nella gara del terrore? L’Isis sta combattendo anche una guerra psicologica e non meno pericolosa. Conosciamo male l’organizzazione, ma sappiamo che ogni gruppo terroristico sopravvive soltanto se sostituisce i morti con nuove reclute. E il reclutamento è tanto più facile quanto più l’organizzazione può rivendicare successi proiettando di se stessa un’immagine di audacia e ferocia . Un governo deve dare la sensazione di non avere sottovalutato il pericolo, ma sbaglierebbe se non ricordasse che un’opinione pubblica allarmata è esattamente l’obiettivo dell’Isis.
Siamo male attrezzati, militarmente e psicologicamente, per vincere guerre di guerriglia contro chi non esita a usare la propria vita come un’arma. La spedizione franco-britannica ha dimostrato che i bombardamenti non bastano a creare le condizioni per una Libia pacificata e rinnovata. Ma potrebbero servire a cacciare l’Isis da Sirte, a impedirgli altre conquiste e a rafforzare le milizie del generale Khalifa Haftar.
La Libia è certamente un problema italiano. Ma è anche un problema mediterraneo e dell’Unione Europea. Francia e Spagna non possono attendere che venga risolto da altri. Una coalizione tripartita, sostenuta da altri Paesi dell’Ue, non sarebbe utile soltanto sul piano militare. Dimostrerebbe che l’Europa non è esclusivamente il luogo in cui si parla di euro, stabilità e crescita. È anche una patria da difendere.

Il Sole 17.2.15
Tutti i rischi di autogol di un’azione militare
di Gianandrea Gaiani


Sarà l’Italia a guidare la Coalizione che muoverà guerra allo Stato Islamico sul fronte libico? Il termine «guerra», inusuale per la politica italiana che non lo utilizza dal 1945 preferendogli la definizione «missioni di pace», è stato evocato dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. L’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale».
«Non possiamo accettare - aveva detto il ministro venerdì - che a poche ore di navigazione dall’Italia ci sia una minaccia terroristica attiva». Una sfida che lo Stato Islamico ha raccolto e rilanciato con la propaganda e con le armi. Prima la radio dello Stato Islamico ha definito Paolo Gentiloni «ministro degli Esteri dell’Italia crociata» poi un gruppo di scafisti armati di kalashnikov ha imposto all’equipaggio di una motovedetta italiana di consentire loro di andarsene con il barcone una volta trasferiti gli immigrati clandestini a bordo sull’imbarcazione italiana. Affermare che l’Italia è pronta a combattere ha un senso se si sono già autorizzate iniziative militari ma rischia di diventare un autogol se a queste parole fanno seguito la rassegnata accettazione che le nostre motovedette possano essere minacciate (e domani forse aggredite) da terroristi e miliziani e se l’unica operazione effettuata in Libia dagli italiani è l’evacuazione dell’ambasciata e degli ultimi connazionali. Una fuga, una ritirata che fornirà all’attenta propaganda dello Stato Islamico materiale utile a denigrare l’Italia. Del resto sull’ipotesi di un intervento militare italiano c’è molta confusione. Lo ha escluso anche il presidente della Commissione esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini che ha sottolineato «la necessità che l’Onu si assuma la responsabilità di convocare al più presto il Consiglio di sicurezza». Il ministro della Difesa Roberta Pinotti si è invece spinta già a quantificare il contingente da schierare in Libia in 5 mila militari. Quella libica diverrebbe così la più importante missione nazionale all’estero con un costo, considerati mezzi, velivoli e navi, superiore al mezzo miliardo di euro. Dubbi circa la tenuta dell’Italia in un conflitto sono più che giustificati. Non riusciamo a fermare i flussi di immigrazione illecita e siamo pronti a fare la guerra in Libia? Siamo l’unico Paese della Coalizione che non autorizza i suoi aerei a bombardare i jihadisti a Mosul ma siamo pronti a bombardarli a Sirte?
Sbarcare in Libia con 5 mila soldati per combattere lo Stato Islamico non ha senso se non sono chiare le alleanze sul terreno. I due schieramenti politico –militari che si contendono il Paese e devono entrambi fare i conti con lo Stato Islamico, sono divisi al loro interno ma concordano nel non volere stranieri sul suolo libico. Il governo laico di Tobruk guidato da Abullah al Thani è ai ferri corti col generale Khalifa Haftar che guida gran parte dell’esercito e la campagna contro gli islamisti. I miliziani islamici (Fratelli Musulmani, Salafiti, milizie di Misurata) del “Fronte Alba della Libia” controllano molte aree della Tripolitania ma pare stiano perdendo alcune milizie attratte dal modello dello Stato Islamico. Come è accaduto in Siria l’Isis utilizza armi e denaro per comprare l’adesione di milizie tribali o appartenenti ad altre organizzazioni. In Libia gli uomini del Califfato hanno incassato e incassano milioni gestendo i traffici di immigrati verso l’Italia, denaro che possono investire nella guerra per conquistare Sirte e puntare ora su Misurata. Prima di sbarcare truppe sulla nostra “quarta sponda” meglio chiarire che sarà una missione di guerra non certo di peacekeeping e che la presenza di nostre truppe sul terreno attirerà terroristi islamici da tutto il Nordafrica e Sahel.

Il Sole 17.2.15
Le voci stonate di Roma, la gara con Parigi
di Gerardo Pelosi


La diplomazia europea brancola nel buio più profondo sulla crisi libica né sembra favorire una qualche soluzione la competizione esistente tra Roma e Parigi tra chi conquisterà la leadership di un intervento internazionale sotto l’egida Onu o Nato, unica opzione possibile al momento per il Governo italiano guidato da Matteo Renzi.
L’ alto rappresentante per la politica estera e di difesa europea, Federica Mogherini (assente nella crisi ucraina gestita da Merkel e Hollande) sembra animata dalle migliori intenzioni per la Libia e, giovedì, incontrerà a Washington il capo della diplomazia Usa, John Kerry e il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry. L’Egitto è oggi il Paese dell’area che più si sta impegnando nella lotta all’Is e l’offensiva aerea lanciata ieri dal Cairo contro le basi di Derna e Sirte come risposta alla decapitazione di 21 egiziani copti sembra solo l’inizio di una storia molto più lunga. È comunque un fatto che mentre il presidente francese Hollande e il presidente egiziano al Sisi facevano pressione sull’Onu per una riunione urgente del Consiglio di sicurezza a New York, il ministro della Difesa francese Le Drian sbarcava nella capitale egiziana per firmare un maxi-contratto da 5,2 miliardi di euro per la vendita di 24 caccia-bombardieri Rafale, velivolo supertecnologico finora mai venduto all’estero. Sono gli stessi “caccia” fatti decollare dall’ex presidente Sarkozy nel 2011 verso Tripoli per annientare il dispositivo militare di Gheddafi giunto alle porte di Bengasi mentre all’Eliseo erano ancora in corso i colloqui tra i leader europei per valutare l’offensiva, con il nostro premier di allora, Berlusconi assai prudente sul da farsi. Lo stesso Sarkozy, pochi mesi prima, aveva accolto Gheddafi all’Eliseo e, a conclusione dell’intricata vicenda delle infermiere bulgare, aveva dato il suo assenso alla vendita a Tripoli di forniture militari. L’obiettivo della Francia era quello di rompere il monopolio di fatto dell’Eni nel settore energetico dopo la firma del grande accordo di cooperazione e amicizia tra Berlusconi e Gheddafi che aveva chiuso il contenzioso del periodo coloniale e consolidato i contratti petroliferi. Ora l’interesse di Hollande si concentra molto sul Sud della Libia in quelle zone al confine con il Ciad e il Mali dopo che le forze francesi hanno ripreso in mano la situazione negli ultimi mesi. Neppure la diplomazia francese, tuttavia, ha ben chiari al momento i pro e contro di un intervento internazionale. Per il passato ci si può solo affidare alle parole del filosofo Bernard Henry Levy secondo il quale la Francia «non ha fatto male» a intervenire in Libia per far cadere Gheddafi, «l’errore che abbiamo fatto è stato di andarcene, pensare che la missione fosse compiuta appena caduta la dittatura». Nulla, comunque, in confronto alle voci stonate ascoltate in Italia negli ultimi giorni con dichiarazioni poco prudenti (il Gentiloni dell’Italia «pronta a entrare in guerra» anche se «nel quadro della legalità internazionale» e il ministro Pinotti con i 5mila soldati pronti a partire). Se ne è accorto, sia pure con un certo ritardo, il premier Renzi che ieri ha avuto un colloquio telefonico con il presidente egiziano al Sisi sul terrorismo, sul futuro della Libia e sul ruolo dell’Onu. Il premier ha cercato di mettere un po’ d’ordine nelle ultime prese di posizione spiegando che occorre «senso di saggezza» perché «non si può passare dalla totale indifferenza all’isteria». Per Renzi questo «non è il tempo dell’intervento». Ma una cosa è certa, secondo il premier: «la visione del Governo è una sola e tutti i ministri la condividono. Aspettare che il Consiglio di sicurezza dell’Onu lavori un po’ più convintamente sulla Libia coinvolgendo tutti gli attori in gioco». Tutto ciò premesso Renzi ribadisce che l’Italia «non si tirerà indietro di fronte alle sue responsabilità perché non giriamo la testa dall’altra parte». Da qui a immaginare un passo concreto dell’Italia che produca un risultato concreto come quello che nel 2006 portò Romano Prodi a guidare Unifil 2, ce ne corre.

Repubblica 17.2.15
La situazione in Libia pone il Paese di fronte alla scelta più difficile. Dal ricordo di Caporetto alle missioni in Kosovo e Iraq l’eterno dilemma tra armi e neutralità
Interventismo
Quando l’Italia sceglie se andare alla guerra
di Filippo Ceccarelli


È UN interventismo minore, ambiguo e riluttante, se Dio vuole, quello che da venti o trent’anni va in scena in Italia, e forse merita rispetto proprio perché la guerra non è mai la cosa più semplice del mondo, né si rende più facile e più bella chiamandola — ah, le delizie dell’ipocrisia anglofona! — “peace-keeping” o come negli ultimi giorni “peace-enforcing”. Così in Libano (1982), nel Golfo Persico (1987 e 1990), nella prima guerra del Golfo (1991), come poi in Somalia (1992), in Kosovo (1999), in Afghanistan (2002), in Iraq (2003) e in Libia (2011) ogni volta è stato un tormento, o meglio: uno stranguglione.
Esiccome l’Italia è sempre l’Italia, ecco che questo mezzo interventismo inespresso e sorvegliato, questo spedire aerei, navi e soldati all’estero senza dirlo e talvolta senza neppure farlo, questo fritto misto di retorica e di omertà, di timore e di sapienza, di furbizia e buon cuore, insomma, non solo finisce per assomigliare a una specie di sfuggente neutralità, ma riattiva spassosi ri- cordi e scoppi d’ira, melodrammi e sarcastiche ammissioni dei propri limiti guerrieri.
Quale altro paese al mondo, d’altra parte, avrebbe mandato a combattere un ammiraglio, l’indimenticabile Buracchia, che prima ancora di arrivare a destinazione dichiarava a Famiglia cristiana «Eh, con un po’ di saggezza la guerra si sarebbe evitata...»? E come è stato possibile bombardare la Serbia tenendo aperta l’ambasciata a Belgrado?
Nel primo caso, agli albori di “Desert storm”, il premier Andreotti si liberò come un anguillone dalla stretta Nato per rivolgersi a Gorbaciov e addirittura Formigoni si portò a Bagdad con l’idea di liberare gli ostaggi di Saddam scongiurando il conflitto. Nel secondo, quatti quatti, i cacciabombardieri italiani formalmente volarono ex post sulla ex Jugoslavia, nel senso che il Parlamento diede l’assenso quando già avevano compiuto il loro triste compito ed erano sulla via del ritorno; e a rendere la faccenda ancora più singolare, ce li aveva mandati quello stesso D’Alema che qualche anno prima s’era segnalato a piazza San Pietro, con bimbo o bimba sulle spalle, a reclamare la pace sotto il balcone del Papa.
Ci sono ovviamente ragioni storiche dietro a tutto questo. Il ricordo inconfessabile di Caporetto, del disastro fascista, dell’8 settembre. La Costituzione che ripudia espressamente la guerra. Il lungo predominio di culture politiche, la comunista e la cattolica, lontane se non ostili al Risorgimento e istintivamente restie alla prospettiva di uno Stato in armi. La presenza inoltre del Vaticano, sempre a favore della pace. E infine di un forte e fino a qualche anno fa anche fantasioso movimento pacifista cresciuto negli ultimi vent’anni con marce, camping, sit-in, grandi manifestazioni, donne in nero e bandiere arcobaleno esposte alle finestre.
E tuttavia quasi sempre in Italia le missioni militari si sono intrecciate anche con le beghe della politica politicante. C’è chi ricorda — lo documenta una preziosa velina di Orefice — che nel 1995 qualche irresponsabile coltivò il progetto di un intervento nei Balcani per evitare il rischio di elezioni anticipate. E se una volta Ciriaco De Mita chiese il ritorno dei soldati italiani dal Libano mentre faceva il bagno, con i giornalisti che prendevano appunti camminando sul bordo della piscina dell’hotel “Villa Igiea” di Palermo, il record della confusione istituzionale va senza dubbio a Francesco Cossiga.
Il quale Cossiga, come altri nel suo partito (Evangelisti, per dire, o Ciarrapico) collezionava soldatini di piombo; e devoto com’era agli alleati d’oltreoceano, rifuggiva in teoria da ogni vocazione pacifista, tanto che a un certo punto del settennato piantò un bella grana su chi dovesse comandare in caso di guerra (i democristiani istituirono naturalmente una bella commissione, affidandola al professor Palladin che produsse il più salomonico verdetto). Al momento di dare una lezione a Saddam, perciò, si disse favorevole come cittadino e presidente, ma come cattolico del tutto contrario all’intervento, fino a valutare l’ipotesi di dimettersi. Salvo poi coprire d’improperi un giornalista inglese che aveva osato ironizzare sulla scarsa attitudine bellica degli italiani.
Anche su quest’ultima, fin dai tempi di Napoleone, e come si potrebbe documentare da un famoso articolo di Benedetto Croce fino al retroscena secondo cui Mamma Rosa fece promettere a Silvione suo di non mandare soldati fuori dai confini, esiste del resto una diffusa leggenda. Ma pure un’aneddotica inveratasi e aggiornatasi nel recente passato grazie ad alcuni fantastici inci- denti, tipo il portellone bloccato che impedì ai bersaglieri di sbarcare in Libano o la “Vittorio Veneto” che si arenò con ignominia nella rada dinanzi a Valona.
Di altro genere, ma meno divertente, la circostanza per cui alcune unità navali furono impiegate nel Golfo Persico per sminare delle mine, appunto, che però erano di fabbricazione italiana. In realtà, e al netto delle resistenze, delle avventure e delle trovate più o meno folcloristiche che si possono mettere in conto ai governanti e più in generale al ceto politico, nessuno può oggi sostenere che i soldati italiani non abbiano svolto il loro dovere fuori dai confini, spesso offrendo il loro contributo di sangue.
Ma il punto delicato è che più spesso di quanto si voglia far credere chi non vede altra soluzione che la guerra e reclama l’intervento ha molto spesso qualcosa da nascondere. E anche se non ce l’ha, rispetto all’esperienza della storia e alla posta in gioco, è nel gioco democratico che ci sia qualcuno che glielo attribuisce.

il Fatto 17.2.15
“A sud di Roma”
Il Califfo dirimpettaio non sa che la Sicilia è già islamica
di Pietrangelo Buttafuoco


A sud di Roma vuol dire essere già in Sicilia. Significa, più precisamente, trovarsi al confine d’Italia che sta sotto la Calabria e a nord del Califfato. Quel mare bagnato dal sangue dei ventuno cristiani passati a fil di coltello è il Mediterraneo, il Mare Nostrum. Sono 450 i chilometri da Sirte e poco ci manca che un peschereccio di Porto Empedocle, la città del commissario Montalbano, finisca per essere sequestrato dai libici. Questi, a differenza di un tempo – quando c’era Muhammar Gheddafi – non mercanteggeranno ma uccideranno. E ci faranno anche un video: a maggior gloria dell’Isis, lo Stato islamico, che è arrivato in Libia ed è, di fatto, dirimpettaio della Repubblica italiana.
Il Califfo che sta alle porte di Roma cerca Palermo, la città “dalle duecento moschee”. Così nella definizione delle cartografie di Idrisi, geografo di Re Ruggero, che stabilì in Sicilia il tracciato dei tre valloni segnato dagli emiri: il Val Demone, il Val di Mazara e il Val di Noto. Salemi è Salam ed è una geografia quella siciliana che già nella traslitterazione – da Caltanissetta a Caltabellotta, da Racalmuto a Regalbuto – nel passaggio dall’alfabeto latino a quello arabo non cambierebbe il suono essendo la lingua coranica il codice identificativo della toponomastica e anche della stessa anagrafe. Così, infatti, i cognomi tipici di Sicilia: Alì, Calì, Zappalà e Sciascia.
Quando si dice “colpo di striscio, fu”, quel dislocare a sinistra il colpo mettendo il verbo alla fine è ben più di un arabismo, è carta d’identità. Come il saluto siciliano: “Sabbenedica”. La traduzione letterale è “la benedizione di Dio su di voi”, ovvero Salam wa Aleikom. A sud di Roma c’è tutto questo, c’è anche – tra le incompiute del regime democristiano – lo scheletro di un albergo. È a Pantelleria. E il fabbricato fu a suo tempo conteggiato tra le proprietà del colonnello Gheddafi che non potendo beccare l’isola coi suoi missili pensò bene – grazie all’avvocato Michele Papa, il suo brasseur d’affaires – di comprare il più possibile pezzi di territorio italiano, anche un palazzo a Catania dove allocare una moschea. A sud di Roma c’è Santa Croce Camerina, teatro del tragico omicidio di Loris, un paese ad alta concentrazione di immigrati dove nessuno, grazie a Dio – a differenza del delitto Yara dove si cominciò con l’arrestare un marocchino – ha evocato l’uomo nero. Ciò a riprova dell’avvenuta integrazione, man mano consolidatasi, portando solidità all’agricoltura nell’area ragusana.
A SUD DI ROMA c’è Mazara del Vallo. La numerosa comunità tunisina è presente da cinquant’anni e la casbah della città – fino a sei anni fa senza allaccio idrico e fognature – è oggi il quartiere modello dove dovrebbe andare a lezione la destra xenofoba e islamofoba. Nicola Cristaldi, il sindaco missino, potrebbe spiegare come svegliare la remota identità che, in questo caso, è anche islamica. Gli immigrati, a Mazara, sono gli anticorpi contro la peste fondamentalista wahabita. Sono, infatti, “tornati” a essere mazaresi nel flusso mai interrotto col Maghreb. Ciò che per l’Europa è solo una periferia – la discarica del pittoresco, la famosa Regione siciliana – nella percezione dei terroristi è un approdo. Gli assatanati dell’Isis sono più veloci degli analisti occidentali. È in Sicilia che, ben oltre la stessa radice culturale, individuano il boccone più ghiotto. Il Califfo impostore, bestemmiatore dell’islam, sparge spavento sapendo di potervi condurre – Siqillyya è “la perla dell’islam” – la tappa prossima della guerra civile globale. È il terrore, nostro dirimpettaio.

Corriere 17.2.15
Il primo test di Mattarella con le opposizioni


Parlare di un consulto con tutte le forze politiche d’opposizione è improprio per almeno un paio di motivi. Perché il termine evoca di per sé qualcosa di drammatico e lo staff di Sergio Mattarella vuole tenere il più possibile a bada l’emotività. E poi perché quello che comincia in queste ore è solo un parziale giro d’orizzonte: udienze in ordine sparso concesse ai gruppi parlamentari che hanno chiesto un incontro con lui. Sfumature lessicali a parte, di sicuro gli incontri calendarizzati per stamane (alle 10 salirà la delegazione di Forza Italia e alle 11 quella di Sel, mentre entro la settimana dovrebbe presentarsi anche il Movimento 5 Stelle) costituiranno comunque per il capo dello Stato il primo test per approfondire le ragioni che hanno fatto deragliare il confronto politico in una balcanizzazione del Parlamento. Con durissime contestazioni alla presidente dell’Assemblea, accuse al premier Renzi di «deriva autoritaria» e «ferita mortale per la democrazia», risse in Aula, minacce di Aventino e lo spettro delle urne agitato da diversi versanti. Un vero choc per il Paese.
Prove di forza più o meno simili questo presidente della Repubblica ne ha viste, negli anni in cui ha fatto politica. Stavolta però, oltre a rompere fragorosamente la piccola tregua nata sulla sua elezione (ed è ovvio che non s’illudeva durasse più di tanto), il conflitto andato in scena a Montecitorio pone problemi di particolare peso. Il braccio di ferro con il governo, infatti, verte su una profonda (42 articoli) riforma costituzionale, e i postumi dello scontro potrebbero mettere in gioco la stessa tenuta della legislatura. Accogliendo i suoi interlocutori, Mattarella si porrà dunque «in atteggiamento di ascolto, con lo spirito di chi vuole contribuire — per la parte che gli compete — a un rasserenamento del clima generale e, sì, al corretto svolgimento della dialettica parlamentare». Traducendo: senza interferire nel ruolo di garanzia che compete a chi è alla guida delle Camere. Questo spiegano dal Colle. Ed è scontato che, in quel promesso sforzo «arbitrale», al capo dello Stato in ogni caso non sfugga il fatto che la stessa riforma oggi contestatissima, era pur passata al Senato con una maggioranza significativa. Lo strappo può essere ricucito? Su quali basi e a che condizioni? Ecco che cosa potrà capire dai suoi primi colloqui il presidente, mentre altre complicatissime grane incalzano il Quirinale. A partire dall’avanzata dell’Isis in Libia.

Corriere 17.2.15
Lo scenario internazionale, un’occasione per ricucire
di Massimo Franco


La frenata di Matteo Renzi su un intervento militare italiano in Libia riporta la questione nell’alveo internazionale che meritava. E può diventare un modo per tentare la ricucitura con le opposizioni sulle riforme istituzionali: dividersi sulla politica estera è più difficile che su altri temi. L’idea di «aspettare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite» toglie di mezzo alcune parole avventate dei suoi ministri. E probabilmente argina il rischio di mostrare un’Italia tentata da un’offensiva unilaterale per fermare l’Isis: pericolo che si è affacciato per qualche ora.
In realtà, le polemiche rimangono aspre. Forza Italia e M5S approfittano di quanto avevano detto a caldo i ministri degli Esteri e della Difesa, Paolo Gentiloni e Roberta Pinotti, per tacciare il governo di «dilettantismo».
Di certo, l’inesperienza ha influito sulle prime reazioni, mostrando una carenza vistosa di coordinamento. Ma ieri Palazzo Chigi ha richiamato alla «saggezza, prudenza e senso della situazione». Non si può passare, spiega Renzi, «dall’indifferenza totale all’isteria».
Il ricordo dei bombardamenti euroamericani del 2011 e la tribalizzazione sanguinosa seguita alla rimozione del dittatore Gheddafi sono vivi; e così la consapevolezza che il caos rappresenta una delle principali conseguenze di un attacco deciso ed eseguito allora senza valutarne i contraccolpi strategici e geopolitici. Si tratta di un errore da non ripetere: anche perché avrebbe effetti dirompenti all’interno della stessa maggioranza. Una politica estera concordata potrebbe invece svelenire lo scontro tra governo ed opposizioni sulla riforma della Costituzione: quello che le ha portate ad abbandonare l’Aula della Camera e ad accusare Renzi di «deriva autoritaria».
Il presidente del Consiglio ha rivendicato il ruolo del suo partito nell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. A poche ore dall’incontro di oggi tra il capo dello Stato e delegazioni di FI, Sel e Lega, Renzi si è impegnato in direzione «a fare ciò che l’arbitro ci ha chiesto nel discorso inaugurale: tutto il Pd è impegnato per dare una mano all’arbitro». Impegno «non semplice perché proprio il voto per il Colle ha prodotto una rottura motivata da FI con questioni di metodo». C’è dunque la volontà di offrire una sponda a Mattarella.
La decisione del governo di riferire domani alla Camera sulla crisi libica va in questo senso. Rimane da capire se basterà. Renzi sostiene di volere il confronto, eppure insiste: il Pd ha i voti per fare da solo. Tende a definire le opposizioni come «palude». E avverte: «Niente do ut des ». Tanto basta per ricevere reazioni stizzite da FI. Berlusconi manda il capogruppo Renato Brunetta al Quirinale per avvertire: il premier non può imporre il «prendere o lasciare». Insomma, la Libia suggerirebbe l’unità nazionale. Il problema è se si troveranno i toni giusti per tracciarne confini condivisi.

il Fatto 17.2.15
Brindisi col buco
Matteo, la Boschi e la birra con Buzzi


Chissà se Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative rosse che lavorava per Massimo Carminati, ha assaggiato la birra Flea alla cena di autofinanziamento del Pd lo scorso 7 novembre. Buzzi versò 10 mila euro per accomodarsi a uno dei tavoli renziani e tra le bevande trovò le 800 bottiglie di birra prodotta a Gualdo Tadino dal 34enne Matteo Minelli, imprenditore in buoni rapporti non solo con il premier ma anche con la famiglia Boschi e la banca guidata dal papà del ministro: la popolare dell'Etruria. Capita infatti che il giovane umbro abbia ricevuto dei finanziamenti dall'istituto di credito commissariato da Banca d'Italia, dopo aver preso parte all'operazione Palazzo della Fonte. Un'operazione che ha contribuito a creare il buco di circa 3 miliardi della popolare. Se l'avesse saputo, magari Buzzi (e i suoi soci) avrebbe potuto dare una mano.

il Fatto 17.2.15
Eur Spa adesso vende anche i musei
Dopo il Campidoglio, a Roma si fa cassa liquidando gli immobili
E pure l’Archivio di Stato
di Valeria Pacelli


Non solo il Campidoglio. A Roma si vende di tutto, anche i musei. La necessità di fare cassa infatti ha coinvolto anche le municipalizzate della Capitale. In particolare l’Eur spa – l’ente controllato al 90 per cento dal Tesoro e il restante dal Comune di Roma – che deve ricapitalizzare per ben 133 milioni di euro. Troppi soldi che avrebbe dovuto versare il Tesoro (dato che il comune di Marino non naviga di certo in buone acque: il debito generato negli anni a oggi ammonta a circa un miliardo di euro).
L’Eur spa oltre alle finanze, ha anche il problema di ricostruire la propria immagine pubblica, dopo che l’ex amministratore delegato, Riccardo Mancini, è finito coinvolto nella vicenda di Mafia Capitale. Arrestato e poi scarcerato, perché ritenuto vittima della presunta associazione criminale, Mancini viene anche definito nelle motivazione del Riesame di Roma, che ha fatto decadere nei suoi confronti l’accusa di associazione a delinquere, “un personaggio certamente contiguo ad ambienti criminali di elevato spessore”.
TUTTAVIA NON È LA PRIMA volta che Mancini ha dei guai con la giustizia: già a marzo 2013 finì coinvolto in un’inchiesta per una tangente su un appalto per la fornitura di 45 autobus al Comune di Roma. Mentre cercano di far dimenticare questo passato, i membri dell’assemblea dell’ente Eur hanno deciso di allinearsi alla politica del sindaco Marino e ieri hanno approvato la modifica dell’articolo 4 dello statuto, prevedendo quindi la possibilità di vendere alcuni immobili, anche musei, sperando così di incassare oltre 300 milioni di euro. “È una svolta – ha commentato il successore di Mancini, Pierluigi Borghini – che prevede il ripianamento completo dei debiti con la copertura delle necessità finanziarie passate e future, compreso il completamento delle opere in corso, dalla Lama alla Nuvola all’ex Picar”.
Proprio la Nuvola, progettata dall’architetto Massimiliano Fuksas, dopo molti ritardi (il primo appalto per i lavori è stato affidato nel lontano 2002), dovrebbe essere pronta entro la metà del 2016, mentre i suoi costi nel tempo sono lievitati: se tutto va bene costerà circa 430 milioni di euro.
Una lista di immobili da vendere quindi già c’è: come l’archivio centrale dello Stato, il museo Pigorini, il museo delle arti e tradizioni popolari e il museo dell’alto medioevo. Non verrà venduto invece il palazzo della civiltà italiana, noto come “Colosseo Quadrato”, già affittato dal luglio del 2013 al gruppo Fendi, che ha firmato un contratto per nove anni, con un canone che aumenta con il passare del tempo. “Il canone annuo di locazione – è scritto nel contratto visionato dal Fatto – è pattuito: per i primi due anni in 2 milioni di euro, per il terzo e quarto anno, in 2,5 milioni di euro”. Cifra che a partire dal quinto anno arriva a 2,8 milioni, oltre l’Iva. Se da una parte L’Eur continuerà a possedere quanto meno il Colosseo Quadrato, dall’altro il Campidoglio metterà in vendita una serie di immobili, dopo aver fatto una lista di chi da anni ha la buona abitudine di non pagare gli affitti o di continuare a pagarli per cifre irrisorie.
PER LA PRECISIONE, il Comune ha 751 immobili da dismettere. Nella maggior parte di questi, vivono inquilini morosi o non paganti, altri 58 sono liberi, mentre solo 63 regolari. Qualora fossero tutti affittati, nelle casse del comune entrerebbero circa 27 milioni di euro. A oggi invece quegli affitti fruttano poco più di un 1,7 milioni. Così si scopre che qualcuno a Roma riesce a pagare poco più di 100 euro per una casa di 94 mq in piazza della Consolazione. La scelta del comune però è più che altro quella di vendere, anche se pure stavolta sul caso è dovuta intervenire la Corte dei conti.

Repubblica 17.2.15
Eur, in vendita i musei e l’Archivio di Stato
Borghini: “Non cederemo il Colosseo quadrato. Con quei soldi finiremo la nuvola di Fuksas”
di Francesco Erbani


ROMA VICINA al collasso finanziario, l’Eur aliena i suoi gioielli. La società che gestisce un intero quartiere romano, quasi fosse il suo feudo, ha deciso di vendere i palazzi che ospitano l’Archivio centrale dello Stato e i musei Luigi Pigorini, quello delle Arti e delle Tradizioni popolari e quello dell’Alto medioevo. Sembrerebbe salvo, almeno per il momento, il Palazzo della civiltà del lavoro, il cosiddetto Colosseo quadrato. Con i 300 milioni che si spera di incassare, assicura il presidente Pierluigi Borghini al termine di una riunione del consiglio d’amministrazione, sarà completata la Nuvola di Massimiliano Fuksas. Ma non solo, perché per la chiusura di quel cantiere mancano 130 milioni.
Pezzi importanti del patrimonio culturale vengono messi sul mercato per finire un Centro congressi che sembra una voragine senza fondo. Ma sono anche altre le operazioni spericolate condotte dalla società di cui era amministratore delegato Riccardo Mancini, uomo legatissimo all’ex sindaco Gianni Alemanno, finito in galera prima per tangenti e poi per Mafia capitale. Dalla demolizione del Velodromo allo scorticamento delle torri di Cesare Ligini. Altri manufatti di pregio, la cui sorte fu decisa durante l’amministrazione Veltroni.
I palazzi in vendita, per i quali Borghini sostiene ci siano già delle offerte, non sono edifici qualsiasi. Fanno parte di un complesso architettonico avviato alla fine degli anni Trenta e completato dopo la guerra. Un quartiere nato per iniziativa del regime fascista, ma realizzato seguendo criteri urbanistici di qualità, dagli assi viari al verde. La sede dell’Archivio centrale fu progettata da Mario De Renzi insieme ai più giovani Gino Pollini e Luigi Figini. L’edificio è documentato in tutti i testi d’architettura e qui, in 110 chilometri di scaffalature, è custodita la memoria cartacea del paese.
L’Eur è una spa interamente in mano pubblica. Il 90 per cento è del ministero dell’Economia, il 10 del Comune di Roma. Paradossalmente il ministero per i Beni culturali paga all’Eur quasi 5 milioni l’anno di affitto per l’Archivio. Per il Museo Pigorini 3,6 milioni. Per il Museo delle Arti e delle Tradizioni popolari 1 milione 890 mila. Per il Museo dell’Alto Medioevo 370mila. Ma tutti questi soldi che escono da un portafoglio pubblico per entrare in un altro portafoglio pubblico, non sono bastati a rimettere in sesto le disastrate casse dell’Eur. Che ora dice di essere costretta anche a licenziare 40 persone.
Quella dei musei dell’Eur è una storia che si trascina da decenni. In origine l’Archivio centrale pagava all’Eur un canone di concessione in uso. Era previsto infatti che l’Eur fosse liquidato e che il palazzo rientrasse nel patrimonio dello Stato. Nel 2000, invece, l’Eur venne trasformato in spa (era un epoca di ubriacatura da privatizzazioni). Nel frattempo la concessione in uso era diventata un canone d’affitto a prezzi di mercato, lievitato fino ai quasi 5 milioni di oggi.
Ma in quali mani finiranno gli edifici? E che cosa ne sarà di quel che contengono, le carte dell’Archivio e le collezioni dei musei? L’operazione di vendita non può essere completata senza l’assenso di diverse soprintendenze. Gli edifici sono tutti vincolati e vincolato è quel che custodiscono. Borghini sostiene che si sono fatti avanti sia privati che enti pubblici. Ai quali lo Stato potrebbe continuare a pagare salatissimi affitti affinché custodiscano beni che sono di tutti. «Alienare un patrimonio che già doveva essere pubblico e che è stato gestito malamente, per fare cassa, ripianare debiti e allo stesso tempo garantire agli acquirenti profitti sicuri è una operazione scellerata», sostiene la Cgil Funzione pubblica.

il Fatto 17.2.15
Partita a poker
La linea dura di Varoufakis: “Noi non stiamo bluffando”
di Yanis Varoufakis


In un editoriale sul New York Times di ieri dal titolo “Non è tempo per giochi in Europa”, il ministro dell’Economia greco Yanis Varoufakis ha spiegato la strategia negoziale del suo governo a Bruxelles. Riprendiamo qui in pillole le frasi salienti per capire cosa pensa.

Se c’è qualcosa che la mia competenza nella teoria dei giochi mi insegna è che sarebbe pura follia pensare agli attuali negoziati tra la Grecia e i suoi partner come una partita che si può vincere o perdere con bluff e tatticismi”.
GLI INCENTIVI. “Il problema della teoria dei giochi è che, come spiego ai miei studenti, è che dà per scontati gli incentivi dei giocatori.
A poker o blackjack questo non è un problema, ma in questi negoziati tra governo greco e partner europei, tutta la questione è trovare nuovi moventi. Scoprire un nuovo approccio mentale che vada oltre le divisioni nazionali, dissolva la distinzione tra debitori e creditori favorendo una prospettiva pan-europea e metta il bene comune degli europei al di sopra delle politiche-feticcio e dei dogmi che si sono dimostrati tossici se applicati in modo universale”.
BLUFF. “Spesso mi chiedono: che succede se il solo modo per ottenere finanziamenti è attraversare le tue linee rosse e accettare misure che consideri parte del problema invece che della soluzione? Fedele al principio che non ho il diritto di bluffare, la mia risposta è questa: le linee che abbiamo presentato come rosse non saranno oltrepassate. Altrimenti non sarebbero davvero linee rosse, ma soltanto un bluff”.
RIFORME. “Niente più prestiti, almeno – non finché non avremo un piano credibile per l'economia in modo da ripagare quei prestiti, aiutare la classe media a sostenersi da sola e affrontare una terribile crisi umanitaria.
Mai più programmi di “riforme” che hanno come bersaglio poveri pensionati e farmacie di proprietà famigliare mentre lasciando intonsa la corruzione su vasta scala”.
DEBITI. “Il nostro governo non sta chiedendo ai partner un modo di non pagare i debiti. Chiediamo qualche mese di stabilità finanziaria che ci permetta di impegnarci in riforme che la popolazione greca possa in larga misura sostenere e sentire proprie, così che possiamo riportare la crescita e mettere fine alla nostra incapacità di rispettare gli impegni presi”.
KANT. “Come facciamo a sapere che la nostra modesta agenda di politica economica, che costituisce la nostra linea rossa, è giusta in termini kantiani? Lo sappiamo guardando negli occhi le persone affamate che riempiono le strade delle nostre città o la classe media sotto pressione, o considerando gli interessi di ogni lavoratore nell'unione monetaria”.

La Stampa 17.2.15
Ma i peggiori nemici di Tsipras sono Irlanda, Spagna e Portogallo
I Paesi “salvati” dalla Troika: stiamo perdendo la pazienza
di M. Zat.


Si può capire l’irritazione di Pedro Passos Coelho nei confronti di Alexis Tsipras. All’inizio dello scorso anno - pur di racimolare un centinaio di milioni extra per rimborsare Bce, Fmi e Ue - il premier portoghese ha cercato di vendere all’asta 85 opere di Mirò finite nel portafogli dello Stato dopo il crac del Banco de Negocios. Glielo hanno impedito a furia di proteste ed è stato un bene. A colpi di austerità e riforme, nel maggio 2014 Lisbona è uscita dal «programma» triennale da 78 miliardi che gli ha evitato la bancarotta. È stata dura, ma ha pagato. Nonostante il superdebito, il pil a dicembre dovrebbe crescere dell’1,6%. «Abbiamo rispettato gli impegni», argomenta il leader lusitano. E «questa deve essere la regola».
I peggiori alleati della Grecia sono le capitali uscite da tunnel, quelle finite sott’acqua e tornate a galla. Portogallo, Irlanda e Spagna sono state messe in ginocchio dalla crisi finanziaria che ha minato il sistema bancario e hanno salvato i loro istituti coi prestiti condizionati dei creditori internazionali guidato dalla famigerata Trojka. Inevitabile che, a Madrid, Mariano Rajoy tuoni che «non posso contemplare lo scenario della Grecia che non rispetta gli impegni che ha preso». Per lui è questione di principio, ma anche politica. Se il leader di Syriza la spuntasse gratis, i lanciatissimi cugini iberici di Podemos avrebbero gioco ancora più facile, e i popolari del premier sarebbero spazzati via.
Rajoy verso le urne
Meglio impuntarsi, dunque, mano nella mano coi portoghesi, che pure devono superare l’esame delle urne. Il taccuino dice che in un anno la Spagna è riuscita a coprire una esposizione con l’Europa da 41,3 miliardi. Il prezzo sociale è stato elevato, soprattutto in termini di disoccupazione (22,5% della forza lavoro), è l’anno che s’è appena iniziato è contrastato, l’economia potrebbe crescere di oltre due punti, ma l’inflazione è negativa. A fine anno si vota. Rajoy, quasi simbiotico con Angela Merkel in tempi recenti, non può che restare fedele alla linea delle regole. «La Grecia non ha tanto il problema del debito, quanto quello di crescita e occupazione - ha detto venerdì a Bruxelles -. Su questi due fronti fa passi nella giusta direzione, pertanto ora mantenga gli impegni presi».
Tutti contro Atene
Al vertice europeo il clima è stato teso. «Volete solo scontri, chi credi di essere?», ha detto lo spagnolo al greco. «E’ nervoso - gli ha risposto Tsipras -: ho avuto l’opportunità di spiegargli che non può esternalizzare in Europa i problemi interni». L’irlandese Enda Kenny non sarebbe stato d’accordo. «In Consiglio è stata sottolineata con forza il punto di vista secondo cui le regole vanno rispettate», ha spiegato il Taoiseach, che ricordato come «anche noi abbiamo sofferto molto l’austerità». «Stiamo cominciando a perdere la pazienza», gli ha fatto eco Alexander Stubb, il premier finlandese, un uomo che detesta i giri di parole. Il risultato è che all’Eurogruppo ieri erano 18 contro uno, i greci che, i fan, non li hanno in Consiglio ma nelle capitali. All’opposizione, però.

Repubblica 17.2.15
L’amaca
di Michele Serra


BIBI Netanyahu ci ricorda che l’ottusità è, nella storia umana, un fattore purtroppo notevole. Come ha spiegato benissimo, e con condivisibile animosità, Gad Lerner su questo giornale, invitare gli ebrei europei ad abbandonare i loro paesi per trovare rifugio in Israele equivale a concedere all’antisemitismo e al terrorismo una patente di invincibilità: come se la sola cosa da fare fosse scappare a gambe levate. E come se le comunità nazionali delle quali quegli ebrei, a milioni, fanno parte a pieno titolo da molte generazioni fossero così imbelli e impreparate da non essere in grado di proteggere i propri cittadini.
Di peggio c’è solo da aggiungere che il pensiero di Nethanyau racchiude, alla massima potenza, la perniciosa idea che ognuno di noi sia ciò che è solo in conseguenza della religione e/o dell’etnia; mentre essere francesi o inglesi o italiani o danesi o europei è uno status che, anche formalmente, non deriva in alcun modo da religione o etnia. Qualcuno spieghi a Bibi che gli ebrei francesi e gli ebrei danesi sono francesi ebrei e danesi ebrei: e non è la stessa cosa. Il patto sociale, nelle democrazie moderne, non è tra correligionari, è tra concittadini. Un mondo organizzato alla maniera di Netanyahu prevede tutti gli ebrei in Israele, tutti gli islamici in Arabia e tutti i cristiani a Roma? E gli atei? Tutti a Las Vegas?

Repubblica 17.2.15
Le due Russie in conflitto
di Timothy Garton Ash


“MAI più!” fu il grido degli europei dopo la prima guerra mondiale. E ancora, dopo il 1945, ancora, dopo la Bosnia nel 1995. Ma è successo di nuovo. Nutro una speranza forte quanto il dubbio che l’accordo di Minsk raggiunto grazie agli eroici sforzi di Angela Merkel conduca alla pace. Ma anche nell’eventualità altamente improbabile che ciò accada, siamo già andati troppo oltre.
Un altro Paese europeo è stato smembrato, con la forza. Secondo le stime Onu i morti sono almeno 5.400, i feriti 13.000 e circa 1,6 milioni di persone hanno dovuto lasciare le loro case. La Russia si è formalmente annessa la Crimea, il territorio di uno stato sovrano confinante. L’accordo “Minsk 2” per il cessate il fuoco siglato la scorsa settimana stabilisce che l’Ucraina recuperi il pieno controllo della sua frontiera orientale con la Russia solo entro la fine di quest’anno e solo se si terranno elezioni e verrà conferito lo “status speciale” alle regioni di Donetsk e Luhansk.
L’accordo prevede anche che il governo di Kiev continui a pagare le pensioni, i salari e le “utenze” per regioni che ormai non controlla più. Pensate, è come cedere il soggiorno di casa propria a chi ti punta la pistola alla testa essendo costretti a continuare a pagare le bollette.
Da persone di buon senso possiamo avere idee diverse su come contrastare questa vergognosa aggressione, ma almeno non dovremmo farci illusioni sulla realtà che abbiamo di fronte. Vladimir Putin sfida intenzionalmente l’Unione Europea con uno stile diverso di fare politica, datato e peggiore. La ragione è della forza. Il nero è bianco. La guerra è tornata sulla strada maestra e il diritto zoppica verso il fossato, come un profugo ferito.
Tutto questo accade in un Paese che Russia, Stati Uniti e Gran Bretagna — ma a chi importa più della Gran Bretagna ormai? — giurarono solennemente di mantenere integro sotto il profilo territoriale nel memorandum di Budapest del 1994, purché l’Ucraina fresca di indipendenza rinunciasse al proprio arsenale nucleare, uno dei maggiori del mondo. Cito testualmente: «La Federazione russa, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e gli Stati Uniti d’America ribadiscono il proprio impegno … a rispettare l’indipendenza e la sovranità e i confini esistenti dell’Ucraina ». Firmato: Boris Yeltsin, Bill Clinton e John Major. Immaginate che razza di lezione trarranno dal mancato rispetto di questa garanzia altre potenze nucleari o aspiranti tali: saranno invogliate a non fidarsi e a non rinunciare in nessun caso alle armi nucleari.
La legge della giungla di Mosca si contrappone alla giungla legislativa di Bruxelles. Chi vince? «Vince la Russia», risponde il noto “realista” americano John Mearsheimer. Cosa dovremmo fare allora? «L’Occidente dovrebbe rendere l’Ucraina uno stato cuscinetto neutrale, tra la Russia e la Nato, una sorta di Austria ai tempi della guerra fredda. A questo fine l’Occidente dovrebbe esplicitamente rinunciare all’espansione dell’Unione Europea e della Nato». Bene, grazie mille Professor Realista. Perché non lo firma lei l’accordo? Guardi, abbiamo la sede perfetta per il suo vertice ispirato alla realpolitik: Yalta, dove nel 1945 Franklin D Roosevelt e Winston Churchill diedero ambigua legittimazione all’occupazione dell’Europa orientale da parte sovietica. Yalta, nella Crimea fresca di annessione.
Che diritto abbiamo di indicare ad altri Paesi indipendenti e sovrani di essere “stati cuscinetto neutrali”? Garry Kasparov, che conosce la Russia un tantino meglio di Mearsheimer, recentemente ha twittato: «Sembra che i “realisti” siano ben lieti di condannare milioni di ucraini a vivere da prigionieri in un territorio occupato. In Europa, nel ventunesimo secolo». Qualche giorno fa ho parlato con Kasparov dell’Ucraina. Era stato a Kiev per il ventesimo anniversario del memorandum del 1994 e la sua opinione su questa tragedia è coraggiosa e originale come il suo approccio alla scacchiera. Kasparov ribadisce che non si tratta di un conflitto tra Ucraina e Russia. A suo giudizio è una gara tra due Russie. Con licenza poetica le chiama la Rus di Kiev e l’Orda d’oro. Pur considerando credibili i sondaggi che oggi attribuiscono a Putin in Russia una popolarità stellare, non dovremmo commettere l’errore di confondere Putin con la Russia. Anche Adolf Hitler godette a suo tempo di enorme popolarità, e lo stesso vale per Slobodan Milosevic. La gente può essere condotta verso il baratro se un’abile propaganda sa sfruttare miti nazionali radicati e profonde ferite. Qualche anno dopo però la nazione si sveglia e inizia a pagarne il prezzo. Essere contro Putin non significa essere contro i russi. Anzi, significa essere filorussi e più lungimiranti, sostenendo i russi sotto attacco che rappresentano l’altra Russia.
Da notare che Putin sta agendo in aperta violazione del principio che da sempre sostiene debba essere alla base delle relazioni internazionali: la sovranità incondizionata degli stati. Da che pulpito viene la predica, potreste controbattere pensando all’Iraq. È vero, l’invasione anglo americana dell’Iraq è stata un errore sotto il profilo giuridico, morale e strategico, ma due errori non riparano un torto.
In Siria, potreste anche obiettare, si registrano massacri al cui confronto l’Ucraina sembra quasi in pace. I dati Onu indicano la cifra drammatica di 3,8 milioni di profughi. Cosa sta facendo l’Occidente a riguardo? Le vite arabe valgono meno di quelle europee, quelle dei musulmani meno di quelle dei cristiani? A intervalli regolari mi chiedo se scrivere o meno sulla Siria. Ma a parte il fatto che del Medio Oriente so molto meno che di Europa, le opinioni degli esperti non indicano nessuna chiara soluzione. A quanto pare in territorio siriano troppi gruppi sono bloccati nel conflitto, appoggiati da troppe potenze esterne (inclusa la Russia, che sostiene Bashir al-Assad).
Invece nel caso dell’Ucraina, per quanto complesso esso sia, una soluzione esiste. Può essere riassunta in 14 parole: Putin ritiri le sue forze, l’Ucraina assuma il pieno controllo della sua frontiera orientale. A differenza che in Siria, la soluzione è che un solo attore politico cambi atteggiamento. Senza dubbio questo non fermerà la lotta rabbiosa dei separatisti per la Repubblica popolare di Donetsk. In Ucraina orientale, come in Bosnia, come in Siria, la brutalità della guerra spinge alla radicalizzazione e ha trasformato dei popoli confinanti in nemici. Kiev avrà bisogno di grandi doti di governo e di fantasia per ricostruire uno stato ucraino effettivamente federale, in cui le persone di identità russa possano sentirsi a proprio agio. Ma il cammino verso la pace durevole inizia da quelle quattordici parole.

Repubblica 17.2.15
La nuova religione di Giordano Bruno
Il suo pensiero è nel punto di giuntura tra il sapere rinascimentale e la modernità
In un volume parole e concetti del filosofo di cui ricorre oggi l’anniversario del rogo
di Roberto Esposito


IL 17 febbraio del 1600, per ordine del tribunale dell’Inquisizione, Giordano Bruno veniva arso vivo in Campo de’ Fiori. Ciò che nella sua persona bruciava era un frammento decisivo della filosofia europea e un simbolo della libertà del pensiero nei confronti di costrizioni e di dogmi. A lui è dedicata, per le Edizioni della Scuola Normale Superiore, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, un lessico di singolare rilievo scientifico, diretto da Michele Ciliberto, con il contributo di una serie di studiosi. Configurato come una costellazione, esso è costituito da un numero imponente di voci sulla vita, il contesto storico, l’opera, la fortuna di Bruno. Accanto ai nomi più consueti di Keplero, Spinoza, Leibniz, compaiono, a sorpresa, quelli di Nietzsche e di Joyce, di Gadda e di Calvino, quasi come raggi di una stella che nel corso dei secoli non ha mai smesso di brillare. Come suggerisce il curatore, la grande influenza di Bruno sulla cultura moderna si deve da un lato al suo martirio, che ne ha fatto un mito celebrato dovunque si è voluto difendere la libertà di pensiero; dall’altro alla collocazione della sua opera alla giuntura tra il sapere rinascimentale, aperto ai linguaggi dell’ermetismo, della mnemotecnica, dell’alchimia, e quello moderno, rivolto a protocolli di tipo scientifico. Situato troppo in fretta dalla tradizione illuministica all’origine della cultura moderna, Bruno è stato poi spinto fuori dai suoi confini, in un “mondo di maghi” immaturo ed esaurito, incapace di rapportarsi a paradigmi filosofici e scientifici adeguati.
Solo recentemente il pendolo dell’interpretazione si è stabilizzato, restituendo a Bruno la straordinaria originalità del suo pensiero. La difficoltà a riconoscerne i lineamenti sta nell’inadeguatezza di un approccio strettamente concettuale rispetto ad un autore che, adoperando la lingua delle immagini, ha allargato i confini del lessico filosofico, aprendolo a una dimensione inedita in cui elementi diversi, e anche contrari, interagiscono tra loro. Al centro di questa complessa trama, che sembra collegare quanto precede il sapere il moderno a ciò che lo segue, vi è la figura, insieme immaginifica e concettuale, della Vita infinita. In essa si radica quella rete di differenze che restituiscono il senso profondo della realtà, articolando tra loro il mondo della natura e le varie specie viventi, compresa quella umana. L’unica capace di attingere il sapere dell’intero attraverso quell’itinerario ascendente mirabilmente percorso nel dialogo degli Eroici furori.
In esso l’uomo sperimenta il limite che lo vincola a una misura di finitezza e l’impulso continuamente rinascente a forzarlo fin quasi ad oltrepassarsi, entrando così in rapporto con il movimento in cui ciascun mondo viene a contatto con altri, collegati nel principio vibrante della materia vivente. C’è qualcosa, in questo straordinario disegno che sporge non solo verso i vertici del pensiero moderno — in particolare di Spinoza e di Leibniz — ma anche verso quella svolta della filosofia contemporanea che ha posto la riflessione sulla vita, cosmologica, antropologica, politica, al centro del dibattito. La battaglia di Bruno a favore di una nuova religione, libera dalle catene della superstizione e della violenza, acquista rilievo. Soltanto se connessa a un sapere complessivo della vita, intesa in tutta la sua potenza, materiale e spirituale, la filosofia può acquisire una valenza che va al di là dei propri confini, per farsi liberazione del corpo, sviluppo della mente, fondazione di civiltà.
IL LIBRO  Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, a cura di Michele Ciliberto, Edizioni della Normale, 3 voll., pagg. 2.400, euro 180

Corriere 17.2.15
L’immagine di Togliatti dalle lodi alle critiche
risponde Sergio Romano


Leggo sul Corriere della Sera del 10 febbraio l’interessante articolo «Tragedia delle foibe — il ricordo dopo l’oblio» di Dino Messina, dove si mette in evidenza che le oltre diecimila vittime, fra ex fascisti e partigiani non comunisti, sono da imputare al maresciallo Tito appoggiato dal capo del Pci Palmiro Togliatti. In molte città italiane (specialmente emiliane) ci sono ancora strade intestate a Togliatti. Le domando se non è arrivato il momento di leggere una critica obiettiva, al di là di quell’opportunismo politico che ha sempre caratterizzato questo «sinistro» uomo politico, su Togliatti e sul suo reale comportamento nei confronti degli oppositori politici e delle sue vere intenzioni sul futuro del nostro Paese.
Luigi Agosti

Caro Agosti,
La toponomastica è conservatrice e i nomi delle strade cambiano generalmente durante i grandi rivolgimenti politici. Personalmente preferisco un nome sbagliato sulla targa di un viale o di una piazza, piuttosto che mutamenti bruschi e traumatici. Quanto alla immagine di Togliatti nella politica italiana, ho l’impressione che si sia progressivamente appannata. In un libro apparso nel 1997 presso il Mulino ( Togliatti e Stalin: il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca ) Elena Aga Rossi e Viktor Zaslavsky hanno dimostrato che la «svolta di Salerno», vale a dire l’ingresso del Pci nel governo Badoglio nella primavera del 1944, fu voluta da Stalin. Togliatti, apparentemente, ne fu soltanto il disciplinato esecutore. Contemporaneamente quasi tutti gli studi su Antonio Gramsci, apparsi negli ultimi tempi, hanno meglio chiarito la natura dei rapporti fra i due leader comunisti e sollevato parecchie perplessità sul modo in cui Togliatti utilizzò i Quaderni del carcere.
Non è tutto. Vi sono pagine della vita di Togliatti, prima del suo ritorno in Italia (la missione spagnola durante la guerra civile, il suo ruolo nella liquidazione del Partito comunista polacco, la «rieducazione» dei prigionieri militari italiani in Russia durante la Seconda guerra mondiale) su cui vorremmo avere maggiori informazioni. E ve ne sono altre del periodo successivo (lo spietato giudizio su Giovanni Gentile dopo il suo assassinio, il sostegno a Tito nella questione di Trieste) che non giovano alla sua immagine di leader nazionale.
Credo che stia accadendo, in altre parole, quello che spesso succede quando un uomo è stato troppo lodato ed esaltato. Togliatti ha diritto a un posto onorevole nella storia politica italiana del Novecento. Ha fatto del Pci un partito nazionale. Ha reso possibile la scrittura di una Costituzione che è molto invecchiata, ma che ebbe allora il merito di rispecchiare i sentimenti e le idee di un largo fronte politico. Ha cercato di rivedere la posizione del suo partito dopo la denuncia dei crimini staliniani durante il XX congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Ma gli nuoce ancora la venerazione del popolo comunista e di molti intellettuali soprattutto dopo la sua morte. Continua a sorprendermi il fatto che tanti comunisti abbiano riservato a Togliatti lo stesso culto della personalità che tanti fascisti avevano tributato a Mussolini .

Corriere 17.2.15
Minoranze laiche sconfitte con onore

Prevale il pessimismo nelle pagine finali della Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio (Liberilibri, pagine 217, e 16), in cui Paolo Bonetti ha riassunto con sapienza e passione le vicende dell’antifascismo laico che cercò di coniugare difesa dei diritti individuali e apertura alle istanze sociali. Ne risulta un Pantheon di padri nobili molto variegato, in cui l’autore colloca anche figure tutto sommato più prossime al socialismo democratico (Carlo Rosselli, Guido Calogero, lo stesso Norberto Bobbio) che al liberalismo vero e proprio. Ma tutti, da Piero Gobetti a Mario Pannunzio passando per Giovanni Amendola (che molto di sinistra in realtà non era), finirono sconfitti, sia pure con onore, nel tentativo coraggioso di tradurre le loro idee in azione politica. Del resto ormai si tratta di filoni culturali consegnati alla storia, oggi privi di eredi credibili, per cui stupisce che il Partito d’Azione — realtà effimera ed altamente eterogenea, sparita da quasi 70 anni — continui ad attirarsi strali acuminati come quelli che Dino Cofrancesco, esagerando un po’, gli rivolge nella postfazione, una sorta di cortese controcanto critico, che conclude il saggio di Bonetti.

Corriere 17.2.15
Ebrei a Destra un labirinto
Nessi impensabili a livello ideologico ci fu chi ipotizzò un patto con Hitler
di Paolo Mieli

Da qualche anno il rapporto tra il mondo ebraico e la destra politica europea è finito all’attenzione degli storici. Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, eccezion fatta per qualche studioso americano, in pochi avevano approfondito questa relazione, soprattutto perché, indagando su di essa, si sarebbe dovuto indagare su nessi che coinvolgevano il fascismo e, perfino, il nazismo. Di destra ed ebrei si era cominciato a parlare nella seconda metà degli anni Settanta, ai tempi della vittoria in Israele di Menachem Begin con il Likud. Fu in quel momento (1977) che venne «riscoperta» la figura del leader del revisionismo sionista Vladimir Ze’ev Jabotinsky. Ed è alle personalità, peraltro tra loro assai diverse, di questa particolarissima sensibilità per la destra del mondo israelitico che è dedicato l’interessante libro di Vincenzo Pinto, In nome della Patria. Ebrei e cultura di destra nel Novecento , di imminente pubblicazione per Le Lettere. Fin qui, scrive Pinto, la cultura di sinistra ha finito per rileggere la storia degli ebrei sotto la categoria della persecuzione antisemita («geneticamente» di destra). Le figure conservatrici del mondo ebraico «sono state relegate ai margini della storia», come ingenui rappresentanti di un’utopia, «quella di essere parte integrante del proprio Paese ospitante, di poter realizzare il sogno della diversità senza l’assimilazione».
C’è stato, però, dell’altro. L’ebreo di destra, scrive Pinto, è culturalmente «figlio legittimo della tradizione ma figlio “adottivo” della modernità tecnologica e spirituale». La «destra ebraica», ha osservato lo studioso israeliano Ezra Mendelsohn, è molto più difficile da definire rispetto alla sinistra; se i partiti ebraici progressisti erano orgogliosi di affermare la loro «simpatia ideologica per la sinistra generale europea», i loro oppositori «erano alquanto restii ad ammettere qualsiasi affinità con la “destra generale europea” che, nel periodo interbellico, era spesso sinonimo di fascismo (e, naturalmente, di antisemitismo)». Ciò nonostante, prosegue Mendelsohn, se definiamo la destra come «la formazione di un campo politico fieramente opposto al socialismo» nonché «conservatore nella sua idea di come dovrebbe organizzarsi la società ebraica», allora diventa possibile identificare una destra israelitica già nella stagione tra le due guerre mondiali.
La caratteristica unificante, nel corso degli anni Venti e Trenta, era «l’enfasi tenace sull’assoluta necessità dell’unità ebraica e, di conseguenza, la profonda ostilità verso tutti i movimenti politici che predicavano l’idea di guerra di classe o persino la divisione di classe nel mondo ebraico». Uno dei termini preferiti nel dizionario politico della destra secolare, ricorda Mendelsohn, era quello di monismo ( hadnes in ebraico; una bandiera), «che implicava la supremazia dell’unità nazionale, valore tradizionale ebraico, sulla divisione sociale». La sinistra definì assai pericolosa questa enfasi sull’«unicità» ebraica. Così la destra israelitica fu subito criticata per aver «importato nel mondo israelitico pericolose idee “straniere” che ponevano falsamente un ebreo contro l’altro e perciò facevano il gioco del nemico comune: l’antisemitismo».
Pinto bolla come «discutibili» queste tesi. Ma riconosce a Mendelsohn il merito di aver impostato correttamente la questione. Rimproverandogli, però, di aver teso a «liquidare la destra ebraica moderna (non sionista) come irrilevante nella diatriba tra secolarismi e religiosi», e di aver dimenticato «che, lungo tutto il Novecento, vi furono non pochi ebrei di destra sostenitori di altre forme di nazionalismo conservatore». Grande protagonista di questo libro è il già citato Jabotinsky, definito da Pinto «il re senza corona». Nato a Odessa nel 1880, giornalista, agitatore politico, scrittore, ufficiale dell’esercito, e perfino assicuratore, ha segnato «in maniera indelebile il discorso politico sionista e israeliano nei primi decenni del Novecento» ed è considerato «una delle personalità ebraiche più affascinanti ma, al contempo, contraddittorie del secolo passato». Fu il primo a teorizzare, durante un pogrom nel 1903, l’autodifesa ebraica. Autodifesa che Jabotinsky avrebbe esportato a Gerusalemme all’inizio degli anni Venti. È stato il padre, si è detto, del «revisionismo sionista», ma morì di un attacco cardiaco a New York nell’agosto del 1940 prima di conoscere il volto atroce della Shoah, ma anche prima di aver potuto vedere realizzato il sogno di uno Stato di Israele .
Figura ben diversa è quella del banchiere ebreo torinese Ettore Ovazza, considerato da Pinto «un personaggio quasi romanzesco per la sua ingenua e fideistica adesione al fascismo» o, piuttosto, «un personaggio tragico, accecato dal proprio amor patrio a tal punto da non scorgere il nodo del destino sempre più stretto intorno al collo proprio e dei propri cari». Ovazza — al quale si è già dedicato Alexander Stille nel libro Uno su mille (Mondadori) — rimarrà fascista fino alla fine, accettando la legislazione antiebraica, respingendo l’opportunità di emigrare e trovando una tragica morte, per mano delle SS il 9 ottobre del 1943, nei pressi del confine svizzero. Il suo amore per il fascismo mussoliniano può anche essere letto, secondo Pinto, «come un tentativo di trovare una dimensione estetica nuova e alternativa al sentimentalismo borghese, chiuso in se stesso, incapace di riunire armonicamente spirito e materia». Anche se la visione spirituale dell’ebraismo e del fascismo di Ovazza «si è scontrata con una visione e una realtà materiali che avevano preso il sopravvento»; dappertutto ormai in Europa «si considerava l’ebreo come il materialista per eccellenza, come il distruttore dell’idillio e di tutte le barriere, non come il difensore di un ideale di giustizia messianica o come parte integrante della civiltà occidentale» .
Un caso più complicato è quello di Isaac Kadmi-Cohen (1892-1944) , ebreo polacco, che mise radici in Francia. «Ebreo di sinistra nello scacchiere politico francese, ma di destra in quello sionista internazionale», scrive di lui Pinto, Kadmi-Cohen «ha cercato disperatamente di mutare le sorti del suo popolo e di salvarlo dalla tempesta antisemita» battendosi per la nascita di uno Stato mediorientale che fosse «la casa di tutti i popoli semiti». Kadmi-Cohen concepisce un semitismo come modo di essere alternativo all’arianesimo, e il suo progetto pansemita è alternativo allo «spirito del ghetto». Di più. Per lui «la vera minaccia dell’Occidente non è la barbarie comunista oppure l’Oriente vicino ed estremo… e non è nemmeno più una questione di contrapposizione interna al continente». Il vero nemico è rappresentato dall’America (cioè gli Stati Uniti) e, più in particolare, da quel materialismo di cui è emblema una semplice banconota: il dollaro». L’identificazione del «nemico americano» produce un ambizioso progetto di federazione degli Stati europei, la cui prima tappa dovrebbe essere nella costituzione di un asse politico tra Parigi e Berlino, «che ponga fine ai vecchi conflitti».
Tale progetto va in frantumi tra il 1939 e il 1940 con l’invasione nazista della Polonia e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. E, quando le croci uncinate invadono la Francia, Kadmi-Cohen punta addirittura ad una trattativa con il governo di Vichy per una «espulsione di massa» che favorisca la creazione di uno Stato ebraico e che salvi gli ebrei dal genocidio hitleriano. Ai suoi occhi il nazismo non rappresentava una maledizione politica o religiosa, bensì «una possibilità per porre fine all’apolidismo diasporico». Teorie che non gli eviteranno una morte atroce nel campo di sterminio di Gleiwitz. Ma che gli varranno l’imbarazzante stima di antisemiti come il visconte Léon de Poncins o di negazionisti come Paul Rassinier. Ma la sua storia in un certo senso non finisce con la morte a Gleiwitz.
Suo figlio Jean-François Steiner (dal cognome del patrigno, anche lui ebreo) pubblica nel 1966 un romanzo a tesi intitolato Treblinka (pubblicato in Italia da Mondadori). Treblinka narra la storia della rivolta ebraica nel Lager nazista «cercando da un lato di mettere in evidenza i meccanismi psicologici, tecnologici e morali utilizzati dai carnefici (i “tecnici”) per piegare la volontà delle vittime e dall’altro lato mostrando le profonde contraddizioni insite nel popolo ebraico e, in particolare, il dilemma tra salvezza fisica e salvezza morale». Secondo Pinto, all’autore premeva «dimostrare che la retorica martirologica della resistenza non rappresentava che una prosecuzione del vecchio “spirito del ghetto” tanto criticato dal padre». Voleva altresì porre domande assai scomode sulla «scarsa resistenza ebraica alla deportazione» e persino sulla «collaborazione delle classi dirigenti» israelitiche con i persecutori del loro popolo.
 Una storia a sé è quella del lituano Joseph G. Klausner (1874-1958), prozio di Amos Oz, che di lui ha scritto in Una storia di amore e di tenebra (Feltrinelli). La sua opera «ha rappresentato la realizzazione di una particolare sintesi fra la cultura umanistica occidentale e la tradizione ebraica orientale», là dove Klausner provò a recuperare «le migliori aspirazioni libertarie dei suoi correligionari illuministi occidentali (tedeschi, in particolar modo)», per innestarle sull’albero «sano» della tradizione religiosa orientale.
Più imbarazzante il caso di Abba Achimeir o Gaissinovic (1897-1962), «lettore e interprete» di Oswald Spengler, ammiratore di Benito Mussolini che definì come l’autentico erede di Mazzini e di Garibaldi, oltreché estimatore del generale polacco Józef Pilsudski. Restano celebri le sue «cronache di un fascista» scritte nel 1928 sul giornale revisionista «Doar Hayom». Nel ’29 fonda, con il poeta Uri Zvi Greenberg e lo scrittore Yehoshua Yevin, l’associazione segreta «Brit Ha’Birionim» (Patto dei briganti), ispirata agli zeloti d’epoca romana nell’intento di combattere gli inglesi, gli arabi, ma anche gli «ebrei moderati o disfattisti». Nel 1933 Achimeir fu arrestato con l’accusa di istigazione all’assassinio di Chaim Arlosoroff, esponente di punta del sionismo in Palestina, ritenuto uno dei principali artefici di un accordo commerciale con la Germania nazista.
Ancora più complicato il caso del tedesco Hans-Joachim Schoeps (1909-1980), che nel 1930, in uno scritto dal titolo «Gioventù e nazionalsocialismo», fu in grado di prefigurare la vittoria nazista e nel 1932 venne all’attenzione — in parte benevola — del celeberrimo studioso di misticismo ebraico Gershom Scholem. Negli anni tra il 1933 e il 1934, Schoeps diede vita ad un bollettino, «Der Vortrupp», sorretto da un’omonima casa editrice, vagheggiò un incontro tra ebraismo e nazismo e cercò di costituire un fronte ebraico in grado di ottenere il riconoscimento da parte del governo hitleriano. Tutto era basato su un progetto di «epurazione» interna dell’ebraismo tedesco. Tale progetto, ricorda Pinto, «fu espresso in un memoriale che conteneva l’idea di creare una corporazione ebraica che separasse gli elementi ebraici insani (i sionisti e gli ebrei orientali) da quelli sani (gli ebrei coscienziosamente tedeschi)».
I nazisti non lo seguirono su questa strada, già nel ’35 esclusero gli ebrei dall’esercito e dalla marina e sciolsero tutte le associazioni ebraiche. Nel ’38 Schoeps riparò in Svezia, i suoi morirono nei campi di concentramento e lui poté tornare solo nel 1946 in Germania, dove insegnò all’università e approfondì il nesso tra ebraismo e prussianesimo che gli stava a cuore fin dai tempi della gioventù. Schoeps, scrive Pinto, non rinnegò mai il proprio passato politico (le proprie simpatie per la «rivoluzione conservatrice»), tanto da pubblicare nel 1970 la raccolta di scritti Bereit für Deutschland (Pronti per la Germania) come risposta alle accuse di esser stato un «nazista ebreo». Tenne sempre a distinguere, prosegue Pinto, il suo particolare conservatorismo prussiano dal nazismo, esito di una «rivoluzione popolare» e razziale dettata dall’ hybris umana moderna. Il legame fra prussianesimo ed ebraismo «aveva radici storico-religiose, non razziali, l’eroica ostinazione prussiana contro l’auto-disgregazione aveva sconfitto l’infinità del paesaggio pianeggiante (a differenza della melanconia russa), come gli ebrei avevano fatto verso il deserto attraverso la parola del loro Signore sovrano».
Jabotinsky è stato il leader della destra sionista negli anni che precedettero la costituzione dello Stato di Israele. Ovazza è stato uno dei maggiori rappresentanti della destra ebraica antisionista nell’Italia fascista. Kadmi-Cohen è stato il paladino di un semitismo ultra-rivoluzionario nella Francia della Seconda Repubblica. Klausner ha alimentato una visione organicistica della nazione ebraica tra la Russia tardo-zarista e la Palestina mandataria. Gaissinovic ha sostenuto una visione rivoluzionaria del sionismo. Schoeps ha pensato fosse possibile una rifondazione dialettica dell’ebreo tedesco durante il nazismo. Tutti questi personaggi, scrive Pinto, hanno creduto in una visione militante della cultura: lo spirito non deve «emancipare» gli ebrei dal giogo del capitalismo, ma renderli «partecipi consapevoli della modernità» .
Il loro comune avversario avrebbe dovuto essere l’Illuminismo, l’idea che l’ebraismo fosse semplicemente una «morale» universalizzabile e non più una religione nazionale, che gli ebrei fossero uomini come tutti gli altri. Liberalismo e comunismo erano ritenuti due facce della stessa medaglia: la distruzione dei legami spirituali e comunitari degli individui e la loro sottomissione ad una presunta etica universalistica e utilitaristica. L’antisemitismo era visto come l’altra faccia della modernità, come l’esito di logiche puramente materiali e della (fallita) assimilazione degli ebrei ai popoli ospitanti. Le loro furono esperienze tra loro molto diverse, ma che testimoniano una complessità di nessi in qualche caso imprevedibili. Addirittura insospettabili.

Corriere 17.2.15
Quei personaggi che lottarono per il risveglio del loro popolo

Esce domani in libreria il volume di Vincenzo Pinto In nome della Patria. Ebrei e cultura di destra nel Novecento , edito da Le Lettere (pagine 200, e 16,50) nella collana Biblioteca di «Nuova Storia Contemporanea» diretta da Francesco Perfetti. Uno su mille (Mondadori, 1991) è il titolo del saggio in cui Alexander Stille si è occupato anche del banchiere ebreo italiano Ettore Ovazza, un fervente fascista che venne ucciso dalle SS nell’ottobre del 1943. S’intitola Treblinka (traduzione di Luisa d’Alessandro e Giovanni Mariotti, Mondadori, 1967) il libro dedicato da Jean-François Steiner alla rivolta avvenuta nell’omonimo campo di sterminio. Lo scrittore israeliano Amos Oz parla del suo prozio Joseph G. Klausner, esponente della destra ebraica, nel romanzo Una storia di amore e di tenebra (traduzione di Elena Loewenthal, Feltrinelli, 2003)

La Stampa 17.2.15
Quando tutti gli europei avevano lo stesso vocabolario
La ricerca: 4500 anni fa la culla delle lingue tra Russia e Ucraina
di Fabio Di Todaro


Lo studio non è stato ancora pubblicato. Ma le sue conclusioni, anticipate online, hanno risollevato un dibattito caro ai linguisti: da dove vengono gli idiomi che oggi si parlano in tutta Europa? Se l’origine comune è infatti tutt’altro che da escludere, resta da capire quale sia stato l’epicentro comune da cui ha avuto origine il nostro lessico. Secondo le ultime evidenze, le radici della linguistica indoeuropea andrebbero ricercate nei terreni freddi dell’ex impero sovietico, dove un avo del mix di vocaboli attualmente in uso sarebbe nato almeno 6mila anni fa, per poi diffondersi nel Vecchio Continente. L’ipotesi irrompe dopo un ventennio in cui diversi studi avevano riconosciuto il primato all’attuale Turchia, in ragione delle origini delle prime forme di domesticazione: animale e vegetale.
Un unico antenato
Dall’inglese al greco, dal latino all’irlandese antico, per giungere al tocario: parlato fino all’anno mille in Cina. Più di 400 lingue, dialetti compresi, derivano da un unico antenato. Su questo, ormai da più 300 anni, non ci sono dubbi: troppe le affinità lessicali riscontrate tra espressioni soltanto all’apparenza distanti per non convincersi della stretta «parentela». Ciò che rimane poco chiaro è la localizzazione delle origini di questo embrione linguistico. Oggi, ad anticipare il rilancio delle quotazioni dell’ex Unione Sovietica, sono due ricerche reperibili su BioRXiv, piattaforma creata per favorire la conoscenza dei risultati degli studi scientifici ancor prima che siano pubblicati. In quella che diversi millenni fa era una terra esposta alle incursioni delle popolazioni nomadi, sarebbe germogliata la glottologia poi diffusasi lungo le rotte delle migrazioni dell’essere umano.
Favorevoli e contrari
La conclusione era già stata anticipata 30anni fa, prima che nel 1987 l’archeologo britannico Colin Renfrew rilanciasse il primato dell’Anatolia. Da quel momento in poi la comunità scientifica si è divisa in due fazioni: i favorevoli e i contrari alla leadership della Mesopotamia. Sono arrivate prove a sostegno delle tesi di Renfrew ed evidenze avverse, portate da chi di fronte alle sue conclusioni era parso scettico fin dal primo momento.
Utilizzando le informazioni genetiche tratte da 69 uomini europei e asiatici vissuti nel pieno del neolitico, i ricercatori guidati dal paleobiologo australiano Wolfgang Haak (Università di Adelaide) e dai genetisti statunitensi Dadiv Reiche e Iosif Lazarids (Harvard Medical School di Boston) hanno determinato gli spostamenti dei nostri antenati. Dal confronto dei polimorfismi «sospettati» di indicare i percorsi compiuti delle comunità prese in esame, è emerso che in quei secoli le popolazioni occidentali e orientali si sono mosse lungo direttrici opposte, per incrociarsi all’incirca 4500 anni fa nella steppa. «Le origini di una buona parte delle lingue parlate in Europa sono da collocare tra Ucraina e Russia», sostengono i ricercatori.
Le conclusioni
Lo studio ha considerato i movimenti di artigiani appartenenti alle culture di Jamna (proveniente dalle attuali Ucraina e Kazakistan) e della ceramica cordata (mossisi dalle regioni settentrionali della Germania). Valutati i loro itinerari, gli studiosi hanno concluso che «l’agricoltura non è stata l’unica causa delle migrazioni avvenute tra Europa e Asia». La diffusione delle coltivazioni dalla Mezzaluna Fertile risale infatti ad almeno ottomila anni fa: troppo indietro nel tempo per collegarla alla nascita di una lingua comune. Più recente, invece, l’incrocio tra i due orizzonti archeologici: collocabile nel corso della tarda età della pietra. È dalla loro commistione che ha iniziato a propagarsi il «bisnonno» delle nostre lingue attuali.

La Stampa 17.2.15
Ora il 90% degli idiomi è a rischio estinzione
L’Unesco: mobilitazione il 21 febbraio
di Stefano Rizzato


La previsione più catastrofica è del linguista americano John McWhorter: «Tempo cent’anni e il 90% delle lingue sulla Terra potrebbe essere estinto. Nel 2115 ne avremo circa 600».
Perdiamo le parole
Una stima estrema, forse una provocazione, ma che parla di un problema vero: il mondo sta perdendo le parole. La varietà di idiomi e dialetti globali si sta consumando proprio come la biodiversità naturale. Anzi, ancora più in fretta. Già oggi le lingue in difficoltà, quelle che rischiano di sparire, sono tra 2400 e 3 mila nel mondo. Ed è per questo che sabato prossimo, come ogni 21 febbraio, tornerà la giornata internazionale Unesco per la lingua madre.
Un’iniziativa che questa volta avrà anche una dimensione digitale. Tra i progetti collegati alla giornata ce n’è uno – chiamato «Tweet in your #MotherLanguage» – che suggerisce di usare i social network, e in particolare Twitter, per il compito di proteggere le lingue in pericolo. La proposta è questa: almeno per un giorno, niente cinguettii e messaggi nel solito inglese. Ognuno usi la Rete per scrivere nel proprio idioma nativo, mettendo alla fine un hashtag con il nome della lingua (ad esempio #arbëreshë) e contribuendo così a farlo girare.
Proprio l’egemonia dell’inglese come lingua internazionale e della modernità è tra i grandi nemici della varietà linguistica. Basti pensare che l’italiano – che oggi di certo non si può definire a rischio – figura solo nell’1,8% dei siti Internet globali. Il 55% del web è invece in inglese. E ci sono lingue nazionali come sloveno, serbo, croato, ucraino che raggiungono a malapena quota 0,1%. Gocce minuscole nell’anglofono mare digitale.
La colonizzazione
«In questa fase storica non c’è dubbio: l’inglese è una lingua colonizzatrice, che negli ultimi 40 anni si è espansa e si sta ancora espandendo». A spiegarlo è Cristina Guardiano, linguista dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Che precisa: «Ad essere a rischio non sono le lingue ufficiali e che s’insegnano nelle scuole, ma quelle che hanno perso vitalità. Quelle legate a comunità che si stanno estinguendo o dove nascono bambini che non le imparano più come prima lingua».
Nelle Americhe
I problemi maggiori sono nelle due Americhe, dove ad essere «moribonde» o «dormienti» – per seguire la definizione dell’osservatorio Ethnologue – sono 335 lingue su 1060. Idiomi indigeni come l’Irántxe, parlato in Brasile da meno di 40 persone. E altri arrivati a quota zero, forse svaniti. «In questi e altri casi – prosegue Guardiano – è difficile pensare a un antidoto. Riportare artificialmente in vita una lingua che si avvia ad essere dimenticata ha poco senso. Molti studiosi credono in operazioni di questo tipo, ma le lingue sono organismi naturali: la loro evoluzione non si può forzare».

Repubblica 17.2.15
Quirinale a porte aperte
Il Palazzo non è solo una scenografia di specchi reali e metaforici
È anche il contenitore di una sterminata raccolta di opere d’arte
di Tomaso Montanari


L’AVEVA detto nel messaggio d’insediamento, il Presidente Mattarella: «Garantire la Costituzione significa » anche «amare i nostri tesori artistici e ambientali». Il verbo “amare” appartiene ad un vocabolario davvero lontanissimo dalla retorica corrente della “valorizzazione” (leggi mercificazione) del nostro patrimonio culturale: perché il sottotesto è il brano del Vangelo di Matteo dove si dice che: «Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore». È la stessa lingua della Costituzione, che dice che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio della Nazione » non per aumentare il Pil, ma per favorire «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3) attraverso «lo sviluppo della cultura» (art. 9). Parole che oggi diventano concrete nell’annuncio che il Quirinale sarà aperto tutti i giorni agli italiani.
E ANCHE in questo simbolo della reggia dei papi che diventa reggia dei cittadini c’è un nesso profondo con la Carta: con l’articolo 1, che ci vuole “sovrani”. Entrare nel Palazzo del Quirinale significa camminare sulla cresta sottile del vertice dell’arte barocca: quando Roma era, per l’ultima volta, la capitale artistica del mondo. Nemmeno i Palazzi Apostolici del Vaticano possono sfoggiare un appartamento di Stato delle dimensioni e della solennità del nesso costituito dall’immensa Sala Regia (oggi detta Salone dei Corazzieri) e dalla contigua Cappella Paolina, separate e unite da un portale di marmo degno di una basilica, disegnato da Carlo Maderno (autore, tra l’altro, della navata e della facciata di San Pietro) e scolpito dal dimenticato (ma bravissimo) Taddeo Landini. In questi spazi straordinari, che sfociano in una serie infinita di sale e gallerie, Paolo V Borghese (papa dal 1605 al 1621) riceveva gli ambasciatori, circondato dalle figure dipinte dai seguaci dei due grandi rivoluzionari di primo Seicento, Annibale Carracci e Caravaggio.
Come spesso succede nell’arte barocca, nella Sala Regia va eternamente in scena uno spettacolo, basato sullo sdoppiamento: grazie agli affreschi del fregio, anche quando è vuoto il salone sembra gremito di diplomatici, giunti ad omaggiare il papa da ogni angolo del mondo. Tra i tanti volti esotici che si affacciano dalle balconate dipinte è possibile riconoscere quelli degli inviati del re del Congo, e quello del dignitario giapponese Hasekura Rokuemon, che fu a Roma nel 1616. È una scena che si presta ad una doppia lettura: da una parte essa sottolinea l’aspirazione universale, oggi diremmo globale, del potere papale. Ma è solo il trucco di un bravo pittore illusionista: perché già al tempo di Paolo V il papato era ridotto al rango di potenza regionale, e per giunta di seconda fila. Dopo quattro secoli il messaggio colpisce con la stessa forza, e ci ricorda che la proiezione internazionale dell’Italia rischia di rimanere un’aspirazione, anzi un’illusione: la lama della retorica barocca è a doppio taglio, e noi non siamo cambiati.
Ma il Quirinale non è solo una scenografia piena di specchi (reali e metaforici), è anche il contenitore di una sterminata raccolta di opere d’arte (che vanno dall’antichità ai nostri giorni) e di una importantissima serie di arredi (dagli arazzi ai mobili) provenienti dalle regge degli antichi sovrani di tutta la Penisola, e qui concentrati (anche troppo disinvoltamente, per la verità) dai Savoia. Non c’è davvero alcun bisogno di pensare di trasformare questo luogo unico in un museo, perché è già un meraviglioso racconto del nesso profondissimo tra nazione italiana e patrimonio culturale. Bisogna solo farlo “parlare”: ed entrarci — da sovrani — ci verrà perfettamente naturale.