domenica 22 febbraio 2015

il Fatto 22.2.15
Italicum e Senato
Zagrebelsky: “Riforme, democrazia in pericolo”
di Andrea Giambartolomei


Torino Il potere accentrato nelle mani di una persona, con un parlamento indebolito e i cittadini senza rappresentanza. Sette giorni dopo la nottata di discussione sul Ddl sulle riforme costituzionali, Libertà e giustizia e Anpi lanciano un nuovo allarme per salvare i diritti degli elettori. Lo hanno fatto ieri pomeriggio a Torino in un incontro intitolato, “Legge elettorale e riforma del Senato: era (ed è) una questione democratica”, con Sandra Bonsanti (presidente di Libertà e Giustizia), Antonio Caputo (difensore civico della Regione Piemonte), Carlo Smuraglia (a capo dell’Anpi) e Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale. Le associazioni sono pronte a lanciare una campagna: “Noi vigileremo il secondo passaggio della riforma costituzionale”, ha affermato la Bonsanti, mentre per il professore torinese “c’è bisogno che la società civile si riprenda il suo ruolo, società civile che non è quella dei salotti romani frequentati dai politici, ma quella degli imprenditori disposti a dare denaro e tempo per imprese sociali, individui, associazioni e gruppi politici”. Tutti i partecipanti sono rimasti impressionati dall’immagine dell’aula di Montecitorio quasi vuota durante la discussione della riforma: “Le responsabilità stanno certamente in quelli che hanno deciso di uscire dall’aula - sostiene il costituzionalista -, ma soprattutto la responsabilità è della maggioranza che deve garantire un contesto deliberativo in cui ci sia posto per tutti”.
C’È UN ALTRO ASPETTO paradossale che ha marcato il professore: “Si sta discutendo la riforma della Carta in un parlamento che la Corte costituzionale ha giudicato incostituzionale”. Queste modifiche vengono fatte senza valutare le voci critiche: “Le considerazioni che vengono da parti come le nostre vengono completamente ignorate o demonizzate”. Nessuno disturbi il manovratore. “La democrazia deliberativa è fatta di discussioni ed è un processo in cui si mettono insieme idee, contributi e proposte. È un’idea diversa da quella per cui chi vince deve agire indisturbato”. Concorda con questa lettura di Zagrebelsky il difensore civico Caputo. Secondo lui cambiare il Senato, facendolo eleggere dai consiglieri regionali e dandogli meno poteri, “aumenta la sfiducia i cittadini nei confronti delle istituzioni”. Sfidare il governo sul tema delle riforme costituzionali però non sarà facile. Il presidente dell’Anpi Smuraglia lo sa: “Abbiamo pensato di entrare sul tema a gamba tesa. Sarà difficile perché per molti cittadini sono cose lontane”.
EPPURE LE GRAVITÀ segnalate da Smuraglia sono tante, non solo su Italicum e riforma del Senato. “Sono arrivati alla Camera e al Senato due riforme su cui il governo ha messo la fiducia, sebbene si vanti di avere un’ampia maggioranza. In questo modo cadono gli emendamenti e la discussione”. In un anno di vita dell’esecutivo si è arrivati a 34 voti di fiducia. “C’è un ricatto”, afferma, e questo ricatto si ripropone ogni volta che viene paventato lo spauracchio dello scioglimento anticipato del parlamento. Un altro elemento sottolineato da Smuraglia riguarda il Jobs Act: “Questa è una legge delega quasi in bianco, fatta in modo che - in mancanza di criteri precisi - il governo possa fare quello che vuole”. Il governo non ha neanche preso in considerazione due pareri conformi di Camera e Senato contro i licenziamenti collettivi, pareri ai quali dovrebbe attenersi: “Il governo non ne ha tenuto conto. Anche questo è un modo per far diventare il parlamento inutile”. Così come diventano inutili i pareri di partiti svuotati e sindacati disprezzati dall’esecutivo. Secondo la Bonsanti c’è un percorso tracciato: “Quanto abbiamo detto qui porta a pensare che ci sia un movimento che porta verso una persona sola - riepiloga prima di fare una domanda a Zagrebelsky -. È possibile che il governo stia preparando una riforma delle istituzionali che possano cadere nelle mani di una persona con obiettivi meno democratici?”. “Il rischio c’è”, risponde lui.

il Fatto 22.2.15
Il segretario Fiom Maurizio Landini
“Cambia un’epoca, è ora di sfidare Matteo”
di Salvatore Cannavò


È cambiato tutto, siamo alla fine di un’epoca. È venuto il momento di sfidare democraticamente Renzi”. Le parole di Maurizio Landini, il giorno dopo il varo del Jobs Act, sono molto chiare. Qualcosa sta per avvenire a sinistra e soprattutto nel rapporto tra il sindacato e la rappresentanza politica. Perché il segretario della Fiom ritiene che un limite storico sia stato valicato e ora occorra costruire una risposta adeguata.
Siamo dunque a un cambio d’epoca?
Non c’è dubbio. Non solo Renzi applica tutto quello che gli ha chiesto Confindustria, ma afferma il principio che pur di lavorare si debba accettare qualsiasi condizione. Non c’è più il concetto che il lavoro è un diritto e la persona deve avere tutti i diritti di cittadinanza. Inoltre, viene messo in discussione un diritto fondamentale: quello di potersi coalizzare e agire collettivamente per contrattare la prestazione lavorativa.
Lei vede in atto lo smantellamento dello Statuto dei lavoratori?
Siamo a uno scardinamento sostanziale. Lo Statuto non solo tutelava le singole persone ma riconosceva la contrattazione collettiva e quindi la mediazione sociale come uno dei pilastri delle relazioni sindacali. Oggi questa logica viene messa in discussione. Non a caso Confindustria rilancia chiedendo di realizzare quanto fatto alla Fiat, oggi Fca: cancellare il contratto nazionale. E infatti alla Fca il salario minimo è più basso di quello nazionale.
Renzi, però, sostiene che la sua legge rottamerà la precarietà.
È una grossa bugia, perché il nuovo contratto non è a tutele progressive. Se si pensa che ogni anno circa il 9% dei lavoratori cambia lavoro, si capisce che nel giro di poco tempo la tutela contro il licenziamento illegittimo non esistera più.
Eppure, si dice, sono stati aboliti i contratti precari.
Le forme fondamentali sono rimaste tutte, così come non sono state riviste le partite Iva. E gli ammortizzatori sociali non vengono realmente estesi. La cassa integrazione non lo è e la Naspi, che copre solo chi ha lavorato, sostituisce anche la mobilità. Solo che questa durava fino a tre anni mentre quella sarà portata a 18 mesi. Il demansionamento colpisce il lavoro così come eliminare il reintegro anche nei licenziamenti collettivi rappresenta un regalo alle imprese in un periodo in cui, nonostante si parli molto di ripresa, la crisi non è finita.
Sembra che non stia parlando di un governo di sinistra.
Renzi dice di essere il nuovo, ma non siamo di fronte alle idee geniali di un giovane rampante. Si tratta, invece, delle direttive impartite dalla Bce con la famosa lettera del 2011 e che il governo sta applicando fedelmente. Bisogna aver chiaro quello che sta succedendo.
Su questo terreno la Cgil si è mobilitata e, visto che parliamo di temi europei, abbiamo visto la vittoria di Tsipras in Grecia. Le risposte, finora, non sono state efficaci.
La situazione è complicata e difficile, questo è sotto gli occhi di tutti. Credo che ci sia bisogno di un coinvolgimento straordinario di tutti anche fuori dai luoghi di lavoro e una grande consapevolezza di quello che sta avvenendo. Non era mai avvenuto nella storia d’Italia che con leggi si cancellasse il diritto del lavoro. Cambiano radicalmente i rapporti di forza e le relazioni sindacali.
Serve dunque una risposta politica?
Occorre avere consapevolezza della situazione. Noi abbiamo innanzitutto bisogno di riconquistare un vero Statuto dei lavoratori di tutti, davvero tutti, i lavoratori. Per questo la Cgil ha avviato una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare senza escludere la possibilità di un referendum.
Si farà?
Io penso di sì. Il direttivo ha indicato un percorso scegliendo una consultazione di tutti gli iscritti, che sono oltre 5 milioni. Ma la definizione del nuovo Statuto è un percorso che deve coinvolgere anche i non iscritti, perché parliamo della dignità delle persone. Renzi ha preso il programma di Confindustria e lo sta applicando senza che nessun italiano abbia potuto votarlo. Ma su questi temi non ha il consenso della maggioranza della popolazione. Vorrei sfidare Renzi a una verifica democratica.
Sta dicendo che è pronto a una sfida politica?
Il problema è che la maggior parte del Paese, quella che per vivere deve lavorare, non è rappresentata. C’è un fatto nuovo nel rapporto tra politica e organizzazione sindacale.
Sta quindi pensando a un partito?
No, sarebbe una semplificazione.
A cosa, allora?
Occorre la rappresentanza di quegli interessi. Apriamo questa discussione esplicitamente. Per quello che riguarda la Fiom dobbiamo rivolgerci a tutto ciò che è rappresentanza sociale, non solo i lavoratori. C’è tutto un mondo che si deve porre il problema di come affrontare questo nuovo quadro.
È l’idea della coalizione sociale?
Sì. È un tema che come Fiom abbiamo già posto a settembre nella nostra assemblea dei delegati. Il sindacato si deve porre il problema di una coalizione sociale più larga e aprirsi a una rappresentanza anche politica. Quando un Parlamento cancella lo Statuto dei lavoratori con un colpo di spugna a essere rappresentato è solo l’interesse di uno, del più forte.
La sfida democratica a Renzi passa anche da qui?
Penso assolutamente di sì.

Repubblica 22.2.15
Susanna Camusso
“Firmiamo per un nuovo statuto dei lavoratori il governo cancella i diritti e non crea posti”
La leader della Cgil lancia la campagna per una legge di iniziativa popolare che ripristini l’articolo 18 con reintegro in caso di licenziamento illegittimo. “Coinvolgeremo il maggior numero di persone”
di Roberto Mania


ROMA La sfida della Cgil al governo Renzi si chiama Nuovo Statuto dei lavoratori. «Si deve fare ogni sforzo — dice Susanna Camusso, segretario generale del sindacato più grande d’Italia — per ricostruire un diritto del lavoro dopo i danni determinati dalle scelte del governo. Vanno affermati diritti universali di tutti coloro che lavorano indipendentemente dal contratto».
È quel che dice il senatore del centrodestra Maurizio Sacconi secondo cui lo Statuto dei lavoratori è caduto ora va scritto uno Statuto dei lavori?
«No, assolutamente no. Il problema non sono i lavori — come sostiene il vero autore delle politiche del governo sul lavoro — il problema sono i diritti di coloro che lavorano. Nel decreto del governo non c’è alcuna estensione dei diritti e delle tutele. Non cambierà nulla ed è l’ennesima dimostrazione del baratro che c’è tra gli annunci e la realtà».
Parleremo del Nuovo Statuto. Renzi, intanto, ha detto che quella di venerdì è stata una “giornata storica” con l’abolizione dell’articolo 18 e la cancellazione delle false collaborazioni. Lei condivide?
«Ahimè sì. È stata una giornata molto negativa per le decisioni prese, per la filosofia che si è affermata, per il rapporto che si è stabilito con il Parlamento. Per i diritti, per i lavoratori, per i giovani è una giornata da segnare in nero, mi auguro che sarà al più presto cancellata».
Eppure, nel decreto c’è scritto che “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. Non è la richiesta della Cgil?
«Certo, ma quello che hanno realizzato non è un contratto a tempo indeterminato. Per noi il rapporto di lavoro porta in sé le tutele e il riconoscimento delle libertà dei lavoratori. La monetizzazione crescente non è un rapporto di lavoro nel quale si realizza la libertà del lavoratore. C’è piuttosto lo stato di perenne condizionamento, la costituzione di uno stato servile e non paritario».
Lei parla di uno stato “servile” del lavoratore perché è stato abolito il diritto al reintegro. Ma l’articolo 18 si applicava e si applica ai lavoratori già assunti solo nelle aziende con più di quindici dipendenti. Tutti gli altri sarebbero già oggi in condizioni di servilismo?
«La questione, come abbiamo sempre detto e come ha sempre affermato la giurisprudenza, è l’effetto deterrente che l’articolo 18 dispiegava: non mi puoi licenziare ingiustamente perché mi posso difendere. Ora, con la stessa filosofia della soglia del 3 per cento sull’evasione fiscale, si stabilisce che è accettabile un comportamento anche se illegittimo. Questa sì è davvero una rivoluzione o meglio una contro-rivoluzione. Ed è contro i soggetti più deboli».
La tesi del governo è che il superamento dell’articolo 18 toglie ogni alibi alle imprese e dunque offre più opportunità di lavoro ai giovani. Non vale la pena accettare meno diritti e più lavoro?
«Ci sarebbero più opportunità di lavoro se qualcuno si occupasse di creare lavoro. È che nessuno lo fa. Rimane sempre lo stesso bacino di tre milioni di disoccupati e del 40 per cento di giovani senza lavoro. Se solo si sbloccasse quella follia della legge sull’età pensionabile si determinerebbero 400 mila assunzioni senza bisogno di falcidiare i diritti, demansionare i lavoratori e creare precariato mascherato. Renzi sbandiera il vessillo del primato della politica e poi delega tutto alle imprese».
E se fosse vero che con il decreto 200 mila finti collaboratori saranno assunti, come ha detto Renzi, con un contratto a tempo indeterminato?
«Ecco: questo è il tipico modo di costruire una notizia. Tutti danno per scontato questa operazione ma nessuno andrà a verificare cosa, come e se si realizzerà. Ad esempio, dove sono i vincoli che permettono a un giovane collaboratore di chiedere la trasformazione del suo contratto? Non c’è niente. E in più tutti i contratti precari escono indenni dal decreto».
La Cgil proclamerà un nuovo sciopero generale?
«Continueremo la mobilitazione, con tutte le forme necessarie. Le ho detto: va ricostruito un diritto del lavoro. Dobbiamo mettere in campo una campagna che parli a tutto il Paese».
Per difendere il vecchio Statuto del 1970?
«A parte che, per fortuna, non è stato ancora del tutto smantellato, pensiamo che ci voglia una legge universale che riconosca a tutti gli stessi diritti perché non è vero che per riconoscere la modernità si debbano cancellare i diritti. Raccoglieremo le firme su questo per una legge di iniziativa popolare» Quando sarà pronta?
«Ci stiamo lavorando e coinvolgeremo il maggior numero di lavoratori, persone, associazioni, studiosi possibile».
Pensate anche di raccogliere le firme per un referendum abrogativo del Jobs Act?
«Non abbiamo escluso nulla. Valuteremo tutto ciò che è utile a sostenere la nostra proposta di legge».
Ma se la riforma dovesse funzionare non sarebbe una bella notizia anche per voi?
«Mi chiede se saremmo contenti di una ripresa dell’occupazione? Ne saremmo entusiasti. Vorrebbe dire che l’Italia, con il lavoro di tanti, è uscita dalla crisi. La realtà è però un’altra. Se la Fiat decide di assumere a Melfi lo fa non perché i diritti dell’articolo 18 sono stati cancellati ma perché, cambiando strategia, ha scelto di produrre un nuovo modello in Basilicata. La realtà dice anche che a maggio scadrà la cassa integrazione in deroga. Quelle persone saranno licenziate?».

il manifesto 22.2.15
Un premier che marcia spedito verso l’800
di Michele Prospero

qui

il Fatto 22.2.15
Renzi, la grande truffa della fine del precariato
L’addio ai “Co.Co.Pro” rischia di rivelarsi solo una bufala: molte deroghe, nessun obbligo di stabilizzare i contratti e un bel problema di costi
di Sal. Can.


L’ottimismo di Matteo Renzi è quello di un illusionista. Il “giorno atteso da un’intera generazione”, modo con cui il premier ha salutato il varo del Jobs Act, potrebbe essere solo un giorno come tanti vista la scarsa efficacia delle norme approvate venerdì scorso dal Consiglio dei ministri. La “rottamazione” dei Cocopro, la sintesi mediatica del provvedimento, potrebbe essere una parola vuota con scarsi se non nulli effetti sulla precarietà del lavoro. E anche la stima di “200 mila lavoratori che passeranno da contratti precari alla stabilità” rischia di trasformarsi in un mito. Se non in una bufala.
La generazione legata al tempo determinato
Appare anche molto forzata la pretesa del ministro Giuliano Poletti di aver introdotto l’assunzione a tempo indeterminato come la forma “normale” dei rapporti di lavoro. Questa idea aveva animato anche la ministra Elsa Fornero che per prima aveva cercato di rimettere mano alle decine di tipologie che regolano i contratti di lavoro. La sua legge del 2012, infatti, stabilisce, come il Jobs Act varato l’altro ieri, che il rapporto subordinato a tempo indeterminato è la forma “comune”. Ma scrivere questo auspicio sulla carta di un testo di legge non basta.
La precarietà del lavoro, infatti, non è questione legata principalmente ai contratti a progetto o ai famigerati co.co.co. Gli iscritti alla Gestione separata dell’Inps, ad esempio, superano il milione; ci sono le partite Iva e Poletti si è ben guardato dal cancellare altre forme di lavoro come quello intermittente, quello accessorio, l’apprendistato, etc.
A essere fondamentali, però, sono i contratti a tempo determinato: 2,3 milioni contro le 500 mila collaborazioni circa. Se si prende il numero dei contratti attivati nel terzo trimestre del 2014, a fronte di 1.728.662 contratti a tempo determinato, il 69,8% del totale, sono state attivate 155 mila collaborazioni, il 6,2%.
I dati, inoltre, indicano che la durata media dei contratti a tempo si è accorciata, specialmente nel periodo di crisi.
Il numero delle esenzioni e i vincoli inesistenti
Renzi promette ora che i co.co.pro. si tradurranno in rapporti di lavoro stabili grazie al nuovo contratto a tutele crescenti. Leggendo il testo, però, si capisce quanto la cosa sia difficile.
L’articolo 47, con il quale si stabilisce la “riconduzione al lavoro subordinato” stabilisce che “a far data dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Il primo ostacolo è dato dalle deroghe previste dal comma 2: non rientreranno in quella ipotesi, infatti, le collaborazioni disciplinate dai contratti collettivi nazionali come ad esempio il settore dei call center (circa 80 mila addetti per lo più a progetto).
Restano fuori dal lavoro subordinato anche le collaborazioni relative all’obbligo di iscrizione ad appositi albi: ad esempio i giornalisti, dove ci sono circa 20 mila situazioni di questo tipo. Fuori anche gli amministratori di società e i sindaci di controllo che, complessivamente, ammontano a oltre 500 mila unità (per lo più partite Iva o altre figure).
Infine, oltre alle prestazioni di lavoro in favore di associazioni sportive dilettantistiche, sono fuori anche i circa 50 mila collaboratori della Pubblica amministrazione.
Una fetta cospicua dei collaboratori, dunque, non rientra nella nuova disciplina e si vedrà applicato ancora il contratto di collaborazione. In secondo luogo, la legge non prevede alcun vincolo al passaggio limitandosi ad affermare che a gennaio 2016 “si applica” la disciplina.
La sanatoria per le imprese, e il basso reddito dei cocopro
Nulla si dice sui contratti che saranno cessati nel corso del 2015 tranne prevedere una bella sanatoria per quelle aziende che attiveranno un rapporto subordinato e potranno, così, cancellare tutte le “possibili pretese” dei lavoratori. Che il passaggio da contratto a progetto a lavoro subordinato non sia così automatico è dimostrabile anche con altri due dati. Il primo: anche la legge Fornero, irrigidendo la normativa, si proponeva di farne emergere la natura di rapporto subordinato. Il risultato è stato che nel 2013 il numero dei contratti a progetto si è ridotto di 150 mila unità senza nessun beneficio per i rapporti a tempo indeterminato.
Il secondo dato è più sottile ma molto rilevante: secondo l’Osservatorio dei lavori, infatti, il reddito medio dei co.co.pro. è di 10 mila euro l’anno. Una cifra che corrisponde, quando va bene, a un normale contratto di lavoro a tempo parziale. Come è possibile pensare che questi importi possano dare vita a lavori stabili? Abolendo il contratto a progetto, in realtà, a crescere, come già avvenuto negli ultimi anni, sarà il contratto a tempo determinato. Non è un caso che tra il 2011 e il 2014, confrontando le attivazioni trimestre su trimestre, la crescita sia stata del 15%. Ma potranno crescere anche le partite Iva, false o vere che siano, e per le quali il decreto appena inviato alle Camera non prevede alcuna definizione.
Quello che sposta il ragionamento a favore di Renzi è che il contratto a tempo indeterminato, per i prossimi tre anni, godrà di una decontribuzione che può arrivare fino a 8.600 euro per ogni lavoratore. Una bella occasione per le imprese che, dove possibile, ne approfitteranno senz’altro. Ma quando i soldi pubblici saranno finiti, i nodi verranno al pettine.

il Fatto 22.2.15
“Pro-business”
Il premier di lobby e di governo: un anno favore dopo favore
di Marco Palombi


I tassisti. A leggere i giornali di ieri sono loro la lobby più potente del paese: il governo, infatti, ha rinunciato a inserire nel ddl sulla Concorrenza un articolo che regolamentasse i servizi di trasporto privato alternativi come Uber e Ncc. Hanno vinto, allora, ma hanno pure perso questi tassisti: la guerriglia senza regole per la conquista dei clienti continuerà esattamente come ora, in attesa di pronuncia giurisprudenziale definitiva.
POI CI SONO i farmacisti. Pare, a leggere quotidiani autorevoli editi da grandi imprese, che hanno vinto pure i farmacisti, anche se a metà: hanno evitato per l’ennesima volta che i farmaci di fascia C sottoposti a obbligo di ricetta possano essere venduti nelle parafarmacie. Solo che c’è scritto anche altro nella legge detta sulla Concorrenza: al contrario di quanto è previsto oggi, anche chi non è iscritto all’ordine dei farmacisti - se il ddl sarà approvato senza modifiche - potrà aprire una farmacia. Articolo che sembra aprire il mercato della vendita dei medicinali soprattutto alla lobby delle imprese farmaceutiche: chi meglio di loro potrebbe realizzare economie di scala e strozzare i piccoli con sconti mirati? Anche al netto degli obblighi deontologici che i farmacisti hanno e le società di capitale no, come può questa essere una legge pro-concorrenza?
Perdono invece i notai - perché aumentano di numero e il loro intervento non sarà più richiesto per alcune transazioni sotto i 100mila euro - e perdono pure avvocati e liberi professionisti: anche loro dovranno aprirsi alla presenza dei soci di capitale. Sconfitte anche le Poste, a cui viene sottratto il monopolio sulla consegna degli atti giudiziari. Sempre a stare ai giornali di ieri perdono pure le compagnie telefoniche: viene infatti semplificata la procedura per disdire i contratti. Anche qui, però, nel ddl Concorrenza c’è scritto anche altro: “L’eventuale penale deve essere equa e proporzionata al valore del contratto e alla durata residua della promozione offerta”. Spiega Altroconsumo: Renzi reintroduce il concetto di “penale” cancellato da Bersani, che lo aveva sostituito con i “costi di uscita”, quelli sostenuti dall’azienda per gestire la disdetta. Però hanno perso, dicono. Del trionfo della potente lobby delle assicurazioni vi abbiamo raccontato ieri: checché ne dica la stampa italiana, le norme in materia di Rc Auto del governo sono esattamente quelle chieste daAnia. Giustounpromemoria: solo tre gruppi - Unipol/Fonsai, Allianz e Generali - si dividono i due terzi del mercato italiano dell’assicurazione per l’auto.
IL DISEGNO di legge approvato venerdì è però solo l’ultimo atto legislativo che realizza quella che è la vera linea politica di palazzo Chigi. Gli interessi del Paese - per la squadra del premier - sembrano coincidere con quelli delle grandi aziende, una tendenza che s’è andata accentuando col passare dei mesi. Prendiamo il caso più clamoroso, quella della legge delega sul lavoro - il Jobs Act - che, presentata ad aprile, fu ridisegnata a settembre e ottobre con emendamenti copiati alla lettera da Proposte per il mercato del lavoro e della contrattazione, documento pubblicato da Confindustria a maggio. È lì che si trovano l’abolizione dell’articolo 18, i demansionamenti, l’abolizione del divieto dei controlli a distanza, etc. Anche gli interventi sul cuneo fiscale si sono spostati nei mesi sempre più verso i desiderata della grande impresa: dagli 80 euro di aprile - poi non estesi a incapienti e pensionati come promesso - si è arrivati al taglio dell’Irap sulla componente lavoro (scritta in modo da privilegiare le aziende con più addetti) e alla detassazione delle nuove assunzioni. Le banche, stangate inizialmente per pagare il bonus Irpef, hanno incassato la garanzia statale sulle operazioni in derivati e aspettano a breve la bad bank per i crediti in sofferenza. L’emblema di questa linea politica è però il famoso decreto sull’abuso di diritto, quella della manina che sanava penalmente le frodi fiscali sotto il 3% del fatturato: di comma in comma - da Finmeccanica a Unicredit e Banca Intesa, da Menarini a Ilva - quel testo era decisamente “pro-business”, come dice Renzi, socialista europeo di nome, rotondo conservatore di fatto.

La Stampa 22.2.15
Notai, farmacisti e carrozzieri
“Sono solo finte aperture”
I consumatori: sui telefoni tornano le penali, un passo indietro
di Antonio Pitoni


Il giorno dopo il sentimento più diffuso è la delusione. In alcuni casi addirittura lo sdegno. Risultato di un giudizio negativo largamente condiviso tra categorie molto diverse tra loro. Dai consumatori agli autoriparatori, dai notai ai parafarmacisti. Nel mirino, per tutti, c’è il disegno di legge sulla concorrenza varato venerdì dal governo.
I rilievi dei notai
Di provvedimento «incoerente» con la finalità della norma parla con La Stampa Domenico Cambareri del Consiglio nazionale dei notai. «Crea disparità di trattamento tra immobili ad uso abitativo e gli altri immobili - spiega -. Apre un canale agevolato per le transazioni al di sotto dei 100mila euro, ma pensare che senza controllo notarile si abbiano uguali tutele, vuol dire dividere la popolazione in due fasce: i ricchi godranno delle garanzie, i poveri saranno a rischio». In pratica c’è un travaso di competenze dal notaio all’avvocato. Ma Per Cambareri c’è un altro pericolo legato all’importanza di garantire controlli accurati per evitare l’abuso dello strumento societario: «I notai sono la categoria più attiva sul fronte dell’antiriciclaggio. Oltre il 90% delle segnalazioni arrivano da noi».
L’ira dei parafarmacisti
Mentre Assofarm plaude al divieto di vendita dei medicinali di fascia C fuori dalle farmacie («Una scelta di buonsenso), boccia invece il ddl il presidente della Federazione parafarmacie italiane, Davide Gullotta. «Un provvedimento vergognoso, come vergognosa è stata la disinformazione fatta dal ministro Lorenzin con il suo tweet in cui parla di vittoria dei pazienti e soprattutto degli anziani - si sfoga il presidente della Fnpi con La Stampa -. Allargare anche alle parafarmacie la vendita dei medicinali di fascia C non avrebbe abolito l’obbligo di ricetta medica e in più ci sarebbe sempre un farmacista a valutarle». Poi c’è l’apertura all’ingresso dei capitali nelle farmacie. «A noi laureati che abbiamo investito di tasca nostra senza aiuto dallo Stato il governo ci impedisce di vendere una certa categoria di farmaci - conclude Gullotta -. Ma se hai i soldi o sei figlio di farmacista, anche se non sei laureato in farmacia, puoi comunque ereditarla e gestirla: una vergogna assoluta». Esclusione, quella dei farmaci di fascia C, che secondo Adusbef e Federconsumatori «non significa essere dalla parte dei cittadini, bensì degli interessi della lobby delle farmacie».
Rc, carrozzieri in rivolta
«Altro che concorrenza, il ddl del governo è un vero e proprio regalo alle assicurazioni in materia di Rc Auto», accusa Franco Mingozzi, presidente Cna Autoriparatori. «Si fa decidere a chi deve risarcire il danno quanto risarcire - spiega a La Stampa -. Le assicurazioni sceglieranno il carrozziere obbligandolo a lavorare sottocosto mettendo a rischio la qualità e la sicurezza delle riparazioni. Non mi scandalizza il comportamento delle assicurazioni, ma quello di un governo che vara un provvedimento non degno di un paese civile». Poi c’è la questione degli sconti per chi decide di installare la scatola nera nella propria vettura. Che secondo il Codacons «rischia di tramutarsi in una colossale bufala» per i cittadini. «Ogni apparecchio ha un costo annuo di circa 75 euro - spiega il presidente Carlo Rienzi -. La spesa, se a carico degli automobilisti, non solo vanificherebbe lo sconto sulle tariffe Rc Auto, ma addirittura determinerebbe rincari in quelle zone d’Italia dove le tariffe sono più basse».
Recesso e penali
Capitolo utenze. Pagheremo una penale, denuncia Altroconsumo, quando lasceremo un operatore telefonico, fisso e mobile, prima della scadenza contrattuale: «È un passo indietro. Le penali erano scomparse grazie al decreto Bersani del 2006, ora il governo Renzi le reintroduce a sorpresa».

il Fatto 22.2.15
Da Cuperlo alla Boldrini, tutti contro il premier
La minoranza Pd e lo “schiaffo” di Renzi sul Jobs Act
Ipotesi referendum
di Luca De Carolis


L’insurrezione rossa contro il jobs act. Quella prevista della minoranza dem che serra i ranghi in assemblea, perché nel Pd è sempre più guerra di correnti. E quella inattesa della presidente della Camera Laura Boldrini, che il giorno dopo la svolta renzianissima sul lavoro si mette di traverso: “I pareri negativi di Camera e Senato andavano considerati, l’uomo solo al comando proprio non mi piace”. L’attacco che non ti aspetti al (presunto) autocrate Renzi, che nei decreti attuativi sul jobs act ha ignorato l’indicazione di tutto il Pd e il parere delle commissioni lavoro delle due Camere. Gli chiedevano di lasciar fuori i licenziamenti collettivi dalla nuova normativa, ma lui ha tirato dritto, come suo costume. Male per la Boldrini, che smette la consueta cautela. Gaudio per l’alleato Alfano, che celebra il jobs act come “un traguardo storico” e rilancia: “Siamo pronti a rinnovare il patto di governo fino al 2018”. Il grande vincitore morale però è Maurizio Sacconi, che già guarda avanti: “Di fatto è caduto lo statuto dei lavoratori, dobbiamo presto arrivare al nuovo Testo unico”. Benzina per il controcanto della minoranza democratica, che ieri mattina si ritrova a Roma per l’assemblea di Sinistradem.
IL PADRONE di casa è Gianni Cuperlo, che esordisce così: “Quella di venerdì non è stata una giornata straordinaria, i lavoratori hanno perso un po’ della dignità”. Ma a battere i tamburi di guerra è Stefano Fassina: “Il governo ha dato uno schiaffo al gruppo parlamentare del Pd e ha inferto una ferita per il Parlamento. Con il jobs act si è tornati agli anni ‘50”. Il deputato apre poi all’idea della Cgil di una legge di iniziativa popolare sul tema: “È la strada giusta, il Parlamento da solo non ce la fa”. In sala c’è anche Andrea Orlando, giovane turco e soprattutto ministro della Giustizia. Con Renzi non ha mai legato, ma prova a difendere la linea: “Non sono d’accordo con Fassina, il governo affronta cose che per molto tempo sono state sotto il tappeto”. Sui licenziamenti collettivi però traballa: “Ci sono punti che se rimangono da soli squilibrano la soluzione sul jobs act”. Tanto che invoca “un’iniziativa politica per equilibrare” su ammortizzatori e tipologie contrattuali. Ma il bersaniano Alfredo D’Attore va in frontale: “Quando Renzi può procede indipendentemente dal consenso del proprio partito. Sul jobs act eravamo partiti con la cancellazione di tutte le forme di lavoro precario, e siamo arrivati con la fine della piena tutela”. Mentre Fassina lancia la parola d’ordine: “A livello parlamentare possiamo promuovere un coordinamento tra quelle persone che hanno dimostrato sul campo di volersi misurare su ciò che sta succedendo”. ovvero, si punta a una corrente organizzata delle minoranze, ripartendo dal voto sulla legge elettorale in Senato, quando in 29 tra bersaniani, civatiani e malpancisti vari sostennero gli emendamenti di Miguel Gotor contro i capilista bloccati. E proprio il bersaniano morde: “Sui licenziamenti collettivi il premier è stato subalterno a Sacconi e a Ncd, ignorando l’indicazione del suo partito. Il jobs act aumenta la libertà di licenziare ed è un errore, anche perché il lavoro non si rilancia con le leggi ma sul piano della produttività. Il Pd rischia di pagare il conto sul piano del consenso”.
A CHIUDERE è Cuperlo, che si rivolge al ministro del Lavoro Poletti: “Non siamo i tifosi del Feyenoord, non stiamo qui per sfasciare la Barcaccia. Possiamo dare una mano a fare la riforma del lavoro”. Ma in ballo c’è anche molto altro, come ricorda un bersaniano: “I renziani parlano di rinviare l’approvazione della legge elettorale da aprile a ‘entro l’estate’. Hanno un problema di numeri e devono capire cosa resta del patto del Nazareno”. La minoranza non ha fretta. Spera di compattarsi, e riflette su ipotesi dirompenti, come un referendum abrogativo del jobs act. Il renziano Andrea Marcucci è velenoso: “C’è una sinistra al governo che fa ed un’altra, molto piccola, che parla ed organizza da 20 anni straordinari convegni”. A fare rumore però sono le parole della Boldrini. In visita istituzionale nelle Marche, parte con un rimprovero istituzionale: “Sul jobs act sono stati anche dei pareri non favorevoli da parte delle commissioni di Camera e Senato e forse sarebbe stato opportuno tenerli nel dovuto conto”. Poi entra sul piano politico, mettendoci la gamba: “Credo nei ruoli intermedi, associazioni, sindacati. Dunque, l’idea di avere un uomo solo al potere, contro tutti e in barba a tutto a me non piace, non mi piace”. La critica da sinistra al premier è fragorosa. In serata, le risponde Debora Serracchiani con un’acuminata nota: “Spiace che la presidente della Camera che ricopre un ruolo terzo si pronunci così sulle riforme, sapendo che il parere delle commissioni non è vincolante. Quanto all’uomo solo al comando, il Pd è una squadra che porta avanti un lavoro di gruppo”.

La Stampa 22.2.15
Jobs Act, Boldrini e minoranza Pd contro Renzi
La presidente della Camera: «Bisognava considerare i pareri dati dalle Commissioni». Fassina: «Schiaffo ai nostri parlamentari»
Ma il governo difende il testo: effetto sul Pil

qui

La Stampa 22.2.13
“No a un uomo solo al comando”
Boldrini attacca Renzi
di Carlo Bertini


Nella giornata di pausa che si è preso ieri il premier, la telefonata di un’icona della sinistra come Tzipras che lo ha ringraziato per il ruolo svolto dall’Italia nelle trattative Ue è l’unica nota gradita rispetto a un fuoco di fila di polemiche, ad opera della minoranza Pd, dei grillini e dei sindacati. Un coro cui si è aggiunta per la prima volta Laura Boldrini: «Ci sono stati anche pareri non favorevoli da parte delle commissioni di Camera e Senato e forse sarebbe stato opportuno tenerli nel dovuto conto». Con una postilla al vetriolo. «Credo nei ruoli intermedi, associazioni, sindacati. Dunque, l’idea di avere un uomo solo al potere, contro tutti e in barba a tutto a me non piace perchè non rispetta l’idea di democrazia».
Serracchiani reagisce dura
Parole accolte con stupore e irritazione da Palazzo Chigi. Dura la replica di Debora Serracchiani: «Spiace che la Presidente della Camera che ricopre un ruolo terzo di garanzia, si pronunci in questo modo sulle riforme portate avanti dal governo, sapendo bene, che il parere delle Commissioni non è vincolante. Quanto all’uomo solo al comando, il Pd è una squadra di donne e di uomini, che portano avanti un lavoro di gruppo, uno sforzo comune, un’idea di futuro insieme».
E mentre Alfano si dice pronto a rinnovare il patto di governo fino al 2018 rivendicando quanto fatto in consiglio dei ministri come «il trionfo di Ncd», la sinistra Pd spara a zero. Cuperlo riunisce la corrente SinistraDem, con Fassina che parla di «beffa ai precari», D’Attorre di schiaffo ai gruppi parlamentari. Ma il ministro Orlando, esponente dei «giovani turchi» presente in sala, prende le distanze stizzito. «Le risorse devono essere incrementate per rafforzare strumenti che per la prima volta sono stati previsti, ma questo governo affronta cose che per molto tempo noi abbiamo messo sotto il tappeto, come la lotta al precariato». La minoranza va giù duro contro il governo che «non tenendo conto del parere delle commissioni sui licenziamenti collettivi, ha preso in giro il Parlamento, umiliando deputati e senatori».
Serafico il commento di Lorenzo Guerini: «I primi provvedimenti attuativi della delega allargano la sfera dei diritti a chi oggi ne è escluso, promuovendo condizioni favorevoli all’occupazione che ci faranno sfruttare i segnali di ripresa».

Corriere 22.2.15
Boldrini accusa il premier. È scontro
Jobs act nel mirino. La presidente della Camera: no all’uomo solo al comando, credo nei sindacati
Serracchiani replica: spiace che non ci sia terzietà. Ma anche la minoranza è critica: deriva plebiscitaria
di Mariolina Iossa


ROMA Non se l’aspettava proprio, Matteo Renzi, a inizio weekend e dopo la giornata per lui «storica» dell’approvazione del Jobs act, la critica senza ammortizzatori della presidente della Camera Laura Boldrini. E invece è arrivata, tanto inattesa quanto severa. «Io credo nei ruoli intermedi, associazioni, sindacati. L’idea di avere un uomo solo al potere contro tutti e in barba a tutto a me non piace, non rispetta l’idea di democrazia», ha detto la Boldrini a un convegno ad Ancona di Agrinsieme. La presidente della Camera ha anche sottolineato quanto sia stato inopportuno aver ignorato alcuni pareri «non favorevoli» delle commissioni di Camera e Senato, nel percorso del Jobs act. Sarebbe stato meglio, ha detto perché fosse chiaro, tenere quei pareri «nel dovuto conto».
Con le critiche arrivate dall’assemblea nazionale di Sinistradem («da Renzi schiaffi alla minoranza Pd, rischio di deriva plebiscitaria»), il premier sapeva già di dover fare i conti. Ma la mazzata della Boldrini non era prevista. E allora replica il governo, lo fa attraverso le parole di Debora Serracchiani, che è vicesegretario del Pd. E sono parole condivise da premier, governo e maggioranza pd. La Boldrini avrebbe «travalicato» il suo ruolo. «Spiace che la presidente della Camera, che ricopre un ruolo terzo, di garanzia, si pronunci in questo modo sulle riforme del governo, sapendo bene che il parere delle Commissioni non è vincolante — ha detto la Serracchiani —. Quanto all’uomo solo al comando, ricordo sommessamente che il Pd è una squadra di donne e di uomini, che portano avanti un lavoro di gruppo, uno sforzo comune, un’idea di futuro insieme».
La Boldrini non deve averlo visto questo «gruppo». Come non l’hanno visto i dem. Gianni Cuperlo: «Non è stata affatto una giornata storica. Non lo è stata se guardi le cose con gli occhi dei lavoratori che sentono di aver perso qualcosa, della loro storia e dignità».
Stefano Fassina: «Siamo tornati agli anni Cinquanta. La propaganda di Renzi prende in giro i precari e procura un danno ai lavoratori», anzi per dirla meglio, quella del governo è stata una «straordinaria operazione propagandistica». Perché? «Rimangono sostanzialmente invariati i contratti precari, la sbandierata rottamazione del co.co.co. è avvenuta da anni mentre i co.co.pro. di fatto restano. Ammortizzatori sociali e indennità di maternità non vengono estese, insomma, il vero scopo di questa riforma era cancellare la possibilità di reintegro per i licenziamenti senza motivo». La conclusione di Fassina è amarissima: «Sono preoccupato per la democrazia del nostro Paese e per il nostro partito». Quanto al decreto Poletti, interviene Pippo Civati, il contratto a tempo determinato «libero e a gogò, gode di buona salute e non viene toccato neanche un po’» dalla riforma. In più, «il decreto sulle liberalizzazioni — dice Civati — è un “minibersani”, un tovagliolo al posto di una lenzuolata, quanto al Jobs act è il provvedimento che la destra aspettava da anni. Meno di Bersani, più di Berlusconi. Infatti la destra oggi festeggia».
Ci va giù pesante anche Alfredo D’Attorre: «Eravamo partiti con un Jobs act che doveva introdurre un unico contratto d’ingresso con il quale dopo alcuni anni il lavoratore avrebbe ottenuto tutela piena. Siamo arrivati alla cancellazione della tutela piena prevista dall’articolo 18 e ci siamo tenuti la stragrande maggioranza di tutte le forme di precariato».
Così la Cgil, su Twitter: «La precarietà aumenta, non diminuisce. #soloAmmuina #noncambiaverso ».

Repubblica 22.2.15
Boldrini e minoranza. Pd contro Renzi sul Jobs Act. Il premier: “È di sinistra”
La presidente: “Non mi piace l’uomo solo al comando”
di Giovanna Casadio


ROMA Perché il governo non ha tenuto conto del parere del Parlamento contro i licenziamenti collettivi? «Avrebbe dovuto farlo». A contestare quello che è accaduto sul Jobs Act, e a difendere le prerogative parlamentari, è la presidente della Camera, Laura Boldrini. Il day after della riforma del lavoro comincia con la conta di chi ha vinto e di chi ha perso e con la terza carica dello Stato, Boldrini appunto, che attacca Renzi: «Ci sono stati dei pareri favorevoli da parte delle commissioni di Camera e Senato e sarebbe stato opportuno tenerli nel dovuto conto». Sono stati pareri espressi, tra l’altro da tutti i dem, nelle commissioni Lavoro. Pareri non vincolanti, è vero, ma politicamente importanti. Ecco perché la tensione è altissima. Boldrini butta lì anche una considerazione sull’importanza dei «ruoli intermedi, associazioni e sindacati, perché a me non piace l’uomo solo al comando». Ne nasce uno scontro istituzionale.
Il premier commenta con i suoi, replicando anche alla sinistra del Pd: «Sullo stesso testo a Natale cantavano vittoria. Si azzittiranno solo quando vedranno che intercettiamo la ripresa. Ora è tutta roba di sinistra». La vice segretaria dem, Debora Serracchiani, reagisce: «Spiace che la Boldrini che ricopre un ruolo di garanzia, si pronunci in questo modo». Mentre il ministro dell’Interno Angelino Alfano, dalla Winter School del Ncd al Sestriere, denuncia «le parole più di parte che istituzionali della presidente della Camera».
Però gli alfaniani sono più che soddisfatti. Il ministro parla di «nostro trionfo, finalmente cancellato lo Statuto dei lavoratori» e si dichiara «pronto a rinnovare il patto in questo governo fino al 2018». La destra canta vittoria e la sinistra e i sindacati sono in rivolta. Pensano a una legge di iniziativa popolare per introdurre di nuovo nello Statuto dei lavoratori l’articolo 18 appena smantellato. La minoranza dem guidata da Gianni Cuperlo, riunita in una convention, avverte dell’errore politico grave, dell’ «umiliazione del Parlamento» e intanto annuncia che riaprirà il fronte dell’Italicum, la nuova legge elettorale. Cuperlo avverte di modifiche per ottenere «più collegi uninominali, anche in onore di Mattarella, e il premio alla coalizione» Quest’ultimo in particolare si potrebbe rivelare un formidabile assist a Forza Italia. E anche il capogruppo dem a Montecitorio, Roberto Speranza, uomo della mediazione, che ha portato avanti una lunga trattativa sul Jobs Act, questa volta è duro: «E’ un clamoroso e inspiegabile errore che il governo non abbia seguito l’indicazione del Parlamento».
Esasperazione dei dem Cesare Damiano («Servono più tutele per i disoccupati»), Stefano Fassina («È uno schiaffo a tutto il Pd, presi in giro i gruppi, c’è più sinistra nel Papa»), Alfredo D’Attorre («Siamo allo stop delle tutele»). Fassina battibecca con il Guardasigilli Andrea Orlando, ospite dell’assemblea cuperliana. Tuttavia lo stesso Orlando è critico sui licenziamenti collettivi nel Jobs Act: «Ci sono alcuni punti che squilibrano».

Repubblica 22.2.15
Graziano Delrio
Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: “Non vedo una guida solitaria. C’è un leader e sono due cose differenti. Se la sinistra è spaventata dalla leadership, ha un problema di modernità”
“Nessuna umiliazione del Parlamento vedremo tra un anno chi avrà avuto ragione”
intervista di Goffredo De Marchis


ROMA . Il sottosegretario a Palazzo Chigi Graziano Delrio risponde a Laura Boldrini che lamenta il totale disinteresse del governo per i pareri del Parlamento sul Jobs Act e accusa Renzi di essere un uomo solo al comando. «Non esiste un uomo solo al comando. Esiste un leader. Sono due cose differenti. Se la sinistra, e parlo in generale, è spaventata dalla leadership ha un problema di modernità ». Alla minoranza del Pd che annuncia battaglia contro l’Italicum, dice: «Tutto è migliorabile, ma il punto di equilibrio lo abbiamo già raggiunto con il testo votato in Senato». E interviene anche sul partito per assicurare che non nasce una corrente di catto-renziani «come area in cui l’appartenenza conta più del pensiero». Possono nascere invece «luoghi di riflessione leggeri, aperti, quasi disorganizzati per mantenere il collegamento con la società».
A proposito di correnti, la Sinistra dem vi accusa di non avere tenuto conto dei pareri parlamentari sui licenziamenti collettivi, di aver seguito la linea della trojka. In effetti tutti i deputati del Pd, senza distinzioni, vi avevano chiesto di cambiare.
«Ormai l’impostazione era quella. E si teneva con un equilibrio complessivo che per noi era l’unico a garantire la vera efficacia del provvedimento».
La presidente della Camera Boldrini fa capire che così avete umiliato il Parlamento.
«Abbiamo il massimo rispetto del Parlamento, però non rovesciamo la frittata. Il parere non era vincolante, non esisteva alcun obbligo di recepirlo. Il governo quindi ha esercitato un suo pieno diritto ma senza volontà di umiliare le Camere o i sindacati. Con quei decreti pensiamo di aumentare complessivamente l’occupazione per la prima volta dopo anni di perdita. Se ci sbagliamo siamo pronti a correggerci. Siamo convinti tuttavia che attraverso il mix di misure del Jobs Act fra un anno si vedranno dei risultati».
Non c’è invece la tendenza di Renzi a procedere evitando il confronto, a recitare la parte dell’uomo solo al comando come dice la stessa Boldrini?
«Non vedo l’uomo solo al comando. C’è un leader e sono due cose differenti. Se la sinistra è spaventata dalla leadership, e non mi riferisco alla Boldrini parlo in generale, ha un problema di modernità. La sinistra ha bisogno di un leader come lo hanno avuto i grandi partiti storici. Come lo erano De Gasperi e Togliatti, Berlinguer e Moro. Eppoi Matteo non è solo. Ha intorno a sé un gruppo dirigente molto ampio e molto rinnovato. Nella squadra dei ministri, nei sindaci, sui territori. Qualcuno può pensare che non sia all’altezza ma non che non esista».
Un team di fedelissimi?
«E’ libero di non credermi, ma Renzi ascolta una quantità impressionante di persone del mondo del lavoro, dell’impresa, della cultura. Lo fa ogni giorno, è una ginnastica di ascolto che non si vede ma le garantisco, è costante, quotidiana. Non sono fedelissimi».
Vi confronterete con la minoranza sull’Italicum, cambiando i capolista bloccati e dando il premio alla coalizione al ballottaggio?
«L’obiettivo del governo è una buona legge elettorale e al Senato si è raggiunta un’intesa giusta. Proviamo a fare un flash back. L’Italia, un anno fa, era il Paese del caos, delle riforme bloccate, dell’instabilità. Un anno dopo, secondo l’Ocse, siamo il Paese che ha fatto il maggior numero di riforme strutturali e profonde. Eravamo gli osservati speciali dodici mesi fa e ora siamo un Paese guida dell’Eurogruppo, che aiuta a risolvere questioni enormi come la Grecia. Questa nostra credibilità, conquistata anche con il lavoro straordinario del Parlamento, non la manteniamo se si rimette tutto in discussione. Ogni cosa è migliorabile ma in linea di massima, sulla legge elettorale, il punto di equilibrio lo abbiamo già trovato».
Renzi non aveva promesso “mai più correnti nel Pd”? Sembra che lei e altri ne stiate preparando più di una.
«Con Matteo abbiamo sempre avuto un’idea molto ampia del partito, come di un campo largo, mai organizzato in settori o in correnti come quelle che si sono sempre conosciute».
Cioè?
«Gruppi dirigenti attraverso cui persone interessate trovano spazio e protagonismo solo perché appartengono a un consesso organizzato. Luoghi difensivi di questo genere non devono e non possono esistere nel Pd».
E allora?
«Allora, come avviene nella Cdu e in tutti i grandi partiti europei, si possono creare non aree di potere ma di pensiero. Le correnti vanno rottamate. Luoghi dove la società e i parlamentari riflettono sulle sfide della modernità possono invece avere un ruolo e offrire un contributo al partito».
Se non è zuppa è pan bagnato.
«Non è così. Io penso a iniziative leggere, aperte in cui mai l’appartenenza deve sostituirsi al pensiero. Penso al campo che crearono Moro e Dossetti. Certo non era una corrente a caccia di poltrone ma di profondità e di un rapporto con la vita quotidiana delle persone».
Questi movimenti intorno a Renzi non segnalano uno scontro tra fedelissimi per chi siede alla destra del capo?
«Non c’è nessuno scontro nel campo renziano. Vogliamo semmai moltiplicare i contributi e moltiplicare il protagonismo dei parlamentari, dei sindaci e degli amministratori locali. Potrà capitare che qualche volta marceremo divisi per colpire uniti, ma il rischio correntizio non esiste. Per me le correnti sono la morte delle persone libere».
Sul suo cellulare il numero di Renzi è sempre memorizzato come Mosè?
«Sempre. E la nostra Terra promessa è quella dove c’è più lavoro, dove ci sono più occupati».

il Fatto 22.2.15
Democratici
L’ultima di Matteo. Più correnti per tutti
di Paola Zanca


Ormai le correnti non esistono più, a parte nel Pd, dove sono vive e lottano insieme a noi”. Con il consueto sarcasmo, Matteo Renzi, l’estate scorsa, spiegava in televisione che di mettersi a fare la guerra alle bande interne al partito non aveva alcuna intenzione. Scelta comprensibile, considerata la titanica impresa di mettere d’accordo retroculture e provenienze diverse, ambizioni e rancori, eredità e filiere di potere. Ma che, a un anno dalla sua scalata ai vertici democratici, perfino i “suoi” si stiano già organizzando in correnti e sottogruppi, è il primo segno di invecchiamento precoce. A Matteo Renzi, le correnti, servono per intruppare i malumori, compattare il voto e testimoniare fedeltà. Ovvero, citando un lancio Ansa di qualche mese fa “puntellare la spina dorsale del partito e allontanare il rischio rachitismo”. Alla guida del reparto fisioterapia si è già candidato Matteo Richetti: i rapporti con il presidente del Consiglio un tempo erano strettissimi, poi si sono raffreddati, ma oggi, l’ex candidato alle primarie dell’Emilia Romagna (si ritirò) è l’animatore della pattuglia catto-renziana. Con lui pezzi da novanta del nuovo corso democratico come Lorenzo Guerini e Graziano Delrio, nuovi acquisti come Gennaro Migliore e Andrea Romano, ma pure vecchie guardie del Pd (non proprio quello che Renzi lusingava) come Beppe Fioroni. Richetti la chiama “anticorrente” e chiarisce che per i catto-renziani, Matteo dovrà essere anche il prossimo segretario e il prossimo premier. Ma per evitare eccessi di armonia, subito il “giglio magico” (Maria Elena Boschi, Luca Lotti) ha mandato avanti un gruppetto di giovani leve del renzismo per mettere insieme gli “ortodossi” del rottamatore fiorentino. Dal lato opposto del campo, ci sono i reduci del fronte Gianni Cuperlo: riuniti ieri per un convegno a Roma, hanno fatto sapere (Barbara Pollastrini) che “ormai la rete è presente in 18 regioni”. Non sono molti, ma certo più compatti di un’altra corrente, altrettanto strutturata, quella che fa capo al ministro Dario Franceschini. Lì, Renzi, ha pescato a più non posso: per dire, c’è Roberta Pi-notti che è diventata ministro, c’è Debora Serracchiani nientemeno vicesegretario. Un po’ la stessa sorte dei “furono” giovani turchi: Matteo Orfini è stato nominato presidente del partito (i bersaniani, all’epoca, non gradirono), Andrea Orlando è ministro della Giustizia. Poi c’è Area Riformista (Roberto Speranza, Maurizio Martina), pure loro minoranza alla chetichella. Chi ha deciso di sparire del tutto (non certo per le stesse ragioni) è la corrente che faceva capo a Enrico Letta. Con lui c’erano Francesco Russo, Anna Ascani, Paola De Micheli. Quando andò a palazzo Chigi chiuse il think tank VeDrò e pure l’associazione ‘360 gradi’. Per uno che va, c’è un altro che viene. Chissà se manterrà il nome di Articolo 4, l’ultima pattuglia che fa capolino nel Pd. Sono ex Udc e Mpa, siciliani eredi di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo.

il Fatto 22.2.15
Arezzo e la banca Etruria
Così è stato raso al suolo il feudo della famiglia Boschi
di Davide Vecchi


L’EX DEL CDA: “LASCIAI PER GLI ENORMI CONFLITTI D’INTERESSE I CONSIGLIERI SI AFFIDARONO 220 MILIONI CON DISINVOLTURA”

Al caffè Michelangelo, l'unico bar nel centro storico di Laterina, si gioca a carte. Scopa. La posta è qualche bicchiere. Qui ancora si paga a consumo. “Il caffè correggilo a dieci centesimi che ho giusto un euro”, sono le richieste tipo dei pensionati presenti. Ai tavoli, tra un'imprecazione e l’altra, qualcuno bofonchia delle sorti di banca Etruria. Ma i commenti si limitano alle spallucce, nel tempo che serve a mischiare e ridistribuire le carte. Eppure questo è il paese della famiglia Boschi. Nella piazza su cui affaccia il bar c'è la chiesa in cui Maria Elena è cresciuta e che tutt'ora frequenta, accanto il Comune di cui Stefania Agresti, mamma del ministro, è vicesindaco. Li conoscono tutti, i Boschi. Qui nel 1948 è nato Pier Luigi, diventato prima latifondista, poi presidente di Confcooperative, consigliere della Camera di Commercio fino al 2013 e l'anno successivo vicepresidente della banca d’Etruria nella quale il fratello di Maria Elena, Emanuele, ha fatto un’ottima carriera. Entrato poco prima del 2010 oggi è un dirigente con un contratto quadro di secondo livello e percepisce anche un compenso premio che in banca chiamano “personam”. È il numero due dell’ufficio incagli, quello da cui passano i crediti che non si riescono a recuperare e finiscono nel pozzo dei deteriorati. Voce che per l’Etruria è da anni la più importante a bilancio. Dal 2012, per l’esattezza.
Da piccolo istituto a gigante dai piedi d’argilla
Da qui inizia la storia che trasforma la banca dell'oro in banca del buco con 2,8 miliardi di sofferenze e un patrimonio ridotto a poco meno di 20 milioni. Storia ricostruita da Bankitalia nell’ispezione terminata nel 2014 e che ha poi dato avvio all'inchiesta della Procura di Arezzo nei confronti dei vecchi e nuovi vertici per vari reati - tra cui ostacolo alla vigilanza - aperta dal procuratore capo, Roberto Rossi. Storia che inizia nel 2012 quando ancora bastava un aumento di capitale per tentare di recuperare le perdite che già ammontavano a 1 miliardo 260 milioni di euro. L’aumento andò in porto ma gli ispettori di Banca d'Italia, all'epoca già ad Arezzo, ebbero da ridire: verificarono che molti affidamenti inferiori ai 300 mila euro concessi con crediti chirografari, cioè senza garanzie, non erano stati riportati e conclusero che i fondi deteriorati erano sottostimati del 19,7%. C’erano dunque altri 136 milioni di fondi elargiti e persi. Ma l’istituto mostrava ancora solidità. I 342 milioni di capitale sociale erano garantiti da 252 milioni di azioni in mano a circa 60 mila soci e il titolo nel febbraio 2012 valeva 3,92 euro. Etruria sembrava dunque essere riuscita a digerire l'esborso di 120 milioni di euro per acquistare la banca privata fiorentina Federico del Vecchio, cassaforte della borghesia toscana, pagata ben 80 milioni più di quanto stimano da San Marino. Sembrava aver superato anche l'acquisizione della banca Lecchese, l’acquisto di 14 sportelli di Unicredit per oltre 40 milioni e persino l’incorporazione di ConEtruria ed Etruria Leasing. In quel 2012 non era più la banca di mutua popolare nata nel 1882 radicata nel territorio e all'agricoltura, non era neanche più la banca dell'oro, legata allo sviluppo degli orafi aretini, sembrava diventata un gigante rispetto alle origini. Sembrava. Il cda guidato da Giuseppe Fornasari - con vice Lorenzo Rosi e tra i consiglieri Pier Luigi Boschi – porta a bilancio 1,5 miliardi di sofferenze. Il 25 febbraio 2013 il titolo che un anno prima valeva 3,92 euro, crolla a 1 euro e 20 centesimi. Ad aprile la singola azione scende sotto l'euro. Per rimanere a Piazza Affari con un valore non troppo ridicolo il consiglio decide di dare il via a un'operazione cosiddetta di raggruppamento: a ogni 5 azioni sarà corrisposta una sola azione. Il passaggio avviene il 29 aprile 2013 e il titolo chiude a 0,93 centesimi. In pratica il valore reale delle singole azioni era inferiore ai 20 centesimi. Banca d'Italia interviene nuovamente. Impone il rinnovo del cda e caldeggia un “matrimonio” con un istituto capace di assorbire le perdite dell’Etruria. Nel maggio 2014, con il titolo a 0,70 centesimi, si fa avanti la popolarediVicenzaconun'offerta pubblica di acquisto vantaggiosa: 1 euro ad azione. Il cda però rifiuta. Nel frattempo il board aveva quasi cambiato volto. In realtà, ha tra l'altro contestato Palazzo Kock nel decreto con cui l’11 febbraio scorso ha commissariato l’istituto, è cambiato solo il presidente: non più Fornasari ma Rosi. Che però era vice di Fornasari. Mentre il numero due, Pier Luigi Boschi, era già consigliere nel 2011.
Verso la class action per tutelare i piccoli azionisti
Insomma, secondo gli ispettori di Banca d’Italia non è stata attuata l’invocata discontinuità. E oggi, con i commissari a controllare i conti, anche ad Arezzo molti fanno spallucce, come al caffè Michelangelo di Laterina. “Doveva essere commissariata un anno fa”, ne è certo Vincenzo Lacroce. Quando la procura dispose le perquisizioni. “Io lo dissi allora e lo ripeto oggi: doveva arrivare prima Banca d’Italia”. Lacroce parla con cognizione di causa. Non solo è stato per oltre venti anni ispettore di Palazzo Kock, ma da quando è in pensione guida l'associazione amici di banca Etruria, è socio e azionista della popolare e nel 2014 gli è stato proposto di entrare nel cda. Ma rifiutò. Un altro profondo conoscitore della banca è Rossano Soldini. Imprenditore, Soldini ha un pacchetto personale di 150 mila azioni dell’Etruria (Boschi, per dire ne ha meno di 600) e fece il suo ingresso nel cda nel 2007 ma nel 2012 lasciò “dopo aver scoperto gli enormi conflitti di interessi di vari consiglieri”, ricorda. “Denunciai oltre 220 milioni di euro che i consiglieri si affidavano con disinvoltura, poi l'elezione di Fornasari con 8 voti a favore e 7 contrari ma tra i favorevoli venne conteggiata la preferenza di un consigliere che non avrebbe potuto votare perché superato l’ammontare degli affidamenti”. Insomma “per me era impossibile rimanere in consiglio”. Ora “dobbiamo pensare a una class action e tentare di restituire la banca agli aretini, ai cittadini, a questo territorio”. Sottrarla, dice, “a chi l'ha condotta qui mischiando le carte”. Un po' come al caffè Michelangelo di Laterina, sempre che i commissari di Bankitalia riescano a trovare il modo di organizzare un’altra mano.

il Fatto 22.2.15
Campania, la chiamata degli immigrati
A Salerno l’entourage de De Luca ha spedito sms per portare extracomunitari e minorenni alle primarie
di Vincenzo Iurillo


Napoli A Napoli c’è la caccia al delegato. A Salerno quella all’extracomunitario. È solo un modo di dire, non sono in atto faide ne spedizioni xenofobe. Sono solo le due campagne di reclutamento in corso per le primarie Pd in Campania che tra sì, no, forse e chissà, e dopo quattro rinvii, dovrebbero celebrarsi il 1 marzo tra Vincenzo De Luca, Andrea Cozzolino, Gennaro Migliore, il socialista Marco Di Lello e l’esponente di Idv, Nello Di Nardo. La prima campagna è di palazzo: il fronte anti-primarie, composto da un gruppo di capicorrente dell’area Nord di Napoli, si sta affannando a raccogliere consensi tra i delegati dell’assemblea regionale per raggiungere il quorum del 60% sul nome di Luigi Nicolais. In questo modo l’assemblea può annullare le primarie e candidare direttamente l’ex ministro e presidente del Cnr. Il pomeriggio di ieri è trascorso in attesa di un cenno chiarificatore da Roma. Ma Renzi, per ora, non si sporca le mani. La seconda campagna è in corso a Salerno, la roccaforte di Vincenzo De Luca, il Maradona delle primarie. Qui sono così sicuri che domenica prossima si andrà a votare per scegliere il candidato Governatore, che dal cerchio magico del sindaco emerito è partita una catena di Sant’Antonio di sms a consiglieri, assessori e dirigenti democrat per sollecitare le preiscrizioni last minute degli extracomunitari e dei minorenni all’anagrafe degli elettori. Il testo del messaggio è stato pubblicato dal quotidiano Cronache del salernitano, che lo attribuisce al sindaco facente funzioni Enzo Napoli, ex capo staff di De Luca nominato “successore” poche ore prima della condanna dell’ex viceministro. “Sedicenni ed extracomunitari per votare alle primarie del 1 marzo devono iscriversi presso sede del Pd via Manzo entro domenica 22 con documento identità. Sabato e domenica la sede è chiusa: avvertite Enzo Luciano per far raccogliere le preiscrizioni”. L’sms riporta il cellulare di Luciano, responsabile provinciale organizzazione del Pd. Lo abbiamo chiamato. Luciano conferma: “Sì, è vero, stiamo facendo circolare queste informazioni perché quasi nessuno è a conoscenza che in Campania gli extracomunitari con permesso di soggiorno e i minorenni devono preregistrarsi per poter votare alle primarie: lo Statuto del Pd non lo impone, ma nella nostra regione è stato deciso così per regolamento, per evitare il ripetersi di file sospette ai seggi”. Non è un po’ tardi per le preregistrazioni? “Il regolamento indica come termine una settimana prima del voto. Se il voto è slittato, secondo noi è slittato anche il termine”. In quanti si sono preregistrati? “Fino a pochi giorni fa nessuno. Ora siamo su un numero inferiore ai 30”. C’è ancora la giornata di oggi, la macchina politico-organizzativa di De Luca non va sottovalutata. Ma dal comitato organizzatore delle primarie, presieduto da Antonio Amato, fanno sapere che per loro l’anagrafe è chiusa.
E SE DE LUCA è Maradona, Cozzolino sceglie un altro sport e si paragona ai fratelli Abbagnale. Nel suo spot elettorale ripropone gli ultimi metri in canoa dei fratelloni pompeiani quando vinsero le Olimpiadi di Seul, e lo slogan “Andiamo a vincere”. Ma siete sicuri che le primarie ci saranno?”Se il Pd non ci consente di votare trucca le carte, sarebbe una vergogna – risponde Enzo Ruggiero, consigliere politico di Cozzolino - Gino Nicolais non è un candidato che possiamo riconoscere come unitario. Cancellare le primarie sarebbe un colpo di Stato”.

il Fatto 22.2.15
La scuola sicura la paga Letta
Per adesso i soldi spesi dal governo sono quyelli stanziati dal predecessore di Renzi
di Carlo Di Foggia


Un miliardo di euro di interventi dichiarati, altri 3,7 promessi, circa 314 milioni stanziati, 150 effettivamente assegnati (quelli messi da Enrico Letta), e in buona parte non ancora spesi. Districarsi tra i numeri degli interventi per l'edilizia scolastica annunciati dal governo è impresa ardua. Di sicuri, per dire, ci sono solo i tagli finora subiti: 879 milioni di euro tra il 2008 e il 2013 (limitandosi alle sole scuole superiori). Il precursore è stato Letta, poi il piano per l’edilizia scolastica è stato ripreso da Matteo Renzi e abbellito dagli slogan modello Twitter. Le risorse sono state senza dubbio incrementate, ma stare dietro ai pagamenti effettuati non è facile: i numeri si ripetono e si mischiano, ogni sito ne riporta diversi e la distonia tra le cifre promesse e gli interventi realizzati è spesso notevole.
PREMESSA, stando ai dati del Censis, dei 41 mila edifici scolastici esistenti, il 32 per cento ha bisogno di interventi urgenti: 24 mila hanno impianti non funzionanti, novemila intonaci che cadono a pezzi, 7.200 devono fare i conti con coperture e tetti da rifare; 3.600 necessitano invece di interventi sulle strutture portanti. Sul risanamento di questo panorama disastrato Matteo Renzi ha puntato buona parte delle sue carte, tanto da affidare la cabina di regia dell’operazione al fedelissmo Filippo Bonaccorsi, ex dirigente dei trasporti del Comune di Firenze.
A luglio scorso il governo ha annunciato un “cambio di rotta epocale” e dichiarato investimenti per poco più di un miliardo, divisi in tre capitoli: #scuolebelle (450 milioni per le piccole manutenzioni), #scuolesicure (400 milioni per la messa in sicurezza degli edifici) e scuole-nuove (244 milioni per 404 nuove strutture subito cantierabili). Basteranno? Il fabbisogno stimato è superiore ai 10 miliardi, tanto più che a tutt’oggi non esiste neanche una schedatura precisa degli edifici esistenti: l’anagrafe nazionale - che secondo il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini doveva partire già a luglio scorso - è stata rinviata a giugno. E poco dopo l’insediamento, il premier aveva parlato di 3,5 miliardi “già disponibili”, salvo poi ridimensionare di molto l’importo. realisticamente si tratta di 672 milioni per il 2014, di cui solo 270 davvero a disposizione. Stando ai dati, a oggi per i piccoli interventi di manutenzione (#scuolebelle) sono stati spesi solo 150 milioni di euro (per 7.751 plessi) dei 244 messi sul piatto dal decreto del Fare del governo Letta. “Di quelli ne sono arrivati circa 100 milioni (per 7 mila plessi, sui 37 mila coinvolti, ndr)”, spiega Giorgio Germani, presidente dell’Anquap, l’associazione dei direttori amministrativi scolastici. Soldi vincolati a un meccanismo complesso perché il governo ha deciso che i lavori dovevano essere effettuati dalle stesse ditte che si sono aggiudicate gli appalti Consip per la pulizia. Il motivo è semplice: si tratta infatti delle stesse che hanno assorbito 12 mila lavoratori socialmente utili, che in qualche modo vanno impiegati.
“L’INTENTO ERA BUONO – continua Germani - ma così le scuole sono obbligate a far fare i lavori a ditte inadeguate. Un peccato perché erano le uniche risorse affidate agli Istituti. Delle altre non è arrivato molto”.
Formalmente la prima tranche di pagamenti doveva terminare nel 2014. Stando ai dati del Miur, però, a novembre scorso dei 150 milioni stanziati ne erano stati pagati solo 44,6 (per altri 44 era quasi pronto il decreto). Il capitolo più corposo riguarda però gli interventi #scuolesicure: 400 milioni stanziati dal Cipe, per 18 mila edifici, grazie all’allentamento del patto di stabilità. Cosa è stato fatto? Andando a vedere nel dettaglio il monitoraggio del governo, si scopre che tutti gli interventi sono stati effettuati sempre con i soldi di Letta. I cantieri finanziati dal governo Renzi non sono ancora partiti, perché - spiega il Miur - il termine per presentare i progetti è scaduto solo a fine dicembre. Non solo, l’esecutivo all’ultimo ha deciso di non versare l’Iva ai 500 Comuni che avevano già effettuato i lavori con le vecchie risorse, facendo infuriare i sindaci. Sul lato degli stanziamenti, comunque, il conto finale è di 314 milioni già allocati, e 89 ancora da assegnare. “Quest’anno saranno aperti altri 1600 cantieri”, ha assicurato Giannini. Poi ci sono le #nuovescuole: su 454 opere previste, 198 sono state concluse, 187 avviate (30 da pochi mesi) e 69 ancora sono ancora in progettazione.
Per raggiugere i 3,5 miliardi ipotizzati - sempre sulla carta - da Renzi, il governo ha annunciato altri 300 milioni con il “piano Inail” (non ancora stanziati) e a gennaio ha varato il “Decreto Mutui”, autorizzando le Regioni a stipulare mutui trentennali (40 milioni l’anno) grazie a un finanziamento della Banca europea degli investimenti. Doveva partire il 15 febbraio, ma la scadenza è stata posticipata a marzo: la bollinatura della Corte dei Conti, infatti, non è ancora arrivata e molte Regioni sono in ritardo nella consegna dei piani. Dulcis in fundo, il caos normativo. Con la fine virtuale delle province, Regioni e città metropolitane si rimpallano la delega. Nel 2013 il governo non ha messo un euro per la messa in sicurezza degli edifici (a Napoli, il Sindaco Luigi De Magistris lo ha scoperto poco dopo la nascita della Città Metropolitana).

il Fatto 22.2.15
Belle, sicure e nuove, tanti spot per pochi fondi
I soldi che non ci sono
Le promesse renziane di 3,5 miliardi sulla scuola per ora restano tali


GLI SLOGAN si sono moltiplicati. Fino ad ora ne abbiamo tre. Scuolebelle, Scuolesicure e Scuolenuove. Tutti ovviamente anticipati dal cancelletto che crea l’hashtag Twitter. Sul primo comparto il governo ha messo una posta di 450 milioni. Sul secondo 400 milioni. E sul terzo 244 milioni. Di queste cifre, per adesso, se n’è vista una parte. Nel dettaglio Palazzo Chigi afferma di aver finanziato 7000 lavori di piccola manutenzione per complessivi 150 milioni e di aver previsto una spesa di altri 130 milioni nella finanziaria 2015. Lo sblocco del patto di stabilità ha poi consentito il reperimento di altri 254 milioni.

il Fatto 22.2.15
“Riforme”
Croce rossa e libri: che cosa vuol dire “privato” in Italia
di Furio Colombo


Si faccia avanti uno di quelli che ti raccontano che Berlusconi è morto. Complimenti a un morto che viene condannato e non va in prigione, che perde le elezioni ma agguanta “le larghe intese” e piazza i suoi al governo (ci sono ancora tutti, uno fa persino le grandi opere), che firma il “Patto del Nazareno”, con cui diventa e resta socio di governo, che rompe il patto del Nazareno per allargare lo spazio di manovra (B. è tutto dentro, informato fino ai dettagli; B. è tutto fuori, libero di attaccare), che viene espulso dal Senato e abolisce il Senato, che aveva dato al paese una legge elettorale che esclude i cittadini e dà tutto il potere ai partiti, e adesso ottiene una “nuova” legge elettorale che esclude i cittadini e dà tutto il potere ai partiti. Intanto controlla come sempre le grandi opere, che in questa Italia sono il cuore del governare, come ci dice Cantone.
Inoltre il defunto Berlusconi dirige tre opposizioni, guidate rispettivamente da Fitto, Romani e Brunetta, che vengono raccontate come la triste storia della “la destra che si spacca”, ma sono pronte, con strategie variabili, per ogni evenienza. Intanto il governo provvede alle questioni fiscali di Mediaset, e Mediaset moltiplica il valore in borsa perché chi investe bada ai fatti, sa che Berlusconi conta e comanda anche quando appare afflitto, mentre sta iniziando il trentennio di un suo felice e ininterrotto lavoro di devastazione della Costituzione “comunista”. Certo, c’è un nuovo, giovane e brillante presentatore, di nome Renzi, efficace interprete del mondo di Berlusconi al punto da ripetere spesso la frase chiave: “Chi attacca il nostro lavoro non attacca me, attacca l’Italia” (segue celebrazione di stampa e tv). E se il nuovo presentatore ha appena annunciato la privatizzazione della Croce Rossa (insegnandoci quanto sia ridicolo e da vecchi dire: “Non sparate sulla Croce Rossa”), perché il clima non dovrebbe essere quello giusto per privatizzare un blocco molto grande (40 per cento) di editoria italiana, a opera e nelle mani di chi compra meglio e meglio garantisce la conduzione d’azienda?
SPIEGO L’USO, apparentemente improprio, della parola “privatizzare” quando parlo di una normale operazione di mercato in cui il pesce grosso mangia il pesce piccolo (o almeno più piccolo, e anche con la voglia di essere mangiato) e promette, dati i buoni precedenti aziendali, di fare un buon lavoro quando sarà padrone di molto e condizionatore di tutto. “Privatizzare”, in un Paese di interessi blindati, che è il solo conosciuto da chi ha vent’anni, e il solo politicamente praticato da chi ne ha trenta, non vuol dire concorrenza che migliora le opzioni del consumatore, e non vuol dire libero scrutinio e libera critica. Ha poco a che fare con un mercato in cui parti “avverse” sono in continuo rapporto di interessi comuni e progetti concordati, che dovrebbero far saltare sulla sedia tutte le autorità di controllo (tranquilli, il “nessun dorma” di Renzi riguarda gli operatori interessati, affinché profittino subito dell’attimo fuggente, non chi dovrebbe tutelare l’interesse comune e le regole, non i comprati e venduti delle imprese “liberalizzate”).
Vuol dire schermare blocchi di interessi che pubblicità e cooperazione volontaria dei media fanno apparire privati, ma che hanno saldi legami, più o meno sommersi, con punti forti di governo e di partiti. È vero che la Mondadori è stata messa, subito prima del clamoroso annuncio, nelle mani di persone colte e decorose. Ma è impossibile non tener conto del simbolo (Marina Berlusconi) e del senso politico, immensamente più forte. È vero che Berlusconi, alla luce dei suoi meriti di statista, era tra i principali invitati all’insediamento del nuovo presidente della Repubblica. Ma è difficile dimenticare, in questa nuova situazione di conquista evidentemente concordata di un immenso potere sul leggere e lo scrivere del Paese, è difficile dimenticare la lettera dello scrupoloso consigliere di amministrazione della Rai Antonio Verro, in cui si avverte il presidente del Consiglio del “carattere antigovernativo” di certi programmi che stanno per andare in onda, e si consigliano modi di fronteggiare il pericolo arrivando a scegliere non solo i personaggi invitati a partecipare ai dibattiti (succede anche adesso) ma anche nel selezionare il pubblico presente, in modo da poter controllare gli applausi.
PURTROPPO questa vicenda esemplare, scoperta in questi giorni dal Fatto (e ignorata da quasi tutti gli altri giornali) ci dice che in questa Italia dobbiamo ricordare che, in certi settori chiave “privato” significa “area o ente o impresa soggetta a forte protezione (interferenza direbbero altri) dell’apparato governativo e del potere politico” e sottratta al libero giudizio dell’opinione pubblica. Per questo gli autori si ribellano. E si ribellano i migliori direttori editoriali, troppo orgogliosi del loro lavoro e della loro capacità di restare indipendenti, dato il buon lavoro che hanno fatto. Ovvio che l’attenzione cada su Berlusconi padre, che è un gigantesco ferma carte postato sopra Segrate (e viene in mente il processo truccato, che ha attribuito ai Berlusconi la proprietà di Segrate, e l’immensa cifra dovuta da Berlusconi alla legittima proprietà, per la sentenza che aveva accertato il percorso falsato).
Ma il punto è la vastità del nuovo blocco, e il cavo forte e potente che connette quel blocco, apparentemente privato, con la politica che ha dominato così a lungo l’Italia e, con un casta parzialmente nuova, continua a dominarla. Si può concludere che è inutile che gli autori si illudano perché queste sono cose che decide il mercato? Certo, qualcuno decide. Ma non il mercato.

il Fatto 22.2.15
“Mondazzoli” editore nazionale Come la mettiamo con lo Strega?
di Silvia Truzzi


E ORA, CHE SUCCEDERÀ ai primi di luglio al Ninfeo di Villa Giulia? Il premio più stregato dell’editoria italiana è sempre un toto nomi che ruota attorno all’eterno “quest’anno a chi tocca?”. A Mondadori o a Rizzoli? Da questo fondamentale assunto discendono milioni di speculazioni, scelte editoriali, pressioni sui giurati. Ora gli Amici della Domenica saranno praticamente tutti riuniti sotto il grande cartello ribattezzato Mondazzoli, dopo l’annuncio della fusione di Mondadori e Rizzoli (che come si è capito tanto fusione non è visto che Segrate ha fatto un’offerta per il 99,99% di Rcs libri). Praticamente spariranno tutti i traffici attorno a Casa Bellonci e Mondadori vincerà lo Strega in abbonamento. I giornalisti di Corriere della Sera e Gazzetta dello sport hanno scritto un comunicato sindacale durissimo e 48 scrittori capitanati da Umberto Eco, hanno scritto una lettera manifestando la loro contrarietà: “Un colosso del genere avrebbe enorme potere contrattuale nei confronti degli autori, dominerebbe le librerie, ucciderebbe a poco a poco le piccole case editrici e (risultato marginale ma non del tutto trascurabile) renderebbe ridicolmente prevedibili quelle competizioni che si chiamano premi letterari”.
C’è molta, moltissima, fretta di concludere l’affare dell’anno (l’affare è per la famiglia Berlusconi): il cda di Rcs presieduto da Angelo Provasoli (il professore fu perito di parte per Fininvest proprio nella causa sulla Mondadori) non vede l’ora di svendere. Gli ultra liberal si affidano alla legge del mercato: due privati raggiungono un accordo e dunque chi ci può mettere il naso? Forse l’Antitrust, che però ben poco avrà da eccepire. Il super editore avrà quasi il 40 per cento del mercato trade, il 25 di quello della scolastica: settore delicato, per via della committenza e per via della funzione. Nel 2014 il posizionamento sul mercato dei competitor vedeva Pearson leader con il 15 per cento, Zanichelli con il 13,8 e a seguire Mondadori il 12,8 con e Rcs con 11,7. Praticamente un manuale su quattro sarà pubblicato da una sigla del gruppo Segrate. Saranno contenti i forzisti che nel 2011 (prima firmataria Gabriella Carlucci, sic) chiesero una commissione d’inchiesta sui libri di storia, accusati d’indottrinamento e plagio delle giovani generazioni a fini elettorali. C’è già chi mette le mani avanti su un’altra possibile obiezione, che riguarda la proprietà di Mondadori trafugata, circostanza di cui tutti si dimenticano, nel sempiterno elogio dell’autonomia editoriale di Segrate.
MA LODI – in ogni senso – a parte, sarà utile ricordare più del “caso Saramago”, un’illuminante dichiarazione dello storico Sergio Luzzatto, autore di Einaudi (di cui ha sempre professato la libertà). Interpellato dal Corriere della Sera, Luzzato disse: “C’è un pregiudizio ideologico di un sistema culturale contro la Einaudi. Lo Struzzo non ha mai rinunciato a fare un discorso culturale antiberlusconiano, indipendentemente dalla proprietà. Nessun intervento? Mai, salvo un caso: “Per l’uscita de La crisi dell’antifascismo, scritto senza che nessuno storcesse il naso, mi hanno chiesto di non menzionare l’affiliazione di Berlusconi alla P2, con tanto del suo numero di tessera”. Non censura, solo un’omissione di soccorso.

La Stampa 22.2.15
Raffaele La Capria
“Uno scompenso che nuoce agli autori e alla letteratura”
intervista di M. B.


«Non mi chieda valutazioni economiche e industriali» dice Raffaele La Capria, decano della nostra letteratura, grande scrittore e persona saggia.
D’accordo, le chiedo allora per quali motivi ha deciso di firmare l’appello.
«Mi sono sentito in dovere di farlo perché tanta potenza in una sola componente dell’editoria italiana diventerebbe prepotenza. Sarebbe opportuno evitare che uno dei giocatori sia troppo grosso, e quindi non più alla pari con gli altri. E sarebbe molto utile stabilire un equilibrio accettabile, ecco tutto».
Secondo lei una situazione come quella prefigurata dal «matrimonio» nuocerebbe al mercato o alla letteratura, o piuttosto a entrambi?
«Ci sarebbe uno scompenso che di certo nuocerebbe alla letteratura e agli autori. Dove una voce sola può dettare le sue condizioni, gli altri per necessità devono tacere. Quanto al terreno più strettamente imprenditoriale, non ho gli elementi per dare un giudizio. Saranno di certo considerazioni economiche a decidere, e lì ci sono misteri per me insondabili. Ma finirà così, come purtroppo avviene ormai e sempre più in tutta l’Europa».
Mi sembra che non creda troppo all’efficacia dell’appello.
«Gli appelli non sono efficaci. Si risolvono in un articolo di giornale. Ma è importante far sapere come la si pensa».
Poniamo che Mondadori e Rizzoli si uniscano davvero. Lei, alla luce di questa considerazioni, continuerebbe a pubblicare per Segrate?
«A 92 anni mi sento meno esposto al pericolo di pubblicare o non pubblicare. Certo, se l’impulso è forte, e non ci sono altre possibilità, si scrive e si stampa».
Da Mondadori?
«È il mio editore. Ho sottoscritto l’appello tenendo ben presente questa situazione».
Quindi, facendolo, si è rivolto anche al suo editore.
«Sì, e a nome di tutti».

Corriere 22.2.15
Mondadori-Rcs, nuove adesioni contro la fusione
Le preoccupazioni di scrittori ed editori

I librai: rischiamo di essere schiacciati da un colosso

C ontinuano le reazioni all’annuncio della possibile acquisizione, da parte del gruppo Mondadori, di Rcs Libri. Venerdì si sono mobilitati gli scrittori, con l’appello promosso da Umberto Eco e da altre firme Bompiani e pubblicato sul «Corriere». Il testo è stato sottoscritto da 48 autori, anche di altri marchi. Ieri, attraverso Ginevra Bompiani, firmataria (come scrittrice) ed editrice di Nottetempo, hanno aderito anche Marco Missiroli, Giuseppina Torregrossa, Luciana Castellina, Milena Agus, Loredana Lipperini oltre a Giorgio Agamben e Luisa Muraro.
Se Walter Siti, interpellato dal «Corriere», dice di non voler parlare di questo tema, Gianrico Carofiglio risponde di non essersi ancora chiarito le idee e comunque, aggiunge, «non sono un amante degli appelli, anche se ciò non significa che non ci siano ottime cause, come la libertà di pensiero». Anche Andrea Vitali ammette di non essere in grado di valutare i dettagli. Tuttavia, spiega, «mi fa paura questo grande monopolio che potrebbe realizzarsi. Credo strozzerebbe le piccole case editrici, quel bacino di sperimentazione, attenzione agli esordienti, da cui sono uscito anch’io».
L’editore Giuseppe Laterza trova positivo che gli scrittori siano scesi in campo. «È un’espressione di sensibilità da parte del vero asset delle case editrici. Conferma un principio importante, cioè che in un’azienda editoriale idee e aspetto economico non sono universi separati. Personalmente, non sono così sicuro che un’operazione di questo genere sia redditizia. A volte si parte, poi ci si rende conto che razionalizzare è difficile e spesso i grandi gruppi ridanno autonomia ai piccoli».
Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato di Gems, terzo gruppo dopo Mondadori e Rcs, commenta: «Dovrà pensarci l’Antitrust, non il governo. È giusto che gli scrittori manifestino la loro inquietudine, ma chi ha da temere sono soprattutto i librai».
Lo conferma Alberto Galla, presidente dell’Associazione librai (Ali): «Magari la grancassa dell’annuncio si rivelerà più potente di quanto poi succederà, ma, certo, ci sentiamo sempre più isolati e piccoli. Noi siamo realtà strutturalmente artigianali, gli editori stanno diventando sempre più colossi industriali. È chiaro che poi le aziende in mano a bravi manager e bravi editor possono fare molto bene, mantenendo la propria identità. Come, per esempio, dimostrano Bompiani in Rcs, o Einaudi dentro Mondadori. Ma per noi librai un’operazione del genere inciderebbe anche sul rapporto commerciale con i fornitori».
Tullio De Mauro, presidente della Fondazione Bellonci che promuove il premio Strega, vede positivamente la presa di posizione degli scrittori. «Credo che i consigli di amministrazione non possano restare insensibili, soprattutto se alle parole seguissero i fatti, cioè l’abbandono delle case editrici nel caso che l’operazione vada in porto». Ci si chiede anche che senso avrebbero i premi letterari in uno scenario con un editore dominante: «Già oggi la situazione è difficile, anche se da un po’ stiamo cercando, con piccole modifiche del regolamento, di sottrarre gli Amici della Domenica alle pressioni dei gruppi. Andremo avanti, faremo la nostra parte ma il resto è affidato alla società italiana, al Parlamento e, credo, all’Antitrust».

il Fatto 22.2.15
Il gioco del governo: dice sì a 250 mila nuove super-slot
Conflitto di interessi per Lottomatica: affitta macchine ed è concessionaria
di Carlo Di Foggia


Che l’affare sia ghiotto lo dimostrano le forze in campo. Anche stavolta i signori del gioco si sono mossi per tempo, e strappato un regalo dalle enormi potenzialità, soprattutto per qualcuno. Quello, per intenderci, contenuto in due righe del decreto di riordino dei giochi, uno dei tanti attuativi della delega fiscale: l’obbligo di sostituire entro due anni tutto il parco slot in circolazione. Oggi se ne contano circa 350 mila ma attraverso vincoli più stringenti, il governo punta a cancellarne almeno centomila, il resto andrà sostituito per procedere a una “modernizzazione”. Con cosa? Con le più grandi Vlt, le videolottery che funzionano a jackpot e con importi (e vincite) molto più alti. Risultato: da qui al 2017 si spalanca una affare da 250 mila apparecchi, che fa gola a tanti, ma è alla portata di pochi colossi.
LE BOZZE finali sono custodite gelosamente, la norma, però, – assicurano fonti di governo – è nel testo definitivo, previsto per il prossimo Consiglio dei ministri. Chi ha seguito l’iter dei lavori parla di un testo su cui nelle ultime settimane si sono concentrate le attenzioni dei grandi big del settore, a partire dal leader di settore Lottomatica. E su chi quelle norme le ha elaborate: la direzione affari legali dei monopoli di Stato, guidata da Italo Volpe, ex capo del legislativo del ministero dell’Economia. È qui che le bozze vengono studiate in contatto con gli uffici di Via XX settembre. L’attenzione dei colossi non è casuale. Metà delle videolottery, infatti, sono distribuite da Novomatic (45% del mercato), colosso austriaco da 20 mila dipendenti e 3,5 miliardi di fatturato, una piccola parte (circa il 13 per cento) da Inspired, azienda quotata alla borsa di Londra, il resto da Spielo, società canadese solo sulla carta, perché controllata da Gtech, a sua volta acquisita nel 2007 proprio da Lottomatica. Che così gioca in due campi, da un lato produce e affitta i costosi apparecchi, dall’altro riscuote la raccolta come concessionario. Da settembre, l’azienda guidata da Marco Sala – e controllata da De Agostini – si è affidata a un lobbista di grande esperienza come Giuliano Frosini, manager di rito bassoliniano, con ottime entrature nel giglio magico di Matteo Renzi e vecchia conoscenza di Volpe. Anche Novomatic gioca in prima persona, visto che è esercente e gestore di sale gioco. Ora per loro si apre un affare da miliardi di euro.
LA NORMA è duramente contestata dai Cinque Stelle, che parlano di regalo alla lobby dell’azzardo. Tanto più che fino a due settimane fa non figurava nelle bozze in circolazione. Sulla carta, la misura è giustificata da esigenze di controllo. Le Vlt, infatti, sono collegate in rete e possono essere controllate da remoto. Per installarle, poi, serve l’autorizzazione della questura. In pratica, assicura il governo, così si aumentano i controlli. Secondo il senatore Giovanni Endrizzi (M5S), sono invece pericolosissime: “È come togliere la marijuana terapeutica e dare il metadone ai malati del gioco”. La gran parte, infatti, funziona a banconote e questo crea parecchi problemi sul fronte della lotta al riciclaggio di denaro. Tanto che, ricordano i 5Stelle, durante la missione della Commissione antimafia a Reggio Emilia, il Procuratore di Bologna e diversi prefetti hanno chiesto di estendere i certificati antimafia alle Vlt. “Saranno di tipo leggero – assicura al Fatto il sottosegretario Pier Paolo Ba-retta – Non si potranno giocare importi superiori a un euro”. Si vedrà. I dettagli sono demandati a un futuro decreto ministeriale, che dovrà chiarire anche come sarà possibile installare 250 mila macchinette (oggi sono 50 mila) nelle aree dove non esiste ancora la banda larga. Nel 2009, Berlusconi aprì il mercato alle videolottery con la scusa di trovare le risorse per i terremotati dell’Abruzzo. Da allora lo Stato ha incassato miliardi, ma non L’Aquila, dove i soldi non sono mai arrivati.
LE ASSOCIAZIONI sono infuriate. Dal canto suo il governo ha ridotto l’obbligo di pubblicità ai concessionari, confermato la tassa da 500 milioni della Stabilità, e imposto un limite di sette metri quadri per apparecchio. C’è però un comma curioso che impone a Comuni e Regioni di adeguarsi alla legge nazionale in materia di sale giochi: se confermato, farebbe decadere tutte le normative più stringenti adottate in questi anni.

Corriere 22.2.15
Nel Paese più a rischio di terremoti dimezzate le università di geologia
di Gian Antonio Stella


Q ual è il Paese europeo più colpito dai terremoti? L’Italia. Quello più colpito dalle frane? L’Italia. Quello più colpito dall’emorragia di geologi? L’Italia. È tutto in questo paradosso, insensato, uno dei grandi problemi che ci affliggono
Via via che il territorio si rivelava più a rischio, le opportunità per i giovani di studiare geologia sono diventate sempre meno, meno, meno...
Il colmo è stato toccato all’università di Chieti. Dove, a causa prima delle spaccature interne e poi della necessità di trovare una scappatoia alla rigidità della legge voluta nel 2009/2010 da Maria Stella Gelmini, decisa (con buone ragioni, anche) ad arginare l’eccesso di dipartimenti spesso mignon con la soppressione o l’accorpamento di quelli più piccoli, è nato il «Disputer». Dipartimento di Scienze Psicologiche Umanistiche e del Territorio. Che tiene insieme gli psicologi che indagano nel sottosuolo delle menti umane e geologi che studiano il suolo e il sottosuolo della terra. Un capolavoro. Come se, per sopravvivere a una spending review, si fondessero insieme una carpenteria navale e un quartetto di violini.
Eppure quali siano le estreme fragilità geologiche del nostro territorio è sotto gli occhi di tutti. Lo dice il sito ufficiale della Protezione civile: «L’Italia è uno dei Paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo, per la frequenza dei terremoti che hanno storicamente interessato il suo territorio e per l’intensità che alcuni di essi hanno raggiunto, determinando un impatto sociale ed economico rilevante. La sismicità della Penisola italiana è legata alla sua particolare posizione geografica, perché è situata nella zona di convergenza tra la zolla africana e quella eurasiatica ed è sottoposta a forti spinte compressive... ». Lo ripete l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia ricordando che sul territorio Italiano (in Francia c’è solo il Puy-de-Dôme che dorme da sei millenni, in Grecia solo Santorini) «esistono almeno dieci vulcani attivi» e cioè i Colli Albani, i Campi Flegrei, il Vesuvio, Ischia, lo Stromboli, Lipari, Vulcano, l’Etna, Pantelleria e l’Isola Ferdinandea. Più, se vogliamo, il Marsili che, adagiato nel mare tra il golfo di Napoli e le Eolie, è il più esteso del continente. La storia conferma: come scrivono nel volume «Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni» Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «dal 1861 ad oggi nel nostro paese, tra i più martoriati, ci sono stati 34 terremoti molto forti più 86 minori» per un totale di almeno 200 mila morti e 1.560 comuni, tra cui 10 capoluoghi, bastonati più o meno duramente. Uno su cinque.
Non bastasse, la relazione al Parlamento della «Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico» ricorda che oltre ai terremoti c’è il resto: «486.000 delle 700.000 frane in tutta l’Ue sono in 5.708 comuni italiani». Quasi il 69%. Con un progressivo aggravarsi della situazione, denunciata da Paola Salvati e altri nello studio «Societal landslide and flood risk in Italy»: tra il 1850 e il 1899 l’Italia è stata colpita da 162 frane più gravi, triplicate nel mezzo secolo successivo (1900-1949) salendo a 509 per poi aumentare a dismisura tra il 1950 e il 2008 fino a 2.204. E in parallelo crescevano morti, dispersi, sfollati...
A farla corta: avremmo bisogno di un esercito di geologi schierato sulle trincee della ricerca, dei piani urbanistici, delle mappe delle aree a rischio da aggiornare diluvio dopo diluvio. E invece la geologia è sempre più ai margini dell’università italiana. Una tabella del Cun (Consiglio universitario nazionale) dice tutto: dal 2000 al 2014 i professori ordinari di Scienze della Terra hanno avuto un crollo del 44,4%. E i dipartimenti «puri» di geologia, senza gli accorpamenti con altre materie magari a capriccio, sono scesi in una mappa drammatica di confronto che pubblichiamo nel grafico sotto, da 27 (in origine erano 38) a 8. Con la prospettiva di ridursi fra tre anni, visti i numeri, a cinque: Milano, Padova, Firenze, Roma, Bari.
Un delitto. Tanto più che, dopo essere precipitati tra il 2003 e il 2008 da 1490 a 1064, gli studenti a che hanno deciso di immatricolarsi nelle materie geologiche sono poi impetuosamente aumentati fino a sfondare nel 2012 il tetto di 1541. Con un aumento del 46%. Prova provata che negli ultimi anni cresce una nuova consapevolezza di quanto il nostro Paese abbia bisogno di quei giovani da mandare al fronte contro il dissesto del territorio.
Sono anni che il Parlamento è stato chiamato a correggere le storture create dalla rigidità esagerata, in settori come questo, della riforma Gelmini. Ed è dall’estate del 2013 che giace in Parlamento una proposta di legge, prima firmataria la pd Raffaella Mariani, per riscattare «la sostanziale scomparsa dei dipartimenti di scienze della terra». La denuncia di «un grave degrado della qualità della vita e della tutela della pubblica incolumità» e di inaccettabili anomalie («a volte strutture pubbliche, quali scuole, ospedali e stazioni, vengono costruite in aree a rischio») è rimasta però, per ora, lettera morta. «Oggi i 1.020 docenti e ricercatori dell’area delle scienze della terra risultano dispersi fra 50 atenei in 94 dipartimenti diversi con una media di meno di 11 unità per dipartimento», denunciava un anno e mezzo fa la Mariani, «Il caso più eclatante è quello dell’Emilia-Romagna, regione con grandissimi problemi geologici e con quattro università. In nessuna di queste è sopravvissuto un dipartimento di scienze della terra. A Bologna, nell’università più antica del mondo dove nel 1603 Ulisse Aldrovandi coniò il termine “geologia”, oggi non esiste più un dipartimento... ».
Sulle proposte tecniche lanciate per restituire nuova vita alla materia così essenziale per la salute del territorio e degli italiani non vi vogliamo annoiare. Si va da una maggiore elasticità sul numero minimo di iscritti alla richiesta di una piccola quota del Fondo per la prevenzione del rischio sismico da destinare «al finanziamento di progetti di ricerca finalizzati alla previsione e prevenzione dei rischi geologici». Possono bastare? Boh... Ma certo occorre una svolta. O i lamenti che si leveranno davanti alle macerie e ai lutti del prossimo terremoto o della prossima frana suoneranno ancora più ipocriti...
Gian Antonio Stella

Repubblica 22.2.15
La Libia, la Grecia e la rapsodia in blu di Matteo Renzi
Chi deve fornire l’ombrello internazionale sia per la mediazione politica sia per l’enforcing militare sono l’Onu, l’Europa, la Nato
Il viaggio di Renzi a Mosca serve a metterlo in bella vista
Tornerà soddisfatto e ci racconterà di un pieno successo e questo è tutto
di Eugenio Scalfari


TRIPOLI bel suol d’amore / sarai italiana al rombo del cannon”: era il 1911 e l’Italia (governo Giolitti) conquistava lo “scatolone di sabbia” della Tripolitania, avendo mancato, preceduta dai francesi, di occupare la Tunisia allora molto più ambita. Mussolini e Pietro Nenni, da buoni socialisti quali erano, avevano cercato con tutti i mezzi di fermare la guerra, perfino facendo stendere i loro compagni sui binari dello snodo di Bologna per ostacolare i treni che portavano i soldati a Napoli e a Palermo per partire verso la Quarta Sponda, mentre Gabriele D’Annunzio celebrava l’impresa con le sue Canzoni d’Oltremare.
Tempi antichi, anzi antichissimi. La Libia — dove nel frattempo è stato scoperto il petrolio — non esiste più. Esistono governi che si odiano tra loro o fingono di ignorarsi: Tripoli, Tobruk con le bande di Bengasi e Misurata e circa duecento tribù della più varia estrazione e tre regioni geopolitiche: Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. E poi il deserto e le sue oasi.
In aggiunta c’è anche una propaggine del Califfato, che non si sa bene a chi si riferisca perché i capi sono locali; hanno occupato Derna e Sirte.
In questo “puzzle” si muovono liberamente spacciatori di uomini e di droghe, gli scafisti e gli schiavisti che conducono centinaia di migliaia di famiglie dall’Africa sub-equatoriale fino al mare e si dirigono verso l’Italia per poi, in grande maggioranza proseguire verso la Francia, la Germania, in Belgio insomma nell’Europa che offre più occasioni di lavoro. Ne muoiono a migliaia nel viaggio in mare ma il flusso non si arresta anzi crescerà sicuramente col passare del tempo.
QUESTA è la situazione dove l’Italia è tra i Paesi più minacciati, ma lo è anche l’Europa nel suo complesso. Perciò bisogna farvi fronte, bisogna indurre (costringere?) i governi libici ad una sorta di “union sacreé”, bisogna prendere contatto con le principali tribù e arrivare ad un accordo.
Forse ci vorrà anche un’adeguata e non simbolica presenza di militari in funzione di “peacekeeping” o addirittura di “peace-enforcing” ma affinché siano adeguate al compito in un Paese che è sei volte l’Italia, gli esperti ne valutano la consistenza a novantamila uomini, più i necessari appoggi navali e soprattutto aerei. Pensare all’Egitto è inutile, non dispone di forze adeguate e comunque ha ben altri problemi da risolvere.
Chi deve fornire l’ombrello internazionale, sia per la mediazione politica sia per l’“enforcing” militare, sono (in teoria) l’Onu, l’Europa, la Nato.
Matteo Renzi, con la rapidità che gli è propria negli annunci, ha già rivendicato la guida italiana sia per l’aspetto politico sia per quello eventualmente militare. Del resto ricorre proprio oggi l’anniversario del suo insediamento a Palazzo Chigi un anno fa. La leadership anche sul caso libico sarebbe per lui (anche per noi italiani?) un vero e proprio festeggiamento.
****
Non so se Renzi conosca le canzoni di D’Annunzio, ma questa semmai sarebbe una lacuna trascurabile. Il vero guaio è che a questo fine le sedi decisionali sono fuori dalla sua portata. L’Onu non deciderà un bel niente, impedita come è dalla presenza della Russia e della Cina nel Consiglio di Sicurezza. È vero che il 2 marzo il nostro presidente del Consiglio andrà a Mosca per incontrare Putin. Sarà certamente accolto benissimo, una montagna di caviale e litri di vodka specialissima. Putin non si muove ma parla con tutti, dal presidente egiziano alla Angela Merkel e Hollande (lì però si parlava di Ucraina e il discorso è alquanto diverso).
A Renzi darà tutte le rassicurazioni: la Russia è contro il terrorismo e quindi non lo favorirà in nessun caso. Ma i terroristi libici hanno a che fare con il Califfato? Quello che è certo è che fornire truppe non è mai avvenuto in Africa e quindi è certo che truppe russe non ci saranno. Quanto al voto nel Consiglio dell’Onu, le varie nazioni che vi partecipano possono tutt’al più avallare un intervento solo se sarà stato deciso da altri enti internazionali ma non sotto la sua bandiera. Potrà nominare un moderatore, ma non sarà certo Putin a determinarne la scelta. Tantomeno Renzi. Saranno, ovviamente, gli Usa.
Il viaggio di Renzi a Mosca serve a metterlo in bella vista a Roma. Tornerà soddisfatto e ci racconterà di un pieno successo e questo è tutto.
E l’Europa? Come sempre è divisa: la Francia vorrebbe una presenza militare, la Germania no. L’Italia, tutto sommato, neppure, sempre che non si riveli indispensabile. Insomma pensare ad un piano europeo per la Libia è escluso. Salvo la Mogherini, titolare della politica estera e della difesa dell’Ue. Via, come direbbe Enrico Mentana, questa è una mia battutaccia.
Resta la Nato e questa sarebbe lo scudo più appropriato, ma anche qui sono gli Usa a decidere. Perciò, caro Renzi, rassegnati: sulla costa libica noi possiamo anzi dobbiamo occuparci solo degli sbarchi di immigranti sulla nostra costa ed anche questa non è una bazzecola. Il resto sarà deciso altrove. O forse — speriamo di no — da nessuno.
****
La querelle tra Grecia ed Europa invece è andata a buon fine o almeno la soluzione provvisoria c’è stata: Tsipras ha ottenuto che i governi europei gli prestino altri 7 miliardi. Ma ha accettato le riforme contenute nel memorandum europeo che richiamava gli impegni già presi dalla Troika col precedente governo. Ora dovrà convincere la piazza e non sarà un’impresa facile. I greci però che l’hanno appoggiato con stragrande maggioranza nel voto e in piazza, avevano anche manifestato la loro contrarietà ad uscire dall’euro. Su questi tue tasti contraddittori Tsipras giocherà la sua partita e probabilmente — si spera — la vincerà.
Non dimentichiamo che il suo vero interlocutore non è stato Schäuble che addirittura si è permesso di insultare il governo di Atene violando con ciò il prestigio dovuto alla sovranità dei governi nazionali, ma è stato Mario Draghi che aveva già deciso di proseguire per un mese il finanziamento delle banche greche aumentandone addirittura l’ammontare. In realtà se c’è una persona e un’istituzione che sta mettendo al sicuro l’euro e si occupa anche di favorire la crescita e l’avvio dell’Europa verso un vero Stato continentale, questo è lui e la Bce.
Anche l’Italia ha in Draghi il suo efficiente “testimonial”. Se le nostre esportazioni hanno ripreso a correre non è un merito delle imprese italiane ma del cambio euro-dollaro che ormai è ad un passo dalla parità. Ne deriva la ripresa della domanda di beni e servizi italiani, mentre si riduce il prezzo del petrolio (ma lì Draghi non c’entra) che ci frutta un risparmio notevolissimo da impiegare nel modo migliore. Per esempio nell’abbattere interamente il cuneo fiscale.
Tutti questi miglioramenti si sono prodotti al di fuori dal raggio d’azione del governo, come la ripresa dell’esportazione e la plusvalenza nell’importazione di materia prima energetica. Questi elementi rappresentano un preliminare che darà rilancio agli investimenti e quindi, quando gli impianti saranno tornati al loro tetto naturale, anche ad un aumento dell’occupazione.
In tutto questo la definitiva attuazione del Jobs Act è un elemento molto positivo della politica economica renziana, anche se la fisionomia “classista” non sfugge a nessuno. Queste sono scelte politiche sulle quali i sindacati si sono già manifestati contro, ma dove la parola definitiva spetta al governo.
Un punto tuttavia deve esser chiaro: il Jobs Act è teoricamente una buona legge ma produrrà i suoi effetti nella misura in cui riprenderanno gli investimenti e la madre di questa ripresa è stata appunto la Bce e lo sarà ancora di più quando avrà inizio ormai tra pochissimo tempo la “quantitative easing”. Questo e solo questo renderà funzionante il Jobs Act, senza di che tutto rimane fermo e le imprese non assumono.
****
Sui dettagli, tutt’altro che trascurabili, del Jobs Act non mi diffondo. Ci sono altri servizi sul nostro giornale che fin da ieri aveva già compiuto un’attenta e oggettiva analisi della legge, i suoi pro e i suoi contro nonché i consensi e le critiche delle parti interessate. A me premeva sottolineare che quella legge produrrà effetti positivi solo quando le misure monetarie e creditizie delle Bce avranno dispiegato tutti i loro effetti; in parte sono già in atto e col passare del tempo lo saranno ancora di più.
Mi resta ancora un punto da esaminare che non ha nulla a che fare con quanto fin qui è stata materia di riflessione: l’andamento nel mondo del concetto e della prassi della democrazia. C’è un sondaggio internazionale che ne parla ed è assai istruttivo e al tempo stesso molto preoccupante.
La democrazia partecipata, cioè col consenso del popolo e l’esercizio dei suoi diritti, è in forte declino. Questo fenomeno varia da paese a paese sia nelle forme sia nelle date in cui quel fenomeno ebbe inizio, ma il processo di decadimento è generale in tutti i continenti che compongono il nostro pianeta. Per noi il decadimento cominciò una trentina d’anni fa ed è andato aumentando nel ventennio berlusconiano ma, continua ad aumentare sempre di più. Il fenomeno si manifesta soprattutto in Occidente dove le democrazie partecipate sono nate e si sono sviluppate. Il sondaggio accenna anche alle cause che fanno da sottofondo al fenomeno ma in questo caso non si tratta più di sondaggio bensì di interpretazione dei sondaggisti. La causa si chiama indifferenza, soprattutto da parte dei giovani. O addirittura lo si può chiamare nichilismo. I giovani non si interessano alla politica né alla storia e al lascito di esperienze che il passato consegna al presente e si disinteressano anche del futuro.
Ovviamente non tutti i giovani sono indifferenti e nichilisti e non tutti gli indifferenti e nichilisti sono giovani, ma le dimensioni del fenomeno sono quelle già dette.
Attenzione: non sono dei bamboccioni che vivono nelle braccia protettive di mamma e papà; sono giovani fattivi, arditi, creativi. Ma la democrazia partecipata non rientra nei loro interessi.
A questo si deve aggiungere che alcuni (molti) governi approfittano di quest’indifferenza e addirittura la anticipano sottraendo diritti politici al tessuto costituzionale sicché, quand’anche la maggioranza dei giovani cambiasse atteggiamento, i diritti concernenti la democrazia partecipata non ci sarebbero più o sarebbero stati fortemente ridotti Consegno ai nostri lettori queste considerazioni. Se mi leggono questo è un segno che vedranno questo fenomeno con analoghe preoccupazioni. Quei diritti mi riguardano anche personalmente perché, pur essendo vecchio, ne usufruisco e vedendoli ridotti o aboliti anche io protesto e me ne dolgo.

Il Sole 22.2.15
La morsa blocca-politica
Renzi come Mussolini?
Da una parte ci sono i consociativisti, dall’altra i maggioritari
di roberto D’Alimonte


Renzi come Mussolini? Chi l'avrebbe mai detto un anno fa quando l'allora segretario del Pd è diventato premier che la sua determinazione a fare le riforme sarebbe stata paragonata all'autoritarismo del duce? Eppure è successo. All'indomani del recente voto alla Camera sulla riforma costituzionale ne abbiamo sentite di tutti i colori. La presunta deriva autoritaria imputata a Renzi è diventata un ritornello che rischia di far breccia tra cittadini sempre più disorientati. L'Aula semivuota della Camera è stata accostata addirittura all'Aventino del 1924. L’opposizione di Fi, Lega e M5s è diventata la voce di chi vuole difendere con tutti i mezzi la democrazia in pericolo. Anche chi non arriva a parlare di deriva autoritaria subisce il fascino perverso dell’aula semivuota. Perfino dentro la maggioranza di governo c’è chi pensa in buona fede, o forse no, che in una aula semivuota non si possa approvare la riforma della Carta. Questa è diventata la nuova tesi dei frenatori. Come se l’aula semivuota fosse qualcosa di sostanzialmente diverso dal voto di chi resta in aula e vota no.
A tutti costoro occorre ricordare ancora una volta che questo Parlamento liquido è il risultato di una elezione che ha creato una situazione politica fragilissima. Il 25 febbraio 2013 le urne non solo non hanno prodotto una maggioranza ma hanno portato in Parlamento forze incompatibili tra di loro. Partiti che non hanno un minimo denominatore comune come fu invece nella Assemblea Costituente nel 1946. In questo Parlamento, non in quello che vorremo ci fosse, la scelta è chiara: fare le riforme con chi ci sta o non farle per niente. Renzi ha scelto di farle con chi ci sta. Lo ha detto fin dall’inizio della sua avventura e sta tenendo fede alla sua strategia. Non è detto che ci riesca, ma ci prova. Il bello è che ora viene criticato perché vuole andare avanti da solo. Fino a poco tempo fa lo era perché voleva fare le riforme con Berlusconi. Questo è già un paradosso. Ma ce ne sono altri.
Le differenze tra il testo della riforma costituzionale approvato in Senato ad agosto 2014 e quello che sta per essere approvato alla Camera nei prossimi giorni sono modeste. Nessuna norma rilevante è stata modificata. Al Senato la riforma è stata approvata con i voti di Forza Italia. Non risulta che il partito di Berlusconi sia stato costretto a farlo. Si presume che lo abbia fatto perché la riteneva utile al paese. Adesso che lui e Renzi hanno litigato sulla elezione di Mattarella quella riforma, che il cavaliere dimezzato aveva sostenuto in agosto al Senato, non va più bene. È la stessa identica riforma ma non va più bene.
Ma non è la giravolta di Berlusconi che ci sorprende. Alla incoerenza del cavaliere siamo abituati. Quello che stupisce sono i commenti di chi parla ora di deriva autoritaria dopo la rottura del patto del Nazareno. La maggioranza che ha votato a favore della riforma alla Camera è la stessa di quella che aveva votato a favore al Senato meno Forza Italia. Lega, M5s e Sel hanno votato contro allora e hanno votato contro ora. La differenza la fa Forza Italia. Ergo, con i voti di Forza Italia la riforma andava bene e adesso che il partito di Berlusconi si è sfilato non va più bene ? Berlusconi sarà contento di sapere che ha in mano il potere di decidere sulla legittimità o meno della riforma costituzionale.
Ma non sono i paradossi che ci aiutano a capire. Il nocciolo della questione è un altro. Anche se non è del tutto chiaro all’opinione pubblica, e forse nemmeno ai protagonisti, la vera posta in gioco non è l’uno o l’altro aspetto delle riforme istituzionali in itinere, ma il modello di democrazia che queste configurano. Da una parte c'è chi ha nostalgia di un modello consociativo e consensuale, fatto di continue mediazioni e di larghe condivisioni. È il modello della Prima Repubblica cui sono affezionati la sinistra Pd, Sel e tanti costituzionalisti. Dall’altra c’è il M5s che oscilla tra democrazia diretta e democrazia assembleare, tra la centralità della rete e quella del parlamento. E poi c’è Renzi che punta a un modello di democrazia maggioritaria. Quello che si è fatto strada a partire dal 1993, prima nei governi locali e regionali e poi – più faticosamente e imperfettamente - a livello nazionale. È un modello di democrazia in cui chi vince governa. È il modello dell’Italicum e della attuale riforma costituzionale. Quale sia in questo preciso momento il modello preferito da Berlusconi non si sa. Deve ancora decidere.
Questi modelli di democrazia sono incompatibili tra loro. Ognuno ha una sua logica di funzionamento. Qualche compromesso è possibile su punti marginali ma non sugli aspetti essenziali. Per questo l'Italia è a un bivio. È da più di venti anni che si cerca di modernizzare il nostro sistema istituzionale. Certo, sarebbe meglio farlo con una larga condivisione come fu nel biennio 1946-1947. Ma i tempi non sono quelli. Oggi bisogna fare realisticamente i conti con l’esito delle ultime elezioni e con visioni molto diverse della democrazia. L’alternativa è lo stallo. Ed è una opzione inaccettabile. Cosa si dovrebbe fare ? Tornare alle urne per ritrovarsi dopo il voto nello stesso pantano ?
La democrazia maggioritaria non è l’anticamera dell'autoritarismo. Questa è una caricatura di chi non conosce cosa c'è fuori dai nostri confini. E poi in nessun articolo della Costituzione è scritto che occorrano super-maggioranze per cambiare la Carta. È richiesta solo la maggioranza assoluta. L’idea che la Costituzione vada cambiata con larghe maggioranze appartiene ad una visione consociativa e consensuale della democrazia. La Costituzione stessa prevede che al posto di una super-maggioranza di parlamentari la riforma possa essere approvata dalla maggioranza dei cittadini attraverso il referendum. Saranno dunque gli elettori a decidere sulla legittimità della nuova Costituzione. E nessuno allora si ricorderà delle aule semivuote di oggi. Questa è democrazia maggioritaria. E di questo modello abbiamo bisogno in questa fase della nostra storia.

il Fatto 22.2.15
Nel 1945
Strage a Sant’Anna, “Berlino ci deve risarcire”
di Erminia della Frattina


Sarà il tanto sangue versato, sarà la lapide al centro della piazza che racconta di tutti quei morti. Sta di fatto che il sindaco di un piccolo paese dell’alta padovana ha deciso di chiedere i danni di guerra alla cancelliera Angela Merkel perché, dice: “Se si vuole essere i primi in Europa non bisogna avere scheletri nell’armadio”.
UNA MEMORIA collettiva che conta 39 morti uccisi 70 anni fa, e che ora diventa richiesta concreta di risarcimento. Qualche giorno fa la giunta comunale di San Giorgio in Bosco, un paese di 6.300 abitanti tagliato dalla statale che porta a Trento, ha approvato una delibera che chiede alla Germania un risarcimento in denaro per l’esecuzione sommaria di 39 concittadini, avvenuta per mano dei soldati tedeschi il 29 aprile 1945 nella frazione di S. Anna Morosina.
Un eccidio inutile, compiuto dai tedeschi a guerra finita mentre battevano in ritirata, che ha coinvolto 39 persone dai 15 ai 70 anni, prelevate direttamente dalle loro case e costrette a camminare per chilometri sotto la minaccia dei fucili fino a Castello di Godego nel Trevigiano (paese natale di Luca Zaia) dove sono stati barbaramente colpiti e poi fucilati.
Una tragedia che ha toccato tutte le famiglie della piccola frazione veneta, nessuna esclusa. “Io ho perso uno zio fratello di mio padre – racconta Germana Cabrelle, la giornalista che per prima ha diffuso la notizia del risarcimento – mia nonna lo ha riconosciuto dopo avere guardato le facce immerse nel fango ad una ad una”.
Lei stessa porta il nome di una bella ragazza sedicenne, Germana Fasolo, uccisa in quella strage e allora fidanzatina di suo padre. “Questa tragedia ha toccato tutte le famiglie della zona, dove è ancora molto vivo il ricordo di questa immane disgrazia - spiega il sindaco leghista di San Giorgio in Bosco, Renato Miatello, promotore dell’iniziativa - su un totale di 400 abitanti di S. Anna i soldati tedeschi uccisero 40 persone, con conseguenze drammatiche per tutta la comunità. E quello stesso giorno molti altri furono trucidati nei paesi vicini”.
Oltre ai morti di S. Anna in quel triste 29 aprile furono uccisi barbaramente altri 139 civili dei paesi vicini tra S. Martino di Lupari, Villa del Conte e Castello di Godego. “Li fecero camminare con loro per coprirsi la ritirata e non rischiare di essere sorpresi dai soldati americani” prova a capire la strategia Ezio Cauzzo, memoria storica del paese e internato in un campo di concentramento nazista nel 1943, tornato in paese due mesi dopo la strage. Oggi tutto quel sangue deve avere un risarcimento, e il sindaco che per primo ha lanciato il sasso spera che gli altri comuni vicini seguano le sue orme. “Ci sono già i primi avvicinamenti, sarà una class action di Comuni mai vista prima” promette Miatello, che rischia l’effetto Davide contro Golia ma che ricorda la recente richiesta della Grecia di risarcimento danni di guerra chiesti dal ministro delle Finanze Yanis Varoufakis alla Germania. “In una fase storica in cui la Germania tenta quotidianamente di imporsi come potenza dominante dell’Unione europea – precisa l’agguerrito primo cittadino – ho ritenuto giusto chiedere che qualcuno paghi per questa inutile strage e si ricordi che prima di ergersi ad esempio per tutti bisognerebbe non avere scheletri nell’armadio”.
Un sindaco un po’ visionario e un po’ coraggioso, che però ha tutti i concittadini dalla sua parte. Riusciranno a farsi rispondere dalla Merkel?

il Fatto 22.2.15
Non solo gli ultrà olandesi. Continuo assalto a Roma
Da Campo de’ fiori al Gianicolo: statue sfregiate e patrimonio deturpato
I quattro leoni di Piazza del Popolo sono un parco giochi pieno di incisioni
di Virginia Della Sala


A Roma, in pochi guardano negli occhi la statua di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori. Gli studenti sanno che, secondo leggenda, potrebbero non laurearsi. Ma se seguissero il suo sguardo, si accorgerebbero che il filosofo guarda dritto nella fontana della Terrina, dall’altra parte della piazza. Un gruppo di bottiglie di vetro galleggia in senso orario e ogni tanto si incastrano in una busta di plastica o urtano contro un barattolo. A Villa Borghese, sul Pincio, ignorando i nastri gialli del Comune che volano sulle aiuole e le zone recintate e pericolanti, si incontrano fontane asciutte e lesionate, teste di statue senza naso, busti di marmo senza testa e colonne senza busti. La fontana dell’Acqua Paola sul Gianicolo, quella con cui apre La Grande Bellezza, sembra immacolata, ma i busti che scandiscono la passeggiata sono ancora ricoperti della schiuma rappresa di carnevale oppure dalle incisioni di chi non sapeva dove altro scrivere. Nelle strade nei pressi di San Pietro, nella notte tra venerdì e sabato, sono stati fermati tre tifosi olandesi del Feyenoord: rovesciavano cassonetti e danneggiavano i segnali stradali, secondo atto dei danni causati giovedì sera alla Barcaccia di piazza di Spagna e a Trinità dei Monti.
I QUATTRO LEONI che circondano l’obelisco Flaminio di Piazza del Popolo, invece, ogni giorno sono presi d’assalto da turisti e ragazzini. “A signò noi più che dirglielo non possiamo. Una, due, tre volte. Ma è un continuo, un fiume di gente. Lo fanno tutti”: una lettrice racconta di essersi rivolta alle forze dell’ordine per evitare che le persone incidessero scritte e nomi sui guardiani dell’obelisco. “Ci vorrebbe più controllo – hanno risposto – più protezione delle opere d’arte. A signò, più civiltà”. E se da un lato il questore di Roma Nicolò d’Angelo ha detto di preferire “qualche segno sui muri e un po’di sporcizia alla strage degli innocenti”, evitata con lo stop alle cariche in piazza di Spagna, in Campidoglio si comincia a pensare a nuove misure per tutelare le opere d’arte di Roma. Il potenziamento delle telecamere di vigilanza è tra le prime ipotesi. Il titolare del noleggio dei risciò all’entrata di Villa Borghese ne indica una: “La vede quella? Io mica lo so se funziona. Da come vanno le cose, credo di no”. Il secondo provvedimento riguarderà, invece, una maggiore collaborazione con le forze dell’ordine. “Eppure – racconta ancora la nostra lettrice – quando sono andata a chiedere l’intervento dei vigili che erano di guardia a Piazzale Flaminio, la loro risposta è stata che oltre la porta si trattava di un altro municipio. Non era di loro competenza. In un altro Paese, non sarebbe successo”.

il manifesto 22.2.15
Renzi, attento alla propaganda di Netanyahu
di Zvi Schuldiner

qui

il Fatto 22.2.15
“L’austerità è finita”, Tsipras prova a nascondere la disfatta
Domani nuovo vertice, il governo di Atene ha perso ogni autonomia
di Stefano Feltri


L’unico modo per reagire a una sconfitta a volte è presentarla come una vittoria: “Abbiamo vinto una battaglia ma non la guerra, i negoziati più difficili ci aspettano”, ha detto ieri Alexis Tsipras, premier della Grecia, Paese natale di quell’Esopo che scrisse la nota favola della volpe golosa di uva.
IL GIORNO DOPO l’accordo preliminare con i governi dell’Eurogruppo, l’impressione è che Atene abbia perso sia la battaglia che la guerra. “Non sono sicuro di capire perché il governo di Syriza abbia iniziato questo conflitto. Ha ottenuto così poco e speso del capitale politico che gli sarebbe servito per il terzo programma di salvataggio”, commenta su Twitter il corrispondente da Bruxelles del Financial Times Peter Spie-gel. E l’economista Tyler Cowen, nel suo blog Marginal Revolution, scrive che “la Grecia ha perso”. Il quotidiano conservatore tedesco Die Welt, voce degli estremisti del rigore, traduce così il senso politico del compromesso: Atene ha quattro mesi per mettersi in regola o per prepararsi a un’uscita ordinata dall’euro.
Martedì ad Atene riaprono le banche, durante la giornata festiva di domani il governo di Syriza dovrà ultimare la lista di riforme da sottoporre in serata all’approvazione degli altri governi della zona euro. Difficile una bocciatura drastica, ma ci sarà ancora da negoziare. A meno di rotture impreviste, martedì le banche greche non falliranno, non ci sarà la corsa agli sportelli e continueranno ad avere i 10,9 miliardi (pronti ma non utilizzabili fino ad aprile) del Fondo salva Stati che possono essere usati per ricapitalizzare le banche. Questo è l’unico risultato di Tsipras che però si vanta di aver ottenuto “la fine dell’austerità”.
DOPO MENO di un mese di governo, molti annunci e un tour diplomatico nelle capitali europee, il bilancio di Tsipras e del suo ministro Yanis Varoufakis è il seguente: abbandonato il progetto di convocare una conferenza internazionale per tagliare il valore dei 315,5 miliardi del debito pubblico greco; archiviata l’idea di sostituire i bond in scadenza con altri a durata perpetua (se in mano alla Bce) o con il rendimento legato alla crescita del Paese (quelli dei governi e del Fmi) ; quasi respinta la richiesta di ridurre l’avanzo primario, cioè quanto resta delle entrate dello Stato dopo aver pagato le spese e prima del conto degli interessi sul debito, dal 4,5 all’1,5 per cento del Pil (l’Eurogruppo concede una non meglio definita flessibilità nell’ambito delle regole esistenti) ; la Troika che vigila sulle riforme cambia nome, ora il trio di supervisori di Commissione europea, Fmi e Bce si chiama semplicemente “le istituzioni”. Tutto il “Programma di Salonicco” con cui Syriza ha vinto le elezioni non esiste più: la riassunzione degli statali licenziati, l’abolizione della tassa sulla casa, la spesa sociale per le vittime della recessione, gli sconti sull’energia alle famiglie, il blocco delle privatizzazioni. La Grecia si è impegnata ad attuare soltanto le riforme che non mettono in discussione i suoi obiettivi di bilancio (decisi dalla Troika) e a chiedere il permesso per le misure che potrebbero far peggiorare il deficit. Non solo: Atene avrà a fine aprile i soldi che, se Tsipras non avesse rimesso in discussione i provvedimenti del precedente governo, avrebbe ottenuto a fine febbraio: i redimenti sui bond greci detenuti dalla Bce (2 miliardi circa), gli ultimi 2 miliardi di prestiti dal fondo salva Stati e circa 7 dal Fmi.
SECONDO molti economisti, Atene dovrà comunque chiedere un terzo piano di salvataggio perché nessun Paese può permettersi il 9 per cento di tasso di interesse che oggi i mercati chiedono per detenere bond greci a 10 anni. Ma la Grecia di Tsipras si è già fatta molti nemici: la Germania, prima di tutto, poi i Paesi che hanno rispettato i dettami della Troika fino in fondo (Irlanda, Portogallo, Spagna) e il presidente americano Barack Obama si è spazientito per l’arroganza di Tsipras e Varoufakis. Ora Atene è isolata, il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Djesselbloem è arrivato a mettere in dubbio la “buona fede” dei greci al tavolo. Proprio per non sembrare un appestato ieri Tsipras ha chiamato il premier Matteo Renzi, per ringraziarlo del ruolo di mediazione. Ma l’Italia, quando si è trattato di scegliere, si è sempre schierata con Angela Merkel.
“Il loro problema è che si tratta di un ribaltamento delle loro promesse elettorali. Non c’è assolutamente nulla sul tavolo che possa essere considerato una concessione”, ha detto il ministro delle Finanze irlandese Michael Noonan, citato dalla Reuters. I greci che hanno avuto fede in Tsipras ancora non se ne sono convinti, ma ci vorrà poco.

La Stampa 22.2.15
Quattro mesi sul filo del rasoio
Il Paese fa i conti per sopravvivere
Senza gli aiuti di Fondo monetario e Bce lo Stato crollerebbe
di Stefano Lepri


Oggi in Grecia si celebra il carnevale, secondo il calendario ortodosso. Domani è il «lunedì di purificazione», festivo, dedicato alle scampagnate. Al ritorno in città martedì senza l’accordo dell’altra sera all’eurogruppo sarebbe stato impossibile ottenere soldi dai bancomat, e le banche, causa le casse vuote, sarebbero state costrette a prolungare la vacanza.
Così gli euro invece non mancheranno, sempre che non si creino nuovi intoppi lunedì sera, quando il governo di Atene consegnerà una prima lista di misure. Si tratterà di anticipazioni di emergenza concesse dalla banca centrale greca autorizzata dalla Bce. In un modo o nell’altro saranno pagati 1,4 miliardi di euro al Fmi che scadono in marzo.
I denari veri dall’Europa arriveranno non prima di maggio; e saranno ancora parte del vecchio programma di aiuto, non aggiuntivi. L’accordo nell’Eurogruppo prevede infatti di bloccare ogni erogazione fino a un accordo completo sull’estensione del programma, da raggiungere a fine aprile, con misure concordate una per una.
Anche allora, si tratterà dello stretto necessario per andare avanti – pagando altri 1,4 miliardi al Fondo monetario – fino al 30 giugno, termine dei 4 mesi concessi. I massicci rimborsi di debiti all’Europa che scadono in luglio e agosto, 6,7 miliardi, non potranno essere affrontati senza concordare un nuovo programma di aiuti, il terzo dal 2010, con esborsi aggiuntivi.
Un grave errore tattico è stata la minaccia di usare per rimborso dei debiti i soldi europei destinati a ricapitalizzare le banche. Sono 10,9 miliardi che ora tornano sotto controllo europeo perché si usino davvero a quello scopo.
Dunque non c’è scampo: il governo Tsipras sarà costretto a vivere quattro mesi sul filo del rasoio. E durante tutto questo periodo, scadenza dopo scadenza, la Germania sarà pronta a sfruttare ogni suo passo falso. I più dottrinari fautori dell’austerità cercano motivi per addossare alle elezioni anticipate e al nuovo governo la colpa del mancato risanamento della Grecia.
Che l’austerità sia «finita» resta in dubbio perché non è chiaro né il punto di arrivo (quanto precisamente sarà più leggero l’obiettivo di bilancio da raggiungere nel 2015) né il punto di partenza, ossia lo stato attuale dei conti pubblici. Sýriza aveva sottovalutato il rischio di promettere un condono in campagna elettorale, ora ne paga le conseguenze in un crollo del gettito tributario. Nella lista di lunedì non si parlerà né di lavoro né di pensioni; sono esclusi aumenti dell’Iva, si dice ora ad Atene.
Ma il programma elettorale prometteva, tra l’altro, di cancellare la tassa sulla prima casa ed elevare a 12.000 euro annui la soglia di esenzione dall’imposta sul reddito: tutto questo cade. Un’uscita dalla crisi aumentando in fretta i redditi e quindi i consumi è preclusa. La sfida per Tsipras sarà di offrire credibili riforme «di sinistra» in sostituzione a quelle che rifiuta.

Repubblica 22.2.15
Ma Atene è spiazzata dall’intesa europea
“Il nostro governo ha fatto dietrofront”
di Ettore Livini


ATENE La cravatta, per ora, può attendere. «La metterò quando i creditori accetteranno di tagliare il nostro debito», aveva promesso Alexis Tsipras. Molti greci, forse un po’ troppo ottimisti, si erano illusi di vederlo già ieri mattina con il collo fasciato da quella che gli ha regalato Matteo Renzi. Invece no. E malgrado il premier — addosso la solita camicia bianca sbottonata — abbia celebrato come un successo l’intesa all’Eurogruppo, il day-after di Atene è iniziato con l’incubo della “Kolotoumba”, il dietrofront. Lo evocano in coro gli avversari: «Ha rinnegato tutte le sue promesse elettorali. L’unico partito anti memorandum siamo noi», dettano alle agenzie sia Alba Dorata che i comunisti del Kke. Ma il dubbio del voltafaccia — e questo è un po’ più preoccupante per il leader di Syriza — serpeggia pure tra le fila di quel 36,3% di greci che il 25 gennaio, esasperato dall’austerity imposta dalla Troika, ha messo la croce sul simbolo della sinistra.
Il primo assaggio della maretta il presidente del Consiglio l’ha avuto nelle riunioni informali di ieri a Koumoundourou, nella sede del partito. Incontri tesissimi dove ha faticato a tenere a bada gli umori della minoranza del partito («io non voto questa retromarcia » minacciano in molti). «Non potevamo fare altrimenti — ha spiegato — Anzi. Abbiamo salvato il paese da una congiura dei conservatori greci ed europei che volevano metterci all’angolo, facendo chiudere le banche con la scusa della fuga dei capitali». Spiegazione, dicono i suoi collaboratori, seguita da un appello: «Giudicatemi tra quattro mesi. Manterremo le promesse elettorali — ha garantito — . E sarà chiaro a tutti da domani, quando finalmente potremo iniziare a scrivere da soli la ricetta per salvare la Grecia, senza farcela dettare dalla Troika».
Il suo pressing diplomatico sul fronte interno, per ora, non ha dato molti risultati. «Syriza approverà il pacchetto senza problemi anche se non contiene tutti i punti del programma», ha detto fiducioso il ministro all’Economia George Stathakis, uomo del cerchio magico del premier. Più bellicoso il leader di Piattaforma della sinistra, l’ala radicale del partito: «Ci sono linee rosse che non possono essere valicate — ha sottolineato sibillino — se no non sarebbero rosse». Preoccupante anche il silenzio del partner di governo Panos Kammenos, leader della destra nazionalista di Anel, che la scorsa settimana aveva detto di essere pronto a farsi esplodere a Bruxelles «se l’Eurogruppo non avesse accettato le richieste greche». Senza i voti dei suoi 13 parlamentari, l’esecutivo non ha la maggioranza. Anche se Stavros Theodorakis, leader di Potami, ha detto di essere pronto a lanciare un salvagente a Tsipras, complimentandosi per il risultato “ragionevole” dei negoziati.
«Se fossi tra gli elettori di Syriza, stamattina mi sarei svegliato con una diavolo per capello », ha twittato perfido ieri all’alba Nigel Farage, leader della destra anti-europea inglese. Arrabbiati no. Molto dubbiosi però sì. «Sono confusa — racconta prendendo un tiepido sole primaverile su una panchina a Syntagma Katerina, una delle donne delle pulizie licenziate dal governo Samaras e riassunte («così hanno promesso, le carte dovrebbero arrivare nei prossimi giorni») da quello di Tsipras — Hanno combattuto come leoni. Hanno ribattuto colpo su colpo ai tedeschi. Alla fine però mi sembra che siamo rimasti con un pugno di mosche in mano». «L’80% dei greci che sosteneva Syriza perché convinti riuscisse a domare Wofgang Schaeuble si è alzato oggi di cattivo umore — dice fatalista Stathis Masouras al mercatino delle pulci di Mo- nastiraki — Ma l’80% dei greci che voleva rimanere nell’euro si è svegliato contento». Lui, per capirci, appartiene a entrambi i campioni.
«Capisco la delusione. Venerdì il Parlamento avrebbe dovuto discutere la legge per bloccare la confisca delle prime case alle famiglie che non sono in grado di pagare i mutui, fregandosene del parere della Troika — ammette Stelios Papakonstantinou, 22 anni, studente di economia e altro elettore spaesato — . Io però ho detto ai miei amici di non aver fretta. A Bruxelles siamo stati lasciati da soli. La vera partita inizia ora. Se l’austerità e il memorandum sono davvero alle spalle lo giudicheremo dai piani che Tsipras e Varoufakis presenteranno ai creditori ». Altrimenti toccherà a tutti rassegnarsi alla Kolotoumba.

Il Sole 22.2.15
«Doppiopesismo» ed eurodemocrazia
di Adriana Cerretelli


A che cosa serve eleggere Alexis Tzipras e un programma di rottura con l’Europa della troika se poi non cambia niente e Tzipras è costretto a seguire le orme di Antonis Samaras, il predecessore deprecato per gli eccessi di austerità che hanno travolto la Grecia?
In breve, in una democrazia indebitata dell’area euro vale ancora la pena di votare? L’ordine regna a Bruxelles il giorno dopo il sudato accordo politico tra Atene e i partner della moneta unica. Sospiro di sollievo generale. Scongiurato il peggio, il default ellenico, allontanata l’ombra di Grexit e del salto nel buio. Salvaguardate regole e patti europei. La vera partita negoziale però comincia solo ora e si annuncia per tutti una nuova corsa ad ostacoli. Piena di insidie.
Tutti hanno l’amaro in bocca, creditori e debitori: chi ha vinto, anzi stravinto, ma continua a non fidarsi del proprio successo perché continua a non fidarsi di chi ha sconfitto. E chi ha perso e fa finta di no, come Yanis Varoufakis: «Ormai sono finiti i tempi in cui le cose ci venivano imposte e non erano attuate. Ora saremo noi a decidere insieme ai nostri partner ristabilendo l’indipendenza nazionale della Grecia».
L’autodifesa del ministro delle Finanze suona patetica, se si mette a confronto il povero risultato con ambizioni e toni roboanti dell’inizio. Né smentisce questa istantanea dell’Eurogruppo, tornata prepotentemente in voga a Bruxelles subito dopo la capitolazione di Atene: Eurogruppo? Un tavolo intorno al quale siedono periodicamente 19 giocatori ma vince sempre uno solo, lo stesso, la Germania.
Perché dunque affossare il centro-destra e affidarsi alla sinistra radicale se poi devono comunque governare allo stesso modo? L’interrogativo sul peso effettivo della dinamica democratica e sui suoi reali margini di manovra ai tempi dell’euro e del patto di stabilità non è certo nuovo. Ma la Grecia di Tzipras lo ripropone a tutti senza veli, perché la sua Grecia sovversiva e nazionalista esprime il primo vero rigurgito democratico contro il sistema-eurozona. Non sarebbe mai nata, quella Grecia, se l’Europa non se la fosse ottusamente allevata in seno con la cecità delle sue politiche tecnocratiche eccessivamente punitive, socio-economicamente insostenibili, politicamente suicide.
Colpirne uno per educarne cento: l’Europa ha adottato la vecchia massima maoista nella speranza di bloccare il contagio: ieri come oggi Atene è la cavia ideale per neutralizzare sul nascere fermenti ribellisti e assalti all’ordine costituito dei vari Podemos, Sinn Fein, Front National, dei movimenti nazional-populisti.
L’assunto di partenza è chiaro: nella gerarchia delle regole, quelle europee prevalgono su quelle nazionali. A maggior ragione quelle del patto di stabilità e consimili vanno rispettate a prescindere, non possono nella sostanza soggiacere agli incerti e ai malumori delle democrazie.
Se l’Europa non fosse, come è, una proterva Unione di Stati nazionali sovrani ma una vera entità federale dotata di una propria Costituzione, di una propria politica macro-economica e finanziaria e di un bilancio comune adeguato, il teorema potrebbe anche avere una logica inattaccabile.
Non è così. Nel 2005 un tentativo di euro-Costituzione fu bocciato da Francia e Olanda e dimenticato. Nonostante, complice l’euro, l’interdipendenza tra Stati si approfondisca, in parallelo si accentuano spinte centrifughe e arroccamenti nazionalisti, soprattutto nell’euronord.
Senza contare che le cessioni di sovranità restano ineguali. La Germania è l’unico paese la cui Corte costituzionale prende decisioni di valenza europea. Di più, il Bundestag è autorizzato a approvare o respingere le decisioni del Governo adottate in sede europea per verificarne la conformità con la Legge fondamentale tedesca. Governi, parlamenti e strutture democratiche, soprattutto dei paesi debitori, risultano invece sempre più “minorati” dai nuovi patti sull’euro-governance. Non a caso, e da molto prima che arrivasse Tzipras, la legittimità della troika è messa seriamente in dubbio.
Fino a che punto però questo doppiopesismo democratico, questa eurozona di sovrani ineguali di diritto e di fatto è sostenibile senza provocare guasti irrimediabili alla convivenza europea e alla tenuta dell’euro, che per durare ha tra l’altro urgente bisogno di unione economica e politica? Commissariata ieri come oggi, la Grecia sembra tornata all’ovile ma il suo profondo disagio europeo non può essere liquidato con un duro e semplicistico richiamo alla disciplina dei patti europei (forse un po’ più flessibili).
La stabilità economico-finanziaria dell’euro è prioritaria per tutti ma non può prescindere dalla stabilità democratica e sociale dei paesi che lo compongono. Altrimenti, scongiurato il default greco, prima o poi arriverà quello europeo.

Il Sole 22.2.15
Euro e caso Grecia
Gli squilibri mai corretti e il silenzio dell’Europa
di Luca Ricolfi


Tre cose sembrano chiare, per ora. La prima è che la Grecia non abbandonerà l’euro. La seconda è che l’Europa le presterà altri soldi. La terza è che i politici, greci ed europei, faranno di tutto per nascondere la verità alle rispettive opinioni pubbliche.
La verità, infatti, è indigeribile sia per Tsipras, sia per gli altri governi europei. Per questi ultimi, e in particolare per quelli che hanno dovuto inghiottire le amare medicine (austerità e riforme) imposte dalla Troika, sarà dura spiegare l’ennesimo salvataggio della Grecia. È possibile che le loro opinioni pubbliche non capiscano (o capiscano fin troppo bene), e che in Paesi come la Spagna, il Portogallo e forse anche l’Italia, monti la tentazione di fare come in Grecia, e cresca il consenso ai partiti anti-uro. Per Tsipras, d’altro canto, sarà dura nascondere che il prestito che si accinge a ricevere dall’Europa ha un prezzo politico, e che il suo governo avrà le mani legate più o meno quanto quelli che l’hanno preceduto.
Dunque, prepariamoci. Fin dalle prossime ore, la politica europea si scatenerà nella ricerca di parole volte a nascondere quel che sta succedendo. E non sarà difficile trovarle. Se ci siamo abituati a non pronunciare più parole come spazzino, bidello, cieco, handicappato, e abbiamo imparato a sostituirle con “operatore ecologico”, “collaboratore scolastico”, “non vedente”, “diversamente abile”, ci metteremo pochi minuti a smetterla di pronunciare parole come Troika, salvataggio, memorandum. D’ora in poi, se tutto andrà per il verso desiderato, la Troika (Ue, Bce, Fmi) diventerà “le tre Istituzioni”, il salvataggio verrà chiamato “prestito ponte”, il memorandum verrà ribattezzato “nuovo accordo”.
Niente di male, naturalmente. Fa parte della politica, anzi forse è l’essenza stessa dell’arte politica, manipolare i fatti attraverso le parole. Il problema, tuttavia, è che i fatti resistono. E il fatto fondamentale, che resta in piedi al di là di ogni accordo, di ogni dichiarazione, di ogni promessa, è che l’Europa non solo non è ancora fuori della crisi iniziata sette anni fa, ma non ha trovato alcun meccanismo per far sì che quel che è successo allora non si ripeta in futuro. Qui non mi riferisco all’eventualità che la Grecia debba essere salvata un’altra volta ad agosto, e poi un’altra nel 2016, e poi un’altra ancora negli anni a venire. No, il punto decisivo è che quel che è successo in questi anni, con la Grecia come con gli altri Pigs, potrebbe benissimo ripetersi in futuro. E questo per una ragione molto semplice: nonostante alcuni tentativi di restyling della governance europea, i meccanismi economici di base dell’Eurozona sono rimasti sostanzialmente invariati.
E dopo più di 15 anni di moneta comune tali meccanismi hanno rivelato al di là di ogni ragionevole dubbio che non sono in grado di correggere gli squilibri fra gli stati membri.
Lo squilibrio fondamentale, quello che ha innescato la cri si del 2007-2008, non è tanto l’eccessivo indebitamento di alcuni stati, ma è l’accumularsi sistematico di forti disavanzi della bilancia dei pagamenti in alcune economie (tipicamente in Grecia, Portogallo e Spagna) e di altrettanto enormi avanzi in altri (tipicamente in Germania). In condizioni normali (senza una moneta comune) squilibri di questo tipo si correggono automaticamente con la svalutazione della divisa dei paesi deboli, la cui produttività ristagna o cresce troppo lentamente, e con la rivalutazione della divisa dei paesi forti, la cui produttività corre troppo in fretta. Dopo la svalutazione, i paesi che sono vissuti al di sopra dei propri mezzi sono costretti a importare meno beni prodotti da altri e ad esportare più beni prodotti da sé stessi, mentre l’esatto contrario accade, con la rivalutazione, per i paesi che hanno consumato e investito troppo poco, preferendo accumulare riserve finanziarie.
Ma se si abbandonano le valute nazionali per una valuta comune, il meccanismo del cambio scompare per definizione, e lo si deve sostituire con meccanismi alternativi. I fautori della moneta unica, presumibilmente, pensavano che tali meccanismi potessero essere tre: la convergenza delle dinamiche della produttività, favorita dalla concorrenza e dalla liberalizzazione dei mercati; la capacità delle banche di selezionare oculatamente i clienti, erogando il credito solo a chi avesse buone possibilità di restituirlo; la propensione dei mercati finanziari a punire (con gli alti tassi di interesse) gli Stati troppo spendaccioni. Ebbene, il problema è che in questi 15 anni nessuno di questi tre meccanismi ha mostrato di poter funzionare.
La convergenza delle produttività nazionali non c’è stata perché, in un contesto di stati nazionali con lingue e istituzioni diverse, la liberalizzazione dei mercati e l’armonizzazione delle legislazioni sono difficilissime da realizzare. La selezione dei clienti da parte delle banche non si è realizzata per una pluralità di motivi, primo fra tutti la mancata separazione fra banche d’affari e banche commerciali. Quanto ai mercati finanziari, essi hanno rivelato di essere ottusi nei periodi di vacche grasse (quando chiedevano gli stessi interessi alla Germania e alla Grecia) e iper-sensibili nei periodi di tensione (quando la paura del default di uno stato faceva schizzare all’insù i tassi di interesse, rendendo più probabile il default stesso).
Abbiamo motivo di pensare che qualcosa di importante sia cambiato e che quel che non ha funzionato ieri possa funzionare domani?
A me pare di no. Il problema che l’Eurozona aveva nel 1999, sostituire il meccanismo del cambio con meccanismi alternativi ma altrettanto efficaci, resta tuttora perfettamente insoluto. Ed è inquietante che quel problema, quello di gestire economie con sentieri di crescita divergenti, sia molto più chiaro ai critici dell’Europa che alle autorità europee. Si può (anzi, si deve) dissentire con chi sogna il ritorno alle valute nazionali, così come si può dissentire con chi teorizza lo split della moneta comune in un euro del Nord e un euro del Sud, o con chi propugna la messa in comune dei debiti pubblici. Ma resta il fatto che, se si insiste nella difesa a oltranza dell'euro, bisognerà pure, prima o poi, uscire dal silenzio e porsi il problema che l’adozione dell’euro ha generato: quello di un continente in cui ogni nazione vuol decidere da sola la propria strada, ma nessuna vuole abbandonare il totem della moneta comune.

Corriere 22.2.15
Rapporti fra greci e russi. Storia, religione, interessi
risponde Sergio Romano


La Grecia minacciava di ricorrere all’aiuto economico della Russia, qualora non avesse trovato soddisfazione dalla Ue. E la Russia si era dichiarata disposta a fornire prestiti alla Grecia. Quando e come è nato il sodalizio?
Attilio Lucchini

Caro Lucchini,
Nei rapporti fra la Grecia e la Russia vi sono anzitutto memorie storiche, affinità culturali, contiguità religiose. I russi di Kiev, nel Medio-Evo, scendevano a Costantinopoli per commerciare, ammirare e imitare le istituzioni di Bisanzio. Quando il principe Vladimiro, alla fine del primo millennio d. C., volle che il suo popolo divenisse cristiano, l’autorità religiosa a cui il suo Paese, da quel momento, avrebbe fatto riferimento era il Patriarcato greco di Costantinopoli. Più tardi, dopo la conquista turca della grande città sul Bosforo e le trionfali vittorie dell’Impero Ottomano nel Mar Nero e nell’Europa danubiano-balcanica, la Russia fu la grande patria religiosa di quei fratelli cristiani che erano divenuti sudditi del Sultano .
I greci, nel frattempo, non smisero mai di commerciare con i porti russi e georgiani del Mar Nero; e quando cominciarono a battersi per la loro indipendenza, poterono contare sulla simpatia e gli aiuti di Pietroburgo. Una delle prime società segrete del Risorgimento greco fu fondata a Odessa nel 1815. Giovanni Capo d’Istria nacque veneziano a Corfù nel 1776, ma divenne un autorevole diplomatico russo e, infine, il primo presidente della Grecia liberata. Aleksandr Ypsilanti nacque a Costantipoli nel 1796, erede di una famiglia «fanariota» e sarà uno dei maggiori protagonisti della guerra greca di liberazione. Ma aveva cominciato la sua carriera militare nella guardia imperiale dello zar di Russia.
I legami religiosi fra Grecia e Russia restano molto forti e la Chiesa ortodossa ha avuto sinora nella vita pubblica greca un ruolo non molto diverso da quello che la Chiesa russa ha riconquistato a Mosca dopo la caduta del regime comunista. Ho scritto «sinora» perché Alexis Tsipras, il nuovo presidente del Consiglio greco, ha rifiutato di pronunciare il giuramento religioso con cui il capo del governo di Atene prende abitualmente possesso dei suoi poteri. Ma questo non ha impedito che, qualche giorno dopo, il giuramento dei nuovi deputati avvenisse in Parlamento alla presenza di tre alti sacerdoti della Chiesa ortodossa.
Nel secolo scorso il percorso politico di Grecia e Russia è stato alquanto diverso. I partigiani comunisti che cercarono di conquistare il potere alla fine della Seconda guerra mondiale erano lo strumento con cui Mosca cercava di estendere la sua influenza all’intera penisola balcanica. Con l’adesione alla Nato nel 1952, la Grecia scelse il campo occidentale. Quando Andreas Papandreu, tornato in patria dall’esilio dopo la fine del regime dei colonnelli, fondò un nuovo partito socialista (il Pasok) e fece una campagna elettorale durante la quale promise che avrebbe chiuso le basi della Nato nel suo Paese. L’ Unione sovietica sperò allora che la Grecia sarebbe stata una spina nel fianco della Nato. Ma Papandreu, si limitò a infastidire gli Stati Uniti con qualche sortita anti-atlantica.
Quanto agli amichevoli rapporti fra Grecia e Russia in questi ultimi tempi, i segnali sono numerosi. Vi sono uomini d’affari che lavorano con il mercato russo, banche greche e cipriote che fanno altrettanto, finanzieri e politici che non nascondono la loro simpatia per Putin, prelati che vedono nelle buone relazioni russo-greche il trionfo della Chiesa ortodossa e anche, beninteso, un po’ di tattica da una parte e dall’altra. Ai greci non spiace fare sapere a Bruxelles che hanno a Mosca un amico. Ai russi non spiace fare sapere a Washington che l ‘America può fidarsi della Grecia soltanto fino a un certo punto.

il Fatto 22.2.15
Operazione Demetrius: la Guantanamo d’Irlanda
Amal Alamuddin (signora Clooney) difende i “12 incappucciati: presunti complici dell’Ira negli anni ’70 torturati dai militari inglesi senza una accusa formale
di Caterina Soffici


Londra Potrebbe essere la svolta di un caso che aspetta giustizia da mezzo secolo, quello di un gruppo di ex prigionieri irlandesi, arrestati, torturati, poi rilasciati senza che il governo britannico abbia mai formalizzato alcuna accusa contro di loro. Una specie di Guantanamo in terra d’Irlanda, dove i protagonisti sono conosciuti come The Hooded Men (“Gli incappucciati”), perché la maggior parte delle sevizie avveniva con un cappuccio in testa, che gli impediva quasi di respirare.
AMAL ALAMUDDIN, ora signora Clooney, avvocato per i diritti civili di uno degli studi più agguerriti di Londra, già nel collegio di difesa di Julian Assange, è salita su un aereo per Belfast e ha incontrato un gruppo di superstiti degli Hooded Men. La discesa in campo della star dei diritti civili, potrebbe mettere la parola fine a una vicenda scandalosa che crea imbarazzo al governo britannico (e anche a quello americano) per alcuni fatti avvenuti nel 1971, in quella che è conosciuta come la Operazione Demetrius: tra il 9 e il 10 agosto, vennero arrestate 340 persone in una retata antiterrorismo. La maggioranza fu rilasciata quasi subito, solo un gruppo di 12 uomini, tra i 19 e 42 anni, furono incappucciati, denudati, marchiati con i numeri da 1 a 12 sulle mani e sulle piante dei piedi, portati nella base Raf di Ballykelly e sottoposti a cosiddetti “interrogatori approfonditi”. I militari inglesi sono accusati di aver messo a punto in Irlanda in quell’occasione un metodo di tortura definito delle “Cinque Tecniche” per estorcere confessioni ai 12 Hooded Men, presunti terroristi e fiancheggiatori dell’Ira: incappucciamento, rumore bianco (musica al alto volume, ininterrotta per ore), punizioni corporali, privazione del sonno e del cibo. Le testimonianze di quanto avvenuto durante l’Operazione Demetrius sono sconvolgenti, come tutte quelle dei sopravvissuti ai campi di tortura: uno aveva provato a suicidarsi mettendo le testa nella tazza del water, un altro ricorda che sperava solo di morire per metter fine alle sofferenze. Si autodefinivano “I porcellini d’India” perché si sentivano usati dagli inglesi come cavie per testare le tecniche di tortura (uno di loro, John McGuffin, ha scritto un libro intitolato proprio “I porcellini d’India”).
GLI INCAPPUCCIATI nel 1976 avevano vinto una causa contro il governo inglese per maltrattamenti e violazione dei diritti umani. Ma due anni dopo l’Alta Corte Europea per i Diritti Umani aveva annullato la sentenza, dicendo che non c’erano abbastanza prove per definire le cinque tecniche come “tortura”, ma solo “trattamento inumano e degradante”. La sentenza è stata poi usata anche dall’amministrazione di George W. Bush, per definire quali erano le tecniche permesse e quali no: quindi le Cinque Tecniche britanniche sono state usate dalla Cia in Afghanistan, Iraq e poi in altri campi nel mondo. Ora il gruppo degli Incappucciati ha chiesto di riaprire il caso e, con l’appoggio del governo irlandese, vuole provare che a ordinare le torture fu proprio il governo britannico, in particolare l’allora ministro delle Difesa Peter Carrington, ora nominato Lord. Il quale però ha 95 anni e ha rifiutato ogni commento.
L’intervento della signora Clooney, potrebbe essere decisivo. E almeno dal punto di vista mediatico ha già avuto il suo effetto, perché il caso è stato rilanciato dalla stampo britannica, tornata a parlare di una vicenda che vorrebbe dimenticare.

La Stampa 22.2.15
Matthiae: in Siria è una tragedia anche per l’archeologia


«In Siria la situazione è tragica sul piano umano, ma lo è altrettanto sul piano culturale». Lo ha detto Paolo Matthiae, direttore della Missione archeologica della Sapienza di Roma in Siria, al quale si deve la scoperta del sito di Ebla nel 1964. «La situazione è diversa da regione a regione: dove il controllo del paese è ancora totale, siti importantissimi come quello di Ugarit, sul mare, sono intatti perché lì sono rimasti i guardiani. Dove invece il controllo è andato perduto e anche i ribelli non sono in grado di controllare i siti, la situazione in certi luoghi è disastrosa, in altri sta diventando ogni giorno più grave». Il professore ha fatto alcuni esempi: «Apamea [foto], una delle grandi città dell’età imperiale romana, oggi è un colabrodo, con scavi clandestini selvaggi e sistematici. Dura Europos è ugualmente oggetto di scavi clandestini. Mari ha cominciato a essere oggetto di gravissimi saccheggi. Lo stesso a Ebla. Noi l’abbiamo lasciata nel 2010 e la situazione all’inizio era abbastanza sotto controllo. Oggi è difficilissima. Non c’è solo l’Isis, ma anche al-Qaeda e al-Nusra che appena possono si uniscono all’Isis».

Repubblica 22.2.15
India
L’economista rinuncia alla carica di rettore dell’Università di Nalanda per denunciare il governo
Il Nobel e il premier Sen contro Modi “Colpisce la libertà nel mio ateneo”
di Adriano Sofri


“Sono triste di vedere che in India la direzione accademica sia così vulnerabile alle opinioni del nostro esecutivo Da coinvolto e orgoglioso cittadino indiano colgo questa occasione per comunicare il mio scontento”

CALCUTTA UN FULMINE a cielo (apparentemente) sereno: Amartya Sen, 81 anni, Nobel per l’economia nel 1998, in una lettera aperta ai prestigiosi colleghi dell’Università internazionale di Nalanda, nello Stato indiano di Bihar, comunica la rinuncia a proseguire nel suo ruolo di rettore. Dubita che il governo di Narendra Modi intenda liberarsi di lui ed è persuaso che tenda a invadere il campo degli studi. La lettera suscita scalpore, per l’autorità del mittente e perché Nalanda, riaperta nove secoli dopo la distruzione musulmana nel luogo della “prima università al mondo”, in cui Buddha aveva insegnato, è la sua creatura. «Ci penso da quando avevo 11 anni».
Sen, il cui mandato scadrà a luglio, denuncia un ritardo deliberato nell’invio della ratifica della nomina al Presidente dell’India, Pranab Mukherjee, da parte del governo. Del resto, cinque anni dopo la fondazione, finanziata anche da Cina, Singapore, Australia e altri Paesi asiatici, Nalanda ha cominciato i corsi — per ora due soltanto, Storia ed Ecologia — solo nel settembre scorso, e con 15 iscritti in tutto (cinque donne), «ma molto bravi» (così Sen). Il ministero degli Esteri, responsabile della trasmissione della nomina al Presidente, ha smentito l’intenzione di allontanare Sen o di dilazionare il suo rinnovo. D’altra parte un esponente di spicco del partito di Modi, l’ex ministro Subramanian Swamy, vorrebbe rimuovere dai posti pubblici i «cosiddetti Nri (Indiani Non Residenti, ndr ) obbedienti a interessi e ideologie straniere»: poco meno che un’accusa di alto tradimento. Scrive Sen: «Come ricorderete, c’era stata parecchia inquietudine nel nostro consiglio perché era evidente come il governo non apprezzasse il carattere internazionale dell’Università». C’è un precedente politico prossimo nella campagna elettorale del 2014, conclusa con un trionfo del Bjp. Sen si era augurato la sconfitta di Modi, ritenendolo incapace di garantire i diritti delle minoranze. (Che cosa voglia dire minoranze, quando si tratta dell’India, è facile capire: la comunità musulmana è la seconda al mondo per numero, dopo l’indonesiana).
Amartya Sen, «orgoglioso e impegnato cittadino dell’India», è, oltre che un importante pensatore (e gran cittadino ad onore dell’Italia e dell’Europa), un uomo buono. La pretesa che la sua protesta sia una mossa contro le insinuazioni di esponenti del Bjp sullo sperpero di fondi nella gestione dell’università, ha le gambe cortissime. Piuttosto, la sua denuncia viene in un momento delicato, nonostante il partito di Modi abbia stravinto nel maggio scorso. In questo febbraio, le elezioni a New Delhi — che non è uno dei 29 Stati della federazione, ma solo uno dei sette Territori, tuttavia col peso che gli viene dalla capitale — hanno segnato il trionfo dell’Aap, il partito dell’uomo comune, di Arvind Kejriwal che si è aggiudicato 67 seggi su 70 in nome della lotta alla corruzione. In un’intervista al Times of India Sen dice di aver votato in passato per la sinistra, e che oggi voterebbe per l’Aap. Riconosce a Modi di aver rianimato una speranza che il partito del Congresso, la dinastia dei Gandhi, aveva spento, ma senza corrisponderle nei fatti. A Kejriwal riconosce la capacità di imparare dagli errori e la sensibilità ai bisogni dei poveri. Si dice allarmato dall’influenza di una formazione di estremisti del nazionalismo indù nel governo, fino alle rivalutazioni di Nathuram Godse, il loro esponente che nel 1948 assassinò Gandhi. Segnala gli attacchi recenti alle chiese a Delhi e altrove (denunciati anche da Modi), e la progressiva riduzione della laicità nella vita pubblica.
Nel 2013, Sen aveva pubblicato con Jean Drèze un nuovo libro su Un’incerta gloria: l’India e le sue contraddizioni, tornando sul tema prediletto di un’economia incurante della qualità e soprattutto della condizione dei più poveri e delle donne. Nel libro, l’India aveva ancora il secondo posto fra le economie più espansive: ora ha preso il primo. Questa posizione, invidiabile in tempi di crisi che non risparmiano i Brics, rende però più clamorose le contraddizioni. «Restano inadeguati — scrivevano Sen e Drèze — i servizi sociali come la scuola e le cure mediche, e le cose materiali come l’acqua sicura, l’elettricità, il sistema idraulico e fognario, i trasporti, e insomma i servizi sanitari e igienici ». Proprio ieri nel Bengala occidentale, lo Stato di Calcutta in cui Sen è nato, abbiamo assistito a una memorabile manifestazione: 200mila persone, nel distretto di Nadia, hanno formato una catena umana lunga 122 chilometri (un record mondiale, secondo gli entusiasti promotori, il “magistrato del distretto”, l’Unicef qui diretta da Asadur Rahman, e una miriade di gruppi civili) per metter fine alla “Open defecation”. Nel paese più espansivo del pianeta ancora il 48 per cento della popolazione (1 miliardo e 254 mila) defeca e orina a cielo aperto. Il superamento di questo retaggio è un obiettivo universale: il governo Modi l’ha ambiziosamente fissato per il 2020, il governo bengalese addirittura per il 2016. Non si tratta “solo” di costruire tubature idrauliche e fognarie e gabinetti, ma di insegnare e abituare a usarli e manutenerli. Spiega Maria Fernandez, spagnola dell’Unicef: «Costruisci i gabinetti in un villaggio, e può succedere che le persone non lo usino perché la casa è un posto troppo sacro per defecare ». Anche nella catena umana di ieri c’era un impegno solenne da prendere collettivamente: «Non solo userò il gabinetto, ma mi preoccuperò che lo usino tutti i miei famigliari ». Decisivo com’è per l’igiene e la salute (la spaventosa mortalità infantile di diarrea), il tema coinvolge la sicurezza e la dignità, soprattutto delle donne. Se ne parlò da noi quando episodi agghiaccianti di stupri e uccisioni rivelarono che le ragazze vanno a fare i loro bisogni prima della luce del giorno e dopo il tramonto, e che quel tragitto è un’occasione prediletta per gli agguati. Un capitolo peculiare riguarda le mestruazioni: il tabù della comunicazione, l’ignoranza — possono essere contagiose, possono provocare una gravidanza se ci si avvicina ai ragazzi — l’uso di cenci fonti di infezioni. «L’Unicef, il governo locale e le ong hanno cominciato insieme alla gente dei villaggi e degli slum due anni fa a censire le case, una per una. In due anni sono stati costruiti oltre 260 mila gabinetti». Nei villaggi incontriamo bambine e ragazze piene di grazia e intelligenza: nel migliore e più raro dei casi hanno un gabinetto in comune per una dozzina di famiglie. È una specie di miracolo, e sarebbe bello farne a meno. Una gloria meno incerta, e “defecation free”.

Il Sole 22.2.15
La lezione di Gandhi e la verità senza violenza
di Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

Cape Comorin (Kanyakumari in lingua Tamil) è la punta estrema del subcontinente indiano, bagnata dai tre mari che lì si incontrano, l'Oceano Indiano, il Mare Arabico e il Golfo del Bengala. A poche centinaia di metri dalla costa, due rocce sporgenti ospitano rispettivamente un tempio in onore della dea Kanya, e la grande statua del poeta tamil Thiruvalluvar.
Sulla destra del tempio risalta sul mare il monumento a Gandhi, costruito nel 1952 nel luogo in cui venne posta l'urna contenente una parte delle ceneri del Mahatma, prima che fossero sparse nelle acque. Del Mahatma è riportata una frase, dedicata all'incantevole luogo: “I am writing this at the cape, in front of the sea, where three waters meet and furnish a sight unequalled in the world. For this reason is no port of call for vessels. Like the Goddess, the waters around are virgin” - “Sto scrivendo sulla punta (dell'India) di fronte al mare, dove tre acque s'incontrano e forniscono uno spettacolo ineguagliabile nel mondo. Per questo motivo non è porto di attracco per le navi. Come la Dea, le acque qui intorno sono vergini”. L'immagine dei tre mari che s’incontrano senza perdere la loro identità, mantenendo cioè la “verginità” delle loro acque, è colta da Gandhi come metafora del messaggio di reciproca tolleranza e rispetto che egli volle diffondere con la sua vita intera, fin quando una mano assassina pensò invano di ridurlo al silenzio. Oggi più che mai l'insegnamento del Mahatma è necessario e attuale, come ho potuto cogliere nel breve soggiorno che mi ha condotto in India a parlare agli oltre centotrenta vescovi cattolici del Paese e a visitare diverse comunità cristiane a Bangalore e nello Stato del Tamil Nadu, dov’è la diocesi di Tuticorin gemellata da decenni con quella a me affidata.
La prima, forte impressione che dà l'incontro con la realtà indiana è quella di una ricchissima diversità, testimoniata in maniera intensa dalle esperienze religiose che vi convivono: templi indù dai mille colori, popolati di statue delle divinità più diverse, si affiancano a chiese cristiane, dove l'unico Dio e Signore del cielo e della terra è adorato nell’ascolto della parola di vita eterna pronunciata nel suo Figlio unigenito, fatto uomo per noi. Qui e lì qualche moschea aggiunge la voce dell'islam a quelle dell’induismo e del cristianesimo. Per quanto non ostentata, recepita anzi con naturalezza dalla mentalità comune, la diversità si impone allo sguardo, fatta di presenze cariche di secoli di storia: da quella plurimillenaria dell'induismo, a quella cristiana, giuntavi sin dalle origini della fede in Cristo attraverso la predicazione dell'apostolo Tommaso, a quella dell’Islam, che alcuni secoli dopo raggiunse varie aree del subcontinente indiano. La diversità religiosa non è sperimentata dalla stragrande maggioranza della popolazione come una ferita o una sfida, ma accettata e rispettata come una ricchezza analoga alla varietà che rende bello il mondo: e la convivenza pacifica fra persone e famiglie di fede diversa è all’ordine del giorno, come parte naturale del clima intensamente religioso della cultura indiana. Questa reciproca tolleranza non equivale però in alcun modo a banale sincretismo: se il mondo indù è per sua natura aperto ad accogliere altre esperienze religiose come vie del tutto plausibili all'esperienza del divino, il cristianesimo coniuga slancio evangelizzatore a rispetto e dialogo con il diverso in nome dell'amore incarnato da Cristo. La creazione dei due Stati a maggioranza musulmana, il Pakistan e il Bangla Desh, nell’India moderna ha di fatto evitato il rischio di possibili tensioni religiose con l’Islam.
È in quest'ambiente culturale che si comprende lo straordinario messaggio di pace di Gandhi: lungi dal farsi portatore di un’indifferenza spirituale che banalizzasse le differenze, il Mahatma ha saputo interpretare lo spirito migliore della convivenza pacifica e tradurlo nella sua dottrina della “non violenza”, riconosciuta dalla maggior parte degli abitanti del subcontinente indiano come in profonda sintonia con le proprie radici. Non si tratta di rinunciare alla verità, di cui tutti abbiamo bisogno per vivere dando senso pieno alla vita, ma di riconoscere che “la verità non è mai stata rivendicata con la violenza”, che essa non ha bisogno di essere difesa perché si difende da se stessa, e che chi volesse a tutti i costi difenderla dimostrerebbe proprio così di non credere in essa. “Piccolo grande uomo”, Gandhi incoraggia ciascuno a “cercare la propria strada e a seguirla senza esitazioni”, a “non avere paura”. È sua convinzione che “chi è davvero nobile, conosce tutti come uno solo e rende con gioia bene per male”, perché “non ci sarà liberazione per alcuno su questa terra, se non attraverso la verità e la nonviolenza, in ogni cammino della vita, senza eccezione”. Si comprende, allora, come il recente insorgere dell'integralismo in alcune componenti del mondo indù sia in totale contrasto con questo spirito e risulti giustificato da calcoli politici piuttosto che da convinzioni radicate nello spirito religioso dell’India (in questa luce vanno letti anche i presupposti delle inaccettabili lungaggini nel processo ai due marò italiani detenuti in India).
Nei pochi giorni della mia permanenza nel grande Paese, a contatto con persone che potevano offrirmi chiavi interpretative affidabili e fondamentali, ho compreso che l’India del passato e del futuro non è quella degli attuali fondamentalisti, dei loro atti di violenza, delle loro prepotenze verbali. E il segnale importante del totale crollo di consenso del partito integralista al governo della nazione nelle elezioni svoltesi nella capitale Dehli due settimane fa, mostra come l’antidoto gandhiano alla barbarie continui ad agire nel profondo della grande cultura indiana. A quest'anima occorre guardare e con essa bisogna dialogare per sostenerla nella sua possibilità di incidere sul presente e sull'avvenire dei trenta Stati che formano l’India moderna e ne fanno una protagonista di prim’ordine nel consesso delle nazioni per la costruzione della pace necessaria a tutti nel “villaggio globale”.

Repubblica 22.2.15
Quel palazzo del Cairo che sabota le rivoluzioni
Quattordici piani, diciottomila impiegati, centomila utenti che vanno da un ufficio all’altro
L’edificio governativo Mogamma affaccia sulla simbolica piazza Tahrir ma i corridoi ciechi e le scrivanie vuote sembrano assorbire i cambiamenti
di Gabriele Romagnoli


Non è la sede del potere, è il suo metodo. Prima ancora che con la violenza o il controllo, ti sconfigge rendendoti impotente a tutto. Chiedi pure: non ti sarà dato Nulla si produce, quindi niente muta

PENSA laterale. Guarda di lato: la storia si compie nell’ombra, non alla luce. Più che la piazza, poté il palazzo. Più che Tahrir, Mogamma. Raccontare il Cairo significa sottoporsi alla periodica tortura del disincanto. Ci ho vissuto quando niente sembrava possibile: comandava una elite di militari corrotti, i Fratelli musulmani erano ai margini, le minoranze discriminate, le libertà civili un sogno, film e libri censurati. Qualcuno all’ambasciata egiziana a Roma leggeva i miei articoli, sottolineava le parti spiacevoli e faxava a un ufficio dove fui chiamato a risponderne. Come ogni giornalista straniero avevo un addetto al controllo che mi seguiva ovunque. Mi voltavo spesso a salutarlo.
Il Cairo è una trappola per turisti: le piramidi sbucano al termine di un viadotto, assediate da condomini, i panni stesi sventolano su Micerino; il Museo Egizio è un ripostiglio, il suo soprintendente, vestito da Indiana Jones, annunciava periodicamente “ritrovamenti di straordinaria importanza”, avvenuti nel caos del sottoscala; il quartiere copto è un gioiello ammaccato, buttato tra i rifiuti. Il vero splendore è la gente, ammassata e fiera: faraoni nella polvere.
Il tecnico che venne a ripararmi la lavatrice la guardò rimettersi in funzione con uno stupore esagerato e sospetto. Confessò: «Sono un commercialista. Non avendo lavoro, sto provando questo. Mi offrirebbe un caffè?». Il portiere nubiano condusse orgogliosamente il corrispondente dell’ Economist nella sua guardiola per mostrare il regalo avuto dalla padrona di casa alla fine del Ramadan: un cartone su cui dormire, «nuovo nuovo», sottolineò felice. All’ufficio postale, ultimo in una coda di undici, quando firmai il registro per ricevuta vidi nelle righe soprastanti dieci croci. Il tassista con il veicolo più sgarrupato della città (una Fiat 124 con l’adesivo “la mia seconda auto è una Porsche”) per una mancia sopra la media baciò la banconota e alzò il ringraziamento al cielo. Fu lui a portarmi al Mogamma.
All’epoca piazza Tahrir non era un simbolo, ma soltanto uno spiazzo circondato da una rotatoria intasata da cui si levavano cori di clacson e miasmi. Il Mogamma incombeva. Vedendolo, chiunque avrebbe pensato a una costruzione dell’Europa orientale, uno di quei templi del potere immensi e brutti, pensati come monumenti all’oppressione. Che l’abbia fatto costruire un re ridicolo, Farouk, alla fine degli Anni Quaranta è una delle tante discronìe del Cairo. Ha quattordici piani. Ci lavorano, almeno in teoria, diciottomila impiegati. Ci si va per chiedere visti d’espatrio che non verranno concessi, documentazioni che non saranno prodotte, ricorsi fiscali che rimarranno inevasi. Già all’ingresso si viene soffocati da infinite impossibilità che conducono al nulla: corridoi ciechi, porte che si aprono senza che ne esca qualcuno, scrivanie su cui sono posati un bicchiere di tè e una sigaretta, entrambi fumanti, ma dietro non siede nessuno. Una immensa scala a chiocciola ascende verso qualcosa che probabilmente non esiste, la tortuosa promessa di una religione abiurata. Sembra progettato da Salvador Dalì, più che da Kamal Ismail. Avrebbe dovuto scriverci un racconto Borges, ci ha fatto un film Adel Emam ( Terrorismo e kebab, la commedia di maggior successo del cinema egiziano). Il Mogamma non è la sede del potere, è il suo metodo. Prima ancora che con la violenza o il controllo, ti sconfigge rendendoti impotente a tutto. Chiedi pure: non ti sarà dato. Vaga: non ci sarà meta. Nulla si produce, quindi niente cambia. Nel dialogo tra uno dei diciottomila impiegati (se lo trovi) e uno dei centomila utenti le frasi ricorrenti sono due. Il primo dirà: «Fut alena bocra» (riprovi domani), con espressione seria e intento di scherno. Il secondo se ne andrà replicando: «Ashufak embereh » (ci vediamo ieri), sorridendo, ma grave dentro.
Chi comanda detesta le piazze, perché sono il vuoto, di potere. Adora i palazzi, perché in essi svuota il popolo, di legittimità.
Tahrir, la piazza. Mogamma, il palazzo. Istruzioni per una rivoluzione di successo: deponete tutta la vecchia guardia, processatela e condannatela, ma prima ancora prendete i palazzi che ne erano il simbolo, buttate ogni cosa dalle finestre, convertiteli in musei dell’umiliazione riscattata.
Invece, la storia ha fatto il suo corso e ricorso: l’utopia è morta in piazza. Fa una tristezza insostenibile rivedere l’Occidente (e gli egiziani) aggrappati ai pantaloni della divisa di un generale, che ha riportato al potere i militari corrotti, riemarginato i Fratelli musulmani, ridiscriminato le minoranze e rinegato le libertà civili. Nella distopia del Cairo la parola “oggi” è un’illusione. Alla rivoluzione non resta che dire: “Riproveremo domani”. Ma chi comanda risponde: “Sì, ci vediamo ieri”. Nel suo libro Once upon a revolution (C’era una volta la rivoluzione), Thanassis Cambanis scrive di aver visto su un muro vicino al Mogamma (più che a Tahrir) questa scritta: «Ti ricordi il domani che non è mai arrivato?».

il Fatto 22.2.15
Uno scherzo d’artista
Il sosia, il clown e i vigili motorizzati: che burla Picasso!
di Dario Fo


Domani, su Rai5 in prima serata andrà in onda la prima puntata del ciclo di dieci spettacoli dedicati ai grandi pittori italiani, da Giotto a Picasso, che non è italiano ma meriterebbe di esserlo. E Pablo Picasso sarà proprio il primo formidabile pittore di cui racconteremo vita, opere e follie.
Picasso era uno straordinario artista, propenso alla satira, anche quando si trovava a giocare il ruolo del “satireggiato”. A questo proposito vi voglio svelare una situazione di sberleffo che subì senza saperlo, di cui tratteremo durante la lezione spettacolo.
Nel ’46, appena finito l’ultimo conflitto, molti giovani pittori partirono da Milano per Parigi, per incontrare e conoscere il grande maestro spagnolo. A quel tempo avevo appena vent’anni e a mia volta, con alcuni compagni d’Accademia, decidemmo di andare da lui, in Francia, per sollecitarlo, perché venisse a Milano. Eravamo decisi ed emozionati al tempo: non capita tutti i giorni di andare a visitare un monumento vivente. In coro lo invitavamo a scendere da noi: “Ci fareste un gran regalo, Maestro, e sarebbe per ognuno una straordinaria iniezione di coraggio e fiducia!”. Picasso si diceva lusingato, e prometteva che appena gli si fosse aperto uno spazio di tempo disponibile ci avrebbe accontentati. Passavano le settimane, i mesi, ma della visita che ci aspettavamo da Picasso nessuna notizia. Scrivemmo più di una lettera ma ricevemmo solo laconiche risposte dai suoi collaboratori: “Abbiate pazienza, fra poco arriveremo”. Ma noi pazienza non ne avevamo più, anzi quando si sparse la voce che Roma, in particolare Cinecittà, era riuscita a convincere Pablo a giungere nella capitale di lì a qualche settimana, esplose una vera e propria bagarre di rabbia indicibile.
Rabbia in Aula Magna a Brera: “Ha preferito andare a Roma”
Ci fu una riunione nell’Aula Magna di Brera, mai vista una folla del genere, gente che s’ammucchiava e sbaccagliava disperata. Morlotti era fra di noi il più saggio e accorto e disse: “È inutile tutta questa caciara. È evidente che Picasso ha preferito Roma a noi. Forse nel ritorno può darsi che si fermi a darci un saluto”. Quella non era acqua fresca, ma una tanica di benzina buttata sul fuoco, tant’è che qualcuno fuori di testa propose: “E se lo andassimo a rapire?”. “Sì, il Picasso rapito! – sbottò Peverelli – Che idea, io mi prenoto per il ruolo di palo”. Tutti risero più per la stizza che per la battuta. Parzini rispose seccato: “C’è poco da sfottere, la soluzione c’è ed è questa lettera che abbiamo ricevuto dal suo ufficio. Terremo buona solo la busta; per il contenuto basta riscriverlo da capo, pressappoco così: ‘Cari amici, saprete che sto per giungere a Roma ma ho pensato che, transitando da Milano, giacché verrò in treno, potrei fermarmi per abbracciarvi e stare un poco con voi. Il giorno che mi andrebbe a pennello, scusate ma un pittore si scopre sempre, sarebbe l’ultimo fine settimana di questo mese, fra quindici giorni circa. Un abbraccio, Pablo’”.
Un gruppo fra i convenuti se ne andò a dir poco schifato: “Ma sono pagliacciate, andiamo!”. Però i molti che restarono si diedero un gran da fare per metter giù la lettera cercando di imitare la scrittura di Pablo. Poi fotografammo la missiva e la facemmo circolare fra le varie testate di giornali.
Qualche cronista fanatico dello scoop, fregandosene di verificare, pubblicò la notizia: “Pablo Picasso prossimamente a Milano per un vernissage della mostra di sue incisioni alla nuova Galleria Manzoni”. La mostra si inaugurava davvero, ma è chiaro che la notizia della sua venuta era completamente falsa. Altri giornali hanno ripreso il lancio dell’evento e, come se non bastasse, un mercante d’arte mai identificato aveva confermato, assicurando la visita del Maestro. A nostra volta abbiamo deciso di cavalcare la tigre dell’immaginifico: “Lo faremo arrivare qui per davvero! Picasso sarà a Milano in carne e ossa!”.
La nostra chiave di volta era Otello, un anziano bidello dell’Accademia di Brera, un brianzolo assistente al calco dell’atelier di Marini: era il sosia di Pablo sputato. Un uomo sui cinquant’anni, di bassa statura, ben piazzato con il cranio ornato di pochi capelli bianchi e la faccia identica a quella del maestro malagueño. Insomma, una fotocopia vivente!
È deciso: cerchiamo di convincere Otello a prestarsi al gioco.
Risposta: “Mì Picasso?! Ma sì matt?!”.
Riuscì a convincerlo Olga, una stupenda allieva di Manzù: “Se accetti ballerò tutta la sera con te!”. “Affare fatto!”.
Per colmo di fortuna, Otello aveva lavorato a Marsiglia per dieci anni da ragazzo e parlava un francese quasi perfetto. Diamo la conferma a radio e giornali: Picasso arriverà con il treno delle 11:30 in Centrale, via Mentone. Lo faremo arrivare abbigliato con il suo solito trench bianco e la sua immancabile valigia, anche lei bianca.
Siamo alla stazione Garibaldi un’ora prima e facciamo salire il sosia accompagnato da Alik Cavaliere, Morlotti e Bobo Piccoli, sul treno che va a Rho. I quattro scendono alla stazione stabilita e attendono il rapido da Mentone che fermerà, come di regola, a quello svincolo di quattro linee. Alla stazione Centrale, binario 10, c’è una folla incredibile: giornalisti, fotografi, cineoperatori, studenti, artisti, intellettuali... c’è perfino una bandiera rossa, che sventola... per Picasso! Ecco il treno, la folla va incontro all’artista.
“Sarà sui primi vagoni o più in fondo?”. Scendono i viaggiatori.
“Avete visto Picasso in qualche vagone?”.
“Picasso?!”.
Ci guardano come una massa di deficienti. Sono quasi scesi tutti. Picasso non si vede.
“Eccolo!”. “Sì, è lui. Si è sporto da un finestrino!” – saluta e poi scompare.
È sceso sull’altro marciapiedi. “Che originale!”. La gente sale sui vagoni per poi ridiscendere dall’alta parte. È sparito! “Di sicuro si è infilato in un sottopassaggio!”. I fotografi e i giornalisti si danno a rincorrerlo. Una voce grida: “Calma, non è fuggito! È che la folla gli crea panico. Se lo volete incontrare tranquillo, venite tutti questa sera al salone dei Filodrammatici, a fianco della Scala. Ci sarà un rinfresco e una tranquilla conferenza stampa”.
Il salone dei Filodrammatici in restauro era una specie di impianto scenico che serviva da sala prove. Lo stavano ristrutturando, perciò era ingombro di tralicci e centine di sostegno e mancava assolutamente del soffitto. Insomma, era veramente un salone all’aperto. Ma quelle strutture a colonnati funzionavano a meraviglia per sostenere un decor scenografico davvero sconvolgente. Per arricchirlo avevamo coinvolto gli allievi di scenografia e decorazione e i tecnici del Piccolo Teatro.
La scena: leoni, cavalli rampanti e belle signore in gran pompa
Con un camion avevamo fatto portare in quel salone scene di spettacoli fuori repertorio e dal vecchio magazzino della Scala eravamo riusciti a recuperare enormi statue in cartapesta e perfino un leone e due cavalli rampanti. Il montaggio è stato laborioso, ma eccitante. Si è brigato tutta una notte.
Con un gruppo di attori e qualche sceneggiatore di film si è poi abbozzata una scaletta delle situazioni da rappresentare.
La sera, i primi ad arrivare sono stati i musicisti del Santa Tecla e la Lambro Jazz Band. Si sono sistemati su una specie di palco mentre ancora si stavano approntando le luci. Tutti commentavano l’arrivo di Picasso alla stazione: erano in molti a non immaginare si trattasse di una beffa!
Gli scenografi e i decoratori, fra di loro mi par di ricordare ci fosse anche Enrico Baj, stavano intanto pitturando i cavalli, il drago e le statue in oro e argento. Fra gli altri eravamo riusciti a ingaggiare il gruppo di clown del Circo Togni. Finalmente comincia ad arrivare la gente. Noi si metteva a posto le sedie in un ordine davvero caotico. La Lambro Jazz Band apre con un pezzo famoso, è un blues: “Tutti i figli di Dio hanno le scarpe”. In ritardo stanno entrano anche i camerieri per il rinfresco. “Ma chi paga tutta ‘sta roba?”, chiedo io. Mi fanno il nome di due grossi collezionisti. “Hanno coinvolto anche l’ufficio pubblicitario della Pirelli!”. Non ci credo... me lo giurano! C’è più gente del previsto... belle signore in gran pompa. In molti hanno disertato la prima del Lirico. Ecco Ghiringhelli, il direttore della Scala ridotta dai bombardamenti a un rudere, e Schwarz, il principe dei mercanti d’arte con tutta la sua corte.
Il pubblico non ha ancora preso posto che, sostenute dalle bande, hanno inizio le entrate comiche: lassù appeso ai tralicci un clown truccato da imbianchino in tuta grida: “Aiutooo, sto cadendo!”. Si lascia scivolare giù per un cavo e comincia a oscillare in modo sconnesso. Precipita! No, si è abbrancato a una centina. Degli acrobati, travestiti da pompieri, montano scale che vanno a pezzi. TUM TUM TUM, uno spettacolo! I Vigili del Fuoco si salvano aggrappandosi a funi che li fanno danzare qua e là. Urla di signore spaventate.
Ora anche la band del Santa Tecla s’è unita alla Lambro Jazz in un sound frenetico. Le giravolte, gli scontri e le stcentrate creano scompiglio.
Qualcuno chiede a gran voce: “Scusate, ma quando arriva Picasso?”.
“Sarà qui a momenti. Intanto lei balli signora!”.
Suona una sirena e si spalanca un portale: dal fondo entra un vigile in moto che impone silenzio. “Cos’è ‘sto bordello? Siamo pazzi? Avete il permesso per lo spettacolo? E chi è il capocomico, l’impresario? Si può sapere cosa ci fate qui?”. “Aspettiamo Pablo Picasso!”. “Pablo viene qua?!”. E il vigile motorizzato manda un urlo e fa ruggire il motore ROAAAAR!, quindi si lancia in un carosello a gran velocità ed esce con la sirena accesa gridando: “Pablo! Pablo! Arriva Pablo!” ROAAAAR!. L’orchestra sta andando su di giri. Intanto entrano in scena cinque imbianchini che pretendono di ultimare il loro lavoro. Anch’io faccio parte della squadra di quei clown spennellatori. Andiamo trascinando un enorme telone sotto il quale costringiamo il pubblico a infilarsi come si fa con i mobili in caso di sbiancamento dei locali. Due anziane signore chiedono a gran voce: “Ma quando arriva Picasso?”. “Arriva, arriva!”.
“Il falso Pablo? Ci va bene così. Anche se parla milanese”
Ora gli imbianchini si lanciano i secchi l’un l’altro, UAH UAH s’annaffiano con sbroffate di pittura. Spaventato dalle grida e dai tonfi, il pubblico tira di qua e di là il gran telone finché, strappo dopo strappo, non viene ridotto a brandelli.
Qualche coppia danza. E altri chiedono: “Ma quando arriva Picasso?”. “Arriva, arriva!”. Un altoparlante avverte: “Attenzione, arriva Picasso!”.
L’orchestra suona una marcia trionfale. Petardi esplodono fra le gambe delle danzanti. Eccolo là! In mezzo al fumo appare la sagoma di Otello, sempre con il suo trench bianco. Applausi.
“Ma è proprio lui!”.
Otello sta per parlare: “Mes amis, je suis ravì d’être ici...”, ma si trova avvolto da uno sfumazzo denso e puzzolente. Tossisce. “Mon dieu, quelle bagarre!”. E quindi all’istante inizia a parlare in dialetto lombardo stretto: “Ma se po’ minga respirà in ‘sta fuméra e per el calùr peu che ven föra. Gh’é de stciopà!”. Così dicendo si toglie il trench e rimane seminudo ma con le mutande. “È lui, è proprio Picasso! L’ho visto fotografato in quella mise un sacco di volte!”. Picasso riprende a parlare tenendo un microfono vicino alla bocca: “Me piàse ’sta Milan l’è proprio ’na folìa de stciopà! Sun cuntént de ves chi”. Scoppiano altri petardi e anche un fuoco d’artificio. Un botto esplode proprio fra le gambe del falso Picasso della Brianza, che esclama: “Eh no, cassoo! Me vorsì brusà i cujùni?!”. Alcuni signori scattano a gran voce: “Ma per Dio, è tutta una presa per il sedere, si son fatti gioco di noi! Una beffa indegna”. “Zitti, non si offende un ospite tanto riguardevole!”.
Una splendida signora inzuppata d’acqua colorata esclama: “Stupendo! Una festa così me la ricorderò finché campo!”. E un vecchio signore esplode a tutta voce: “Io non so se quello sia o no il vero Pablo, ma che sia o non sia a me va bene anche così, viva Pablo!”. E un’ultima voce tonante grida: “Ma quello è Picasso o no?”. Tutto il coro dei clown sbotta: “Sì, è lui, è l’unico Picasso al mondo, gli altri sono tutti fasulli!”. Che festa!

Repubblica 22.2.15
L’attualità. Questioni di fede
A colpi di saggi, talk show, spot, tweet e adesso anche con un’autobiografia adora provocare il mondo su temi sensibili
Il più scandaloso degli scienziati spiega come iniziò a credere. Nell’agnosticismo
Intervista a Richard Dawkins “È stato Darwin a salvarmi”
Le fate non esistono E neanche Dio
di Ricardo De Querol


OXFORD RACCONTA CHE DA BAMBINO AVEVA GIÀ CAPITO che Babbo Natale era un signore mascherato che si chiamava Sam. Richard Dawkins non si accontenta di essere giunto alla conclusione che Dio non esiste: vuole che lo capiscano tutti. Tiene alta la bandiera dello scetticismo, questo biologo e etologo dell’Università di Oxford, studioso di Charles Darwin, salito alla ribalta quando scrisse, ne Il gene egoista ( 1976), che non siamo altro che veicoli dei geni, macchine programmate per renderli quasi immortali. Da allora Dawkins è diventato un divulgatore scientifico e saggista di successo, un frequentatore abituale degli studi televisivi e da tempo tiene viva la polemica anche sui social network, dove colpisce e viene colpito. Ritiene che la sua missione sia quella di combattere i dogmi religiosi, le superstizioni e le pseudoscienze. Nel 2006, ha pubblicato L’illusione di Dio, un libro che aspira fin dalla prima pagina a far perdere al lettore la tanta o poca fede che gli è rimasta, un testo impetuoso e ironico che ha la pretesa di smontare uno per uno gli argomenti del cristianesimo e delle altre credenze religiose. Ne Il più grande spettacolo della Terra, 2009, Dawkins spiega lucidamente a qualsiasi profano le prove schiaccianti del fatto che è la selezione naturale che ha modellato e continua a modellare la nostra realtà. E in questo modo attacca il creazionismo, l’idea cioè che il mondo sia stato fatto in sei giorni e che l’uomo abbia convissuto con i dinosauri, argomenti che certi ambienti di destra come il Tea Party cercano di far passare nel sistema scolastico americano. Nello stesso anno il suo attivismo ateo lo portò ad acquistare spazi pubblicitari sugli autobus londinesi con la scritta: “Probabilmente Dio non c’è. Smettila di preoccuparti e goditi la vita”. Oggi, a settantatré anni, Dawkins ha trovato il tempo per guardarsi indietro e affrontare le sue memorie. Nella sua autobiografia, An appetite for wonder, (non ancora uscita in Italia) racconta come è giunto a essere quello che è. L’infanzia in Kenya da una famiglia britannica di funzionari dell’Impero con una tradizione tecnica e scientifica; il ritorno in Inghilterra all’età di otto anni; e poi il racconto della rigida scuola degli anni Cinquanta, del bullismo e della sua balbuzie, del passaggio nelle università di Oxford, decisivo nella sua carriera, e di Berkeley, dove visse l’esplosione del fenomeno hippy.
Ci riceve a casa sua, un imponente edificio tradizionale a Oxford, in un salone pieno di luce dove si può percepire un certo sapore del colonialismo che ha segnato la sua infanzia. Grandi sculture in legno di animali, maschere, tessuti etnici sui divani. Un pianoforte, una tela sul suo leggìo. Libri, qualche cranio sullo scaffale. Due piccoli cani dal pelo molto lungo si rallegrano della visita.
Ha scritto che la religione è al centro di molti conflitti attuali, come in Siria e in Iraq, in Palestina o in Ucraina. E, prima, in Jugoslavia o in Irlanda. Non lotteranno per la terra più che per la loro idea di Dio?
«Non credo che i conflitti siano motivati unicamente e direttamente dalla religione. Per esempio, nell’Irlanda del Nord il conflitto è tra cattolici e protestanti, ma non credo che le persone che mettevano le bombe pensassero al dogma della transustanziazione. La religione mette un’etichetta: in Irlanda del Nord si identificano come cattolici e protestanti benché parlino la stessa lingua e siano dello stesso colore. Ti identifica perfino il nome: se ti chiami Patrick sei sicuramente cattolico, se William sei protestante. Tutto ciò determina la tribù: ci sono due tribù in Irlanda del Nord. Ed è stato così per secoli».
Lei era di fede anglicana e molto religioso quando aveva tredici anni. Poi che è successo? È stato Darwin?
«Già a nove anni mi ero reso conto che esistevano diverse religioni: il buddismo, l’islam, l’induismo, il politeismo dei greci, dei vichinghi... Ogni bambino pensava che solo la sua fosse quella vera. Io invece ero pronto per essere antireligioso. Non so perché rimasi cristiano, sarà stata l’influenza della scuola. Ma, effettivamente, sono stati Darwin e il darwinismo a salvarmi da tutto ciò. Avevo quindici anni quando avvenne».
Perché ritiene necessario mobilitarsi contro la religione?
«Sento l’assenza di qualsiasi ragione per credere in Dio o nelle fate. Come scienziato, la bellezza del mondo e dell’Universo mi commuove. Come educatore, mi sembra perverso educare i bambini a delle falsità quando la verità è così bella».
Non può essere dogmatico e intollerante anche l’ateismo?
«Devi sempre argomentare la tua causa, non mettere a tacere la gente. Abbiamo accettato per secoli che non si potesse criticare la religione e che si facesse sembrare intollerante l’ateismo, ma non lo è».
Nei suoi libri si dice contrario al modo in cui molte famiglie inculcano spiegazioni magiche ai propri figli: “Perché gli adulti coltivano la credulità dei bambini? È davvero un errore pazzesco proporre ai bambini che credono a Babbo Natale un piccolo e semplice gioco di domande e risposte che li faccia pensare? Quanti camini dovrebbe visitare in una notte?”.
«Non si tratta di dirgli che Babbo Natale non esiste, ma di stimolare l’abitudine di porsi delle domande con spirito critico».
Si rende conto che è un atteggiamento impopolare, vero?
«Ogni volta che propongo questo discorso mi mandano via a calci dicendo che voglio interferire nella magìa dell’infanzia».
Lei è anche un accanito utente di Twitter (@RichardDawkins), dove ha suscitato diverse polemiche.
«Twitter è un posto strano perché c’è molta gente che urla. Se cammini per strada, un ubriaco o uno scemo ti possono insultare. Su internet hai un moltiplicatore di questo effetto. Bisogna avere la corazza».
Si è pentito di qualche tweet?
«Sì, perché è molto facile che vengano interpretati male».
Uno dei suoi tweet ha scatenato una bufera: “Lo stupro subìto da uno che conosci è brutto. Quello subìto da uno sconosciuto col coltello è peggio. Se pensi che questa sia un’apologia del primo, vattene e impara a pensare”.
«Credo che sia stupido negare che vi siano diversi gradi nei delitti sessuali. C’è gente che per ragioni emotive vuole che tutti i crimini siano considerati dello stesso livello. È come pensare che il furto di un portafoglio sia pari alla rapina a mano armata in una banca. Sono tutti e due dei delitti, ma uno è più grave dell’altro. Non le pare?».
Mi sembra che qualsiasi violenza abbia conseguenze gravi a lungo termine.
«Lo penso anch’io».
E mi è difficile pensare a una violenza moderata o una violenza lieve.
«Non si tratta di questo. È in compagnia di molti stupidi su Twitter. Quando uno dice che una cosa è peggiore di un’altra, non la sta approvando».
Dawkins ha inoltre offeso molti, con i suoi “cinguettii”, quando qualcuno gli chiese consiglio su che cosa fare se il figlio che aspettava avesse avuto la sindrome di Down. «Abortisca e ci riprovi. Sarebbe immorale metterlo al mondo se ha scelta», rispose.
Crede davvero che l’aborto sia un obbligo morale nel caso della sindrome di Down?
«Ho detto che personalmente mi sembrava immorale metterlo al mondo. Non che fosse una regola universale, ma lo è per me e per il novanta per cento delle donne in quelle circostanze. Muoiono molto giovani, hanno terribili malattie, deficienza mentale. Credo che quando il feto non sia sufficientemente sviluppato e non abbia un sistema nervoso, sia meglio abortire. Mi hanno bombardato su Twitter inviandomi fotografie di bambini Down e dicendomi: lei vuole uccidere mio figlio. Ovviamente non voglio uccidere il figlio di nessuno, ma fermare la possibilità che vengano al mondo altri bambini come lui quando non sono che degli embrioni».
Troverebbe preoccupante la clonazione degli esseri umani?
«Uno scenario come quello de Il mondo nuovo di Aldous Huxley, con quelle catene di produzione di migliaia di copie di esseri umani identici creati per fare i giardinieri o qualsiasi altro lavoro, mi fa orrore, perché io sono un prodotto del Ventesimo secolo ed è qualcosa di molto lontano dal mondo a cui sono abituato, dai miei valori. Se qualcuno volesse clonarmi, mi interesserebbe molto, mi incuriosirebbe molto, ma non vorrei che il mio clone fosse il primo, perché sarebbe vittima di una spaventosa pubblicità».
In un programma televisivo le hanno proposto un esperimento che non è poi stato possibile realizzare. Volevano isolare il suo genoma e seppellirlo nella tomba di famiglia, davanti alle telecamere, affinché qualcuno lo ritrovasse e lo resuscitasse tra un migliaio di anni. Era un pretesto per discutere sulla clonazione, e così le hanno chiesto se il suo clone del futuro sarebbe stato lei stesso.
«No che non sarei stato io. È come chiedere a due gemelli identici se sono due persone o se uno è una persona e l’altro uno zombie. Un’altra cosa che mi volevano chiedere era di scrivere dei consigli per il mio clone, affinché, visto che avrebbe avuto i miei stessi geni, non commettesse i miei stessi errori».
Lei si interroga sul concetto di identità personale, dato che le cellule che abbiamo non sono le stesse che c’erano quando siamo nati. Allora ne siamo solo la memoria.
«È una domanda interessante per la filosofia. Immagini di poter fare una replica perfetta del suo corpo, non un clone in senso genetico, ma una copia di ogni atomo. Non è possibile farlo scientificamente, ma possiamo farlo filosoficamente. Probabilmente la replica avrebbe il suo corpo, i suoi ricordi, gli stessi pensieri. Ma una volta lì, comincerebbero a separarsi, avrebbero nuove esperienze e allora, quale sei? Sono questioni a cui non si può rispondere in maniera sperimentale ma sono filosoficamente affascinanti».
Stephen Hawking sostiene che la filosofia è morta, perché adesso è la scienza che dà le risposte.
«Non credo che la filosofia sia morta, ma certamente ha perso terreno».
Lei ha scritto che la Seconda guerra mondiale non sarebbe scoppiata se il padre di Hitler avesse starnutito in quel momento. E che in un altro secolo lei sarebbe stato un chierico. Siamo casuali fino a questo punto? È scettico o ateo solo per un caso?
«La realtà dipende da particolari molto piccoli. Sappiamo che tutti i mammiferi vengono da un individuo esistito all’epoca dei dinosauri. Se quel piccolo mammifero fosse morto prima di riprodursi, forse i mammiferi ci sarebbero lo stesso, ma sarebbero completamente diversi. Forse quel mammifero sopravvisse per uno starnuto del dinosauro. Rispetto all’esempio di Hitler, ognuno di noi deve la sua esistenza al fatto che tra milioni di spermatozoi ce n’è stato uno che ha fertilizzato l’ovulo. Il più leggero movimento mentre i suoi nonni copulavano, se un cane, abbaiando, gli avesse fatto perdere la concentrazione, avrebbe prodotto un risultato diverso. Per questo dico che uno starnuto qualche anno prima ci avrebbe risparmiato la guerra. E nessuno di noi esisterebbe oggi se non fosse esistito Adolf Hitler».
(Traduzione di Luis E. Moriones)
© 2014 Ricardo de Querol Ediciones El País, S-L

Repubblica 22.2.15
L’arte del dubbio
È un metodo “trasversale” antico quanto la filosofia
Che ora riscopriamo per difenderci da dogmi false notizie e propaganda
di Roberto Esposito


In principio fu Socrate
Poi toccò a Sant’Agostino e ancora a Cartesio, alla modernità e a Kant
Eppure ci voleva l’era della confusione digitale e dell’overdose continua di informazioni per farci capire che solo l’assenza di certezze può aiutarci a restare liberi
NEL cercare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Le grandi guide del popolo, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio». A pronunciare tali parole non è un filosofo neoscettico, ma papa Francesco nella sua prima intervista a Civiltà Cattolica . In molti hanno visto in esse, più che una semplice apertura all’esigenza di rinnovare il linguaggio della Chiesa, la testimonianza del ruolo crescente che la dimensione del dubbio ha assunto nella nostra società. In questo senso il grande successo che sta riscontrando in Francia, anche a livello di partecipazione ai corsi universitari, la “zetetica” — come Henri Broch ha definito l’arte del dubbio nei confronti di settarismi, faziosità, dogmi ammantati di pretese scientifiche — non può sorprendere: viviamo immersi un un’epoca in cui ci arriva continuamente una massa enorme di informazioni. E così il controllo sulla autenticità, sulla buona fede, sulla correttezza o sulla logica interna di qualsiasi messaggio, dal tweet di un personaggio noto a un documento ufficiale di un’istituzione, diventa un’attività cruciale, un meccanismo di sopravvivenza: l’unico esercizio possibile per non restare impigliati nelle miriadi di reti della propaganda presenti su internet così come nei prodotti culturali più tradizionali, nella politica così come nelle discipline accademiche, nei video degli estremisti islamici così come nelle verità di regime di ogni luogo e tempo.
È chiaro che, in questo contesto, l’arte del dubbio cambia pelle. Da perno di sistemi di pensiero illuministi o liberal di vario spessore, diventa adesso quello che in fondo è sempre stata: un metodo di conoscenza, un approccio da applicare in maniera trasversale in qualsiasi campo della nostra vita. Una guida indispensabile in un mondo globalizzato, spezzettato, confuso eppure sempre a rischio di finire intrappolato nelle spire del pensiero unico di turno.
Per queste sue caratteristiche, il rilievo filosofico del dubbio naturalmente è antico — può essere fatto risalire alla classica formula socratica del “sapere di non sapere”. Teorizzato dal Pirrone già nel III secolo avanti Cristo, ha trovato una prima formulazione cristiana, condizionata alla verità divina, con sant’Agostino. Successivamente Descartes lo ha posto alla base della conoscenza: pur dubitando di tutto, non si potrà mai dubitare di essere, proprio perciò, un soggetto pensante. Se Pascal e Hume hanno diversamente sottoposto l’idea di certezza assoluta a una critica corrosiva, è stato Kant ad assumere a oggetto di dubbio la ragione stessa, individuandone possibilità e limiti. Tutta la discussione novecentesca sulla relazione indissolubile tra dubbio e certezza — sostenuta da Wittgenstein, ma anche, diversamente, da Popper, Kuhn, Lakatos — ha insistito sulla necessaria falsificabilità dei paradigmi scientifici.
D’altra parte se Kierkegaard scrive in Aut Aut che il dubbio appartiene al movimento interno del pensiero, nel suo Zibaldone Leopardi afferma che «piccolissimo è quello spirito che non è capace o è difficile al dubbio». Su questa linea di ragionamento, che desume la necessità di dubitare dal carattere finito e incompiuto del nostro sapere, Vladimir Jankélévitch, in Da qualche parte nell’incompiuto ( Einaudi, a cura di Enrica Lisciani Petrini), sostiene che, contro le false certezze, va tenuto fermo «il dubbio rispetto alle verità e a se stessi». E tuttavia fin qui non siamo ancora pervenuti al cuore del problema. Perché qualcosa che appartiene alla storia dell’intera tradizione filosofica torna oggi a interpellarci con particolare urgenza? Cosa rende la richiesta all’arte del dubbio così pressante?
Già alla fine degli anni Settanta un volume collettivo curato da Aldo Gargani, con il titolo Crisi della ragione ( Einaudi), monopolizzò il dibattito filosofico in concomitanza con il successo internazionale del libro sul postmoderno di Jean-François Lyotard (Feltrinelli). Ciò che in quegli anni pareva incrinarsi era un intero regime di senso che per un lungo periodo aveva costituito al contempo la struttura indubitabile del reale e un modello normativo di comportamento. A venire meno era il primato del passato sul presente — l’idea che tutto ciò che avveniva fosse predeterminato da quanto lo precedeva secondo un nesso diretto tra cause ed effetti. Quando invece ai codici razionali si accompagnano sempre elementi imprevedibili di tipo intuitivo, emotivo o pragmatico, spesso portati a configgere con essi.
Ma una scossa ancora più destabilizzante si è verificata negli ultimi anni, quando, con il nuovo disordine globale, tutti i riferimenti che fino a qualche tempo fa hanno guidato i nostri comportamenti sembrano essere venuti meno. Da qui nasce la spinta a una ricerca ininterrotta, capace di sfidare dogmi e luoghi comuni. Il termine stesso di zetetica rimanda al verbo greco che significa “cercare”. Alla sua base vi è un bisogno urgente di spirito critico, una diffidenza crescente rispetto alla continua manipolazione che media spregiudicati o asserviti, sondaggi con esiti preconfezionati, dispositivi di propaganda ci rovesciano quotidianamente addosso.
Gli attentati di Parigi, rivolti espressamente contro la libertà di pensiero e di scrittura, hanno rinforzato ulteriormente questa esigenza, come dimostra la pronta scalata delle opere di Voltaire nella zona alta delle classifiche di vendita. Già preparata dal successo di instancabili partigiani del dubbio come Montaigne e Diderot, il ritorno, non solo da parte dei francesi, a Voltaire rilancia la tradizione dei lumi contro l’accecamento prodotto dal fanatismo. Tale impulso zetetico, d’altra parte, si innesta in un orizzonte filosofico già orientato in direzione laica e libertaria. Esso rimanda a filoni culturali diversi, che hanno trovato un primo punto di aggregazione nel “New Atheism” americano — teorizzato da filosofi e saggisti come Richard Dawkins, Daniel Dennet, Sam Harris e Christopher Hitchens. Ciò che li collega in uno stesso punto di vista non è la polemica contro particolari religioni, ma contro qualsiasi tipo di presupposto dogmatico che vincoli la ricerca scientifica e anche i comportamenti pratici. Si tratta di una interpretazione radicale del darwinismo, che sottrae il fenomeno della vita al rimando a qualcosa che ne trascenda lo sviluppo specifico.
A questa corrente — che dall’America si è diffusa in Germania, in Francia, in Italia — si affiancano altri filoni libertari ispirati in vario modo alla tradizione illuministica. Il neo-materialismo individualista di Michel Onfray, autore di un discusso Trattato di ateologia ( tradotto in Italia da Fazi), è stato oggetto di un ampio dibattito e anche di forti critiche. Portando agli esiti estremi la dottrina della tolleranza che ha i suoi padri in Locke e nello stesso Voltaire, la sua prospettiva è caratterizzata da una critica preventiva di qualsiasi nozione che non sia passata al vaglio dell’analisi razionale. L’altra scuola di pensiero che, forse con maggiore consapevolezza teoretica, rompe con ogni forma di trascendenza è quella che guarda da un lato al pensiero di Spinoza e dall’altro alla genealogia di Nietzsche. Ciò spiega la forte ripresa di interesse per un autore come Gilles Deleuze, del quale DeriveApprodi ha appena edito il film-intervista, a cura di Claire Parnet, dal titolo Abecedario. Forse prevedendo la svolta in atto, Michel Foucault aveva una volta pronosticato «che un giorno il secolo sarà deleuziano». Prudentemente non aveva specificato di quale secolo parlava.

Repubblica 22.2.15
Università di Grenoble
“Così insegniamo ai nostri alunni il pensiero critico”
di Anais Ginori


PARIGI LIBERI di criticare. Sono quasi dieci anni che all’università di Grenoble viene insegnata l’arte del dubbio. L’ateneo ha un corso di “Zetetica e Autodifesa intellettuale” frequentato da centinaia di studenti ma anche semplici curiosi, affascinati da una materia nuova e unica in Francia. La cattedra è guidata da Richard Monvoisin insieme ad altri insegnanti del Cortecs, Collectif de recherche transdisciplinaire esprit critique et sciences.
Com’è nata l’idea di un corso specifico?
«La zetetica, inventata da una scuola greca di scettici radicali nel IV secolo a. C., è stata riscoperta nel Novecento come investigazione scientifica su fenomeni paranormali da un americano di origini italiane, Marcello Truzzi, e poi dal francese Henri Broch. Dopo essermi laureato in didattica e scienze fisiche, ho fatto il mio dottorato con Broch. Mi sono accorto che la zetetica poteva essere una disciplina trasversale».
Su cosa si fonda questa disciplina?
«Partiamo sempre dall’analisi delle fonti, dalla ricerca su informazioni non verificate, dalla demistificazione di cifre o frasi vuote. Nel nostro collettivo ci sono specialisti di ogni disciplina, dall’informatica alla biologia, dalla medicina, all’economia, alle scienze politiche. Ormai ci sono corsi di zetetica anche a Marsiglia, Montpellier. Lavoriamo su temi diversi come il creazionismo o i gender studies, Internet aperto e la xenofobia in politica. L’obiettivo di Cortecs è mettere in rete contributi diversi, invitando altri esperti a dialogare con noi, in un processo evolutivo di conoscenza».
Perché nel titolo del corso si parla di “autodifesa intellettuale”?
«E’ una metodologia che combatte la manipolazione delle opinioni o l’emergenza di nuove forme di consenso. Come diceva Noam Chomsky, il pericolo è tanto più grande per chi studia e fa professioni intellettuali. Nel mondo accademico anglosassone c’è già chi insegna il critical thinking ».
È più facile oggi manipolare le opinioni?
«Sono nato nel 1976 e ho vissuto l’avvento di Internet come una benedizione. Ero convinto che le generazioni dopo di me avrebbero avuto accesso a ogni tipo di informazione. Oggi invece i giovani rischiano di annegare nella vastità della Rete oppure di accontentarsi di una rap- presentazione parziale. Dietro una schermata di Google ci sono interessi economici che molti purtroppo ignorano. La pluralità delle fonti è uno dei punti di partenza. Se voglio farmi un’opinione su Vladimir Putin, ad esempio, cercherò di leggere testi francesi, russi e ucraini. Inoltre, la rapidità nella diffusione delle informazioni rende ancora più facile errori di analisi. Suggerisco ai miei alunni di aspettare almeno qualche settimana prima di prendere posizione su un evento. Insieme al dubbio, bisogna praticare un ritmo lento del pensiero».
La zetetica è una forma di scetticismo?
«Lo scetticismo è un atteggiamento filosofico che si può riassumere con la frase di Bertrand Russell: “Dammi una buona ragione di pensare quello che pensi”. La zetetica è la metodologia pratica dello scetticismo. Il nostro scopo è aiutare la libertà di pensiero dei cittadini».
Eppure i dubbi dilagano sul web, alimentando le teorie del complotto. Vi occupate anche di questo?
«Intanto non le chiamiamo teorie, ma scenari, miti moderni, perché non sono confutabili e dunque non rispettano il criterio di falsificabilità di Karl Popper. Quando ci troviamo di fronte a scenari complottisti, come quello sull’11 Settembre, non facciamo altro che usare nozioni di epistemologia, applicando il criterio di massima parsimonia o il cosiddetto “Rasoio di Occam” che prediligono spiegazioni dimostrabili e semplici. L’esercizio funziona quasi sempre».
Avete già affrontato il tema dell’informazione sugli attentati di Parigi?
«Cominceremo un nuovo ciclo questa settimana dal titolo “Censura e libertà di espressione”. Noi pensiamo che sia meglio pubblicare il libro di Eric Zemmour (popolare saggista francese contro l’immigrazione, n.d.r.) oppure autorizzare gli spettacoli di Dieudonné. Piuttosto che impedire a qualcuno di esprimersi, trasformandolo in una presunta vittima, è meglio diffondere strumenti critici e di analisi. La zetetica dovrebbe essere insegnata già nelle scuole ai bambini. Piuttosto che la censura, è meglio scommettere sull’intelligenza collettiva».

Repubblica 22.2.15
Il video virale che contesta Copernico
di Piergiorgio Odifreddi


IL TEOLOGO islamico Bandar al-Khaibari, in un video linkato in molti siti, ha spiegato qualche giorno fa che la Terra non gira su se stessa. Perché se girasse nel giro di 24 ore, lo farebbe a una gran velocità (circa 1670 Kmh). Dunque, volendo volare da qualche parte in direzione del moto terrestre, bisognerebbe andarci a una velocità impossibile. E volendo volare in direzione opposta, basterebbe alzarsi da terra e aspettare che la destinazione ci venisse sotto. Il video è diventato “virale” in rete. Ma pochi si sono accorti che gli argomenti sono esattamente gli stessi proposti da Tolomeo fin dall’antichità, e in seguito divenuti cavalli di battaglia degli anticopernicani contro l’eliocentrismo: primo fra tutti del cardinal Bellarmino, oggi evidentemente reincarnato in Bandar al-Khaibari. Ancor meno persone si sono accorte che la risposta corretta all’argomento non è affatto quella proposta da molti tronfi commentatori del video: cioè, che l’atmosfera nella quale si muovono gli aerei è “trascinata dalla Terra”. Più sottilmente, come spiegò Galileo nei Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo, l’atmosfera si muove solidalmente alla Terra perché ne mantiene la velocità per il principio di inerzia. E senza citare quest’ultimo si rimane vani quanto Bellarmino o Bandar al-Khaibari.

Repubblica 22.2.15
Razza e Destino
Le radici profonde di tutti i razzismi
La ricerca minuziosa di Maurice Olender cerca di districare il complicato intreccio dei pregiudizi che hanno generato persecuzioni
di Maurizio Bettini


RAZZA E DESTINO di Maurice Olender, BOMPIANI TRADUZIONE DI D. BARBIERI E S. FACIONI PAGG . 496 EURO 17

IN OCCIDENTE razzismo e antisemitismo si presentano simili a un viluppo intricato di radici difficile da districare. Alla costruzione del pensiero che animò questi drammatici fenomeni hanno infatti contribuito le figure più disparate, professori di grammatica storica e studiosi della Bibbia, oscuri canonici di campagna e articolisti della Civiltà Cattolica, scrittori, scienziati e politici. Il fatto è che «scrivere la storia dell’antisemitismo», ha detto Léon Poliakov, «è scrivere la storia di una persecuzione che, nel seno della società occidentale, è stata legata ai valori supremi di questa società, perché la si è perseguita in loro nome». Ecco perché districare questo viluppo è così difficile – a meno di non volersi accontentare di luoghi comuni.
Chi intenda assumersi seriamente questo compito non può che cominciare dalla lettura minuziosa di testi rari, articoli dimenticati, perfino manoscritti. E deve esser pronto ad accettare che la ricerca produrrà scoperte imbarazzanti per la propria fede, così come per la propria laicità, perfino per l’amore delle discipline (e degli studiosi) a cui deve la sua formazione intellettuale. Il compito se lo era assunto Poliakov. E sulla sua scia Maurice Olender, che dopo Le lingue del Paradiso prosegue con Razza e destino . Il cammino tracciato in questo libro si snoda attraverso ricerche storiche (la lotta del gesuita Padre Charles contro i Protocolli dei Savi di Sion e certe posizioni antisemite della Chiesa); interviste e ritratti di grandi intellettuali (Georges Dumézil, Hans-Robert Jauss); ricostruzioni di tappe importanti. Altrettanti capitoli cuciti dal filo di una stessa drammatica domanda: quando e perché la “razza” diventa “destino”? In quali circostanze una categoria (peraltro falsa) delle scienze biologiche si muta in uno strumento capace di rendere “naturale” la superiorità o l’inferiorità morale, intellettuale, spirituale attribuite a un certo gruppo rispetto a un altro? Si tratta di una visione della razza che Otto Reche, professore di Antropologia a Lipsia fra il 1927 e il 1945, riassunse appunto nella formula “Razza è destino”. Banalità assiomatiche che però ci si stupisce, anzi ci si allarma quando le si vede uscire dalla penna di uno scienziato come Teilhard de Chardin o di un grande linguista come André Martinet. Per non parlare dell’antisemitismo che emerge dalla lettura dei “Quaderni Neri” di Heidegger, dei quali Olender ugualmente si occupa. La storia degli studi di indo-europeistica è esemplare. Con la scoperta delle affinità fra radici linguistiche appartenenti a sanscrito, latino, greco, lingue celtiche, questa corrente suscitò anche un impulso verso la ricostruzione di una pretesa “razza” indoeuropea: la cui cultura, guarda caso, avrebbe avuto gli stessi tratti di superiorità che fra otto e novecento gli Europei attribuivano a se stessi nei confronti di “semiti”, neri o gialli. Perfino alcune innocue radici linguistiche poterono mischiarsi al viluppo dei razzismi.

Repubblica 22.2.15
Paul Gauguin
I colori di un artista in fuga dalla civiltà del progresso
di Fabrizio D’Amico


BASILEA PAUL Gauguin, uno dei miti inossidabili della tradizione moderna della pittura, è di stanza, oggi, a Basilea. È di questi giorni la notizia che la famiglia reale del Qatar avrebbe acquistato per il suo museo di prossima inaugurazione a Doha, che ramazza senza tregua in giro per il mondo grandi capolavori dell’arte occidentale, un suo dipinto del 1892, pescato in una collezione privata svizzera, temporaneamente in deposito presso il Kunstmuseum di Basilea, per la cifra record di 300 milioni di dollari. E contemporaneamente s’inaugura, nella medesima città, una sua mostra – notevolissima per la ricchezza dei prestiti ottenuti; una mostra davvero “d’altri tempi”, che sarà difficile ripetere – alla Fondazione Beyeler (a cura di Raphaël Bouvier e Martin Schwander; fino al 28 giugno). Basilea, dunque, oggi davvero “città di Gauguin”, come con orgoglio asserisce nel catalogo odierno Sam Keller, direttore della Beyeler.
Nato nel 1848, Gauguin non avrà una vocazione precoce: fra le sue prime occasioni espositive s’annoverano le partecipazioni assidue, sollecitate da Pissarro, alle mostre impressioniste, a partire dalla quarta del ‘79, e fino all’ultima dell’86. Poco dopo, Gauguin parte per la Bretagna, dove conta di trovare, rispetto a Parigi, luoghi, gente e tradizioni più autentiche, intrise di quel primitivismo che insegue. Si ferma a Pont-Aven, dove si va costituendo una piccola colonia di pittori, fra i quali Émile Bernard, Paul Sérusier ed altri più giovani con i quali Gauguin costituirà il gruppo dei Nabis, e ai quali trasmette i suoi valori d’una espressività fondata sulla sintesi e sul simbolo, i nuovi valori d’una cultura in rapida evoluzione dal naturalismo che egli vede governare tanto l’impressionismo di Monet che il pointillisme di Seurat. Di questo suo tempo – il primo suo maturo – sono oggi in mostra a Basilea le opere cardine, come la Visione del sermone, il Cristo giallo, l’ Autoritratto con il Cristo giallo .
Trascorre prevalentemente in Bretagna qualche anno, poi parte per Panama, donde poi prosegue per la Martinica: è il suo primo viaggio – da pittore, almeno – verso una terra remota, e verso quell’abiura della civiltà occidentale e metropolitana che lo condurrà nel ‘91, nel ‘95, quindi nel 1901 a Papeete, e infine a Hiva Oa, isola del remoto arcipelago delle Marchesi: “vers les lointains et vers soi-même”, verso luoghi lontani e verso sé stesso, dirà Stéphane Mallarmé nel corso d’un banchetto d’addio in onore del pittore, a Parigi. Alle Marchesi egli vivrà i suoi ultimi anni, nei quali infine – in un continuo alternarsi di malattie, amori, furori, propositi di suicidio – scriverà il mito, al quale si sarebbero ispirate intere generazioni successive, dell’artista moderno in fuga dalla civiltà del progresso, e teso ad abbeverarsi alle fonti incorrotte delle culture primitive. Non gli bastò più, per dar figura a quel mito, la selvaggia Bretagna, con la sua natura ostile ed eccessiva, e con la tempra e le credenze non canoniche delle sue genti; e alla fine, quando anche Tahiti gli parve viziata dalla ormai dominante influenza europea, cercò laggiù, nelle lontanissime Isole Marchesi, quell’“ oviri”, quel “selvaggio” che andava inseguendo. Allora, in quelle terre remote, fra musica e danza, e sotto la luce ambigua di Hina, la dea Luna; fra torpore di sensi eccitati o stanchi, e malinconia d’un bene di cui sembrava conoscere in anticipo la fine prossima, Gauguin guarda l’innocenza delle giovani che ritrae sovente nude, spogliate dagli orpelli e dai vezzi delle mode imposte alla donna dalla civiltà occidentale, e la loro caparbia voluttà di possesso, ancora inconsapevole del dogma cristiano della rinuncia. Tutto allora sembra confondersi ai suoi occhi: pensieri lontani o incombenti che traspaiono da quei volti attoniti di fanciulla; e seducenti sorrisi, profumi d’un corpo o d’un fiore, e acque e rocce, piante e animali; mentre il suo desiderio, la sua voluttà s’unisce all’inconsapevolezza di quelle figure sbocciate in quel mondo primitivo, che non conosce la colpa.
Gauguin visse tutto ciò soffertamente e insieme speculativamente; cosciente del dolore che quella lontananza dal suo mondo gli avrebbe portato, ma anche dello strappo fecondo che avrebbe imposto così ai modi della pittura moderna. Non v’è dubbio che egli fosse pienamente consapevole di questa particolare dimensione della sua personalità, e che non intese rinunciarvi: al punto che quando – stanco, malato e ormai prossimo alla fine – fu tentato di tornare in Francia, finì per ascoltare invece il suggerimento di chi lo dissuase da questo passo, trasmettendogli la convinzione che il suo “mito” ne avrebbe irrimediabilmente sofferto.
Ma, pur ambiguamente in bilico fra sagacia nell’amministrarsi e cernita di sé spogliata di tatticismi, Gauguin rimane, nella vicenda della pittura fra Otto e Novecento, fra la lunga e diramata età del simbolismo e quelle avanguardie che profondamente influenzò, il primo artista occidentale ad aver avvalorato esperienze estetiche di civiltà primitive, e ad averle rese dunque disponibili alla nostra cultura. D’altra parte, il prelevamento che egli operò da quelle esperienze fu tutt’altro che testuale, ed anzi sovente s’assiste ad una riproposizione di schemi compositivi, di memorie e citazioni di evidente radice occidentale trasposti in vesti esotiche (soprattutto nelle opere di maggiore impegno – a Basilea riunite in scelta perfetta, a cominciare da D’où venonsnous? Que sommes nous? Où allon nous, il grande dipinto che Gauguin stesso disse essere il suo “testamento” – traspare il ricordo di cose tanto diverse quali Botticelli e l’antica arte egiziana).
LE OPERE Paul Gauguin: Autoritratto con la tavolozza (1893 circa);
Baigneurs (1902); Aha Oe Feii (1892)

Corriere La Lettura 22.2.15
Viviamo in una guerra civile globale
Un’analisi di Giorgio Agamben che prende le mosse dall’antichità ed evoca le riflessioni di Carl Schmitt e di Thomas Hobbes
La minaccia inedita. Si affaccia sulla scena una figura di combattente irregolare con il quale la radicalizzazione dello scontro non ha più limiti
I nuovi conflitti hanno perso ogni legame con un territorio Il terrore avanza, come le lotte fratricide nella polis greca
L’interrogativo. Se la politica è abitata sempre dalla guerra, che si presenta quale fenomeno ricorrente, come si può riuscire a pensare la pace?
di Donatella Di Cesare


Che guerra è quella che si combatte in Libia? In Siria? In Ucraina? E nelle numerose aree di conflitto del mondo? Sebbene in alcuni casi gli Stati nazionali svolgano
ancora un ruolo di rilievo, appare chiaro che la guerra coinvolge direttamente la popolazione civile. Questo vuol dire che civili sono non soltanto le vittime inermi, ma anche i combattenti. Basti pensare ai miliziani jihadisti, ai peshmerga curdi, agli indipendentisti filo-russi.
La guerra civile sembra essersi diffusa ovunque negli ultimi anni, persino entro i confini europei. Il che conferma una delle grandi intuizioni di Carl Schmitt, formulata in un testo pubblicato a Berlino all’inizio degli anni Sessanta e intitolato Teoria del partigiano (Adelphi). L’autore parla di un nuovo ordine mondiale in cui viene meno il reciproco riconoscimento fra gli Stati sovrani e perciò la guerra non è più né circoscritta né regolamentata. Il nuovo «nomos della terra», la nuova politica dello spazio, deve considerare questo mutamento epocale. Il duello fra gli Stati viene sostituito dalla guerra senza limiti e senza regole, una guerra che criminalizza il nemico fino a volerne l’annientamento. Nella figura del «partigiano», il combattente irregolare, Schmitt vede emergere questo mutamento. Con le sue rappresaglie, il ricorso a ogni mezzo per sopperire alla sua inferiorità militare, il partigiano piega l’esercito regolare alle proprie modalità belliche; così radicalizza la contrapposizione amico-nemico. Per Schmitt non vi è alcun dubbio: guerra e nemico sono due concetti che si sono trasformati, assumendo tratti estremi. Dopo le due grandi guerre mondiali l’«ostilità assoluta» è destinata a divenire fenomeno planetario.
Quel che ha inciso profondamente sulla guerra, sul suo carattere e sulle sue forme, è la tecnica. L’apocalisse nucleare è lo sfondo minaccioso delle tante guerre, ammantate di delega, e dissimulate con la procura, che si combattono nell’intento paradossale di prevenire all’infinito la catastrofe. Ma la tecnica ha modificato anche condizioni e modi dell’intervento militare. Si può combattere a distanza, e colpire su scala globale, senza neppure venire in contatto con il nemico. Il drone è oggi il simbolo del nuovo high tech che ha inaugurato la guerra senza volto.
Che ne è allora del partigiano di Schmitt? La tecnica ne recide il legame con la terra, ma non ne cancella la figura: il partigiano autentico, una volta sradicato, diventa il combattente che può operare ovunque e la cui irregolarità, prima mitigata dalla difesa del proprio territorio, diventa aggressività senza fine. Schmitt non poteva sapere del terrorista. Eppure intuì quel che sarebbe avvenuto di lì a poco: mentre si legittimava, anche giuridicamente, il partigiano, si affacciava sulla scena della storia un’altra figura di combattente irregolare, il terrorista, con il quale la radicalizzazione dello scontro sarebbe giunta a una guerra senza limiti.
Non si esagera dicendo che la globalizzazione è il mondo in guerra. Nell’epoca del terrore la guerra si diffonde; non ha più frontiere. Gli eventi bellici si moltiplicano, realizzandosi in spazi e tempi differenti.
Ogni conflitto potrebbe dar luogo a una deflagrazione cosmica, perché si accende nel disordine planetario che non lo contiene, ma piuttosto lo asseconda. La guerra globale fa saltare i confini fra militare e civile, esterno e interno, criminale e nemico. Al punto che, sotto il profilo concettuale, diventa difficile distinguere persino tra guerra e terrorismo.
Stasis. La guerra civile come paradigma politico (Bollati Boringhieri) è il titolo del libro di Giorgio Agamben uscito in questi giorni. Il volume, che fa parte dell’opera complessiva Homo sacer (II, 2), contiene i testi di due seminari tenuti all’Università di Princeton. Che cos’è la guerra civile? Per rispondere a questa domanda, Agamben risale per un verso al pensiero greco, per l’altro alla riflessione di Thomas Hobbes.
Le guerre degli ultimi anni, che non sono più conflitti internazionali, hanno indotto molti studiosi a parlare di internal wars o di uncivil wars — guerre interne o «incivili». Perché sembrano dirette non alla trasformazione del sistema politico, ma
solo a rendere più acuto e esteso il disordine. Mentre si è affermata l’esigenza di gestire i conflitti, è stata trascurata la questione della guerra civile.
Non si può dire che i filosofi non abbiano mai riflettuto su questo tema. Tuttavia manca una dottrina della guerra civile. Il che è tanto più eclatante di fronte al diffondersi della «guerra civile mondiale» — un’espressione usata sia da Schmitt sia da Hannah Arendt. Proprio Arendt, che distingue la rivoluzione dalla stasis, cioè dalla «discordia civile che tormentò la polis greca», nel suo libro Sulla rivoluzione (Einaudi) ha contribuito a mettere in ombra la guerra civile.
La stasis, nella Grecia classica, ha un suo luogo preciso: si situa tra la famiglia e la città, fra l’oikos e la polis. La «guerra familiare» — come la chiama Platone — investe tragicamente la città; non viene dall’esterno, ma nasce dai legami di parentela. Questo vuol dire che l’ordine politico della città è costantemente minacciato dall’interno, dalla discordia tra fratelli, dalla «guerra in casa».
Agamben, però, non accetta di vedere nella guerra civile un semplice segreto di famiglia. Altrimenti non sarebbe un paradigma politico. Ecco perché la sposta, ne fa la soglia tra la famiglia e la città. Quando la discordia si scatena, il fratello uccide il fratello come se fosse un nemico. La guerra civile non permette più di distinguere l’intimo e l’estraneo, il dentro e il fuori, la casa e la città, la parentela di sangue e la cittadinanza. In tal modo «il legame politico si trasferisce all’interno della casa nella stessa misura in cui il vincolo familiare si estranea in fazione». La stasis non è allora guerra in famiglia. Piuttosto funziona «in modo simile allo stato di eccezione», lo stato, cioè, in cui il diritto è sospeso. Così Agamben salvaguarda la irregolarità della guerra civile.
Ciò appare chiaro anche nella lettura dei testi di Hobbes, in particolare del Leviatano. Che cos’è un popolo? A questa domanda, molto dibattuta nella filosofia contemporanea, Agamben risponde con Hobbes: una volta unito nel sovrano, o nell’assemblea democratica, il popolo resta infatti moltitudine. Non è la moltitudine disunita, che precede il patto, ma è piuttosto la «moltitudine dissolta» dal cui interno può scaturire il conflitto. Sta qui la minaccia della guerra civile, che è quindi sempre possibile.
Per Agamben la forma che la guerra civile ha assunto oggi è il terrorismo. Proprio quando la città prende le sembianze rassicuranti della famiglia, la «casa Europa» o «il mondo come assoluto spazio della gestione economica globale», la guerra civile diventa il paradigma di ogni conflitto e assume la figura del terrore.
Molti sono gli interrogativi che restano aperti. Pur se accomunate dalla violenza planetaria, come differiscono le varie forme di terrorismo globale? Esiste una peculiare teologia politica della guerra civile che — come ha suggerito lo storico Dan Diner — influisce sull’islam radicale? E se la politica è abitata sempre dalla guerra, che si presenta come un fenomeno ricorrente, come può essere pensata in modo non ingenuo la pace?

Corriere La Lettura 22.2.15
L’evoluzione in diretta dell’uomo
di Edoardo Boncinelli


Capita spesso — sempre più spesso — che a qualcuno i denti del giudizio spuntino molto tardi o non spuntino affatto. Oppure che i canini siano meno aguzzi. Secondo qualcuno si tratta di un processo evolutivo in atto, un processo che prosegue e completa lo smantellamento nella nostra bocca di una dentatura ferina che mal si coniuga con le nostre attuali abitudini alimentari e che toglie spazio alla volta cranica che ospita il cervello. Male si coniuga anche la presenza dell’appendice cecale, che tanti guai ci causa; e del timo, un organo che va incontro a un progressivo decadimento. Secondo altri, avremo occhi sempre più grandi e testicoli sempre più piccoli, con il tempo molti nostri muscoli si atrofizzeranno, l’intestino si accorcerà e le dita delle mani si allungheranno, mentre per altri ancora le differenze tra i due sessi sono destinate a ridursi e per altri il nostro cervello sarà sempre meno capace di rinunciare a protesi elettroniche, prima fra tutte la calcolatrice. Sono numerosi i segni premonitori di un futuro processo evolutivo a carico della nostra specie, alcuni dei quali reali e altri piuttosto fantasiosi. Ma d’altra parte, parlando di futuro, la fantasia è quasi d’obbligo.
Quello che è certo comunque è che il nostro corpo sta lentamente cambiando. Alcuni di questi cambiamenti, come l’altezza crescente o l’allungamento della vita media, sono conseguenza diretta di cambiamenti ambientali e potrebbero regredire da un momento all’altro, se le condizioni venissero meno, altri sono veri e propri processi secolari a carico del nostro genoma. Che evolve, come i genomi di tutte le altre specie.
A questo proposito è opportuno fare due ordini di considerazioni: il processo evolutivo indubbiamente continua anche oggi, però è molto lento. Abbiamo alle nostre spalle qualche milione di anni di evoluzione come ominidi e quasi quattro miliardi di anni come esseri viventi, ma non c’è dubbio che il processo continua, anche se piuttosto lentamente. Qualcuno pensa — e purtroppo dice — che per l’uomo l’evoluzione si è fermata. La motivazione addotta è che per noi l’evoluzione non procede più, perché abbiamo alterato profondamente l’ambiente nel quale viviamo, togliendo così forza alla pressione selettiva. Qualcosa di vero in questa affermazione c’è. I miopi, i sordi, i diabetici, gli emofiliaci una volta non sarebbero sopravvissuti, mentre oggi c’è posto quasi per tutti in una vita di relazione soddisfacente e tranquilla. Come pure persone con qualche problema, magari transitorio, al sistema immunitario, una volta sarebbero difficilmente scampate alla falcidie delle malattie infettive ricorrenti. Quindi sopravvivono, e magari vivono a lungo, molte più persone di una volta. Detto questo, però, il processo evolutivo avrà registrato qualche battuta d’arresto, ma è tutt’altro che concluso. Non fosse altro che per la diversa propensione a fare figli dei diversi individui e dei diversi gruppi sociali. Se c’è una cosa che non può dirsi mai conclusa, è proprio il processo evolutivo.
Il genoma della nostra specie si muove quindi, ma con che velocità? Ci vogliono decine e centinaia di migliaia di anni per osservare effetti tangibili del processo evolutivo, soprattutto in una specie come la nostra, che ha un tempo di generazione piuttosto lungo. Una stima del tempo necessario per portare cambiamenti evolutivi si può avere dallo studio di specie minuscole, per le quali è facile fare una statistica: per originare una nuova specie nei moscerini della frutta è necessario più o meno un milione di anni. Cinque milioni di anni sono stati necessari per generare le 14 diverse specie di fringuelli delle isole Galapagos a partire da una singola specie, e probabilmente da una singola coppia di volatili giunti lì dal continente chissà come. Ma c’è un… ma. Più o meno trent’anni fa le isole furono investite da una terribile siccità e tutti gli animali, compresi i fringuelli, hanno dovuto lottare aspramente per sopravvivere. La variabilità di questi esemplari è aumentata enormemente e oggi si sa che una specie si è divisa in tre. In qualche decina di anni! La pressione selettiva deve essere stata qui veramente imponente.
Venendo all’uomo, possiamo fornire qualche dato. In un paio di milioni di anni il nostro cervello ha triplicato la sua massa, e chissà quante altre cose drammatiche sono successe al suo interno. Qual è stata in questo caso la pressione selettiva? La necessità di costruire e dominare strumenti sempre più avanzati e l’altrettanto impellente necessità di capire i segnali sociali, nella famiglia, nel gruppo e nella popolazione. Per organizzare una battuta di caccia grossa o una difesa dagli invasori è stato necessario capirsi e capire quale fosse il modo migliore di interagire e collaborare. Lo sviluppo di un’intelligenza sociale quindi, accoppiato allo sviluppo di un’intelligenza strumentale, ha richiesto un cervello sempre più grande e più pronto.
Tutto questo può non sembrare una pressione selettiva, ma lo è. Solo chi mostra queste capacità finirà per sopravvivere, e in condizioni critiche, che si saranno verificate certamente di frequente e quasi con regolarità, saranno richieste le caratteristiche biologiche delle quali stiamo parlando e magari sarà stata imposta addirittura una soglia: chi si trova sopra sopravvive, scusate il gioco di parole, e chi si trova sotto no o solo molto a fatica. Alcuni individui saranno stati costretti ad abbandonare il gruppo principale e magari avranno dovuto colonizzare territori nuovi in un susseguirsi di ondate migratorie che conosciamo abbastanza bene nelle linee generali, ma piuttosto male nel dettaglio. Molto di recente si è visto che un processo migratorio dall’Oriente verso l’Europa del Nord ha avuto luogo circa 4.000 anni fa con l’imposizione di una lingua del ceppo indoeuropeo alle popolazioni autoctone di cui non conosciamo il destino. Questa interessante scoperta completa il quadro dell’arrivo in Europa di popolazioni indoeuropee in un certo numero di ondate diverse negli ultimi 8000 anni. Non stupisca che io parli continuamente del passato: è quello che si conosce e può fornire una falsariga per decifrare il futuro.
Parlando delle ultime migliaia di anni, possiamo citare un processo evolutivo molto ben studiato a carico della nostra specie. Originariamente noi, come tutti i mammiferi, ci nutrivamo di latte solo nel periodo infantile e più precisamente quello dell’allattamento. Da adulti non prendevamo latte e con il passare degli anni i geni che producevano gli enzimi per digerire il latte si «spegnevano». Da quando ci siamo dati alla pastorizia e abbiamo allevato animali da latte, abbiamo cominciato a consumarlo anche da adulti. Ecco che allora i geni in questione non si sono più spenti con l’età, ma ci permettono di nutrirci di questo prezioso alimento a tutte le età. Moltissimi di noi, ma non tutti. Anche oggi c’è qualcuno che non può digerire il latte, essendo il suo genoma rimasto nella condizione originaria. Io amo molto il latte, ma mia moglie non lo digerisce. Potrei fare la battuta che io mi sono evoluto e lei no, ma questo riguarderebbe solo uno dei tanti cambiamenti evolutivi ai quali siamo andati incontro. Battute a parte, questo processo molto ben studiato rivela che qualche migliaio di anni possono essere sufficienti per un cambiamento evolutivo consistente. Resta da valutare, da regione geografica a regione geografica, da popolazione a popolazione e da individuo a individuo, quale sia stata la pressione selettiva verso il consumo di latte da adulti.
Un discorso non molto diverso, che implica tempi non molto diversi, è stato il progressivo schiarirsi della nostra pelle passando dall’Africa all’Europa. Nei climi temperati una pelle scura lascia passare troppa poca luce per produrre una dose adeguata di vitamina D e c’è stata quindi una pressione in favore dello schiarirsi della nostra pelle e di una ristrutturazione delle nostre dimensioni corporee. Questo ha richiesto probabilmente qualche decina di migliaia di anni e certamente una buona dose di sofferenze per chi non era adatto al livello di insolazione del Paese in cui viveva.
Molto di recente si è visto che i nostri antenati si sono incrociati con alcune popolazioni di Neanderthal che abitavano il Nord dell’Europa prima di loro. Il nostro genoma conserva traccia di questi accoppiamenti e in particolare di geni provenienti probabilmente dal genoma dei Neanderthal e connessi con il colore chiaro della pelle. Chissà che i racconti dei pallidi e biondi guerrieri delle saghe nordiche non abbiano a che fare con eventi del genere?
Il mantenimento dei geni della digestione del latte negli adulti, il cambiamento del colore della pelle, dei capelli e degli occhi, e chissà quante altre lente trasformazioni delle quali non riusciamo ancora a tenere la contabilità, sono processi che hanno richiesto migliaia di anni, come la diffusione di certi tipi di emoglobina nel sangue delle popolazioni che vivevano in zone malariche. Qualcuno ha anche avanzato l’ipotesi affascinante che la diffusione relativamente alta di diabete che noi osserviamo oggi in individui in età avanzata sia da mettere in relazione con il fatto che i nostri antenati non mangiavano tutti i giorni con regolarità. Facevano piuttosto delle gran mangiate ogni tanto e magari restavano relativamente a digiuno per giorni. In questo caso un’accumulazione degli zuccheri poteva essere utile, anche se oggi proprio no. Ma vai a spiegare al nostro corpo che le condizioni, almeno dalle nostre parti, sono cambiate! Occorrerà del tempo perché se ne accorga. È chiaro comunque che in tutti questi casi stiamo parlando di fenomeni che richiedono qualche millennio. Quanto ci vorrà per i prossimi cambiamenti? Dipenderà ovviamente dalla pressione selettiva sulle diverse caratteristiche biologiche, ma i tempi saranno quelli di cui abbiamo parlato o un po’ più lunghi. A meno che i nostri figli o nipoti non si mettano a cambiare il loro genoma a bella posta in maniera artificiale, nel qual caso tutte le stime salteranno e saremo letteralmente nelle nostre mani. Speriamo che vinca il migliore. O il più saggio.

Corriere La Lettura 22.2.15
I volti dei primi ominini che lasciarono l’Africa
Faccia a faccia con le popolazioni della storia
Padova espone calchi, reperti e ricostruzioni in 3D.Con una premessa: la razza non esiste
di Adriano Favole


«Quando lo conobbi era una figura imponente: alto, ben costruito, con muscoli guizzanti sotto la pelle di un gradevole color bruno chiaro. Aveva sul petto, sulla schiena e sugli omeri i tatuaggi azzurrini rappresentanti uccelli, pesci e figure geometriche, caratteristici degli uomini di Tikopia. Portava allora una folta barba e i capelli lunghi ricadenti sulle spalle. La barba nera contrastava fortemente con i capelli schiariti col lime, talvolta di un color bruno rossastro e talvolta biondo-oro. Contribuivano all’impressione generale il naso aquilino dalle narici ampie, le labbra sottili, il mento ben sviluppato, gli zigomi sporgenti che davano al viso quella linea leggermente esagonale frequente negli aristocratici polinesiani, gli occhi castano-scuri, limpidi, vivaci, espressivi. La fronte era segnata da cicatrici di vecchi tagli verticali, incisi con un coltello, per estrarre sangue in segno di condoglianza durante qualcuno dei molti funerali cui aveva assistito».
Il ritratto che Raymond Firth fece del suo informatore polinesiano Pa Fenuatara (la citazione è tratta da una raccolta di saggi di Joseph Casagrande, La ricerca antropologica, Einaudi, 1966), è una buona introduzione alla mostra dal titolo Facce . I molti volti della storia umana, da poco inaugurata al Centro per i Musei dell’Orto botanico di Padova (14 febbraio-14 giugno). Curata da Nicola Carrara, con la supervisione scientifica di Telmo Pievani, la mostra è dedicata alle mille forme del viso umano, sintesi inestricabile di biologia e cultura, di zigomi e tatuaggi, di narici e cicatrici rituali, per riprendere la pennellata narrativa che Firth dedicò all’amico polinesiano.
Del viso umano la mostra padovana sottolinea soprattutto il suo essere «testo» da leggere, interpretare, immaginare. Inter- faccia tra l’io e l’ambiente, il volto richiede di essere decodificato fin dal primo sguardo come amico o nemico, empatico o repellente, famigliare o estraneo. Il riconoscimento dei volti è un’abilità innata dell’essere umano (e non solo).
I volti possono dire molto dell’appartenenza ad ambienti e culture, ma la scienza occidentale ha preteso decisamente troppo dalle morfologie facciali. È soprattutto a partire dalle facce — la fronte alta o bassa, la forma del mento e del cranio, il tipo dei capelli, il colore della pelle e così via — che hanno preso forma le teorie della razza. La collezione di maschere in gesso di Lidio Cipriani, uno dei firmatari del «Manifesto della razza», ne è una testimonianza eloquente esposta a Padova. L’idea di risalire dai tratti del volto (la fisiognomica, la frenologia, la teoria lombrosiana dell’atavismo) al «carattere» dell’individuo o, peggio, del suo intero gruppo di appartenenza, è uno degli «eccessi» nella storia scientifica del volto. La mostra padovana, connettendosi idealmente a una recente presa di posizione degli antropologi biologici e culturali (vedi «la Lettura» del 1° febbraio scorso) ribadisce l’inconsistenza scientifica del concetto di razza. «Siamo una giovane specie africana divisa in popolazioni e non in razze; non ci sono più scuse per pensarci divisi in razze».
Se le facce non dicono tutto, i loro resti possono tuttavia aiutarci a compiere uno sforzo di immaginazione per visualizzare visi a lungo scomparsi dalla faccia della terra. Calchi dei crani e ricostruzioni facciali in 3D permettono così, muovendosi creativamente tra arte e scienza, di immaginare il volto dei primi ominini, i nostri antenati diretti, come l’ Homo Georgicus (a differenza degli ominidi che comprendono anche le scimmie antropomorfe). Gli ominini uscirono dall’Africa circa 1 milione e 800 mila anni fa. Allo stesso modo, attingendo alle recenti acquisizioni della scienza forense, è possibile ricostruire il probabile volto dei nostri cugini neandertaliani, che vagavano per l’Europa 40 mila anni fa confrontandosi con l’invadenza dei Sapiens . Di quegli antichissimi o più recenti visi portiamo ancora qualche traccia nei nostri volti di esseri umani contemporanei; l’evoluzione, suggerisce la mostra di Padova, non è un processo lineare, ma un’esplorazione di possibilità, alcune delle quali rimangono incorporate negli uomini moderni. Più vicini a noi, i volti ricostruiti di illustri personaggi come sant’Antonio e Francesco Petrarca osservano il pubblico che passeggia nell’esposizione.
Una collezione di maschere dell’Africa, dell’America e dell’Oceania, conservate nel Museo di Antropologia dell’Ateneo padovano — da cui provengono gran parte dei reperti esposti — completa il percorso espositivo. La maschera, con i suoi tratti più o meno realistici e deformati, esprime l’ambivalente desiderio di conservare memoria dei volti e allo stesso tempo di continuare a costruirli creativamente.

Corriere La Lettura 22.2.15
Angeli
Amici che ti mettono le ali
Creature celesti affollano romanzi e film «Sono mediatori che ci rassicurano»
di Severino Colombo


Ci sono anche se non si vedono. Questa era, una volta, la principale caratteristica degli angeli, presenze su cui contare, esseri discreti, impalpabili, trasparenti e insieme spiriti-guida capaci di indicare la via. Ciò prima che prendessero corpo come fenomeno diffuso. Oggi, angeli se ne avvistano dappertutto nelle arti, nella letteratura, al cinema, in tv. E nella vita di tutti i giorni.
«Credo in cose che vanno al di là della nostra comprensione: alieni, angeli, demoni», rivela la rockstar maledetta Marilyn Manson nell’intervista sul numero di marzo della rivista «Paper». «Oggi più che mai abbiamo bisogno di angeli» gli fa eco lo stilista Ennio Capasa, creatore del marchio Costume National, prima di mandare sulla passerella di Milano Moda Uomo 2015 i suoi modelli. Pezzi forte della collezione dal titolo Dancing with an Urban Angel i cappotti black or white, luccicanti di cristalli e ricoperti di morbide piume.
Niente piume, invece, (e neppure ali) per gli attesi angeli caduti del film Fallen, con Jeremy Irvine nei panni di Daniel Grigori, spirito destinato a innamorarsi della misteriosa Luce (e poi a vederla morire tra le sue braccia). La pellicola, annunciata per l’estate, si basa sulla saga bestseller Fallen di Lauren Kate.
I libri sono come antenne, colgono per primi umori e presenze nell’aria, angeli compresi. Non a caso questi ultimi sono diventati una figura ricorrente in molto storytelling contemporaneo. «L’angelo — spiega Paolo Costa, ricercatore in filosofia alla Fondazione Bruno Kessler di Trento — è una figura di mediazione rispetto a una trascendenza difficile da pensare». Dall’angelo delle poesie di Rilke alle creature di Wim Wenders agli angeli del cinema hollywoodiano, aggiunge lo studioso, « la tendenza è a rispecchiarsi in queste figure dalla natura ambigua, ma benevola: e questo ha un effetto allo stesso tempo rassicurante e ammaliante».
Avrò cura di te da due mesi stabile ai piani alti delle classifiche dei libri più venduti, è un romanzo epistolare dove a dialogare sono una trentaseienne in crisi (con la «voce» di Chiara Gamberale) e un angelo, Filèmone («interpretato» da Massimo Gramellini), espressione dell’interiorità prima che dell’aldilà. Nel fantasy Die for me (De Agostini), primo atto di una trilogia young adult, Amy Plum tratteggia la figura del classico bello e impossibile: a rendere Vincent irraggiungibile per Kate è il fatto che lui sia un revenant e lei la sua protetta. Ovvero lui è un angelo protettore, disposto a tutto per salvarla, compreso sacrificare la propria vita.
Quanto ad andate e ritorni dall’aldilà, c’è il via libera anche dalla fiction televisiva Braccialetti rossi : nella nuova stagione «appare» Davide (l’attore Marco Trovato) richiamato in vita e in servizio con sembianze di angelo. Mentre nell’ultimo film di Gabriele Salvatores, Il ragazzo invisibile, di cui è uscito anche il romanzo firmato dagli sceneggiatori, è un padre-angelo quello che veglia sul figlio quando scopre la sua natura da supereroe.
Vegliare, guardare per proteggere, è una delle missioni dell’angelo: vengono in mente il benevolo sguardo dall’alto dell’angelo Damien (Bruno Ganz) del film di Wenders Il cielo sopra Berlino e lo sguardo inquieto di Max (Jessica Alba) dallo Space Needle di Seattle, dove si conclude ogni episodio del serial tv Dark Angel .
Accanto a cura e protezione un altro compito da angelo — forse il meno gradito in una società come la nostra ipersensibile alla privacy — è il controllo: per evitare che uno vada fuori strada. Andrei Kurkov, dopo il reportage Diari ucraini, ha intitolato Il vero controllore del popolo il suo nuovo libro, l’indagine mista a humour di un angelo sceso sulla terra per verificare di persona il motivo di una carenza di materia prima in Paradiso. Il tono è divertito come lo è quello di Arto Paasilinna nell’altrettanto esplicito Professione angelo custode . Trama: l’ottantaduenne Sulo dopo la brutta esperienza della morte torna sulla terra con la missione di prendersi cura di un single perditempo quarantenne. Ancora angeli, stavolta come metafora del diverso, nel poetico Lo straordinario mondo di Ava Lavender, che ha conquistato le blogger. «Molti mi consideravano l’incarnazione di un mito, la personificazione di una magnifica leggenda» così si presenta la sedicenne Ava. È nata con le ali ma non può volare, vive nascosta in attesa di scoprire il mistero che la riguarda...
Fuori dall’ambito strettamente narrativo, il terreno rischia di essere scivoloso tra esperienze, culture e tradizioni.
Alla prima categoria appartengono, in qualità di intermediari tra mondi, Craig Warwick, sensitivo già al servizio di Lady D e Kate Winslet, star delle tv inglese e italiana, autore di Tutti quanti abbiamo un angelo e altri volumi che invitano a cogliere il lato extra-ordinario della vita. Un passo oltre nel filone esperienziale l’ha fatto Doreen Virtue, psicologa e saggista che si è inventata l’ Angel therapy, con annessi corsi, sedute e interi scaffali di libri nei negozi di mezzo mondo.
Sull’altro fronte, a dare spessore e consistenza storica e filosofica alla materia è Angeli. Ebraismo Cristianesimo Islam (Neri Pozza), una antologia di rimandi, dalla Bibbia al sufismo, che tra i testi più importanti presenta gli scritti di Avicenna, Tommaso d’Aquino, Origene, Maimonide.
Che gli angeli in quanto esseri super partes si candidino al ruolo di portatori di una cultura di convivenza e dialogo interreligioso? L’invito a non sottovalutarne il potere è arrivato anche da papa Francesco: «Tutti noi, secondo la tradizione della Chiesa, abbiamo un angelo che ci custodisce e ci fa sentire le cose».
Ma la figura dell’angelo va oltre i diversi credo, lo ribadiscono da fronti opposti Vincenzo Pace, docente di Sociologia della religione a Padova, e Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicoterapeuta specialista nell’educazione di bambini e adolescenti.
«Con gli angeli immaginiamo l’astratto, l’invisibile assume sembianze umane — osserva Pace — e non sorprende se in altre culture la stessa cosa accade con il demonio. Spiegano il meglio e il peggio di una persona. In generale, la fortuna di queste creature nella società oggi è la dimostrazione di come si creda in maniera diversa. Il sacro non ha bisogno di riconoscersi per forza in una religione».
Di presenze che hanno a che fare con il nostro io più profondo parla, invece, lo psicoterapeuta Pietropolli Charmet che esordisce scherzando: «Fin da bambino non credevo, ma per non essere interrogato a scuola invocavo la protezione di un angelo custode personale». Poi aggiunge: «Gli angeli sono un’invenzione simbolica profonda che viene prima della religione; sono il nostro doppio. Da bambini ci creiamo amici immaginari, figure con le quali stabiliamo un legame fraterno, con cui parliamo alla pari, poi crescendo ce le lasciamo alle spalle». Le sostituiamo con figure reali con le quali stabiliamo legami («gli amici del cuore e le persone amate, donne e uomini, comunque figure angelicate»). Ma qualcosa di quell’idea di angelo resta vivo in noi...
Magari un angelo sta seduto accanto a noi in auto quando viaggiamo. In uno studio dell’Università di York un gruppo di persone è stato invitato a giudicare i rischi di una guida pericolosa in auto (20 km/h sopra il limite consentito): la maggior parte di coloro che credevano agli spiriti guardiani tendeva a dare valori di rischio più alti, cioè a considerare la situazione più pericolosa rispetto a coloro che non vi credevano; i primi finivano per agire in maniera più prudente. La conclusione: credere agli angeli custodi un risultato lo dà, cambia i comportamenti quotidiani.
E se di angeli, nel nostro mondo, si parla molto ma ancora non se ne vedono, possiamo almeno provare ad arrivare preparati, quando sarà il momento di ricambiare la visita, con il libro di Mark Twain Visite in paradiso e istruzioni per l’aldilà .

Corriere La Lettura 22.2.15
Presenze assidue nella Bibbia e nel Corano
Annunciano il Dio dei monoteismi Con o senza piume
di Piero Stefani


Il più grande artista che porta nel suo nome un riferimento agli angeli li raffigura, di solito, senz’ali. Nella Cappella Sistina sull’enorme parete del Giudizio universale sia quelli in alto che portano i segni della Passione (croce, corona, colonna...), sia quelli in basso che soffiano nelle trombe per far risorgere i morti e mostrano ai resuscitati i libri su cui è scritto il loro destino eterno, sono tutti apteri («senza ali»). Gli angeli di Michelangelo sono umanizzati; tuttavia proprio questa somiglianza con noi nell’aspetto esteriore evidenzia una diversità ancora più grande: volare senz’ali è più irrealistico che farlo quando si è dotati dell’organo che caratterizza i volatili.
Ma quando sono spuntate le ali agli angeli? Se seguiamo i libri della Bibbia, esse sembrano esserci fin dal principio. Si parla infatti di cherubini posti a guardia del giardino dell’Eden perché i progenitori scacciati non vi facciano ritorno ( Genesi 3, 24). Il loro nome richiama i karibu babilonesi, geni dalla forma metà umana e metà animale che vegliano alla porta dei templi e dei palazzi. Nell’iconografia orientale e nella descrizione biblica sono rappresentati come sfingi alate ( Ezechiele 1).
Se, però, guardiamo alle storie patriarcali e a quelle di altre antiche figure bibliche, troviamo angeli di tutt’altro aspetto. A essi è ben difficile tanto attribuire le ali quanto assegnare la capacità di volare. Al pari di noi, sembra piuttosto che camminino o si siedano. Basti pensare alla vicenda di Gedeone: vede l’angelo del Signore seduto ai piedi di un arbusto e conversa con lui a lungo senza alcun turbamento. Solo alla fine, dopo che, grazie all’intervento angelico, ha avuto luogo una miracolosa offerta sacrificale, Gedeone si meraviglia che, pur avendo visto faccia a faccia l’angelo del Signore, si ritrovi a essere ancora vivo. Viene rassicurato: quel luogo sarà all’insegna della pace ( Giudici 6, 11-24). Storie simili valgono per Agar ( Genesi 16,7-13), per Lot ( Genesi 19, 1-29), per i genitori di Sansone ( Giudici 13) e così via.
Per ritrovare le ali dobbiamo spostarci a Gerusalemme nell’anno della morte di re Ozia (probabilmente 740 a.C.); il profeta Isaia ebbe all’interno del tempio una visione del Signore seduto su un trono alto ed elevato; sopra di lui stavano dei serafini, ognuno dei quali aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due i piedi (eufemismo per «genitali»), con due volava. Mentre si trovavano in quello stato, si scambiavano tra loro parole recitate fino a oggi anche da esseri privi di ali: «Santo, santo, santo il Signore...» ( Isaia 6, 1-3). Lungi dall’essere apteri, i serafini sono contraddistinti da una altrettanto irrealistica sovrabbondanza di ali.
L’etimo della parola ebraica serafim suggerisce una traduzione tipo «i brucianti», con ogni probabilità il loro nome deriva dall’immagine del fuoco, spesso associata alla presenza divina. In effetti nella visione profetica ci è detto che uno dei serafini prese un carbone ardente dall’altare del tempio e con esso purificò le labbra di Isaia, che in quel momento fu costituito profeta. Quasi duemila anni dopo un altro serafino, questa volta compenetrato al crocifisso, avrebbe impresso nel «crudo sasso» de La Verna le stigmate di Gesù Cristo in Francesco di Assisi. Siamo di fronte a due diverse storie di vocazione, per Isaia è un inizio, per Francesco un suggello.
I serafini della corte celeste lodano il Signore, della cui gloria sono pieni cielo e terra. Angeli. Presenze di Dio tra cielo e terra è il titolo di uno dei «libri di Biblia» (Morcelliana 2012) che raccoglie «alati» contributi di angelologia dall’antichità ai giorni nostri. Vi è prospettata una specie di definizione che allude a un compito proprio degli angeli: essere non solo in cielo alla presenza di Dio, ma anche in terra per rendere presente Dio nella vita degli esseri umani. Fu così nel caso di Gedeone e di molti altri personaggi biblici fino a giungere a Maria ( Luca 1, 26-38). A indicarlo è anche l’etimo che nelle varie lingue riconduce gli angeli sempre, in un modo o in un altro, alla loro funzione di messaggeri. L’annunciatore è colui che rende presente chi si trova altrove. L’angelo lo fa in relazione a Dio e non già rispetto a qualche autorità terrena. Così è per l’ebraico mala’k e per l’equivalente arabo, anch’esso mala’k ; così è per il greco ánghelos (che si trova alle spalle del latino e di tante altre lingue), che significa «annunciatore». Nella Bibbia e nel Corano (che fu fatto scendere sul profeta Maometto non a caso attraverso Gabriele), gli angeli sono quindi anche e forse soprattutto presenze di Dio operanti e annuncianti sulla terra. Si legge nel libro sacro dell’islam: «Sia lode a Dio creatore del cielo e della terra che sceglie come messaggeri gli angeli, con le ali — due, tre, quattro — e che aggiunge al creato ciò che Egli vuole perché Dio è potente su ogni cosa» (Corano 35, 1).
Angeli lodatori del Signore in cielo e messaggeri di Dio in terra; è solo così? No. Antica infatti è anche un’altra idea, quella della caduta degli angeli. Essa rappresenta una esemplificazione della massima «dall’ottimo il pessimo». È un detto carico di riscontri pure nella esistenza umana, tanto personale quanto collettiva. Più si è in alto, più la caduta porta in basso. In questo precipizio non cadde solo Lucifero ( Isaia 14, 12; Luca 10, 18). Tra i vari miti di caduta uno dei più istruttivi lo si trova nel Corano. Riguarda Iblis. Allah ha appena creato Adamo. Iddio ordina a tutti gli angeli di prostrarsi di fronte a questa sua nuova creatura. Tutti obbedirono tranne Iblis. L’angelo motivò il proprio rifiuto. Replicò infatti ad Allah dicendo che lui, essere di fuoco, non poteva inchinarsi di fronte a chi gli era inferiore, un essere fatto di argilla. Allah allora lo scacciò dicendo: «Via di qui, non ti è concesso di essere superbo» (Corano 7, 11-18).
Iblis perde la propria più alta natura angelica a motivo di un ragionamento: le realtà create sono dotate di una consistenza oggettiva, ce ne sono di superiori e ce ne sono di inferiori. Le leggi vanno rispettate. Nella caduta di Iblis è contenuta una chiave ermeneutica per comprendere tutta la storia degli angeli, alati o apteri che siano: il razionalismo li distrugge e li precipita nel baratro del non senso; a salvarli è solo il riconoscimento del ruolo insostituibile affidato al simbolo all’interno della conoscenza umana.

Corriere La Lettura 22.2.15
Umberto I restò indifeso e Bresci colpì
di Dino Messina


I tre colpi di pistola con cui la sera del 29 luglio 1900 Gaetano Bresci, l’anarchico venuto dall’America, uccise Umberto I di Savoia, misero in luce le enormi lacune dei sistemi di sicurezza attorno al re. Al Dibattito sulla sicurezza dopo il regicidio di Monza è dedicato l’interessante articolo di Donato D’Urso pubblicato sul nuovo numero della rivista «Storia in Lombardia». In quella stagione di attentati anarchici (Umberto era già scampato a quelli di Giovanni Passannante del 1878 e di Pietro Acciarito del 1897), i giornalisti e i parlamentari dell’opposizione osservarono che le misure per salvaguardare l’incolumità del re avrebbero dovuto essere ben più severe.
Innanzitutto sarebbe stato opportuno consigliare il re di spostare la manifestazione di premiazione della società Forti e Liberi al pomeriggio. Che senso aveva poi pensare di tutelare Umberto I, cui non fu imposto di indossare la sottomaglia di acciaio, offrendo biglietti scontati ai militari? Senza una particolare consegna, la presenza pur numerosa di soldati in divisa era inutile. Quale sorveglianza effettiva esercitavano poi i due generali che accompagnarono il sovrano nella carrozza aperta dalla Villa Reale alla sede della società sportiva? E perché mai, aveva chiesto l’onorevole Giuseppe Alberto Pugliese, nessun allarme era partito dagli Stati Uniti, dove esisteva una consistente comunità anarchica italiana? Un’azione di intelligence sarebbe stata tanto più necessaria visti i precedenti attentati contro Umberto I e l’ondata di sdegno per i morti nella repressione dei moti milanesi nel 1898, da cui era derivato al Savoia il nomignolo di «Re Mitraglia».
Non bastavano il trasferimento in Sardegna di un tenente dei carabinieri, responsabile della scorta, e la sospensione di un paio di ispettori per coprire la catena delle inefficienze che arrivava molto in alto. La risposta del capo del governo, nonché ministro dell’Interno, Giuseppe Saracco, arrivò tardi, il 26 novembre, e fu talmente insufficiente da determinarne la fine politica.

Corriere La Lettura 22.2.15
L’universo smise di essere un noioso parallelepipedo
1915-2015. Il 25 novembre di un secolo fa Albert Einstein presentò la teoria della relatività generale
Il cielo non fu più quello che fino ad allora era stato pensato, ma si trasformò in una struttura viva, mobile ed elastica, piena di fosse, cunicoli e pendii
E l’uomo a livello cosmico divenne del tutto irrilevante
di Paolo Giordano


Credo di avere incubato la fascinazione per la fisica molto tempo fa, da bambino, grazie soprattutto alla relatività generale. Ne conoscevo giusto il nome, com’è ovvio, ma quello era sufficiente a darmi l’idea elettrizzante di un sapere assoluto, «generale» appunto, e avevo visto alcune animazioni rozze nelle quali le masse dei pianeti deformavano la geometria dello spazio: mi avevano sconvolto. I residui di poche parole — «spaziotempo», «relatività», «gravitazione» —, uniti alle istantanee colorate e inquietanti delle nebulose immobili ai confini nell’universo, prevalsero al momento giusto su altre curiosità sviluppate nel frattempo, e io mi ritrovai a studiare fisica all’università.
Dovetti attendere il penultimo anno di corso per addentrarmi nella teoria che mi aveva motivato fin dall’inizio. La relatività generale, sebbene si tratti di un campo non più nuovo, fa ancora parte delle frontiere più avanzate della scienza e richiede un allenamento agonistico per essere affrontata nello specifico. Il professore che teneva i due moduli del corso aveva il vizio di non scrivere alla lavagna. Pretendeva di farci comprendere i calcoli astrusi della relatività da seduto, sviluppando tensori e integrali nell’aria trasparente di fronte a sé. Spesso interrompeva le lezioni con lunghe telefonate in russo, alle quali assistevamo perplessi e rispettosi. Riteneva, come molti iniziati alle scienze più radicali, che avremmo dovuto essere in grado di occuparci da soli delle minuzie dei conti, impresa che io tentai e ritentai in quegli anni, sempre senza una piena soddisfazione.
«È un vero miracolo che i metodi moderni di istruzione non abbiano ancora completamente soffocato la sacra curiosità della ricerca», scriveva Einstein a proposito del proprio accidentato percorso di studi. Ed è altrettanto miracoloso, per me, che l’ammirazione per la sua teoria più grandiosa sia uscita indenne, rinvigorita semmai, dai miei anni universitari e dai tentativi falliti di dominarla, al punto che, a cento anni esatti dal suo concepimento, sento il bisogno di festeggiarla come merita.
Einstein presentò il suo lavoro sulla relatività generale il 25 novembre 1915 davanti all’Accademia prussiana delle scienze. All’epoca era già una celebrità per via dei tre articoli pubblicati nel 1905, tra cui quello sulla relatività ristretta e quello sull’effetto fotoelettrico che gli avrebbe valso il Nobel, ma sarebbe stata la relatività generale a renderlo l’icona indiscussa della fisica moderna, della scienza in genere, del pensiero umano stesso.
Come accade non di rado, Einstein approdò a un risultato capitale partendo da un problema concettuale piuttosto semplice e da una convinzione personale, si potrebbe quasi dire da un principio «di buon senso». Era persuaso che le leggi naturali, le leggi fondamentali della fisica, dovessero essere le stesse da qualunque parte le si osservasse o, per dirla più precisamente, in qualunque sistema di riferimento si effettuassero le misure. Non si trattava di una convinzione nuova per lui. Nell’articolo sulla relatività ristretta aveva mostrato con eleganza come ciò fosse vero per due osservatori che si muovono a velocità costante l’uno rispetto all’altro: il «buon senso» di Einstein valeva, a patto di accettare che la luce viaggiasse a una velocità fissa per chiunque dei due la misurasse. Il problema, tuttavia, sussisteva ancora nel caso di due osservatori che avessero un’accelerazione l’uno rispetto all’altro. Nel 1907, mentre lavorava ancora presso l’Ufficio brevetti di Berna, Einstein iniziò a preoccuparsi di questa possibile estensione.
In uno dei suoi «esperimenti mentali» — che l’iconografia ci ha abituato, forse un po’ ingiustamente, a pensare come divagazioni libere durante il tedio dell’ufficio — Einstein immaginò un uomo in caduta libera insieme ad altri oggetti. Un pensiero poetico, insomma. Immedesimandosi in quell’uomo e levandogli le complicazioni del dove e perché stesse precipitando, dell’aria in faccia, del terrore di morire schiantato, intuì che non ci fosse modo per lui, durante la caduta, di accorgersi dell’esistenza della gravità, nessuna misurazione glielo consentiva. Che l’esperimento mentale tradisse una sinistra carenza di empatia, Einstein si accorse forse in seguito, al punto di scrivere nella sua Autobiografia scientifica : «Se un individuo ha il dono di pensare con chiarezza, può darsi benissimo che questo lato della sua natura si sviluppi maggiormente a spese di altri lati, e determini quindi più la sua mentalità». Comunque sia, grazie alla sua «mentalità» e alla noncuranza per le sorti dell’uomo in caduta libera, Einstein creò la prima sinapsi tra il concetto di accelerazione e quello di attrazione gravitazionale, la base della relatività generale.
Per formalizzare compiutamente la teoria gli ci vollero altri otto anni, i trasferimenti da Berna a Praga, poi a Zurigo e infine a Berlino, la separazione dalla prima moglie Mileva, dai figli, e — qui sta l’eccezionalità dell’impresa — un’immersione in rami sofisticatissimi della matematica, che pochi all’epoca immaginavano potessero rivelarsi utili per descrivere la realtà. Bernhard Riemann, un allievo geniale di Carl Friedrich Gauss, aveva studiato la curvatura delle superfici immerse in spazi a molte dimensioni, e da più parti nel mondo venivano esplorate da anni le proprietà fantasiose delle geometrie cosiddette «non euclidee»: geometrie nelle quali decadono certe ipotesi sullo spazio così come lo sperimentiamo, nelle quali le rette parallele prima o poi s’incontrano, la somma degli angoli interni dei triangoli è diversa da centottanta gradi e percorrendo a piedi un quadrato non ci si ritrova infine al punto di partenza. Sembravano arzigogolii tipici della matematica pura, modelli strampalati, e invece attendevano pazienti di debuttare da protagonisti nel mondo fenomenico.
Einstein pensò allo spaziotempo come a una struttura geometrica che viene deformata, curvata dalla presenza della materia — dall’energia e dalla massa, dalle stelle, dai pianeti, dai gas — e seppe trovare la relazione esatta fra l’ammontare della curvatura e la quantità di materia necessaria a produrla. «Einstein dice che lo spazio è curvo e che causa della curvatura è la materia», sintetizzò Richard Feynman anni dopo. Se fino a un attimo prima l’universo era un noioso parallelepipedo punteggiato di corpi celesti, il 25 novembre 1915 esso si trasformò all’improvviso in una struttura viva, mobile ed elastica, piena di fosse e rigonfiamenti e cunicoli e pendii scoscesi.
Da visualizzare non è semplice, anzi è impossibile. Per quanto dotato intellettivamente, nessun essere umano è in grado di raffigurarsi lo spaziotempo in quattro dimensioni, e ancor meno una sua deformazione. Possiamo sì intuire l’esistenza di una quarta dimensione, quella temporale, attraverso analogie brillanti, ma non certo coglierla appieno. A dispetto delle intuizioni di Einstein e delle elaborate concezioni attuali, il tempo resta per noi una variabile disaccoppiata dallo spazio, newtoniana, qualcosa che scorre in avanti e basta, con esasperante regolarità.
Non solo. Non siamo nemmeno in grado di rappresentare mentalmente un volume di spazio che viene curvato. Sappiamo farlo bene con una superficie — basta pensare all’effetto di una sfera di metallo poggiata su un lenzuolo ben teso —, ma con una dimensione spaziale aggiuntiva siamo già persi. All’immagine «istintiva» della relatività generale mancano, quindi, sempre due dimensioni e ciò è valido per tutti, per Einstein come per ciascuno di noi.
La teoria, al di là dell’ostico formalismo matematico, presenta un bizzarro aspetto democratico: non può essere davvero visualizzata da nessuno. La sua comprensione è sempre assimilabile, con più o meno sofisticazioni, a quella della sfera di metallo che crea una conca nel lenzuolo. Per i fisici moderni, abbandonare in tal senso il conforto della percezione, di quella visiva in particolare, è ormai diventato una prassi. Non solo la relatività generale, ma anche la meccanica quantistica (perfino in misura maggiore) richiedono all’uomo di allentare i lacci dell’intuitività, di chiudere gli occhi e fidarsi da un certo punto in poi della matematica e della sua interpretazione attenta. Certa fisica, in effetti, non la si comprende davvero, piuttosto ci si abitua. Se fossimo minuscoli, molte di quelle che appaiono come elucubrazioni sarebbero per noi ovvie, esperibili, ma così non è. Il Novecento ha segnato in molti ambiti questo passaggio a una «scienza dell’invisibile», di ciò che è troppo elusivo, troppo piccolo, troppo distante per essere acciuffato, se non con il pensiero o l’evidenza indiretta.
Ciò che della relatività generale conquistò tutti, prima ancora del suo significato, fu che era espressa da un’equazione, una sola, elegantissima e apparentemente innocua (per inciso, non si tratta di quella associata a Einstein nei poster, E=mc2, che ha a che vedere con la relatività ristretta, bensì di un’altra dall’aspetto più esotico). I fisici sono facilmente sedotti dalla sinteticità delle formule. Malgrado la compattezza, però, nel momento in cui il fisico malcapitato decideva di «aprire» l’equazione di Einstein, essa si rivelava di una complessità quasi mostruosa, come un nodo di serpenti velenosi, ognuno dotato di parecchie teste. La ricerca di soluzioni, sempre particolari, ha occupato non soltanto i fisici, ma eserciti di computer strapotenti, fino a oggi. E ogni soluzione trovata ha inaugurato una nuova branca della ricerca e una rivoluzione nel nostro modo di intendere il cosmo.
Non esiste altra teoria scientifica che in un unico balzo abbia portato l’uomo così in alto nella comprensione della realtà e al tempo stesso lo abbia annichilito tanto gravemente. Se scoprire che la Terra non era al centro di tutto e il Sole non le ruotava attorno fu un duro colpo alle nostre certezze istintive, è stata la relatività generale a sancire la totale irrilevanza dell’uomo, almeno a livello cosmico. Einstein stesso crebbe con l’idea di un universo costante, immutabile. In pochi decenni la relatività generale ci ha invece informati che l’universo ha avuto un’origine microscopica e drammatica, il Big Bang, e che avrà anche una fine, sebbene sia ancora dibattuto quale ; ci ha informati che esso si sta espandendo intorno a noi — sta «lievitando» rende forse meglio l’idea — e lo fa sempre più in fretta; che non solo occupiamo un posto periferico nella nostra galassia, ma la nostra galassia è solo una fra le innumerevoli; che le stelle hanno destini diversi e commoventi e il nostro Sole sarà infine ridotto a una miserevole nana bianca; che balliamo tutti quanti intorno a un buco nero che inghiotte e inghiotte materia, insaziabile, azzerando ogni memoria di ciò che era prima; che ciò che vediamo e sentiamo e tocchiamo non è che il quattro per cento di quello che realmente esiste là fuori, perciò il resto lo chiamiamo Materia oscura o Energia oscura e non abbiamo idea di che accidenti sia.
Proprio in ragione della loro drammaticità, Einstein fu il primo a opporre resistenza a certe conseguenze della sua teoria. Che l’universo avesse avuto un inizio gli sembrava un’assurdità e per tutta la vita trattò i buchi neri come dei meri intoppi matematici di cui sbarazzarsi. Nessuna mente, per quanto geniale, sarebbe disposta ad accettare una tale mole di cambiamenti tutta insieme. Al contrario, per noi è quasi impossibile pensare all’universo senza contemplarne l’inizio esplosivo, guardare il cielo notturno senza essere da qualche parte consapevoli dei buchi neri incastonati nelle sue profondità. Se anche non abbiamo studiato quelle cose, esse si sono imposte in qualche strato della nostra coscienza. La relatività generale, come ogni grande rivoluzione della scienza, è stata anche un gigantesco trauma collettivo e varrebbe forse la pena, oggi, di indagare come abbia influenzato il nostro modo di essere, la fiducia che riponiamo in noi stessi.
Si tratta, con ogni probabilità, anche della teoria che ha generato più equivoci di sempre. Il suo nome, «relatività generale», ha portato molti alla conclusione sbrigativa e superficiale che, secondo Einstein, tutto quanto fosse «relativo». Hans Reichenbach diede al fisico parte della responsabilità di ciò, sottolineando come in ragione della sua scoperta egli fosse diventato «un filosofo implicito», pur rifiutando per tutta la vita un simile ruolo. «Questa è la sua forza e la sua debolezza a un tempo: la sua forza, perché ha reso tanto più concreta la sua fisica; la sua debolezza, perché ha lasciato la sua teoria esposta ai travisamenti e alle interpretazioni sbagliate».
In realtà, se si riflette sul presupposto di Einstein, ovvero che le leggi della natura debbano essere equivalenti da qualunque parte le si osservi, si capisce facilmente come la relatività generale affermi semmai il contrario della sua vulgata più deteriore.
Allo stesso modo, è sbagliato considerare l’impresa di Einstein come la supremazia del pensiero puro, teorico, sulla scienza sperimentale. Lo conferma il fatto stesso che tutte le sue intuizioni muovessero da veri e propri esperimenti, seppure immaginati. Paradossalmente Einstein, l’emblema della ragione che domina la concretezza, era un fisico legato in tutto e per tutto all’empirismo. Si premurò, fin da subito, di trovare delle prove che convalidassero la sua teoria. La prima era già disponibile: si sapeva da tempo che l’orbita di Mercurio intorno al Sole si comportava in maniera anomala, almeno stando alla legge di gravitazione di Newton. Per giustificare le irregolarità nella sua rivoluzione si era perfino ipotizzata l’esistenza di un pianeta aggiuntivo nel nostro sistema solare, Vulcano, peccato che nessuno riuscisse a vederlo. L’anomalia, si scoprì, era un effetto puro della relatività.
L’evidenza schiacciante arrivò nel 1919, quando Arthur Eddington organizzò una spedizione all’Isola di Principe, nel Golfo di Guinea, e lì, durante un’eclissi totale di Sole, fu in grado di fotografare la deflessione dei raggi luminosi, il modo in cui il segnale proveniente dalle stelle giungeva a noi curvato dal campo gravitazionale intorno al Sole.
Ma ci sono aspetti della teoria che attendono ancora un verdetto a cento anni dalla scoperta. Se la relatività generale è vera così come Einstein l’ha formulata, allora devono esistere nel cosmo delle «onde gravitazionali». Di nuovo il cervello s’imbatte in un limite intrinseco nel tentativo di visualizzare queste onde che si muovono nello spaziotempo a quattro dimensioni mettendolo in agitazione, e di nuovo si rifugia nella sfera poggiata sul lenzuolo: lasciate cadere la sfera da una leggera altezza ed essa provocherà delle increspature nel tessuto. Si suppone che onde gravitazionali generate da eventi catastrofici, come la fusione di due buchi neri, ci attraversino in continuazione, deformandoci, ma i loro effetti sono così leggeri da esserci sempre sfuggiti. «Più che a uno specchio d’acqua, lo spaziotempo somiglia a una lastra d’acciaio straordinariamente compatta, che vibra a malapena anche se percossa nel modo più violento possibile» (Pedro G. Ferreira).
Alcune generazioni di fisici sperimentali hanno ormai sacrificato la propria vita alla frustrazione di non riuscire a rilevare le onde gravitazionali. Dai grossi cilindri di metallo sospesi in aria da Joseph Weber si è passati a misurazioni sempre più sofisticate, a scrutare i sistemi binari di stelle relegati ai margini remoti dell’universo, fino a concepire l’esperimento più ardito che l’umanità abbia mai sognato, per certi versi più ardito dell’attuale collisore del Cern. Gli ideatori del Laser Interferometer Space Antenna Project, Lisa in breve, proposero di mandare in orbita intorno al Sole tre satelliti, che avrebbero disegnato un triangolo virtuale con un lato di cinque milioni di chilometri e comunicato fra loro attraverso fasci laser e specchi. Le onde gravitazionali, con il loro passaggio, avrebbero incurvato le traiettorie dei laser, modificandone in maniera lieve gli spettri di interferenza. Gli Stati Uniti si sono però tirati indietro spaventati dal costo dell’impresa, stellare anche quello, e Lisa è stato ridotto alla sua versione europea, eLisa, con bracci di «solo» un milione di chilometri, e il cui lancio è previsto per il 2034.
Pedro G. Ferreira, nel suo libro La teoria perfetta, giura che il nostro sarà il secolo della relatività generale, dopo che il Novecento ha celebrato tutto lo splendore e l’orrore della fisica atomica. Se è vero, ci siamo entrati pieni di domande, la principale delle quali è come sia possibile unificare la gravità con le altre interazioni fondamentali della natura in un’unica visione sintetica, una questione alla quale già Einstein dedicò decenni infruttuosi della sua vita e che tiene la fisica teorica in una delle più lunghe impasse di sempre, una impasse che tuttavia, come accade tanto nella scienza quanto nell’arte, ha prodotto nel frattempo teorie collaterali intrepide e inattese: la teoria delle stringhe, la gravità quantistica e le ipotesi secondo le quali il nostro universo non sarebbe che un piccolo rigonfiamento di un cosmo immensamente più esteso e composito.
È probabile che Einstein, da innovatore profondamente reazionario che era, avrebbe scartato con sprezzo la gran parte di queste congetture. La storia insegna che spesso sbagliò nel farlo. Per noi, che non dobbiamo preoccuparci del rigore delle equazioni, non ha troppa importanza. Possiamo goderci la relatività generale e i suoi costrutti più estremi come un immaginario estatico e potente, bearci di come la ragione umana, attraverso lo sforzo di un uomo e di tutti coloro che lo hanno seguito, abbia saputo cogliere un mistero tanto intrinseco della natura. E forse, per una volta, rallegrarci di vivere in un’epoca che ha almeno questo di speciale: il cosmo che ci circonda non è mai stato così tumultuoso e così grande.

Il Sole Domenica 22.2.15
Erasmo, un Sileno per l’Europa
Il ritratto di Carlo Ossola del grande uomo del Rinascimento, maestro di saggezza e di equilibio nel secolo dei conflitti religiosi
di Massimo Firpo


Frutto di un corso tenuto al Collège de France nel 2012-13 e pubblicato nel 2014 in francese, il saggio di Carlo Ossola – illustre collaboratore di questo supplemento – offre una rivisitazione di alcuni nodi del pensiero erasmiano nel solco della riflessione che sul grande umanista fiammingo si svolse nel «notturno d’Europa», e cioè nel cupo entre-deux-guerre dominato dai totalitarismi nazi-fascisti. Non una sintesi del pensiero erasmiano, e tantomeno una biografia, ma pensieri e suggestioni su Erasmo e i suoi rapporti con altri grandi protagonisti dell’età sua: Lutero, Rabelais, Machiavelli. Pochi anni, per esempio, separano il Principe (1513) dall’Institutio principis christiani (1516), ma un vero e proprio abisso separa la spregiudicata teorizzazione politica del primo dall’umanesimo cristiano del secondo, anche perché l’uno scriveva nell’Italia «più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa», e l’altro per Carlo V d’Asburgo che si accingeva a cingere la corona imperiale e diventare signore di mezzo mondo. Eppure molto probabilmente fu dagli Adagia del grande umanista fiammingo, la celebre antologia di detti e proverbi degli antichi, che Machiavelli desunse l’immagine della «golpe» e del «lione» quali metafora della forza e dell’astuzia che i detentori del potere devono imparare a usare e dosare, senza farsi troppi scrupoli sulla loro liceità. Ma anche riflessioni e suggestioni sulla eredità di Erasmo, sugli usi (e talora abusi) tra Cinquecento e Ottocento del suo immenso lascito intellettuale e, non senza vivaci spunti polemici, sulla storiografia novecentesca.
Scritte in punta di penna, attraversando con elegante disinvoltura secoli e frontiere della cultura europea, le pagine di Ossola sono tutt’altro che neutrali nel presentare un Erasmo non solo maestro inarrivabile di sapere, di erudizione, di moralità desunta da una tradizione classica profondamente introiettata, ma anche maestro di equilibrio, di saggezza, di moderazione, di «riservatezza, sobrietà, armonia» (p. 14) di fronte alle drammatiche fratture religiose che si stavano aprendo sotto i suoi occhi e che in un breve volgere di anni avrebbero diviso la res publica christiana (l’universo cosmopolita nel quale egli si muoveva a proprio agio) e innescato guerre, controversie, conflitti destinati a durare per secoli all’insegna del fanatismo e dell’odio teologico. Invano nel 1533, tre anni prima di morire, egli avrebbe scritto il De amabili Ecclesiae concordia, un accorato appello all’unità dei cristiani, nonostante in passato egli fosse stato il critico più severo dei frati accidiosi e corrotti, dei prelati di curia insensibili a ogni istanza riformatrice, dei pontefici impegnati a combattere con le armi in pugno invece che a predicare il vangelo, di un cattolicesimo superstizioso fatto di gesti ripetitivi e pratiche simoniache.
Ma al tempo stesso non aveva mancato di rinfacciare a Martin Lutero gli sconquassi che stava causando e di attaccarlo sulla questione del libero arbitrio in cui a suo avviso si radicavano la dignità e responsabilità morale della natura umana. Fu lo stesso riformatore sassone, nelle sue rabbiose risposte, a dargli atto di aver affrontato una questione ben più significativa di quelle dei tanti controversisti cattolici che insistevano su temi secondari e a riconoscere che solo Erasmo era stato «il lupo capace di morderlo alla gola».
Erede di una tradizione che proprio al Collège de France ha avuto predecessori illustri come Augustin Renaudet, autore tra l’altro di un Erasme et l’Italie, e Marcel Bataillon, cui si deve quell’Erasme et l’Espagne ormai diventato un classico della storiografia, ma anche di Pierre de Nolhac, di Johan Huizinga, di Stephan Zweig, Ossola addita in Erasmo un grande maestro della cultura occidentale e della moderna identità europea proprio nella misura in cui nell’età sua egli fu sconfitto, aspramente attaccato e talora deriso dai protestanti come un traditore del vangelo e un infingardo opportunista, ma anche condannato senza appello e messo all’Indice dall’ortodossia romana. Per questo lo affianca spesso ad altre figure d’eccezione, come il suo amico Tommaso Moro (evocato anche nel titolo dell’Elogio della pazzia, in latino Moriae encomium) o Michel de Montaigne.
Ne scaturisce il profilo di «un Rinascimento critico che li pone al di sopra della querelle della Riforma» (p. 11), di «un Cinquecento che non si lasciò irretire dalle contese religiose, che tolse all’eredità classica i paludamenti aulici e alla tradizione patristica i tratti apologetici per andare a fondo nell’esame della condizione umana» (p. 13), nutrito della consapevolezza che la verità si manifesta «in progresso di tempo, vive nella e attraverso la storia» (p. 22) e si basa sulla filologia, la discussione libera e franca, il rispetto reciproco, il «rovesciamento costante della doxa nel paradosso» (p. 47), e non su incontrovertibili certezze dogmatiche e ottusa intolleranza. Per questo Erasmo piacerà a Voltaire, impegnato nella strenua battaglia contro l’infâme delle conversioni forzate e delle persecuzioni religiose.
È un’immagine classica di Erasmo, non a caso affermatasi soprattutto negli anni più cupi della storia dell’Europa novecentesca, quando all’autore del Lamento della pace e del Dolce è la guerra a chi non la conosce si poteva guardare come a un faro della civiltà che rischiava di essere travolta da brutali tirannie e aberranti ideologie destinate inevitabilmente a precipitare in guerre atroci e devastanti.
Ma ad essa occorre affiancare anche un’altra immagine, quella cui rinvia uno degli emblemi di Erasmo, i Sileni, le mitiche divinità silvestri che nascondevano sotto sembianze grottesche tesori di saggezza, riprodotte nell’antichità in piccole raffigurazioni scultoree che potevano essere aperte per scoprire al loro interno immagini divine. Una sorta di metafora della doppiezza, del segreto, dell’andare oltre la scorza delle cose per indagare verità più profonde, e perciò stesso più inquietanti ed eversive, da trasmettere e divulgare con cauta prudenza. Lo stesso Cristo – scriveva Erasmo – era stato uno «straordinario Sileno» (p. 33). Sotto la silenica maschera erasmiana fatta di moderazione ed equilibrio, infatti, si cela anche un pensatore radicale, che nel condannare le astiose controversie teologiche insinuava il dubbio che le certezze religiose per cui si combatteva e si ammazzava alla fin fine fossero di scarsa rilevanza e poco avessero a che fare con il vangelo di Gesù Cristo. Lasciava intendere insomma che il fondamento della fede risiede solo e soltanto nella coscienza del credente e che la sua autenticità si misura sull’amore del prossimo e non sull’obbedienza a un codice immutabile di verità dottrinali e alle gerarchie ecclesiastiche che nei diversi contesti si attribuiscono il diritto di esserne gli unici e supremi custodi.

Il Sole Domenica 22.2.15
Psicoanalisi e femminismo
Madre, soggetto d’amore
Una lucida analisi di Jessica Benjamin spiega perché i legami affettivi si trasformano spesso in dolorosi rapporti di potere
di Vittorio Lingiardi


La riflessione freudiana sull’autorità «ha luogo in un mondo esclusivamente maschile. La lotta per il potere si svolge tra padre e figlio; la donna non vi ha parte alcuna, se non come ricompensa o perché induce alla regressione, oppure come terzo vertice di un triangolo. Non c’è lotta tra uomo e donna in questa storia; anzi, la subordinazione della donna all’uomo è data per scontata, invisibile». Ma la teoria femminista «non può accontentarsi di conquistare per le donne il territorio degli uomini». Il femminismo, quando incontra la psicoanalisi, ha un compito più complesso: trascendere la contrapposizione. Perché questo avvenga è però necessario che la psicoanalisi rinunci a quelle certezze che, con mano maschile, ha scritto sul corpo delle donne. Rinunci alla polarizzazione di genere, «origine profonda del disagio della nostra civiltà». Apra la gabbia teorico-evolutiva della «scissione tra un padre simbolo di liberazione e una madre simbolo di dipendenza», perché per i bambini di entrambi i sessi tale scissione significa che «l’identificazione e l’intimità con la madre devono essere barattate con l’indipendenza» (e dunque «diventare soggetto di desiderio comporta il rifiuto del ruolo materno», se non della stessa identità femminile). Impari a pensare alla madre «come soggetto a pieno diritto» e non «semplice prolungamento di un bambino di due mesi». La vera madre non è semplicemente oggetto delle richieste del suo bambino, ma «è un altro soggetto il cui centro indipendente deve restare al di fuori del bambino se dovrà sapergli concedere il riconoscimento che cerca». Solo se la madre diventa soggetto, e non solo oggetto d’amore del bambino, prenderà vita quel reciproco riconoscersi che per tutta la vita nutrirà le relazioni d’amore.
È il 1988 e così scriveva Jessica Benjamin in Legami d’amore, il saggio psicoanalitico e femminista sui rapporti di potere nelle relazioni amorose che la rese famosa nel mondo. Tradotto a regola d’arte da Anna Nadotti per Rosenberg & Sellier, ma da tempo introvabile, il volume viene oggi riproposto da Raffaello Cortina, a conferma dell’interesse della sua casa editrice per un pensiero psicoanalitico d’eccellenza. La nuova edizione, un rosso cuore annodato in copertina, comprende una riflessione dell’autrice sull’attualità del suo saggio, e un testo introduttivo («Vivi in presenza di un altro uguale») a cura di chi scrive e di Nicola Carone.
«Come se avessimo bisogno di una qualche prova della persistenza del patriarcato – scrive Benjamin 25 anni dopo, cioè oggi – la passività e la sottomissione non hanno abbandonato il discorso del femminile». Ma anziché indagare il tema del sadomasochismo dal punto di vista dell’«indignazione morale», lo considera da quello della psicoanalisi e delle cicatrici psichiche prodotte dai percorsi obbligati del binarismo di genere. «In che modo il dominio è radicato nei cuori di coloro che vi si sottomettono?». Perché Cinquanta sfumature di grigio è diventato un bestseller per giovani madri e per donne manager? Le prime risposte di Benjamin (una delle quali è «perché queste donne vogliono arrendersi al controllo, vogliono perdersi») risalgono al 1967, quando Histoire d’O, letto dal mio gruppo poco dopo de Beauvoir, mi ha consentito di capire le molte permutazioni del desiderio che avrebbero trovato espressione culturale anni più tardi». Domande solo apparentemente pop che trovano risposte complesse nell’analisi della dinamica servo-padrone di hegeliana memoria, o nel concetto di «complementarità scissa», cioè un sistema dinamico in cui ciascuna incarnazione del partner (sadico, masochista; colui che agisce, colui che viene agito) «dipende dall’altro». Un’idea che diventerà centrale per la comprensione delle impasse cliniche, ma anche delle relazioni tra carnefice e vittima e di quelle «relazioni simmetriche nelle quali ciascuna persona si sente di subire, ciascuna persona sente di aver ragione, ciascuno ha paura di essere incolpato». Non stupisce che oggi Benjamin si stia dedicando al progetto politico-psicoanalitico di declinare la sua teoria del riconoscimento in una teoria della testimonianza. In The Discarded and the Dignified, ultimo scritto non ancora pubblicato, racconta la sua collaborazione, da cinque anni a questa parte, con il Community Mental Health Programme di Gaza. La scommessa è quella di costruire un dialogo con i professionisti della salute mentale israeliani e palestinesi. Di fronte ai traumi, dice, spesso reagiamo appellandoci al senso di «ciò che è giusto o sbagliato» e perdiamo la possibilità di avvicinarci in maniera autentica all’esperienza di chi soffre. Essere testimoni e non spettatori indignati rientra invece in un più ampio processo di umanizzazione di vittime e carnefici, in cui le prime non aspirino a una qualche fantasia di vendetta o, al contrario, di rassegnazione malinconica per rimediare alla perdita di persone care o alla violazione di parti di sé e le seconde prendano contatto con parti dolorose di sé dissociate.
Nato per fare luce sul perché spesso preferiamo «il dolore che accompagna la sottomissione» al «dolore che accompagna la libertà», Legami d’amore ha nei fatti inaugurato il progetto di una psicoanalisi relazionale e intersoggettiva. Il motivo per cui sono diventata psicoanalista, dice Benjamin, è stato «la ricerca di una guarigione e di un’integrazione personale». Come intellettuale, genitore, clinica, attivista politica, aggiunge, «cercherò di essere più integrata e di fare in modo che ciò che dico vada insieme a ciò che faccio per tutte quelle parti che non riguardano solo la mia guarigione personale, ma si estendono anche al lavoro e allo stare con gli altri». Creatura di confine, spigolosa e sincera, Benjamin riesce a far dialogare posizioni diverse e spesso in conflitto. «Per quanto mi riguarda – dice – sono arrivata alla convinzione che l’esperienza di essere spinta in più di una direzione nello stesso momento è una cosa fondamentale per la mia vita psichica».

Jessica Benjamin, Legami d’amore, traduzione di Anna Nadotti, Raffaello Cortina, Milano, pagg. 220, € 24,00

Il Sole Domenica 22.2.15
Matrimoni gay
Contro natura! Quale natura?
di Roberto Casati


Se si consulta una cartina europea dei diritti civili, si vede che l’Italia ha un colore diverso da quasi tutti gli altri Paesi cui si direbbe che vuole assomigliare, diciamo il gruppo di testa. Sguazza invece nel buco nero della discriminazione, in compagnia di, e li elenco tutti in ordine alfabetico, Albania, Bulgaria, Bielorussia, Bosnia, Cipro, Lettonia, Lituania, Moldavia, Monaco, Montenegro, Polonia, Macedonia, Romania, Russia, San Marino, Serbia, Slovacchia, Turchia, Ucraina e Città del Vaticano. Se dobbiamo parlare di due Europe, o di un’Europa a due velocità, ecco un bel club della cui appartenenza andare tronfiamente compiaciuti. Non me ne voglia l’agenzia pubblicitaria che ha curato per Davos il simpatico video «Italia, uno straordinario luogo comune», cercando un tantino faticosamente di ribaltare gli stereotipi della pizza e del latin lover: ma mi sarebbe veramente piaciuto vedere come avrebbe trattato la maschia omofobia italiana.
Il libro di Nicla Vassallo, universitaria e intellettuale militante ci regala un nutrito argomentare a favore dell’accesso di coppie same-sex all’istituto del matrimonio. Uno dopo l’altro vengono smontati i molti ingombranti idòla che ostacolano la discussione, dalla pretesa minaccia del matrimonio same-sex nei confronti della sacralità del matrimonio alla finalità procreativa del matrimonio, dalla immutabilità del matrimonio tradizionale alle pretese etiche e addirittura epistemiche di stravaganti paladini dell’eterosessualità (le pagine dedicate a Scruton meritano da sole l’acquisto del libro.) Il titolo del libro permette già qualche semplice riflessione. Il matrimonio omosessuale è contro natura: Falso! Chissà, forse basterebbe far notare che il matrimonio di per sé – same-sex o other-sex – è un’istituzione culturale, e come tale si oppone alla natura, e proprio a quella cui si pensa quando si dice «contro natura». Non è che anche le formiche nel loro piccolo si sposano. Il matrimonio è contro natura, e per fortuna, vien fatto di dire, nel senso che non è questione di accoppiamento e di riproduzione, quanto piuttosto di riconoscimento sociale, di impegno morale, di progetto a lungo termine e di adesione culturale. Quindi chi proclama che il matrimonio same-sex è contro natura ha in mente qualcosa d’altro: pensa che sia l’omosessualità a essere contro natura, e sostiene su questa base che si debba negare il diritto di sposarsi agli omosessuali. Come mostra molto bene Vassallo, nessuna delle due tesi regge a un minimo di riflessione. Da un lato la naturalità ha dei confini assai labili e fortemente permeabili dalla normatività (e chi decide della normatività? Ascoltate: «La poligamia è del tutto naturale, da queste parti!»). D’altro lato l’innaturalità non è di per sé normativa; facciamo tante e tali cose innaturali, come sottoporci a una radioterapia o volare sopra l’Atlantico, senza che ci sfiori il pensiero che queste cose possano essere, per loro natura, escluse dal novero delle cose cui abbiamo diritto. («Non dovresti volare sopra l’Atlantico: è contro natura!»)
Le ragioni per eliminare l’odiosa discriminazione nei confronti di chi vuole convolare in un quadro same-sex sono tante. In primis, il fatto che la storia mostra che l’emancipazione segue dalla legge, e non viceversa. Perché è vero che l’atteggiamento discriminatorio nei confronti di omosessuali e lesbiche tradisce un pregiudizio; certo. Forse però anche qualcosa di più. Protervia, direi, che si esprime nel piacere assai volgare di poter negare un diritto a qualcuno per il semplice fatto che c’è un istituto legale che finora ha consentito di farlo. Eliminare una cattiva legge significa allora dichiarare la propria opposizione a comportamenti protervi, significa avere e offrire una migliore immagine di noi stessi. Si dirà che chi volesse modulare la costruzione della propria famiglia può scegliere la coppia di fatto – che sia same-sex o etero – nei Paesi in cui c’è questa possibilità. Ma non è che si può dire a omosessuali e lesbiche che loro non possono scegliere tra matrimonio e coppia di fatto, ovvero che la loro sola opzione è la coppia di fatto. Anche questa, seppur di poco più sottile, è discriminazione. Molto semplicemente, il matrimonio è un’istituzione seria, la cui sacralità non può venir infangata e addirittura revocata da una discriminazione insita nel suo cuore.
Nicla Vassallo, Il matrimonio omosessuale è contro natura: Falso!, Laterza, Roma, pagg. 160, € 9,00

Il Sole Domenica 22.2.15
Dna della politica
Stalin nell’identità del Pci
Franco Andreucci ripercorre i 70 anni di vita del partito, soffermandosi su un aspetto spesso dimenticato a favore della «via italiana al socialismo»: lo stalinismo di dirigenti e militanti
di Sergio Luzzatto


«La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori nelle alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, [...] fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano».
A fronte delle cronache odierne – da Mafia Capitale in giù – è fin troppo facile considerare profetiche le parole affidate da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari in una celebre intervista del 28 luglio 1981: profetiche non solo rispetto alla Tangentopoli del 1992 ma anche, per l’appunto, rispetto all’attualità giudiziaria d’oggidì. Frettolosamente cacciata dalla finestra della storia italiana, la questione morale è rientrata dalla porta. In generale è rientrata dalla porta la figura storica di Berlinguer, in particolare dell’ultimo Berlinguer. L’alfiere di una politica dell’austerità che si declina oggi come inaggirabile sostenibilità dello sviluppo. L’interprete di una contestazione del capitalismo che appare oggi critica ragionevole del consumismo.
Aveva sessant’anni di vita il Partito comunista italiano, al momento dell’intervista di Berlinguer sulla questione morale. E nessuno immaginava che gliene restassero da vivere soltanto dieci. Nessuno prevedeva allora la formidabile e catastrofica accelerazione di quel decennio, l’Urss di Gorba?ëv, il crollo del Muro, la fine del comunismo. Adesso – un terzo di secolo dopo – la distanza incomincia a essere quella giusta per guardare con profondità di campo ai settant’anni di storia del Pci. Come nel libro, insieme appassionato e pacato, di Franco Andreucci, Da Gramsci a Occhetto. Nobiltà e miseria del Pci, 1921-1991. Cercando risposte a un paio di domande fondamentali. Perché il Pci è stato, per diversi decenni dopo il 1945, il partito comunista più forte d’Occidente? E perché, alla fine, non soltanto non ha vinto, ma si è estinto?
La forza del Pci ha storicamente riposato sopra una molteplicità di fattori. La solidità dell’organizzazione, e tanto più dopo la nascita del «partito nuovo», non più di quadri ma di massa. La capacità di gestione politica dei conflitti sociali, negli anni della grande modernizzazione italiana. La presa culturale sugli intellettuali, e l’esercizio di una gramsciana «egemonia». Ancora: il prestigio derivato al Pci dalle lotte dell’antifascismo e della Resistenza; il radicamento identitario nelle regioni «rosse»; la mancanza in Italia di un partito socialdemocratico forte e moderno. Altrettante dimensioni – non necessariamente originali – della ricostruzione di Andreucci. Là dove la sua ricostruzione riesce illuminante, è nell’analisi di una componente di lungo periodo che più di altre vale a spiegare il fallimento storico del Pci: l’ipoteca sul Partito del leninismo prima, dello stalinismo poi.
Scoperta dell’acqua calda, questa di Andreucci? Meno di quanto possa sembrare, se è vero che la storiografia italiana risulta dominata a tutt’oggi da una favola buonista secondo cui il Pci sarebbe stato, fin dalla formazione del suo gruppo dirigente nel 1923-24, un partito non settario né dogmatico, un’isola felice nel panorama del comunismo internazionale. Certo, giocoforza, un partito del Comintern: il partito di Togliatti, stretto collaboratore di Stalin. Ma sottotraccia, già nei terribili anni Trenta, anche il partito della «via italiana al socialismo»: il partito di Gramsci, così aperto e libero seppure in catene. Favola buonista abilmente forgiata da Togliatti in persona tra anni Quaranta e anni Cinquanta, e ripresa più o meno pedissequamente da svariate generazioni di storici del Pci. Dapprima storici ufficiali, da Comitato centrale; successivamente storici ufficiosi, “di area”.
Lui stesso ex storico ufficiale o quasi, Franco Andreucci ha adesso un’altra storia da raccontare. È la storia di un comunismo italiano concepito nella febbre postbellica del «biennio rosso», e indelebilmente marcato dalle lezioni di Lenin sulla necessità della guerra civile e della dittatura del proletariato: per cui anche le strade e le piazze d’Italia, come in Russia, andavano liberate «col ferro e col fuoco» da un’«invasione di locuste putride e voraci», le locuste della borghesia (scripsit Antonio Gramsci, dicembre 1919). È la storia di un partito nato a Livorno, nel 1921, in opposizione e quasi in odio all’ala riformista del socialismo italiano, nel «sibilo delle vipere» denunciato allora da Giacinto Menotti Serrati: un velenoso sibilo antisocialista destinato a prolungarsi negli anni, o piuttosto nei decenni.
Senza entrare nel merito dell’affaire di Gramsci in carcere e di Togliatti a Mosca, Andreucci sottolinea come la continuità sovietica del rapporto tra leninismo e stalinismo sia stata tale anche nella sua ricaduta sulla storia del Pci. Quanto Stalin durò ai vertici del Pcus, altrettanto durò lo stalinismo dei comunisti italiani, dirigenti o militanti che fossero. E anzitutto lo stalinismo indefettibile e interessato del «Migliore». Quello che, negli anni Trenta, spinse Togliatti a non aprire bocca davanti alle purghe di Stalin. A imitare tali e quali gli altri capi del comunismo internazionale, che vivevano a Mosca – lo testimonierà per esperienza diretta una bella figura di comunista piemontese, Felicita Ferrero – «rannicchiati come lumache nel proprio guscio, in attesa che la bufera finisse».
Locuste, vipere, lumache... la storia del comunismo è anche un bestiario, bestiario dell’anatema, della delazione, della scomunica. Così, all’immaginosa metafora da letterato di Osip Mandel’stam, secondo cui i baffi di Stalin erano «insolenti come scarafaggi» (e Mandel’stam muore in un gulag nel 1938), può corrispondere la formula maramalda del segretario Togliatti contro alcuni dissidenti interni del 1951, «pidocchi nella criniera di un nobile cavallo da corsa». Dopodiché, alla fine del 1956, è proprio il segretario del Pci che sollecita il Pcus – a babbo morto: mesi dopo il XX Congresso e la denuncia di Chruš?ëv dei crimini di Stalin – affinché l’Urss intervenga militarmente in Ungheria, perché si proceda senza pietà contro il traditore Nagy.
Lo stalinismo postumo di Togliatti nel 1956 ha contribuito non poco alla maledizione del «fattore K», cioè alla pluridecennale emarginazione del Pci dallo spazio politico dell’Italia democratica. L’autentica via italiana al socialismo – nota persuasivamente Andreucci – sarebbe stata quella dei suoi avversari del ’56: sarebbe stata la via di Antonio Giolitti, cui Togliatti pensò bene di riservare la qualifica sempreverde di «rinnegato». E anche per questo (forse, soprattutto per questo) il comunismo italiano era votato, a lungo andare, alla sconfitta e all’estinzione: per non avere saputo né voluto impostare il rapporto con il socialismo riformista in termini nuovi rispetto a quelli ossessivamente antagonistici della Terza Internazionale.
Berlinguer stesso, in tutta la sua «diversità», si sarebbe rivelato eccezionalmente lento nel ripensare il rapporto storico fra un comunismo di matrice leninista e un socialismo di ispirazione democratica. Anche se – bisogna pur ricordarlo – il maggiore interprete anni Settanta-Ottanta di quel socialismo si chiamava, in Italia, Bettino Craxi. Non esattamente una garanzia, almeno dal punto di vista della «questione morale».
Franco Andreucci, Da Gramsci a Occhetto. Nobiltà e miseria del Pci, 1921-1991, Della Porta editori, Pisa, pagg. 468, € 20,00

Il Sole Domenica 22.2.15
Anni di piombo
Stagione (e strascichi) del terrorismo
di Raffaele Liucci


Sarà anche vero, come scrive Monica Galfré, che «la dialettica tra vittime e carnefici diventa una gabbia se assunta come un criterio univoco nella ricostruzione storica». Però il suo libro sull’Italia e la tormentata uscita dagli anni di piombo suscita nel lettore sentimenti contrastanti.
Da un lato, non si può non apprezzare l’acribia dell’autrice nel lumeggiare questo delicato passaggio d’epoca: la crisi e la dissoluzione del terrorismo di sinistra (smantellato nel 1982, dopo il fallito sequestro Dozier, anche se i sopravvissuti continueranno a sparare a lungo), l’esplosione del pentitismo e il lento affiorare di un movimento di «dissociati», l’annoso dibattito sul superamento dell’«emergenza», l’attivismo del mondo cattolico nel «rieducare» le pecorelle smarrite (succose le carte rintracciate negli archivi privati di Ernesto Balducci e Mario Gozzini). Senza dimenticare il logoramento dello Stato di diritto indotto dalle leggi speciali, l’inferno carcerario e, soprattutto, le torture praticate sistematicamente contro i brigatisti arrestati, per costringerli a vuotare il sacco. Quest’ultimo è un tema particolarmente scabroso, perché ci costringe a contemplare il cuore di tenebra di una democrazia incattivita dalla minaccia eversiva. Del resto, a quel tempo il garantismo era una dottrina negletta, abbracciata solo da sparuti giuristi (Rodotà) e giornalisti (Bocca), oltre che dai radicali di Pannella.
D’altro canto, desta qualche perplessità l’eccessiva umanizzazione dei carnefici operata da Monica Galfré. D’accordo, il terrorismo rosso fu un fenomeno rilevante (circa 6mila detenuti politici nell’arco di un ventennio), profondamente radicato nell’album di famiglia (sessantottesco) della sinistra italiana e spesso fronteggiato con norme e metodi sin troppo sbrigativi. Ma accettare quest’amara verità non significa affatto nobilitare quanti impugnarono le armi. In democrazia, il delitto politico non è un’attenuante, bensì un’aggravante. Per questo, nel 1984, Antonio Gambino giudicò «francamente disgustoso sentir parlare di “valori della vita” e di “ripresa del dialogo”, da persone nel cui recente passato vi sono numerose esecuzioni a sangue freddo di individui inermi». Gambino era indispettito dall’eccessivo spazio già allora tributato dai mass media ai guerriglieri più o meno «pentiti», mentre le loro compagne recluse partorivano un figlio dietro l’altro, come teenager innamorate. Il tutto con la benedizione di sacerdoti e porporati. Tanto che Nello Ajello firmerà nel ’95 un articolo intitolato «Patria nostra perdonòpoli», nel quale lamentava quanto fosse «difficile, oggi, in Italia, essere laici» sull’argomento .

Monica Galfré, La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987, Laterza, Roma-Bari, pagg. XVI-254, € 22,00