venerdì 20 febbraio 2015

Repubblica 20.2.15
Heidegger, lo sterminio e il destino
risponde Corrado Augias


Caro Augias, ancora qualche parola sull’appassionante caso Heidegger. Un criminale può essere un grande matematico, un grande musicista, un grande pittore eccetera. Mi chiedo però: può essere anche un grande filosofo? Fin dalle sue origini la filosofia è consistita nello sforzo di definire il mondo, gli uomini — e se stessa cioè il proprio oggetto, il proprio metodo. Ogni filosofo, si può dire, ha avuto una sua concezione della filosofia.
Heidegger non fa eccezione. Prendiamo atto che la sua concezione della filosofia contempla, senza orrore, l’ineluttabilità o persino la necessità di sterminare un intero popolo, perché giudicato un ostacolo alla (presunta) missione storica della Germania e, più in generale, dell’Occidente. Detto questo, sappiamo di che razza è il filosofo e di che razza è la sua filosofia. E ciascuno ne tragga le dovute conseguenze.
Giangaetano Bartolomei

Le recenti scoperte su Martin Heidegger hanno aperto gravi interrogativi; la studiosa Donatella Di Cesare, qui intervenuta alcuni giorni fa, li ha riassunti affermando che la filosofia dovrebbe — finalmente — interrogarsi a fondo sulle sue responsabilità verso lo Sterminio. Molto a lungo si è creduto che il grande filosofo avesse taciuto sugli scempi del nazismo. Il “Silenzio di Heidegger” era lo slogan consueto. Le ultime scoperte lo smentiscono, il filosofo non è venuto meno alle sue idee, anzi ha continuato a intervenire anche dopo aver saputo ciò che avveniva nei campi di sterminio. Apprendere questo direttamente dai suoi quaderni di appunti rappresenta uno choc. Mi scrive il signor Lucio Gentilini da Chioggia (valeria861951@libero.it): «I filosofi non vivono in una dimensione separata rispetto a quella del resto della società; il loro pensiero è un tutto unico. Da ciò consegue che o la filosofia di Heidegger fa tutt’uno col suo antisemitismo e col suo filonazismo o Heidegger era un dissociato mentale. Propendo per la prima ipotesi. Se prendiamo il suo pensiero più recente (la sua ontologia e la sua polemica furibonda contro la modernità), la sua adesione al nazismo diviene comprensibile. Mi consenta un giudizio personale: per me la filosofia di Heidegger dopo Essere e tempo non vale più niente». È possibile che l’antiumanismo di cui l’opera di Heidegger è intrisa abbia contribuito ad avvicinarlo ad un’ideologia come quella nazista. Il filosofo Jürgen Habermas attribuisce invece la sua sostanziale adesione (prossimità) al nazismo proprio alla sua «deresponsabilizzante svolta ( Kehre) verso l’Essere come Tempo e Storia». Precisa: «Egli distacca le sue azioni ed affermazioni da sé come persona empirica e le attribuisce ad un destino». Di fronte ad un destino diventa molto difficile sentirsi responsabili.

La Stampa 20.2.15
l’Istat conta i poveri: sono 10 milioni di famiglie
L’indice generale migliora, il Sud sprofonda: povertà al 25%
di Paolo Baroni


In Italia il 23,4% delle famiglie vive in condizioni di «disagio economico»: si tratta di un totale di 14,6 milioni di persone. Tantissimi. Ma questi dati, riferiti al 2013 e inseriti nel rapporto dell’Istat «Noi Italia» presentato ieri, che fornisce una fotografia come sempre in chiaro scuro del Paese, segnano un lieve miglioramento rispetto all’anno precedente quando toccavamo il 24,9%. Ma non c’è molto da rallegrarsi. Poco più di 10 milioni di famiglie, ovvero il 12,6% del totale, si trova infatti in condizioni di povertà relativa, mentre la povertà assoluta coinvolge il 7,9% delle famiglie per un totale di circa 6 milioni di individui. Il Mezzogiorno presenta una situazione «particolarmente svantaggiata, con in media oltre un quarto di famiglie povere» e livelli doppi rispetto alla media nazionale.
Sud sempre più lontano
Le situazioni più gravi si osservano tra le famiglie residenti in Calabria e Sicilia, dove un terzo delle famiglie è relativamente povero. All’opposto, nel resto del Paese si registrano incidenze di povertà relativa decisamente più contenute: la provincia autonoma di Bolzano si conferma per l’incidenza più bassa (3,7%, in calo rispetto al 2012), seguita da Emilia Romagna (4,5) e Toscana (4,8). A fronte di un reddito medio annuo che nel 2012 era pari a 29.426 euro (che corrispondono a 2.452 euro/mese) il nostro Paese è al decimo posto nella graduatoria europea della diseguaglianza dei redditi, al pari di Cipro, Estonia e Croazia, con ben il 62% delle famiglie che si colloca al di sotto di questa soglia. Anche in questa classifica il Sud sconta le maggiori sofferenze: in Sicilia il reddito medio è del 29% più basso della media nazionale a quota 17.690 euro e in questa regione addirittura il 50% delle famiglie si colloca al di sotto di questa soglia. All’opposto, la provincia di Bolzano presenta il più alto reddito familiare medio annuo (36.410 euro), seguita da Lombardia (34.097) e provincia di Trento (32.562).
Crescono le privazioni
In molte zone d’Italia la vita quotidiana si presenta particolarmente difficile: in Sicilia l’indice di deprivazione tocca il 50,25, in Puglia il 43, in Calabria e Campania il 38,8%. Nel Nord Ovest la media è invece pari al 15,4%, il Nord Est si ferma invece al 13,1% ed il centro al 17,3%. A fronte di una media nazionale del 23,4%, il 2,6% delle famiglie dichiara di non potersi permettere l’acquisto di una lavatrice, un tv color, un telefono o un’automobile, mentre arrivano al 50,4% quelle che non possono permettersi una settimana di vacanza. Circa il 19% delle famiglie dichiara di non riuscire a riscaldare adeguatamente l’abitazione e il 14,5 di non potersi permettere un pasto adeguato almeno ogni due giorni. Infine il 12 per cento è rimasto in arretrato con almeno un pagamento tra mutuo, affitto, bollette o debiti diversi e il 40,5% dichiara che non riuscirebbe ad affrontare una spesa imprevista.
Colpa dell’austerity
La Caritas punta il dito contro le politiche di austerity e spending review ed in un rapporto sui sette paesi più deboli dell’Unione europea (Italia, Portogallo, Spagna, Grecia, Irlanda, Romania e Cipro) denuncia che una persona su tre (31%) oggi è a rischio povertà, condizione che in Italia riguarda oltre una persona su quattro (28,4%). «Anche l’Italia è diventa più povera e meno giusta», commenta amaro il vicedirettore Paolo Beccegato. Ed è anche per questo che la Caritas negli ultimi 5 anni ha più che raddoppiato i suoi interventi anti-crisi.

Corriere 20.2.15
I dati del report «Noi Italia» dell’Istat
Giovani, solo la Grecia peggio di Italia
Una famiglia su 4 a rischio povertà
In Italia il 26% dei giovani tra i 15 e i 29 anni, ossia 2,4 milioni, sono «neet» ossia non sono più inseriti in un percorso scolastico, ma neppure in un’attività lavorativa

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Corriere 20.2.15
Ocse
Le previsioni e il conto salato delle incognite
di Antonella Baccaro


Si scrive 0,4%, si legge 0,6%. L’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ieri ha corretto se stessa in diretta, ritoccando al rialzo, in conferenza stampa, le stime di crescita per l’Italia messe nero su bianco nel rapporto presentato ieri a Roma: «Era prevista una crescita modesta, dello 0,4% sul 2015 —ha spiegato il segretario generale Angel Gurría — ma ora, tenuto conto delle riforme, delle circostanze generali e delle ultime informazioni crediamo che la crescita 2015 sarà dello 0,6%».
La revisione orale dell’Ocse segue del resto quella di Banca d’Italia (da 0,4% a 0,5%) e di Confindustria (che ha parlato di una «spinta» del 2,1% del Pil), tutte dettate dall’inconsueta congiunzione di diversi fattori positivi: i tassi di interesse più bassi, il deprezzamento del cambio, il minore costo del petrolio, assieme al quadro più vivace del commercio mondiale. A questo insieme di elementi l’Ocse aggiunge per l’Italia l’aver messo a punto un quadro di riforme «ambizioso», tra cui spicca il Jobs Act, la riforma del lavoro capace d’innescare una crescita del Pil pari al 6% nei prossimi dieci anni, con la creazione di 340 mila nuovi posti di lavoro nell’arco di cinque anni.
Si tratta di una promozione per l’Italia, ma forse i numeri di Gurría sono meno lusinghieri di quelli che si aspettava il presidente Matteo Renzi, che il premier il 30 gennaio twittava soddisfatto: «Centomila posti di lavoro in più in un mese. Bene. Ma siamo solo all’inizio». Insomma, se si sono creati centomila posti senza che il Jobs Act sia ancora in vigore, evidentemente l’esecutivo si aspetta che se ne realizzino molti di più di 340 mila nei prossimi cinque anni.
Ma come si fa a misurare l’impatto delle riforme? Ogni organismo internazionale ha sviluppato un metodo: dalla Banca mondiale al Fondo monetario. L’Ocse, ad esempio, applica il programma «Going for Growth» per promuovere la crescita e la convergenza tra le economie dei Paesi. Le cui performance vengono valutate in base a 50 indicatori quantitativi in diversi settori. Tali valutazioni producono cinque raccomandazioni per ogni Paese, ogni due anni, seguite dalla verifica circa l’applicazione delle stesse. Poi però ci sono le congiunture imprevedibili che possono fare la differenza. Come ha dimostrato la storia economica dell’ultimo decennio.

il Fatto 20.2.15
La ricerca Openpolis
Italia povera, ma Renzi non interviene


L’Italia è sempre più povera, ma il tema non è nell’agenda di Matteo Renzi. Anzi, da quando s’è insediato, L’inclusione sociale è spofondata da 31esimo al 44esimo posto nella classifica degli argomenti più rilevanti della legislatura. Lo si evince dalla ricerca di Actionaid, organizzazione internazionale che si occupa del contrasto alla povertà, in collaborazione con Openpolis e diffusa in occasione della Giornata mondiale per la giustizia sociale. Solo lo 0,8% degli atti parlamentari della legislatura attuale riguardano inclusione sociale e contrasto alla povertà assoluta. Secondo la ricerca, sui 35.128 atti presentati nel corso della legislatura corrente, che ha preso avvio nel marzo 2013, solo 286 si occupano di inclusione sociale. Anche i dati relativi ai disegni di legge non mostrano un scenario incoraggiante: solo il 6% tratta questo argomento, percentuale che scende al 2,8% se prendiamo in considerazione quelli approvati.
SECONDO ACTIONAID, a causa della crisi economica e sociale, “oggi in Italia quasi una persona su 10 vive in condizioni di povertà assoluta. Negli ultimi 7 anni il numero degli italiani in povertà assoluta è più che raddoppiato, passando dai 2,4 milioni del 2007 ai 6 milioni del 2013. Nonostante le cifre allarmanti, l’Italia è priva di una misura nazionale contro la povertà e su 28 Stati membri dell’Unione Europea, è l’unico Paese che insieme alla Grecia, non ha adottato qualche forma di reddito minimo garantito”.
“In Senato giacciono ben due proposte di legge abbinate per introdurre anche in Italia il reddito di cittadinanza. Una è firmata dal M5S”, ricordano i grillini. La ricerca arriva nel giorno in cui la Caritas annuncia che negli ultimi cinque anni i suoi interventi sono raddoppiati e l’Istat presenta i dati sull’Italia (relativi al 2013): il 23,4 per cento delle famiglie in Italia vive una condizione di “disagio economico”. Si tratta di un totale di 14,6 milioni di individui. E coloro che non cercano lavoro ma vorrebbero lavorare, i cosiddetti “scoraggiati”, sono pari a 3 milioni e 91 mila unità.

il Fatto 20.2.15
Falso in bilancio più dolce per compiacere l’industria
di Antonella Mascali


Ammissione, implicita, del ministro della Giustizia Andrea Orlando sul disaccordo in merito al falso in bilancio. Al ministero sono ancora in trattativa: “Stiamo cercando di costruirlo tenendo conto delle dimensioni delle aziende e di ciò che hanno commesso. Non è una concessione a compromessi e neanche una creazione di un’area di iniquità. Ma non possiamo assoggettare alla stessa normativa situazioni diverse, che rischierebbero di avere un aspetto criminogeno”. La dichiarazione del ministro è di quelle che vuole giustificare da un lato la presunta mancanza di soglie di impunità previste in un primo momento (presunte, perché non c’è un testo scritto) e dall’altro rassicurare chi teme un ritorno alla punizione degli evasori perché, sempre il testo ufficioso, dice che le piccole imprese con un fatturato inferiore ai 600 mila euro lordi all’anno rischiano da 1 a 3 anni, quindi prescrizione certa, e le altre, da 2 a 6 anni, se non quotate in Borsa, da 3 a 8, se quotate.
Orlando rassicurante forse si rivolgeva ai vertici di Confindustria. Ieri, con un’intervista al Corriere della Sera, la direttrice generale Marcella Panucci (nella foto) ha parlato di “sistema estremamente punitivo”. Si è pure lamentata della eventuale procedibilità d’ufficio e ha paventato, addirittura, lei, ex consigliera economica della ministra della Giustizia Paola Severino, un blocco degli investimenti dei paesi stranieri in Italia. Come se nel resto d’Europa ci fossero le soglie di impunità. Ma non è così. In Gran Bretagna si rischia fino a 7 anni di carcere; in Francia il falso in bilancio è punito fino a 5 anni e una multa fino a 375mila euro. Se il soggetto briga per nascondere le prove, la prescrizione scatta dal momento della scoperta del reato e non più dalla data del fatto; in Germania carcere fino a 3 anni in alternativa alla multa, secondo il principio della “fiducia collettiva nell’esattezza di specifiche, importanti, dichiarazioni”. Ma per Panucci un buon sistema è quello delle “soglie percentuali” di impunità.

il Fatto 20.2.15
Dal pretendente dell’Unità ai Leone
Nella lista Falciani anche il costruttore Massimo Pessina
di Carlo Di Foggia


La lista Falciani non smette di regalare sorprese, e nomi, a partire dallo stilista Renato Balestra, per finire all'ex ad di Fiat auto Giancarlo Boschetti e agli eredi di Sergio Leone. In mezzo decine di imprenditori, broker e azionisti di importanti imprese. La seconda tranche degli illustri correntisti italiani della banca Hsbc è stata ricostruita grazie alle carte dell'Internation International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) rivelate ieri dall'Espresso. Solita premessa: la presenza tra i 7.499 connazionali dell'elenco sottratto dal perito informatico Hervè Falciani non basta per essere qualificati come evasori fiscali, è sufficiente, infatti, dichiarare i conti al Fisco italiano. Fiduciarie anonime in paradisi fiscali e prestanome, però, abbondano. È il caso, per dire, della Famiglia Agrati, proprietaria dell'omonimo gruppo di Monza che produce bulloni (300 milioni di fatturato): il conto (6,8 milioni di dollari) è associato all'ad Cesare Annibale Agrati, ma altri depositi sono intestati all'Agrati Internationa dell’ isola di Madeira, noto paradiso fiscale. Lo stesso fiduciario della Agrati si occupava anche della Almeo di San Giuliano Milanese (8,7 milioni): “Nessuna irregolarità è emersa dalle verifiche”, ha fatto sapere l'azienda.
NESSUN commento invece da Renato Balestra (conto da 1,5 milioni) e dalla stilista Carla Sozzani (1,1 milioni), signora della moda milanese insieme alla sorella Franca, direttrice di Vogue Italia. Stesso discorso per il costruttore Massimo Pessina, candidatosi a rilevare L'Unità, il quotidiano del Pd ora in liquidazione: il conto è stato chiuso nel 2003, quando ammontava a 9 mila dollari. Nel 2008 Pessina venne indicato anche nella lista dei correnti italiani in Liechtenstein, e, nel 2010, della Smi bank di San Marino. Boschetti, invece, in Fiat fino al 2003 come responsabile del settore auto ha spiegato di aver chiuso il conto nel 2010 aderendo allo scudo fiscale voluto nel 2009 da Giulio Tremonti: nel 2003 aveva 182 mila dollari. Ha scudato i soldi (275 mila dollari) anche Franco Balsamo, direttore finanziario di Acea, la Multiutility del comune di Roma. Non è chiaro, invece, se abbiano usufruito dello scudo anche gli eredi della ricchissima dinastia Manuli (Antonello, Elisabetta, Alessandra), patron della Manuli Rubber Industries, multinazionale dei tubi in gomma, proprietari, tra le altre cose, di Ticketone e delle terme di Saturnia: “Tutte le posizioni sono in regola”, ha spiegato una nota della famiglia (17 milioni, il conto). Trai nomi, anche quello di Andrea Leone, figlio del regista Sergio, scomparso nel 1989: insieme alle sorelle Francesca e Raffaella e alla madre Carla Ranalli ha un deposito di 2,5 milioni: è parte dell'eredità paterna, ha spiegato. Ma la lista è lunga e contiene decine di nomi di piccoli e medi imprenditori, broker come Giovanni Curioni (“è vero ma la mia posizione è stata regolarizzata) o manager come Alessandro Gumier (2,7 milioni), un passato in Unicredit e ora alto dirigente di Bank of America in Italia. Chi invece ha chiuso il conto, nel 2007, è Maria Concetta Patti. La famiglia Patti controllava la Valtur, big del settore turistico ora in amministrazione straordinaria. Il padre di Maria Concetta, Carmelo è finito sotto indagine per presunti rapporti con il clan mafioso del boss Matteo Messina Denaro.

Corriere 20.2.15
I detenuti per reati economici? Solo 230
In Italia sono lo 0,6% del totale: un decimo della media europea
La Germania, invece, punisce i colletti bianchi più dei pusher
di Gian Antonio Stella


Trentacinque carcerati a uno: ecco lo «spread» che la Germania ci infligge sul rispetto delle regole della sana economia. I «colletti bianchi» che violano le leggi fiscali o finanziarie, a Berlino e dintorni, sono sbattuti in galera con una durezza da noi impensabile: 7.986 detenuti loro, solo 230 noi. Fermi a un decimo della percentuale europea. E torna la domanda: è un caso se gli stranieri preferiscono investire altrove?
I dati che ci inchiodano come un Paese eccessivamente permissivo nei confronti dei corsari dell’aggiotaggio, della truffa fiscale, delle insider trading, della bancarotta fraudolenta e di tutti gli altri reati legati alla criminalità finanziaria ed economica sono contenuti nel rapporto 2014 del Consiglio d’Europa, appena pubblicato, sulla popolazione carceraria nel nostro continente e in alcuni Paesi dell’area come l’Azerbaijan o l’Armenia. Rapporto curato da Marcelo F. Aebi e Natalia Delgrande, dell’Università di Losanna.
C’è di tutto, nel dossier. Sappiamo che i detenuti di tutte le prigioni europee messi insieme sono 1.679.217, pari a una media di 140 ogni centomila abitanti, che le celle sono per quasi la metà sovraffollate, che gli stranieri sono mediamente uno su quattro e arrivano in Svizzera al 74% della popolazione carceraria, che la loro età media è di 35 anni, che tutto compreso (dal cibo alla manutenzione dei penitenziari allo stipendio degli agenti di custodia) costano 97 euro al giorno pro capite, che ogni anno si uccidono in 5 ogni 10.000…
I dati più interessanti, però, sono quelli sul tipo di detenuti. Perché è lì che emerge nettamente la scelta delle priorità che ogni Paese assegna alle diverse emergenze. Puoi scoprire così che in Italia (ultimi dati disponibili: 2013) su 39.571 condannati con sentenza definitiva il 16,3% era dentro per omicidio o tentato omicidio, il 5,1% per stupro, il 14,7% per rapina, il 5,2% per furti più o meno aggravati e addirittura il 37,9%, cioè la maggioranza relativa, per reati legati alla droga. Una percentuale immensa rispetto ai «colletti bianchi». Basti dire che, in numeri assoluti, gli spacciatori in cella sono 14.994 contro 230 condannati per reati economici e finanziari.
Ora, è ovvio che l’eroina, la cocaina e le altre droghe sono un problema. Ma è un’emergenza che vale per tutta l’Europa. Ed è impressionante, invece, lo squilibrio tra i diversi Paesi. Se da noi è in carcere un «colletto bianco» ogni 65 spacciatori, in Irlanda ce n’è uno ogni 23, in Spagna uno ogni 9, in Inghilterra uno ogni 7, in Danimarca uno ogni 6, in Olanda e in Svezia uno ogni 4, in Finlandia, in Croazia e in Francia uno ogni due.
Per non dire di Paesi come la Germania dove i delinquenti in giacca e cravatta condannati per avere maneggiato il denaro sporco della mala-economia sono perfino più dei pusher: 7.986 contro 7.555. Il che significa una cosa sola. Che un Paese serio, se vuole tenere in ordine la propria economia, la propria libertà di concorrenza, le proprie regole commerciali in modo che chi investe si senta davvero tutelato non ha alternative: deve colpire gli spacciatori di mala-economia con la stessa fermezza con cui colpisce gli spacciatori di coca.
Ma è così, da noi? Dicono le cronache che la settimana scorsa un giovane straniero è stato condannato a 5 anni per un grammo di droga. Sarà stato recidivo, ma è impossibile non notare la sproporzione con sentenze di condanna in Cassazione emesse per grandi finanzieri e banchieri dei quali non ricordiamo un solo giorno di carcere. Per non dire della fine di altre vertenze.
Prendiamo un’ Ansa di pochi giorni fa: «L’azione di responsabilità contro gli ex amministratori di Seat Pagine Gialle non ci sarà più. L’assemblea degli azionisti, riunita a Torino, ha accettato a maggioranza la proposta degli ex manager: 30 milioni di euro per chiudere con il passato e voltare pagina. Una cifra molto distante dai 2,4 miliardi ipotizzati dall’azione di responsabilità nei confronti di alcuni amministratori della società, tra i quali l’ex ad Luca Majocchi e l’ex presidente Enrico Giliberti, deliberata dall’assemblea a marzo 2014, ma il segnale della volontà di chiudere definitivamente una pagina buia. Venti milioni saranno pagati da due compagnie di assicurazione, gli altri 10 dai fondi che erano azionisti di riferimento della società dal 2003 al 2012. L’accordo chiude ogni possibilità di rivalsa da parte della società nei confronti degli ex amministratori…». Per carità: tutto certamente in ordine. Ma una transazione da 2,4 miliardi a 30 milioni di euro di cui 20 coperti dall’assicurazione…
Fatto sta che con la sua miserabile quota dello 0,6% di detenuti per reati economici e finanziari anche nell’anno di Mario Monti ed Enrico Letta, a dispetto di tutti i proclami loro e dei governi precedenti, l’Italia sta in coda. Con un decimo della media europea, salita al 5,9%. Un decimo!
La verità, dimostra una mappatura delle riforme dal 2000 a oggi condotta da Grazia Mannozzi dell’ateneo dell’Insubria, è che gli inasprimenti dichiarati sono stati tanti ma «curiosamente a queste dinamiche di inasprimenti sanzionatori su singole fattispecie o su gruppi di illeciti si sottraggono solo i reati economici».
Mettetevi ora nei panni di un investitore straniero: vi incoraggerebbero a venire qui numeri e fatti come quelli ricordati e la prospettiva che se un socio vi tirasse un bidone non avreste manco la soddisfazione, magari dopo anni e anni, di vederlo finire in galera? Il World investment report 2014 ricorda che l’Italia, per capacità di attrazione di investimenti diretti esteri, è oggi dietro l’Olanda, il Cile, l’Indonesia o la Colombia dopo aver perso negli anni della crisi, dice il Censis, il 58% del precedente bottino… E l’ultima tabella elaborata dalla Cgia di Mestre su dati Ocse vede il nostro Paese contare sui flussi di investimento stranieri per lo 0,8% del Pil. Un dato che corrisponde a poco più della metà (1,4%) della media Ocse ed è lontano da quelli di Ungheria, Repubblica Ceca, Messico, Austria, Spagna, Paesi Bassi…
Arriveremo un giorno o l’altro a prendere atto, finalmente, che la guerra alla cattiva economia, alla finanza di rapina, all’evasione, alla corruzione, non è solo un dovere morale ma anche un’opportunità di sviluppo economico e civile? Se poi si cominciano a vedere i segnali della ripresa…

il Fatto 20.2.15
La Carta
Non una riforma ma una revisione. Il colpetto di stato incostituzionale
di Maurizio Viroli


Finalmente leggo di un costituzionalista, giudice costituzionale emerito, Paolo Maddalena, che concorre con l’opinione che sostengo ormai da tempo (forse altri hanno espresso il medesimo concetto, mi scuso della mancata citazione dovuta alla mia ignoranza): quella che Renzi e sodali stanno completando non è una revisione costituzionale, è una riforma della Costituzione che né questo, né nessun Parlamento hanno il potere legittimo di realizzare. Stiamo assistendo a un abuso di potere da parte del governo e della maggioranza parlamentare. Scrive Paolo Maddalena (Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio, 2015: “Bisognerebbe infatti distinguere tra il ‘potere di revisione’ della Costituzione e il ‘potere costituente’. Oggi non siamo in presenza di una semplice revisione, ma vengono intaccati i principi costituzionali con un potere costituente che in realtà non si ha. Ci sarebbe quindi tutta la possibilità di impugnare e prendere posizione contro una riforma tutta sbagliata. La Corte costituzionale ha il potere di abrogare leggi costituzionali se queste sono andate oltre il potere di revisione e hanno invaso il potere costituente”.
LA DIFFERENZA fra revisione costituzionale e riforma costituzionale è facile da intendere. Per revisione si intende la modifica di uno o pochi articoli sotto il medesimo titolo; per riforma si intende la modifica di molti articoli che cambiano la forma dello Stato. Orbene, un proposta come quella che il Parlamento votato (con legge illegittima) si appresta a varare con votazioni notturne è riforma e non revisione. Poiché la Costituzione, articolo 138 descrive la procedura di revisione e non di riforma, quello che i renziani stanno facendo è atto incostituzionale gravissimo. Nessuno ha dato loro il potere di cambiare radicalmente la Costituzione. Un potere siffatto l’avrebbe soltanto un’assemblea Costituente, come quella del 1946. Chiamiamo le cose con il loro nome: è un colpo di stato attuato senza violenza grazie al potere della menzogna (e alla minaccia di mandare tutti a casa se non obbediscono al capo).
Se qualcuno ha ancora dubbi se l’articolo 138 possa essere applicato anche alla riforma della Costituzione, si legga il dibattito in Assemblea costituente e si accorgerà che mai si parla di riforma. Essendo, a differenza dei riformatori odierni, colti, i Costituenti sapevano usare le parole. Del resto, il 138 prevede il referendum, una procedura che per sua natura si applica a quesiti circoscritti (monarchia o Repubblica, divorzio sì divorzio no, ecc.) mentre non ha alcun senso quando i cittadini devono deliberare su una riforma complessiva, per l’ovvia ragione che potrebbero essere a favore di alcuni cambiamenti e contro altri. Cosa dovrebbero scrivere, in questo caso, sulla scheda, un trattato di diritto pubblico? Maddalena, se bene intendo il suo pensiero, pare confidare nel capo dello Stato e nella Corte costituzionale.
Il capo dello Stato, quando riceverà la riforma dovrebbe rifiutarsi di firmarla. La Corte costituzionale dovrebbe abrogarla senza alcuna esitazione.
NON SI VERIFICHERÀ né l’una né l’altra ipotesi. Resta il referendum per il quale conviene cominciare a organizzarci fin d’ora, anche contro i partiti politici, come del resto abbiamo fatto nel 2006.
Se poi la riforma passerà, e avremo un bel senato di nominati, prenderò in serio esame di rinunciare alla cittadinanza italiana. Non credo che riuscirei a sopportare la vergogna di essere cittadino di una Repubblica che offende così apertamente la sua Costituzione.

il manifesto 20.2.15
Il populista istituzionale
Analisi. Come il capo del governo gestisce il declino italiano e fa passare la cura da cavallo Ue senza Memorandum
di Marco Revelli

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il manifesto 20.2.15
Tutti gli inganni del nuovo che avanza

Linguaggi. Le parole chiave del renzismo sono innovazione e riforme. Ma con il riformismo storico non hanno nulla a che vedere, e spesso si risolvono nel suo contrario
di Carlo Donolo

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il Fatto 20.2.15
Pd, tessere finte e fazioni a Roma
Falso 1 iscritto su 5
di Wanda Marra


A Roma una tessera su cinque è falsa, il 20% dei circoli (circa 130) apriva solo in occasione dei congressi, tra le sezioni e le federazioni i debiti Dem ammontano a circa 2 milioni di euro. Matteo Orfini è commissario ormai da due mesi e mezzo (da quando il Pd romano è stato affondato da Mafia Capitale) e l’indagine su circa il 35% dei circoli evidenzia una realtà sconsolante. Tanto che Orfini ha deciso di nominare due sub commissari. Il primo l’ha chiamato lui direttamente ieri, per informarlo. È Stefano Esposito, senatore torinese, membro della Commissione Antimafia, da poco arruolatosi attivamente nel renzismo. Dovrà occuparsi di Ostia, territorio di forti infiltrazioni mafiose. Ci sarà presto un altro sub commissario per Tor Bella Monaca. Per adesso, Orfini e i suoi stanno controllando il tesseramento e stanno lavorando sui circoli. Ufficialmente, non si punta il dito su nessuno. Nei mesi scorsi, però, alcuni sono balzati ai disonori della cronaca: per accuse di tesseramenti gonfiati furono segnalati alla Commissione di Garanzia nel 2013, oltre a Tor Bella Monaca, Cassia/Tomba di Nerone, Casal Bertone. Anche a Testaccio ci fu un caso di tesseramento insolitamente alto, come a Corso Lanciani.
Che il Pd a Roma sia letteralmente a pezzi ormai non è un mistero per nessuno. Ma non gode di ottima salute neanche in giro per l’Italia: le primarie in Emilia Romagna sono passate alla storia per la bassissima partecipazione. Quelle liguri si sono concluse con l’addio al partito di Sergio Cofferati, dopo la vittoria della Paita. Per quelle campane i vertici del partito fanno una riunione al giorno. E spostano continuamente la data. Tanto per citare alcuni dei casi più eclatanti. Matteo Renzi, da segretario-premier, quella che lascia più indietro è proprio la gestione del partito. Una prova su tutte, le ormai famose cene di autofinanziamento del Pd: entrarono ospiti controllati e incontrollati (vedi Salvatore Buzzi) e un elenco dei partecipanti ancora non c’è.
SE SUL TERRITORIO la questione è delicata, in Parlamento non è molto più facile. L’elezione di Mattarella è stato un “capolavoro” politico, riconosciuto da oppositori e sostenitori. Ma l’effetto benefico è durato poco: le riforme costituzionali alla Camera il Pd se l’è votate da solo, con la minoranza fortemente critica nei confronti della maggioranza. E che annuncia battaglia sull’Italicum in arrivo. Non solo: il lavoro parlamentare si svolge tra fiducie, sedute fiume, nottate in Commissione. Con il gruppo dem che sbanda: le decisioni sono tutte a Palazzo Chigi e la gestione parlamentare è spesso e volentieri improvvisata. Situazione difficile, che molti soffrono. E allora, intorno al Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio sta nascendo quella che a Montecitorio già definiscono la più grande corrente del Pd. Una corrente di maggioranza, certo, ma che vede tra i promotori i renziani, non solo fedeli, ma pure autonomi. Ruolo di punta, quello di Matteo Richetti, deputato emiliano tra i primi a passare con il premier, poi più lontano, adesso di nuovo vicino. Nelle ultime settimane ha avuto spesso il compito di tenere insieme il gruppo alla Camera. Poi, c’è Angelo Rughetti, Sottosegretario alla Pa, un passato nell’Anci con Delrio. Ma c’è anche uno come Lorenzo Guerini, che da vice segretario sa come sia difficile gestire il Pd. “Prima del partito della nazione, facciamo la corrente della nazione”, era la battuta che circolava ieri in Transatlantico: e in effetti ad essere coinvolti sono molti vicini a Renzi, ma meno vicini al cosiddetto “Giglio magico”. Come Andrea Romano e Gennaro Migliore. Come i veltroniani (da Verini in giù) e i lettiani. Come Alfredo Bazoli, Alessia Morani, Simona Mal-pezzi, Roger De Menech. Il premier non sembra contrario. È stato lui a lasciar libero ciascuno di organizzarsi: evidentemente anche lui sa di aver bisogno di una mano. Più in difficoltà sono i “fiorentini”: Luca Lotti e Maria Elena Boschi, che in questo nuovo assetto rischiano di dover contare le rispettive truppe (tra loro vicine, ma non unite). Nel frattempo, Area Dem è sostanzialmente deflagrata, con alcuni pezzi grossi (come Ettore Rosato) ormai più vicini alla Boschi che a Franceschini e la minoranza è un insieme di correntine non omologabili. E poi ci sono i Giovani Turchi di Orfini. Azionisti di maggioranza, che più che altro cercano di conquistare posti di rilievo nelle realtà locali che contano. Come impatterà sul Pd la nuova corrente? Resta da vedere. Per ora il progetto è ambizioso e comprende anche la scelta di fare politica sul territorio: Richetti ha già in testa un tour per l’Italia. Oltre a giornate di lavoro per i parlamentari.

il Fatto 20.2.15
Dalla Bignardi, svampita per caso
Le nozze gay della devota Madia
di Andrea Scanzi


Daria Bignardi aveva promesso una serata imperdibile. Ha detto proprio così, due sere fa, prima che Le invasioni barbariche cominciasse: una puntata imperdibile, perché “ci sarà un’intervista a una persona che concede pochissimi faccia a faccia”. Wow. E chi sarà mai? Il Dalai Lama? Jeeg Robot d’acciaio? No, Marianna Madia. E in effetti, un po’ in tutta Italia, si avvertiva il bisogno di un faccia a faccia con il ministro Madia. Era davvero il sogno di tutti. Peccato solo che, a guardare gli ascolti (3.05%), l’evento fosse imperdibile per pochi. Ormai Le invasioni barbariche è visto solo da chi vive su Twitter: finisce sempre nei trending topics, poi però lo share mette tenerezza. Va però detto che l’intervista al ministro Madia era effettivamente rutilante. L’evento è stato inframmezzato da una prova attoriale di Beppe Severgnini, durante la quale i microfoni – gufi e disfattisti – hanno smesso di funzionare. La Madia, durante la conversazione, ha continuato a fingersi ingenua e svampita per suscitare simpatia. Certo, a volte negli anni ha esagerato, per esempio quando scambiò un ministero per un altro, ma la tecnica è redditizia: la sua scalata al potere si conferma inarrestabile. Aiuta, forse, anche quel suo stile vagamente vittoriano e antico, da comparsa de L’età dell’innocenza scartata al casting da Martin Scorsese. Ascoltiamola: “Non so quando, ma arriveremo al matrimonio tra persone dello stesso sesso” (intanto, per non ferire Alfano, i temi etici sono stati accantonati. Altrimenti il governo cade). “Sono cattolica praticante, amo la vita di Gesù” (buono a sapersi). “Di Battista? Caro amico no, ma abbiamo fatto i catechisti insieme a 20 anni in una parrocchia a Roma”. L’amicizia, però, è finita all’improvviso: “Poi lui se n’è andato nelle Ande” (e qui, in tutta onestà, non si riesce a criticare il deputato 5 Stelle per aver preferito le Ande alla Madia). La Bignardi ha incalzato – ci sia concesso l’eufemismo – il ministro sullo stringente tema Di Battista: “L’ho perso di vista, poi un giorno l’ho ritrovato eletto in Parlamento con i Cinque Stelle. Loro sono strani, non so se lo hai visto. È come se, per esempio, Di Battista reciti una parte”. Attenzione, però: i 5 Stelle sono “strani”, però in fondo sono normali anche loro: “Secondo me singolarmente sono più normali di come appaiono”. Capito? Se li incontri, e magari prima di incontrarli segui anche una profilassi malarica, i 5 Stelle sono “più normali di come appaiono”. Hanno due gambe, due braccia, due mani. Come la Madia. Davvero rivelazioni “imperdibili”. Come molte altre: “I miei funzionari ridono, ridono sempre” (come non capirli); “La pubblica amministrazione è la vita quotidiana di tutti i cittadini, migliorarla è un dovere” (parole forti); “Sono stata in discoteca solo una volta e ho avuto pure uno choc acustico” (questo, un po’, si intuiva). Infine: “La storia passava in quel momento e io ho scelto profondamente di farlo”. E qui, in lontananza, qualcuno ha come sentito le sirene dell’ambulanza avvicinarsi.

Corriere 20.2.15
Mogherini commissariata? Un caso in Europa
di Ivo Caizzi


Ha da poco superato i 100 giorni come Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dei 28 governi dell’Ue, che è contemporaneamente anche vicepresidente della Commissione europea. Ma l’ex ministro degli Esteri ed eurosocialista, Federica Mogherini, continua a dover confermare di avere assunto la pienezza dei suoi poteri davanti a continue indiscrezioni, analisi e interpretazioni su un suo depotenziamento o commissariamento di fatto. Ieri la sua precisazione scaturiva dalla decisione del presidente della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, di nominare come «consulente speciale» per la Difesa l’ex commissario Ue francese e suo compagno nell’europartito Ppe Michel Barnier.
«Resta ovviamente nelle mie mani tutto ciò che il Trattato dà alla mia funzione, ovvero la guida della politica estera, di sicurezza e di difesa dell’Ue», ha dichiarato Mogherini, precisando di aver concordato la nomina di Barnier «insieme al presidente Juncker».
Appena insediata, però, l’importante dialogo con l’Iran (con delicata trattativa sull’uso militare del nucleare) è stato delegato all’Alto rappresentante uscente, la britannica Catherine Ashton, che nel suo quinquennio a Bruxelles non aveva certo brillato.
Quando il negoziato sulla crisi in Ucraina tra l’Ue e Mosca ha prodotto un incontro decisivo con il presidente Vladimir Putin, sono scesi in campo direttamente la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande. Mogherini non è stata invitata. In quell’occasione, come con la nomina di Barnier, l’ex responsabile della Farnesina ha affermato di puntare principalmente al «gioco di squadra», più che a esporre e a valorizzare la sua immagine individuale. Ma nelle istituzione europee di Bruxelles, dove lo spirito comunitario è infranto da continue e dure lotte di potere, in genere questa sua linea non paga. E, se continua così, nelle partite più importanti Mogherini rischia di essere schierata in difesa. O in panchina.

La Stampa 20.2.15
Ora il vero incubo del Pd è l’ingorgo a Montecitorio
I renziani pensano a una miniriforma che freni l’ostruzionismo
di Carlo Bertini


La minaccia dell’ostruzionismo in salsa grillina pende come una spada di Damocle sulla valanga di decreti legge da varare di qui alle prossime settimane alla Camera. E il governo teme che nel mirino delle opposizioni finisca quello sulle banche popolari che incontra resistenze trasversali. «Bisogna serrare i ranghi, il rischio è che provino a far saltare qualcuno dei tanti decreti in scadenza che abbiamo. E se ci riescono sarebbe un bel problema», ammette uno dei big del Pd, Lorenzo Guerini. L’effetto collaterale delle barricate sollevate dalle opposizioni la scorsa settimana è una dilatazione dei tempi per il varo di alcune riforme chiave, come dimostra l’annuncio della Boschi che la legge elettorale sarà chiusa non a breve, ma entro l’estate.
L’ingorgo dei decreti è a Montecitorio, dove a differenza che in Senato, è possibile rallentare i lavori grazie al regolamento molto “lasco”, che non prevede tagliole o ghigliottine. E se il terremoto in Forza Italia non promette nulla di buono, tanto che la Boschi conferma la volontà di approvare le riforme «a maggioranza», tutti dal premier in giù, hanno ben presente i rischi che riserva il calendario di qui in avanti. Dopo la fiducia votata ieri sera, è già messo in conto l’ostruzionismo dei 5stelle sul voto finale del decreto milleproroghe alla Camera: tra ordini del giorno e dichiarazioni varie, si tirerà per le lunghe nel week end. Ma è prevista burrasca anche la prossima settimana: da mercoledì si passerà al voto in aula del decreto sull’Ilva, che scade il 6 marzo, approvato ieri con una risicata fiducia (solo 151 voti) al Senato: i renziani temono che i grillini proveranno a farlo saltare, «ma se resteranno magari isolati sulla tragedia dell’Ilva, certo non lo saranno sul decreto delle banche popolari»; che approderà in aula la settimana a seguire. E che sarà discusso per una scomoda concomitanza di tempi, proprio quando tra il 9 e il 10 marzo dovrebbe svolgersi il famigerato voto finale sulla riforma costituzionale. «Il decreto di Renzi sulle banche vuole distruggere una realtà italiana che ha sostenuto lo sviluppo industriale nel momento storico peggiore dal dopoguerra, bollandolo come un cattivo modo di fare banca», attaccano già i 5Stelle in commissione Finanze. E si capisce dunque la volontà del governo di lasciare spazio ad una limitata trattativa sul merito per smussare gli angoli di un provvedimento che incontra resistenze trasversali.
Ma la difficile gestione dell’aula in questo frangente accende agli animi sul nodo della riforma di un regolamento che tanto spazio concede alle pratiche ostruzionistiche. I renziani non ce la fanno più ad aspettare i tempi biblici di una riforma organica «che mai vedrà la luce» e sono determinati a tentare una strada mediana che sblocchi la situazione con una mini-rivoluzione: contingentare i tempi dei decreti legge e togliere la prassi di far votare gli ordini del giorno dopo la fiducia e prima del voto finale che fa perdere ore e ore e senza una ricaduta tangibile, visto che poi i governi disattendono sempre indicazioni e impegni d’ogni sorta.

il Fatto 20.2.15
La Rottamazione si è fermata a Reggio Calabria
L’ex ministro Lanzetta era il simbolo dell’Antimafia, ora il Pd locale l’attacca
“Stai zitta, sei una stalker”
di Enrico Fierro


Altro che rinnovamento, qui siamo in pieno clima di restaurazione.
Parla Maria Carmela Lanzetta, ex sindaca antimafia di Monasterace e ministro del governo Renzi per una breve stagione, e dice quella verità che tutti in Calabria sussurrano. Non siamo ancora al “ridatece il puzzone”, nel senso dell’ultimo governatore assurto a simbolo della malapolitica alla ‘nduja, Peppe Scopelliti, ma poco ci manca. Il sole dell’avvenire promesso da Mario Oliverio, l’ex comunista duro e puro vincitore col 61 per cento alle Regionali, non è mai spuntato. Dalla Sila all’Aspromonte, dalle Serre alle spiagge bianche di Africo, tutto è avvolto dal nero della notte degli inciuci, del trasformismo, degli accordicchi e degli “accurduni” fatti dai soliti, antichi e bipartisan gruppi di potere.
Rassegnata alla farmacia
La Lanzetta ha smesso il tailluer con stivali da ministro della Repubblica – che imbarazzò i duri e puri del nuovo look renziano – per indossare nuovamente il camice bianco da farmacista. Nella sua Monasterace ora è alle prese con antibiotici e lassativi, ma non dimentica. Renzi le aveva chiesto di tornare nella sua Calabria da assessore, lei aveva accettato, ma subito si era scontrata con “l’affaire De Gaetano”. Nel senso di Nino, ex rivoluzionario di Rifondazione comunista folgorato sulla via del Nazareno. Non candidato come consigliere regionale, Oliverio lo ha ripagato con una poltrona da assessore regionale ai trasporti e alle infrastrutture. Tutti antimafiosi nel Pd, pronti ad approvare codici etici e proclamare impegni solenni per la legalità. A parole, però. Perché la memoria è corta e tutti, Oliverio in testa, dimenticano quei passaggi di una inchiesta giudiziaria non a caso chiamata Il padrino. Non c’è Marlon Brando, assente pure Michael Corleone, ma gli affari e le relazioni della famiglia mafiosa dei Tegano, una delle più antiche e potenti di Reggio. Uomini di panza che muovono voti e distribuiscono santini elettorali. Quelli di De Gaetano furono trovati nel covo del boss Giovanni Tegano. Nessun reato, per carità, nessuna colpa, per l’amor di Dio, anzi, i magistrati all’epoca non tennero in alcun conto il suggerimento della Squadra Mobile di Reggio che proponeva l’arresto per De Gaetano. L’opportunità politica – necessaria nella Calabria dove nel consiglio regionale precedente furono ben tre i consiglieri arrestati – viene buttata nel cestino e De Gaetano diventa assessore. Con la Lanzetta che avrebbe dovuto affiancarlo. Tutti insieme, chi aveva i santini a casa del boss e chi dai boss era stata minacciata: la Calabria politica non finisce mai di stupire. Il resto della storia è nota, Maria Carmela Lanzetta, sostenuta dal braccio destro di Renzi, Graziano Delrio, sbatte la porta e non accetta. “Il caso De Gaetano – fanno sapere da Palazzo Chigi – non è sufficientemente chiarito”. Nel Pd calabrese semplicemente “se ne fottono”. Tacciono tutti, parla solo l’ex ministra. “Il silenzio del segretario regionale, sia sulle dimissioni del ministro Lanzetta, sia sulla nomina di De Gaetano, la dice lunga sul disagio di un partito in cui sembra che sia prevalsa la restaurazione”. Una lunga lettera nella quale viene reso esplicito “il disagio a parlare di regole e legalità come esponente del Pd”.
La Calabria è una repubblica democratica fondata sull’inciucio. Dovrebbe essere questo l’articolo 1 di un nuovo ipotetico statuto regionale. Ernesto Magorno, segretario del partito di strettissima fede renziana, è la fotografia vivente dell’inciucio come via calabrese alla rottamazione desiderata. C’è un video che lo immortala e che racconta più di mille analisi sociologiche la politica in queste latitudini. Anni passati, l’onorevole Magorno è sindaco di Diamante, il nuovo potere è targato centrodestra e Peppe Scopelliti, il governatore costretto alle dimissioni dopo una condanna a sei anni per i bilanci del Comune di Reggio, il padrone della Calabria. “Cambiare insieme”, è il tema di una iniziativa pubblica. Scopelliti ascolta, Magorno parla: “Non si preoccupi, la politica non può essere insulto, demagogia, la politica è una cosa alta. Vada avanti, presidente, lei avrà il consenso, l’affetto, il sostegno, anche di quelle parti che in questo momento guardano alla Calabria e vogliono che i calabresi diventino a pieno titolo cittadini italiani ed europei”. Applausi e commossa stretta di mano di Scopelliti.
All’assalto della cassa
Inciucio, differenze e contrapposizioni politiche annullate, anche nella gestione del pozzo senza fondo delle società partecipate e delle fondazioni. Una mammella gonfia che allatta clientele e politici trombati. La Corte dei Conti ha censito 12 enti strumentali, 5 fondazioni e 21 partecipate, costo per il contribuente calabrese 230 milioni l’anno. Nomi e obiettivi fantasiosi. Film Commission, affidata dal centrodestra a un fedelissimo, Ivano Nasso, uno che candidamente ammise di “non vedere film in tv, solo fiction”. In Calabria non si gira neppure uno spot, eppure la Film Commission nel 2013 ha speso 18mila euro in cococo e consulenze. Sempre meno dei 350 mila euro stanziati dalla Fondazione Mediterranea Terina (41 dipendenti) per un progetto di 18 mesi finalizzato a un “machting continuo” (“cu minchia è? ”, si chiedono da queste parti) “tra produttori calabresi e i principali attori del mercato cinese”. Il penultimo scandalo si chiama “Calabria etica”, la fondazione presieduta da Pasqualino Ruberto. Lui è del centrodestra e alla vigilia delle elezioni regionali fa assumere 700 persone, elettori grati e fedelissimi. Pasqualino, però, pensa anche alla famiglia, e trova un posto alla fidanzata. L’etica va a donne di facili costumi, la Calabria pure, e la magistratura apre fascicoli. E Ruberto? Sottolinea, smentisce, chiarisce e intanto si candida a sindaco di Lamezia. Parola d’ordine: la legalità prima di tutto. L’ultimo scandalo, ma solo al momento in cui scriviamo, è targato “Calabresi nel mondo”. Altra società della Regione. Solito festival delle buone intenzioni nello statuto (“crescita e competitività del sistema economico”), soliti soldi buttati al vento e una caterva di assunzioni. Bipartisan, però. Presidente dei calabresi sparsi sul globo, è Pino Galati, deputato di Forza Italia noto alle cronache mondane per il suo ex riportino ai capelli e per aver unito il nord e il sud dell’Italia con un matrimonio. Lui calabrese ha sposato la leghista bergamasca Carolina Lussana. È buono di cuore, l’onorevole presidente, e nel distribuire posti non ha guardato all’appartenenza politica: tra i cento assunti figurano un ex vicesindaco e un assessore in carica della giunta di centrosinistra di Lamezia, un rappresentante dell’Arci ed esponenti delle coop.
La legge elettorale scritta in calabro
Inciucio anche quando si tratta di riformare la legge elettorale. La questione è complessa e rasenta Bisanzio. In soldoni: prima dello scioglimento, il vecchio consiglio regionale approva la nuova legge. Tanti articoli e un giallo. Perché è solo dopo le elezioni del novembre scorso, che Wanda Ferro, candidata voluta da Berlusconi per arginare la disfatta, si accorge che, pur avendo perso col 23,1 per cento, per lei non c’è posto in Consiglio. Insomma, la legge non prevede l’elezione del miglior perdente come negli anni passati. Lei fa ricorso, Oliverio e la Regione oppongono controricorsi, mentre si affaccia un dubbio atroce: la legge mandata a Roma forse non è quella approvata alla Regione. “Ho il sospetto – dice l’ex consigliere regionale Giuseppe Caputo – che il testo sia stato modificato ad hoc da qualche manina esperta”. Lo sfogo della farmacista Lanzetta si apre con una frase di Pasolini: “La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza”. La “solitudine” in Calabria è una brutta bestia. Soprattutto quando ti batti per una politica pulita e hai il tuo partito contro. “La Lanzetta la smetta con lo stalking politico e umano nei confronti dell’assessore De Gaetano. Da lei non prendiamo lezioni di moralità”. Hanno scritto così i cinque segretari provinciali del Pd calabrese.

il Fatto 20.2.15
La scalata
“Unione insana”: scrittori contro Mondadori-Rcs libri
L’operazione che porterà il gruppo della famiglia Berlusconi al 40% del mercato piace a molti ma non al mondo della cultura
Adelphi (galassia Rizzoli) potrebbe sfilarsi
di Silvia Truzzi


L’imperativo categorico è vendere. Rcs procede a tappe forzate verso la cessione della divisione libri agli ex concorrenti di Segrate: il prossimo cda dovrebbe essere fissato per il 2 marzo (intanto la Borsa premia entrambi, ieri, con Rcs a +4% e Mondadori a +1,5%). Tra Segrate e Crescenzago ormai la strada pare sia spianatissima: l’amministratore delegato di Rcs Jovane e – è facile immaginare – anche Fiat, azionista di maggioranza, spingono per accelerare i tempi. L’operazione, che porterà il gruppo della famiglia Berlusconi ad accaparrarsi quasi il 40% del mercato trade, piace a molti dalle parti di via Rizzoli: alle banche che vogliono recuperare un po’ del capitale profuso, al presidente di Rcs Angelo Provasoli, che nel 2009 fu consulente di parte (per Fininvest) nella causa sul Lodo Mondadori. Tutto si tiene, tutto torna: questo Paese è fatto così.
QUALCOSA da eccepire potrebbero avercela Roberto Calasso e gli altri soci di minoranza di Adelphi (in tutto il 48% del marchio di cui Rcs ha il 52%): la casa editrice più sofisticata della galassia Rizzoli ha più interesse a mantenere la propria (importante) identità editoriale piuttosto che a finire nel calderone berlusconiano tra decine di sigle. Dunque Calasso & c. potrebbero, con la precedenza che si deve ai soci di minoranza, sfilarsi ed è assai probabile che andrà così. Anche Elisabetta Sgarbi, anima della Bompiani, è contraria: “Il lavoro dell’editore è costruire un catalogo e un’identità editoriale. Bompiani è cresciuta grazie agli autori: m’interrogo su cosa pensano loro”. Uno degli autori Bompiani si chiama Dario Franceschini, professione ministro delle Attività culturali: “Sono molto preoccupato delle notizie che anticipano un possibile acquisto di Rcs libri da parte di Mondadori. Non c’è settore più delicato e sensibile per la libertà di pensiero del mercato dei libri. “È legittimo chiedersi con preoccupazione come funzionerebbero le cose in un paese con un’unica azienda che controlla la metà del mercato, con l’altra metà frammentata in piccole e piccolissime case editrici”. Vendere per svendere però potrebbe non essere un’idea felicissima: i libri Rcs oggi sono valutati dal gruppo 180 milioni di euro, se dovessero essere (com’è molto probabile) ceduti a una cifra inferiore (tra i 120 e i 135 milioni di euro), la minusvalenza peserebbe su bilanci già sofferenti. E infatti in casa Rizzoli c’è qualche voce dissonante: oltre a Piergatano Marchetti è contrario al trasloco anche un altro membro del cda, Attilio Guarnieri.
E gli scrittori? Il professor Gustavo Zagrebelsky, autore Einaudi, la prende con ironia: “Qualcuno ha avuto l’idea del partito della Nazione, qualcun altro vuol fare la casa editrice della Nazione”. Sandro Veronesi, uno dei più importanti autori di Bompiani, non la vede affatto bene: “È evidente che si tratterebbe di un’anomalia. Altrove, in Europa, una concentrazione di questo tipo non esiste. L’acquisizione di Rcs Libri da parte di Mondadori rappresenterebbe un’unione insana”, spiega al sito illibraio.it . Sul confronto con gli altri Paesi europei insiste anche Vito Mancuso, che da Mondadori se ne andò nel 2010, all’epoca delle norme ad aziendam pensate dal governo Berlusconi per risolvere le vertenze con il fisco della casa editrice di Berlusconi. Oggi il teologo è autore Garzanti e spiega: “Sono felice di non far parte di Mondadori e nemmeno di Rizzoli, perché non mi piacerebbe stare nella galassia dei Berlusconi. Il tema è lasciato alla coscienza di ogni scrittore. Però questo supereditore avrebbe il 40% del mercato. Sono libri, non una merce qualunque”. Così la pensa anche Gian Antonio Stella, firma del Corriere della Sera ed ex autore Mondadori, oggi migrato in Feltrinelli. “Non mi sono lasciato bene a suo tempo con Mondadori, anche se naturalmente bisogna riconoscere i grandi meriti che negli anni la casa editrice ha avuto. Ma questa acquisizione non è un bel segnale per l’editoria italiana. Giustamente si ricorda che bisogna fare i conti con una dimensione globale dei mercati. Però fare e vendere i libri non è come commerciare in saponi”. Bruno Vespa, uno dei più importanti autori di Segrate, è più positivo: “Io sono un fanatico della concorrenza, tanto che per vent’anni ho pregato Gianni Agnelli di fondare un terzo polo televisivo. Però è vero che oggi si può sopravvivere solo con le grandi aggregazioni, l’eccessiva frammentazione non va bene. Spero che le case editrici conservino la loro autonomia editoriale”.
ED È SU QUESTO che ha più di un dubbio Vittorio Sgarbi, critico d’arte e autore Bompiani (fratello di Elisabetta). “L’operazione è sbagliata: limita la concorrenza e penalizza gli autori. Però non vedo problemi rispetto alle possibili ingerenze di Berlusconi: quando andavo a casa sua, trovavo i libri regolarmente nel cellophane. Berlusconi è il miglior editore che si possa avere perché non ha velleità culturali. Il problema è altrove. Ci sono marchi come Bompiani e Adelphi che potrebbero finire fagocitati da un grande gruppo, con il rischio di disperdere il grande lavoro culturale sul catalogo”. Il professor Emanuele Severino, filosofo, autore di libri anche per Rizzoli (e a cui Adelphi dedica una collana in catalogo) spiega: “Mi colpisce il disimpegno della Fiat che si lava le mani di un pezzo della sua proprietà in Italia. Certo si risolverebbero molti problemi: il capitalismo tira i remi in barca e trova un espediente che consente di massimizzare il profitto. Vedo una sostanziale omogeneità tra Rizzoli e Mondadori. Però credo che capiranno l’opportunità di salvaguardare un gioiello come l’Adelphi”.

il Fatto 20.2.15
Miracoli del Nazareno
Invece del Partito ecco l’Editore della Nazione
di Pietrangelo Buttafuoco


Altro che partito della Nazione. Era l’Editore della Nazione il vero motivo del patto del Nazareno rivelatosi poi un pacco, un pacco di libri. La prossima fusione del gruppo Mondadori con Rizzoli porterà alla nascita di un colosso editoriale al capo del quale sarà Marina Berlusconi. Ed è un già visto. E sarà un uniformare al ribasso: come è già stato fatto con la tivù, dove i berlusconiani non sono riusciti a impossessarsi della Rai ma l’hanno amalgamata nell’indistinto commerciale. Niente Kessler, piuttosto i Pacchi.
C’è da fare la libreria dalle macerie di un sempre più devastante analfabetismo di ritorno; non esiste più un vero pubblico di lettori e nell’Italia dove, con il mercato editoriale allo stremo, muoiono anche i teatri, i cinema e perfino i musei – resi deserti dagli italiani che non sanno fare la “o” col bicchiere, figurarsi godere del proprio patrimonio artistico – mettere insieme i due gruppi altro risultato non avrà che standardizzare il prodotto, farne un commercio in calo di qualità con l’illusione dei piccioli facili: quelli dei non lettori.
Certo, le librerie, ormai, sono come le cabine telefoniche – ce n’è qualcuna, nessuno ci va, tutti hanno il telefonino – e i non lettori sono tanti, tantissimi, pronti a far man bassa delle Cinquanta sfumature, siano esse grigie o a luci rosse, ma questi stessi sono velocissimi a sparire nel grafico delle entrate e inutili poi nel generare una consuetudine, un’educazione, insomma: una civiltà. Quella del libro. Un oggetto che, certo, comunica. Solo che a differenza del telefonino, nel comunicare, il libro forma.
LE LIBRERIE chiudono. La vera Pompei d’Italia è questa. E le librerie non sono negozi come gli altri. Magari in Mondadori lo hanno dimenticato da subito. I Meridiani, infatti, orgoglio di un catalogo storico, finirono nelle edicole. Con carta pessima e stampa al livello di copisteria. Le banche, poi, prime a strozzare i librai, non hanno mai saputo cosa sono le librerie. E non lo sanno neanche in Consiglio dei ministri dove già il 19 febbraio, con il ddl sulla concorrenza, stanno architettando di liberalizzare i supersconti. Saranno utili, questi, solo a chi ha potere d’acquisto e non a quelle vetrine indipendenti che nello sforzo di sopravvivere al destino dei supermercati, nell’immane fatica di sfuggire alla lusinga delle catene Feltrinelli, Giuntialpunto e il franchising Mondadori, vanno a crepare inesorabilmente.
Le librerie sono avamposti per la libera circolazione delle idee. Sono fortilizi del pensiero critico, sono le oasi d’intelligenza che nell’Italia del #cambiaverso – se fosse vero, il verso – dovrebbero godere quanto meno di privilegi fiscali. Quanto meno gli stessi vantaggi che Matteo Renzi offre ai potentati di Internet, gli squillanti logo che nel fatturare cifre straordinarie, nel territorio italiano, non pagano le tasse. Se Amazon fattura in Italia un milione di euro non deve nulla al fisco. Se il libraio incassa 100 euro in due giorni deve, invece, calcolare il gravame da consegnare all’erario. Due più due fa quattro, è vero, ma questo uno più uno ammazzerà definitivamente le librerie ma finalmente, nell’epoca dell’Editore della Nazione, Adelphi, pubblicherà Beppe Severgnini e l’Einaudi – magari nella collana Nue – l’opera omnia di Antonella Clerici.

Repubblica 20.2.15
Il mondo del libro contro la fusione
Franceschini: “Sono preoccupato”
Allarme editoria “Fermate il colosso Mondadori-Rcs”
di Simonetta Fiori


UN CATACLISMA . Nella cittadella dell’editoria italiana la notizia del nuovo Mondazzoli - come qualcuno ha già battezzato l’ipotetica fusione tra Mondadori e Rcs Libri - viene accolta con inquietudine. Una sorta di resa dei conti che coinvolge marchi grandi e piccoli, sigle interne alla galassia e sigle esterne, scrittori e agenti letterari. La voce solitamente ferma tradisce emozione. Perché non si tratta solo di un’operazione finanziaria, ma è in gioco un deposito di creatività, conoscenze, gusto, sensibilità, stile che ora rischia di saltare per aria. Una questione di libertà. Tanto che ieri è intervenuto anche il ministro Dario Franceschini. «Non c’è settore più delicato del mercato dei libri per la libertà di pensiero e di creazione. Troppo rischioso che una sola azienda controlli metà del mercato».
E l’operazione, promette, «sarà valutata con attenzione ». Un’atmosfera cupa dilaga nelle case editrici coinvolte dal temuto nuovo matrimonio. «Guardavo in Tv Mentana che scherzava sull’accoppiamento tra Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli», racconta Elisabetta Sgarbi, direttrice editoriale di Bompiani, la personalità editorialmente più forte dentro Rcs Libri. «Io pensavo ai miei autori. Chissà come reagiranno di fronte a questa operazione che passa sulle nostre teste». E lei come ha reagito? «Un terremoto. Si tratterebbe di una svolta colossale che lascia poco margine a una rete ricchissima di case editrici. Il lavoro di un editore è costruire un’identità, dando un’impronta speciale al proprio catalogo. È stata la passione della mia vita, e qualche soddisfazione l’ho avuta. E ora di tutto questo cosa sarà?».
Anche Ernesto Franco, il direttore editoriale di Einaudi, rinuncia alla consueta prudenza. «L’editoria è un settore molto particolare, dove la concentrazione raramente produce un miglioramento della qualità. Così si finisce per passare da un eccesso all’altro: dai padri padroni che se ne infischiavano della redditività a situazioni in cui la redditività è tutto. Ma nel nostro mestiere vince solo la qualità. E i manager rischiano di fare solo danno». Teme anche per l’autonomia dello Struzzo? «Il successo della Einaudi è nei suoi libri. Se la svuoti dei suoi contenuti culturali, cosa resta? Credo che queste annessioni funzionino quando viene conservata l’identità dei singoli marchi. Bisogna essere bravi, però. La tentazione prevalente è sempre quella di omologare».
Se la minaccia del nuovo titano porta sconforto nelle redazioni interne alla nuova galassia, non sono più sereni gli altri protagonisti. Per Ginevra Bompiani, figlia del grande Valentino e titolare della piccola e raffinata Nottetempo, la ferita è doppia. «L’idea che la Bompiani finisca nelle mani di Berlusconi è una spina nel fianco. Mio padre l’avrebbe presa molto male. La sua visione dell’editoria era l’esatto contrario della politica dei bestseller che propone letture facili e già digerite». Al di là del dato famigliare, secondo la Bompiani la nascita del ciclope Mondadori e Rcs Libri porterebbe «alla distruzione dell’editoria italiana», con l’annientamento dei marchi e delle librerie indipendenti. «Il nostro mercato presentava già una forte anomalia, per la concentrazione nelle mani di pochi grandi gruppi dell’intera filiera del libro: produzione, distribuzione, librerie. A questa concentrazione verticale se ne aggiunge un’altra: l’accoppiamento tra i due più grandi gruppi italiani, che non ha eguali in Europa. Una mostruosità».
Se non bastasse, un’altra minaccia incombe sugli editori e sulle librerie indipendenti: proprio oggi, al Consiglio dei ministri, nell’ambito della discussione sul disegno di legge sulla concorrenza rischia di saltare la legge Levi, che pone un limite agli sconti sul prezzo di copertina. Un provvedimento lungamente osteggiato dai grandi gruppi editoriali come Mondadori, che oggi invece lo invoca e difende: contro il nemico comune che è Amazon. «Se dovessero saltare i limiti agli sconti», dice Ginevra Bompiani, «per l’editoria di cultura e di ricerca sarebbe morte assicurata. Ma è questa la politica culturale che vuole il nostro paese?».
Già, la politica culturale italiana. Anche Sandro Veronesi, autore Bompiani, appare inquieto. «Mi auguro che l’antitrust non intervenga solo a cose fatte. Quella tra Mondadori e Rcs Libri mi pare un’unione insana, che toglie respiro alla concorrenza. E dove non c’è concorrenza il mercato muore». Da scrittore, cosa teme di più? «L’inasprirsi dell’omologazione. È stato già un problema scrivere un romanzo di quattrocento pagine come il mio ultimo Terre rare. Ma come, così lungo?, mi sono sentito dire. I romanzi lunghi non si “portano” più, i lettori sono disabituati. Ma non è la nostra tradizione a suggerirci la regola contraria? ». Lei abbandonò Mondadori una ventina d’anni fa perché insoffe- rente a Berlusconi. E ora? «Rieccolo. Ma questa è una questione mia, che certo dovrò risolvere. Il problema però è più ampio. Possibile che ci lasci indifferenti la notizia che un ex premier pregiudicato rischi di diventare il padrone di una gigantesca concentrazione di libri che sfiora il 40 per cento del mercato? A me pare un’assurdità».
Anche per Giuseppe Laterza non bisogna trascurare il lato politico della vicenda. «Potrebbe nascere un enorme polo che appartiene a un protagonista della politica. Il suo partito potrebbe tornare alla guida del paese: possiamo ignorarlo? Io in questa fusione non vedo una logica né economica né di altro tipo: per questo sono preoccupato». Mettere insieme marchi assai diversi, continua Laterza, è operazione molto difficile. «E quasi sempre non ci si riesce. Non è uno scherzo accorpare amministrazioni e reti commerciali differenti. E gli enormi conglomerati possono produrre risultati disastrosi».
Resta il problema di un eventuale gigante che soffoca la competizione e riduce la pluralità delle voci. Stefano Mauri, il timoniere di Gems ossia il gruppo più esposto agli effetti della nuova concentrazione, fa notare come anche il mercato dei tascabili ne risentirebbe, con il 70 per cento nelle mani di Mondadori-Rcs. «Non credo che ci siano analogie in Europa. Ma il nuovo colosso è tutto da vedere. Certo fa sorridere l’editore italoamericano Alberto Vitale che accoglie il nascituro con enfasi “perché così è in grado di fronteggiare il mercato globale”. Ma di che parliamo? Si tratterebbe di un gruppo che compete in lingua italiana, e il mondo globale c’entra poco».
Tra i feriti del “day after” ci sono anche gli agenti letterari. «No, decisamente non gioisco», interviene Roberto Santachiara. «Quando qualcuno conquista molto potere sul mercato, la vita per noi diventa più difficile». Un “solo dominus” per la narrativa e la saggistica: Andrea De Carlo, altro scrittore della scuderia Bompiani, la vive come un incubo. «Di fronte a fatti come questi mi piacerebbe pubblicare i libri per conto mio. La sensazione è di finire in un mostruoso librificio che si affida a numeri e fatturati. Ha ragione Elisabetta Sgarbi quando si chiede: e gli autori? No, gli autori non sono tranquilli».

il Fatto 20.2.15
Il farmaco salva la vita ma i soldi non ci sono
di Bruno Tinti


È STATO MESSO in commercio un farmaco nuovo: Sovaldi, cura l'Epatite C. In realtà non la cura, la guarisce, nel 99% dei casi. Siccome si tratta di una malattia mortale (si “cura” con trapianto oppure non si cura) si può ben dire che far guarire la gente con due pillole al giorno è una scoperta rivoluzionaria. A questo tipo di medicine non si arriva con facilità: occorrono anni e anni di ricerca e milioni di euro. Così, quando il farmaco è pronto, costa un sacco di soldi; non solo perché si deve recuperare l'investimento: più la malattia è grave, più il business diventa proficuo. Quindi il Sovaldi, la cura completa, un mese e mezzo di pillole, costa 80 mila euro. Ci sono Paesi dove questo non è un problema: negli Usa chi può permettersi questa spesa guarisce, gli altri muoiono. Ma l’Italia è un Paese civile, c'è il Servizio Sanitario Nazionale; tutti hanno diritto a farsi curare nel modo migliore. E qui sono cominciati i guai.
In Italia i malati di Epatite C sono circa un milione. Il SSN ha spuntato (pare) con le imprese produttrici del Sovaldi un prezzo di 50 mila euro per la cura completa: fa 50 miliardi, un terzo dell’evasione fiscale annua. Ma, siccome non la combattiamo, da lì non arriva niente.
L’AIFA (Agenzia Italiana per il Farmaco) ha autorizzato l’uso della medicina; però soldi per comprarla non ce n’è. I malati vanno in ospedale, i medici gli spiegano che potrebbero guarire completamente ma che il farmaco non è disponibile perché gli ospedali non hanno ricevuto gli stanziamenti necessari. Quindi ognuno si arrangia come può. I ricchi vanno a comprarsi le medicine a Ginevra, Vaticano, San Marino, Oslo. Non in Italia perché, incomprensibilmente, l'AIFA ha classificato il Sovaldi “farmaco ospedaliero”, che significa che non si può comprare in farmacia. Con un po' di lungimiranza si sarebbe potuto autorizzarne la libera vendita, alleggerire la domanda consentendone l'acquisto privato, permettere almeno ai fortunati di guarire. Sarà un po’ ingiusto ma così va il mondo. Alcune Regioni del Nord hanno anticipato un po’ di soldi. Non si sa da dove li hanno presi né quando li riceveranno dallo Stato e se potranno dunque ripianare il bilancio. Ma intanto qualcuno, i più gravi, viene curato; gli altri aspettano. Altre Regioni, ad esempio il Piemonte e molte Regioni del Sud, non hanno stanziato soldi, non hanno comunicato progetti né dato istruzioni; insomma "non ci sono; e – se ci sono – sto dormendo".
EPPURE almeno istruzioni sui criteri di priorità da seguire sarebbero opportune: è ovvio che alcuni di quelli messi in coda (sulla base di una scelta discrezionale del medico) forse non ce la faranno; i familiari non saranno contenti; e le denunce civili e penali fioccheranno. E poi alcuni medici danno una ricetta al malato: che sappia di potersi curare; anzi, che loro lo curerebbero ma la Regione non dà i soldi necessari. Altri la ricetta non la danno; tanto - dicono - è inutile. Che non è proprio vero: la facessero, i malati potrebbero prendersela con la Regione, fare ricorso al TAR... Magari è per questo che non la fanno.
Infine questa potrebbe essere l'occasione virtuosa per risparmiare: il budget sanitario della Regione Piemonte se ne va, al 68%, per stipendi a personale amministrativo. Il che è ovvio: da sempre le ASL sono state il serbatoio di voti per i politici locali che, in cambio, facevano assumere chi li votava.
Insomma, per essere migliori degli USA non bastano leggi più civili: occorre anche essere capaci di applicarle.

il Fatto 20.2.15
Processo Trattativa il giallo dello 007 e del monsignore
Un religioso rivela di aver chiesto aiuto a un agente segretoi per evitare di deporre
di Sandra Rizza


Un nuovo 007 entra a sorpresa nel processo sulla trattativa Stato-mafia: il suo nome di copertura è Gino e ha un’età compresa tra i 60 e i 70 anni. A tirarlo in ballo è monsignor Fabio Fabbri, ex vice ispettore dei cappellani delle carceri, che nei giorni scorsi si è rivolto a lui per capire se c’era modo di rinviare la sua deposizione nel bunker di Palermo. Lo ha segnalato ieri in aula il procuratore aggiunto Vittorio Teresi che ha parlato di “un’interferenza nel dibattimento” e ha chiesto di estendere il capitolato di Fabbri ai suoi recenti contatti con l’agente segreto. Il religioso ha confermato tutto: “Siccome avevo problemi ad allontanarmi da Siena, mi sono rivolto a questo amico che appartiene ai servizi”. Chi è il misterioso Gino? E perché monsignor Fabbri si rivolge a lui per chiedere un rinvio della testimonianza a Palermo? Il giallo non è stato ancora risolto perché Fabbri ha detto di non conoscere il vero nome dello 007, che ora è sotto i riflettori del pool Stato-mafia.
SOTTOPOSTO alle domande dei pm Francesco Del Bene e Nino Di Matteo, il monsignore non si è scomposto più di tanto: “L’altra volta per venire a Palermo ho speso 600 euro e non sono stato rimborsato – ha detto – questa volta volevo evitare”. E quando il presidente Alfredo Montalto gli ha chiesto se non avesse pensato di “rivolgersi alla Corte invece che ai servizi segreti”, Fabbri ha risposto: “No”. E ha proseguito il suo racconto: “Gino mi ha detto: stai tranquillo, forse il processo verrà rinviato. Poi invece mi ha spiegato: devi andare. E io sono venuto”. Ma da dove arriva questo Gino? “Ci sono servizi e servizi – ha risposto Fabbri – non so bene a cosa appartiene”.
Il religioso ha quindi spiegato che lo 007 lo teneva d’occhio sin dai tempi del sequestro Moro: “In quei giorni, a Roma, ero pedinato: Gino mi ha detto: dietro di te c’ero pure io”. Ma perché i servizi segreti seguivano il monsignore? Lui spiega: “Ero l’ombra di monsignor Cesare Curioni, il capo dei cappellani delle carceri, che all’epoca aveva un ruolo nel tentativo di mediazione avviato dal Papa con le Br”.
FABBRI HA CONFERMATO, infine, che fu l’ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro nel giugno ’93 a delegare lui e monsignor Curioni a scegliere il nuovo capo del Dap, sostituendo Nicolò Amato con Adalberto Capriotti.
Per la procura, una manovra che doveva garantire il dialogo tra Stato e mafia.

Corriere 20.2.15
Luigi Chiatti «è pericoloso»
Ma non andrà (per ora) in un Opg
Annullata in appello, per una questione procedurale, la decisione con cui il magistrato di sorveglianza aveva imposto al cosiddetto «Mostro di Foligno», il ricovero in un ospedale psichiatrico. A settembre scatta il fine pena, potrebbe tornare libero
di Valentina Marotta

qui

il Fatto 20.2.15
Scade l’ultimatum
Grecia, Tsipras si piega alla Troika ma a Berlino non basta ancora
Atene rinuncia a quasi tutte le sue richieste, oggi l’Eurogruppo
di Stefano Feltri


La Grecia di Alexis Tsipras si piega, rinuncia a quasi tutte le sue richieste su debito e conti pubblici, ma alla Germania non basta. Ieri il governo di Atene ha scritto all’Eurogruppo, il coordinamento dei ministri economici dell’area dell’euro, chiedendo il prolungamento del programma di assistenza destinato a scadere il 28 febbraio, ma a condizioni un po’ più miti. La Grecia chiede un’estensione “di sei mesi dalla fine del programma, periodo durante il quale dovremo procedere insieme e fare l’uso migliore della flessibilità prevista dagli accordi attuali, verso una conclusione positiva, sulla base delle proposte del governo greco, da una parte e delle istituzioni dall’altra”, questo si legge nella lettera.
FUORI DAL GERGO diplomatico: da quando Syriza è diventato il primo partito in Grecia, con le elezioni del 25 gennaio, Tsipras ha ceduto su tutto. Prima ha rinunciato alla conferenza internazionale per tagliare il debito pubblico, poi ha abbandonato la richiesta di sostituire le obbligazioni statali in scadenza con altre a durata illimitata o con i rendimenti legati alla crescita. Infine, ieri, ha mollato su altri due punti: la Grecia non chiede più la riduzione dell’avanzo primario previsto (entrate al netto delle spese) dal 4,5 per cento del Pil all’1,5. Si limita a suggerire un allentamento dell’austerità, cioè un “avanzo primario appropriato, per garantire la sostenibilità del debito e rispettare gli obiettivi di bilancio per il 2015, tenendo conto della situazione economica attuale”. Tispras si è rassegnato anche ad avere ancora la Troika: non la chiama così (ma, d’altra parte, non è mai stato un nome ufficiale), si riferisce solo al monitoraggio e all’assistenza di Commissione europea, Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea, cioè i tre componenti del terzetto che in questi anni ha vigilato sulle riforme e i tagli da attuare in cambio dei finanziamenti di emergenza di 240 miliardi di euro. L’unica preghiera, implicita, è di cambiare qualcosa nella formula della sorveglianza per non compromettere del tutto la credibilità del governo Tsipras davanti all’opinione pubblica di Atene. “La lettera è un segno positivo che spiana la strada a un compromesso ragionevole nell’interesse di tutta l’Eurozona”, dice subito il portavoce del presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker.
Ma per la Germania neppure così è sufficiente: “La lettera di Atene non è una proposta di soluzione sostanziale”, dichiara in un comunicato il portavoce del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. Anche se non è chiaro cosa poteva concedere di più la Grecia. “È preoccupante che la Germania si sia pronunciata prima dell’Eurogruppo, è un modo di far pressione sugli altri governi per condizionarne le valutazioni”, dice il deputato Pd, Stefano Fassina, che in questi mesi è tra i più attenti alla situazione greca. Questa volta Daniel Gros, economista tedesco del think tank di Bruxelles, Bruegel, è d’accordo con Fassina: “Sembrava una resa incondizionata, Schäuble ha sbagliato a rincarare la dose, formalmente non hanno concesso tutto al cento per cento, ma era un segnale positivo. E bisogna evitare che la Germania si isoli”. La possibile spiegazione, secondo Gros, è psicologica: “Schäuble è un giurista, non un economista”, i patti vanno rispettati, a prescindere dalle conseguenze di tanta rigidità.
La sequenza di dichiarazioni e telefonate che si susseguono nel pomeriggio dimostrano che all’improvviso il problema è diventato la Germania: ora che Tsipras e il suo ministro Yanis Varoufakis hanno ridimensionato le loro richieste, bisogna chiudere un accordo per evitare che nel giro di pochi giorni la Grecia collassi in una crisi bancaria (i soldi della Bce non bastano più) che la spingerebbe fuori dall’euro. E tra una settimana, con la fine della missione della Troika, il default sarebbe garantito. Ma la dichiarazione di Schäuble, il più autorevole dei ministri membri dell’Eurogruppo che si riunisce oggi, rischia di bloccare ogni compromesso.
SI MUOVONO il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz e il premier italiano Matteo Renzi che chiama Alexis Tsipras. Alla fine interviene la cancelliera Angela Merkel. Telefona a Tsipras e, secondo le ricostruzioni delle televisioni greche, “è apparsa più moderata del ministro Schäuble”.
Oggi, quindi, salvo sorprese, l’Eurogruppo accetterà le richieste della Grecia. Anche perché Atene ha rinunciato a tutti i punti critici con i quali Tsipras ha vinto le elezioni.

La Stampa 20.2.15
“Le banche greche vicine al crac. Senza intesa si rischia il contagio”
Hanke (ex consigliere di Reagan): ecco perché gli Stati Uniti temono un nuovo scenario alla Lehman Brothers
di Francesco Semprini


Il vero vulnus ellenico è nel sistema bancario, in caso di mancato accordo, si rischia uno scenario sul modello Lehman Brothers, e questo viene visto con timore da Washington». A dirlo è Steve Hanke, consigliere economico della Casa Bianca con Ronald Reagan, ex consigliere del Congresso e membro del Cato Institute.
Prima le manifestazioni di sostegno di Obama agli sforzi di Atene, poi la telefonata di Lew a Varoufakis. Dove nasce questo interesse americano per la Grecia?
«Il sistema bancario ellenico è vicino all’implosione, i depositi si stanno assottigliando, c’è una fuga di capitali di circa due miliardi di dollari alla settimana, e già alla fine di dicembre il livello di credito si contraeva del 5% annuo. In Grecia l’85% dell’offerta di moneta proviene dalle banche, quindi le ripercussioni su reddito nazionale ed economia sarebbero disastrose. La fuoriuscita di denaro dal sistema bancario potrebbe diventare un’emorragia e questo causerebbe un collasso».
Qual è il prezzo che pagherebbero gli Stati Uniti?
«Se questo scenario si dovesse verificare ci sarebbe una traumatica uscita della Grecia dall’Eurozona, gli investitori internazionali si metterebbero al riparo disinvestendo qualsiasi attività a rischio».
Ad esempio?
«Una fuga dai mercati emergenti, come la Turchia, e un forte calo delle rispettive valute. Ne conseguirebbe un dollaro fortissimo, un crollo dei prezzi delle materie prime e un’impennata della domanda degli asset sicuri, ovvero i titoli di Stato Usa. Tanto quanto è accaduto con il fallimento di Lehman Brothers».
Sta dicendo quindi che un’uscita dall’euro è possibile?
«È possibile, il punto è capire quanto devastante sarebbe e quanto ne durerebbero gli effetti. E poi il popolo greco non vuole abbandonare la moneta unica, nessuno in Europa vuole veramente».
Cosa dovrebbe fare a suo avviso la Grecia?
«Primo, il suo ministro delle finanze dovrebbe mettersi una cravatta e indossare un vestito, magari di manifattura italiana».
Questione di stile?
«Diplomazia negoziale. Varoufakis lunedì all’Eurogruppo si è presentato in ritardo, questo non è il modo di trattare con serietà, ed è sintomatico del tipo di approccio che il governo greco sta usando. Secondo, non si può negoziare solo sul breve termine, per fare cassa. Infine la Grecia deve rispettare gli impegni presi, o quantomeno dar prova di voler lavorare sugli accordi presi prima del governo Tsipras».
Tornando allo scenario Lehman, gli Usa cosa potrebbero fare per mettersi al riparo da possibili contagi?
«Non molto. Se però mancasse l’intesa con l’Europa, Washington si farebbe sentire».

Corriere 20.2.15
La deriva di Atene (e quella tedesca) che ci minacciano
di Maurizio Ferrera


Il negoziato fra Atene e Bruxelles non è solo una questione di prestiti e scadenze. È un vero e proprio nodo gordiano che rischia di strangolare la politica europea nei mesi a venire. I Paesi del Nord, Germania in testa, sono contrari a modificare gli accordi vigenti: pacta sunt servanda. Il governo Tsipras ribatte che nessun patto può ridurre alla fame milioni di persone. Intanto la fiducia fra i popoli europei cola a picco.
L e vignette sui media resuscitano orribili spettri del passato (come le insegne naziste) che speravamo sepolti per sempre.
È vero: la Grecia ha truccato i conti, ha chiesto e ricevuto aiuti finanziari in cambio di precisi impegni, mantenuti solo in parte (ad esempio sui fronti della corruzione e della evasione). È giusto rimproverare la classe politica ellenica, anche per rispetto verso i leader e i cittadini di altri Paesi che non si sono sottratti ai sacrifici. Ma nel nostro mondo imperfetto le colpe non stanno mai da una parte sola. Molti soggetti privati (ad esempio le banche) e alcuni governi hanno tratto massicci vantaggi, non sempre immacolati, dalla crisi greca e oggi fanno a gara per scagliare le prime pietre.
Il vero problema è questo: non è possibile ricostruire con precisione chi ha vinto e chi ha perso dalla creazione dell’euro in avanti e soprattutto durante la crisi. Il saldo varia a seconda del punto di riferimento: il cambio irrevocabile, l’inflazione, i tassi d’interesse, i trasferimenti finanziari e così via. La «verità» si nasconde dietro un groviglio quasi indecifrabile di flussi. Solo la politica può tagliare il nodo, tramite un accordo complessivo che possa essere considerato equo da tutti.
Del resto non fu proprio così che ebbe origine il progetto europeo? La logica ispiratrice fu quella della riconciliazione fra nemici desiderosi di prendersi per mano e lasciarsi alle spalle i risentimenti del passato. La filosofa Hanna Arendt parlò in quegli anni di «perdono e promesse»: é cio che fecero uomini come De Gasperi, Adenauer, Schumann.
I venti di guerra si stanno purtroppo risollevando ai confini della Ue. Non ha senso cavalcare i nazionalismi, mettere di nuovo i popoli europei l’uno contro l’altro. L’irresponsabile cicala greca chiede sei mesi di tempo e un prestito ponte. La formica tedesca è tentata di rispondere come gendarme delle regole e dell’austerità. Speriamo che alla fine decida invece come Paese leader, motore e custode di un’autentica «ragion d’Europa», di cui abbiamo ora più bisogno che mai.
Maurizio Ferrera

Il Sole 20.2.15
L’intransigenza di Schaeuble
Quanta fretta per dire «Nein»
di Alessandro Merli


Non erano passate che poche decine di minuti dalla richiesta greca di estendere l’accordo con i creditori internazionali che dall’ufficio del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, è partito un secco “Nein”, allegramente riprodotto subito dopo a caratteri cubitali sul sito del quotidiano popolare “Bild”.
I primi a felicitarsene sono stati gli euroscettici di Alternative fuer Deutschland, sollecitando l’inizio della preparazione all’uscita della Grecia dall’euro. Una bocciatura apparentemente senza possibilità di appello, che ha dato la chiara impressione di voler dettare la linea all’Eurogruppo, già convocato per oggi per discutere della proposta greca, e alla Commissione europea, la quale tra l’altro si era appena espressa in modo molto più positivo. Persino il ministro dell’Economia tedesco e leader socialdemocratico, Sigmar Gabriel, l’ha trovata prematura. È solo l’inizio della trattativa, ha osservato Gabriel. E che si trattasse soprattutto dell’affermazione di una posizione negoziale di partenza si è capito dal fatto che il ministero delle Finanze di Berlino ha prontamente confermato la presenza di Schaeuble all’Eurogruppo.Nel corso della giornata, è trapelato un documento in tre punti sulla posizione tedesca: la preoccupazione per il deterioramento dello stato dei conti pubblici greci, causa soprattutto il crollo delle entrate fiscali; la necessità che Atene riaffermi il rispetto degli impegni già concordati nel programma in scadenza il 28 febbraio, seppure con margini di flessibilità; ma soprattutto la conferma pubblica che la Grecia (la cui proposta viene definita, a quanto pare senza ironia, “un cavallo di Troia”) non prenderà misure unilaterali che rappresentino una marcia indietro sull’aggiustamento e le riforme già avviati. Questo è un punto di particolare irritazione per il Governo tedesco, che considera alla stregua di una provocazione le misure prese da Atene negli ultimi giorni, che, secondo il ministero delle Finanze, possono solo aggravare la situazione di conti pubblici e mercato del lavoro. La presa di posizione di Schaeuble, molto dura, non significa però che Berlino abbia chiuso la porta ad Atene. Intanto, l’uscita di Gabriel (anche se questi non ha grande influenza sulle questioni europee) ha dato un segno che una linea troppo inflessibile può creare qualche disagio nella coalizione di Governo. E, più tardi, da Berlino è uscito in via ufficiosa un mezzo passo indietro, con l’indicazione che il negoziato può partire senza che ad Atene vengano chieste a priori modifiche della sua proposta. Ma, soprattutto, nel pomeriggio c’è stata una telefonata fra il cancelliere Angela Merkel e il premier greco Alexis Tsipras. È alla signora Merkel che spetta sempre l’ultima parola nella crisi europea e non sarebbe la prima volta che adotta un atteggiamento meno inflessibile del suo ministro. Persino una dichiarazione del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, molto critico sul Governo greco (ha definito «vaga» la proposta presentata ieri e mutevole a seconda dell’interlocutore la posizione di Atene), fa capire che la Germania lavora nell’ottica di una soluzione del caso Grecia. Weidmann si è spinto a dire che in presenza di un nuovo accordo sul programma fra Atene e i partner europei, la Bce potrebbe nuovamente accettare in garanzia titoli del debito greco, esclusi due settimane fa, causa lo stallo della trattativa. La mattinata aveva riservato un piccolo giallo, quando la “Faz”, quotidiano vicino alla Bundesbank, aveva riferito che il consiglio della Bce era favorevole all’adozione di controlli sui movimenti di capitale in Grecia, come fu a Cipro, strada non del tutto invisa in Germania. La Bce ha smentito.

il Fatto 20.2.15
Israele e l’Isis, nemico da strategia elettorale
Netanyahu in vista delle elezioni di marzo inserisce pure il Califfo nella lista nera
Dopo averlo ignorato per mesi
di Roberta Zunini


La campagna elettorale del Likud, il partito conservatore del premier Benjamin Netanyahu, a meno di un mese dalle elezioni anticipate del 16 marzo, prova a inserire anche l'Isis nella lista nera dei nemici di Israele.
Pur di strappare la vittoria agli “amici” della destra ultranazionalista e ai “nemici” di sinistra, Bibi è disposto anche a giocare la carta Isis, contraddicendo il suo ex stretto alleato, il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Pochi giorni fa, nel discorso tenuto durante la conferenza annuale dell'Institute for National Security Studies di Tel Aviv, Lieberman ha precisato che per Israele è fondamentale distruggere i terroristi, ma ha specificato che terrorista è anche chi appartiene ad Hamas e al movimento sciita libanese Hezbollah, legato all'Iran. Hezbollah è più forte dell'Isis e di Al Qaeda”. Sia l'Iran sia Hezbollah, sostengono i sunniti di Hamas a Gaza e l'alevita ( confessione più vicina allo sciismo) Assad in Siria. Da quando i pasdaran iraniani, assieme ai miliziani di Hezbollah sono entrati in Siria per aiutare il presidente Assad a combattere i suoi oppositori, tra i quali i tagliagole dell'Isis, le autorità israeliane hanno alzato il livello di allerta. Che è arrivato al massimo da quando, un paio di mesi fa, gli sciiti sono riusciti a scendere nel sud della Siria fino ad attestarsi sul confine costituito dalle alture del Golan, a poche decine di metri in linea d'aria dall'altro versante delle omonime colline che Israele ha unilateralmente annesso dopo la guerra dei sei giorni. “Netanyahu è un cinico, sfrutta la barbarie dell'Isis in chiave elettorale per costringere l'opinione pubblica israeliana a focalizzare l'attenzione sul nemico esterno, invece che sui problemi economici e sociali all'interno del suo paese”, ha sottolineato lo storico e docente universitario israeliano Ilan Pappé, noto per le sue critiche alla deriva di destra di Israele. Netanyahu prima dell'inizio della campagna elettorale non aveva mai denunciato l'Isis come possibile nemico di Israele, pur avendolo alle porte, nel Sinai. Ora però le elezioni sono sempre più vicine e tutto fa brodo.

Repubblica 20.2.15
Il riconoscimento della Palestina
di Mai Alkaila

Ambasciatore dello Stato di Palestina in Italia

CARO direttore, in qualità di Ambasciatore dello Stato di Palestina in Italia, mi avvalgo del diritto di replica a quanto affermava l’Ambasciatore d’Israele in Italia, Naor Gilon nell’intervista pubblicata ieri su Repubblica . L’Ambasciatore d’Israele afferma che il riconoscimento è una mossa inutile e dannosa che rischia di fare un favore soltanto agli estremisti. Anzi vorrei chiarire al Signor Ambasciatore e ai gentili lettori del giornale che il riconoscimento dello Stato di Palestina è una mossa che va nella giusta direzione, secondo il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza n. 242, n. 338 e n. 1515 che invitano la potenza occupante rappresentata da Israele a ritirarsi dai territori occupati nel 1967, ivi compresa Gerusalemme Est. E ribadisco che il non riconoscimento dello Stato di Palestina è un regalo gratuito che si offre alle forze dell’estremismo che possono strumentalizzare la causa giusta del popolo palestinese.
Perché la Palestina non può essere riconosciuta dagli Stati membri delle Nazioni Unite, come è accaduto nel 1949 per il riconoscimento d’Israele? L’Italia già il 29 novembre 2012 ha riconosciuto la Palestina come Stato osservatore non membro delle Nazione Unite, quindi era dannoso anche questo? I palestinesi hanno trattato con i diversi governi israeliani dal 1993, senza avere nessun risultato, anzi hanno continuato con la loro politica di: 1. intensificazione della colonizzazione delle terre palestinesi; 2. confisca dei terreni; 3. ebraicizzazione di Gerusalemme e l’espulsione di tanti suoi abitanti palestinesi; 4. demolizioni delle case, costruzione del muro e privazione dell’acqua; 5. continuo aumento dei prigionieri politici e di detenuti amministrativi (detenzione preventiva) in tutta la Palestina; 6. embargo e aggressioni nella Striscia di Gaza con migliaia di morti, sfollati, feriti, e la distruzione di infrastrutture sanitarie, scolastiche ed abitazioni. Tutto nella piena violazione del diritto internazionale e della Quarta Convenzione di Ginevra, che obbliga la potenza occupante a rispettare e garantire l’integrità territoriale del paese occupato. Israele non ha nessun piano di pace e rifiuta lo Stato e la sovranità palestinese e non vuole nessuna soluzione del conflitto, anzi mantiene lo status quo: Israele non vuole giustizia per i rifugiati palestinesi, non blocca le colonie e non vuole tornare ai confini del 1967.
Che strano che l’Ambasciatore d’Israele chiede ai palestinesi di garantire la sicurezza dello Stato d’Israele, questo Stato che detiene la potenza nucleare e un esercito che viene definito la “quarta potenza” nel mondo e la prima nel Medio-Oriente. È un esercito che utilizza la potenza militare di armi sofisticate e proibite internazionalmente, come il fosforo bianco e l’uranio impoverito contro civili, bambini, anziani inermi, che tuttora soffrono degli effetti di queste armi proibite. Per noi palestinesi la sicurezza d’Israele è nella nascita e crescita di uno Stato sovrano palestinese in una pace giusta e durevole che vede i due Stati, Palestina e Israele, vivere insieme in buon vicinato.
Va ricordato l’appello ai parlamentari italiani ed europei per il riconoscimento dello Stato di Palestina, promosso da più di mille intellettuali israeliani, tra cui Alon Liel (ideatore dell’appello), Ester Levanon Mordoch, Ilan Baruch, Ilan Pappé, David Grossman. La leadership palestinese non è contraria al negoziato come principio, ma dopo le esperienze passate chiede la legalità internazionale come punto di riferimento e una calendarizzazione del negoziato e della fine dell’occupazione israeliana e della nascita dello Stato di Palestina. Per concludere, i palestinesi hanno il diritto di costruire un loro Stato sovrano laico e democratico, in cui convivono pacificamente tutte le religioni.
Ambasciatore di Palestina in Italia

Corriere 20.2.15
Una Grande Muraglia nell’oceano. La Cina si allunga nei mari del Sud
In costruzione isole artificiali per dominare le ricche acque lungo le rotte più contese
di Guido Santevecchi


PECHINO Nelle mappe ufficiali Gaven Reef è una scogliera disabitata al centro delle isole Spratly, nel Mar Cinese Meridionale. Quegli scogli affiorano solo con la bassa marea. Ma nelle immagini scattate a gennaio dai satelliti e analizzate dall’agenzia «Jane’s Defence», oggi Gaven Reef è una solida striscia in cemento di 75 mila metri quadrati con due moli, una pista per elicotteri, una costruzione quadrata con torri ai quattro angoli che possono ospitare postazioni antiaeree o radar. Gaven è diventata un’isola artificiale fortificata e ci sventola la bandiera cinese. Le prime foto satellitari, all’inizio del 2014, avevano rilevato solo un avamposto di 380 metri quadrati allestito dai genieri utilizzando una draga della marina.
Gaven ha tre sorelle: Hughes Reefs, Johnson Reef e Fiery Cross, tutte della stessa forma e dimensioni, con uguali installazioni in fase avanzata di preparazione. E tutte costruite dai cinesi. Sono circa a 210 miglia dalle Filippine e a 660 dalla costa della Cina.
«È una campagna metodica, pianificata per costituire una catena di fortezze con capacità navale e aerea al centro delle Spratly», dice James Hardy, direttore di Jane’s per l’Asia Pacifico. Il sistema di costruzione appare standardizzato, la ricognizione ha segnalato la draga della marina cinese «Tian Jing Hao» in zona a partire dal 2013. I lavori partono con una prima piattaforma che poi viene allargata producendo il cemento da impianti allestiti sulla base. Il risultato è una sorta di Grande Muraglia in mezzo alle Spratly. L’arcipelago, rivendicato da Manila e Pechino, è conteso anche da Brunei, Malaysia, Filippine, Taiwan e Vietnam. Le Filippine hanno portato la questione davanti a un tribunale dell’Onu chiedendo l’arbitrato internazionale, ma la Cina ha rifiutato di partecipare.
Pechino va avanti con la politica del fatto compiuto. In gioco c’è non solo la rivendicazione nazionale delle Spratly (che in cinese si chiamano Nansha), ma forse il controllo delle rotte nel Mar Cinese Meridionale lungo le quali passano linee di approvvigionamento vitali anche per Sud Corea e Giappone. Metà del traffico mercantile mondiale naviga in zona; quasi un terzo del greggio e metà del gas liquido percorrono quella via oceanica; i fondali sono ricchi di giacimenti petroliferi e le acque sfruttate per la pesca. E la Cina, oltre alle Spratly, rivendica con aggressività il 90 per cento dei 3,5 milioni di chilometri quadrati di quel mare.
A Johnson e Fiery i satelliti segnalano lavori per una striscia di cemento lunga tre chilometri e larga trecento metri: quanto basta per un aeroporto militare, strategicamente necessario alla Cina che dispone solo di una portaerei ancora in addestramento. Il genio cinese lavora in fretta alla catena di fortezze marine: «Dove avevamo osservato poche piattaforme ora ci sono isole artificiali con installazioni capaci di accogliere un numero rilevante di militari», ha detto James Hardy alla Cnn .
Washington ha chiesto a Pechino di abbandonare i progetti di espansione territoriale nella zona, la Repubblica popolare ha risposto con un editoriale del quotidiano di partito Global Times : «Gli Stati Uniti non sono imparziali, parlano di stabilità nella regione ma vogliono solo contenere la Cina».
In realtà, i cinesi erano gli unici tra i contendenti delle Spratly a non avere una base militare tra le isole. Ma niente di simile a una fortezza: i filippini mantengono un avamposto di uomini sperduti su una vecchia e arrugginita nave da sbarco americana, la «Sierra Madre», incagliata tra gli scogli per rivendicare la sovranità.

il Fatto 20.2.15
New Yorker, 90 anni inimitabili
Il 21 febbraio del 1925 usciva il primo numero del più celebre settimanale del mondo, il simbolo universale della vita nwyorchese
In quella redazione sono passati tutti i più grandi, ma anche l’iyaliano Nicolò Tucci
di Furio Colombo


Domani, 21 febbraio, il New Yorker compie 90 anni. Festeggerà con un numero doppio e nove copertine con Eustace Tilley, il dandy apparso sul primo numero e diventato nel tempo simbolo della rivista.
Tutto ciò che so del New Yorker, il celebre settimanale, il simbolo universale della vita newyorchese dentro l’America e nel mondo, lo so da Nika (Niccolò) Tucci, che ci ha lavorato per metà della sua vita. Parlo per un momento di Tucci, importante e quasi sconosciuto scrittore italiano e allo stesso tempo americano (mai italo-americano) perché conta molto nella storia di questo settimanale unico al mondo. Tucci, uomo bello e mondano alla Malaparte, subito celebre per la sua bravura nel raccontare, è stato mandato da Mussolini a New York per “fascistizzare” i grandi borghesi italiani che, contro il regime, si erano auto-esiliati a Manhattan (assieme a coloro che erano stati costretti a fuggire dalle leggi razziali). Soltanto dopo molti anni Nika Tucci ha saputo che il suo compito sarebbe stato come quello del protagonista del romanzo di Moravia (e film di Bertolucci) Il conformista. Ma quel destino non ha potuto compiersi, e il celebre magazine c’entra. Tucci è stato cooptato dal New Yorker prima in redazione (la famosa redazione che apre il settimanale con il celebre Talk of the town (chiacchiere in città) che ha segnato la vita newyorchese per decenni). E poi come autore, in compagnia di tutti i grandi autori americani del tempo. E così l’antifascismo del neoconvertito è divenuto uno degli ingredienti negli Anni 40, nel più raffinato periodico americano.
CELEBRE è l’episodio del licenziamento di Tucci. Nel turbine della sua nuova gloria, scriveva poco e consegnava in ritardo. Il celebre direttore e fondatore Harold Ross (alla guida dal 1925 fino alla morte, nel 1951) gli ha prontamente inviato una lettera di licenziamento, tolto il tavolo e la sedia in redazione (dura ma non insolita tradizione americana). Nika Tucci allora si è chiuso nel bagno del giornale e ha cominciato a scrivere sulla carta igienica, rotolo dopo rotolo, il racconto più bello e famoso della sua carriera di “collaboratore letterario” del New Yorker. A mano a mano che i colleghi estraevano i pezzi del rotolo da sotto la porta, li mandavano al direttore che li mandava in composizione.
LA STORIA è diventata un celebre marchio di fabbrica del giornale, insieme alla famosa caricatura del dandy Eustace Tilley, ripubblicata lo stesso giorno ogni anno, per ricordare la fondazione del giornale. Insieme alla fama, rimasta intatta nei decenni della redazione in cui andavano e venivano Truman Capote e Kurt Vonnegut, Tennessee Williams e John Updike, Ann Beatty e Alice Munro, Philip Roth, John Cheever, J. D. Salinger, Toni Morrison. Mai dimenticare i cartoons del New York Magazine, una sorta di testo a parte in cui si sono formati e misurati tutti i grandi del genere, da Charles Addams (“The Addams Family”) a Saul Steinberg, da Peter Arno a Charles Borsotti. Il segreto del New Yorker è di essere tre giornali armonizzati con estrema bravura in uno: le conversazioni sulla città, la politica, i fatti; i testi saggistici o di grande reportage giornalistico accanto a racconti lunghi di grandi autori. E le recensioni di letteratura, cinema e teatro, che hanno l’autorità di definire un fallimento o un successo. I cartoons scorrono accanto al materiale letterario e saggistico come i finestrini di un treno in corsa. Alcuni sono diventati celebrità “pop” come Addams, e altri hanno segnato la nascita di artisti come Saul Steinberg. In più il New Yorker offre un grande servizio, mentre leggi e ti metti al sicuro da tutto ciò che temi di non sapere: la guida critica ai cinema, ai teatri, ai musei, alle gallerie. Perché è rimasto unico questo settimanale? Perché non si potrebbe immaginare una replica in Italia? Proverò a rispondere. Una prima insormontabile difficoltà per l’Italia non è il vuoto di cultura (che pure ci perseguita) ma la cultura. Prima di tutto la cultura universitaria. Le sue esigenze di routine accademica stroncano la libertà espressiva che ha potuto pubblicare tutta la violenta polemica pro e contro Anna Freud (che ha diviso per sempre la cultura psicanalitica americana) accanto ai racconti di fantascienza di Vonnegut giovane. Il New Yorker è stato il luogo del grande scontro intorno ad Hannah Arendt, durante il processo Eichmann, scontro che ha diviso il mondo. Su quelle pagine è nato La banalità del male. E lo stesso New Yorker che ha spinto la classe media colta contro la guerra, dal Vietnam all’Iraq, pubblicando le più grandi testimonianze delle due epoche, incurante della politica dei governi. Fare il New Yorker richiede che l’edificio politica e l’edificio giustizia restino in equilibrio più o meno come vuole la Costituzione, in quel Paese e nel nostro.
QUI, PERÒ, dove in tanti (a destra e a sinistra) si dedicano a frantumare le tavolette della legge e a buttarle via, il New Yorker non si può fare. Ma ci sono problemi anche in America. Il sostegno del settimanale è stato per decenni una classe media colta che adesso è sempre meno numerosa a New York, città che costa troppo. Una upper middle class e up-per class (ricchi e semiricchi) legati alla agiatezza come fatto di cui beneficiare e alla cultura come valore a cui partecipare. Quell’area di sostegno si sta diradando. Quel pubblico si ritira nella rete. E sempre meno grandi eventi pubblici attraggono folla e attenzione. Guardavi il New Yorker magazine e avevi l'impressione di una grande corda che ha trascinato avanti, nel tempo, avanguardia e continuità, memoria e avventura, conservazione e rischio. Dubito che, in un’America per metà ostile al più grande, visionario e intellettuale presidente che abbia avuto in un secolo, tutto ciò possa continuare ad accadere nel tempo. Già adesso sta diventando più un elegante museo che l’annuncio di cose nuove.

La Stampa 20.2.15
Il poeta albanese in lotta con lo spettro di Hoxha
Visar Zhiti dal carcere del regime alla diplomazia per il Paese democratico
Ora qualcuno non lo vuole ambasciatore in Vaticano
di Luigi La Spina


Questa storia si è fermata su un incrocio infido, quello tra la politica, la religione e la poesia. Sì, perché il protagonista è uno dei più importanti poeti albanesi. Visar Zhiti è figlio di un poeta, Hekuran, anche attore e commediografo, scomodo per lo spietato regime comunista di Enver Hoxha fino al punto di essere stato rinchiuso in carcere, dove morì. Visar seguì le orme del padre che lo portarono, nel 1979, alla stessa destinazione: una cella di due metri per tre e, poi, il lager dei lavori forzati in miniera. La condanna a dieci anni era seguita al solito processo farsa, durante il quale l’accusa gli rimproverò di scrivere versi troppo ermetici, perciò tristi e contrari ai canoni del realismo socialista.
Visar ebbe più fortuna del padre. La caduta del regime di Hoxha gli aprì, dopo sette anni, con le porte del carcere, pure quelle dell’agognato Occidente, il paradiso della libertà e dell’opulenza. Il gusto della libertà lo assaporò subito, perché le sue poesie furono pubblicate e tradotte, oltre che in Albania, anche in molti Paesi europei e negli Stati Uniti. Quello dell’opulenza molto meno, perché, trasferitosi in Italia, visse poveramente con l’aiuto degli amici letterati che subito apprezzarono la sua poesia e con i proventi di qualche traduzione. Finalmente, il nuovo governo democratico riconobbe i suoi meriti e lo nominò, nel 1995, consigliere culturale e vice ambasciatore d’Albania a Roma.
A Roma
Quei cinque anni nella nostra capitale sono inebrianti per Visar, perché la frequentazione del mondo letterario di Roma allarga straordinariamente i riferimenti culturali della sua poesia. Zhiti, così, pubblica nel 1997 la sua prima raccolta di versi, Croce di carne e, subito dopo, la seconda, Confessione senza altari con un immediato successo. Il rientro a Tirana è altrettanto felice, non solo perché viene nominato ministro della Cultura, ma perché incontra la donna della sua vita, Eda, che sposa e che gli dà un figlio, Atjon.
La vita di Visar, che nel frattempo pubblica anche un bellissimo romanzo appena tradotto in Italia da Rubbettino con il titolo Il visionario alato e la donna proibita, specchio autobiografico dei tradimenti che l’Europa commette nei confronti dell’ Albania liberata dalla dittatura, sembra, perciò, percorrere i sentieri di una insperata serenità familiare e di una meritata rivincita letteraria. Ma la poesia, quando incrocia oltre alla politica anche la religione, pare costretta a un improvviso arresto.
Il no del vescovo
Tutto succede nel giro di due settimane. Il primo ministro albanese Edi Rama propone la nomina di Zhiti ad ambasciatore presso la Santa Sede. Il ministro degli Esteri, Ditmir Bushati, comincia ad avviare la complessa procedura con il Vaticano, quando arriva un alt davvero sorprendente. Il vescovo ausiliario di Tirana e di Durazzo, George Freddo, in un’intervista al giornale Gazeta Shqiptare, si dice contrario alla nomina, poiché Visar è musulmano e non cattolico. Ignora, infatti, che Zhiti, durante i suoi anni di carcere, si era segretamente convertito al cattolicesimo. Ma ignora o fa finta di trascurare pure il messaggio che, a settembre del 2014, Papa Francesco aveva lanciato sulla piazza di Santa Teresa di Calcutta, durante la sua visita a Tirana. Il pontefice, infatti, aveva motivato il suo viaggio in Albania con due ragioni: l’omaggio allo «straordinario esempio di pacifica convivenza religiosa» offerto da quel Paese e all’«eroica resistenza della comunità cattolica» durante una dittatura comunista che, proprio nella Costituzione, imponeva l’ateismo come credo di Stato, per cui il solo dichiararsi credente costituiva una violazione di legge.
Il presidente ostile
L’intervista del vescovo Freddo poteva essere considerata una gaffe, anche perché era seguita da una sua imbarazzata precisazione, molto somigliante a una ritrattazione, in verità. Peccato, però, che viene colta, da parte dei più o meno occulti nemici di Visar, come un provvidenziale pretesto per bloccare la sua nomina alla Santa Sede. Nel frattempo, il Parlamento albanese, con una risoluzione unanime, firmata sia dalla maggioranza governativa, sia dall’opposizione, manifesta il consenso al poeta anche con la ragione che la sua presenza come ambasciatore in Vaticano sarebbe utile per «affermare i valori di laicità dello Stato». Il nunzio apostolico, inoltre, preannuncia il sicuro gradimento alla nomina, ma è proprio il presidente albanese, Bujar Nishani, a capeggiare il gruppo di coloro che vogliono impedirgli il ritorno a Roma, sull’altra sponda del Tevere.
Le versioni di questa ostilità, naturalmente, sono diverse. Quella più benevola parla del disappunto di Nishani per essere stato scavalcato dal primo ministro nella designazione di Visar, quella forse più fondata svela un retroscena che non giustifica l’opposizione presidenziale solo per una ferita all’orgoglio gerarchico, ma racconta di un antico pregiudizio negativo nei confronti di un poeta ribelle, o ex ribelle. Nishani, infatti, all’epoca del regime di Hoxha, era un ufficiale dell’esercito e, forse, è il suo passato a frenare l’entusiasmo per una carica che premierebbe un intellettuale non disposto a seguire supinamente i desideri del potere, qualunque questo sia.
L’ombra del vecchio regime, dunque, sembra inseguire Visar Zhiti senza scampo, come di nuovo cattivo è stato il destino sulla sua felicità familiare. Due mesi fa, l’adorato figlio Atjon, studente all’università cattolica di Milano, torna per una breve vacanza a Tirana. Ma, appena in Albania, il suo sorriso si spegne per sempre sulla sella di una moto, in un terribile schianto.

Repubblica 20.2.15
Archimede, Ulisse e la matematica
Quante erano le mandrie del Sole di cui parla Omero nell’Odissea?
Cinquanta milioni di capi, secondo i calcoli del celebre scienziato
di Piergiorgio Odifreddi


Anticipiamo la lettura del Canto XII dell’ Odissea di Piergiorgio Odifreddi, Il problema dei buoi di Archimede in scena, nell’ambito del progetto di Sergio Maifredi, il 23 al Politeama di Genova alle 21

LA TECNICA del flashback, largamente sfruttata dalla letteratura e dal cinema, risale in realtà all’antichità. La si ritrova in molti classici, dal Mahabharata all’ Iliade, e i Greci la chiamavano analessi, “ripresa” o “recupero”. L’esempio più noto è il blocco dei canti IX-XII dell’ Odissea , nei quali Ulisse racconta al re Alcinoo le peripezie che l’hanno portato da Troia alla terra dei Feaci, passando per i Lotofagi, i Ciclopi, l’Eolia, Circe e l’aldilà. Nel regno dei morti, oltre a rivedere Achille e altri compagni d’arme, Ulisse incontra l’indovino Tiresia, che gli annuncia l’ormai imminente ritorno a casa.
Ma lo mette in guardia sulle mandrie del Sole che troverà in Sicilia: se saranno rispettate, tutti torneranno a Itaca, altrimenti ci arriverà lui solo. Cosa successe «quando si dipartì da Circe» lo racconta il Canto XII. Dapprima Ulisse si lega all’albero della nave per sentire il canto delle Sirene, poi passa indenne fra Scilla e Cariddi, e infine trova ciò che gli aveva predetto la maga: «Allora incontro ti verranno le belle / spiagge della Trinacria isola, dove / pasce il gregge del Sol, pasce l’armento: / sette branchi di buoi, d’agnelle tanti, / e di teste cinquanta i branchi tutti».
Per un mese i venti impediscono ai Greci di ripartire. Le provviste finiscono e i compagni di Ulisse si cibano delle mandrie del Sole. Giove li punisce e affonda la nave. Solo Ulisse si salva, naufraga a Ogigia e rimane per sette anni con Calipso. Infine, con una zattera arriva alla terra dei Feaci, che dopo il suo lungo flashback lo riportano in patria. Fine dell’odissea di Ulisse e dell’ Odissea di Omero, ma non delle spiagge della Sicilia e delle mandrie del Sole. Qualche secolo dopo, infatti, il più grande figlio dell’isola tornò su entrambi gli argomenti, e mostrò come un sommo matematico poteva non solo rispondere per le rime a un sommo poeta, ma anche surclassarne la fantasia. Stiamo parlando di Archimede, nato e morto a Siracusa nel terzo secolo prima della nostra era. In una lettera al tiranno della città egli prese spunto dalle omeriche “belle spiagge” dell’isola e scrisse: «Alcuni, o re Gelone, credono che il numero dei granelli di sabbia sia infinito. E non mi riferisco solo ai granelli di sabbia che si trovano a Siracusa e nei suoi dintorni, ma nell’intero mondo, abitato o no». Archimede notò che il numero dei granelli che possono riempire «non solo l’intera Terra, ma addirittura l’intero universo» è ovviamente immenso, ma ben lungi dall’essere infinito. Per calcolarlo, fece il rapporto tra il volume dell’universo e il volume di un granello di sabbia. E per poter stimare il primo si appoggiò alla teoria di Aristarco, il quale sosteneva che la Terra gira attorno al Sole, e che la distanza delle stelle fisse sta all’orbita terrestre come l’orbita terrestre sta al raggio della Terra.
Questa lettera di Archimede, nota come l’ Arenario, è dunque la testimonianza storica che il processo a Galileo del 1633 fu un anacronismo bimillenario, rispetto alla perduta opera di Aristarco. Ed è anche la testimonianza che i Gre- ci erano arrivati a considerare numeri enormi: in termini odierni, il numero di granelli di sabbia che riempirebbero l’universo di Archimede è 10 alla 63, cioè un uno seguito da 63 zeri. Per paragone, il numero di particelle esistenti al mondo viene oggi calcolato in 10 alla 80, cioè un uno seguito da 80 zeri. Ma per poter fare i suoi calcoli matematici, Archimede dovette anche risolvere un problema linguistico. Il più grande numero per cui i Greci avevano un nome era la “miriade”, pari a 10.000, e per nominare il risultato del calcolo precedente avrebbero dunque dovuto ripetere «una miriade di miriadi di miriadi…» per sedici volte di fila. Archimede inventò invece un sistema di numerazione bidimensionale basato su “cicli” orizzontali e “ordini” verticali, che raggiungeva in pochi passi il numero dei granelli di sabbia, e proseguiva permettendo di nominare tutti i numeri usati dai matematici fino agli inizi del Novecenfulvo to. Sistemate le spiagge della Sicilia e del mondo, Archimede poté rivolgere la sua attenzione alle mandrie del Sole. E lo fece perché l’aritmetica proposta da Omero era infantile e arrivava a un misero numero di 700 capi, indegno sia della grandezza dell’Olimpo che dell’interesse di un matematico. Egli si indirizzò al collega Eratostene, passato alla storia per aver valutato il raggio terrestre in circa 6.300 chilometri. E in un poema di 44 versi intitolato Il problema dei buoi lo sfidò scrivendo: «Amico, tu che possiedi molta scienza, calcola il numero delle mandrie del Sole che pascolavano un giorno sulle pianure della Trinacria, distribuite in quattro gruppi di diverso colore: bianco latte, nero brillante, dorato e screziato». Archimede passò poi a enumerare condizioni sulla composizione delle mandrie, ben più complicate di quelle di Omero. Ad esempio, i tori bianchi erano la metà aumentata di un terzo di quelli neri, più tutti i fulvi. E analoghe condizioni, sette in tutto, legavano fra loro gli altri gruppi di tori, così come quelli analoghi delle vacche. Fin qui il problema portava a un risultato di una cinquantina di milioni di capi. Ma Archimede aggiunse che chi l’avesse risolto «non era comunque ancora un sapiente». Egli aggiunse allora due condizioni, equivalenti a dire che la somma dei tori bianchi e neri doveva essere un numero quadrato, come 4, 9, 16, eccetera. E la somma dei tori fulvi e screziati un numero triangolare, come 3, 6, 10, eccetera. Il che cambiava la musica, o la poesia, e rendeva il tutto terribilmente complicato.
Solo nel 1880 due matematici tedeschi, Krumbiegel e Amthor, risolsero il problema, scoprendo che la minima soluzione è pari a circa 10 alla 200.000: un numero enorme con circa 200.000 cifre, rispetto al quale i numeri dei granelli di sabbia che riempirebbero l’universo non sono che pulci sul monte Everest. Naturalmente, l’interesse di Archimede non era per piccole cose concrete, come la sabbia o le mandrie, degne ispirazioni per il poeta che percepisce il mondo con i sensi. Era piuttosto per enormi numeri astratti, come 10 alla 63 o 10 alla 200.000, che attirano l’occhio della mente con il quale guarda il matematico. Un occhio che gli permette di vedere molto più lontano non solo degli eroi, ma anche degli dèi omerici e di qualunque altro Olimpo.

Repubblica 20.2.15
Diamoci una scossa
Basta una piccola stimolazione elettrica sul cervello per aumentare la memoria, ridurre la stanchezza, sollecitare la creatività. O combattere la depressione
Gli scienziati lo sanno da anni ma ora anche su Internet spuntano apparecchi per “eccitare” i neuroni
di Elena Dusi


IMPARARE A FARE I CONTI, allontanare la fatica, aumentare la memoria, migliorare l’umore, stimolare la creatività. I primi a notare l’effetto “doping” di una piccola stimolazione elettrica al cervello sono stati i ricercatori in laboratorio, quasi come una curiosità. I militari non hanno impiegato molto a coglierne l’aspetto rivoluzionario. Oggi l’americana Darpa (Defence advanced research projects agency) conduce esperimenti sui piloti di droni sottoposti a turni massacranti: una serie ripetuta di lievi scosse elettriche mantiene alta la soglia di attenzione anche dopo una nottata davanti allo schermo alla ricerca di obiettivi nemici da colpire. Ultimi in ordine di tempo, non potevano mancare i venditori su Internet. Un casco dotato di elettrodi può essere acquistato in rete a circa 300 euro, oppure assemblato in casa seguendo le istruzioni offerte dal web. Una piccola scossa tra le tempie, e si può conquistare — a seconda dello slogan proposto — la felicità, un voto alto a scuola o il record ai videogiochi.
La stimolazione transcranica non ha nulla a che vedere con l’elettroshock: le correnti generate sono debolissime, pressoché impercettibili. «Un apparecchio che produce un campo magnetico viene avvicinato alla testa» spie- ga Carlo Miniussi dell’università di Brescia, uno dei pionieri di questo tipo di ricerca in Italia. «Il campo magnetico attraversa indisturbato il cranio e induce una piccola corrente elettrica al livello della corteccia cerebrale, fino a un paio di centimetri di profondità. Lo stimolo dura meno di un millisecondo, ma quando viene ripetuto può cambiare l’eccitabilità dei neuroni, che vengono potenziati insieme ai circuiti che ne fanno parte. Sono più pronti a rispondere e in alcuni casi migliorano le loro performance».
La sensazione è quella di un piccolo martello che batte lievemente sulla testa, unita ai “clic” prodotti dall’apparecchio. A seconda dell’area della testa cui viene applicato, il campo magnetico influenza aree diverse del cervello e può produrre gli effetti più vari. Le prime applicazioni riguardavano la corteccia motoria e influenzavano la capacità di muovere mani e piedi. Quando, dagli anni ‘90, si è osservato che la stimolazione magnetica transcranica è efficace anche contro la depressione, i campi di applicazione sono letteralmente esplosi. Da allora questo metodo è stato usato per tutto o quasi: dimagrire, smettere di fumare, migliorare l’umore, dormire, migliorare la memoria, la destrezza delle mani, l’uso di un joystick. Fino al famoso esperimento dell’università di Oxford nel maggio 2013, pubblicato su Current Biology , in cui i volontari sottoposti alla stimolazione migliorarono sorprendentemente la loro capa- cità di fare i conti. L’effetto positivo durò per almeno sei mesi.
Oggi, nell’ultima applicazione pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences dall’università di Auckland, una piccola corrente all’altezza delle tempie ha aumentato la capacità del cervello di divagare, con effetti positivi sulla creatività e sulla capacità di pianificare il futuro. Nel tentativo di migliorare la memoria spaziale, in un’applicazione precedente, dei volontari-tassisti all’interno di un videogame dovevano imparare a muoversi in una città sconosciuta. E riuscivano a farlo in maniera molto più rapida con l’aiuto della stimolazione. Al Massachusetts Institute of Technology, un’altra delle università intrigate dal nuovo campo di studi, hanno notato che perfino i giudizi morali dei volontari vengono alterati dal trattamento: dopo la stimolazione gli individui erano meno severi nel giudicare alcuni casi di violenza. Questo studio, insieme a un esperimento simile in cui i volontari mutavano il loro gusto estetico nei confronti di un gruppo di volti fotografati, hanno sollevato il dubbio che la stimolazione sia in grado di alterare le basi profonde della nostra personalità. Dopo la stimolazione, ha confermato un altro test, gli individui erano meno propensi a dividere una somma di denaro con gli altri partecipanti.
Alla ricerca di uno strumento per “dare più cavalli” al cervello, gli scienziati negli ultimi anni si sono sbizzarriti. Se le “smart pills” nate per combattere malattie neurologiche come l’Alzheimer e approdate poi in scuole e università spaventano per i loro effetti collaterali, le mini-scosse hanno le carte in regola per proporsi come il doping del cervello del futuro. Se un apparecchio per la stimolazione adatto alla ricerca può costare tra i 30 e i 50mila euro, i suoi fratelli “poveri” si sono diffusi a costi 10mila volte più bassi. Anziché produrre campi magnetici, si appoggiano sulla testa e generano direttamente la scossa elettrica sul cranio: uno o due milliampere (un millesimo rispetto alla corrente dell’elettroshock) per una ventina di minuti.
All’Air Force Research laboratory di New Carlisle, nell’Ohio, la stimolazione di due milliampere per 30 minuti, applicata al personale militare costretto a lavorare per un turno di 30 ore di seguito, è stata giudicata “di efficacia almeno doppia rispetto alla caffeina” e “capace di durare per diverse ore”. Autore di uno studio per Science sul miglioramento della memoria, il neuroscienziato della Northwestern University Joel Voss lo scorso agosto non ha nascosto tutto il suo entusiasmo per questo metodo: «Abbiamo dimostrato per la prima volta di poter influire sulla memoria senza chirurgia né farmaci. Questa stimolazione non è invasiva e migliora la capacità di imparare nuove nozioni. Le regioni del cervello toccate cooperano meglio dopo il trattamento. È come se avessimo sostituito un normale direttore d’orchestra con Riccardo Muti».
«Credo che questa tecnica sia utile nella riabilitazione motoria, per recuperare una parte del linguaggio nei casi gravi di afasia o contro la depressione» spiega più pacatamente Miniussi. «Per quanto riguarda i videogiochi, ho i miei dubbi che la stimolazione magnetica funzioni. Probabilmente ha la stessa efficacia di un caffè o di una bella corsa». Gli effetti collaterali, che pure non mancano, riguardano la possibilità di convulsioni e un cambiamento incontrollato dell’umore. L’autorità americana che regola farmaci e presidi medici (la Food and Drug Administration) ha dato il via libera a questo metodo solo per la cura della depressione. In Italia la tecnica viene offerta da alcune case di cura o studi medici. «A chi sostiene che usiamo solo una piccola frazione del nostro cervello — conclude Miniussi — rispondo che non è affatto vero. Sono convinto che già lo usiamo al 100 per cento: potenziando una delle sue funzioni rischiamo di compromettere le altre ».

Repubblica 20.2.15
Ma per diventare più intelligenti non c’è una ricetta miracolosa
di Paolo Legrenzi


GLI psicologi sperimentali studiano il cervello e le sue funzioni come se si trattasse di un pezzo della natura. Però la maggioranza delle persone si aspetta da questi studi qualcosa di più di una semplice descrizione di come funziona il sistema mente/cervello. Le persone sperano di poter cambiare il nostro mondo “interno”, così come la fisica e la chimica trasformano con le tecnologie il mondo “esterno”. Nel caso della psicologia, le speranze sono di due tipi. La prima speranza è ridurre il disagio mentale di chi soffre, la seconda potenziare le capacità mentali di chi non soffre. Finora i risultati sono stati più confortanti sul primo di questi due versanti. Ridurre la sofferenza è qualcosa che avvicina la psicologia alla medicina e, grazie agli psicofarmaci, si può farlo anche agendo direttamente sul corpo. Gli psicologi, per lo più, lo fanno indirettamente, cioè scambiando parole in modo da modificare lo stato d’animo dei pazienti. Entrambi i metodi sono efficaci. Ma quanto? L’efficacia in questo campo si ricava dal livello di soddisfazione di chi si sottopone alla cura. Se una persona è convinta che la cura funzioni, è probabile che la cura sia efficace. Le terapie psicologiche tendono ad auto-avverarsi, ed è una fortuna che le cose stiano così. Per il benessere mentale non esiste un metro di misura intersoggettivo. Quando abbiamo cercato di quantificare gli stati d’animo, abbiamo scoperto che la misura dipende dalle circostanze e da una miriade di fattori contingenti.
Le cose stanno in modo diverso quando si tratta di potenziare le capacità mentali di una persona sana. Qui le misure oggettive sono più facili. Tant’è vero che si sono affermati metodi di potenziamento indiretto. Siamo riusciti a inventare e costruire delle macchine, i computer, che ci aiutano a fare molte operazioni aumentando in modi precisi e obiettivi le nostre capacità di memoria, di calcolo, di ragionamento e di immaginazione. E tuttavia non abbiamo mai rinunciato alla speranza di potenziare le nostre funzioni mentali agendo direttamente sul cervello e non servendosi di protesi mentali.
Poniamo che il cervello funzioni come il motore di un’automobile. Potremmo supporre che l’uso di un carburante più potente riesca a far aumentare le prestazioni nel loro complesso. Recentemente Nadia Bolognini e Giuseppe Vallar, due studiosi dell’Università di Milano-Bicocca, hanno pubblicato sulla prestigiosa rivista “Brain” risultati che mostrano come siano sufficienti dieci minuti di leggera stimolazione elettrica della parte posteriore dell’emisfero cerebrale sinistro per recuperare circa un quinto delle capacità motorie perse in seguito a un ictus. Ancora una volta si tratta di una cura riabilitativa. E il potenziamento di un cervello sano? Le ricerche psicologiche ci insegnano che la mente umana funziona in modo molto specializzato. Se vogliamo migliorarla, dobbiamo lavorare su un pezzo alla volta: il carburatore, l’impianto elettrico, la trasmissione, e così via. Fuor di metafora, se impariamo a fare bene le parole incrociate, non impariamo a ragionare meglio in generale, ma semplicemente a fare in modo più efficiente quel gioco. Per questo motivo i programmi di allenamento della mente basati su videogiochi servono semplicemente a perfezionarci nell’esecuzione di uno specifico videogioco e non ad allenare la mente nel suo complesso, a fare cioè in modo che si pensi meglio. Gli psicologi spiegano che non c’è transfer: ogni capacità deve essere perfezionata come se fosse un pezzo del motore indipendente dagli altri. Per ora, almeno, non abbiamo trovato un carburante miracoloso.

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