giovedì 19 febbraio 2015

il Fatto 19.2.15
Falciani: “Ior, indagini bloccate dal Vaticano”


"IN ITALIA quello che si è fatto, è stato grazie agli agenti dei servizi, ma chi li ha fermati sono i loro superiori: tutti sapevano ai più alti livelli e quindi hanno avuto il tempo di reagire", ha detto Hervé Falciani, l’ingegnere informatico italo-francese che ha diffuso la lista di clienti della filiale di Ginevra di HSBC, in conferenza stampa in vista della partecipazione questa sera a Servizio Pubblico, su La7. Secondo Falciani a un certo punto "a Roma arrivò lo stop: i dati non si potevano analizzare. Era il 2011, il premier era Silvio Berlusconi. Renzi non può tenersi intorno la stessa gente come consiglieri, servono veri audit". Poi ha aperto il capitolo Ior: "Le investigazioni italiane sullo Ior furono fermate dal Vaticano: la Svizzera era disposta a collaborare, il Vaticano mise il suo veto. Io spero che questo messaggio sia un elemento di informazione perché oggi una persona importante, come è papa Francesco, può dare un esempio al mondo". Poi ha parlato della Grecia: "Non darò nomi o conti, spetta alla giustizia. Ma sulla frode fiscale in Grecia si può fare un colpo gigante", rispondendo a una domanda sui presunti conti nascosti della madre dell’ex premier greco Giorgios Papandreu.

Corriere 19.2.15
Swissleaks, Falciani: il Vaticano fermò le indagini sullo Ior
Secondo l’ex dipendente di Hsbc che trafugò la lista dei 100 clienti della banca, la Svizzera era disposta a collaborare, ma arrivò lo stop

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Corriere 19.2.15 Prima pagina (sic!)
Come accogliere tutta la ricchezza della parola di Dio
Il conformismo e il chiudersi in un ghetto aprono all’ideologia
Ogni mistero deve restare tale anche dopo la sua rivelazione
di Jorge Mario “papa Francesco” Bergoglio


Nel 1984 papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, allora rettore del Colegio Máximo de San José a San Miguel (Argentina), scrisse alcune riflessioni che La Civiltà Cattolica ha recuperato e tradotto. Il Corriere ne presenta una anticipazione

Nella società moderna si può notare una crescente pluralizzazione della vita: specializzazione, divisione del lavoro, diversità di metodi. L’affluenza di metodi teologici diversi, del pluralismo interno alle discipline particolari, dei presupposti storici ed ermeneutici del contesto socioculturale configura, in teologia, il fenomeno del pluralismo, il quale non soltanto permette molte e diverse sintesi, ma anche, e di frequente, suggerisce una tentazione di carattere sincretistico: si fanno convivere e si mettono d’accordo conoscenze e postulati che derivano da ambiti diversi e finanche contrari. Su questa base si pone il problema di come si possa conservare la necessaria unità di confessione della fede accanto a un pluralismo coltivato con tanta profusione.
La soluzione di questo problema è esposta anche a esiti inadeguati. Da una parte, c’è l’errore di voler ridurre tutto a un denominatore comune, cosa che, in fondo, implica che la pluralità venga considerata una realtà negativa.
In questo caso, il primato assoluto delle forme di confessione della fede rispetto alla missione costante della loro traduzione sarebbe tale da generare uno spirito di reazione, di conformismo, di ghetto, di integrismo violento, sicché la teologia rinuncerebbe alla sua missione creativa. Se si seguisse questa opzione, verrebbe soppressa la necessaria differenza tra unità di confessione e legittima diversità di spiegazione teologica; ne risulterebbe un’unità morta, artificiale, opprimente e paralizzante rispetto all’impulso missionario. Le idee subentrano alle persone e si apre la strada all’ideologia.
Dall’altra parte, il pluralismo non sembra così inoffensivo e neutrale come alcuni lo considerano a prima vista. Se infatti giungesse a non preoccuparsi dell’unità della fede, questo comporterebbe la rinuncia alla verità, l’accontentarsi di prospettive parziali e unilaterali. Appellarsi alla legittimità del pluralismo come una rivendicazione costante potrebbe equivalere semplicemente a un facile espediente: quando, infatti, non sussiste alcuna relazione con l’estraneo, ci si accomoda nel proprio mondo e nei propri interessi particolari, ci si immunizza, ci si isola e si evita la competenza.
Il pluralismo risulta non meno nefasto quando dimentica i postulati scientifici e agisce, o reagisce, mosso esclusivamente da interessi sociali di carattere politico o di critica sistematica verso la Chiesa. Da questa posizione può derivare un atteggiamento sfrenato e capriccioso, una tirannia di forze che aspira soltanto a imporre il proprio punto di vista. Si scade nella chiusura e nella polarizzazione teologica. Resta dunque aperta la questione dei percorsi di un pluralismo adeguato, in cui la fede non cada nei lacci di un pluralismo smisurato, né di un becero conformismo. Qual è, dunque, la forma cristiana di unità? [...]
Von Balthasar elabora due criteri sui quali egli incentrerà la sua riflessione circa la possibilità di un pluralismo ecclesiale: il criterio di prossimità e il criterio di massimalità.
Il criterio di prossimità comporta che qualsiasi mistero resti tale anche dopo che sia stato rivelato. Il mistero non è «controllabile», come vorrebbe la fantasticheria di tutte le gnosi che — ansiose di controllarlo e, d’altra parte, dovendo mantenere in questo controllo un qualche aspetto misterico — traspongono il mistero nel controllo dei riti d’iniziazione. La stessa cosa accade sul piano umano della comprensione del prossimo: «L’intesa interpersonale, nella sua dialettica tra com-prendere e lasciare-libero [...] è senza dubbio il luogo privilegiato per la comprensione di quello che può essere la rivelazione divina in Gesù Cristo. [...] La comprensione della fede conosce innumerevoli gradi di profondità, il che non vuol dire che il mistero possa essere dissolto successivamente e mutato in concetti misteriosi. Da una simile illusione ci preserverà lo stesso nostro rapporto interpersonale: la conoscenza della sfera personale di un altro uomo ci introduce più profondamente negli spazi incondizionati della sua libertà; ma, invece di diminuire, essa cresce in noi, e noi cresciamo dentro di essa».
Poiché qualsiasi prossimità è un avvicinamento di ciò che mi trascende, è essa stessa a liberare la capacità interpellante di qualunque testo. Non si tratta più della contrapposizione «o lettera o spirito», ma di un’apertura del cuore che giunge a scoprire lo Spirito che c’è in ogni testo rivelato. [...] Nel Vangelo, la prossimità per eccellenza, che è quella del Dio incarnato, si esprime nel genere della parabola: il buon samaritano.
In questa parabola si coglie l’atteggiamento di «passare alla larga» [...]. Esso rende possibile confondere una persona che invoca nel suo stato di necessità con un impaccio qualsiasi: una confusione costruita dalla sufficienza.
Vi si coglie anche l’altro atteggiamento, quello di colui che «si avvicina» mosso dalla misericordia, «si fa prossimo»; perché qualsiasi miseria ha qualcosa di pudico e si nasconde, e per comprenderla, è necessario «farsi prossimo» ad essa. La prossimità acquista la sua pienezza nella synkatabasis del Verbo, che si fa prossimo. Allora, l’ultima parola di Dio, il Verbo incarnato, trascende ormai l’ambito della rivelazione e dell’indottrinamento (lo presuppone) e si esplicita in partecipazione e comunione.
Questo, più che parola e azione, vuol dire sofferenza, e pertanto l’«abbandono di Dio» fino alla discesa agli inferi. Nel criterio di prossimità, reso eminente in Gesù Cristo, c’è la realtà di Dio espressa sub contrario; e ciò tocca tutti gli organi e i gesti della Parola divina, tutta la Chiesa, compresa la riflessione teologica. La prossimità, condotta a questo grado che si esprime in Cristo, è istituzione, è logica teologica, ma non panteismo diffuso.
L’altro criterio utilizzato da von Balthasar, la massimalità, nasce da qui, e costituisce un criterio universale e sufficiente nei limiti del quale il pluralismo teologico è ammissibile. [...] La massimalità dell’amore di Dio va accettata, ma così come si trova in Gesù Cristo: nella povertà e nell’umiliazione volute da Dio, che l’uomo non può respingere con il pretesto che si raffigurava la maestà divina in un altro modo, vale a dire come collocata esclusivamente nel cielo. In questo senso, possiamo dire che il criterio di massimalità si può intendere come l’eminente esplicitazione del criterio di prossimità.
Per dirla in forma negativa, con parole dello stesso von Balthasar, «tutte le volte che nella spiegazione del mistero sembra che un aspetto risplenda in modo veramente razionale, e che quindi il carattere misterico (che indica la “radicale diversità” di Dio, la sua divinità, che lo distingue da tutto e da tutti) è stato parzialmente respinto, per dare libera espressione a una visione terrena che si può abbracciare con l’occhio umano, lì c’è eresia, o per lo meno si sono oltrepassati i limiti della legittima pluralità teologica».
Allora il mistero è stato addomesticato, lo si è allontanato, lo si è minimizzato con un atto che non è intellectus fidei , ma piuttosto intellectus rationis humanae . Allora non ci sono più dogma o riflessione teologica, bensì idea e ideologia. Come dicevamo sopra, infatti, in questo tipo di ideologie plasmate attraverso la categorizzazione del mistero esiste una dimensione che diventa una sorta di caricatura del mistero, una dimensione misterica che lo avvicina a una gnosi.
Resta aperta la problematica della relazione ideologia-gnosi, che tocca la questione del pluralismo. Essa rende possibile definire ogni cattivo pluralismo teologico come un monismo gnostico con pretese programmatiche. Riguardo a questo, i fondamentalismi attuali possono essere citati come esponenti del genere.
Il criterio di massimalità, come espressione più compiuta del criterio di prossimità, renderà possibile un reale pluralismo teologico: infatti richiede un massimo di unità nel corpo di Cristo che è la Chiesa, insieme a un massimo di differenza tra i suoi membri. Il segno sarà l’unanimità nell’espressione plurale.
Un cattivo approccio al pluralismo significa il contrario di questa verità. Implica che non siamo capaci di sopportare l’unità superiore, di cui — attraverso la sua missione e la sua grazia — noi siamo soltanto un frammento, sicché l’unità resta spostata dal tutto alla parte, e così cadiamo nelle ideologie proprie dell’uomo unidimensionale, che si erge a «signore» della verità. L’unità superiore implica che si sopportino tensioni e conflitti, i quali, secondo von Balthasar, possono mostrarsi come dissonanze, che tuttavia non vanno mai confuse con la cacofonia del monismo gnostico.
Queste tensioni sono il «luogo bellico» del Vangelo, e l’unità superiore a cui aspiriamo — unità in cui si risolvono in maniera qualitativamente diversa le tensioni — è quella che ci costituisce in creature, in servi; è quella che ci dà un riferimento alla nostra identità. Essa, in definitiva, è appartenenza a un corpo al quale siamo chiamati, e ci trascende e ci consolida come credenti.
[...] L’autentico pluralismo deve essere cosciente di essere parte, e mai il tutto. Il teologo deve fare tutto il possibile affinché la sua verità trovi posto nello spazio dell’unica Chiesa. D’altra parte, la comunione della Chiesa può essere garantita soltanto se essa si esprime chiaramente nella dinamica concreta della riflessione teologica. E qui entrano in gioco tre elementi decisivi: il riferimento costante alla Sacra Scrittura come fondamento; la conoscenza delle grandi tradizioni cristiane; la comprensione attuale dell’uomo e del mondo.
[...] La tensione tra pluralità e unità non soltanto non si può risolvere accentuando una delle parti e spostando verso di essa il polo di sintesi, ma non si può risolvere nemmeno ecclesialmente, tentando una sorta di equilibrio tra le autonomie delle parzialità, la cui formalità unitiva risulterebbe il sincretismo. In questo caso, si otterrebbe soltanto una caricatura del vero pluralismo, e le opzioni ispirate nel contesto di un simile atteggiamento sincretistico potrebbero riuscire utili soltanto per il «momento», ma non per il «tempo», perché manca loro la capacità di apportare armonia a qualsiasi processo e a qualsiasi accrescimento.
E in concreto, tali soluzioni mancano di armonia cristiana, in quanto, facendo del sincretismo su questo piano, si ottiene un compromesso di parzialità autonome secondo un equilibrio concordato, ma non si assume, né si esprime, quell’armonia cristiana che si raggiunge soltanto passando attraverso la croce. Sopravvive una sorta di asintoto che porta a tendere, senza raggiungerla, verso una federazione di autonomie che pretende di simboleggiare l’unità. L’unità di confessione ci invita a non diluire la ricchezza originale della parola di Dio nelle sue differenze, e a respingere la pretesa di fare noi le sintesi perfette e controllabili.
Partecipare all’unità di confessione implica accettare di appartenere, e quindi assumere tutte le conseguenze dell’appartenenza che questo tipo di unità comporta, in noi, dal punto di vista ecclesiale. È tutta la Chiesa a possedere tutta la verità di fede, ed è possibile partecipare di questa totalità soltanto nella misura in cui l’appartenenza ecclesiale risulta totale.

Corriere 19.2.15
il diavolo probabilmente
Una mostra a Rovigo raccoglie opere di grandi pittori simbolisti
Così si espressero gli incubi dell’Europa di fronte ai cambiamenti della modernità tra Ottocento e Novecento
Alle radici dell’inquietudine moderna le città regno degli oscuri visionari
di Melisa Garzonio


Paris brûle-t-il? Parigi brucia? Le truppe di Hitler non hanno ancora invaso la Ville Lumière, eppure. Siamo nel ventennio fin de siècle, la Belle Époque si sta avviando al tramonto, si spengono le luci dei boulevard, finita la magia, basta champagne. È la modernità che avanza, ma non ci sono istruzioni per l’uso. Bella la scienza, apre nuovi orizzonti ma insieme porta tensioni e crea grossi scompensi. Forse il passato era più seducente?
Il vento del cambiamento (e dello spaesamento) si coglie non solo nella Parigi bella e corrotta di Baudelaire, ma soffia impetuoso in tutta Europa, a Berlino, Vienna, Venezia, Dresda, Monaco, nella Londra noir di Edgar Allan Poe. La guerra del ‘14 è alle porte, e nel ‘29 arriverà la grande depressione che metterà in ginocchio l’economia del pianeta. Ma torniamo a Parigi. C’è un pittore, apparentemente incurante dei venti avversi, che si fa cronista dei fatti in chiave seducente, ambienta le sue tele in luoghi eclettici, esotici e fiabeschi, fa di ogni derelitto l’emblema di condizioni, caratteri, di destini e maledizioni: si chiama Gustave Moreau.
I suoi quadri, scriveva Zola, «sono enigmi... fantasticherie sottili, complicate, enigmatiche, di cui non si riesce subito a svelare il senso». Insensatezze che però interpretano stati d’animo e inquietudini collettive. È da Moreau, dal suo luciferino armamentario di sfingi, chimere, rapaci, mostri e incubi che prenderà le mosse la corrente del Simbolismo europeo. Ed è con due tra le tele più citate e dissacranti del pittore francese, Edipo e la sfinge e Salomè danzante che si apre il percorso della mostra «Il demone della modernità» al Palazzo Roverella di Rovigo (fino al 14 giugno).
L’eroe antico e la danzatrice lasciva, due temi che Moreau ha replicato ossessivamente, fin quasi alla morte. Scaldata l’atmosfera, si dà la parola ai pittori che sulla scia del maestro visionario hanno interpretato il nuovo con gusto nero e interventi audaci. Una trentina di nomi, con tante celebrità: Marc Chagall, Paul Klee, Max Klinger, Odilon Redon, Félicien Rops, Leo Putz, Alberto Martini. Ma la mossa vincente del curatore, Giandomenico Romanelli, è aver portato a Rovigo artisti magnifici e quasi sconosciuti, come Sascha Schneider, Oskar Zwintscher, Mirko Racki.
Dipingono donne, diavoli e metropoli impossibili. Come quelle di Mikalojus Konstantinas Ciurlionis, una pittura intrisa di nebbie colorate, un vedo non vedo di acropoli con torri immaginarie e cieli rarefatti.
Fu un «mistico veggente», come lo definiva Bernard Berenson, colto fino alla ricercatezza e dotato, anche, di poteri taumaturgici. «Un’arte magica — come osservava lo scrittore Romain Rolland ammirando le riproduzioni dei suoi quadri sulla rivista russa Apollon — di fronte alla quale si prova la stessa sensazione di quando, addormentandoci all’improvviso, ci sembra di volare».
E in questa sorta di sogno a occhi socchiusi, ecco apparire gli angeli, custodi meditabondi di paesaggi che adombrano una modernità addirittura industriale. «Quegli angeli sembrano vegliare su città antiche ma anche futuribili, sono Babilonia e Gerusalemme, metropoli celesti e città-macchine silenziose come cimiteri arcaici», spiega Romanelli, indicando l’incredibile tela notturna con creatura alata intitolata Demonio: una cornice di cipressi böckliniani alternati a colonne doriche e torri di Babele che custodisce una figura oscura con grandi ali da pipistrello.
Sarà il demonio, ma a noi pare una prefigurazione di Batman, il Cavaliere oscuro. E come non accostare a Gotham City, teatro delle imprese del supereroe della DC Comics, la New York livida e saettante dall’acqua nera della baia, dipinta nel 1930 da Gennaro Favai dal ponte del piroscafo Conte Rosso? La mostra arriva in porto con questo quadro omaggio al film Metropolis (1927) di Fritz Lang, che a sua volta ebbe la visione del capolavoro mentre stava sbarcando a New York per la prima dei Nibelunghi .
«La mostra — conclude Giandomenico Romanelli — vuole cogliere e percorrere lo spazio di mezzo , il tempo contrastato e irripetibile in cui la modernità si mostra come in visioni e illuminazioni che ciascuno interpreta sotto la specie di rivelazioni di forme e colori, di temi e soggetti dominati da una travolgente forza visionaria».

Corriere 19.2.15
Dall’inferno agli abissi umani
Le raffinate astuzie di Satana
Tra Otto e Novecento Belzebù ha perso la sua carica simbolica e si è annidato nella psiche
di Roberta Scorranese


Nel 1872 un russo divorato dalla febbre del gioco scrisse I demoni , un romanzo-affresco su una umanità posseduta, mossa da uno estremo istinto di distruzione creatrice. Nello stesso anno, un pittore (anche questo russo) dipinse una delle più singolari Tentazioni di Cristo: Gesù è solo, in mezzo al deserto, il demonio non è visibile, non ha le consuete sembianze caricaturali (come, per esempio, nelle Prove di Cristo di Botticelli). Perché il demonio è in Cristo , è nella sua espressione perduta, nelle sue mani strette dall’ansia, nelle pietre aride.
Così Fëdor Dostoevskij e Ivan Kramskoi hanno dato vita a una nuova, rivoluzionaria visione di Satana. In Russia, e forse non a caso: nella terra degli Zar il nichilismo assunse una fisionomia originale, sospesa tra la filosofia e la denuncia sociale. L’eclisse di Satana, o, meglio, la sua trasfigurazione, prende piede anche qui.
Un’eclisse che, nel periodo al centro dalla mostra «Il demone della modernità», tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, poco alla volta trasforma il demonio in qualcosa di interiore. Nevrosi, sensi di colpa, rimorsi, tormenti modernissimi, poi sigillati dalle sentenze di Freud (se non c’è Dio non può esserci il demonio, diceva in sintesi) e, in definitiva, c’è la conferma della geniale intuizione di Baudelaire: «Il miglior trucco del diavolo è nel convincerci che non esiste».
Ma il percorso non è semplice: sin dalla metà dell’Ottocento Lucifero, spogliato di una teofania impoverita, si annida nelle idee, prende a nascondersi negli abissi insondabili dell’uomo descritti da Edgar Allan Poe. Nel Diavolo nel campanile (1840) Belzebù compare nei panni di un ometto insignificante e stravolge la normalità di un piccolo, sereno borgo. Nell’inno A Satana di Carducci c’è tutta l’energia di un pensiero libero, rivolto alle cose materiali — si è detto: da massone.
In Breve storia del diavolo (Castelvecchi), Alberto Cousté annota: «Durante il secolo XIX il demonio si ritira per preparare una strategia incentrata sulla metamorfosi». Il demone della modernità si nasconde, si traveste, per poi ritornare e a volte torna in forma di caricatura: se ne I fratelli Karamazov (ancora Dostoevskij!) appare a Ivàn in abiti borghesi, nel Doktor Faust di Thomas Mann (1947) tornerà a sedersi in salotto, di fronte al musicista Adrian Leverkühn. Nella novella La Madonnina di Pirandello, se ne sta «in agguato dietro il seggiolone su cui il padre beneficiale Fioríca sedeva con Guiduccio sulle ginocchia».
Il periodo a cavallo tra Otto e Novecento ha trasformato il demonio in una fiction. Un «personaggio letterario che non turba la vita degli uomini — scrive Cousté — anche se li istiga ad ampliare la coscienza e a ribellarsi». Lucifero è astuto: ha capito che, se dio è morto, adesso bisogna fare leva sulle nuove aspirazioni autarchiche dell’uomo. Lo ritroviamo nella vena necrofila di Gottfried Benn o nell’iconoclastia di Giovanni Papini, il quale, nel 1953, pubblica Il diavolo , saggio nel quale auspica che se la misericordia di Dio è immensa, allora anche l’angelo caduto verrà perdonato. Non verrà perdonato lui, Papini, che si ritroverà il volume nell’Indice dei libri proibiti, ma ci penserà il cinema a esorcizzare satanasso, a cominciare dalle commedie brillanti come Harry a pezzi (1997) dove Woody Allen troverà un luciferino Billy Crystal ad aspettarlo all’inferno. Ci voleva la concretezza semplice di un Papa come Francesco a ricordarci che il demonio c’è eccome, che non è una leggenda.
Forse è anche per questa recente consapevolezza collettiva risvegliata dal pragmatismo del Pontefice che oggi libri come Sottomissione di Michel Houellebecq, dove si ipotizza una Francia islamizzata, sono capaci di destare preoccupazioni, evidenziando (come con il luminol) quelle tracce demoniache ancora presenti nella realtà. Perché il diavolo non è nel nemico, come ci insegna la teologia. Il diavolo è nel nostro sguardo, più o meno consapevole. Il demone della modernità è più moderno che mai.

Corriere 19.2.15
L’eclissi della verità foraggia il Maligno
di Marco Ventura


Tempi propizi al demonio, i cambi d’epoca. Il nostro, all’inizio del terzo millennio, come quello rievocato a Palazzo Roverella, tra fine ‘800 e primo ‘900. Si somigliano il demone moderno
di allora e il demone postmoderno di oggi. Trovano alimento nello sconforto per un mondo al tramonto, nella paura per un nuovo mondo ostile. I demoni infiltrano
la storia, la scienza, la tecnica; se ne impadroniscono. Di lì, sfidano gli angeli e gli dei. Sostituiscono l’inferno al paradiso, al nirvana, all’illuminazione. Mettono la religione in mano al potere e al denaro. Come nel Vangelo, il diavolo è ricco e potente. Lo scorso ottobre, il Papa ha chiamato alla battaglia contro «i principati e le potenze», contro Lucifero
e i suoi. Ci hanno fatto credere che il diavolo fosse «un mito, una figura, un’idea», ha detto Francesco. Invece «il diavolo esiste»; ci spara contro «frecce infuocate».
È il padre «dei bugiardi e della menzogna». Proprio nell’eclissi della verità trova linfa il demonio. Gli artisti lo percepiscono. Esplorano le ombre perché hanno fede nella luce. Sono blasfemi, ieri e oggi, perché si ribellano alla menzogna. Dando forma al Maligno ne denunciano la presenza; esplorando gli abissi del falso, spingono l’uomo verso il vero. Per questo l’artista è indispensabile nei cambi d’epoca.
Per questo è perseguitato. Nel primo Novecento, toccò agli artisti degenerati invisi a nazisti e comunisti. Oggi è ucciso in nome di Allah chi profetizza un mondo in balìa dell’odio religioso. Come un secolo fa, l’artista sente la tragedia incombente. Vede angeli e demoni in lotta.

«Il più gelido e “tecnico” (Heidegger) sterminio mai messo in opera sul pianeta»
Repubblica 19.2.15
Quella legge sul negazionismo
frisponde Corrado Augias


Gentile Augias, premetto nei termini più fermi che ritengo demenziale la tesi che nega la Shoah, le prove sono inconfutabili, negare i fatti è solo una deriva ideologica. Ciò detto, nettamente dissento dal disegno di legge, già approvato in Senato, che sanziona penalmente i negazionisti. Il varo di tale legge significherebbe riconoscere implicitamente la debolezza delle argomentazioni volte a smontare le risibili, ancorché ignobili, tesi negazioniste. In altre parole, per smascherare una palese e goffa bugia non è necessario incarcerare il bugiardo, ma è sufficiente fare emergere le evidenze derivanti dall’applicazione del comune buon senso. Solo i regimi totalitari hanno imposto per legge le verità storiche. Rammento infine che l’art. 21 della nostra Costituzione sancisce che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».
Alberto Tettamanzi

La questione sollevata dal signor Tettamanzi è vicina all’altra di cui si discute in questi giorni se sia lecito, e fino a che punto, ridere di convinzioni religiose proprie o altrui. Temi di straordinaria delicatezza per i quali dovrebbe valere la risposta secondo la quale — in una democrazia liberale — fino a quando non si provochi un danno la manifestazione del pensiero è libera. Il padre di questa distinzione è il filosofo inglese John Stuart Mill, illustre rappresentante dell’utilitarismo, il quale precisa che mentre un danno è quantificabile un’offesa non lo è appartenendo alla sfera imponderabile dei sentimenti. Si può applicare la stessa distinzione alla Shoah, vale a dire al più gelido e “tecnico” (Heidegger) sterminio mai messo in opera sul pianeta? Il Senato della Repubblica ha approvato pochi giorni fa un disegno di legge che considera un’aggravante il fatto che la propaganda razzista si fondi sulla negazione dello Sterminio o di altri crimini contro l’umanità. In Germania esiste una legge più severa che punisce chi nega lo Sterminio, anche se non è accompagnato da un’istigazione all’odio. Altri Paesi europei hanno adottato provvedimenti analoghi. L’obiezione che viene avanzata contro leggi di questo tipo è che si fanno rientrare nel novero dei reati (o delle aggravanti di un reato, nel nostro caso) affermazioni che andrebbero valutate solo con i criteri della storia. I quali sono mutevoli e opinabili e possono far considerare Bruto un assassino parricida o un martire della libertà. Ma valgono questi criteri di fronte a crimini orribili, ampiamente testimoniati e documentati, cioè innegabili? Si deve garantire libertà d’espressione anche a chi nega l’innegabile? L’essenza delle democrazie è di lasciare liberi di esprimersi anche i suoi nemici nonostante i rischi che questo comporta.

La Stampa 19.2.15
Madia in tv: “Io e Di Battista eravamo catechisti insieme”

il video qui
si ringrazia Marcella Matrone

il Fatto 19.2.15
Pinocchio
L’ottimismo è il sale della vita e Renzi lo sa

“Siamo un Paese manifatturiero, secondo alla Germania, ma li riprenderemo”.
(Matteo Renzi 18/02/2015)

L’OTTIMISMO, Tonino Guerra dovrebbe averlo chiarito, è il sale della vita, però oltre certi limiti si sconfina nell’uso improprio di vie en rose o, nei casi più spiacevoli, nella menzogna bruta. Riassumendo: è vero, siamo il secondo manifatturiero dell’Eurozona e d’altronde lo eravamo anche quando Matteo Renzi non era ancora nato. Andrebbe chiarito, semmai, che il manifatturiero europeo - Germania esclusa - è stato desertificato in questi decenni: il caso della Gran Bretagna, che ha scelto di diventare una grande banca a cielo aperto, è sotto gli occhi di tutti. Vabbè, ma “li riprenderemo”? Ecco qui si scende nella bugia in purezza. Facciamolo dire a Confindustria: “Tra il 2000 e il 2013 l’incremento dei volumi prodotti a livello mondiale è stato del 36,1%. L’Italia è in netta controtendenza: -25,5%”. In esseri umani fa oltre 1,2 milioni di disoccupati in più, in imprese 120mila in meno. Il 2014, come alcuni ricordano, non è andato meglio. La Germania, nello stesso periodo, non è andata bene, ma neanche male, aiutata dall’euro (moneta assai sottovalutata per la forza dell’economia tedesca e che rende assai difficile, per noi, avere performance migliori delle loro). Pinocchio, si sa, non studiava ed era pure toscano.

il Fatto 19.2.15
Dizionario quirinalese
Mattarella in playback: lui tace, i giornali scrivono testi e musiche
di Fabrizio d’Esposito


Il capo dello Stato ha incontrato le opposizioni, martedì scorso, e sui quotidiani debutta una nuova lingua: il mattarellese. Verbi e aggettivi stile pastone anni Settanta, di un’Italia in bianco e nero, e che non sappiamo se realmente pronunciati dal nuovo presidente, già avvolto in una leggenda fatta di riserbo e silenzio e sobrietà. È come se ieri sui giornali presi in esame per questo dizionario, Mattarella avesse parlato in playback. I quotidiani sono: Sole 24 Ore, Corriere della Sera, Stampa, Repubblica e Messaggero.
Ascoltare. Gli esseri umani, è universalmente noto, hanno cinque sensi. Uno di questi è l’udito. Un fatto naturale, a meno di non essere sordi, purtroppo. Invece ha avuto molto risalto questa dote di Mattarella, dipinta come strabiliante e nuova: “Mattarella ascolta (Sole, addirittura in prima pagina), “Mattarella e l’ascolto di tutti” (La Stampa). Ancora dalla Stampa: “Il suo discorso, molto conciso e racchiuso tra lunghe parentesi dedicate all’ascolto”. Questa enfasi sul verbo ascoltare insospettisce. Prima ipotesi: Mattarella era sordo e ha riacquistato l’udito al Colle, miracolosamente. La seconda: a non ascoltare, invece, era il suo predecessore Giorgio Napolitano e quindi adesso c’è la meraviglia per un capo dello Stato che tende l’orecchio e capta le dichiarazioni degli interlocutori. Delle due l’una. In ogni caso, al Quirinale è stato scoperto l’udito.
Arbitro. La metafora calcistica che lo stesso Mattarella s’intestò nel giorno del giuramento in Parlamento è ovviamente la più gettonata. Memorabile però il titolo a un editoriale di Paolo Pombeni, sempre sulla prima del Sole: “Porta aperta con equilibrio”. All’interno, a pagina 8 : “L’equilibrio dell’arbitro e la porta aperta ai giocatori”. Mattarella non parla, il riserbo è la regola, ma apre le porte con equilibrio. In genere uno apre e basta. L’innovazione che arriva dalla tradizione dossettiana e morotea risiede dall’apertura con equilibrio. Al Quirinale ci sono 1.200 stanze con relative porte. Saranno aperte tutte con equilibrio.
Debolezza. Vedi moderazione.
Giacchetta. Se c’è l’arbitro, c’è anche la giacchetta nel silenzioso slang mattarellese: “Cercare di comprendere le ragioni degli interlocutori senza lasciarsi tirare per la giacchetta” (Il Messaggero). Nei prossimi sette anni, a meno di clamorose evoluzioni stile Cossiga Picconatore, lo leggeremo milioni e milioni di volte: “Senza lasciarsi tirare per la giacchetta”.
Irritare. È l’unico verbo di una certa vivacità accostato ieri a Mattarella. A usarlo il Corriere e Repubblica per descrivere lo stato d’animo del presidente silenzioso di fronte al maleducato forfait del leader leghista, Matteo Salvini. Il capo dello Stato aprirà pure le porte con equilibrio (almeno dieci secondi a porta) ma al momento opportuno sa far trapelare la sua irritazione (ma non ira o rabbia, attenzione). Oppure la sua variante più morbida: stupore.
Moderazione. Titolo del Corriere: “Il segnale di Mattarella: moderazione non è debolezza”. Per tutti i sessant’anni repubblicani, politici, scienziati politici, giornalisti politici, opinionisti politici hanno insegnato che l’Italia è un Paese moderato. Adesso una nuova scoperta scientifica: moderazione non è debolezza. Moderazione andrà di moda come il riformismo nel decennio scorso. Saremo tutti moderati.
Pedagogia dei gesti. È questo il nuovo corso del Quirinale secondo il Messaggero. Mattarella prima ascolta e poi fa i gesti.
Riallacciare e ricucire. Altri due strepitosi verbi del mattarellese coniato dai quotidiani. Il Sole: “Mattarella: riallacciare il dialogo”. La Stampa: “Dal Colle parte la ricucitura”. Dunque, Mattarella apre le porte con equilibrio e con la giacchetta nera dell’arbitro non disdegna di fare il sarto. Riallacciare, riallacciare, riallacciare.

il Fatto 19.2.15
“A Melfi come schiavi”. Ma Renzi è “gasatissimo”
Renzi a Mirafiori con Elkann e Marchionne
di S. Can.


IL PREMIER LODA I “PROGETTI DI MARCHIONNE”: ASSUNZIONI INTERINALI E METÀ DELLA FORZA FIAT IN CASSA. GLI OPERAI: “TURNI MASSACRANTI”

“Sono gasatissimo dai progetti di Marchionne”. Matteo Renzi sceglie l’iperbole per commentare la visita fatta ieri a Mirafiori invitato da Sergio Marchionne e John Elkann. Da Melfi, però, nello stesso giorno arrivano le lamentele degli operai che rivelano: “Qui ci fanno schiattare”. Situazioni opposte, pareri opposti.
TANTA ENFASI da parte di Renzi, rappresenta la volontà di rinsaldare l’intesa che lo lega all’amministratore della Fiat Chrysler Automobiles come ora si chiama la Fiat.
Il presidente del Consiglio è stato accolto allo stabilimento di Mirafiori dal presidente di Fca, John Elkann e dall’amministratore delegato della società, che lo hanno accompagnato nella visita al Centro Stile e allo stabilimento vero e proprio. I due hanno così potuto mostrargli in anteprima i modelli che saranno lanciati sul mercato prossimamente, in particolare il primo Suv Maserati, Levante. Simbolo della nuova strategia di posizionamento nella fascia alta di mercato abbandonando la centralità del segmento medio-piccolo che ha fatto la fortuna del Lingotto.
Oltre a Mirafiori, e oltre ai funerali di Michele Ferrero, Renzi ha anche parlato al Politecnico di Torino dove ha ribadito la convinzione che la ripresa sia alle porte e che “il meglio deve ancora venire”. Uno studente gli ha consegnato un cappello da giullare ma è stato prontamente allontanato.
Lo stabilimento di Mirafiori al momento non è proprio gasatissimo. La maggior parte dei suoi 3711 addetti si trova in cassa integrazione. Circa 1300, infatti, lavorano 6-7 giorni al mese ai vecchi scampoli della Mi-To, mentre 1471 non lavorano dal 2012. Gli altri sono stati smistati nel torinese e in particolare allo stabilimento della Maserati di Grugliasco.
La Fiat si fa forte proprio dello stabilimento della ex Bertone dove su 2900 addetti circa 1500 provengono da altri stabilimenti. Quella fabbrica, del resto, sembrava persa e quando Marchionne decise di rilevarla anche gli operai della Fiom, la stragrande maggioranza del vecchio insediamento, decise di firmare il contratto modello Pomigliano.
OGGI, QUELLA SCELTA, rivendicata a gran voce da uno dei sindacati firmatari, la Fim-Cisl, viene presentata come giusta e decisiva per ridare una sterzata alla produzione di automobili in Italia e smentire, così, i critici che allora si opposero al “modello Marchionne”.
La scommessa della fascia alta, però, deve ancora essere giocata anche se Fca è convinta che i primi risultati emersi dallo stabilimento di Melfi, in Basilicata, le diano ragione. In quello che negli anni 80 fu definito il “prato verde”, perché costruito letteralmente da zero, oggi lavorano 5950 addetti e la Fca si appresta a integrarne altri 1500. Mille con contratti di lavoro interinali (ma per ora sono stati solo 300), in attesa delle nuove regole del Jobs Act, e 500 provenienti da altri stabilimenti. A dare loro lavoro è l’andamento della Jeep Renegade e della 500X. Se questo dato sia da considerare un dato stabile e se, soprattutto, possa tradursi in una tendenza di tutto il gruppo è però ancora da verificare. Anche perché, come rivela la ricerca trimestrale della Fiom sulla Fca, dei 21600 addetti impegnati nei 6 stabilimenti Auto (esclusa Ferrari) a fine 2014, 9224 erano interessati da misure di Cassa integrazione o da contratti di solidarietà.
POI CI SONO I PROBLEMI legati ai carichi di lavoro. Proprio da Melfi, ieri, è giunta la protesta, resa pubblica da Basilica  ta24.it , degli operai che lamentano ritmi di lavoro massacranti. Il quotidiano lucano ha raccolto diverse testimonianze: “La velocità della linea è aumentata, non riesco più a stare al passo”; “Solo il tempo di montare una vite o un bullone e girarmi e mi trovo fuori postazione”. Oppure: “Ci stanno schiattando il fegato”, sono le parole riportate.
Se si parla con i sindacati le versioni sono opposte. Per i quelli che hanno firmato le intese con Marchionne, le cose stanno procedendo nel verso giusto. “Ora tutti vedono i risultati positivi di quelle scelte difficili e plaudono agli investimenti, ai nuovi modelli e all’occupazione che riprende”, commenta il segretario nazionale Fim Cisl, Ferdinando Uliano. “Nel 2011 si promise lavoro e più salario ma invece oggi vediamo solo aumenti dei carichi di lavoro e buste paga più leggere” risponde Michele De Palma della Fiom.

il Fatto 19.2.15
Il gattopardo Poletti: “Addio Co.co.pro.”. Cambia solo nome...
di Salvatore Cannavò


IL CONTRATTO A PROGETTO SARÀ RIVISTO MA LA SOSTANZA RESTA. SINDACATI DELUSI

Il governo punta al superamento dei Contratti a progetto, i famigerati co.co.pro. Ma non del tutto. Anzi, per niente. L’esito dell’incontro avuto ieri al ministero del Lavoro tra Giuliano Poletti e i rappresentanti di sindacati e imprese ha confermato gli schieramenti di partenza. “La montagna ha partorito il topolino” ha chiosato, ricorrendo al tradizionale proverbio, il segretario della Uil, Carmelo Barbagallo. “Delusa” la Cgil, contente le imprese anche se qualche distinguo lo hanno voluto rimarcare anch’esse.
L’INCONTRO SERVIVA a illustrare alle parti sociali il terzo decreto attuativo del Jobs Act, dopo i due già approvati dal governo e passati al vaglio delle Commissioni parlamentari (quello sul contratto a tutele crescenti e quello sull’Aspi). In questo caso si tratta del riordino delle varie tipologie contrattuali, l’occasione, secondo molti, di “disboscare” la precarietà introdotta dalle norme degli ultimi venti anni, dal “pacchetto Treu” alla “legge Biagi”.
Precarietà che il ministro ha puntato a circoscrivere già nella sua introduzione all’incontro. Non ci sono 45 forme di contratti precari, ha contestato alla Cgil, ma non più di 10-15 secondo la ricognizione del suo ministero. Di questi, il governo punta ad abolirne solo due: l’associazione in partecipazione e il job sharing. Un contratto, quest’ultimo, quasi per nulla utilizzato mentre l’associazione è ampiamente usata nel commercio per mascherare il lavoro dipendente con l’associazione all’impresa esercente. È stata la Cisl a richiedere nei mesi scorsi la soppressione di questa tipologia e non a caso, ieri, il sindacato di Annamaria Furlan si è detto soddisfatto della decisione di Poletti.
Il ministro, però, ha confermato la durata del contratto a tempo determinato in 36 mesi, misura in contraddizione con l’esistenza del contratto a tutele crescenti. Su questo punto, però, qualsiasi rimodulazione - si era pensato a ridurre la durata a 24 mesi - ha visto la netta contrarietà delle imprese.
PER QUANTO RIGUARDA l’aspetto simbolicamente più rilevante dell’incontro, i co.co.pro., si è scelto di rinviare il problema puntando a una ridefinizione delle norme. “Il governo - ha spiegato Poletti - intende bloccare l’utilizzo dei contratti di collaborazione a progetto”. Ma non li ha aboliti. Quelli nuovi saranno sospesi “per chiarire meglio i confini tra lavoro subordinato e lavoro autonomo”. Intenzione questa, vista con sospetto dalle imprese che infatti l’hanno criticata: “Si rischia di reintrodurre forme di lavoro dipendente” ha puntualizzato Rete Imprese. In ogni caso si tratterà di una riforma della tipologia esistente: “Una manutenzione e non un disboscamento” ha commentato la segretaria Cgil Serena Sorrentino presente all’incontro.
Per i rapporti in essere, invece, ha spiegato ancora Poletti, “occorrerà trovare una modalità di gestione transitoria”. Sui co.co.co., invece, l’esecutivo procederà valutando “ogni specificità, sia per quelli pubblici che per quelli privati”. Anche qui, quindi, nessuna abolizione o superamento.
Sarà ritoccato anche l’apprendistato, in particolare con la riduzione della quota di formazione a carico delle imprese. Poletti l’aveva già ridotta al 30% ma si potrebbe scendere ancora al 10. Infine, il ministro ha ventilato una sorta di appendice al decreto in relazione all’ipotesi di demansionamento unilaterale da parte delle aziende. Una misura vista con molto allarme dai sindacati ma non del tutto chiarita.
I TESTI SI VEDRANNO domani, dopo il Consiglio dei ministri che varerà formalmente i decreti e che approverà definitivamente quelli già emanati. Se il governo accoglierà o meno le riformulazioni sul licenziamento collettivo stabilite dalle commissioni parlamentari non è ancora chiaro: “Non posso anticipare nulla” ha detto Poletti, “deciderà il Consiglio dei ministri”. Cioè, Matteo Renzi.
Sul fronte sindacale la Cgil ha riunito ieri il suo comitato direttivo per decidere come proseguire la mobilitazione contro il Jobs Act. L’obiettivo di Susanna Camusso, definito da un documento approvato a larghissima maggioranza, è quello di definire un “nuovo Statuto dei lavoratori” da trasformare poi in una legge di iniziativa popolare su cui avviare la raccolta delle firme a partire dal 19 marzo. La Cgil, però, “non esclude” il ricorso a un referendum abrogativo. E per dimostrare che potrebbe fare sul serio prenderà questa decisione dopo una “inedita” consultazione dei suoi iscritti chiamando il corpo della Cgil alla più ampia partecipazione. Avvertendo, tuttavia, che questa ipotesi non potrà essere utilizzata per ambizioni politiche di vecchi e nuovi partiti.

La Stampa 19.2.15
Anticorruzione, scintille tra governo e Pd
Lumia (capogruppo in commissione Giustizia): «Il governo non escluda a priori l’eventualità di presentare subemendamenti»
di Francesco Maesano

qui

il Fatto 19.2.15
Riforme
Falso in bilancio, ancora non basta
di Bruno Tinti


È una consolazione che il patto scellerato con B. sia decaduto. I frutti cominciano a vedersi: il “nuovo” falso in bilancio è molto migliore di quanto sembrava dovesse essere. Niente soglie di punibilità (forse una soglia “oggettiva” per società di piccole dimensioni, ci può stare) e niente procedibilità a querela.
Sono variazioni importanti rispetto all’obbrobrio giuridico ed etico del duo Ghedini-B. ; e dimostrano la consapevolezza delle conseguenze criminali che da quello derivavano: la legalizzazione del “nero” (che significa l’accettazione implicita della corruzione e dell’evasione fiscale) e la sostanziale impunità consentita dalla querela.
Anche le pene sono accettabili (al di là delle conseguenze di un sistema generale che garantisce l’impunità a tutti i condannati a pene sotto i 4 anni): il massimo edittale di 6 anni consente la carcerazione preventiva e le intercettazioni telefoniche; nel rispetto dei requisiti richiesti dalla legge, si tratta di strumenti investigativi indispensabili.
Ma manca ancora qualcosa perché la riforma sia davvero significativa, rispettosa della legalità e non dei delinquenti: la riforma della prescrizione e il ritorno alla fattispecie di reato di pericolo.
CON L’ATTUALE prescrizione, il falso in bilancio, anche se ben ristrutturato, resta impunito. Verifica Guardia di Finanza: 1-2 anni; indagini Procura: 1 anno - 1 anno e mezzo; Tribunale: 2 anni; Appello: 3 anni; Cassazione: arriva già prescritto. I tempi non sono comprimibili, soprattutto quelli per le indagini preliminari: i processi per questi reati sono molto complessi. Sicché, o si elimina l’Appello (scelta preferibile, per questo come per tutti i reati) o si allunga la prescrizione.
Quanto al tipo di reato. Il falso in bilancio classico era strutturato come reato di pericolo: non era necessario che taluno, socio o creditore, ne riportasse un danno. Era sufficiente che le falsità fossero idonee a ingannare “il pubblico”, quello che si dice il mercato; e – naturalmente – anche i soci o i creditori. Questa tecnica legislativa è conosciuta come “tutela avanzata”: siccome è noto che certe condotte, nel nostro caso il falso in bilancio, sono idonee a provocare gravi danni, le si sanziona autonomamente, prescindendo dal fatto che il danno sia stato arrecato in concreto. È un po’ come l’eccesso di velocità: chi guida può essere un pilota eccezionale, avere tutto sotto controllo e non cagionare alcun incidente; poco importa, la sua è una condotta pericolosa, presto o tardi qualcuno ci lascerà le penne; se lo si individua, la contravvenzione è certa.
Ma Ghedini e B. ne hanno cambiato la struttura: il “loro” falso in bilancio è un reato di danno, limitato ai soci e ai creditori; se questi non subiscono danni, il reato non sussiste.
Il che è un ossimoro: il falso in bilancio è commesso per conseguire un vantaggio; forse solo per alcuni soci (e allora il problema è che gli altri non se ne accorgono, di norma) ma magari per tutti; chi non sarà felice, ad esempio, di risparmiare sulle imposte o di ottenere un finanziamento che, con il bilancio veritiero, mai sarebbe stato concesso? In questi casi, dove sarebbe il danno?
Ecco perché dal 2002 a oggi processi per falso in bilancio non se ne sono fatti più: nessuno aveva interesse a lamentarsene; e comunque chi ne avrebbe avuto non riusciva a rendersene conto.
QUANDO, nel 1930, entrò in vigore la legge sul falso in bilancio, così la spiegò il ministro della Giustizia Alfredo Rocco: “La straordinaria mitezza del precedente codice trova spiegazione nella sua concezione nettamente individualistica che non fa vedere, in materia di società, oltre i singoli individui, azionisti o creditori e, negli abusi commessi dai dirigenti, solo i fatti che incidono su interessi privati. Ma questi fatti sono gravemente lesivi dell’economia pubblica in quanto, facendo venir meno la fiducia sull’attività delle società commerciali, scuotono uno dei cardini fondamentali su cui poggia la struttura economica del Paese”.
Renzi e Orlando potrebbero trarne ispirazione.

il Fatto 19.2.15
Detenuto suicida, gli agenti esultano “Uno di meno”
di Silvia D’Onghia


POLIZIA PENITENZIARIA NELLA BUFERA DOPO ALCUNI COMMENTI SU FACEBOOK SULLE “BACHECHE” COMPAIONO ANCHE FASCI LITTORI E INGIURIE CONTRO I ROM

“Speriamo abbia sofferto”. “Uno di meno”. “Consiglio di mettere a disposizione più corde e sapone”. “Mi domando cosa aspettino gli altri a seguirne l’esempio”. Se si accostano queste frasi al suicidio di un detenuto, e se si pensa che sono state pronunciate da agenti della polizia penitenziaria, viene facile comprendere come, nella testa di molte persone, il carcere sia sempre sinonimo di violenza. Repubblica.it   ha scoperto che le frasi ingiuriose sono comparse il 15 febbraio a commento di un articolo sulla pagina Facebook del sindacato della penitenziaria Alsippe (che rappresenta una minima parte della categoria). Un uomo di 39 anni, di origine rumena, si era tolto la vita qualche giorno fa nel carcere milanese di Opera dopo essere stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di un vicino di casa. Tanto è bastato a scatenare la pancia di alcuni poliziotti. Di quelli che pensano che “dovrebbero farlo in tanti così si risparmiano un po’ di soldi”.
LA NOTIZIA, rimbalzata in breve tempo su tutti i siti, ha dapprima generato la reazione del vice capo del Dap, Luigi Pagano: “Risaliremo all’identità e nel caso prenderemo gli opportuni provvedimenti”. Due azioni non certo difficili. Anche perchè questi signori, nella smania di tirar fuori il lato più becero di loro stessi, non si sono curati di chiudere le proprie bacheche. Eppure fonti interne al Dap riferiscono che già tempo fa si era tentato di mettere in guardia i poliziotti dai social network. Ecco allora che colui che scrive “1 de meno. Che lo stato nu ha da magna” è lo stesso che sfoggia in bacheca fasci littori, frasi e immagini del Duce. L’agente che finge di pregare per il detenuto suicida (“ora pro nobis”), lo stesso giorno prende a bersaglio i rom: “Annaffiate con tanta benzina e date foco”. C’è chi posta le foto di Forza Nuova e chi (“S chi frega? ”) afferma che “i clandestini vendono incuranti su tutti gli incroci prodotti contraffatti ma ci fosse mai nessuno che li controlla? ”. Il ministro Orlando ha convocato per oggi il capo del Dap, Santi Consolo, e gli agenti potrebbero essere sospesi. Il sindacato ne ha preso le distanze. Quel che resterà, però, sarà il danno enorme all’immagine di un corpo sottodimensionato, mal pagato e già messo a dura prova, a livello mediatico, dai troppi casi Cucchi.

La Stampa 19.2.15
La gabbia
di Massimo Gramellini

qui

Repubblica 19.2.15
L’ultima vergogna
di Michele Serra


C’È SOLO una cosa peggiore del rosario di odio e di bestialità snocciolato, a proposito del suicidio di un ergastolano rumeno nel carcere di Opera, da alcuni agenti di custodia sulla pagina Facebook del loro sindacato (“uno di meno” è il commento che li riassume tutti). Questa cosa peggiore è la motivazione con la quale i responsabili di quel sito hanno rimosso quei commenti disumani. Non sono stati cancellati perché ripugnanti.
NON perché inaccettabili da parte di dipendenti dello Stato, e sulla pagina ufficiale di un sindacato; non perché esultare per una morte è comunque, ovunque disgustoso; ma perché «hanno ingenerato strumentalizzazioni tali da comportare un possibile danno di immagine al Corpo di Polizia penitenziaria » .
Come sia possibile “strumentalizzare” frasi che, in perfetta autonomia e chiarezza, esprimono giubilo per la morte di un disgraziato, non è lecito sapere. Quello che si sa, invece, è che uno dei veri, profondi problemi del nostro Paese, quasi al completo, è l’atroce ipocrisia che impedisce di attribuire un senso, una gravità, una responsabilità agli atti, ai comportamenti, alle parole delle persone. Una per una, individuo per individuo, cittadino per cittadino.
Gli episodi di progressiva retrocessione delle forze dell’ordine a una mentalità, come dire, pre-statale e pre-costituzionale, da guerra per bande, da squadre di bravacci dedite solamente allo spirito di corpo e del tutto dimentiche dei propri doveri d’ufficio, sono purtroppo numerosi. Un sindacato (qualunque sindacato) ha il dovere e il diritto di denunciare le condizioni di durezza, di basso salario, di scarsa considerazione nelle quali lavorano i suoi iscritti. Lavorare nelle carceri e in generale per l’ordine pubblico, per garantire la tranquillità e la pace di chi ha la pancia piena, non è facile e meriterebbe maggiore rispetto e considerazione da parte dello Stato e della collettività intera. Ma uomini in divisa che ragionano (e scrivono) da delinbello quenti, con un gergo cinico e sbracato, perdono il diritto a qualunque rivendicazione. Loro sì che strumentalizzano e sputtanano la giusta casa di chi, per pochi quattrini, fa il proprio difficile dovere nelle carceri.
È in atto un processo, preoccupante, di proletarizzazione dello Stato e dei suoi servitori, esposti a una deriva di frustrazione e di arretramento sociale. Da Bolzaneto in poi, questo processo non è più occulto; e la fibrillante visibilità dei social network non fa che metterlo in luce in tutta la sua desolante carica autodistruttiva.
L’episodio di ieri, per quanto solo verbale, ha innescato, e per fortuna, una severa reazione delle istituzioni e di larga parte dell’opinione pubblica. Sarebbe se perfino i responsabili di quella pagina Facebook e di quel sindacato, invece di perdere il loro tempo con la scemenza ipocrita delle “strumentalizzazioni”, si mettessero al lavoro per esigere, dallo Stato, più rispetto, più diritti, più quattrini; e dai loro iscritti, una considerazione più alta, o almeno più decente, del proprio lavoro, dunque di se stessi. Agenti di custodia che ragionano e si esprimono come ultras da strapazzo tradiscono non solo la propria uniforme, ma anche quel poco o tanto di civiltà che resta in quel deposito di carne che sono le carceri italiane.

il Fatto 19.2.15
Scalate letterarie
Rcs libri, Mondadori fa sul serio
di Silvia Truzzi


Non ci sono bravi a mettere i bastoni tra le ruote al matrimonio editoriale dell’anno, quello tra Mondadori e Rizzoli, che stanno trattando per quella che è stata in un primo tempo definita una “fusione” e che in realtà è un’acquisizione completa della divisione libri di Rcs da parte di Segrate. C’è una richiesta formale della Consob, praticamente un atto obbligato perché entrambe le società sono quotate in borsa, e c’è la conferma da parte di entrambi i contraenti. Mondadori ha presentato “una manifestazione di interesse non vincolante” relativa a un'eventuale acquisizione dell’intera partecipazione detenuta da Rcs Mediagroup in Rcs libri pari al 99,99%. Oltre a questo, l’offerta include anche “l’ulteriore complesso di beni e attività che costituiscono l’ambito librario di Rcs”. Il cda di via Rizzoli – fa sapere una nota del gruppo – si è riservato ogni valutazione in merito. Però ora è ufficiale: la trattativa c'è ed è ben più di un pour parler.
L’operazione conviene a entrambi. Il gruppo guidato da Marina Berlusconi, che ha da poco scorporato la divisioni libri, mirava a espandersi: dal 26% per cento di quote di mercato, con Rcs arriverebbe al 40 nel trade; dal 13 per cento al 25 nella scolastica. L'amministratore delegato di Rcs Pietro Jovane spinge per accelerare i tempi (anche perché il consiglio di amministrazione scade in primavera). Non tutti i consiglieri però sono d'accordo: molto perplesso sulla bontà dell’operazione pare sia Pier Gaetano Marchetti, anche se lo stesso notaio qualche giorno fa, a margine di un convegno, si è limitato a un breve no comment: “Il cda non ha deciso nulla”. Privarsi della dei libri (dunque, oltre Rizzoli, di marchi come Bur, Bompiani, Fabbri, Marsilio, Adelphi) è un atto, anche simbolicamente, molto forte: ma serve liquidità per riparare alla situazione molto critica del bilancio. E quindi ogni anno bisogna vendere qualcosa. Le stime che in autunno la società ha reso note prevedono un debito 2014 sotto i 500 milioni: erano quasi 850 a fine 2012 (ma nel mezzo c’è stata una ricapitalizzazione da 400 milioni oltre a tagli e ad altre cessioni, tra cui la casa editrice francese Flammarion alla Gallimard). Quanto costerà a Marina Berlusconi l’acquisto del maggiore concorrente? Si è parlato di una valutazione di Rcs attorno ai 200 milioni, ma la cifra più verosimile si aggira tra i 120 e i 150.

La Stampa 19.2.15
Stefano Mauri (GeMS)
“Per l’Italia sarebbe qualcosa di abnorme”
di M. B.


Lo choc, per gli altri editori italiani, è parzialmente attutito dal fatto che ormai se ne parlava da mesi. La mega-fusione sempre più vicina è indubbiamente vista come una minaccia, anche sei i toni sono molto prudenti, e la voglia di parlare assai poca. Feltrinelli fa sapere di non avere al momento posizioni in merito, Sellerio pure, e persino un editore sempre battagliero come Giuseppe Laterza preferisce tacere, in attesa di capire meglio i termini della questione. Lo stesso silenzio è la spia di una grande preoccupazione.
Stefano Mauri, presidente e ad del gruppo GeMS, terzo per un’incollatura dietro Rizzoli sul mercato italiano, prova però a ragionare con i numeri. Mondadori, ricorda, ha il 26 per cento, che unito al 12 di Rizzoli creerebbe un gigante di dimensioni colossali. Senza contare che le due case editrici arriverebbero insieme al 25 per cento della scolastica, il che significa «un libro su quattro».
C’è una preoccupazione che riguarda anche la proprietà, cioè Silvio Berlusconi e la sua famiglia, che si ritroverebbero in una posizione rilevantissima nel delicato mondo dell’educazione? Mauri non raccoglie. «Intanto aspettiamo di capire se questa fusione, anzi acquisizione, si fa davvero. Oggi abbiamo avuto la conferma che quel che si diceva in giro non era privo di fondamento. Corre voce che i soci Rizzoli siano divisi al proposito. Vedremo...» Sta facendo gli scongiuri? «Diciamo che in nessun Paese europeo esiste una concentrazione di queste dimensioni. La fusione tra Penguin e Random House, due giganti, ha creato sì un colosso, ma che per l’Inghilterra vale tutto insieme il 26 per cento, e cioè proprio la quota che Mondadori ha oggi in Italia». L’acquisizione non sarebbe perciò una bella notizia? «Diciamo che per l’Italia sarebbe qualcosa di abnorme».
Sulla stessa linea Carmine Donzelli, editore orgoglioso della tradizione «artigianale»: «Prima che editore, però, sono cittadino. E come tale penso che concentrazioni di questa entità siano una turbativa specifica del mercato. Ci sono istituzioni che devono e possono decidere se consentirle o meno. Detto questo, non mi straccio le vesti». In che senso? «Nel senso che spesso le grandi fusioni portano ad un certo appannamento dei marchi. Egoisticamente potrebbe anche giovarmi, rivelarsi una chance ulteriore per un editore come sono io. Ma il libro ha una sua specificità. E se il pluralismo dei soggetti è importante in ogni mercato, nel nostro lo è ancora di più». []

Repubblica 19.2.15
L’Editore della Nazione
Mondadori vuole Rizzoli sarà il gigante del libro
di Stefano Bartezzaghi


QUASI cinquant’anni fa le due rivali storiche del dolciario italiano Alemagna e Motta si ritrovarono riunite nella Sme: qualcuno parlò di «Alemotta». Il buon gusto letterario forse impedirà il conio di un marchio «Mondazzoli» ma certamente la notizia dell’offerta di acquisizione della Rizzoli (cioè, di Rcs libri) da parte della Mondadori è assai più rilevante di quella che impressionò gli appassionati del panettone.
Se l’affare editoriale andrà in porto, nell’ansimante settore librario italiano si ergerà una specie di cattedrale che non temerà ombre, occupando quasi il 40 per cento del settore medesimo. Sotto la vastissima copertura di questo edificio colossale si ritroverebbe una quantità di marchi che sono tra i più famigliari ai frequentatori delle librerie. Da parte Mondadori, oltre al marchio omonimo: Einaudi, Sperling & Kupfer, Harlequin, Piemme, Electa; da parte Rcs: Rizzoli, Bompiani, Adelphi, Marsilio, Sonzogno, Skira, Lizard, Sansoni, Fabbri.
IL RESTO del mercato se lo spartirebbero il Gruppo Gems (Garzanti, Longanesi, Guanda, Salani, Bollati Boringhieri, Chiarelettere...), Feltrinelli, un editore storico come Laterza e poi Sellerio e la galassia della piccola editoria, vivacissima culturalmente ma economicamente altrettanto debole.
È vero che la tendenza alla concentrazione è globale: meno di tre anni fa l’americana Random House si è fusa con la britannica Penguin Books (assieme coprono fra il 25 e il 30 per cento del mercato americano) e analoghe operazioni hanno interessato Hachette in Francia e Planeta in Spagna. La concentrazione razionalizza i conti economici e soprattutto permette di fronteggiare la minaccia di Amazon, che opera a livello globale. Ma solo in Italia la concentrazione occuperebbe una quota di mercato tanto ampia. Inoltre avverparrebbe rebbe per acquisizione e non per fusione: il 26 per cento di Mondadori sommato all’11 per cento di Rcs si avvicina al 40 per cento, cifra che ricorderà forse qualcosa a chi si interessa di politica. In effetti nascere così, speculare al Partito della Nazione di Matteo Renzi, una sorta di Editore della Nazione. E a capo di quest’ultimo ci sarebbe Marina Berlusconi.
Oltre a rafforzare Mondadori, l’operazione risolverebbe qualche problema di bilancio a Rcs Mediagroup: da questo punto di vista conviene a entrambi e quindi ha una buona probabilità di riuscita. Del resto la si ventilava da mesi.
Solo in futuro sapremo quali mosse seguiranno quella iniziale dell’offerta non vincolante e anche se l’Antitrust troverà qualcosa da ridire sull’intera operazione. Qualche conseguenza per la cultura italiana però è già prevedibile. Per quel che riguarda la sua tradizione, Mondadori e Rizzoli sono stati i due pilastri dell’editoria anche popolare italiana, due filoni paralleli e autonomi, con filosofie e storie completamente diverse. Oltre a loro è abbastanza impressionante pensare a quali diverse fonti e identità editoriali si ritrovino a confluire, con marchi storici come Bompiani e Einaudi impensabilmente apparentati fra loro. Quanta autonomia di linee e politiche editoriali sarà garantita, in una fase di accentramento?
Per quel che riguarda gli editor, gli autori, i librai, tutta la filiera e del mercato del lavoro editoriale è un colpo dato all’ampiezza della domanda e dell’offerta e questo configura oggettivamente il rischio dell’egemonia culturale, se non di un vero e proprio monopolio potenziale. Di fatto non ci sarebbe più un’alternativa possibile, a parità di dimensioni della casa madre. Un libro potrà uscire solo dall’unico grande gruppo, oppure da un gruppo medio, o da un piccolo.
Sono conseguenze certamente preoccupanti. Del resto la situazione dell’editoria libraria era preoccupante già da prima e questa stessa offerta è una dimostrazione della debolezza generale del settore.

Repubblica 19.2.15
Mondadori vuole Rizzoli ecco il colosso dei libri
Rivoluzione nell’editoria il gruppo di Segrate offre 120 milioni per la Rcs Libri
di Simonetta Fiori


I MARCHI Mondadori controlla Einaudi, Piemme, Sperling & Kupfer, Mondadori Education e Mondadori Electa Rcs comprende: Rizzoli, Bompiani, Fabbri, Sonzogno, Adelphi (57,99%) e Marsilio (50,99%)

CI siamo. Sta per nascere il temuto moloch dei libri che spadroneggerebbe su metà del mercato editoriale italiano. Un passo avanti è stato compiuto nella giornata di ieri. Nel tardo pomeriggio un lancio di agenzia annuncia che «su richiesta della Consob, la Arnoldo Mondadori informa di aver sottoposto a Rcs Media Group una manifestazione di interesse non vincolante relativa a un’eventuale operazione di acquisizione di Rcs Libri». In sostanza, la principale azienda editoriale italiana, di proprietà di Silvio Berlusconi, si sta avvicinando a grandi passi verso l’annessione della Rcs Libri, il secondo gruppo dopo Mondadori.
Se l’operazione andasse in porto, ne risulterebbe la più grande concentrazione libraria in Europa. Ma prima bisogna attendere le decisioni del consiglio di amministrazione di Rcs, in cui non tutti sono d’accordo sulla cessione. Il dossier con la proposta di acquisto da parte della famiglia Berlusconi circolava da mesi e se ne è parlato nel dettaglio nell’ultimo cda di Rcs della scorsa settimana, tanto da convincere la Consob a chiedere ai due gruppi di uscire allo scoperto. E così è accaduto ieri, con due mesi di anticipo sul prossimo appuntamento che dovrebbe ridisegnare il board di Rcs. Ma perché formulare un’offerta non vincolante? Secondo molti operatori, per esercitare pressione sui consiglieri Rcs più riluttanti. Oppure perché la Mondadori vuole riservarsi la possibilità di uscire dall’affare qualora emergessero elementi che non la convincono del tutto. Perché naturalmente il punto ora sono i soldi. Quanto vale la Rcs Libri? La cifra massima è stimata intorno ai 200 milioni di euro, ma un accordo si potrebbe trovare in una fascia di prezzo assai più bassa che oscilla, secondo quasi tutti gli osservatori, tra i 150 e la cifra più verosimile di 120 milioni.
Una boccata di ossigeno e nuova liquidità per il gruppo guidato da Pietro Scott Jovane (gravato da un indebitamento stimato sotto i 500 milioni a fine 2014) e che eviterebbe un eventuale nuovo aumento di capitale. Ma si tratterebbe di un’amputazione dolorosa. Dai libri, e dalla coraggiosa impresa del cavalier Angelo Rizzoli, è nata l’azienda editoriale che oggi include anche un grande quotidiano, periodici, Tv e web. «Non bisogna farsi prendere dalla fretta», dice Urbano Cairo, azionista di Rcs con il 3%.
Ma quali potrebbero essere le conseguenze culturali del più potente matrimonio librario della storia italiana? Intanto la nascita di un gruppo editoriale che non ha eguali in Europa. L’annessione di Rizzoli (11,7%) da parte della Mondadori (27%) significherebbe l’occupazione di una fetta del mercato di poco inferiore al 40 per cento. In Spagna il primo marchio è Planeta con il 24%, seguito da Penguin Random House (17). In Francia il più grande tempio editoriale è Hachette (21), con Editis/Planeta al 16 e Gallimard/Flammarion all’11. In Inghilterra il ruolo principe spetta a Penguin Random House (26) seguito da Hachette (17) e Harper Collins (9). Anche in Germania il gigante Bertelsmann non supera il 23%, seguito a distanza da Holtzbrink/Mac Millan (14). Quella italiana sarebbe dunque un’assoluta anomalia, che pone interrogativi sul piano della libera concorrenza: quale margine di azione avrebbero i competitor, ossia il gruppo Gems, Giunti, Feltrinelli e la miriade di piccole e medie case editrici che costituiscono il tessuto culturale del paese?
Parliamo di libri, dunque di idee e di geografie intellettuali. Il nuovo gruppo sarebbe un attore dominante nella produzione editoriale, con una forza difficilmente contenibile nella campagna acquisti degli autori (pensiamo solo agli anticipi). Ma il ruolo egemone sarebbe anche nella distribuzione e nel rapporto con le librerie, oltre che nel mercato del lavoro editoriale. Un sovrano assoluto, il nuovo Mondazzoli o chissà come sarà chiamato (forse il marketing è già al lavoro), capace di dettare legge in ogni passaggio della filiera del libro. Anche il settore della scolastica ne potrebbe risentire: un manuale su quattro sarebbe targato Mondadori/ Rcs. E che fine farebbero marchi come l’Adelphi di Roberto Calasso e Marsilio, il feudo veneziano di Cesare De Michelis, dentro la nuova galassia? Non si esclude che i padri titolari stiano lavorando per difendere i propri gioielli dalla fusione. E molte domande rimbalzano sul destino dell’Einaudi, il blasone di cultura dentro Mondadori. Cambieran- no gli assetti anche in via Biancamano?
A Segrate il mutamento è recente, con la brusca uscita di Riccardo Cavallero e l’arrivo al vertice di Ernesto Mauri con la qualifica di presidente. Ma l’attenzione si concentra sul grande rientro di Gian Arturo Ferrari, che appare il personaggio chiave. Editore di seconda generazione - non quella dei padri ma nemmeno quella dei manager puri, profilo bifronte tra cultura e profitti - appare l’uomo più adatto per gestire la complessa operazione. Mondadori-Rcs si distinguerebbe dal resto di Europa anche per un’altra caratteristica, tutt’altro che irrilevante. Il suo padrone sarebbe Silvio Berlusconi, l’ex premier che continua a condizionare la scena politica nazionale. Ma davvero Berlusconi è interessato a guidare questa nuova grande macchina dei libri o preferirebbe far cassa, vendendo alla migliore offerta? Già da tempo circola il nome di Bertelsmann, ma potrebbe essere interessato anche Murdoch, se nel pacchetto fosse presente anche un pezzo di Mediaset. Non è escluso che una proposta arrivi anche dal gruppo svedese Bonnier.
Fusione chiama fusione, secondo una vecchia regola del mercato. Ma la regola è destinata a infrangersi nel mondo dei libri italiano, connotato da una forte tradizione famigliare. I gruppi più esposti agli effetti della nuova concentrazione sono Gems e Feltrinelli, imprese segnate da una cifra specifica e da equilibri difficilmente modificabili. Al momento non resta che aspettare.

Corriere 19.2.15
Davigo e la responsabilità dei giudici: «È incostituzionale»
L’ex pm di Mani pulite: la legge servirà a liberarsi di magistrati scomodi. Riunione d’urgenza dell’Anm
di Gio. Bia.


ROMA L’approvazione della responsabilità civile dei giudici si avvicina, e fra le toghe cresce la preoccupazione per una riforma che non piace e crea allarme. L’Associazione nazionale magistrati ha convocato d’urgenza un comitato direttivo straordinario, sabato prossimo, per affrontare l’argomento prima del dibattito alla Camera, che potrebbe essere l’ultimo se passerà il testo già varato dal Senato. A sollecitare questa riunione è stato Piercamillo Davigo, l’ex pm di «Mani pulite» e leader della neonata corrente Autonomia e indipendenza, gli scissionisti del gruppo conservatore Magistratura indipendente. Secondo Davigo il momento è grave, e tocca all’Anm sottolineare «alcuni punti fermi e presupposti costituzionali a tutela dell’indipendenza della magistratura» intaccati dal disegno di legge in via di approvazione.
Il primo argomento è la bugia di fondo ribadita a fondamento della riforma, e cioè che la richiesta viene dall’Unione europea; non è così, perché la corte di giustizia esige solo di inserire «la violazione manifesta del diritto dell’Unione» tra le cause di colpa grave di cui i magistrati devono essere chiamati a rispondere. La legge che sta per essere votata, invece, è andata molto più in là. Per esempio eliminando il filtro del tribunale sull’ammissibilità delle richieste di risarcimento. È una delle novità introdotte per impedire la «sostanziale inaccessibilità del rimedio».
Davigo ricorda una sentenza della Corte costituzionale secondo cui «la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni manifestamente infondate che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione». Senza il filtro, infatti, si metterebbero giudici e pm a rischio di azioni presentate al solo fine di creare condizioni di incompatibilità per liberarsi del magistrato sgradito.
«L’abolizione del filtro di ammissibilità è quindi all’evidenza costituzionalmente illegittima», sentenzia Davigo, oggi giudice di Cassazione. Non solo: «L’introduzione del travisamento del fatto e delle prove in termini» tra i nuovi motivi per promuovere l’azione civile contro i giudici, presenta «aspetti di incertezza che rischiano di creare altri gravi problemi».
Davigo poi suggerisce di pretendere da subito una limitazione dei «carichi esigibili» di un lavoro che «diventa più rischioso e faticoso», anche a causa della nuova legge sulla responsabilità civile. Una rivendicazione che mette in luce l’aspetto più sindacale che politico della vicenda, da parte della corrente più a destra dei giudici. Ma sulla denuncia dei rischi della riforma sono allineati tutti i gruppi. Compreso quello di sinistra di Area, dall’interno del quale però arriva l’invito a evitare iniziative che rischierebbero di rivelarsi controproducenti, come lo sciopero o lo sciopero bianco.

La Stampa 19.2.15
“Mafia Capitale, quel mondo di mezzo che rivela lo stato di un Paese “
Uno spirito pubblico intriso di corruzione e crimine
di Nando Dalla Chiesa


«Ci sono vicende giudiziarie che hanno il potere di illuminare lo stato di un Paese. È stato così per il maxiprocesso di Palermo, per Tangentopoli, o per l’operazione Crimine-Infinito, che nel 2010 ha scoperchiato il potere della ’ndrangheta su pezzi interi della Lombardia. Mafia Capitale è sicuramente una di queste. E arriva dopo di queste, quasi a denunciare uno spirito pubblico intriso di corruzione e crimine come costante della nostra storia nazionale. Mostra un’illegalità resistente alle leggi, alle indignazioni, al discredito internazionale, perfino alle sanzioni penali.
Come in un film
E ci parla della capitale d’Italia, della natura e dell’organizzazione degli interessi che la dominano, della qualità delle persone a cui lì, a Roma, nel Lazio, si piegano o conformano i titolari delle istituzioni. Racconta un potere occulto ai cittadini ma ben noto a chi dovrebbe contrastarlo in nome loro. Volendo usare un linguaggio cinematografico si potrebbe dire che mette in scena l’orgia della corruzione...
Materiale giudiziario
Per l’uso che ne faranno i Tribunali si tratta di materiale giudiziario. Per l’opinione pubblica di un paese libero e civile, e non solo per gli studiosi, si tratta di una importantissima documentazione sociale, che spazza via ipocrisie e retoriche d’occasione e pone in una dimensione realistica vita pubblica e pubbliche carriere. Di nuovo. Al di là di ogni ricorrente rimozione.
I cittadini che si accapigliano in nome delle loro ideologie e definiscono le loro diversità a partire dal proprio credo politico vengono a sapere che quasi tutto finisce invece per mescolarsi nel famigerato “mondo di mezzo”, stanza di compensazione e crocevia di appetiti e di ambizioni. Vengono a sapere che la “solidarietà”, proprio la solidarietà della Costituzione, può essere pretesto per profitti vergognosi; anzi, che le disgrazie degli ultimi sono manna per il cosiddetto “terzo settore”, per un no-profit che di profitti ne ingoia invece tanti e sulla pelle degli esseri umani più indifesi e sventurati.
I luoghi comuni
I cittadini che si misurano con queste pagine devono anche ricredersi sui luoghi comuni che vogliono poteri felpati e irraggiungibili (i celebri mafiosi in doppiopetto e che parlano in inglese) veri registi di affari e di trame. E devono scoprire che i registi, i veri capi di tanti ambiziosi e ambiziose esponenti del potere politico, sono personaggi che nella loro biografia mescolano la galera e il dialetto da suburra. Che a costoro si inchina in tanti momenti della giornata il Palazzo della capitale...».

Corriere 19.2.15
Difficile rispondere alla domanda «dove?»
Chiedetegli di trovare la Crimea, Tripoli o l’Eritrea su un planisfero fisico
di Beppe Severgnini


L’avrete notato, se leggete questa rubrica: ho stima dei ventenni italiani. Alcuni confondono il porto con il mare, e si rifugiano in piccole abitudini anestetiche (la squadra, il bar, agli amici, la città). Ma la maggior parte è stata costretta a metter la barca in acqua nel momento della tempesta. Che dura da qualche anno, e non è ancora finita. Alle tempeste economiche — o all’implacabile bonaccia, che è peggio — si sono aggiunte le tempeste geopolitiche. Solo un incosciente può ignorare quanto sta accadendo tra Russia e Ucraina; solo un irresponsabile può disinteressarsi del fanatismo che dilaga in Medio Oriente e punta all’Europa. Se questa persona ha 25 anni, è più grave. Perché le conseguenze di questo sconvolgente 2015 se le porterà dietro per la vita. Sta accadendo? I Millenari italiani — la generazione nata tra il 1980 e il 2000 — sono poco informati? Non mi sembra, francamente. Si informano in modo irrituale, mentre noi ci informavamo in modo lineare (radio, tv, quotidiano, settimanale, libro, dibattito). Ma le cose, i ragazzi italiani, le sanno. Sanno quando e perché accadono. Non sempre sanno dove, però. Chiedetegli di trovare la Crimea, Tripoli o l’Eritrea su un planisfero fisico.     Chiedete di elencare i confini dell’Ucraina, o quale grande fiume sfocia nel Mar Nero. Fatevi dire la capitale di Lettonia, Cambogia, Paraguay. E preparatevi a qualche sorpresa: io ne ho avute. Ho chiesto, per scherzo, ad alcuni giovani conoscenti di dirmi i capoluoghi di provincia della Campania e ho visto sguardi angosciati. Una nipote — ne ho molte, quindi l’informazione resta vaga — mi ha detto quanti chilometri separano Milano da Parigi: non dico il numero, perché le voglio bene. Aprirò la prossima lezione alla Scuola di Giornalismo «Walter Tobagi» chiedendo i confini degli Stati. Non deludetemi, futuri giovani colleghi.
    Mio padre, a 98 anni, risponde a queste domande senza esitazioni. La sua generazione non aveva né Google né gps; ma aveva libri, professori e metodo. La mia generazione non possiede la stessa competenza; ma le mappe erano il calmante della nostra irrequietezza, e qualcosa abbiamo imparato. Ho il sospetto che, negli ultimi vent’anni, l’insegnamento sociopoliticoeconomicoambientale della geografia abbia trascurato le nozioni di base: dov’è un posto, per esempio. Assuma quanti insegnanti vuole, ministro Giannini. Ma che sappiano qual è la capitale della Nigeria, e lo insegnino (no, non è Lagos).

La Stampa 19.2.15
Scoppia il caso nel Pd
Stato di Palestina, il voto alla Camera slitta
Una mozione di Sel-Psi chiede il riconoscimento. Il Pd verso il sì. Contrarie Fi e Lega

qui

il commento di Antonella Rampino qui

il Fatto 19.2.15
Il bluff del giorno
Il Pd stupisce tutti: “Riconosciamo la Palestina”. Ma non subito, dopo...
di Paola Zanca


Seguendo il calendario del capogruppo Roberto Speranza, la data in cui la mozione del Pd per il riconoscimento dello Stato palestinese verrà depositata è in un giorno, un mese e un anno senza tempo. Spiega piuttosto serio: “Se la votiamo domani sarà pronta domani, se la votiamo dopodomani sarà pronta dopodomani. C’è sempre tempo per migliorare le cose”. E siccome bisognava votarla oggi ma l’agenda è saltata, chissà quando avremo modo di capire qual è la posizione, unitaria e definitiva, dei democratici sull’annosa questione mediorientale. Riannodiamo la vicenda: da mesi, si chiede al Parlamento italiano di pronunciarsi sul riconoscimento dello Stato palestinese, come hanno già fatto circa 135 Paesi nel mondo. I primi a presentare una mozione, a ottobre, sono i Cinque Stelle, prima firma Gianluca Rizzo. Poi, a novembre, arriva la mozione di Erasmo Palazzotto, Sel. Ieri, il partito di Vendola ha perfino portato a Montecitorio l’ex ambasciatore israeliano in Sud Africa Ilan Baruch: anche lui chiede ai deputati italiani di votare quel testo, così come altri mille intellettuali israeliani (tra cui Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossman) firmatari di un identico appello. Così, di fronte a cotanto parterre, ieri, anche il Pd ha annunciato di aver pronto un suo testo sulla questione, firmato da Enzo Amendola. Cosa ci sia scritto non lo sapremo, pare, fino alla data del calendario Speranza. Quello che si è capito, ieri, è che le posizioni all’interno del gruppo democratico sono ancora lontane dal divenire unitarie. Una parte del partito sente forte la pressione della comunità ebraica. Ieri, da Roma, Riccardo Pacifici ha immediatamente messo le mani avanti: “Siamo in attesa di conoscere il testo del Pd – ha detto – Le attuali mozioni presentate da altri partiti non ci convincono poiché unidirezionali: in un momento di tensione internazionale come questo dovrebbero regnare la calma e la prudenza da parte dei Paesi comunitari”. E poi tra i democratici c’è chi ritiene sia da irresponsabili votare una mozione del genere a poche settimane dalle elezioni in Israele: facciamo vincere la destra, è la linea (che forse sopravvaluta un tantino la nostra influenza internazionale). D’altronde che l’aria fosse quella di rimandare era chiaro da un pezzo: “Prima ci hanno chiesto di aspettare perché eravamo nel semestre di presidenza europea – spiegano da Sel – poi perché doveva andare in porto l’operazione Mogherini lady Pesc. Poi ci sono state le riforme, poi l’elezione del capo dello Stato... adesso che era arrivato un segnale dovevamo incassarlo subito”. Invece, è il sottotesto, si sono messi di mezzo i Cinque Stelle. Che non hanno rinunciato all’ostruzionismo sul milleproproroghe né votato la deroga sul voto di fiducia: in pratica, questa settimana, l’Aula non avrà tempo e modo di votare quella mozione. Per il Pd, non certo un dispiacere. Ora il calendario dei lavori è tutto da riscrivere, con buona pace di Speranza.

Corriere 19.2.15
Mozione pro Palestina. Israele critica il Pd
di D. Mart.


I dem spingono sul riconoscimento dello Stato. La freddezza del governo, poi il dibattito salta Dura l’ambasciata in Italia: un atto prematuro che allontanerebbe le possibilità di pace
RoMA Alla fine non se ne fa niente, almeno per ora. Le mozioni sul riconoscimento dello Stato palestinese e quelle sulla politica estera (dall’Ucraina alla Libia), in calendario per oggi alle 14 alla Camera, slittano in avanti a data da destinarsi.
Il dibattito, chiesto mesi fa da Sel e M5S, si sarebbe potuto tenere oggi solo se alla conferenza dei capigruppo si fosse raggiunta l’unanimità: invece non c’è stato un voto omogeneo capace di aprire in Aula una finestra di 4-5 ore dedicata alla Palestina e alla politica estera, come era stato chiesto (non proprio a gran voce) dal Pd e ovviamente da Sel. Forza Italia, Lega e M5S non hanno concesso la deroga e così, visto anche l’atteggiamento tiepido di Ncd, la questione si è risolta con un rinvio sine die che, a questo punto, non dispiace neanche a Palazzo Chigi: il governo infatti per tutto il semestre europeo (luglio-dicembre) aveva già congelato il dibattito parlamentare sul riconoscimento della Palestina.
Il rinvio è arrivato al termine di una giornata nervosa, fuori e dentro il Parlamento. Da Palazzo Chigi è stato un continuo di inviti alla prudenza e alla «contestualizzazione» del dibattito sul riconoscimento dello Stato palestinese. I destinatari del messaggio erano soprattutto i deputati dem dopo che i vertici del gruppo del Pd avevano annunciato di voler preparare e votare una mozione. «Leggerò la mozione del Pd ma no a iniziative unilaterali», ha detto il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici.
Pressioni sul governo, poi, si sono concretizzate quando l’ambasciata di Israele ha diffuso un comunicato dai toni netti: «È chiaro che qualsiasi riconoscimento prematuro non farebbe altro che incoraggiare i palestinesi a non ritornare ai negoziati... L’instabilità in Medio Oriente e nella regione del Mediterraneo è già abbastanza grande ed è giunta a lambire anche l’Italia e l’Europa. Pertanto Israele certamente non accetterà la creazione di un’ulteriore entità terroristica in Medio Oriente». L’ambasciata israeliana, comunque, ha preso molto sul serio l’ipotesi di un voto del Parlamento seppure su una mozione dai toni più blandi: «Qualora davvero si votasse, auspichiamo che i deputati si pronuncino in favore del sostegno al processo di pace fra Israele e palestinesi, basato sul principio di due Stati...».
E quando si è riunito il gruppo del Pd con il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è stato chiaro che sbrogliare la matassa non sarebbe stato facile. Ha introdotto il responsabile Esteri, Enzo Amendola, e poi nel dibattito ci sono state posizioni più sensibili al riconoscimento netto dello Stato palestinese (Fossati, Bruno Bossio, Scanu) e altre storicamente più legate al contesto «due Stati» sancito dagli accordi di Oslo (Fiano, Verini, Sereni, Zampa).
Alla fine Gentiloni avrebbe ricordato che un voto del Parlamento è certo importante ma, come è successo in altri Paesi Ue, non innesca necessariamente un atto conseguente del governo.
Sul fronte palestinese, da Ramallah si è fatto sentire Nemer Hammad, consigliere politico del presidente Abu Mazen e profondo conoscitore dell’Italia che, riferendosi al Pd, ha parlato di «segnale importante per riaprire il processo di pace con il prossimo governo israeliano e favorire la soluzione dei due Stati». Hammad si è poi rivolto a «Casini e agli amici di Forza Italia perché seguano la stessa strada». Ma il capogruppo Renato Brunetta (FI) ha scaricato su Renzi la responsabilità del rinvio: «Il caos nel governo ha fatto saltare il dibattito sulla politica estera». Per Arturo Scotto (Sel) lo slittamento «è un bel regalo dell’ostruzionismo del M5S».

Repubblica 19.2.15
Laura Puppato, senatrice Pd
“Paralizzati dalla Shoah ma ora basta tergiversare su un popolo che soffre”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «La mozione del Pd arriva tardi, abbiamo sempre avuto il timore di mettere il dito nella piaga». Laura Puppato, senatrice dem, un anno fa “congelò” una mozione per il riconoscimento dello Stato palestinese, che era sul punto di presentare in Senato, per evitare tensioni nel partito. Ora chiede che i Dem vadano avanti spediti e senza compromessi.
Puppato, la mozione sul riconoscimento dello Stato della Palestina davvero divide il Pd?
«Il fatto che si decida intanto è un punto importante. Ho notato molta resistenza e difficoltà ad esprimere chiaramente una linea su questo per le mille e più ragioni, anche per il senso antico di colpa nei confronti degli ebrei che però non può consentire di ignorare angherie e barbarie israeliane. Non c’è confronto nella proporzione di armamenti e forze messe in campo. Possibile che non ci si renda conto della tragedia impari vissuta da quel popolo palestinese che si è visto espropriato di tutto?».
Lei è filopalestinese e poco disposta alle ragioni degli israeliani?
«Amo gli israeliani e gli ebrei, ho amici ebrei. Ma penso non si possa più diluire nel tempo l’attesa che lo Stato palestinese debba esistere come Stato, come paese e non solo come terreno rinchiuso tra due fuochi, come lembo di terra strappato a un altro lembo di territorio. Ho incontrato con Giorgio Tonini circa un anno fa la consigliera d’ambasciata palestinese Mai Alkaila. A luglio ho presentato in aula la “cartolina” della Palestina così com’è, con un territorio ridotto al 12% rispetto a quello che era nel 1947 dopo il piano di ripartizione delle Nazioni Unite. C’è stata l’interrogazione con un gruppo di 24 senatori dem, sempre in luglio. Per timore di mettere il dito in una piaga che non si è risanata in Europa e che ha visto la tragedia immane della Shoah, non si può però essere afoni».
Dentro il Pd è necessario mediare. Si fa fatica ad elaborare la mozione?
«Posso crederlo. Tuttavia l’Italia deve premere più di chiunque sull’Europa perché si faccia portavoce di un’esigenza di pace, di restituzione di giustizia».
Non crede che in questo momento il riconoscimento dello Stato palestinese sia benzina sul fuoco che infiamma la regione?
«No, è vero il contrario. Davanti all’Is, alla follia estremista che usa la religione come strumento di morte, tutti i fondamentalismi religiosi, dovunque si annidino, devono essere fermati».
La mozione dem va votata con Sel e i 5Stelle o con Ncd e Fi?
«Più si allarga e meglio è, ma la cosa importante è che si prema perché l’Europa sia finalmente incisiva. Dovremmo quindi votarla con tutti quelli che ci stanno».
E il testo deve essere formulato in modo che si chieda il riconoscimento subito?
«L’importante è chiedere che ci sia lo Stato palestinese o che si vada in tempi rapidi verso lo Stato palestinese. A me interessa questo, che la smettiamo di chiudere gli occhi».

Corriere  19.2.15
Israele scopre gli eccessi dell’edonista Netanyahu
di Davide Frattini


La padrona di casa accompagna l’ospite in cucina, gli mostra i mobili rovinati, i fornelli scrostati, il frigorifero antiquato. Insieme guardano la telecamera, gli occhi urtati da tante ristrettezze. «Sembra l’arredamento di un orfanotrofio rumeno del 1954», esclama Moshik Galamin, designer d’interni e celebrità televisiva.
Il video di 15 minuti, diffuso su YouTube, non è bastato a spostare l’obiettivo dal dossier di quaranta pagine presentato dal controllore dello Stato, la Corte dei conti israeliana, che ha analizzato quattro anni di spese nella residenza ufficiale del primo ministro. Tra il 2009 e il 2013, Benjamin Netanyahu e la moglie Sara hanno utilizzato denaro pubblico in modo eccessivo (soprattutto per cibo, vestiti e pulizie), hanno forzato gli assistenti a pagare per alcuni acquisti e non li hanno mai rimborsati, hanno assunto come elettricista un amico di famiglia (e militante nel Likud, il partito del primo ministro).
Gli editorialisti concordano che il rapporto — anche se è stato inviato al procuratore generale perché verifichi se sono stati commessi reati — non rischia di trasformarsi in uno scandalo tale da far cadere Netanyahu o fargli perdere le elezioni del 17 marzo. Nahum Barnea, la firma più importante di Yedioth Ahronoth , parla di «vergogna, piccinerie, meschinerie». Come non aver mostrato nel filmato girato con Galamin il secondo piano della residenza, quello lussuoso dove davvero vivono i Netanyahu. Ben Caspit sul giornale Maariv ricorda la frugalità di Menahem Begin e degli altri politici, prima che al potere arrivassero gli «edonisti», come sono chiamati Ehud Olmert (condannato per corruzione), Ehud Barak e Netanyahu.
Da Stato quasi socialista alle origini, Israele sta scoprendo le diseguaglianze economiche, una classe media sempre più impoverita. In una campagna elettorale dove in pochi (quasi nessuno) affronta la questione palestinese, il premier teme che i suoi sprechi ricordino agli israeliani chi ha avviato le riforme liberiste negli anni Novanta, le scelte contro cui hanno protestato in massa nell’estate del 2011: Benjamin Netanyahu.

Repubblica 19.2.15
Petrolio e veti incrociati bloccano le grandi potenze solo gli sceicchi possono sciogliere i nodi della crisi
di Vittorio Zucconi


ULTIMA dea sempre invocata e mai ascoltata, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stato chiamato ancora una volta a coprire con la propria bandiera blu azioni e decisioni prese da altri. Ma sotto la bandiera, niente. Di fronte alla disintegrazione della Libia e all’infezione dell’Is, che si diffonde lungo la Grande mezzaluna araba dal Golfo Persico all’Atlantico, regnano l’indecisione e il dissenso sotterraneo fra i cinque membri permanenti del Consiglio, Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, quelli che contano, nascosti da appelli e moniti senza denti.
Scontate la condanna e l’esecrazione per la violenza degli assassini con la bandiera nera, non esiste, e non è stato prodotto neppure da questa riunione di emergenza chiesta da Egitto e Francia, invocata dall’Italia sull’orlo del panico e accettata da un’America riluttante, un consenso fattivo sulle azioni da lanciare per fermare la marcia dell’Is. È il limite strutturale, si potrebbe dire la tara genetica, dell’Organizzazione che in questo 2015 compie 70 anni e li dimostra tutti, questa incapacità di passare dalle parole ai fatti e all’”enforcement”, al rispetto delle proprie risoluzioni spesso serenamente e impunemente ignorate dai destinatari. Un limite aggravato dal confronto con un’entità indefinibile, amorfa e transnazionale come il cosiddetto Stato islamico che Stato non è, e dunque non può neppure essere condannato, isolato o sanzionato come una nazione canaglia.
In più, nel caso della Libia, una tragedia in corso che investe da vicino l’Italia ma che sfiora soltanto marginalmente quattro delle cinque potenze con il diritto di veto, la cronica impotenza dell’Onu è intessuta delle lunghe code di paglia che proprio coloro che le dovrebbero sciogliere hanno invece trascinato. Nessuno dei “top player”, dei giocatori chiave, non gli Usa, non la Russia, non la Francia, non il Regno Unito e neppure la Cina, avviata a diventare il primo importatore di petrolio nel 2025 e dunque attentissima al destino politico del grandi bacini del greggio, può dirsi estraneo, disinteressato o con la coscienza limpida.
Il Gheddafi che fu abbattuto dall’aggressione franco-britannica del 2011, ha ricordato la folle Guerra di Suez contro Nasser nel 1956, ultimo spasmo dell’eurocolonialismo che saldamente collocò, insieme con Israele, l’Europa sul fronte nemico del nazionalismo arabo allora in chiave socialista. Fu fermata soltanto dalla saggezza di Dwight Eisenhower e dalla minaccia di un intervento dei sovietici, che avevano fatto dell’Egitto, come della Siria, nella Guerra fredda uno dei protetti del Cremlino, in chiave cinicamente anti Nato e antiamericana.
Washington, protagonista della follia reaganiana del 1986 con il bombardamento degli accampamenti del raìs condotto aggirando l’opposizione degli alleati Nato come Spagna e Italia, sa di avere contribuito alla disgregazione della Libia e alla crescita dell’Is, dalle sventurate guerre bushiste per «cambiare i regimi» all’indecisionismo obamiano di fronte alla Siria, all’Iraq e al Kurdistan. L’unica nazione araba amica rappresentata soltanto come membro non permanente nel Consiglio, è la Giordania che ha già da tempo lanciato la propria vendetta contro l’Is in Siria, dopo la morte atroce del pilota catturato, senza preoccuparsi di Onu e di sanzioni.
Appellarsi alle Nazioni Unite per giustificare eventuali operazioni militari volte a stabilizzare la Libia e a smontare la macchina dell’efficace propaganda sanguinolenta dell’Is diventa un alibi per non fare niente, o per sentirsi autorizzati, come gli egiziani e i giordani, a muoversi come cavalieri solitari. O per aspettare che siano, come sempre, gli Stati Uniti a riempire di sostanza quel sacco vuoto che è il Palazzo di vetro. Ma per lo scandalo e gli anatemi della destra repubblicana, puntellata dalla propaganda di network televisivi e dei soliti falchi da teleschermo come il senatore McCain — già patrono proprio dei jihadisti quando sembravano utili — Obama esita e svicola. Apparentemente è più preoccupato di quanto accade fra Siria e Iraq anziché della catastrofe libica o dei barconi di profughi spiaggiati in attesa di lanciarsi verso l’Italia.
Degli europei Obama non si fida come gli europei non si fidano di lui, e la Casa Bianca non ha alcun desiderio di farsi risucchiare in un’altra guerra per il petrolio libico, essendo gli Stati Uniti ormai sempre più vicini all’autonomia energetica. Il Pentagono, che soltanto con le sue dieci portaerei nucleari in servizio attivo capaci di lanciare complessivamente fino a mille cacciabombardieri potrebbe sbriciolare le città costiere della Libia, sa perfettamente di essere il solo ad avere le forze per dare senso a un intervento militare che non siano le punture di spillo egiziane. Ma sa anche, come sa Obama, che ovunque l’America intervenga, i cocci — secondo la famosa formula del generale Colin Powell — saranno suoi, e la responsabilità di un altro fallimento e di altre maree di antiamericanismo, sarà sua.
Le sole nazioni che potrebbero detenere le chiavi di una soluzione, almeno temporanee, non erano e non sono presenti al Consiglio di sicurezza, e sono l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo. Come già avvenne in Iraq, quando il disastro parve temporaneamente fermarsi, non furono i proiettili e i missili americani a scuotere i clan sunniti, ma le bordate di dollari che piovvero su di loro sganciate dai Sauditi. Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, figlie di intenzioni nascoste, di code di paglia, di calcoli cinici come quelli di Putin, ben lieto di vedere gli europei e gli americani impigliati in un problema che allontana l’attenzione dall’Ucraina e dall’espansione dei confini russi verso Ovest, serviranno soltanto se nel caos libico, nel crogiolo dei due governi, dei due parlamenti, degli almeno 14 clan che si contendono la Libia, pioveranno carote, prima che bombe. Ma non accusiamo l’Onu di impotenza e di inefficacia. Le Nazioni Unite restituiscono soltanto quello che ci investiamo in volontà politica. Molto poco.

Repubblica 19.2.15
È indispensabile la coesione tra le forze politiche per evitare i vecchi errori
Il pericolo inerzia dell’occidente mentre Roma cerca una mission
Fino a che punto il Paese intende giocare un ruolo diretto nella crisi?
A parole siamo pronti a un contributo determinante, nei fatti meno
di Stefano Folli


RISPETTO al caos in Libia e ai suoi sviluppi, a Roma si respira aria di attesa. I propositi bellicosi, certo un po’ avventati, dei primi giorni sono stati messi da parte. Quanto alle contraddizioni, si cerca di superarle affidandosi al buonsenso. E si guarda alla comunità internazionale per dipanare una matassa troppo aggrovigliata per un paese solo.
Le parole del ministro degli Esteri Gentiloni sono state calibrate una per una e andavano tutte nella stessa direzione: in Libia oggi si può solo mediare fra le fazioni, così da favorire la riconciliazione fra i «clan» e le tribù, impedendo attraverso questa via allo Stato islamico di prendere il sopravvento grazie al vuoto dell’anarchia. Ma il governo Renzi non vuole passare per mero attendista e Gentiloni ha insistito sulla necessità di fare in fretta. «Il tempo non è infinito», ogni giorno che trascorre nell’incertezza i fondamentalisti si rafforzano.
Questa è la linea italiana, ormai definita dopo gli sbandamenti iniziali. Il punto di fondo è quello richiamato in Senato da Giorgio Napolitano, il quale conferma così di voler prendere parte attiva al dibattito politico: «Da questa crisi non si può scappare; ognuno deve fare il suo dovere». E, sottinteso, deve assumersi precise responsabilità. Su tali basi il governo va avanti. L’opposizione di Forza Italia ha criticato il basso profilo del ministro, ma nel merito nessuno ha da proporre una linea diversa, per la semplice ragione che nessuno conosce tutti gli elementi del rebus. Non si può nemmeno dire che si stia consolidando in Parlamento un clima di coesione nazionale, dal momento che tutti si limitano ad aspettare gli eventi in un crescendo d’inquietudine.
Sarà certo vero, come dice il sottosegretario con delega ai servizi, Marco Minniti, che i fanatici dello Stato islamico in Libia sono pochi e che la loro forza è tutta nella capacità di usare i mass media per una propaganda subdola e terrorizzante, ma soprattutto imprevedibile. Tuttavia l’inerzia delle nazioni occidentali sarebbe il miglior concime per i loro progetti di espansione. E qui nascono alcune perplessità circa la linea di Roma. La domanda che tutti si pongono è: fino a che punto l’Italia intende giocare un ruolo diretto nella crisi, un ruolo di stimolo verso le altre capitali? Da quel che si è capito, non c’è ancora un impegno diretto e di alto profilo nei confronti di Washington e Mosca, due attori essenziali per immaginare qualsiasi soluzione politica, ma anche per determinare la copertura delle Nazioni Unite rispetto a un’eventuale — e molto complessa — azione militare.
La Russia è considerata una pedina fondamentale nella crisi, ma occorre qualcuno in grado di interloquire con Putin al di là della barriera ucraina. C’è chi se ne occupa a Roma? Non è chiaro. Quanto agli Stati Uniti, si attende a breve una dichiarazione firmata dall’amministrazione Obama con alcuni fra i maggiori paesi europei, Italia compresa, per fissare gli obiettivi del negoziato politico con le fazioni in campo. In definitiva non si sa ancora se il governo Renzi stia trainando gli altri o invece sia trainato. L’intervento ieri di Gentiloni non conteneva passaggi capaci di illuminare il piccolo mistero. Il problema è che l’Italia porta sulle spalle la responsabilità a cui si è richiamato il presidente emerito Napolitano. Per ragioni geografiche, storiche, economiche. E ovviamente anche per il peso della sua « intelligence» sul teatro del conflitto.
In altre parole, se la crisi dovesse precipitare e il coinvolgimento della comunità internazionale non fosse solo retorico, l’Italia sarà chiamata a dare un contributo determinante. Quel contributo che a parole è pronta a offrire, ma nei fatti un po’ meno. A quel punto, e solo allora, si misurerà quanto vale la convergenza fra la maggioranza e l’opposizione più seria. Ieri ancora Napolitano ha ricordato la risoluzione votata con slancio dal Parlamento il 18 marzo 2011 e l’iniziativa volta a ricondurre in ambito Onu l’avventura militare lanciata contro Gheddafi da Francia e Gran Bretagna. È un modello da non dimenticare, al di là delle polemiche. E facendo attenzione a non ricadere nei vecchi errori.

Repubblica 19.2.15
Olivier Roy
Ma non accostate Islam e fascismo sono delinquenti senza ideologie
di Anais Ginori


PARIGI  intervista «Un concetto che aggiunge confusione e non ci permette di capire quello che sta accadendo». A Olivier Roy il termine “islamo-fascismo”, utilizzato qualche giorno fa da Manuel Valls, non piace. L’espressione, spesso citata da esponenti di destra, è stata adottata a sorpresa dal premier socialista per parlare della lotta contro le derive fondamentaliste. «È un termine vuoto, che serve per attirare l’attenzione dei media, ma non contiene nessuna analisi politica», spiega lo specialista francese d’Islam, professore all’Istituto universitario europeo di Firenze e autore del saggio su nuove religioni e fondamentalismi moderni Santa Ignoranza e di un dialogo sull’Oriente uscito di recente in Francia, En quête de l’Orient perdu .
Il paragone storico con il fascismo è fuorviante?
«Valls dovrebbe riuscire a dimostrare che c’è un legame tra Al Baghdadi e Mussolini. Mi pare difficile. Siamo seri, dobbiamo cercare di essere per quanto possibile rigorosi nelle definizioni. Il fascismo voleva costruire uno Stato, delle istituzioni, aveva una visione della società, per quanto discutibile, c’era un culto del Capo, un forte nazionalismo, un concetto di razza. Tutte cose che mancano all’Is. Mi disturba anche l’accostamento tra fascismo e Islam».
Perché?
«Nell’Islam politico non ci sono soltanto tendenze radicali. Ci sono certo partiti e gruppi conservatori, ma ancorati alla legalità, alle istituzioni. Anche in Europa i cosiddetti terroristi islamici sono spesso delinquenti, marginali; non hanno davvero una connessione profonda con l’Islam».
Non è corretto evocare una forma di totalitarismo religioso?
«L’Is non è un totalitarismo. È una dittatura locale e militare. Nel senso religioso non ha ideologia e si avvicina più che altro a una setta. Gli unici che hanno fatto dell’estremismo religioso una vera e propria ideologia sono i Fratelli Musulmani, che sono rivali dell’Is. Valls sbaglia non solo sull’ideologia, ma anche sui gruppi indicati con questo termine”.
Il governo francese si rifiuta di parlare di Stato islamico e usa il termine arabo Daesh. È giusto?
«È un approccio intelligente. Parlare di Stato islamico è un modo di aderire alla propaganda di questo gruppo terroristico. Dopo ogni attentato, ci rendiamo inconsapevolmente complici della propaganda dell’Is. E invece non dovremmo mai dimenticarci che l’Is è un movimento ultraviolento, senza dottrina politica, che regna attraverso il terrore. Se si vuol fare un paragone, si pensi alle sette millenariste o degli anarchici di fine Ottocento».
Il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, ha anche chiesto ai giornalisti di non usare più l’espressione “terroristi islamici” per non creare confusione con l’Islam. Cosa ne pensa?
«È politicamente corretto, ma non possiamo ignorare che questi gruppi rivendicano l’appartenenza all’Islam. Di sicuro dobbiamo chiamarli terroristi e non militanti o combattenti islamici. L’importante è non commettere l’errore di chiedere a tutti i musulmani di scusarsi per gli attentati o le violenze dei terroristi, favorendo così la perversa motivazione dell’Is».
Eppure davanti all’orrore senza fine, che concilia una barbarie medioevale con la tecnologia del web, è possibile trovare una definizione?
«Le analogie storiche non funzionano. Ci troviamo davanti a una situazione nuova e senza precedenti. L’Is veicola un’utopia apocalittica tipica della nostra epoca. Un’utopia che affascina una gioventù nichilista anche in Occidente, costruendosi su un eroismo in negativo un orizzonte suicida. I terroristi di Parigi e Copenaghen non volevano vivere, si convertono non a una religione ma a una sorta di narrazione come fossero Supereoi del Male».
Con strumenti di propaganda sofisticati e moderni?
«È più che altro una rappresentazione dentro al nostro tempo. Una propaganda esibizionistica attraverso l’azione. Non c’è costruzione ideologica. L’Is offre soltanto un immaginario politico, un mito come quello del Califfato senza un programma concreto e che può svilupparsi solo nella violenza permanente».

Corriere 19.2.15
Occidente ridotto alle Crociate
Una storia che non si chiude
di Roberto Tottoli


Una vicenda storica è ossessivamente richiamata nei proclami dell’Isis: le Crociate cristiane. Per lo Stato islamico Gentiloni è il ministro crociato e tra i loro propositi vi è quello di attaccare le navi crociate. Crociato è per loro diventato sinonimo di occidentale. L’Isis non è il primo né il solo a utilizzare le Crociate. Pesca in un immaginario segnato da toni di crescente paranoia che ne ha fatto, nel XX secolo, il simbolo del presunto atteggiamento liquidatorio occidentale verso l’Islam. Le Crociate sono diventate così il modo da parte della propaganda dell’Islam radicale di spiegare l’Occidente. Basta un visita a qualche fiera del libro del mondo islamico per trovare decine di titoli sulle Crociate e sui misfatti della presenza cristiana. La crudeltà e la ferocia delle Crociate diventano la verità astorica della vera attitudine dell’Occidente e spiegano così le difficoltà dei musulmani di oggi. Alimentano una letteratura popolare fatta di complottismi e di tante narrazioni occidentali riciclate (come i Protocolli dei Savi di Sion) che hanno trovato sempre più spazio in tutto il mondo islamico. Radicali e jihadisti pescano in questo immaginario alimentato da tempo e in crescita da decenni, in cui le Crociate sono vive più che mai. L’Isis ne ha fatto uno dei suoi motivi preferiti, forse anche per rispondere indirettamente agli stessi argomenti usati da parte occidentale. George W. Bush, dopo l’11 settembre, parlò di crociata contro il terrorismo, mentre Obama, una settimana fa, ha paragonato i misfatti dell’Isis a quanto fatto dai Crociati in Terra Santa. Il lato ironico di tutto ciò è che la storia delle Crociate fu vissuta in maniera assai diversa nel tempo in cui accaddero. I regni musulmani attorno alla Terra Santa videro nelle conquiste crociate una crisi momentanea, portata da guerrieri rozzi e inferiori. Gli storici musulmani medievali gli dedicarono poco o nessun spazio, come una parentesi senza conseguenze, presto cancellata da Saladino e le sue conquiste. Nella visione distorta dell’Isis quel tempo non si è ancora chiuso.

il Fatto 19.2.15
I Caschi Blu restano a casa la Libia preferisce le armi
Al Consiglio di sicurezza dell’Onu i Paesi Arabi chiedono la fine dell’embargo 2011
di Giampiero Gramaglia


Niente Caschi Blu, almeno per ora, sul territorio libico; era già scontato, ma ora è pure ufficiale: nessuno li chiede, nessuno li vuole. Non è definitivo, perché i riti del Palazzo di Vetro sono ciclici, non hanno quasi mai la parola fine. Il consulto d’urgenza sulla Libia del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, tenuto ieri a New York, è un dibattito fiume pubblico, seguito da consultazioni riservate: l’inviato in Libia Leon vi interviene in video-conferenza: secondo lui l’Isis in Libia ha trovato terreno fertile nell’instabilità del Paese, ma il dialogo politico sta facendo progressi. In parallelo, a Washington, si svolge un incontro internazionale contro l’estremismo islamico, cui partecipano una sessantina di Paesi.
Anche se i tempi di elaborazione delle Nazioni Unite sono lunghi, lenti e richiedono mediazioni e ‘digestioni’, è chiaro che l’intervento armato della comunità internazionale con tutti i crismi della legalità non ci sarà. L’Egitto che l’aveva inizialmente sollecitato, nelle ultime 48 ore ha fatto per conto suo, con raid aerei e incursioni terrestri contro obiettivi e postazioni delle milizie jihadiste. Tutto con l’avallo del premier libico legittimo al-Thani, la cui sintonia con il rais al-Sisi pare consolidarsi.
COSÌ SI EVITA di aggiungere un grano al rosario di missioni dell’Onu in cui i Caschi Blu sono stati testimoni di massacri senza saperli, o poterli, evitare: perché le Nazioni Unite possono fare con efficacia del peace keeping, ma non riescono a fare del peace enforcing, cioè a portare la pace dove c’è la guerra. Lo dicono cinquant’anni e passa di frustrazioni e morti, spesso inutili, come i caduti di Kindu, italiani, in Congo, nel 1961. Tra Medio Oriente e Africa, i Caschi Blu sono stati l’anello debole dell’impotenza internazionale nelle maglie di conflitti intestini feroci e atavici. L’episodio più emblematico vicino all’Italia, dall’altra parte dell’Adriatico, a Srebrenica, dove soldati dell’Onu olandesi, armati, ma senza consegna a intervenire, assistettero passivi e imbelli a uno dei momenti più cruenti della guerra bosniaca, il massacro di migliaia di musulmani da parte dei serbo-bosniaci. Al Consiglio di Sicurezza, i Paesi arabi si sono presentati proponendo una risoluzione per mettere fine all’embargo sulla vendita di armi al governo libico riconosciuto dalla comunità internazionale, come se il problema in Libia fossero che mancano le armi e non che ce ne sono troppe. Il ministro degli Esteri egiziano Shukry lo ha annunciato prima dell’inizio della riunione, dopo aver incontrato rappresentanti all’Onu di altri Paesi islamici.
IL REGIME del Cairo è in prima linea nella lotta contro le milizie del Califfato in Libia. La Giordania, ora membro del Consiglio di Sicurezza, altro Paese arabo molto esposto contro lo Stato islamico, ma sul fronte siriano-iracheno, è stato latore del testo che chiede che “l’embargo sulle armi sia rimosso per il governo legittimo, così da permettergli di combattere contro il terrorismo”. Il documento chiede, inoltre, “maggiori controlli via mare e via aria per prevenire la consegna di armi ai gruppi militanti” che si battono contro il governo riconosciuto. L’Occidente s’era già dichiarato, praticamente unanime, per una “soluzione politica”, pure auspicata da papa Francesco: “La guerra - è la tesi - aiuta il Califfato, che solo quella sa fare”. Certo, c’è l’impegno a “un cambio di passo della comunità internazionale”, ma sono parole. Quelle dell’Ue, il cui ruolo era già stato mortificato dalla vicenda ucraina, neppure si sentono. L’embargo sulla vendita di armi alla Libia risale al 2011, quando, nella scia delle Primavere arabe, un’insurrezione, appoggiata dai raid aerei di una coalizione internazionale che forzò il mandato dell’Onu rovescio il regime di Gheddafi; il Consiglio di Sicurezza lo impose, allora, per impedire che la Libia diventasse una polveriera. Ma già lo era e gli arsenali del Colonnello alimentano l’attuale conflitto.

Corriere 19.2.15
L’America preme sulla Grecia: «Intesa o conseguenze dure»
Il segretario del Tesoro Usa chiama il ministro delle Finanze ellenico Varoufakis
Juncker: «Rispettare gli obblighi finanziari»

qui

il Fatto 19.2.15
Obama scarica la Grecia. Ora Tsipras è rimasto solo
Il Segretario al Tesoro Usa avverte: “Senza accordo saranno guai”
di Stefano Feltri


Lo scontro tra Grecia e Unione europea sta per risolversi nell’unico modo possibile: con la resa di Atene. Gli Stati Uniti di Barack Obama, dopo giorni di pressione sulla Germania perché tenesse una linea dialogante, ieri hanno intimato alla Grecia di arrendersi e accettare l’estensione del protettorato europeo così da evitare la bancarotta a fine mese, quando finisce l’attuale programma della Troika (Commissione europea - Fondo monetario - Bce). Il segretario al Tesoro americano, Jack Lew, ha chiamato il ministro dell’Economia greco Yanis Varoufakis e lo ha avvertito: se la Grecia rifiuta ogni accordo, ci saranno “immediate difficoltà”. Tempo pochi minuti e lo stesso Varoufakis cerca di contenere il danno di immagine e politico, cioè la perdita dell’alleato americano nella ribellione anti-austerità. “Il segretario del Tesoro Usa mi ha effettivamente detto che un mancato accordo danneggerebbe la Grecia”, scrive su Twitter Varoufakis, “ma ha aggiunto che danneggerebbe anche l’Europa. Un avvertimento a entrambe le parti”.
IN REALTÀ A BRUXELLES si afferma in modo sempre più netto la linea opposta a quella tenuta nella precedente crisi greca, nel 2012: se Atene vuole rinunciare alla Troika, perderà anche i finanziamenti, uscirà dall’euro, e ne pagherà le conseguenze. Grazie anche alla liquidità offerta dalla Bce, il resto dell’Europa reggerà. Questa la (pericolosa?) convinzione di questi giorni.
Varoufakis e il suo premier Alexis Tsipras sono consapevoli che le cose si stanno mettendo davvero male. Angela Merkel, secondo quanto riportato da Bloomberg, resta intransigente: “Se alcuni Paesi sono in difficoltà, allora daremo loro la nostra solidarietà. Ma la solidarietà non è a senso unico, con gli sforzi dei Paesi, è una faccia della stessa medaglia e sarà sempre così”. La Bce ha alzato ieri da 65 a 68 miliardi la linea di credito di emergenza alle banche greche: non è una buona notizia, vuol dire che la fuga di capitali in corso da dicembre sta peggiorando.
L’ultimatum dato dall’Eurogruppo, la riunione dei ministri economici dell’eurozona di due giorni fa, scade oggi. È attesa una lettera ufficiale della Grecia che chiede alla Commissione e agli altri creditori (Bce e Fmi) un’estensione del programma di assistenza. Il nodo del contendere è a quali condizioni: a quelle che vuole Tsipras o a quelle attuali, concordate due anni fa con la Troika?
In una mossa disperata, Varoufakis ieri ha divulgato via Twitter i documenti con le posizioni della Grecia che lui stesso ha presentato nelle riunioni dell’Eurogruppo dell’11 e del 16 febbraio. Lo scopo è dimostrare quanto il governo greco sia dialogante, con affermazioni di questo tipo: “Numerosi resoconti scorretti hanno causato problemi con i nostri partner insinuando che avremmo cancellato le misure pregresse” o “voglio che il Fondo monetario lavori con noi”. Fiumi di miele per convincere i governi europei ad aiutare Atene a risolvere i suoi problemi più immediati: 5,2 miliardi da rimborsare al Fmi entro giugno e 6,7 alla Bce entro fine agosto.
Le rassicurazioni verbali di Varoufakis non hanno convinto i partner europei, anzi, li hanno indispettiti. Come pensa, il governo guidato da Tsipras, di rispettare gli impegni sui conti (a parte una riduzione dell’avanzo primario dal 4,5 all’1,5 per cento del Pil) mentre al contempo adotta misure che vanno nella direzione opposta? Assunzione di statali, blocco delle privatizzazioni, spesa sociale, riduzione delle tasse sugli immobili...
VAROUFAKIS HA DATO risposte troppo vaghe: recuperare 70 miliardi di tasse e crediti di Stato arretrati con provvedimenti come “riforma del sistema giudiziario, in generale” o “smantellare vari cartelli” oppure ancora “creare un sistema efficiente ed equo di corti tributarie” per non dire di “impedire all’amministrazione pubblica di chiedere certificati e documenti che lo Stato già possiede”. Sono anni che Bruxelles sente promettere questo genere di miracoli.
Unica soddisfazione per Tsipras: ieri è riuscito a eleggere il presidente della Repubblica (lo stallo aveva portato alle elezioni anticipate di gennaio): Prokopis Pavlopoulos, un conservatore moderato, già ministro nei governi di centrodestra e contestato per essere stato troppo indulgente con l’ascesa dei nazisti di Alba dorata.

il Sole 19.2.15
Il bazooka di Draghi e la debolezza dei greci
di Alessandro Plateroti


Che cosa dobbiamo aspettarci dal vertice di domani dei 19 ministri delle finanze europei sul caso-Grecia? Se ci si basa sulle aspettative dei mercati, la riunione avrà un esito positivo per Atene e per l’Europa: le Borse, da Londra a Milano, sono risalite ieri ai massimi di 7 anni, i tassi di interesse dei titoli di Stato di Grecia, Italia, Spagna e Portogallo sono scesi mentre quelli di Germania, Inghilterra e Giappone (i cosiddetti “safe haven”) sono saliti.
Persino l’euro, termometro valutario della crisi dell’eurozona, ha tenuto bene le posizioni sul biglietto verde: il lieve rafforzamento del dollaro registrato ieri, infatti, è più imputabile all’attesa dei mercati per le minute della Fed sulle prospettive dei tassi Usa che a un cedimento delle scommesse sulla soluzione del caso-Grecia. Isomma, crisi chiusa dopo il vertice di domani? La risposta, come ha giustamente già replicato l’Europa (e non più solo la Germania), è nelle mani dei greci: non perchè siano loro a tenere sotto scacco l’avversario con la minaccia di uscita dall’euro e di un conseguente terremoto finanziario sul resto d’Europa, ma esattamente per la ragione opposta.
La Grecia non fa più paura. Quelle che per molti mesi sono state considerate da Atene, dai mercati e dall’Europa come temibili armi negoziali - blocco delle privatizzazioni e delle riforme, insolvenza sul debito e uscita dall’euro - si sono rivelate nella realtà del tutto inconsistenti, o quanto meno inefficaci a porre la Grecia in una posizione di forza nella rinegoziazione delle condizioni sui prestiti imposte dalle istituzioni internazionali.
Il gioco dei greci ha funzionato infatti - e anche conquistato simpatie - finchè si è pensato che il costo di una rottura traumatica tra Bruxelles e Atene avrebbe avuto conseguenze drammatiche per la stabilità dell’euro, dell’Europa e del suo sistema finanziario. In questo modo è stato gioco facile per Tsipras spostare il peso della responsabilità sull’esito del negoziato interamente sulla Germania, spingendo persino gli Stati Uniti a un appello pubblico a favore della causa greca.
«Se respingono le nostre richieste - si è spinto a dire Tsipras - e ci fanno uscire dall’euro, sarà l’equivalente una di una terza guerra mondiale». E tra le prime vittime della guerra, ovviamente, il governo greco ha messo Italia e Spagna, considerati inizialmente potenziali alleati. Ma di minaccia in minaccia, Atene sembra aver poi perso di vista lo scenario reale in cui si stava avviando il negoziato: invece di cadere davanti alla rigidità tedesca, i mercati borsistici e obbligazionari ne hanno quasi preso forza, arrivando ieri a chiudere ai massimi di sette anni dopo aver superato senza traumi le schermaglie dialettiche e le frequenti rotture delle trattive, compresa quella di lunedì scorso che sembrava invece fatale. In questo senso, il primo allarme è suonato ad Atene la scorsa settimana, quando la tensione era ancora altissima, quando Italia, Portogallo e Spagna hanno collocato titoli di Stato con tassi ai minimi storici o comunque - come nel caso di Lisbona - ai livelli più bassi dall’esplosione della crisi del debito cinque anni fa. Senza contare che nel resto d’Europa i tassi o sono vicini a quota zero o sono addirittura negativi: di effetto domino o contagio nessuno ha visto traccia. Un vero ribaltone di aspettative e timori, quello che si è verificato dall’elezione di Tsipras all’apertura delle trattative con l’Europa, che pochi si aspettavano e che ha letteralmente spiazzato sia il premier greco Tsipras che il suo braccio destro alle Finanze Varoufakis, esuberante nell’abbigliamento e soprattutto nella convinzione di poter vincere la partita contando solo sulle paure degli altri e sulla propria esperienza nella teoria dei giochi. Ma come la Borsa e i tassi hanno smentito Atene, così si è rivelata anche la scommessa di una convergenza di posizioni negoziali prevista dal teorema: il realismo dei tedeschi si è rivelato ben più concreto dei modelli teorici su cui si basava Varoufakis. E proprio per questo la Merkel non ha ceduto di un passo sulla richiesta-base per un negoziato: la riconferma da parte greca degli impegni assunti nel piano di salvataggio del 2012. Così, per quanto avventurieri, sia Tsipras sia Varoufakis sono tornati lunedì sera con i piedi per terra: pur non annunciando la disdetta del piano-aiuti ma la sola richiesta di una sua estensione per sei mesi, i due politici greci hanno reso palese la propria debolezza negoziale. E al di là dei proclami battaglieri, sanno bene che se nel testo della loro proposta che sarà discussa venerdì non è confermato a chiare lettere il rispetto degli impegni presi con la Bce, l’Fmi e la Ue, né Draghi né Bruxelles saranno disposti a finanziare le banche e trattare un nuovo salvataggio. E di questo sono ormai convinti anche i risparmiatori greci, che dopo aver già tolto dalle banche gran parte dei risparmi in euro sono corsi ieri ai bancomat per la paura di ritrovarsi presto con la dracma. L’illusione dei greci, insomma, sembra essere finita: dopo due ristrutturazioni del debito e soprattutto dopo che la Bce di Mario Draghi ha caricato il suo bazooka monetario con cartucce anti-crisi per 1.100 miliardi di euro, i mercati sanno di poter contare su un livello di liquidità sufficiente per sopportare non solo un eventuale tracollo finanziario della Grecia e delle sue banche, ma anche l’ipotesi di un suo abbandono dell’euro. In altre parole, la vera lezione che vale oggi per la Grecia ma che dovrebbe far riflettere chiunque pensa di poter ancora giocare in Europa partite solitarie sull’euro o sulle riforme, è che nel nuovo contesto finanziario garantito dalla Bce la protezione non è garantita in assoluto, ma solo condizionata ai comportamenti: ad essere negato non è il diritto di economie deboli come la Grecia di ridiscutere prestiti e riforme su basi più sopportabili, ma non c’è spazio per chi tenta di farlo senza rispettare le regole del gioco, minacciando di far saltare il banco se non vince la partita. Il banco - cioè l’euro - ha oggi denaro per neutralizzare le crisi e forza politica per far rispettare le regole. Al di fuori c’è il buio. Tsipras, come Varoufakis, sembrano averlo capito bene: se non è contagioso, il malato non fa paura.

il Fatto 19.2.15
Le idee
Nella testa di Yanis Varoufakis, “marxista irregolare” al potere


Cosa pensa davvero Yanis Varoufakis? Questo economista che è diventato in poche settimane una star dei social network (dicono abbia lo stesso sex appeal di Bruce Willis) è un accademico, blogger, divulgatore. E tutti i suoi colleghi europei si stanno chiedendo fino a dove è disposto ad arrivare. Difficile duellare con un esperto di teoria dei giochi. Il quotidiano britannico Guardian è andato a recuperare una lezione tenuta da Varoufakis al Festival Sovversivo di Zagabria nel 2013 nella quale l’allora professore all’università di Austin, in Texas, spiegava cosa vuol dire per lui essere marxista. Eccone il contenuto, in pillole.
LE ORIGINI. Varoufakis nel 1982 consegue il dottorato, si occupa di matematica, che nel pensiero di Karl Marx è quasi assente. Poi va a lavorare a Sidney, in Australia. Torna in Grecia nel 2000, diventa un consulente del premier socialista George Papandreou, ma lascia nel 2006. “Mark era responsabile della mia prospettiva sul mondo”, dice, anche se all’epoca non ne era del tutto consapevole.
LA SFIDA. Tutta la teoria economica contemporanea si basa sugli assunti di Adam Smith e David Ricardo: individui razionali, che vogliono massimizzare il proprio benessere, la concorrenza come principale leva di politica economica. “L’unica cosa che potrà destabilizzare e sfidare davvero gli economisti neoclassici mainstream era dimostrare l’inconsistenza intrinseca dei loro modelli”. Questa diventa la missione di Varoufakis.
IL RISPARMIO. Applicando Marx alla crisi europea, gli economisti tradizionali riconoscono il problema dell’eccesso di debito ma trascurano di vedere l’altro lato della medaglia, cioè enormi quantità di “risparmio congelato” dalla paura, che rifiuta di diventare investimenti produttivi. Col risultato che tutti sono condannati alla stagnazione.
CONTRO MARX. Con Marx, Varoufakis è anche “terribilmente arrabbiato” per i suoi errori. Primo: ha sottovalutato l’impatto delle sue teorie, che hanno spinto i marxisti a imporsi sui propri compagni e a guadagnare potere in nome dell’uguaglianza. Secondo errore: l’idea che si potesse capire la natura profonda del capitalismo attraverso modelli matematici. Per questo Varoufakis si definisce un “marxista irregoalare”.
THATCHER. Nel 1978 Varoufakis va a studiare in Inghilterra, sei mesi prima che Margaret Thatcher vada al governo. Il giovane economista osserva l’avanzata dell’onda liberista, la rivoluzione culturale di “la società non esiste” e una guerra di classe condotta con metodo. “La lezione che la Thatcher mi ha insegnato riguarda la capacità delle recessioni di lunga durata di minare le politiche progressiste, e questo non mi passa di mente nell’attuale crisi europea”. Quindi, a differenza di quanto pensano i critici di sinistra di Varoufakis, le crisi non sono il momento in cui si può rovesciare il capitalismo, ma l’occasione per i conservatori di smantellare welfare state e conquiste socialdemocratiche.
CHE FARE. Bisogna perseguire un’agenda pragmatica per “stabilizzare un sistema che io stesso critico”. Ma le élite europee si stanno comportando “come se non capissero l’origine di questa crisi e neppure le sue implicazioni future”. Varoufakis sembra molto più pragmatico di quanto molti oggi temano: “Fare alleanze con le forze reazionarie, come io penso sia necessario per stabilizzare l’Europa di oggi, ci tutela dal rischio di essere cooptati, di perdere il nostro radicalismo per colpa del caldo bagliore della soddisfazione di essere arrivati nei corridoi del potere”. L’unico modo per non smarrire se stessi è allearsi col nemico. Per non diventare come lui.
Vedremo a quale esito dei negoziati europei porteranno queste idee, ora che Varoufakis ha l’opportunità di applicarle

Corriere 19.2.15
Nel negoziato di Atene entra anche (per gioco) il dilemma del prigioniero
di Danilo Taino


Sceglierà la ragazza bruna o quella bionda, Yanis Varoufakis? Se andrà per la bruna, un accordo tra Atene e i 18 partner dell’Eurozona si potrà fare. Se si intestardirà sulla bionda, i rischi di un fallimento delle trattative saranno alti. La questione è la Teoria dei Giochi, della quale il ministro delle Finanze greco, economista, è un esperto, tanto che, volente o meno, l’ha fatta entrare nel dibattito politico dei negoziati con i partner dell’Eurozona. Creando anche un certo scetticismo: durante una delle recenti trattative, il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan, gli avrebbe fatto notare che non si stava discutendo del Dilemma del Prigioniero, cioè di uno dei casi più conosciuti della Teoria, quello che stava alla base della deterrenza nucleare reciproca tra America e Unione Sovietica nella Guerra Fredda.
Prima di ora, la Game Theory — sistematizzata nella prima metà del Novecento da John von Neumann — ha avuto un momento di notorietà di massa nel 2001, con il film A beautiful mind , sulla vita di John Nash, il matematico che diede un contributo sostanziale alla Teoria (la quale in sostanza è lo studio dei conflitti e della cooperazione tra entità razionali). La questione della bionda e della bruna nasce lì: Nash (Russell Crowe) si rende conto, all’università, di fronte a un gruppo di ragazze tutte brune eccetto una, che se lui e i suoi amici puntano tutti sulla bionda applicheranno una strategia perdente. Forse nessuno la conquisterà, di certo le sue amiche si irriteranno e anche loro daranno del lungo ai ragazzi. Meglio sarebbe distribuire le forze, i risultati sarebbero complessivamente migliori. Trovare strategicamente vantaggioso il puntare alla scelta B invece che alla A turba Nash; ma non gli impedisce di sviluppare in matematica il concetto, che alla fine verrà conosciuto come Equilibrio di Nash e non si limiterà a mettere in guardia dalle ragazze bionde, entrerà in una lunga serie di attività umane. Compreso il campo delle strategie negoziali.
Nel caso di Varoufakis, sembra ormai chiaro che per lui e per il suo primo ministro Alexis Tsipras andare per l’obiettivo massimo, nel corso delle trattative a Bruxelles, è una strategia perdente. Avrebbe senso usare un approccio diverso. Qui però entra in questione un altro aspetto della Teoria: la razionalità o meno dei protagonisti. L’esperienza applicativa, mostra che funziona bene — cioè prevede i risultati e li realizza — se i protagonisti si comportano seguendo il loro interesse. Fallisce spesso quando i soggetti sono mossi da emozioni non razionali. Per cui, applicata all’economia è piuttosto utile, applicata alla politica lo è meno. In alcuni casi, in effetti, le complicazioni di cui tenere conto sono molte.
Il Dilemma del Prigioniero citato da Padoan è tutto sommato semplice. Prendiamo due spacciatori di droga che vengono arrestati e chiusi in celle separate. Viene detto loro che si faranno due anni di prigione. Il magistrato si accorge però che probabilmente sono anche responsabili di un reato più grave, un furto di armi. Ma non ha prove. Quindi fa la stessa proposta ai due, sempre tenendoli separati: «Se confessi il furto, diamo un anno di carcere a te e dieci anni al tuo compare; ma se neghi e l’altro confessa, i dieci anni li prendi tu e lui uno. Se ambedue confessate, vi diamo tre anni ciascuno. Se entrambi negate, restate con i due anni per spaccio». Quest’ultimo è lo scenario più vantaggioso per entrambi. Ma dal momento che i due non si fidano l’uno dell’altro, faranno un calcolo diverso, che rientra nel caso dell’Equilibrio di Nash, e decideranno di confessare perché quello è il rischio minore tenendo conto di cosa potrebbe decidere l’altro (provare le ipotesi su una matrice). È un caso di gioco non cooperativo nel quale l’equilibrio si raggiunge quando ciascuno dei protagonisti fa la scelta migliore per se stesso tenendo conto delle decisioni dell’altro. Se sarà questo il finale tra Atene e Bruxelles si vedrà.
Certo, la trattativa è più complicata. Non sarà però la complessità a determinarne l’esito. Negli ultimi anni, la Teoria dei Giochi ha trovato applicazioni sofisticatissime. Famoso è il caso di Bruce Bueno de Mesquita, della New York University, che ha previsto una serie di eventi politici, a cominciare dalla caduta di Hosni Mubarak in Egitto, con precisione temporale straordinaria. Altre applicazioni, sempre computerizzate, riescono a funzionare da elementi mediatori tra Paesi in conflitto che non vogliono dare, durante una trattativa, informazioni all’avversario e rischiano quindi di fare fallire i negoziati. Il problema, piuttosto, nel caso greco è capire se Varoufakis e Tsipras rispondono alle caratteristiche dell’ Homo oeconomicus che si comporta razionalmente, sulla base del proprio interesse. O se andranno per la ragazza bionda.

La Stampa 19.2.15
Da Atene a Budapest, la rete di Putin
Dopo le offerte di aiuto alla Grecia, l’intesa e la piena sintonia con l’ungherese Orban
Il capo del Cremlino trova sponde nella Ue e mette in difficoltà i fautori delle sanzioni
di Tonia Mastrobuoni

qui

Corriere 19.2.15
Giovane uccisa Le donne turche sfidano Erdogan
Manifestazioni da giorni in tutte le città
di Alessandra Muglia


Soltanto donne a portare la bara e nelle prime file al funerale, soltanto donne a seppellirla. Sfidando la tradizione e i moniti dell’imam della cittadina turca di Mersin, le donne questa volta si sono rifiutate di stare dietro agli uomini. Nessuna mano maschile doveva più toccare Aslan Özgecan dopo che la scorsa settimana la sua giovane vita è stata brutalmente stroncata dall’autista del pulmino che la portava a casa dall’università. Aslan, 20 anni, studentessa di psicologia, aveva cercato di resistere all’uomo che voleva violentarla. Si era difesa con uno spray al peperoncino che teneva in borsetta come fanno migliaia di donne nel Paese guidato dai filoislamici dove le violenze di genere sono schizzate: +400% in 13 anni, da quando è al potere il partito islamico Akp di Erdogan, stima il quotidiano Taraf ; +40% di donne uccise nel 2014, per Aysenur Islam, unica ministra.
I dettagli dell’uccisione di Aslan sono raccapriccianti: le mani amputate, le pugnalate, il corpo dato alle fiamme, i suoi resti carbonizzati sulle sponde di un fiume con l’aiuto del padre e di un amico dello stupratore assassino, già arrestato.
Aslan è stata messa a tacere per sempre ma ora migliaia di donne dopo anni di silenzio hanno trovato la voce. La barbara fine della studentessa ha innescato una mobilitazione di massa. L’ondata di proteste e indignazione da Mersin, nel sudest del Paese, si è propagata a decine di città, Istanbul e Ankara comprese. Con decine di migliaia di donne vestite di nero in strada che fino a ieri scandivano slogan come: «Non camminerai più da sola», «Non stiamo piangendo, ci stiamo ribellando», «lo stupro è un crimine contro l’umanità». Si sono vestiti di nero anche studenti e studentesse a scuola e in università, donne e uomini al lavoro con il fiocco nero. La rabbia e lo sdegno sono corsi sui social. Sotto l’hashtag sendeanlat (raccontaci la tua storia) personalità e migliaia di donne comuni hanno condiviso storie personali di abusi.
Anche Erdogan è intervenuto: l’assassino «merita il massimo della pena», «seguirò il caso personalmente» ha twittato. E ieri ha promesso pene più severe. Il caso ricorda quanto accaduto in India dopo il brutale stupro di una studentessa di 23 anni su un bus di Delhi. Qui l’indignazione ha portato a un inasprimento delle pene, non sufficiente però per contrastare il fenomeno anche per la diffusa impunità e la radicata cultura patriarcale, che la Turchia conosce bene. Ancora martedì Erdogan ha dichiarato che «le donne si devono affidare agli uomini» facendo infuriare le attiviste, che già lo criticavano per il suo rifiuto dell’uguaglianza tra i generi.
Ma le turche non sono sole. Nuove proteste sono in programma nel fine settimana, con un raduno di uomini in minigonna a Istanbul. «D’ora in poi le donne non si dividono più tra turche e curde, tra musulmane e non — dice la scrittrice Elif Shafak — ma tra chi difende il silenzio e chi rifiuta di stare zitta».

Corriere 19.2.15
La Turchia nella Nato. Il peso della storia
risponde Sergio Romano


La Turchia è membro della Nato e mantiene sul proprio territorio la grande base aerea militare di Incirlik, determinante come base di partenza di missioni di pattugliamento, ma non solo, verso l’area instabile dei Paesi del Medio Oriente e del Golfo. Che cosa ha spinto la Turchia, Paese musulmano, ad aderire alla Nato? Da quale nemico temeva invasioni? Che ragioni sussistono oggi, aldilà di quelle economiche, per rimanere membro (anche se un poco recalcitrante) di tale alleanza? Da chi si deve difendere, per invocare, nel caso, la mutua assistenza?
Attilio Lucchini

Caro Lucchini,
D urante la Seconda guerra mondiale la Turchia fu neutrale. I suoi leader, eredi di Kemal Atatürk, non avevano dimenticato che la partecipazione alla Grande guerra con gli imperi centrali aveva bruscamente accelerato la disintegrazione dell’Impero ottomano. Volevano consolidare il nuovo Stato repubblicano, fondato da Kemal nel 1922, e preferirono non correre altri rischi. Ma esistevano ancora questioni aperte, soprattutto sulle frontiere caucasiche con l’Unione Sovietica. Qui vi erano almeno due distretti, Kars e Ardahan, che russi e ottomani si erano frequentemente contesi nel corso della storia. Erano stati conquistati dalla Russia zarista nel 1878 con il trattato di Santo Stefano, ma erano diventati nuovamente turchi con il trattato di Brest del marzo 1918, quando l’Impero ottomano era ancora per qualche mese nel campo dei vincitori.
Quasi quarant’anni dopo, terminata la Seconda guerra mondiale, Stalin non tardò a riaprire la questione. Voleva Kars e Ardahan, pretendeva che l’uso degli Stretti, regolato sino ad allora da un Trattato internazionale, venisse affidato a Russia e Turchia: un partenariato in cui la prima avrebbe certamente imposto la sua volontà alla seconda.
Erano gli anni in cui l’Urss sosteneva la causa dei partigiani comunisti nella guerra civile, scoppiata in Grecia dopo il ritiro delle forze d’occupazione tedesche. Le potenze occidentali temettero che Grecia e Turchia facessero parte di una stessa strategia sovietica nel Mediterraneo. La risposta di Washington fu la Dottrina Truman, una dichiarazione politica con cui il presidente degli Stati Uniti annunciò un programma di assistenza a entrambi i Paesi. Cinque anni dopo, il 18 febbraio 1952, Grecia e Turchia sarebbero divenute, contemporaneamente, membri della Nato. Nel frattempo la Turchia aveva già combattuto in Corea accanto agli americani e aveva dimostrato di essere sempre, come all’epoca dell’Impero ottomano, una rispettabile potenza militare. Il fatto che il Paese fosse musulmano, caro Lucchini, non aveva allora alcuna importanza. Le ricordo che il prolungamento della Nato in Medio Oriente fu il patto di Bagdad firmato nell’agosto del 1958 da Iraq, Iran, Pakistan, Regno Unito e Turchia: tutti fuorché la Gran Bretagna, musulmani.
Da allora molto è cambiato. L’Unione Sovietica è scomparsa, anche se Vladimir Putin cerca di ricostituire in altre forme uno spazio russo-sovietico. I rapporti del presidente turco con il presidente russo sono buoni. La Nato si è allargata sino a comprendere molti altri soci e non sono rare le occasioni in cui gli interessi della Turchia non sono quelli degli Stati Uniti. Ma la denuncia di un Trattato è spesso percepita come un atto ostile. Agli americani conviene avere una base in Turchia, alla Turchia conviene evitare la crisi di un rapporto con gli Stati Uniti che potrebbe rivelarsi utile.

Repubblica 19.2.15
Se l’elefante supera il dragone
L’economia mondiale scopre nell’India la sua nuova locomotiva: nel 2016 il ritmo di crescita del Pil sarà superiore a quello cinese
Un sorpasso storico che segna anche un cambiamento nello scacchiere internazionale
di Federico Rampini


NEW YORK LA luna di miele tra Barack Obama e Narendra Modi sancita dal recente viaggio in India turba i liberal americani. Che ci fa il presidente democratico a braccetto con un leader conservatore e nazionalista, che in passato fu addirittura “persona non grata” in questo Paese, bandito dal territorio Usa per il suo ruolo nelle violenze induiste contro la minoranza musulmana? Obama aveva appena lasciato New Delhi poche settimane fa, e già Modi si distingueva per un gesto illiberale, il visto negato a una militante di Greenpeace India che doveva andare a Londra. Ma la logica geostrategica di Obama è dettata dalla realpolitik. Con Cina e Russia ostili all’Occidente, e guidate da logiche espansioniste, resta una sola superpotenza per controbilanciarle in Asia. Scommettere sull’India, come sta facendo dal 2010 Obama, si sta rivelando una scelta vincente. E non solo per lui: l’intera economia globale scopre nell’elefante indiano una nuova locomotiva. Un’inchiesta del New York Times prevede che il 2016 sarà l’anno di un sorpasso storico: la velocità di crescita dell’economia indiana sarà superiore a quella cinese. L’elefante più veloce del dragone. Attenzione, il sorpasso riguarda le percentuali di aumento del Pil, non la dimensione assoluta. Per la stazza della sua economia la Cina resta al primo o secondo posto mondiale, alla pari con gli Stati Uniti; l’India è indietro, anche se ha già scavalcato la Germania e sta per superare il Giappone conquistandosi il terzo posto. Comunque se la previsione sugli aumenti annui del Pil si realizza, sarà una svolta, il passaggio del testimone fra le due nazioni più popolose del pianeta.
È dai tempi in cui Deng Xiaoping traghettò la Repubblica Popolare verso l’economia di mercato, o il “capital-comunismo”, che la Cina sembrava irraggiungibile nei suoi ritmi di sviluppo. Anche nelle fasi di maggior dinamismo indiano (il periodo tra il 2000 e il 2007), New Delhi arrancava dietro il dragone, afflitta da strozzature croniche come l’arretratezza delle infrastrutture, i blackout elettrici, la conflittualità sindacale, la burocrazia più corrotta e incompetente. Che cosa è cambiato? Innanzitutto c’è un sorpasso demografico, dalle conseguenze cruciali sul futuro. Nella popolazione (1,3 miliardi), l’India ha già raggiunto la Cina e presto l’avrà superata. Come hanno dimostrato gli studi di Thomas Piketty sul capitalismo nel XXI secolo e quelli di Larry Summers sulle “stagnazioni secolari”, una popolazione che cresce è storicamente la condizione necessaria per il dinamismo economico. Ancora più importante è la composizione della demografia: quanti giovani, quanti vecchi. L’India sorpassa la Cina in questa sfida della giovinezza: la popolazione indiana compresa nelle fasce di età fra i 15 e i 24 anni si avvicina al quarto di miliardo di persone, e continua a crescere. Al contrario, in Cina per effetto della politica del figlio unico la forza lavoro sta invecchiando rapidamente, le generazioni tra i 15 e 24 anni sono in netto declino. Una forza lavoro giovane da sola non basta, se non riceve la formazione adeguata, e se l’economia non crea posti di lavoro per tutti. Ma la giovinezza di un Paese è uno degli ingredienti di tutti i boom economici della storia.
L’India ha altri punti di forza. A volte, sono il rovescio della medaglia delle sue debolezze. Già nel corso della grande crisi del 2008-2009 l’economia di New Delhi diede prova di una notevole “resilienza”: dote che gli economisti definiscono come “resistenza e capacità di reagire ad uno shock esterno”. Non ci fu neppure una breve recessione in India; soffrì di più la Cina che ebbe un crollo dell’export. Paradosso: proprio perché l’India non ha sviluppato una forte tradizione di industria manifatturiera esportatrice, e ha un’economia più “introversa”, rivolta a soddisfare la domanda interna, questo la rende meno vulnerabile ai rovesci della congiuntura internazionale. Uno di questi rovesci, però, le sta facendo un gran bene: il contro- shock petrolifero ha ridotto di 50 miliardi di dollari annui la bolletta energetica del Paese, secondo le stime della banca centrale di New Delhi. Proprio ciò che impoverisce Vladimir Putin, rafforza Narendra Modi. Un altro fattore esterno che aiuta l’elefante indiano, è il persistente rallentamento della crescita cinese, unito all’escalation di misure protezioniste che sotto il presidente Xi Jinping stanno abbattendosi sulle multinazionali occidentali con sede a Pechino, Shanghai, Guangzhou. È ancora il New York Times a segnalare un caso emblematico: la General Motors ha spostato il suo quartier generale asiatico da Shanghai a Singapore, “zona neutra” a metà strada tra Cina e India, per dedicare più attenzione e più investimenti al mercato indiano. Dalla città di Pune (nello Stato del Maharashtra, 90 km da Mumbai) la General Motors ha iniziato a esportare un modello Chevrolet fino al Cile.
Le sfide che Modi deve affrontare restano tremende. Il nuovo premier conservatore propugna riforme di strutture che rendano l’India più efficiente, meno corrotta, liberando energie innovative dalla morsa di una burocrazia parassitaria. Ma è solo all’inizio del suo compito. E già l’elettorato che lo ha portato in trionfo dà segni di insofferenza: nelle recenti elezioni locali a Delhi ha stravinto un nuovo partito che fa della battaglia alla corruzione la sua bandiera. Per ora l’India continua a essere in fondo alla classifica dei Paesi “accoglienti” per gli investimenti esteri: 142esima su 189, secondo la Banca Mondiale.
Ciò non toglie che la “strategia indiana” di Obama sia razionale. Ha strappato l’India ad un’antica alleanza con Mosca, che durava dai tempi di Indira Gandhi. Con Modi l’India sta uscendo dalle ultime vestigia della neutralità, una tradizione che risaliva al movimento dei “non allineati”. L’intesa Washington-Delhi è un pilastro della nuova strategia di contenimento dell’espansionismo cinese in Asia. E Obama ha bisogno di conquistare Modi alla battaglia contro il cambiamento climatico (la cappa di smog su Delhi ormai è altrettanto mefitica di quella che opprime Pechino). La scommessa poggia su una “quinta colonna” all’interno degli Stati Uniti: la diaspora indiana, un’élite sempre più integrata nella società americana, in funzioni di leadership. Dal chief executive della Microsoft al procuratore generale di New York, gli indiani occupano posti-chiave nella classe dirigente americana. E quando Modi è stato qui a New York, hanno riempito il Madison Square Garden come per una pop star.

Repubblica 19.2.15
Ma Pechino rallenta per puntare sui consumi
di Giampaolo Visetti


PECHINO L’INDIA ha dunque superato anche ufficialmente la Cina ed è diventata la potenza economica con la crescita più rapida del mondo. Banca Mondiale, Fondo monetario internazionale e Goldman Sachs avevano ipotizzato il sorpasso entro un paio d’anni. Il ministero della Statistica indiana ha invece sorpreso economisti e mercati usando un nuovo sistema per misurare l’espansione del prodotto interno lordo. In base a questo, il Pil di New Delhi nell’ultimo trimestre del 2014 è cresciuto del 7,5%, addirittura dell’8,2% in quello precedente. I vecchi metodi avevano quantificato la crescita semestrale indiana attorno al 5,5%. I nuovi dati, sommati al rallentamento cinese, che nella seconda metà dello scorso anno ha fatto scendere il Pil di Pechino al più 7,3%, certificano così lo storico passaggio di consegne e il primo sorpasso economico subìto dalla Cina da oltre trent’anni. La velocità della crescita non corrisponde ovviamente alla dimensione economica. Esistono diverse economie che crescono a ritmi superiori anche rispetto a quella indiana, ma si tratta di nazioni in via di sviluppo. L’economia cinese resta quattro volte più grande di quella indiana e una crescita inferiore le garantisce comunque un’espansione maggiore. Se i rapporti economici tra New Delhi e Pechino resteranno quelli attuali, all’India serviranno altri trent’anni per colmare il gap sulla Cina, ammesso che riesca a risolvere i problemi infrastrutturali e quelli sociali legati alle caste. Il dato essenziale si nasconde però nella tendenza e nell’obbiettivo.
Per la prima volta l’economia indiana guadagna terreno rispetto a quella cinese, la prima accelera e la seconda frena, mentre New Delhi viaggia a una velocità superiore a quella di Pechino. È una trasformazione incerta ma evidente: lo sviluppo indiano difficilmente riuscirà a replicare il boom cinese, ma l’India si candida ad essere la Cina dei prossimi anni, alzando onde che mercati ed economie sviluppate faticheranno a reggere. L’obbiettivo di Pechino però non è più la velocità della crescita, ma la sua qualità e la sua sostenibilità. Quella cinese è oggi un’economia prossima alla maturità: la frenata del Pil non necessariamente annuncia una crisi classica. Lo scorso anno si è chiuso con la crescita più bassa dal 2001, fermo al più 7,3% e le previsioni per il 2015 oscillano tra il più 6,6 e il più 7%. In cinque anni la crescita si è dimezzata: si tratta però ancora del tasso assoluto più alto del G20, tale da consentire alla Cina di sorpassare gli Usa e di diventare in un biennio l’economia più forte del pianeta.
Il rallentamento, innescato dal calo di importazioni e consumi in Occidente, risponde così anche ad una scelta del partito-Stato, impegnato in un’epocale riforma strutturale del sistema economico. Il trentennio d’oro dell’export low cost e delle industrie pesanti si chiude e Pechino mira a inaugurare l’epoca dei servizi, dell’urbanizzazione di una classe media consumista da quasi un miliardo di persone, dell’eccellenza scientifica e delle piccole e medie imprese hi-tech. Il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang la definiscono l’era della «nuova normalità » cinese: una super-potenza più orientata al consumo interno e alla commercializzazione di brevetti, idee e prodotti tecnologici, e sempre meno fondata su campagne e distretti industriali. Il “sogno cinese” del Duemila è replicare il “sogno americano” del Novecento, trasformando Pechino e Shanghai in Washington e New York, e sostituendo l’Occidente con l’Oriente. Il prezzo da pagare, secondo gli economisti cinesi, sono una crescita più lenta e una cessione di competitività alle tigri emergenti dell’Asia: l’India prima di tutte, ma pure Indonesia, Malesia, Vietnam, Cambogia, Thailandia e il resto del Sudest. La leadership rossa ripete che la Cina, per dimensioni ed esposizione sull’estero, non può permettersi una crisi come quella del Giappone, o di Taiwan, costrette ad accumulare debito pur di non modificare lo stile di vita. Il modello sono Corea del Sud e Singapore, Paesi che nell’ultimo decennio sono riusciti ad accelerare e a consolidarsi proprio grazie alla crescita altrui.
Uno studio della Banca centrale di Pechino spiega che l’economia cinese può continuare ad espandersi solo a patto di «non svegliarsi sola». Se l’Occidente assorbe sempre meno e i consumatori interni riempiono quel vuoto più lentamente del previsto, «occorre un insieme di economie regionali dotate di uno sviluppo più rapido, capace di sostenere il peso cinese ». Questo significa che la Cina, decelerando, ha oggi interesse a favorire l’espansione dei giganti che la circondano, a partire dal mercato di New Delhi. La prima mossa è il taglio degli investimenti di Stato per infrastrutture, la seconda la lotta contro la deflazione, la terza la riduzione degli squilibri tra metropoli e aree rurali. Quella di Pechino, se pure sempre più orientata al mercato e al capitalismo, rimane un’economia socialista governata dal partito-Stato: gli obbiettivi di crescita devono risultare compatibili con la stabilità di un potere autoritario. «La sfida — hanno concluso in dicembre i leader rossi dopo tre giorni di conclave — è la gestione delle pressioni globali al ribasso, la ristrutturazione e la riqualificazione del modello economico nazionale in armonia con la crescita di altri mercati esteri». La Cina, oltre che su India e Sudest asiatico, punta su Africa, America Latina, Europa dell’Est e Balcani.
Il «sorpasso calcolato», nel giorno del capodanno lunare, viene così salutato come un «fattore positivo che certifica il successo di Pechino». New Delhi, per ora, anche se democratica e filo-Usa «non fa paura e allarga il mercato nazionale». La «nuova normalità» impone di spostare i riflettori sui successi altrui: ammesso che l’invecchiamento-incubo non costringa presto anche la Cina, come il Giappone, a somigliare infine più all’Europa che agli Usa.

Repubblica 19.2.15
La democrazia in recessione
di Thomas L. Friedman


ORMAI ogni mese il governo turco ci delizia con un’uscita antisemita, neanche partecipasse a una gara di insulti. Non sapevate che gli ebrei in tutto il mondo si danno da fare per spodestare il presidente Recep Tayyip Erdogan? La settimana scorsa ci ha pensato il primo ministro Ahmet Davutoglu a dichiarare che la Turchia «non soccomberà alla lobby ebraica». Erdogan aveva già sostenuto che gli avversari interni del partito di governo, l’Akp, «cooperano con il Mossad», l’intelligence israeliana.
Le illazioni antisemite di Davutoglu e Erdogan, che ora le utilizza regolarmente per galvanizzare la sua base, sono basse, rozze e disgustose. Per la grande nazione turca però fanno parte di una più ampia tragedia. È davvero difficile continuare a sostenere che la Turchia di Erdogan sia una democrazia. Peggio ancora, bisogna dire che la deriva turca si inserisce in un più ampio trend globale: la democrazia oggi è in recessione. In un saggio dal titolo Facing Up to the Democratic Recession (“ Affrontare la recessione democratica”) pubblicato sull’ultimo numero del Journal of Democracy , Larry Diamond, esperto dell’Università di Stanford, afferma: «Attorno al 2006 l’espansione della libertà e della democrazia nel mondo ha subito una battuta d’arresto. Dal 2006 non si è registrata alcuna espansione nel dato numerico delle democrazie elettorali, oscillante tra 114 e 119 (corrispondente a circa il 60 per cento degli stati mondiali). Il numero delle democrazie sia elettorali che liberali ha iniziato a decrescere dopo il 2006 per poi bloccarsi. A partire dal 2006 anche il livello medio di libertà nel mondo ha subito un lieve deterioramento». Dal 2000 in poi, aggiunge Diamond, «in tutto il mondo sono 25 i sistemi democratici crollati, non solo a causa di colpi di stato ma anche per via del velato e crescente deterioramento dei diritti e delle prassi democratiche ».
La Russia di Vladimir Putin e la Turchia di Erdogan rappresentano l’esempio più eclatante di questa tendenza, assieme a Venezuela, Thailandia, Botswana, Bangladesh e Kenya. In Turchia, scrive Diamond, l’Akp ha esteso costantemente «un controllo fazioso su magistratura e burocrazia, arrestando giornalisti, intimidendo i dissidenti in campo giornalistico e accademico, minacciando le imprese di ritorsioni in caso finanzino i partiti di opposizione, utilizzando arresti e processi per presunti complotti sovversivi. Tutto questo ha coinciso con un accentramento sempre più audace del potere nelle mani di Erdogan». Lo stato di diritto in Turchia è vittima di una grave erosione. Nel frattempo l’osservatorio della Freedom House ha rilevato che nel periodo 2006-2014, in molti paesi, il livello di libertà è diminuito più che aumentare. La tendenza è più pronunciata nell’Africa sub-sahariana, incluso il Sudafrica, dove ormai la trasparenza diminuisce, la legalità si sfalda e la corruzione cresce.
Qual è il motivo di questa involuzione? Diamond lo identifica nel fatto che gli autocrati di oggi imparano in fretta. Hanno creato e condiviso «nuove tecnologie di censura e strategie giuridiche per inibire l’azione della società civile e impedire che questa riceva sostegno internazionale». Negli anni Novanta e Duemila, con l’ascesa della democrazia post Guerra Fredda, le antiche prassi di corruzione e abusi vari erano state messe in sordina. «Ma oggi gli autocrati corrotti hanno la sensazione che le acque si siano calmate e di poter governare come vogliono, con indecente avidità». Inoltre la Cina, che non ha standard democratici da rispettare, fornisce aiuti a gran parte dell’Africa, rimpiazzando gli Stati Uniti in questo ruolo, mentre la Russia si è fatta più aggressiva nel minare praticamente qualsiasi tendenza democratica ai suoi confini. Infine, dopo l’Undici settembre, la nostra priorità in politica estera è diventata la “guerra al terrorismo”, soppiantando la promozione della democrazia, quindi ogni autocrate che ha catturato dei terroristi ha ricevuto virtualmente un lasciapassare dall’America.
Però, aggiunge Diamond, «forse l’aspetto più preoccupante della recessione democratica sta nel declino dell’efficienza, dell’energia e della fiducia a sostegno della democrazia » in America e in generale in Occidente. Dopo anni di stallo e corruzione, la prima democrazia del mondo è sempre più anomala, con il governo che rischia lo shutdown perché non è in grado di approvare un semplice bilancio. «Il mondo prende nota di tutto questo», dice Diamond, «i media dei Paesi autoritari pubblicizzano beatamente il calvario della democrazia americana per screditare la democrazia in generale». Ma Diamond esorta i democratici ad aver fede. La democrazia, come osservava Churchill, resta la peggiore forma di governo — eccezion fatta per tutte le altre. E ancora accende l’immaginazione delle persone come nessun altro sistema. Ma sarà così solo se le grandi democrazie offriranno un modello degno di essere seguito. © 2-015 New York Times Traduzione di Emilia Benghi

Corriere 19.2.15
Iwo Jima, l’isola insanguinata
70 anni fa l’ecatombe nel Pacifico
Durante la Seconda Guerra Mondiale lo sbarco americano sulla striscia di terra controllata dai giapponesi: fu la battaglia più sanguinosa
di Paolo Rastelli

qui

Repubblica 19.2.15
Basilica di Assisi
I lavori condotti sui capolavori trecenteschi rischiano di alterare gravemente i colori dell’originale
Allarme Giotto “Quel restauro è una minaccia per gli affreschi”
di Tomaso Montanari


GIOTTO , Simone Martini, Pietro Lorenzetti: gli affreschi trecenteschi della Basilica di San Francesco ad Assisi, forse i testi più sacri della storia dell’arte italiana, sono in pericolo. A minacciarli non è un terremoto o una guerra, ma — come avviene sempre più spesso — un restauro troppo sicuro di sé.
La Direzione Generale per le Belle Arti del Ministero per i Beni Culturali — ora guidata dall’architetto Francesco Scoppola, già direttore proprio dell’Umbria — è «allarmatissima», ed ha disposto un sopralluogo i cui esiti non sono stati affatto rassicuranti. L’attenzione si è concentrata sulla manutenzione degli affreschi di Lorenzetti, attualmente in corso nel transetto sinistro della Basilica inferiore, e sulla pulitura del paramento di pietra del Subasio. Le parti di quest’ultimo già restituite alla vista sono scioccanti: un effetto “pizzeria” che contrasta violentemente con le zone sulle quali non si è ancora intervenuti. Ma a preoccupare è soprattutto ciò che si vede dall’altra parte del transetto, e nella cappella di San Nicola. Qui il restauro si è già concluso, ed è possibile valutarne gli effetti. Che — per chiunque conoscesse bene questi affreschi — sono impressionanti: non siamo più di fronte alle stesse opere. Qui è attiva la bottega di Giotto, intorno al 1315: e almeno nella Crocifissione è possibile ravvisare un suo stesso intervento. Ebbene, proprio il celebre gruppo della Madonna che sviene ai piedi della Croce ha ora una scalatura cromatica e un chiaroscuro completamente diversi da quelli noti. Accanto, le sublimi mezze figure di Santi affrescate poco dopo (1317-19) da Simone Martini sono ancor più cambiate: appiattite, e prive di alcuni dettagli della decorazione. E la Madonna al centro del trittico nella Cappella di San Nicola ha completamente (e irreversibilmente) perso il suo manto.
Cos’è dunque successo? Il restauratore — Sergio Fusetti, che tutti ricordano nelle drammatiche immagini del 1997, quando si salvò per miracolo dal crollo della vela di Cimabue nella Basilica superiore — è un professionista preparato e stimato. Tuttavia, questi restauri sono stati circondati da una singolare aura mediatica. Nel luglio del 2012 fece scalpore l’invito a Patti Smith a “restaurare” una minuscola porzione degli affreschi giotteschi: cosa che la cantante prontamente fece, a favore di fotocamere. E poco dopo si sostenne di aver trovato nientemeno che la “firma” «GB»: cioè «Giotto Bondone », come fossero le iniziali su una camicia.
Bruno Zanardi — che ha restaurato, tra l’altro, gli affreschi della Basilica Superiore, e ora insegna Storia del restauro all’Università di Urbino — appare turbato: «Avevo visto il cantiere nel 2011, e l’impressione era stata d’un buon lavoro, eseguito da un restauratore che sapevo bravo e esperto. Invece quando sono tornato un paio di mesi fa in Basilica con i miei allievi ho avuto una sensazione molto diversa. Ho visto un diverso e innaturale emergere dei chiari di visi, manti, fasce decorative, unito a un forte compattamento dei cieli. Quasi l’intervento fosse stato un restauro, quindi una pulitura, un lavaggio, seguito da una reintegrazione con acquarelli. Non una semplice manutenzione, cioè una spolveratura con pennelli di martora. Ricordavo gli incarnati dei santi angioini affrescati da Simone Martini, come fusi nel vetro per la meravigliosa assenza di ogni sforzo tecnico nella loro esecuzione. Mentre oggi sono “solo rosa”».
I dubbi sugli esiti del restauro si sommano a quelli sul modo in cui esso è stato gestito. Si può dire che nella Basilica di Assisi sia stato tenuto a battesimo il moderno restauro italiano: qui iniziò ad operare, nel 1942, il neonato Istituto Centrale del Restauro, che vi ha poi lavorato fino al 2006. Negli ultimi anni, invece, il legame tra Basilica e Istituto si è spezzato, anche a causa del definanziamento col quale gli ultimi ministri per i Beni culturali hanno progressivamente ucciso questa istituzione cruciale per la sopravvivenza del nostro patrimonio artistico. Una delle conseguenze è che i Frati hanno deciso di “fare da soli”, passando da uno dei collegi di ricercatori e restauratori più affidabili al mondo, alla ditta privata di un singolo restauratore. La direzione è stata assunta direttamente dal soprintendente dell’Umbria (che per un periodo sosteneva anche un interim in Calabria!), senza creare un comitato scientifico terzo rispetto a chi conduceva il restauro: un passo doveroso, nel caso di opere tanto importanti (recentemente lo ha fatto, per esempio, l’ambasciatore francese in Italia, prima di far toccare la Galleria di Annibale Carracci in Palazzo Farnese).
Perché questo è il punto: il restauratore può benissimo sostenere di aver eliminato ridipinture, o reintegrazioni più tarde. Ma questa discussione andava fatta prima, e non dopo. Quel che non doveva succedere è che il restauratore fosse solo a decidere se, e quanto, intervenire: perché indietro non si torna, e quegli affreschi sono un inestimabile bene comune.
Prima che i ponteggi passino alle Vele di Giotto, alla cappella di San Martino e poi magari alla Basilica Superiore e alle grandi storie di Francesco con le quali Giotto fondò l’arte italiana, è forse il caso che il lavoro si fermi, che il Mibact intervenga, che si apra una vera discussione.

Repubblica 19.2.15
Dna decifrata
La sinfonia della vita così è la mappa dell’attività dei geni
Pubblicate su Nature le ricerche su 127 tessuti del corpo umano. Aiuteranno a curare il cancro e l’Alzheimer
di Elena Dusi


UN CONTO è conoscere le note, un conto saper suonare Beethoven. Se nel 2001 l’uomo esultò per aver letto il proprio Dna (per aver cioè scoperto l’elenco delle note che compongono il suo organismo), oggi è la ben più complessa sinfonia della vita a emergere dal lavoro degli scienziati. Il risultato approda dopo sette anni di esperimenti in 24 studi pubblicati su Nature . A prendere forma in questo mastodontico lavoro è la più completa mappa dell’epigenoma mai tracciata dalla nostra specie per conoscere se stessa.
Soprannominato anche “il secondo codice genetico”, l’epigenoma è l’insieme degli interruttori che accendono o spengono i singoli geni. Mentre il Dna di ciascuno di noi contiene circa 25mila geni, resta fisso per tutta la vita e non muta se guardiamo alle cellule del cervello, del cuore o della pelle, l’epigenoma è la parte variabile, fluttuante del nostro organismo. Gli interruttori che accendono o spengono ogni singolo gene di ogni singola cellula trasformano un semplice elenco di note in una sinfonia unica e irripetibile. Se calcoliamo che ognuno dei 25mila geni può essere attivato da un numero di interruttori variabile tra i 20 e i 40mila, ecco che emerge tutta la complessità della mappa tracciata su Nature in 127 tessuti diversi del corpo umano.
Dall’insieme degli interruttori dell’epigenoma dipende se una cellula del cervello è diversa da una cellula del fegato (il loro Dna infatti è identico). E sempre sull’epigenoma agiscono fattori importanti per la salute come dieta, esercizio fisico o fumo. Gli stili di vita e l’ambiente in cui viviamo infatti non modificano direttamente il Dna: la loro influenza si fa sentire prima sull’epigenoma. «Il Dna è il nostro passato. L’epigenoma è il trionfo del nostro arbitrio. Sono le nostre scelte e l’effetto che ha l’ambiente in cui viviamo sulla nostra salute» spiega Pier Giuseppe Pelicci, direttore del dipartimento di Oncologia sperimentale dell’Istituto europeo di oncologia a Milano e il primo in Italia a legare l’epigenomica allo studio dei tumori. «Ogni cellula tumorale — spiega — si presenta sempre con un’alterazione del suo epigenoma. E alcuni farmaci riescono a curare il cancro proprio riparando la struttura dell’epigenoma». L’epigenoma, interfaccia tra l’ambiente in cui viviamo e il Dna, promette di spiegare l’origine di molte malattie oltre al cancro: dal diabete all’Alzheimer, dall’asma alle allergie. Ma se chiara è l’importanza che gli interruttori del Dna hanno per la nostra salute, da vertigine è la complessità che gli scienziati dei National Institutes of Health americani, riuniti nel Roadmap Epigenomic Program, hanno dovuto affrontare (sia pure con un budget da 240 milioni di dollari). Tracciare la mappa dell’epigenoma di 127 diversi tessuti del corpo umano è stato, dal punto di vista tecnico, come sequenziare per 3mila volte il Dna di un singolo uomo.

Repubblica 19.2.15
La via per scoprire l’origine delle malattie
di Marco Cattaneo


IL CORPO umano è una macchina perfetta, o quasi. Basti pensare che ogni giorno produce 300 miliardi di nuove cellule, 200 milioni al minuto, di circa 200 tipi diversi. E ciascuna di queste cellule contiene il suo macchinario genetico, uguale per tutte. Ma i processi chimici che avvengono all’interno della cellula fanno sì che ciascuna di esse abbia un suo specifico profilo di espressione. In parole povere, ogni cellula interpreta a modo suo le istruzioni contenute nel Dna.
A volte però una mutazione può alterare il comportamento della cellula, come nel caso del cancro. Di solito il Dna ha meccanismi di riparazione efficaci, ma in qualche caso falliscono, ed è allora che insorge la malattia. Il monumentale lavoro del Roadmap Epigenomics Project ha prodotto una rappresentazione del modo in cui gli elementi epigenomici regolano l’espressione dei geni, un risultato che permetterà di estendere le nostre conoscenze della fisiologia umana e di studiare malattie la cui genesi non è dovuta a mutazioni nelle sequenze di uno o più specifici geni ma ai meccanismi che ne regolano l’espressione.
Grazie al sequenziamento del genoma umano, infatti, siamo riusciti a individuare le cause di alcune malattie quando le mutazioni che le provocano sono localizzate in un gene. Ma se la mutazione si trova in una regione che non codifica per una proteina, raramente gli approcci adottati finora hanno permesso di individuare le varianti epigenomiche associate a una malattia. I risultati pubblicati ora permettono di superare questo ostacolo. Il Roadmap Epigenomics Project è solo il primo passo verso un’enciclopedia completa dell’epigenoma umano. Ma la strada è quella giusta.