lunedì 23 febbraio 2015

Corriere 23.2.15
Heidegger profeta del IV Reich
L’antisemitismo è insito nella sua opera. Sperava nel ritorno del dominio tedesco
di Emmanuel Faye


Le anticipazioni di alcuni passaggi del prossimo volume dei Quaderni neri in uscita a marzo, fornite da Donatella Di Cesare sulla «Lettura» del «Corriere» lo scorso 8 febbraio, spingono ad approfondire ulteriormente la ricerca su quanto radicati siano nel pensiero di Martin Heidegger i temi nazisti. La proposta di leggere il suo antisemitismo in modo differente da quello propriamente nazista appare infatti problematica, poiché la progressiva pubblicazione di questi Quaderni, sempre più simile a un sinistro romanzo a puntate, viene via via confermando l’introduzione del nazismo nella filosofia da parte di Heidegger. Il mio lavoro, lungi dall’indagare l’adesione heideggeriana al nazionalsocialismo come una questione biografica o un errore politico, mira a dimostrare che questa si inscriveva nei fondamenti della sua opera.
Il primo documento che testimonia l’antisemitismo di Heidegger risale al 1916, nel pieno della Prima guerra mondiale. Si tratta di una lettera alla moglie Elfride in cui egli si rammarica della «giudaizzazione della nostra cultura e delle nostre università», affermando che «la razza tedesca dovrebbe trovare sufficienti forze interiori» per riuscire a emergere. Le modalità per raggiungere tale scopo si chiariscono in un’altra lettera segreta del 1929 al consigliere Schwoerer, in cui Heidegger mostra la violenza del suo risentimento antisemita prendendosela con la «crescente giudaizzazione», che secondo lui si era impossessata della «vita spirituale tedesca» e indica che il solo modo di «riprendere il cammino» consiste nel dotarla «di forze e di educatori autentici, provenienti dal territorio». Un cammino che egli si avvia a «riprendere» in modo esplicito nei suoi corsi universitari più virulenti degli anni 1933-34, poi pubblicati postumi secondo la sua volontà tra i volumi delle proprie Opere complete, da lui definiti appunto «cammini, non opere».
Nel volume 97 si leggerà che Heidegger vede lo sterminio nazista nei termini di un «autoannientamento» degli ebrei, che tuttavia non è andato completamente a buon fine per colpa degli Alleati. Questi, non avendo compreso il «destino del popolo tedesco», lo avrebbero represso nel suo «volere il mondo». Heidegger però non perde le speranze e pensa che ci sia ancora un futuro per il compimento di tale «destino». A fronte di queste rivelazioni ci si domanda ora se egli pensasse a un IV Reich e a quale scopo abbia progettato la pubblicazione dei Quaderni neri. Io sostengo da anni, in base a un’analisi minuziosa dei suoi scritti, che sebbene Heidegger si sia sforzato di differenziare, dopo il crollo del III Reich, l’avvento dell’«altro inizio» evocato nei suoi Contributi alla filosofia da quanto si era compiuto tra il 1933 e il 1945, ciò non è stato altro che una strategia di sopravvivenza. Si trattava infatti di prendere la distanza adeguata da un’impresa il cui fallimento era stato totale. Non però per rinnegarla — visto che nell’intervista a «Der Spiegel» del 1966, pubblicata postuma dieci anni dopo, egli approverà ancora la direzione «sufficiente» della relazione tra uomo e «essenza della tecnica» intrapresa dal nazionalsocialismo — ma per prepararne il ritorno in forme nuove, anticipate attraverso la diffusione della sua opera intesa a tale scopo.
Nel suo corso invernale del 1933-34 intitolato Dell’essenza della verità, Heidegger parla di «condurre le possibilità fondamentali dell’essenza della stirpe originariamente germanica verso la dominazione» e ciò si lega strettamente allo scopo di «guadagnare la sovrana levatura della nostra essenza», che possiamo leggere nei Quaderni neri dello stesso inverno. La parola «essenza» ( Wesen ) giunge a raccogliere l’intera significazione razziale del suo progetto. Heidegger non ha bisogno di impiegare costantemente il termine «razza», che per lui è una parola straniera, ma gli preferisce spesso termini tedeschi come Stamm, Geschlecht, Art (stirpe, genere, schiatta) oppure semplicemente «essenza». Questo è molto vicino alla terminologia di Hitler, che nel Mein Kampf impiega più volte il vocabolario dell’essenza a proposito della razza e nel 1933 equipara l’appartenenza a una determinata razza alla «propria essenza». Nel 1938 Heidegger precisa nei Quaderni neri, sottolineando lui stesso il termine essenza, che il «principio del tedesco è quello di combattere per la sua essenza più propria», dove tale combattimento non è un imperativo universale, ma il «principio» del solo popolo tedesco.
Il combattere per l’essenza più propria concederebbe al popolo tedesco il diritto di annientare tutto ciò che la minaccia. Nel corso invernale del 1933-34 Heidegger propone ai suoi studenti di porsi come obiettivo di lungo periodo l’«annientamento totale» ( völligen Vernichtung ) del nemico interno «incrostato nella radice più intima del popolo», cioè gli ebrei assimilati. Nel 1941, mentre si va precisando la politica nazionalsocialista di costringere con ogni mezzo i dirigenti delle comunità ebraiche a coinvolgersi nell’organizzazione della loro propria distruzione, egli scrive nei Quaderni neri che «il genere più alto e l’atto più alto della politica consiste nel manovrare con il nemico per metterlo in una situazione in cui si trova costretto a procedere al proprio autoannientamento».
Ecco dunque l’intreccio dei due termini Vernichtung e Selbstvernichtung, annientamento e autoannientamento, che dovrà essere ben analizzato nei prossimi Quaderni neri. Ma certamente è possibile osservare da subito che la reversibilità tra carnefici e vittime, manifestata da Heidegger nei passaggi già noti del volume 97, è stata un luogo comune dei nazisti più incalliti all’indomani della sconfitta militare e dei negazionisti che sono loro succeduti.
Gli ebrei sono designati da Heidegger nei Quaderni neri come coloro che sono «senza suolo», «senza essenza», «senza mondo». Si scopre così che l’esistenziale dell’essere-nel-mondo può essere utilizzato dal suo autore come un termine discriminatorio a scopi antisemiti. Occorre ricordare che Heidegger utilizza l’espressione «senza mondo» per designare l’infraumano: benché l’animale non sia un «formatore di mondo», solo la pietra è detta «senza mondo» nel suo corso Concetti fondamentali della metafisica dell’inverno 1929-30.
Per Heidegger gli ebrei non hanno posto nel mondo o, meglio, non lo hanno mai avuto. Questa disumanizzazione totale è ciò che ho chiamato negazionismo ontologico di Heidegger nei confronti degli ebrei, che nelle Conferenze di Brema del 1949 giunge fino a escluderli, insieme a tutte le altre vittime dei campi di concentramento, dall’essere-per-la-morte. Tale negazionismo ontologico, di cui Livia Profeti ha saputo dimostrare la convergenza con la «pulsione di annullamento» scoperta dallo psichiatra italiano Massimo Fagioli, vuole significare che Heidegger non solo nega la realtà storica dei fatti, riducendo il numero delle vittime nonché ogni specificità del genocidio nazista, ma annulla l’«essere» stesso delle vittime dei campi.
L’antisemitismo di Heidegger è documentato a partire dal 1916, così come è documentato che dal 1934 egli prefigurava la totale Vernichtung, annientamento o sterminio che dir si voglia, degli ebrei. Argomentare filosoficamente il carattere di tale antisemitismo e di tale razzismo significa, per me, opporsi all’introduzione del nazismo nella filosofia da parte dell’autore dei sinistri enunciati dei Quaderni neri.

Corriere 23.2.15
Shoah «autoannientamento» ebraico
La frase choc nei nuovi «Quaderni»

La Shoah come una forma di «autoannientamento» degli ebrei. Donatella Di Cesare, sulla «Lettura» dell’8 febbraio scorso, ha rivelato che nel 1942 Martin Heidegger esprimeva questa valutazione, contenuta nella parte dei suoi Quaderni neri che uscirà in Germania a marzo presso l’editore Klostermann. I Quaderni neri sono taccuini filosofici che Heidegger tenne dal 1931 al 1969, disponendo che fossero pubblicati a conclusione delle sue Opere complete. L’anno scorso sono usciti in edizione tedesca i Quaderni dal 1931 al 1941, che in Italia saranno tradotti da Bompiani a partire dal prossimo autunno. Già in quella parte emergeva l’antisemitismo metafisico dell’autore, su cui Donatella Di Cesare si sofferma nel libro Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri), ma nel volume imminente, relativo al periodo dal 1942 al 1948, si aggiungono nuovi elementi di grande importanza.

«Il testo pubblicato in questa pagina è un contributo di Emmanuel Faye, docente alla Normandie Université, al dibattito su Martin Heidegger suscitato dall’uscita dei Quaderni neri. Faye è autore del libro Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia (L’Asino d’Oro, 2012)
Martin Heidegger (1889-1976) è considerato uno dei più importanti filosofi del Novecento, un maestro del pensiero esistenzialista. La sua opera di maggior spicco è il saggio Essere e tempo del 1927, edito in Italia da Longanesi e Mondadori
Heidegger divenne rettore dell’Università di Friburgo e aderì al nazismo nel 1933, anno dell’ascesa al potere di Hitler. Ma nel 1934 lasciò la carica e in seguito non partecipò più in modo attivo alla vita del partito».

il Fatto 23.2.15
Quel Pd tradisce l’ambiente e i propri ideali
Lo scandalo Toscana e i tanti scempi targati centrosinistra
di Ferruccio Sansa


Tradimento dei propri ideali. Non è un reato previsto dal codice. L’unico tribunale è quello della coscienza. Ma per i politici dovrebbe essere tra le mancanze più gravi.
Un’incriminazione meriterebbero senza dubbio il Partito Democratico e tanti suoi rappresentanti. Troppo spesso hanno devastato l’ambiente, bene prezioso per la sinistra italiana. Hanno svenduto il nostro territorio. Un tradimento compiuto per agevolare gli affari di imprenditori amici (vedi soprattutto le cooperative che macinano soldi e cemento), per garantirsi poltrone e consenso (molti dei maggiori imprenditori del mattone, vedi Caltagirone, sono anche proprietari di giornali). Ma anche, nella migliore delle ipotesi, per semplice ignoranza, per disinteresse o per un malinteso spirito di partito. Meglio che resti integro il Pd piuttosto che la nostra terra. Non è anche questo tradimento? L’ultimo esempio sono gli emendamenti presentati dal Pd al piano paesaggistico della Regione Toscana (governata dal centrosinistra di Enrico Rossi). Parliamo di un documento che sarebbe un modello di tutela del territorio, elaborato dall’assessore all’Urbanistica Anna Marson.
Invece, a dieci giorni dalla votazione del piano, ecco spuntare una pioggia di emendamenti. Da Forza Italia e dal Partito Democratico. Sono praticamente uguali nel loro tenore. E già questo la dice lunga. Ma concentriamoci su quelli del centrosinistra (perché il berlusconismo è sempre stato accanito nemico dell’ambiente). Si prevede che le “direttive” indicate nel piano siano trasformate in semplici “indirizzi”. Termini tecnici, in pratica così si lascerebbe ai comuni mano libera per fare i fatti propri. Ancora: le criticità indicate dal Piano sarebbero da considerare semplici valutazioni scientifiche. Non tassative. Di più: si aprono brecce nella tutela delle Alpi Apuane mangiate dalle cave, della costa minacciata dal cemento.
Insomma, il Piano Paesaggistico sarebbe ridotto a un colabrodo. Come è successo in Liguria dove le giunte di centrosinistra di Claudio Burlando hanno votato piani casa tra i più devastanti, dove hanno approvato la costruzione di centri commerciali realizzati da imprenditori amici in zone a rischio alluvione.
Per non dire del Veneto, dove il Pd sosteneva la realizzazione di centri commerciali da milioni di metri cubi nelle campagne più belle d’Italia. Dell’Emilia dove il partito si è speso anima e corpo per quel serpente di asfalto che è l’autostrada Mestre-Orte (oltre 10 miliardi di costo).
Cari esponenti del Pd, continuate pure così. Otterrete la gratitudine degli imprenditori, l’appoggio dei loro giornali, conserverete le vostre poltrone. Ma lasciateci almeno dire che siete dei traditori dei vostri ideali.

il Fatto 23.2.15
La lettera
Landini: “Coalizione sociale”

Caro direttore, la prima pagina del Fatto Quotidiano di domenica 22 febbraio 2015 mi attribuisce un’affermazione non pronunciata e perlomeno forzata: “adesso faccio politica” con tanto di virgolette che la rendono fuorviante.
Perché rimanda più esplicitamente all’impegno di tipo partitico o elettorale, che come si può correttamente leggere nell’intervista pubblicata all’interno suo giornale, non è proprio presente.
Anzi è un modo per banalizzare il cambio d’epoca che secondo il mio punto di vista richiede la ridefinizione di nuove strategie sindacali e politiche.
Del resto nell’intervista si spiega che la “sfida a Renzi” per il sindacato, oltre alla “normale azione contrattuale”, consiste nella creazione di una coalizione sociale che superi i confini della tradizionale rappresentanza sindacale, capace di unificare e rappresentare tutte le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare.
Ed è questo che ho sempre inteso e continuo ad intendere per impegno politico.
Ed è un punto di vista che nel suo vero significato spero diventi oggetto di un’ampia discussione e non ridotto ad un titolo ad effetto. Grazie per l’attenzione, cordialmente con stima.
Maurizio Landini

Caro Landini, come lei sa bene i titoli dei giornali sintetizzano in poche parole il contenuto degli articoli. In questo caso, della sua intervista al Fatto. In cui lei dice, fra l’altro, che non ha in mente l'ennesimo partitino, ma un’iniziativa politica che parta anche dal sindacato da lei guidato: “È venuto il momento di sfidare democraticamente Renzi... Il problema è che la maggior parte del Paese, quella che per vivere deve lavorare, non è rappresentata. C’è un fatto nuovo nel rapporto fra politica e organizzazione sindacale... Il sindacato si deve porre il problema di una coalizione sociale più larga e aprirsi a una rappresentanza anche politica... Per quanto riguarda la Fiom, dobbiamo rivolgerci a tutto ciò che è rappresentanza sociale, non solo i lavoratori...”. Questi concetti, dovendo riassumerli in poche parole, mi parevano sufficienti per titolare riassuntivamente che lei intende fare politica. Naturalmente nel senso più nobile del termine, non in quello deteriore di fondare partitucoli o listarelle, come ha subito finto di intendere ieri Renzi. Il Fatto seguirà gli sviluppi della sua proposta ed è a disposizione per ospitare altri interventi. Grazie per la precisazione e molti auguri.
Marco Travaglio

La Stampa 23.2.15
La sinistra apre le porte ma il leader Fiom frena
Cgil scettica: “Vuol far politica? Il sindacato è un’altra cosa”
di Antonio Pitoni


Alla fine la precisazione era quasi obbligata. Arrivata in serata dopo le punzecchiature del presidente del Consiglio, Matteo Renzi. E la presa di distanze della Cgil digitata via Twitter dal portavoce di Susanna Camusso: «Se Maurizio vuole scendere in politica tutti i nostri auguri ma il sindacato, @fiomnet è altra cosa». Dove Maurizio, ovviamente, sta per il leader della Fiom Landini.
Indietro tutta
Nessun intento di fare politica, assicura lui, chiarendo il senso di quella frase pronunciata in un’intervista al Fatto Quotidiano di ieri: «È venuto il momento di sfidare democraticamente Renzi». Che pure si prestava ad alimentare l’idea di una sua possibile discesa in campo. «La sfida a Renzi per il sindacato - argomenta invece il segretario della Fiom - oltre alla normale azione contrattuale, consiste nella creazione di una coalizione sociale che superi i confini della tradizionale rappresentanza sindacale, capace di unificare e rappresentare tutte le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare».
Convergenza a sinistra
Precisazioni a parte, se l’obiettivo di Landini è quello di «un’ampia discussione» per «la ridefinizione di nuove strategie sindacali e politiche», la sua proposta non lascia indifferente la sinistra. «Siamo impegnati a costruire un’alternativa al Pd di Renzi dopo la riduzione dello spazio al mondo del lavoro per effetto del Jobs Act e le continue forzature sulle regole del gioco, come accaduto sulle riforme costituzionali - spiega il capogruppo di Sel alla Camera Arturo Scotto -. Landini lancia un allarme ponendo una questione: come costruire una sinistra aperta e democratica che rimetta al centro il tema del lavoro? ». Un’area «più ampia di Sel» che guarda «ad associazioni, sindacati» ma anche a quel pezzo di sinistra «imprigionata dentro un Pd che scivola sempre più verso il centro». Il punto è, conclude Scotto, dare «un riferimento politico alle piazze che abbiamo visto ribellarsi contro il Jobs Act».
Riflessioni nel Pd
Cambiare la riforma del lavoro è un punto di partenza condiviso anche da Stefano Fassina del Pd: «Una legge di iniziativa popolare sostenuta da qualche milione di firme sarebbe un’ottima spinta al Parlamento per correggere un provvedimento regressivo - argomenta ad Affaritaliani.it -. Certamente io sosterrò questa iniziativa». Di sicuro, come sottolinea il bersaniano Alfredo D’Attorre, «il tema non è la nascita di un nuovo partito né la scissione del Pd». Ma piuttosto quello di «progettare una battaglia comune, che impegni aree politiche e forze sociali, per contrastare la linea di politica economica di Renzi sempre più subalterna all’ortodossia di Bruxelles». Possibile farlo restando nello stesso partito del premier? «Il Pd non è proprietà di Renzi», taglia corto D’Attorre. «Landini parla di sinistra sociale da contrapporre a quella politica, per me invece l’obiettivo è una sinistra di governo», commenta Pippo Civati. Insomma, «un progetto che interroghi il Pd».

Corriere 23.2.15
Renzi: Landini è uno sconfitto. Io duro fino al 2018 e poi vinco
Il premier: ha perso contro Marchionne, se fa politica solo Sel può seguirlo
di Maria Teresa Meli


ROMA Matteo Renzi ha superato il suo primo anno di governo. Ma è convinto di avere ancora tanto tempo davanti a sé: «La maggioranza è blindata sino alla fine della legislatura». E «nel 2018 vinciamo noi». Non lo dice con tracotanza. Ma ne è convinto. Anche se sa che ormai il partito di Berlusconi, allo sbando com’è, è una causa persa, su cui è difficile fare affidamento come ai tempi del patto del Nazareno: «Forza Italia sta esplodendo e noi andiamo avanti da soli. Se dovesse per caso rompersi qualcosa nella maggioranza, cosa a cui non credo, sarà fisiologico che qualcuno di loro ci sostenga».
Insomma, per farla breve, in questo primo compleanno del suo governo il premier è contento: «Abbiamo svolto un lavoro durissimo, ma sul Jobs act abbiamo fatto più di quanto sperassi di fare. E quello che abbiamo realizzato sui notai, sulle assicurazioni, sui telefonini, le banche e le poste rappresenta una rivoluzione culturale straordinaria. Non solo, il bello è che l’Italia sta ripartendo davvero».
Parla così, Matteo Renzi, preso dall’entusiasmo. Ma su Raitre, Lucia Annunziata, nella sua trasmissione In mezz’ora , gli ricorda che qualcosa di nuovo si sta muovendo nel mondo della sinistra. E non è detto che sia foriero di buone notizie per il premier. Già, Maurizio Landini, in un’intervista al Fatto quotidiano , ha lasciato intendere che potrebbe scendere in politica, per guidare quella sinistra che è da qualche anno alla ricerca di un leader.
È vero che ore e ore dopo il leader della Fiom, dopo una reprimenda della Cgil, ridimensiona la portata delle sue parole, ma la sua è una smentita a metà in cui ribadisce che occorre andare oltre la «rappresentanza sindacale». Il premier comunque risponde imperturbabile ad Annunziata: «Non credo che Landini abbandoni il sindacato, è il sindacato che ha abbandonato Landini. Il progetto di Marchionne sta partendo, la Fiat sta tornando a produrre auto e ad assumere, è ovvio che la sconfitta sindacale lo porti ad abbracciare la politica, non dimentichiamoci che a Pomigliano ha portato a scioperare cinque persone su 1400».
Ma Renzi non ha paura che una parte del Pd possa essere ora tentata dalla scissione? A sera, dopo la trasmissione, Renzi non sembra aver cambiato idea: «Non mi preoccupa Landini. Ha acquisito visibilità schierandosi contro Marchionne. Oggi che Marchionne sta vincendo, lui deve scappare dal sindacato. Normale. Io provo massimo rispetto, per Landini, ma non è il primo sindacalista a buttarsi in politica e non sarà l’ultimo. Gli faccio i miei più sinceri auguri». Di un’eventuale scissione, Renzi non sembra avere paura: «Se veramente il leader della Fiom si buttasse in politica nessuno del Pd lo seguirebbe, solo Sel andrebbe con lui». E anche Pippo Civati, aggiunge qualche renziano duro e puro e ormai convinto che il deputato del Pd dissidente per vocazione e professione sia prossimo all’addio al partito.
Insomma, non sembrano queste le preoccupazioni di Renzi. E nemmeno le polemiche della sua minoranza sul Jobs act paiono innervosirlo più di tanto: «Ormai il Jobs act è andato». Come a dire: ormai è fatta, quindi pazienza per le lamentele e gli attacchi, strascichi inevitabili, se «si vogliono fare le riforme e cambiare questo Paese», perché ci sarà sempre «chi preferisce che tutto rimanga com’è adesso». Morale della favola: se la minoranza interna pensava di condizionare le mosse del presidente del Consiglio ora che il patto del Nazareno sembra essere andato in frantumi, ha sbagliato i suoi piani. «Io non sarò ostaggio di nessuno. So che ci saranno quelli che ci proveranno, ma hanno sbagliato indirizzo», sorride il premier.
E il varo dei decreti del Jobs act pare essere la conferma di queste sue parole. «Del resto, come si fa a essere contrari a una legge che per la prima volta si preoccupa veramente dei non garantiti, cioè dei precari?», si chiede retoricamente il premier. Che preferisce non entrare in polemica diretta con la presidente della Camera Laura Boldrini che lo ha criticato e che ha stigmatizzato la figura «dell’uomo solo al comando». Rispetto alle sue parole, intervistato da Annunziata, l’inquilino di Palazzo Chigi si limita a dire: «Questo è un problema suo». Ma è a lei che indirettamente si rivolge quando spiega, sempre in quella trasmissione, che «il mio obiettivo non è costruire una leadership carismatica». Con i collaboratori e gli amici più fidati Renzi però si è lasciato andare un po’ di più perché è rimasto stupito per l’attacco di Boldrini nei suoi confronti: «Lei è la presidente della Camera e dovrebbe fare l’arbitro, mentre mandiamo avanti il programma per cui abbiamo preso la fiducia».
Altro argomento, altro capo di imputazione. Anche stavolta Renzi è netto. Il tema, postogli da Annunziata, è quello delle Popolari e delle inchieste della Consob e della magistratura sui movimenti che ci sono stati dopo il provvedimento del suo governo. «Mi auguro che venga fatta chiarezza al più presto perché sono state fatte polemiche ridicole e dette castronerie galattiche. Un galantuomo come Ciampi insieme a Draghi tentò di fare queste norme. Noi abbiamo ripreso quel principio».

Repubblica 23.2.15
Jobs Act, duello tra Renzi e Landini
Il premier teme trappole sull’Italicum
l premier liquida la Boldrini: problema suo
Il fronte del no: ignorare il Parlamento comporta conseguenze
di Silvio Buzzanca


ROMA Maurizo Landini scende in politica perché «ha perso la battaglia sindacale». Matteo Renzi stronca così le presunte velleità politiche del segretario della Fiom.
Presunte perché Landini ha smentito ieri sera il titolo del Fatto Quotidiano ad una sua intervista che lo vedeva già praticamente in campo contro il premier.
«Titolo fuorviante — spiega Landini — perché rimanda più esplicitamente all’impegno di tipo partitico o elettorale, che nell’intervista non è proprio presente». Landini spiega che «la “sfida a Renzi” per il sindacato, oltre alla 'normale azione contrattuale', consiste nella creazione di una coalizione sociale che superi i confini della tradizionale rappresentanza sindacale» che rappresenti chi vive lavoro. «Ed è questo - dice Landini - che ho sempre inteso e continuo a intendere per impegno politico». Questa precisazione arriva dopo che il premier aveva detto senza mezzi termini: «Questa uscita di Landini è molto importante. Dopo la sconfitta della battaglia contro Marchionne è scontata la sua discesa in politica. Non è lui che lascia il sindacato, è il sindacato che lascia lui».
Renzi ieri ha replicato, in modo soft, anche a Laura Boldrini che sabato aveva lamentato come il governo sul Jobs act non avesse preso in considerazioni le osservazioni, non vincolanti, del Parlamento. «La Boldrini è l’arbitro dei giochi parlamentari e io la lascio fuori da questa discussione. È un problema suo e non nostro, noi stiamo portando avanti il programma di governo», ha detto il premier. L’affondo è arrivato invece da Debora Serracchiani che, intervistata da Maria Latella per SkyTg24, ha detto: «Mi sembra un eccesso rispetto alla sua posizione di garanzia». La Boldrini però è difesa da Sel e dalla minoranza dem. Il bersaniano Alfredo D’Attorre già prefigura bocciature della Consulta sul Jobs act, mentre Vannino Chiti ammonisce: «Il governo può non tenern conto del parere del Parlamento: la sua è una scelta politica. Può compierla: non è però indolore o priva di conseguenze».

il Fatto 23.2.15
Di nuovo contro il sindacato
Renzi: “La Fiom ha perso, perciò entra in politica”
di Luca De Carolis


Prima candelina del governo rottamatore, Matteo Renzi è ovunque. Corre tra palchi, contestazioni e programmi tv. E morde alla gola il possibile avversario Landini, che sulle pagine del Fatto ha annunciato di volerlo sfidare: “Vuole scendere in politica perché ha perso sul piano sindacale, ha bisogno di cambiare pagina”. Poi lascia a piedi Prodi: “Come mediatore in Libia l’Onu non vuole un italiano”. E promette di partire per marzo con la riforma della Rai: addirittura per decreto, se il Parlamento non dovesse sbrigarsi. Parla e annuncia su tutto, il premier che a inizio marzo andrà in Russia da Putin perché “voglio portarlo al tavolo sulla Libia”. Euforico: “Questo Paese lo cambiamo, gufi o non gufi, piccioni o non piccioni”. Perché è un giorno renzianissimo. Per celebrarlo il Pd ha organizzato a Roma la manifestazione “Un anno di governo: la scuola cambia, cambia l’Italia”, manifestazione anche per lanciare il decreto-legge e il disegno di legge delega di riforma (dovrebbero presentarli venerdì, in ballo l’assunzione da settembre di almeno 100mila precari). C’è ressa, in parecchi rimangono fuori. Renzi si siede in platea per ascoltare insegnanti e studenti. Poi sale sul palco per la chiusura ed è contestazione, da parte di docenti precari: “Lasciateci parlare, basta demagogia”. Alle telecamere de ilfattoquotidiano.it   uno del gruppo assicura: “Sono iscritto al Pd, vogliamo dare consigli”. Ma dal microfono il premier è duro: “A chi viene qui a fare pagliacciate per andare in tv lo spazio glielo diamo tranquillamente, ma noi stiamo facendo un’altra cosa”.
SULLA RIFORMA della scuola abbonda di promesse, poi accenna a “un meccanismo sul modello del 5 x mille, per cui nella dichiarazione dei redditi barro per il singolo istituto. Dovrà essere pensato per scuola e cultura, spero funzioni dal 2016”. Ma ha voglia di parlare di Rai: “La cambieremo, non può essere disciplinata da una legge che si chiama Gasparri. A marzo si parte con la riforma”. Auto-celebrazioni (“Noi decidiamo, basta con la palude”), poi scappa via. Ricompare a In mezz’ora, su Rai3. E da lì risponde a Landini. Al sindacalista che vuole “sfidarlo democraticamente” è già arrivato il gelo via Twitter di Massimo Gibelli, il portavoce della segretaria Cgil Susanna Camusso: “Se Maurizio Landini vuole scendere in politica tutti i nostri auguri, ma il sindacato, la Fiom, è un’altra cosa”. Ma Renzi è quasi feroce: “Non credo che Landini abbandoni il sindacato, è il sindacato che ha abbandonato Landini. Il progetto Marchionne sta partendo, la Fiat sta tornando a fare le macchine. La sconfitta sindacale gli pone l’obbligo di voltare pagina, il suo impegno in politica è scontato”. Affonda la lama, il premier: “Landini non è il primo sindacalista che fa politica. Sul jobs act ognuno può avere l’opinione che vuole, ma è difficile pensare che tutte le manifestazioni non fossero propedeutiche alla entrata in politica”. Sabato aveva protestato anche la Boldrini (“Sul jobs act bisognava tener conto dei pareri negativi di Camera e Senato, non mi piace l’uomo solo al comando”). Renzi le replica sbrigativo: “Un problema suo, non nostro. Noi mandiamo avanti il programma di governo su cui abbiamo chiesto la fiducia“ e come dobbiamo fare”. Poi torna sulla Rai, con avviso ai naviganti: “Se ci sarà un decreto legge per la riforma dipende dal Parlamento e dai suoi tempi, un dl è possibile”. Ha fretta di cambiare, il segretario Pd: “L’obiettivo è non eleggere il prossimo Cda con la Gasparri”. Corre pure con le parole e infila toscanismi, il premier che giura: “Il mio obiettivo non è costruire una leadership democratica”. Sulla politica estera svicola un po’. Poi però si parla del mediatore per la crisi in Libia: “Nel settembre scorso, quando ho chiamato Ban Ki Moon (il segretario Onu, ndr) su questo punto, mi ha spiegato che per il passato coloniale era meglio un non italiano. Già allora si parlava di Prodi o di D’Alema: erano ipotesi dei giornali”. Ipotesi che resteranno tali, per il Renzi che sogna in grande sulla politica estera: “Voglio portare Putin al tavolo sulla Libia, ma lui prima deve lasciare l’Ucraina”. L’Annunziata va di contropiede: “Lo ha detto agli americani? ”. E lui assicura: “Ci sentiamo spesso”. Capitolo Isis: “Non siamo sotto attacco, l’espressione ‘siamo a sud di Roma’ è un’indicazione geografica, non una minaccia. Loro non sono così forti come vogliono far credere, e comunque i terroristi non arrivano con i barconi”. C’è tempo anche per il caso banche Popolari: “Un conflitto d’interessi del governo sul decreto di riforma? Castroneria galattica, sono pronto a tutte le verifiche”. Renzi si congeda, da Renzi: “Cambieremo l’Italia”. Prosit.

La Stampa 23.2.15
Cosa succede a sinistra?
La scommessa di Landini sulle orme di Tsipras
Il leader della Fiom è un moltiplicatore di share e da qui al 2018 potrebbe aggregare attorno a sé i vendoliani, i delusi del Pd e i militanti dell’ala più dura della Cgil
di Carlo Bertini

qui

Corriere 23.2.15
Il passo avanti del leader Fiom agita la minoranza dem
D’Attorre: possibili lotte comuni, ma il tema non è la nascita di un nuovo partito
Vita: se non ora quando?
di Al. T.


ROMA Da una parte la presidente della Camera, Laura Boldrini. Dall’altro il leader della Fiom, Maurizio Landini e la minoranza del Pd, sempre più inquieta. Dopo il contestato varo del decreto sul Jobs act, Matteo Renzi riceve un attacco concentrico, con accuse di leaderismo eccessivo e di scarso rispetto per il Parlamento. E la minoranza si trova a un bivio, tra l’ammissione della resa e la ricerca di nuove strade per incidere di più.
La replica alle parole della presidente della Camera — che aveva parlato di «uomo solo al comando» — è affidata alla vice segretaria Debora Serracchiani. A L’intervista , su SkyTg24, le definisce «eccessive rispetto alla sua posizione di garanzia». A difesa della Boldrini si schiera Sel: «La presidente difende il Parlamento, le tifoserie le lasciamo ai ventriloqui di corte».
Landini, invece, aveva lanciato la sua sfida dalle colonne del Fatto Quotidiano . Ieri ha corretto il tiro: «Non ci sarà un mio impegno di tipo partitico o elettorale». Resta il senso della «sfida democratica» contro Renzi: «Serve una coalizione sociale più larga, dobbiamo aprirci a una rappresentanza anche politica». A dimostrazione di quanto sia frammentata l’opposizione, le reazioni non sono compatte. Da Pippo Civati arriva il no più secco: «Premetto che mi piacerebbe chiarire il tema con lui, per evitare fraintendimenti, ma Landini parla di sinistra sociale da contrapporre a quella politica. Non capisco e non sono d’accordo. Per me l’obiettivo è una sinistra di governo, che unisca, non una sinistra divisa». Anche Alfredo D’Attorre respinge la suggestione di un’uscita dal Pd, ma apre al dialogo: «Il tema non è la nascita di un nuovo partito, né la scissione dal Pd. Piuttosto, possono essere interessanti battaglie comuni tra forze politiche, forze sociali e pezzi della società. Quanto alle parole di Renzi, non mi pare utile delegittimare un interlocutore». Vincenzo Vita, vicino a Civati e molto critico con il Pd, la vede diversamente: «Mi chiedo, se non ora, con lo slittamento a destra di Renzi sul lavoro, quando? Mi auguro che Landini ci pensi davvero e che nasca qualcosa di nuovo insieme alla minoranza del Partito democratico».

Repubblica 23.2.15
Dissidenti dem e forzisti preparano la trappola sull’Italicum
di Goffredo de Marchis


ROMA Chiudere la pratica della legge elettorale è il prossimo obiettivo di Matteo Renzi. «L’Italicum non cambierà di una virgola e alla Camera farà il suo ultimo passaggio. Per carità, davvero tutto è migliorabile. Ma abbiamo già raggiunto un’intesa e poi non voglio ricominciare sempre daccapo». Sarà questo il terreno di scontro con la minoranza del Pd nelle prossime settimane e il banco di prova per vedere se la rottura con Berlusconi è momentanea o definitiva. A Montecitorio la maggioranza ha numeri molto ampi anche senza Forza Italia, ma nello stesso ramo del Parlamento si annidano altre trappole per il premier.
Queste trappole hanno nomi e cognomi. Sono quelli dei dissidenti del Pd, del capogruppo di Fi Renato Brunetta e della presidente della Camera Laura Boldrini. A Palazzo Chigi sono convinti che la terza carica dello Stato, dopo le dure critiche al Jobs Act, tornerà a essere imparziale. «Ha usato il ruolo del Parlamento per contestare Matteo. Ci può stare», dicono i renziani. Ma ciò non toglie che l’inedita uscita politica della Boldrini abbia allarmato i vertici del Pd e dell’esecutivo. Si capisce che la presidente è decisa ad assumere un ruolo più visibile nel confronto quotidiano e c’è un pezzo della sinistra che pensa a lei come possibile contraltare a Renzi. Molto più che a Landini o a Cofferati. Se la legislatura andrà avanti fino al 2018, Boldrini rimarrà nei ranghi del suo compito istituzionale. Ma se dovessero esserci prima degli strappi, «se si apre una partita a sinistra», allora potrebbe decidere di esporsi di più. E l’affondo sui decreti delegati della riforma del lavoro e l’accusa dell’uomo solo al comando potrebbe rivelarsi solo una prova generale di un maggiore impegno. I dissidenti del Pd si preparano all’arrivo del testo dell’Italicum a Montecitorio cercando un terreno comune con gli azzurri. Un terreno impossibile da trovare sulle preferenze. La scelta dei capolista bloccati resta il cuore del patto del Nazareno, una via obbligata per Berlusconi che punta a confermare i fedelissimi e può usare le liste anche per la battaglia interna, soprattutto contro Raffaele Fitto. È su questo pilastro della legge che il premier confida di ritrovare un’asse con Arcore. Ma c’è un altro punto su cui invece la minoranza dem e Forza Italia possono trovare un’intesa. Già nell’emendamento Gotor, bocciato al Senato, era previsto l’apparentamento al ballottaggio. I due partiti vincenti al primo turno potevano fare alleanze al secondo con altre forze, sul modello della norma che vale per eleggere il sindaco e i consigli comunali. Un modo per resuscitare le coalizioni e attenuare gli effetti del premio alla lista, che sta a cuore a Renzi per affermare un sistema davvero bipolare. A Palazzo Madama la maggioranza delle riforme si salvò in extremis sull’emendamento Gotor. Quasi trenta senatori Pd uscirono dall’aula e furono determinanti le mosse di Denis Verdini e Paolo Romani per bocciare la proposta di modifica.
Alla Camera il “soccorso azzurro” è molto più a rischio. Per la presenza di Brunetta, per un buon numero di deputati fittiani e perché il patto si è rotto. La maggioranza, con Pd, centristi e Ncd ha lo stesso i numeri per vincere il match, proprio com’è successo per la riforma costituzionale. Ma i dissidenti dem sono oggi più agguerriti. I licenziamenti collettivi varati nel Jobs Act hanno frantumato un tacito accordo che si era realizzato nel Partito democratico al momento in cui fu votata la legge delega. Circa quaranta deputati firmarono un documento contro il provvedimento ma alla fine, partendo da Pier Luigi Bersani, votarono sì. Lo fecero anche Guglielmo Epidani e Cesare Damiano, ex Cgil, attirandosi la furia degli ex com- pagni di sindacato. Ma avevano avuto garanzie, raccontano, che nei decreti sarebbero sparite le norme più controverse e sarebbe stato rispettato l’ordine del giorno della direzione democratica. Non è andata così, tanto che Stefano Fassina ha detto: «Ha vinto Sacconi».
Questo precedente lascia immaginare che la minoranza, sull’Italicum, non farà sconti, anche perché non ci sono prove di appello: se la Camera approva il testo del Senato, diventa legge. Sono 80-90 i deputati Pd pronti a votare contro il governo. Uniti ai 70 forzisti rischiano di mettere in crisi le certezze di Renzi. Dopo il Jobs Act, il clima interno è peggiorato. I mediatori della riforma del lavoro (e tra loro lo stesso Damiano) sono adesso accusati di non aver ottenuto il risultato sperato. E le mediazioni sulla legge elettorale sconteranno il passaggio sul lavoro, i pontieri avranno molto difficoltà a far accettare compromessi. Per questo oggi ci sono le condizioni per far nascere un nuovo patto del Nazareno. Che può rallentare l’Italicum, costringerlo a un altro rischioso iter al Senato. Esattamente quello che Renzi vuole evitare.

Repubblica 23.2.15
Gianni Cuperlo
“Delrio sbaglia sulla minoranza pd non sei moderno se cancelli la sinistra”
“Non abbiamo votato il Jobs act e i decreti del governo ci hanno dato ragione”
“Consiglierei rispetto verso la presidente della Camera e sul lavoro del Parlamento”
intervista di Alessandra Longo


ROMA Cuperlo, SinistraDem ha gridato ancora una volta contro il Jobs Act, più utile, secondo voi, a licenziare che non ad assumere. Guardi, però, che Renzi giura: “E’ tutta roba di sinistra....”.
«Noi di SinistraDem soprattutto non lo abbiamo votato e i decreti del governo ci hanno dato ragione. La norma sui licenziamenti collettivi è un eccesso di delega. Mentre demansionamenti e assenza di proporzionalità nei licenziamenti disciplinari fanno arretrare i diritti di chi lavora e aumenteranno le discriminazioni per i nuovi assunti. Quanto alle cifre, tra i benefici che si avrà ad assumere nel 2015, e i costi da sopportare nel licenziare un anno dopo, il saldo a vantaggio dell’impresa sarà di 971 euro. La questione è sempre la stessa: la via per creare nuovi occupati non è l’intervento sulle regole del mercato del lavoro perché è come cambiare l’olio alla macchina senza metterci la benzina. Devi agire sugli investimenti e sul rilancio della domanda. Devi usare il credito d’imposta per le imprese che fanno innovazione e ricerca. Devi prevedere la decontribuzione solo per chi offre una occupazione aggiuntiva».
La presidente della Camera Boldrini ha mosso delle critiche. Non si è salvata neppure lei. Liquidata così dal premier: “Problemi suoi, noi andiamo avanti con il programma”.
«Consiglierei rispetto verso la presidente della Camera. Le commissioni lavoro hanno espresso un parere votato da tutto il Pd. Si dice che non era vincolante. Ma quale concezione si ha del Parlamento e del proprio stesso gruppo? Quello di un mero esecutore di ordini? Temo sia un errore serissimo ».
Ammetterà che la domanda nevralgica è sempre la stessa: che ci fate ancora nel Pd? Non avverte il rischio della caricatura? Gridate gridate e poi il partito va dalla parte opposta «Sabato a Roma sono arrivati 500 militanti e dirigenti dell’associazione Sinistra-Dem da quasi tutte le regioni. E non per lamentarsi o gridare ma per dire che senza la sinistra il Pd rischia moltissimo. E’ gente carica di passione che non si nasconde gli errori di prima e vede i limiti di adesso. Hanno chiesto parole di serietà sulla Libia, un’agenda parlamentare sulla buona crescita e sui diritti e la responsabilità della persona. Hanno chiesto di fare del contrasto alla povertà la priorità di un governo che se ne cura poco e male. Di ripristinare Mare Nostrum, riconoscere lo Stato di Palestina, discutere l’Europa dopo l’austerità. C’erano amministratori strangolati dai tagli e operai, insegnanti, precari che ci dicono “stiamo qui se questa è ancora la sinistra”. Ascoltare questo mondo è decisivo anche per il governo».
In compenso se lei non è felice, Alfano, Sacconi e Quagliariello sono orgogliosi di come è andata a finire. Adesso pensano di rilanciare sui temi della famiglia che, ovviamente, è composta da un uomo e una donna «Ecco perché un nuovo centrosinistra va costruito. Le differenze esistono e i diritti umani e civili sono una frontiera di civiltà. Su questo ci vediamo in Parlamento e nel Paese».
L’articolo 18 può essere reintrodotto da una legge di iniziativa popolare o queste voci sono solo paturnie dopo la sconfitta?
«Stanca ripeterlo ma quell’articolo aveva un effetto deterrente. Oltre ai numeri delle cause contava il principio. Adesso si è messo nella mani dell’impresa un potere che prima non aveva. Io penso sia un errore e che vada corretto».
Invece di lasciar perdere rilanciate sulla legge elettorale o sbaglio?
«Ma mica è uno scambio. La legge elettorale e la riforma costituzionale si devono migliorare. Una via è ridurre i capolista bloccati. Va bene il premio alla lista ma perché non introdurre l’apparentamento al ballottaggio anche per favorire la partecipazione?».
Voi ripetete i vostri mantra ma Renzi tira dritto. C’è da credere che farà così anche con la riforma costituzionale.
«Spero di no perché sarebbe un danno per la Costituzione. Avere usato il patto del Nazareno come una gabbia impedendo al Parlamento di migliorare quel testo rende la riforma meno solida. Lo ripeto al premier, devi avere più fiducia nei tuoi gruppi parlamentari. Quando lo hai fatto, come su Mattarella, non te ne sei pentito».
Del Rio dice che voi avete un problema con la modernità.
«Ho visto che cita anche la Cdu come modello ma gli ricordo che il suo partito sta nel Pse. Comunque gli ho risposto ieri prima di andare a caccia con l’arco per procurare il cibo del pranzo e gli ho detto che la critica mi sembrava ingenerosa. Non si è più moderni se si cancella la sinistra».

Corriere 23.2.15
«Dialogo, no alle minacce. Si usa un punto del Jobs act per aprire altre questioni»
Guerini: Boldrini dovrebbe pesare ogni parola, serve equilibrio
intervista di Alessandro Trocino


ROMA «Non si possono confondere i piani e minacciare di far mancare il voto. Nel Pd c’è stato un dialogo ampio e il ruolo del Parlamento è sempre stato rispettato». Lorenzo Guerini, vicesegretario democratico, risponde alla critiche arrivate dalla minoranza del partito dopo il varo del Jobs act.
La minoranza è in guerra. Stefano Fassina pensa a un coordinamento dei «dissidenti» per poter pesare di più sui punti critici delle prossime riforme.
«Non capisco come si possa utilizzare una divergenza di opinioni su un singolo passaggio del Jobs act per aprire questioni che con l’attuazione della delega lavoro non c’entrano nulla».
Teme che la minoranza voglia farvi una sorta di ricatto o di veto?
«Non voglio usare questi termini, ma credo che sarebbe un grave errore confondere i piani».
Però dopo il varo del Jobs act c’è stata una mezza rivolta nel Pd.
«Sul merito, il governo era impegnato ad attuare una delega, votata dal Parlamento dopo un dibattito importante, per rendere più efficiente e moderno il mercato del lavoro. Per estendere le tutele, disboscare le forme contrattuali e ridurre la precarietà».
Obiettivo fallito, per molta sinistra pd.
«Le reazioni nazionali, per esempio delle imprese, e quelle internazionali, danno il senso di come questo passaggio sia ritenuto una svolta importante. Credo che il giudizio debba essere dato complessivamente, sull’obiettivo scelto, cioè la creazione di un contesto che favorisca l’occupazione, e sui metodi scelti».
La minoranza non è d’accordo soprattutto sui metodi. E sottolinea come Ncd canti vittoria.
«Nel Pd c’è stato un percorso di partecipazione molto ampio. Un ordine del giorno, votato quasi all’unanimità, ha approvato la legge delega. E anche Sacconi ci criticò molto».
Si contesta il fatto che il governo non ha tenuto conto, sui licenziamenti collettivi, del parere negativo delle due Commissioni.
«Le Commissioni hanno espresso pareri articolati, che non sono vincolanti ma solo consultivi. Sta al governo decidere se recepirli interamente o in parte».
Ma, come dice Vannino Chiti, ignorare il parere del Parlamento è una scelta «non priva di conseguenze».
«Alla gente credo che interessi poco la nostra dialettica interna. Dobbiamo rimanere sul merito».
Così non rischiate di perdere un pezzo della sinistra del partito?
«Siamo un partito di sinistra e riformista, in cui le diverse storie politiche devono continuare a convivere come elemento di ricchezza, non di difficoltà».
Laura Boldrini ha criticato Renzi, parlando di «uomo solo al comando».
«Un presidente della Camera, figura di garanzia, dovrebbe pesare ogni parola. Ci vuole saggezza, prudenza, equilibrio. Francamente non capisco cosa significhi una frase del genere. Se invece la questione è quella di valutare il rapporto tra partito e leader, il tema non va sottovalutato: abbiamo bisogno di partiti che rappresentino la complessità della società, ma che siano anche connessi a una leadership che sia punto di sintesi e di guida dei processi».
Il leader della Fiom Maurizio Landini lancia una sfida «politica» a Renzi. Come valuta l’ipotesi di una sua discesa in campo?
«È già successo in passato che figure importanti del movimento sindacale siano entrate in politica. Ognuno può far quel che vuole, anche se non ho capito che contributo potrebbe dare Landini. Se il sindacato non fa il suo mestiere, difendere gli interessi dei lavoratori, e confonde il suo ruolo, rischia di muoversi nella direzione sbagliata. Ma non confonderei i desideri di un singolo con quelli del sindacato».

il Fatto 23.2.15
Mancano 37 miliardi
Le imprese non incassano. E Renzi si dà del buffone
A Porta a Porta” il 13 marzo del 2014 disse: “Se non saldo tutto entro l’autunno potranno chiamarmi buffone”
di Marco Palombi


Alla fine al monte Senario non c’è andato nessuno e ai “Servi di Maria”, nel senso dei frati a cui appartiene il relativo convento, non è restato altro che continuare a pregare, lavorare e distillare il liquore “Gemma d’Abeto” come fanno dal 1865. Può sembrare strano, ma il tema di cui si parla è il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione. Breve antefatto. È il 13 marzo 2014 e Matteo Renzi è comodamente assiso sulle poltroncine di Porta a Porta. Bruno Vespa lo titilla sui soldi che lo Stato deve alle imprese, gli propone un suo contratto con gli italiani. Il premier rifiuta, ma s’abbandona alla promessa circostanziata: “Se entro la fine dell’estate, diciamo il 21 settembre che è San Matteo, saranno pagati tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei (nel senso di Vespa, ndr) andrà a piedi da Firenze a Monte Senario”. E se lei perde? Chiede speranzoso il conduttore. “So dove mi mandano gli italiani... ”, toscaneggia l’ex sindaco: “Il minimo che mi aspetto è che mi chiamino buffone”.
ECCO, IL 21 SETTEMBRE è arrivato e Vespa e Renzi non sono riusciti a mettersi d’accordo su chi aveva vinto e chi perso. Geniale la soluzione svelata dall’uomo della Rai via Twitter il 22 settembre scorso: “Matteo Renzi ha accettato sportivamente di salire con me e altre persone in data da destinarsi al santuario di Monte Senario. Entrambi siamo infatti convinti di aver vinto la scommessa”. La carovana, però, non è ancora partita: entrambi forse sono convinti di aver già fatto la scampagnata. La vita, nell’anno secondo dell’era renziana, è soprattutto una questione di opinioni e pure i frati dovranno farsene una ragione. Resta una domanda: è lecito per gli italiani, col permesso dell’interessato, definire Renzi “buffone”? Insomma, li ha pagati o no questi debiti della Pubblica amministrazione?
I NUMERI, SI SA, sono un po’ freddi, ma lasciano poco spazio a quel tipo di dibattito in cui ci si mette d’accordo sul fatto di non essere d’accordo. Tradotto: la risposta è no, non li ha pagati tutti. Per affermarlo basta prendere per buoni i numeri presenti sul sito del ministero del Tesoro. La cifra da cui partire è la stima fornita da Banca d’Italia sui debiti di Stato e enti locali: 91 miliardi al 31 dicembre 2012, oltre la metà dei quali considerati un picco anomalo dovuto a enormi ritardi nei pagamenti delle fatture (invece di 30 giorni la P. A. pagava a 170 e a volte non lo faceva proprio).
Com’è la situazione oggi? A dati aggiornati al 30 gennaio 2015, i soldi stanziati per pagare il dovuto maturato entro il 2012 - che risalgono quasi tutti ai governi di Monti e Letta - sono complessivamente 56 miliardi. Questa cifra, però, esiste solo sulla carta: le risorse effettivamente messe a disposizione degli enti debitori (ministeri, Asl, regioni, enti locali e chi più ne ha più ne metta) ammontano a 42,81 miliardi, vale a dire il 76% dello stanziamento.
E NON È FINITA. Non tutti i soldi esistenti sono già finiti nelle tasche delle imprese: di quei quasi 43 miliardi sono stati pagati davvero 36,483 miliardi, cioè il 65% del totale (a ottobre si era fermi a 32,5 miliardi). Ne mancano insomma almeno una ventina persino rispetto a quanto pianificato dal governo. Nel dettaglio, lo Stato centrale ha pagato 5,7 miliardi su sette totali stanziati; le regioni 21,6 su 33; province e comuni 9 su 16,1 miliardi. I settori più colpiti sono quello della sanità e dell’edilizia: recentemente l’associazione dei costruttori (Ance) ha parlato di 10 miliardi di debiti ancora da pagare alle imprese del settore. Poi c’è l’operazione lanciata dal governo Renzi nell’aprile 2014: la certificazione dei crediti maturati entro il 31 dicembre 2013 con apposito modulo sul sito del Tesoro scontabili in banca grazie a una garanzia statale e, in alcuni casi, all’intervento di Cdp. Anche qui la situazione è in chiaroscuro: a fine 2014 risultano registrate alla piattaforma di certificazione dei crediti 20.945 imprese che hanno presentato 91.423 istanze di certificazione per un valore di quasi 9,8 miliardi di euro. Non tutte le istanze digitali, però, risultano già evase dagli enti debitori: esiste, sempre sul sito del Tesoro, una lista di “istanze senza risposta” che ne elenca a migliaia per cifre superiori al miliardo di euro.
Ecco il riassunto di un report realizzato da ImpresaLavoro su dati Eurostat: “Meno della metà di quanto dovuto è stato pagato: i debiti commerciali maturati dalla P. A. nel 2013 ammontano a 74,2 miliardi di euro, quindi rimangono fuori dall’intervento del governo altri 37,7 miliardi”. La brutta notizia è questa: “Sbaglia, in ogni caso, chi pensa che questi interventi contribuiscano a ridurre sensibilmente lo stock di debito complessivo che lo Stato ha nei confronti delle imprese private. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza: liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo”.
GIÀ NEL 2014, dice il report, “stimiamo che nel 2014 siano già stati consegnati alla P. A. beni e servizi per un valore di circa 158 miliardi di euro e che, in forza dei tempi medi di pagamento, lo stock complessivo del debitorimane fermo a circa 75 miliardi”. Insomma, se il pubblico non comincia a rispettare i tempi di pagamento delle fatture, il traffico a Monte Senario - almeno quello mentale - aumenterà esponenzialmente.

La Stampa 23.2.15
Liberalizzazioni dimezzate. Così funziona la lobby del rinvio
Dal 2006 i farmacisti bloccano ogni riforma: da Monti a Renzi stesso risultato. Così pure i tassisti. Cambiare porti, aeroporti e bus locali? Se ne parla da tempo, meglio rimandare
di Paolo Baroni

qui

La Stampa 23.2.15
Scuola
Precari, cambiano le regole ma c’è il rebus dei ricorsi
Non tutti saranno regolarizzati. Ecco le altre novità del decreto
di Flavia Amabile e Lorenzo Vendemiale


Tra i 120 e i 140 mila precari assunti, superamento delle rigidità imposte dalle graduatorie già nella prima ondata di immissioni, criteri non troppo stringenti ma inequivocabili per definire chi sarà dentro e chi resterà fuori. I provvedimenti saranno licenziati dal Consiglio dei ministri del prossimo fine settimana e saranno contenuti in un decreto legge in un disegno legge delega.
Le grandi sfide in corso sono due. La prima è politica e punta a tenere insieme le diverse anime del Pd e pezzi di centrodestra. La seconda sfida è la più difficile, è lo spettro dei ricorsi che aleggia su qualsiasi impercettibile questione che riguardi le assunzioni nel settore pubblico, figurarsi una riforma come quella che il governo Renzi vuole approvare.
Per questo motivo si sa che i precari che verranno assunti saranno tra i 120 e i 140mila ma il numero esatto non sarà contenuto in alcun documento. Fra gli assunti ci saranno i supplenti che hanno lavorato per più di 36 mesi su un posto vacante e che hanno avuto il via libera a novembre dalla Corte di Giustizia Europea (esclusi invece i prof che insegnano materie ormai eliminate). Ce ne saranno anche molti di più, ma quello che al ministero preme in queste ore è superare i criteri imposti dalle graduatorie ad esaurimento. Si sta cercando una formula giuridicamente valida per far rientrare i futuri assunti andandoli a prendere anche all’interno delle graduatorie di istituto in modo da «cucire sulla scuola il vestito delle assunzioni», per evitare di avere professori con provenienze geografiche o materie di insegnamento non richieste.
È su questo punto che si riversano le aspettative delle migliaia di docenti precari della scuola. Ma i posti non basteranno per tutti i circa 500mila iscritti nelle varie graduatorie. I non abilitati (circa 200mila della terza fascia) hanno meno chance di essere interessati dal provvedimento. Ci sperano invece coloro che hanno un titolo di abilitazione: diplomati magistrali, Pas (percorso abilitanti speciali) e Tfa (tirocinio formativo attivo). Se il criterio privilegiato fosse l’anzianità di servizio, ad essere penalizzati sarebbero soprattutto i più giovani. Qualcuno sicuramente resterà deluso: il ministero per il momento non si sbilancia anche per esporsi il meno possibile a critiche e azioni legali. Assunzioni e organico saranno all’interno del decreto legge. E ci sarà anche il nuovo sistema di progressione di carriera: scatti di anzianità per tutti (il governo ha capito di non potervi rinunciare) e di merito per i docenti che acquisiscono crediti formativi e didattici, ma a discrezione del dirigente scolastico. Anche questo capitolo è oggetto di attrito con la categoria: gli insegnanti temono di vedersi ridotto lo stipendio, i sindacati sono sul piede di guerra per non essere stati consultati.
Il Ministero, però, promette attenzione anche sui «contenuti»: per questo ci saranno novità sui programmi (spazio alle nuove tecnologie, ma anche più italiano, musica e storia dell’arte), e sul fronte dell’alternanza scuola-lavoro. Previsto un pacchetto di 400 ore di stage in azienda per tutti gli studenti del triennio delle scuole superiori, compresi i liceali. Ci sarà la flessibilità delle lezioni che potranno essere personalizzate grazie all’organico in più. Mentre non è ancora chiaro se e come si risolverà la questione paritarie, su cui è necessario un accordo politico con il centrodestra. Nella delega, infine, ci sarà la revisione del testo unico per adeguarlo ai tempi e per garantire un’effettiva autonomia scolastica. E poi la creazione di un nuovo profilo degli insegnanti di sostegno: la proposta della responsabile Scuola del Pd, Francesca Puglisi, è di istituire un unico ciclo da 0 a 6 anni.

tutti i sindacati bocciano la riforma di Renzi: «Una presa in giro» (Cisl); «Solita retorica e nessun impegno concreto» (Cgil); «Kermesse di slogan, aspettiamo i fatti» (Gilda); «Titoli e buone intenzioni, ma neanche un euro per impegno e professionalità degli insegnanti» (Uil)...
dall’articolo di Claudia Voltattorni sul Corsera

La Stampa 23.2.15
Rischio amianto in 2 mila istituti
Interrogazione al ministero
di Carlo Bertini


Sono «solo» il 5% del totale ma sono pur sempre duemila le scuole italiane che espongono i loro studenti a un rischio amianto: gli allarmanti dati del Censis e il caso dell’istituto fiorentino Leonardo da Vinci sono alla base di un’interrogazione del renziano Federico Gelli al ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. «A livello nazionale secondo l’indagine del Censis in Italia ci sono circa 2.000 scuole che espongono oltre 300 mila alunni al rischio amianto. Servono subito più investimenti per tutelare la salute di chi è esposto a potenziali rischi. Il Governo partendo dalla campagna già avviata «scuole sicure» inserisca questa priorità fra i provvedimenti che intende adottare per il miglioramento dell’intero sistema scolastico».
Il caso del Leonardo Da Vinci di Firenze, un prefabbricato in cemento amianto degli anni ’60 con oltre 200 studenti, ha suscitato grave allarme e diverse interrogazioni parlamentari, anche da parte di Sel. A cui il governo, tramite Filippo Bonaccorsi, responsabile dell’unità di missione di Palazzo Chigi per l’edilizia scolastica, ha risposto garantendo la massima attenzione e tutti gli sforzi per reperire risorse. E si potrebbe poi utilizzare anche un bando Inail che ha stanziato 350 milioni di euro per il recupero di edifici da bonificare.
Il deputato Pd Gelli chiede dunque al governo di «verificare la possibilità di attribuire la priorità a tutti gli istituti italiani che si trovano nelle stesse condizioni».
Sono «solo» il 5% del totale ma sono pur sempre duemila le scuole italiane che espongono i loro studenti a un rischio amianto: gli allarmanti dati del Censis e il caso dell’istituto fiorentino Leonardo da Vinci sono alla base di un’interrogazione del renziano Federico Gelli al ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. «A livello nazionale secondo l’indagine del Censis in Italia ci sono circa 2.000 scuole che espongono oltre 300 mila alunni al rischio amianto. Servono subito più investimenti per tutelare la salute di chi è esposto a potenziali rischi. Il Governo partendo dalla campagna già avviata «scuole sicure» inserisca questa priorità fra i provvedimenti che intende adottare per il miglioramento dell’intero sistema scolastico».
Il caso del Leonardo Da Vinci di Firenze, un prefabbricato in cemento amianto degli anni ’60 con oltre 200 studenti, ha suscitato grave allarme e diverse interrogazioni parlamentari, anche da parte di Sel. A cui il governo, tramite Filippo Bonaccorsi, responsabile dell’unità di missione di Palazzo Chigi per l’edilizia scolastica, ha risposto garantendo la massima attenzione e tutti gli sforzi per reperire risorse. E si potrebbe poi utilizzare anche un bando Inail che ha stanziato 350 milioni di euro per il recupero di edifici da bonificare.
Il deputato Pd Gelli chiede dunque al governo di «verificare la possibilità di attribuire la priorità a tutti gli istituti italiani che si trovano nelle stesse condizioni».

La Stampa 23.2.15
Le insidie sulla via del premier
di Federico Geremicca


Ci sono modi migliori, diciamo la verità, per festeggiare il primo compleanno alla guida del governo. Matteo Renzi ha scelto di passarlo in trincea, dove ha dovuto riparare per difendersi dal tiro incrociato delle opposizioni parlamentari, della minoranza del suo partito, della stessa presidente della Camera e ora anche di Maurizio Landini, capo carismatico della Fiom, che giusto ieri ha annunciato: «È venuto il momento di sfidare democraticamente Renzi».
Per il leader dei lavoratori metalmeccanici - questo il senso di una sua intervista a «Il Fatto quotidiano» - la misura sarebbe ormai colma: il braccio di ferro ingaggiato dal premier su temi sensibili come la riforma del bicameralismo e della legge elettorale, e soprattutto il varo definitivo del Jobs Act, renderebbero necessario un salto di qualità nell’opposizione al governo in carica. Ma si tratta di un salto che non prevederebbe - stando ad una lettera di parziale rettifica poi fatta giungere da Landini allo stesso quotidiano - né un suo ingresso in politica né la fondazione di un nuovo partito.
Una precisazione non da poco, e forse determinata dalle stesse reazioni arrivate alla sua intervista.
Dalla minoranza Pd, infatti, erano giunti sostegni ma anche affilati distinguo; e dal portavoce di Susanna Camusso, addirittura un perentorio altolà: «Se Maurizio vuole scendere in politica, tutti i nostri auguri: ma il sindacato è altra cosa...». Il salto di qualità invocato dal leader della Fiom, dunque si ridimensiona: e, stando a quanto afferma lo stesso Landini, si riduce alla «creazione di una coalizione sociale che superi i confini della tradizionale rappresentanza sindacale».
Per Matteo Renzi, insomma, il rischio della formazione di un nuovo soggetto politico alla sinistra del Pd sfuma all’orizzonte, non è faccenda di queste settimane e nemmeno - probabilmente - di questi mesi. Non è notizia da poco (forse è l’unica buona, anzi, in questo clima di festeggiamenti per il primo anno di governo) ma certo non basta a rasserenare un clima che resta pesante. Infatti, per paradossale che possa sembrare - ma il paradosso, naturalmente, è solo apparente - con la risalita del gradimento del premier nei sondaggi d’opinione crescono di tono e d’intensità le critiche di cui viene fatto oggetto.
Se nelle posizioni politiche attualmente note nulla dovesse cambiare nelle prossime settimane, è chiaro - infatti - che il quadro delle alleanze e dei rapporti di forza rischia di farsi così insidioso per l’esecutivo da rendere ardua la navigazione fino all’obiettivo dichiarato: il 2018 (e infatti molti si dicono certi che la legislatura non andrà oltre la primavera 2016...). Col Patto del Nazareno messo al momento in archivio e con la minoranza Pd tornata sulle barricate dopo la breve tregua per l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella, perfino la maggioranza di cui l’esecutivo gode al Senato rischia di farsi esile e incerta. Senza contare la continua e sempre più dura opposizione condotta da Beppe Grillo e dalla Lega di Salvini...
Matteo Renzi, certo, non si dice spaventato: e probabilmente davvero non lo è. Ha scommesso fino all’ultimo euro su riforme - da quella della giustizia a quella della Pubblica amministrazione, fino al Jobs Act - che incrocino l’annunciata ripresa, e spera di riuscire a vedere i primi risultati entro l’estate. Se il «rimbalzo» della ripartenza dell’economia Usa e la fine della recessione in Europa dovessero dare una spinta al rilancio della produzione e dell’occupazione in Italia, lo scenario - anche per Renzi e il suo governo - cambierebbe radicalmente: ed uno show down elettorale non potrebbe più essere derubricato a «fantasia senza fondamento». Vedremo. Certo non è quello che servirebbe al Paese. Ma non sempre le scelte della politica nostrana hanno come stella polare l’interesse della comunità...

Repubblica 23.2.15
Un riformismo con incognite
di Marc Lazar


MATTEO Renzi festeggia il suo primo anniversario a Palazzo Chigi. Da quando è al potere, ha suscitato un incessante fermento.
QUESTO a causa della sua giovane età, del suo modo di comunicare, delle sue provocazioni e del suo programma. La sinistra radicale lo ha eretto a simbolo inviso del social — liberalismo, come già in passato Tony Blair, cui per l’appunto Renzi si ispira. La sinistra riformista è divisa tra gli entusiasti, che vedono in lui un esempio da seguire (come l’influente think tank inglese Policy Network), e altri che, per quanto interessati, manifestano un certo scetticismo. Come mai tanta attenzione nei confronti di Matteo Renzi? Perché al di là del suo stile del tutto particolare, e dei molti problemi specifici dell’Italia — tra cui quelli delle istituzioni, del sistema elettorale, del debito pubblico, della giustizia, della pubblica amministrazione, della scuola, della corruzione, del Mezzogiorno ecc. — Matteo Renzi affronta una serie di sfide comuni, che destabilizzano la sinistra europea nel suo complesso. Tre sono quelle che si impongono più chiaramente.
Innanzitutto e soprattutto, la situazione economica e sociale, con tassi elevati di disoccupazione in molti Paesi, l’inasprimento delle disuguaglianze, la povertà in aumento, e di conseguenza una sempre più diffusa esasperazione. In secondo luogo, la crisi della rappresentanza democratica in quasi tutti gli stati membri e nei rapporti con l’Europa, che si traduce in una crescente diffidenza verso le istituzioni e i partiti tradizionali. Infine, le tensioni nelle società, soprattutto a fronte dell’immigrazione e delle minacce di attentati terroristici. Tutto ciò ha generato due fenomeni politici di vasta portata. Da un lato, lo sviluppo dei movimenti di protesta, sovranisti o populisti, molto diversi tra loro ma concordi nel contrapporre «il popolo» alla «casta» (termine ormai diffuso in tutta Europa); dall’altro, il crescente rifiuto della costruzione europea, talora accompagnato, soprattutto nell’Europa del Sud, dall’esacerbazione di sentimenti anti- tedeschi.
In questa situazione la sinistra riformista si trova, anche più spesso della destra di governo (tranne che in Italia) in difficoltà. Al di là di qualche lieve differenza, si è allineata alle politiche europee di austerità e talora di rigore, di risanamento dei conti pubblici, di liberalizzazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro, che scontentano i suoi tradizionali sostenitori ma si propongono di sedurre altre fasce dell’elettorato. È investita in pieno dalle critiche rivolte ai partiti politici, accusati di confiscare, se non addirittura di corrompere la democrazia, e all’Europa, che è ormai una delle pietre angolari della sua identità. Ed è inoltre accusata di essere stata in passato troppo compiacente e lassista nei confronti degli immigrati. Su questi temi, Renzi interpreta da un anno una partitura seguita da vicino anche dai suoi omologhi europei, sebbene non si ispiri direttamente ad essa, dato che non è mai possibile esportare o trasporre meccanicamente una singola esperienza politica.
Matteo Renzi ha istituito il bonus di 80 euro a favore dei lavoratori con bassi salari, e ha lanciato il jobs act, in contrasto con la Cgil. Al tempo stesso, al pari di François Hollande e Manuel Valls, cerca di strumentalizzare la vittoria di Syriza e il successo di Podemos in Spagna rilanciando il dibattito sull’austerità in Europa. Per riconquistare la fiducia nella politica punta sulle riforme del Senato e della legge elettorale, sulla personalizzazione a oltranza del suo partito, attraverso una comunicazione incessante e un rapporto diretto con gli elettori, al di là dei gruppi di interesse, così come sulla critica al vecchio costume politico e sul tentativo di creare una classe dirigente più giovane e aperta alle donne. Si presenta come un federalista europeo, ma critica duramente i funzionari di Bruxelles e Angela Merkel. Infine cerca di far leva su una forma di orgoglio nazionale attraverso una narrativa per il futuro, volta a rifondare il senso di comunità degli italiani. In un certo senso, Renzi è il prototipo del leader del XXI secolo: pragmatico, post-ideologico, dotato di un genuino fiuto politico, «killer» dei suoi avversari e concorrenti, incline a flirtare con una forma di populismo.
Ma per valutare realmente l’azione di Matteo Renzi e quella dei suoi «compagni» socialisti oggi al potere, soli o in coalizione, occorre distinguere tra l’effetto annuncio delle riforme (materia nella quale Renzi è un virtuoso) dalla loro realtà e dai loro effetti concreti. Al momento il divario resta considerevole. Occorrerà altresì cercare di comprendere quale sia il loro significato per la sinistra e per chi si riconosce ancora in questa nozione: un rinnovamento, un superamento del fossato che la divide dalla destra — secondo alcuni ormai anacronistico — o un tradimento? Il dibattito su questo punto è tutt’altro che chiuso.
Traduzione di Elisabetta Horvat

il Fatto 23.2.15
Il sindaco marziano
Marino: “Non mi piace il Pd delle cene costose”
di Giampiero Calapà

Il sindaco “Marziano” passa la domenica in Campidoglio, tra le mani una lettera: “Studenti olandesi promettono una raccolta fondi per riparare i danni alla Barcaccia”.
Sindaco, ha già detto che non si tratta di una militarizzazione di Roma, ma 500 soldati in più non fanno pensare a questo?
L’esercito serve per presidiare i luoghi sensibili. In modo da liberarepoliziaecarabinieri. L’ideadi una città con la sicurezza affidata all’esercito è il modello del mio predecessore Gianni Alemanno. Miinquieterebbeemitroverebbe in forte disaccordo, nonostante il massimo rispetto per i militari. Ma Roma ha una carenza d’organico quantificabile tra i cinquemila e gli ottomila agenti. Dentro le Mura Aureliane c’è un agente ogni 250 abitanti. Fuori, nelle periferie, uno ogni 2500. Londra ha investito 800 milioni di euro in telecamere dopo gli attentati del 2005; Hollande ha stanziato 500 milioni dopo la strage al Charlie Hebdo.
Ritiene inadeguati il questore D’Angelo e il prefetto Pecoraro?
Devo rispondere ai cittadini sui rifiuti, suidisservizineltrasporto, sulle buche, ma non posso rispondere dell’ordine pubblico. Il questore si è vantato perché non ci sono stati morti, ma ci mancherebbe. Il cuore della Capitale è stato messo a ferro e fuoco da barbari violenti, hanno colpito la Barcaccia senza la protezione di nessuno. Gli agenti c’erano, ma gli ordini erano sbagliati.
In passato abbiamo visto manganellare gli operai di Terni...
Non chiedo violenza. Ma gli ordini dovevano essere diversi.
Sembra esasperato...
Sa cosa propongo ai responsabili dell’ordine pubblico? Li invito a girare per la città con la mia faccia. La proposta del minisindaco dell’Eur Santoro di circoscrivere a una zona la prostituzione nasce dal confronto quotidiano con una nonna che torna dal parco con la nipote, dopo che la piccola si è presentata con in mano un preservativo pieno di sperma. Queste cose le ripeto al prefetto Pecoraro a ogni singola riunione.
Nei prossimi giorni ci sarà il comitato per la sicurezza, come potrete collaborare ancora?
Il ministro Alfano ha detto che saràpresente. Ilmioassessorealla legalità Sabella non si ricorda la presenza di un ministro a un’occasione simile dai tempi delle stragi di mafia a Palermo.
Lei parla con Alfano e non con prefetto e questore, quindi?
Non posso basare il compito istituzionale su rapporti e umori personali. Motivi per sentirmi a disagio ne avrei: sulla proposta per la prostituzione il prefetto ha parlato di “boutade”; il questore ha detto che ero “perseguibile per induzione alla prostituzione”.
L’Isis è una minaccia concreta?
Roma è una città molto esposta a questi codardi: ospitiamo sedi diplomatiche, il Vaticano, un numero altissimo di monumenti che, se colpiti, darebbero un’orribile ma reale pubblicità.
Sabato c’è la Lega, i centri sociali organizzano un controcorteo...
Salvini è tra i principali oppositori alla mia richiesta di maggiori fondi per far fronte agli oltre 1400 eventi nazionali. Per il 2014 mi hanno dato 110 milioni. Londra prende 2 miliardi l’anno e Parigi 800 milioni.
Mafia Capitale: l’assessore Sabella ha detto che la situazione degli appalti è insostenibile e che con la corruzione siamo destinati a convivere...
Era insostenibile. Proprio Sabella ha individuato falle e ha presentato provvedimenti che, se non debellano del tutto la corruzione, poco ci manca.
Il Pd romano è commissariato dal presidente Orfini. Risultati?
Ora percepisco il Pd come un sostegno più solido ed efficace. Lo è stato nella questione Affittopoli. Abbiamo scoperto noi il vaso di Pandora, la mia amministrazione ha denunciato le case con vista Colosseo a 80 euro al mese. Prima non esisteva neppure un’anagrafe del patrimonio immobiliare. Gente come Alfio Marchini dice che me ne sono accorto dopo un anno e mezzo. Io dico che 10 anni fa ero chirurgo negli Usa; lui, erede di una dinastia di costruttori forse, se sapeva qualcosa, non denunciava perché stava in Argentina sui campi di polo.
C’è la questione morale nel Pd?
L’impoverimento della classe dirigente di tutta la politica è palese.
Sta dicendo che preferirebbe il partito delle Frattocchie a quello delle cena da mille euro a testa?
Sì, anche, certo.
Nei giorni scorsi Renzi non l’ha sostenuta...
Mi è bastato che si esprimesse in maniera severa su quanto accaduto. Ho avuto diversi colloqui con il sottosegretario Delrio e col ministro Gentiloni, talmente entusiasta del suo compito che mi ha confidato: “Non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi battuto alle primarie”.
Sul Jobs Act lei sta con Landini o con Renzi?
Landini rappresenta una sinistra radicale che mi piacerebbe vedere attratta nel grande contenitore del Pd. Bisogna aspirare a un modello di società diverso da quello del posto fisso a vita: ma questo richiede ulteriori progressi nelle tutele a disposizione. Oggi non li vedo.
A Roma c’è un problema di pluralismo dell’informazione legato al potere del costruttore Caltagirone, proprietario del Messaggero?
Sì, è parte del problema. Abbiamo chiuso Malagrotta, sostituito 198 mila punti luce, portato la raccolta differenziata dal 23 al 43 per cento, aumentato i posti negli asili nido. Ma la trasformazione spaventa perché è nemica dell’illegalità, dei favori e dei privilegi.

Repubblica 23.2.15
Sabato prossimo, 28 febbraio
A Roma un fronte anti-Salvini
“Ci odia, anche noi in piazza”
di Mauro Favale


ROMA . Da quasi due mesi, il 28 febbraio è segnato in rosso sui calendari degli attivisti dei centri sociali e degli antifascisti romani. Da qualche giorno, anche la Questura della capitale ha acceso i suoi fari sull’appuntamento, a maggior ragione dopo le polemiche sull’ordine pubblico seguite al caos provocato dai tifosi del Feyenoord.
Mancano 6 giorni al comizio di Matteo Salvini in piazza del Popolo e in molti quartieri di Roma spuntano scritte e manifesti contro la manifestazione. «Mai con Salvini» è il nome (e un hashtag sui social network) scelto da un raggruppamento di sigle pronto a rovinare la festa al leader della Lega, al suo debutto in una piazza romana. Ci sono i centri sociali e i movimenti per la casa, i comitati per l’acqua pubblica e l’Anpi, Rifondazione e Sel, sindacati di base e associazioni antirazziste. La scorsa settimana si sono visti in un’affollata assemblea alla Sapienza per decidere percorso e modalità di una contro-manifestazione alla quale il questore di Roma Nicolò D’Angelo guarda con una certa apprensione.
Per ora il corteo anti-Salvini non è stato autorizzato né per il luogo di partenza (piazza Vittorio, cuore del multietnico Esquilino), né per il suo scioglimento (Sant’Andrea della Valle, a due passi dal Senato). La preoccupazione delle forze dell’ordine sarà quella di evitare qualsiasi contatto tra le due manifestazioni e, soprattutto, tenere a distanza centri sociali e CasaPound. I “fascisti del Terzo millennio”, zoccolo duro della Lega a Roma, saranno infatti presenti in piazza del Popolo che, secondo le stime del Carroccio, potrebbe riempirsi con più di 50.000 mila persone. Finora sono previsti 150 pullman dal nord e quasi la metà dal sud. L’appuntamento è alle 15. Insieme al palco, la scenografia sarà costituita da alcuni trattori. Al fianco di Salvini dovrebbe esserci Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia.
Da parte loro, quelli di “Mai con Salvini” hanno lanciato un appello al quale stanno aderendo artisti e cantanti. Tra le firme, 99 Posse e l’attore Elio Germano. «Pensiamo che Roma — scrivono — non possa essere utilizzata come una passerella elettorale da personaggi che nel corso degli anni l’hanno continuamente denigrata, definendola “ladrona” e o peggio». Tre settimane fa, sul camion che apriva un corteo anti-sfratti, campeggiava uno striscione: il disegno di Totti che, in sforbiciata, scalciava la sagoma di Salvini.

Corriere 23.2.15
Il mausoleo dei Plautii
Il tesoro romano di Tivoli è in una discarica a cielo aperto
di Sergio Rizzo


Il video della web inchiesta
«Idea! Mettiamoci un paio di oblò...». L’idea venne a qualcuno alla Regione Lazio, con l’illusione di placare le proteste contro il muro della vergogna. Succedeva dieci anni fa, quando la barriera di cemento armato che avrebbe dovuto salvare dai frequenti allagamenti un’area a ridosso del fiume Aniene era stata appena tirata su. Gli oblò avrebbero dovuto permettere ai turisti di dare una sbirciatina (sigh!) al di là del muro, dove lo spettacolare mausoleo dei Plautii, che con la celebre tomba di Cecilia Metella sull’Appia Antica è uno dei rarissimi esempi di sepolcri monumentali delle famiglie nobiliari romane dell’età tardo repubblicana, stava precipitando nel degrado. Gli oblò ebbero il buon gusto di risparmiarceli. Il muro, invece, è ancora lì. E gli allagamenti puntualissimi.
La storia di questa follia può essere presa a esempio degli sprechi insensati che produce l’ottusità di certe burocrazie, ma anche di quello che succede al nostro e prezioso patrimonio quando ci sono in ballo interessi economici privati. Il mausoleo dei Plautii era il primo monumento che veniva incontro ai viaggiatori del Grand Tour, di cui Tivoli era tappa fondamentale. Per arrivare a Villa Adriana, maestosa residenza dell’imperatore Adriano, Wolfgang Goethe e Giovan Battista Piranesi ci passavano davanti appena dopo aver attraversato il ponte Lucano, costruito fra il crepuscolo della repubblica e l’alba dell’impero romano. Su quel ponte che si poteva ancora attraversare in auto trent’anni fa e oggi ha tre delle cinque arcate sepolte dai materiali trasportati dal fiume, come i detriti scaricati dalle industrie di travertino e mai rimossi, si incontrarono papa Adriano IV e Federico I Barbarossa: incontro che sancì una cosetta da nulla come la nascita del Sacro Romano Impero.
Tanto basterebbe perché quel ponte e tutto quello che c’è intorno, compreso lo straordinario mausoleo dei Plautii con iscrizioni ancora quasi perfette nelle quali si citano l’impresa militare della conquista della Britannia, fosse considerato un’attrazione formidabile custodita con la massima cura. E anche una fonte di reddito e lavoro non indifferente. Accadrebbe in qualunque altro Paese civile al quale fosse capitato di avere un’eredità tanto preziosa. Ma non in Italia. Non a Tivoli, che pure fu il cuore dell’impero romano nei suoi anni più smaglianti. Ponte e mausoleo sono inaccessibili, chiusi da quel muro che taglia in due l’antica via Tiburtina e da una barriera di lamiera arrugginita. Intorno, ovunque immondizia che nessuno raccoglie: bottiglie di plastica, lattine, stracci, siringhe, cartacce, liquami. Da un lato, i ruderi di una vecchia osteria seicentesca diroccata che non crollano del tutto soltanto perché indecorosamente puntellati. Alle sue spalle, una orrenda superfetazione abusiva abusivamente occupata da alcuni rom. E poi il mausoleo: il basamento sepolto da una colata (abusiva) di cemento mentre la parte che ne è stata risparmiata viene divorata dalla vegetazione .
Non che prima della costruzione di quel muro la cura di quel sito, che oggi è per l’organizzazione americana World Monument Fund fra i cento monumenti del pianeta da salvare, fosse molto migliore. La dimostrazione è che quella straordinaria area archeologica è da decenni stritolata fra capannoni industriali e brutture edilizie di vario genere. Ma il muro è stato un autentico colpo di grazia. I lavori vengono completati dall’Ardis, l’Agenzia per la difesa del suolo della Regione Lazio, nell’estate del 2004, con la giustificazione che la barriera dovrebbe difendere la zona dalle esondazioni dell’Aniene. Sindaco di Tivoli è l’attuale capogruppo del Pd al consiglio regionale del Lazio, Marco Vincenzi. Ministro dei Beni culturali è Giuliano Urbani di Forza Italia, che evidentemente non può opporsi. La Regione costruisce il muro riempiendo anche l’area di cemento senza il benestare della Soprintendenza, e una successiva denuncia al tribunale di Italia Nostra e del Wwf viene archiviata con la motivazione pilatesca che le opere «costituiscono esercizio di discrezionalità amministrativa».
Peccato che non sia mai stato fatto uno studio sulle cause delle esondazioni. E peccato che quella «discrezionalità amministrativa» che tanto diligentemente ha sottolineato il magistrato nella sua sentenza non abbia neppure risolto il problema. Perché manca un collettore fognario, e continua ad allagarsi tutto all’interno e all’esterno del muro. Incuranti del ridicolo, alla Regione hanno allora pensato di risolvere la faccenda installando delle pompe idrovore che aspirano l’acqua dalla strada e la sputano verso il ponte e il mausoleo. Il tutto senza che quell’opera, a dieci anni di distanza, sia stata ancora collaudata. Chi mai potrebbe collaudare un tale abominio?
Più che logica, quindi, la decisione del nuovo arrabbiatissimo sindaco di Tivoli, Giuseppe Proietti, finalmente determinato a prendere di petto la questione, che nel luglio scorso ha chiesto alla Regione di revocare la vecchia pratica di eliminazione del vincolo di esondazione: con la motivazione che quella roba non serve a niente. I quattro milioni e mezzo di euro spesi non sono nemmeno serviti a evitare che il Comune sia sommerso da cause di risarcimento per i danni provocati dagli allagamenti. Con esborsi milionari anno dopo anno. Mentre il protocollo d’intesa per il recupero dell’area, firmato addirittura nel 2005 sull’onda delle proteste dei cittadini e delle associazioni ambientali, è ancora lettera morta .
E qui, riavvolgendo il nastro, vengono tanti pensieri. Pure che lo scempio non sia solo frutto di umana stupidità e incoscienza. Il problema di quel tratto dell’Aniene è noto da decenni: ha a che fare con il restringimento artificiale del fiume causato dai detriti. Per risolverlo non serve un muro, ma una seria opera di bonifica e il rispetto del divieto (esistente per legge) di scaricare materiali nell’alveo. Lo capirebbe anche un bambino. Perché allora si è scelto di alzare una barriera di cemento armato di quattro metri, spendendo inutilmente tutti quei soldi? C’è chi ha tirato in ballo la legge in materia di difesa idraulica emanata dopo il disastro della frana di Sarno, nel 1998. E c’è chi, come Italia Nostra e Wwf che l’hanno scritto nell’esposto rigettato dal tribunale di Tivoli, ha avanzato il sospetto che l’obiettivo non era tanto quello di evitare le esondazioni quanto quello di far venir meno il vincolo alla zona antistante Villa Adriana. Per dare via libera a una lottizzazione. Pura fantasia, dicono... Anche se qualche volta la realtà supera la fantasia.

il Fatto 23.2.15
La corrente di Davico
“Il governo spacca le toghe per controllarle”
di Antonella Mascali


Brutte notizie per Renzi anche dal fronte togato. La corrente conservatrice, ultimamente filogovernativa, di Magistratura indipendente perde alcuni dei suoi uomini migliori che fondano un nuovo gruppo al comitato direttivo centrale (Cdc) dell’Anm. Sei i componenti del Cdc che lasciano Mi: i cosiddetti antiferriani, duramente critici sulla commistione fra politica e magistratura creata dall’ex segretario di Mi Cosimo Ferri quando accettò l’incarico di sottosegretario alla Giustizia del governo Letta (in quota Berlusconi) e ora del governo Renzi (in veste di “tecnico”). Così Mi resta con soli 5 componenti e quindi per chiedere una riunione del Cdc deve appoggiarsi ad almeno un membro esterno (sono necessarie 6 firme) come ha fatto per l’assemblea di ieri in cui ha chiesto lo sciopero, perdendo, contro la nuova legge sulla responsabilità civile.
Sergio Amato, pm antimafia di Napoli; Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Messina; Giuseppe Ferrando procuratore di Ivrea; Anna Giorgetti, giudice del tribunale di Varese, Gianni Pipeschi, pm di Vicenza e Stefano Schirò, consigliere alla corte d’Appello dell’Aquila, sono i magistrati che hanno costituito il nuovo gruppo Autonomia e Indipendenza.
Nel documento si legge che “all’esito dell’ultima assemblea nazionale di Mi ci è parso evidente che il processo di mutazione genetica del gruppo si era irreversibilmente realizzato. Nonostante i nostri richiami, da vario tempo, alla necessità di rispettare i valori fondanti di Mi, abbiamo purtroppo preso atto che nata proprio per tutelare l’indipendenza della magistratura dalla politica, ha modificato il suo stesso Dna, accreditandosi ormai nel panorama associativo e politico come gruppo il cui leader ricopre un incarico di governo e le cui ingerenze nelle scelte strategiche di maggiore rilevanza di Mi sono state evidenti”. La premessa, esplicita nel criticare la condotta di Ferri, pur mai nominato, porta a una considerazione inevitabile: “In questa prospettiva, qualunque battaglia a tutela dell’autonomia ed indipendenza della magistratura è poco credibile”. Secondo i fuoriusciti, Mi ha bersagliato l’Anm provocando o cercando di provocare un indebolimento: “Invece, mai come oggi deve essere forte ed autorevole per contrastare con efficacia le inutili e umilianti riforme proposte della politica non nell’interesse della giustizia ma solo in danno dei magistrati”.
UN INDEBOLIMENTO che Autonomia e indipendenza vede come obiettivo comune con “la politica”. E rilevano che “non a caso negli ultimi tempi da parte di Mi si inizia a discutere di forme di sindacato alternativo”. La contrarietà all’alternativa all’Anm viene spiegata nel documento: “Nessuno più di noi può volere più sindacato nell’attività associativa... ma, fermo restando le ragioni della nostra attuale opposizione ad una linea associativa ritenuta insufficiente per l’adeguata tutela delle prerogative professionali dei magistrati, non possiamo accettare che questo patrimonio culturale comune, questa risorsa fondamentale possano essere strumentalizzati”. Ed ecco un altro passaggio dedicato alla politica: “Vuole normalizzare la magistratura anche alimentando le divisioni interne all’Anm... e ciò persino dentro l’organo di autogoverno (il Csm). Tale tentativo della politica di trovare alleati tra i magistrati contro la magistratura non va sottovalutato”. Il quadro politico attuale deve portare, secondo i firmatari, ad “ esprimere contrarietà a un confronto meramente apparente con il governo e portare avanti un impegno sindacale che vada solo nella direzione della reale tutela professionale dei magistrati nell’interesse del più efficiente funzionamento della giustizia”. Infine, i valori dichiarati che hanno spinto alla costituzione del nuovo gruppo all’interno dell’Anm: “Proprio per portare avanti realmente e lealmente i valori dell’autonomia ed indipendenza della magistratura, per agire in piena libertà rispondendo alla nostra coscienza e avendo solo i colleghi come i nostri unici interlocutori, ci costituiamo all’interno del Cdc, quindi lasciamo il gruppo di Magistratura Indipendente”. Nel fine settimana si costituirà la nuova corrente durante un’assemblea, chiamata con due parole scelte non certo per caso, come ci spiega il leader di Autonomia e Indipendenza Piercamillo Davigo, consigliere di Cassazione: “Venerdì ci sarà un convegno a Roma dal titolo ‘Rottamare anche la giustizia? ’ Il giorno dopo si svolgerà un’assemblea per dare vita a questo nuovo gruppo di Autonomia e Indipendenza. Due parole scelte perché si trovano nella Costituzione. C’è una caratteristica rispetto agli altri gruppi: indipendenza dell’ordine e dei singoli magistrati non implica affatto alla rinuncia, o alla messa in secondo piano, della funzione sindacale dell’associazione, altrettanto importante della difesa politica istituzionale. Rispetto a Mi, non tratteremo l’Anm come un nemico, perché è la casa di tutti i magistrati. Cosa diversa è chiedere, invece, un cambio di atteggiamento sulla difesa sindacale”.

La Stampa 22.2.15
Lite tra le toghe, perde la linea dura
Contro la responsabilità civile per i magistrati non passa l’idea dello sciopero
L’Anm: verrebbe interpretato come la mossa di una casta, ma la protesta continua
di Francesco Grignetti


L’incubo è di passare per una delle tante caste di questo Paese. E perciò la maggioranza dei magistrati ingoia faticosamente il rospo, ma non se la sente di proclamare sciopero contro il governo Renzi sul ddl che modifica la Responsabilità civile dei giudici. Eppure è stato necessario un interminabile pomeriggio di discussioni e liti al vertice dell’associazione nazionale magistrati, perché una combattiva minoranza, invece, lo sciopero lo voleva eccome.
Un errore strategico
«Lo sciopero - si affanna a spiegare il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli - sarebbe stato un errore strategico. Pur consapevole che la riforma voluta dal governo è sbagliata e avrà pesanti ricadute, uno sciopero avrebbe il valore di una testimonianza disperata e impotente. Nel peggiore dei casi sarebbe additato come la chiusura di una casta che difende i suoi privilegi». Appunto. I magistrati hanno sperimentato sulla loro pelle quanto siano efficaci i sarcastici twitter del premier.
Martedì la legge
La Camera voterà martedì la riforma. Un passaggio quasi epocale, considerando che si ritoccano le regole della legge Vassalli risalente al 1988. «Il testo - dice Danilo Leva, Pd, relatore - è molto rigoroso ed equilibrato. Garantisce l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, confermando il sistema della responsabilità indiretta, ma allo stesso tempo supera le inefficienze evidenziatesi nel tempo».
L’ultima protesta
In vista di questa scadenza, alcune correnti della magistratura - Proposta B, Magistratura indipendente, Autonomia e Indipendenza - avevano spinto per proteste eclatanti. Secondo Andrea Reale, leader di Proposta B, «questa proposta di legge è scandalosa: un potere dello Stato è sotto attacco, lo sciopero non è un isterismo, ma un segnale irrinunciabile». Gli altri gruppi, maggioritari, però, non la pensano così. Secondo Anna Canepa, leader di Magistratura Democratica, «se lo ritenessimo utile, fruttuoso per il nostro obiettivo, potremmo anche praticare lo sciopero. In passato ne abbiamo fatti. Non mi spavento. Ma in questa fase non lo ritengo utile. Molti colleghi non lo farebbero, neanche in forma di sciopero bianco. Ciò che conta, in uno sciopero, è la sua riuscita, altrimenti diventa un boomerang». Stessa posizione per Unicost.
Il documento finale
L’Anm non rinuncia a protestare. Chiederà un incontro con il nuovo Capo dello Stato, Sergio Mattarella, per evidenziare quelle parti della riforma che ritengono «incostituzionali». Hanno scritto anche un documento, una sorta di lettera aperta ai parlamentari e ai cittadini: la legge è «incostituzionale» e «punitiva». Nulla - conclude l’Anm - «ci impedirà di continuare a chiedere alla politica di assumere le proprie responsabilità: perché affronti i veri problemi che risiedono soprattutto in una domanda incontrollata di giustizia, con sopravvenienze ingestibili».

La Stampa 23.2.15
Cento clochard distribuiscono il nuovo libro di preghiere del Papa
Durante l'Angelus di oggi i senzatetto aiutano a diffondere in piazza San Pietro «Custodisci il cuore», un volumetto di trenta pagine per la Quaresima, dono di Francesco
di Andrea Tornielli

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La Stampa 22.2.15
Il Papa: «Pregate contro difetti e tentazioni miei e della Curia»
di Domenico Agasso

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Corriere 23.2.15
La confessione (inopportuna) di Marco Pannella, padre per caso
di Giorgio Montefoschi


Durante una trasmissione in una tv abruzzese, Teleponte, Marco Pannella ha rivelato di essere stato padre almeno due volte. Una, forse. Un’altra, certamente. Lei era una donna sposata, una napoletana, con cognome francese. Non sarà stata mica Carla Boursier, la donna amata dal protagonista di Ferito a morte , il romanzo di Raffaele La Capria? Ma no! Quella è roba di La Capria. Però, a Napoli, di signore di una età rapportabili a quella di Pannella, napoletane con cognome francese, ce ne sono. Quante saranno, a conti fatti? Non
è che Pannella, dopo aver rispettato nobilmente per tutto questo tempo il silenzio per non offendere il marito tradito e inguaiare la signora, si è fatto trascinare dalla tentazione di entrare nel circo mediatico dei settimanali scandalistici, avviando la corsa di dubbio gusto all’identikit? Comunque, Pannella, un anticonvenzionale, la rivelazione non l’ha fatta fare ad altri: l’ha fatta lui stesso. E parlando in abruzzese. «Mo’ non saccio chhiu’ se ci rimase» ha dichiarato riferendosi al secondo figlio. Quello che stupisce, considerato il tono giocoso suggerito dal dialetto, è la spensierata leggerezza, e il discorso chiuso lì. Possibile che Marco, parlando di un bambino suo che ha visto solo qualche volta di sfuggita, non abbia sentito il bisogno di aggiungere se ha provato tenerezza per quel bambino, nostalgia, rimpianto? Pare che in altra occasione Pannella abbia detto di aver riflettuto con la sua compagna Mirella, a proposito di avere figli, e abbia deciso di no. Non ne aveva voglia. Insomma, quel figlio sicuro, e forse l’altro, gli sono «scappati». Sì, deve essere così. Oppure, Pannella è stato un precursore di quei generosi donatori sconosciuti che incrementano il genere umano e poi non si preoccupano minimamente in giro per il mondo ci sono dei ragazzi che potrebbero essere «tutto il ritratto di suo padre»?

Repubblica 23.2.15
Grecia, la resa di Tsipras
Restano i tagli agli statali, ad Atene ancora austerity
La base di Syriza in rivolta: tradite le promesse elettorali
Il governo punta a colpire l’evasione e rilancia le privatizzazioni
Ecco il piano di Atene addio promesse elettorali deregulation, riforma Stato e un’apertura ai privati
Forse l’unica misura umanitaria sarà il blocco della confisca di case
di Ettore Livini


ATENE La Grecia di Alexis Tsipras, con buona pace delle promesse elettorali, riparte dalla Troika. «É un’istituzione che non riconosciamo e non metterà più piede ad Atene», aveva garantito il leader di Syriza la sera del 25 gennaio, dopo la vittoria alle elezioni. La realpolitik e la drammatica fuga di capitali dalle banche hanno però avuto la meglio. Il premier è stato costretto a raggiungere un compromesso al ribasso all’Eurogruppo («senza un accordo, da oggi avremmo dovuto imporre controlli alla circolazione di denaro e il paese sarebbe collassato », racconta uno dei negoziatori del Partenone). E stamattina formalizzerà la retromarcia “forzata” inviando per approvazione a Ue, Bce e Fmi — alias la vecchia Troika — il piano di riforme del governo, l’ultima carta per tenere Atene in Europa.
«É la prima volta dal 2010 che siamo in grado di decidere noi come salvare il paese senza farci imporre la ricetta da altri. Non taglieremo le pensioni e non alzeremo l’Iva», è il mantra soddisfatto del Presidente del consiglio. Le sei pagine di documento in partenza per Bruxelles sono però una lista di buoni propositi: lotta alla corruzione, deregulation, riforma del pubblico impiego, guerra totale a oligarchi, burocrazia, cartelli ed evasori fiscali e persino un impegno a non bloccare le privatizzazioni. Una lista che ricalca a grandi linee i capisaldi del vecchio memorandum e dove brillano per assenza molte delle promesse elettorali di Syriza. Se le “istituzioni” — nuovo nome del trio dei controllori — daranno dare l’ok, Bruxelles formalizzerà la proroga di 4 mesi al piano di salvataggio della Grecia, avviando l’iter dell’approvazione parlamentare in Germania, Olanda, Estonia e Finlandia. In caso contrario si riaccenderà l’allarme rosso sul Partenone: domani verrebbe convocato un nuovo Eurogruppo che — a quel punto — rischierebbe di avere all’ordine del giorno la gestione ordinata dell’uscita di Atene dall’euro.
Tsipras e i suoi tecnici stavano lavorando nella serata di ieri per provare a infilare nel pacchetto una minima parte dei provvedimenti umanitari previsti nel programma del partito. Uno “scalpo” necessario per placare il malumore dell’ala più radicale di Syriza e della parte più ideologica del suo elettorato. «L’idea allo stato è provare a strappare il via libera per bloccare la confisca della prima casa di chi non riesce più a pagare le rate dei mutui», racconta uno dei negoziatori. Sperando che Ue, Bce e Fmi — comprendendo le ragioni di politica interna — non si mettano di traverso.
L’appuntamento di oggi, a Bruxelles lo sperano tutti, dovrebbe andare via liscio. Il vero esame della Grecia — dicono — sarà ad aprile quando il premier e il ministro Yanis Varoufakis presenteranno il piano targato Syriza — comprensivo di cifre e coperture al centesimo — per portare il paese fuori dall’emergenza. Lì si giocherà la partita finale: se il premier riuscirà a convincere i creditori che il suo governo è davvero in grado di attaccare alla radice i problemi appena intaccati da Samaras & C. — corruzione, burocrazia ed evasione su tutti — Ue, Bce e Fmi potrebbero non solo sborsare l’ultima tranche di finanziamenti, ma mettersi al tavolo per ragionare su come rendere sostenibile a lungo termine il debito ellenico.
Si vedrà. Il vero problema di Tsipras oggi è convincere la Grecia che le tante promesse fatte pri- ma del voto non si potranno materializzare dalla sera alla mattina. «Appena eletti vareremo l’aumento dello stipendio minimo, la luce gratis alle 300mila famiglie più povere, il ritorno alla contrattazione collettiva, il ripristino della tredicesima alle pensioni sotto i 700 euro, l’assistenza sanitaria gratuita per il milione di persone che ne ha perso il diritti», recitava il Programma di Salonicco “venduto” da Tsipras prima del 25 gennaio. «Ci arriveremo un passo per volta — provano a consolarsi a Syriza — Quando a un tavolo si è in due bisogna scendere a patti, Quando sei uno contro 18 come all’Eurogruppo e non hai un euro in tasca il compromesso può essere ancor più difficile da digerire». La maretta tra le file del partito è già montata e il premier dovrà lavorare per evitare che diventi una bufera. Con il rischio paradossale, dopo tutte le pillole amare mandate giù in questi giorni a Bruxelles, che il salvataggio del paese venga silurato dal fuoco amico.

Repubblica 23.2.15
L’eroe della Resistenza: “Intesa vergognosa”
di E. L.


ATENE. Il primo schiaffo ad Alexis Tsipras arriva, a sorpresa, da sinistra. Autore: Manolis Glezos, eroe della Resistenza ellenica ai nazisti, storica icona (ed europarlamentare) di Syriza. Che ieri mattina - dopo una notte insonne - ha preso carta e penna e messo nero su bianco la sua delusione per l’accordo con l’Eurogruppo: «Avevamo promesso di mandare a casa la Troika e di stracciare il memorandum e non l’abbiamo fatto – ha scritto dando voce ai mal di pancia che serpeggiano nell’ala più radicale del partito -Chiedo scusa ai greci per aver contributo a illuderli». Poi la chiamata alle armi, come ai tempi della guerra: «Prima che il male avanzi e sia troppo tardi, dobbiamo reagire! Troviamoci in assemblea e discutiamo, Sapevo che avremmo dovuto scendere a patti. Ma questo è troppo. Non ci può essere compromesso tra servo e padrone. E tra la libertà e l’oppressione, io scelgo la libertà». Parole pesantissime, cadute come sale nella ferita che si è aperta in Syriza dopo l’intesa con l’Eurogruppo.
«Forse non è bene informato» hanno provato a minimizzare gli uomini più vicini al premier che spiegano la sua rabbia anche con la mancata elezione del 93enne simbolo della sinistra alla Presidenza della Repubblica («lui ci teneva molto», sostengono). Il siluro però, visto da dove è partito, fa molto male a Tsipras. Glezos, con i suoi lunghi capelli bianchi, i baffoni e il volto segnato dalle rughe, è un pezzo di storia della Grecia. A 18 anni, nel ’41, si è arrampicato all’alba sull’Acropoli per ammainare la bandiera nazista, dando così il via alla resistenza in tutta Europa. Sotto i Colonnelli è finito per quattro anni in carcere e dopo la caduta della Giunta è diventato la spina nel fianco, rigorosamente da sinistra, del duopolio Pasok-Nea Demokratia e delle loro politiche clientelari. All’alba dei 90 anni, quando ad Atene è arrivata la Troika, è tornato in piazza, finendo più volte in mezzo ai lacrimogeni e ai tafferugli con la polizia per protestare contro l’austerity. Il premier ieri ha incassato l’attacco senza reagire. Il problema però è che quella di Glezos – all’interno di Syriza - non è una voce isolata. La minoranza di Piattaforma di sinistra, forte del 30% del Comitato centrale, è sul piede di guerra. Nel nome della Realpolitik ha mandato giù l’intesa governativa con la destra di Anel e l’elezione a presidente della repubblica di Paki Pavlopoulos, uomo di Nea Demokratia. L’accordo con Bruxelles rischia però ora di dividere in due il partito. «Voglio bene a Glezos, ma questo è il momento in cui dobbiamo stare uniti e far quadrato attorno a Tsipras», ha detto Dimitris Papadimoulis, vicepresidente (targato Syriza) del Parlamento europeo. Si vedrà nei prossimi giorni se i compagni di partito daranno retta a lui o al vecchio partigiano.

il Fatto 23.2.15
Il partigiano Glezos: “Deluso da Tsipras”
Alexis Tsipras difende l’accordo di venerdì come un successo negoziale, ma Manolis Glezos, l’eroe simbolo della Resistenza greca contro i nazisti diventato eurodeputato di Syriza, lo liquida come un tradimento delle promesse elettorali. E chiede “scusa al popolo greco perché ho preso parte a questa illusione”, sostenendo la formazione di Tsipras. “Rinominare la Troika istituzioni è come chiamare la carne pesce, ma non cambia la situazione precedente“. Le parole dei Glezos hanno provocato reazioni e imbarazzo da parte del governo greco, mentre lady Pesc Mogherini da Fabio Fazio rivendica il ruolo dell’Italia nella dilazione di quattro mesi per il pagamento del debito greco.

Corriere 23.2.15
Glezos contro il governo: «Tradite le promesse»

Manolis Glezos, l’eroe 92enne della Resistenza greca ai nazisti diventato eurodeputato di Syriza, attacca l’accordo di Bruxelles: un tradimento delle promesse elettorali. Su un blog Glezos chiede «scusa al popolo greco per aver preso parte a questa illusione. Rinominare la Troika “Istituzioni”... è come chiamare la carne “pesce”, ma non cambia le cose». Glezos fa appello agli «amici e sostenitori di Syriza: decidete se accettare questa situazione». Per il governo «Glezos forse non è stato bene informato».

Corriere 23.2.15
Come salvare la Grecia (se il suo debito è insostenibile)?
I bond legati alla crescita una soluzione possibile
Ma l’ipotesi «Grexit» non è ancora da scartare
di Danilo Taino


BERLINO Ad Atene, Alexis Tsipras racconta di avere vinto, nella trattativa con i 18 partner dell’Eurozona: tutti sanno che, al momento, non è vero. A Berlino, colui che è apparentemente il suo avversario principale, Wolfgang Schäuble, durante il weekend si è invece guardato dall’usare toni da vincitore: sa che nei prossimi giorni e settimane ci saranno guai.
La situazione, in effetti, è delicata, come forse non lo era mai stata finora, per l’Eurozona. Al di là del chi vince e del chi perde nei negoziati di Bruxelles, il dato di fatto è che, al 175% del Prodotto interno lordo, il debito greco non è sostenibile. Si può continuare a fare finta che lo possa essere. Ma prima o poi la questione andrà affrontata.
Oggi, la ex troika (Ue, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale) valuterà la lettera inviata dal ministro delle Finanze Yanis Varoufakis nella quale si delineano alcuni obiettivi di Atene. Dalle indiscrezioni si capisce che avrà pochi numeri, probabilmente nessuno, per dimostrare la sostenibilità del debito. E d’altra parte è stato lo stesso Varoufakis a sostenere che il suo Paese è alla bancarotta.
La questione, però, è stata focalizzata in questi giorni da molti osservatori. La Royal Bank of Scotland, ha per esempio scritto in un paper che «nel lungo termine il debito greco non è sostenibile». L’Fmi prevede che cali al 110-120% del Pil nel 2022 e perché ciò avvenga punta a una crescita annua da qui ad allora del 3,5% e a un avanzo pubblico primario (prima degli interessi sul debito) di oltre il 4%. «Non realistico», dice Rbs: date le condizioni attuali (il Pil greco è tornato a contrarsi nel quarto trimestre del 2014) è probabile che, al 2022, il debito sia uguale o superiore all’attuale. Rinviare e non riconoscere il problema significa aggravare la situazione.
In questo quadro, dopo cinque anni di crisi profonda, il Pil crollato del 24%, la disoccupazione al 25% e nessuna soluzione in vista, l’uscita dall’euro sarebbe tra le opzioni da considerare. Ma nessuno dice di volere la Grexit. Il dipartimento di ricerca di Rbs, guidato da Alberto Gallo, ha dunque fatto una simulazione, che finora non era mai stata effettuata, su una delle proposte avanzate dal nuovo governo di Atene e che in teoria potrebbe essere tra le meno inaccettabili dai partner europei. Si tratta della proposta di swap — in sostanza di sostituzione — degli attuali titoli di debito greco con obbligazioni legate all’andamento del Pil ellenico stesso. Fissata una certa soglia di crescita dell’economia, se si va sopra a quella Atene paga interessi superiori a quelli stabiliti, sotto quella soglia, interessi inferiori.
Il calcolo non è semplice, ci sono coefficienti da utilizzare, ma quello che conta è che Rbs abbia simulato una soluzione del genere — dice il suo paper — su diecimila casi di shock che possono colpire una nazione in vent’anni: il risultato «mostra che i Paesi che usano i bond legati al Pil sono più capaci di sopportare shock negativi», cioè raggiungono un rapporto tra debito e Pil più basso.
Con uno strumento del genere, la Grecia avrebbe possibilità maggiori di sostenere il debito. Servirebbero salvaguardie: soprattutto, occorrerebbe essere certi di un’estrema correttezza contabile. La cosa interessante è che l’esercizio serve a dire che le soluzioni tecniche per affrontare la questione greca non mancano (anche se non abbondano).
L’ostacolo è politico. Da un lato si tratta di capire se il nuovo governo di Atene ha la credibilità per promuovere e garantire la gestione di un percorso del genere: il clima di sfiducia che ha creato nei giorni scorsi nelle trattative di Bruxelles non è un indicatore positivo. Dall’altro, c’è il problema dell’accettabilità per i 18 partner della Grecia di una soluzione diversa dal pieno rispetto degli impegni presi.
Questo è un ostacolo enorme. Dare ad Atene una flessibilità maggiore di quella prevista — tale sarebbe lo swap — costituirebbe un affronto per quei governi che gli impegni presi con i partner li hanno rispettati e ora iniziano a vederne i risultati: soprattutto Portogallo, Irlanda e Spagna. Lo vivrebbero come un tradimento, non tanto perché alla Grecia si alleggerirebbe un peso ma soprattutto perché le loro opinioni pubbliche li accuserebbero di incapacità. E questo sarebbe particolarmente grave in un Paese come la Spagna, dove una forza di opposizione simil-Syriza, Podemos, è già ora forte nei sondaggi. E il primo traditore sarebbe individuato nel governo tedesco.
Per questo, il passaggio è estremamente delicato: il debito greco è insostenibile nelle condizioni attuali; l’alternativa politica potrebbe esserlo anche meno.
@danilotaino

La Stampa 23.2.15
Rimborsi spese gonfiati
Netanyahu finisce nei guai
La deposizione dell’ex maggiordomo inguaia il premier israeliano
Invitati “fantasma” ai ricevimenti per incassare soldi dallo Stato
di Maurizio Molinari


Sospetti di truffa ai danni dello Stato: il premier israeliano Benjamin Netanyahu viene investito da un nuovo scandalo che potrebbe innescare un’indagine penale nei suoi confronti.
Spese gonfiate
Al centro della vicenda c’è Manny Naftaly, l’ex maggiordomo della residenza del premier a Gerusalemme che ha rilasciato una deposizione di 12 ore descrivendo nei dettagli comportamenti di Benjamin e Sara Netanyahu alla soglia dell’illegalità. In particolare Naftaly ha affermato che il premier pagava cifre esorbitanti per le pulizie della residenza al fine di ottenere da uno dei dipendenti di occuparsi anche della casa del padre della moglie.
Inoltre il premier e la First Lady gonfiavano il numero degli «ospiti» ricevuti nella residenza per ottenere maggiori rimborsi dalla cassa del cerimoniale e, sempre allo stesso fine, molti degli «invitati» israeliani venivano registrati come «stranieri» in quanto ciò consente di sostenere spese doppie. E ancora: la First Lady Sara spesso ricorre a servizi di ristorazione esterni - andando incontro a spese per migliaia di dollari - sebbene la residenza abbia un proprio chef, pagato dallo Stato.
Schiaffo
La testimonianza dell’ex maggiordomo è definita una «montagna di falsità» dai portavoce di Netanyahu ma il capo della polizia, Yohanan Danino, afferma che «vi sono prove a sufficienza per aprire un’indagine formale sui sospetti di frode».
A tre settimane dal voto politico, e con il maggiordomo protetto da un accordo con gli inquirenti che gli garantisce l’immunità, Netanyahu si trova ad attendere la decisione di Yehuda Weinstein, consigliere legale del governo, che potrebbe decidere di formulare accuse penali sulla base del rapporto di Joseph Shapira, responsabile della contabilità. Il sospetto di «spese fuori controllo ed irregolari» porta gli investigatori a pianificare testimonianze di altri ex dipendenti della residenza del premier, dando maggiore rilievo alle precedenti rivelazioni sull’abitudine della First Lady di restituire ai supermercati le bottiglie dei liquori acquistati dal marito per intrattenere gli ospiti, al fine di ottenere rimborsi per i vuoti. Nel tentativo di proteggersi dall’impatto pubblico di una vicenda, che ha larga eco sui media nazionali, Netanyahu si è rivolto a Moshik Galamin, un popolare designer arruolato per uno spot tv che lo vede girare nella residenza di Balfour Street rendendosi conto di persona delle precarie condizioni in cui versa: dalle tende rovinate ad una cucina in precarie condizioni. Fino al punto da far dire a Galamin che «assomiglia ad una scuola romena degli anni 50».
Bersagliato dalle rivelazioni e assediato dai media, Netanyahu torna però in vantaggio nei sondaggi: per l’agenzia demoscopica «Geocartografy» se si votasse oggi il suo Likud otterrebbe 27 seggi, contro i 23 del centrosinistra, registrando un balzo in avanti rispetto alle previsioni che finora indicavano un serrato testa a testa per la guida del prossimo governo.

Repubblica 23.2.15
Web, dollari e violenza la modernità perversa dei carnefici del Califfato
L’ascesa dell’islamofascismo è la reazione al fallimento delle rivoluzioni arabe e alla scomparsa dei laici: solo l’alleanza tra liberalismo e sinistra radicale può salvare i paesi musulmani dalla deriva fondamentalista
di  Slavoj Zizek


Questo articolo di Slavoj Zizek è tratto dal suo libro “L’Islam e la modernità. Riflessioni blasfeme (Ponte alle Grazie pagg. 92 euro 9)

LE RECENTI vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Walter Benjamin, e cioè che «ogni ascesa del fascismo testimonia di una rivoluzione fallita»: l’ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al contempo testimonia di un potenziale rivoluzionario, un malcontento che la sinistra non è stata in grado di mobilitare. Non vale lo stesso per il cosiddetto «islamofascismo» di oggi? L’ascesa dell’islamismo radicale non è forse in perfetta correlazione con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani? Quando, nella primavera del 2009, i Taliban si impadronirono della valle dello Swat in Pakistan, il New York Times riferì che essi avevano architettato «una rivolta di classe sfruttando le profonde divisioni tra un gruppo ristretto di ricchi proprietari terrieri e i loro fittavoli senza terra». Se «approfittandosi» della situazione dei contadini i Taliban hanno fatto «salire l’allarme circa i rischi che corre un Paese come il Pakistan, in gran parte ancora feudale», cosa impedisce ai liberal-democratici in Pakistan e negli Stati Uniti di «approfittare » della stessa situazione aiutando i fittavoli senza terra? La triste implicazione di tutto questo è che le forze feudali in Pakistan sono le «naturali alleate» della democrazia liberale… Che dire allora dei valori fondamentali del liberalismo? Che ne è della libertà, dell’uguaglianza, ecc.? Il paradosso è che il liberalismo stesso non è abbastanza forte da preservarli dall’attacco del fondamentalismo. Il fondamentalismo è una reazione — una reazione falsa e mistificante, ovviamente — a un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il primo è sempre, di nuovo, generato dal secondo. Abbandonato al proprio destino, il liberalismo va incontro alla propria distruzione — la sola cosa che può salvare i suoi valori fondamentali è il rinnovamento della sinistra. Affinché questa tradizione fondamentale possa sopravvivere, il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. Questo è il solo modo di sconfiggere il fondamentalismo, di minare il terreno su cui esso poggia.
È un’osservazione di senso comune che lo Stato Islamico sia solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di risvegli anticoloniali (stiamo assistendo alla riconfigurazione dei confini tracciati arbitrariamente dalle grandi potenze dopo la Prima guerra mondiale), e allo stesso tempo un nuovo capitolo della resistenza ai tentativi del capitale globale di minare il potere degli Statinazione. A provocare tanto timore e sgomento è invece un altro tratto del regime dello Stato Islamico: le dichiarazioni delle autorità dell’Is indicano chiaramente che, a loro giudizio, l’obiettivo principale del potere statale non è il benessere della popolazione (sanità, lotta alla denutrizione ecc.) — ciò che realmente conta è la vita religiosa, che ogni aspetto della vita pubblica si conformi ai precetti religiosi. È per questo che l’Is rimane più o meno indifferente alle catastrofi umanitarie che avvengono all’interno dei suoi confini — il suo motto è «occupati della religione e il benessere provvederà a sé stesso». Qui appare lo scarto tra l’idea di potere praticato dall’Is e il concetto, occidentale e moderno, di «biopotere», di potere che regola la vita: il califfato dell’Is rifiuta totalmente la nozione di biopotere.
Ciò dimostra che l’Is è un fenomeno premoderno, un disperato tentativo di rimettere indietro le lancette del progresso storico? La resistenza al capitalismo globale non può ricevere impulso dal recupero di tradizioni premoderne, dalla difesa di forme di vita particolari — per il semplice motivo che un ritorno alle tradizioni premoderne è impossibile, considerato che la resistenza alla globalizzazione presuppone l’esistenza della globalizzazione stessa: chi si oppone alla globalizzazione in nome delle tradizioni che essa starebbe minacciando lo fa in una forma che è già moderna, parla già il linguaggio della modernità. Se il contenuto di queste restaurazioni è antico, la loro forma è ultramoderna. Allora, anziché considerare l’Is come un caso estremo di resistenza alla modernizzazione, dovremmo semmai concepirlo come un caso di modernizzazione perversa. La nota fotografia che ritrae Al Baghdadi, leader dell’Is, con uno scintillante orologio svizzero al polso, è in questo senso emblematica: l’Is è ben organizzato in fatto di propaganda sul web e di operazioni finanziarie, ecc., malgrado faccia ricorso a queste pratiche ultramoderne per diffondere e imporre una visione ideologico-politica che (più che conservatrice) appare come un disperato tentativo di stabilire chiare delimitazioni gerarchiche, in primo luogo quelle che disciplinano la religione, l’istruzione e la sessualità (regolamentazione strettamente asimmetrica della differenza sessuale, interdizione dell’istruzione laica…). Tuttavia, anche quest’immagine di organizzazione fondamentalista severamente disciplinata e regolata non è priva di ambiguità: l’oppressione religiosa non è forse (più che) integrata dalla condotta delle unità militari locali dell’Is? Mentre l’ideologia ufficiale dello Stato Islamico fustiga il permissivismo occidentale, nella loro prassi quotidiana i reparti dell’Is compiono delle vere e proprie orge carnevalesche (stupri di gruppo, torture e uccisioni, rapine ai danni degli infedeli). La radicalità senza precedenti dell’Is riposa in questa brutalità ostentata, mostrata apertamente.
(© 2015 Slavoj Zizek. © 2015 Adriano Salani Editore s.u.rl. Milano)

La Stampa 23.2.15
Fatta l’Italia era già fatto l’italiano
Luca Serianni mostra come anche nei secoli passati, pur senza essere andati a scuola
Grazie soprattutto alla Chiesa molti abitanti della Penisola erano italofoni: l’unità linguistica e culturale ha preceduto quella politica
di Mirella Serri


È arrivato il sorpasso. Dialetto, addio. Dal 2012 la quota di coloro che dichiarano di parlare abitualmente l’italiano in famiglia è salita al 53,1% e la percentuale di quelli che lo usano fuori delle pareti domestiche arriva all’84,8%. Non basta: tra i giovani dai 18 ai 24 anni, il 60,7% utilizza la lingua italiana per comunicare con parenti e affini mentre il 90,9% dialoga con il vocabolario di Foscolo e Manzoni a scuola, in discoteca e fuori casa.
Il merito di tutto ciò? Delle grandi trasformazioni mediatiche, della diffusione di giornali, radio e tv? Non c’è dubbio, ma c’è ben altro: il gran maestro della linguistica Luca Serianni, in un dotto libretto, Prima lezione di storia della lingua italiana (in uscita da Laterza, pp. 190, € 13), capovolge molti schemi acquisiti. Nel ’900 si è sviluppato, sostiene il professore, un nuovo idioma, una lingua super-regionale che ha intaccato e poi ha messo ko i dialetti. Ma l’utilizzo dell’italiano parlato, osserva lo studioso, viene da molto lontano ed è stato più forte e stabile di quanto non si pensi.
Nell’Italia, per secoli frammentata culturalmente e politicamente, sono stati proprio gli intellettuali ad attivare la formazione di una lingua in grado di superare tutte le divisioni regionali. Il lavorìo degli «operai dell’intelligenza», a cominciare da Dante, Petrarca e Boccaccio che hanno gettato le fondamenta proprio di lessico e sintassi con cui ci esprimiamo attualmente, ha coinvolto e contaminato in un lungo viaggio anche i ceti meno acculturati.
Un autodidatta del ’500
Come dialogava, come comunicava, per esempio, al processo a cui lo sottopose nel ’500 l’Inquisizione, il friulano Domenico Scandella, detto Menocchio, il mugnaio, a cui ha dedicato anni fa una bellissima monografia lo storico Carlo Ginzburg? Autodidatta, aveva appreso l’italiano dai libri d’avventura e dai testi religiosi: opere che aveva avuto in prestito dalla sua piccola comunità di cui facevano parte lettori e persino lettrici.
Ma la vittima del tribunale ecclesiastico che impara a parlare sui testi degli scrittori non è l’unico esponente di una classe subalterna che supera le barriere del dialetto: la povera Bellezze Ursini, è un altro esempio, fu accusata di stregoneria nel 1527. Si difendeva disperatamente (si darà la morte, tagliandosi la gola con un chiodo) davanti ai giudici con un fraseggio incerto, abborracciato ma non con espressioni e modi di dire provenienti dalla natìa Sabina.
Anche senza essere mai andati a scuola, gli abitanti della Penisola erano italofoni. A volte esibendosi in un’esposizione pasticciata, approssimativa, che lo scrittore Tommaso Landolfi ha chiamato, con una definizione poi ripresa dagli studiosi, «l’italiano pidocchiale» dei miserabili e degli emarginati.
Come si diffonde questa oratoria che coinvolge le classi più umili? Tra gli «emittenti linguistici» c’è la Chiesa: con l’insegnamento del catechismo e con la rete d’istruzione, i religiosi diventano i solerti maestri di italiano dei più poveri. Per almeno tre secoli, dal XVI al XVIII, l’idioma di Dante ha un po’ il ruolo che ha oggi l’inglese, è usato nella diplomazia internazionale, domina nell’area mediterranea e nell’Europa orientale, è il mezzo con cui si trattano acquisti e vendite e con cui ci si difende da truffe e raggiri. Si diffonde così anche tra funzionari e varia manovalanza. Ma lo impiegano persino i giovani patrizi greci che frequentano le università italiane come Padova e poi riportano in patria il fraseggio appena imparato.
I dialetti, insomma, ancorché presenti nella comunicazione soprattutto dei ceti meno abbienti, non hanno avuto il ruolo dominante che è stato loro attribuito. E ora? Abbiamo davvero raggiunto un parlato comune? Oppure dobbiamo considerare le differenziazioni, ancora presenti nel lessico quotidiano, spie di localismi e di campanilismi linguistici duri a morire? Come dobbiamo chiamare, per esempio, i lacci per le scarpe? Vi è una pletora di definizioni che va da stringhe, ad aghetti e legacci come a Firenze, legacci e cordoni come a Modena, fino all’assai particolare córdoni.
Il nome dell’attaccapanni
E per indicare quelli che perlopiù si chiamano attaccapanni? Anche in questo caso siamo di fronte a una scelta difficile che ci pone di fronte a grucce, ometti, appendini, stampelle, crocette. «Ne dovremmo dedurre», si domanda Serianni, «che l’italiano non esiste nemmeno oggi, rinunciando a uno dei pochi fattori unificanti (insieme al cibo e allo sport) che sembra tenere insieme il nostro Paese?». Ma sono solo episodi marginali, osserva lo storico della lingua. Di fronte alle ricorrenti tentazioni di separatismi, di autonomie e all’affermazione di individualismi vari, possiamo ricordare che l’unità linguistica e culturale è sempre esistita. E ha anticipato l’unificazione politica grazie anche a una tradizione letteraria colta. È il caso di dire che l’omologazione raggiunta è stata creata a tavolino, ovvero da coloro che la lingua non solo la parlavano ma pure la scrivevano.

La Stampa 23.2.15
Poeti e donne dietro le quinte di Montale
di Bruno Quaranta


Non fu un poeta maledetto, Montale. O forse sì. Se giunse a patire «che lo stesso sapore han miele e assenzio» (assenzio, la bevanda un tempo all’indice). E se, fra le sue ascendenze, vi è l’ottocentesco Tristan Corbière (non dichiarò di dovere alla Francia «tuttissimo»?), il poeta di Les amours jaunes, Gli amori gialli, da Paul Verlaine accolto fra i «maudit».
Corbière e altre ombre. Carla Riccardi visita Montale dietro le quinte (Interlinea, pp. 180, € 20), in copertina l’autoritratto che «autentica» l’omnia einaudiana a cura di Gianfranco Contini e di Rosanna Bettarini. Un viaggio alle «fonti», dagli Ossi di seppia alla Bufera, non addentrandosi - che sollievo - nel Diario postumo ancora di recente cuore di una infuocata controversia.
Corbière, «autore di una dozzina di poesie di grande classe, e perciò non soltanto considerabile come un inizio stroncato o un confuso annuncio di nuovi tempi». Tra le «precoci conoscenze» del futuro Nobel. Con Pound. E con Eliot, il mentore nella «terra desolata» che una volta, a Firenze, di fronte a Ungaretti (somma stilettata), non mancò di riconoscere il suo debito verso Montale.
I poeti e non solo, dietro le quinte di «Eusebio». Come Irma Brandeis, in primis, l’altra americana della poesia italiana (seguirà la Constance di Pavese), una presenza assidua, dalle Occasioni all’estrema stagione lirica. Irma-Clizia, che sovrasta Esterina «grigiorosea nube», e Gerti, e la Mosca, e la Volpe. Conosciuta da Montale al Vieusseux nel ’33, da Montale non seguita negli Stati Uniti, un’«indecisione» che ne segnerà il resto dell’esistenza.
Carla Riccardi decritta le metamorfosi di Clizia, novecentesca Beatrice, da creatura carnale ad aureolata figura, «l’Angelo della visitazione» di iselliana memoria. Non aveva forse, Montale, previsto per sé un ascetico cammino? «C’è stata, a partire da Baudelaire e da un certo Browning, e talora dalla loro confluenza, una corrente di poesia non realistica, non romantica e nemmeno strettamente decadente, che molto all’ingrosso si può dire metafisica. Io sono nato in quel solco».

Corriere 23.2.15
I pregiudizi vincono sui dati scientifici
Due fatti su cui l’opinione pubblica non ha saputo riflettere:
la super.cannabis responsabile secondo Lancet di malattie psicotiche
l’assenza di donazioni femminili per la fecondazione eterologa
La cessione di gameti richiede trattamenti sanitari pesanti, perciò all’estero si chiede un compenso
di Giovanni Belardelli


Contrariamente a ciò che spesso si pensa, le opinioni precedono i fatti. Nel senso che sono le opinioni a determinare la griglia mentale attraverso la quale i fatti possono essere percepiti e interpretati. A volte però accade, o almeno dovrebbe accadere, che fatti nuovi e particolarmente rilevanti ci spingano a ridiscutere e a modificare l’opinione corrente. È questo secondo fenomeno che in Italia avviene con difficoltà. Ecco due esempi recenti.
Il Corriere Salute online del 16 febbraio ha informato i lettori di uno studio pubblicato su un’autorevole rivista inglese, Lancet Psychiatry , secondo cui la cannabis in circolazione avrebbe ormai un principio attivo enormemente più potente rispetto a quella di un tempo. In Gran Bretagna la notizia ha riaperto la discussione sulla depenalizzazione della marijuana (che lì è in vigore da una decina d’anni). In Italia la notizia è passata invece inosservata, come troppo spesso avviene da noi quando il fatto nuovo contraddice le idées reçues , le opinioni ricevute e pigramente ripetute, i luoghi comuni insomma. Come si capisce, infatti, riconoscere che questa «super-cannabis» è responsabile di un consistente numero di malattie psicotiche, come sostiene la ricerca inglese, renderebbe immediatamente obsoleto quel luogo comune progressista che individua nella cannabis, e nella sua liberalizzazione, un simbolo libertario.
Il secondo esempio riguarda la fecondazione eterologa. Dopo che è divenuta legale in seguito a una sentenza della Consulta, i centri italiani hanno dovuto fare i conti con la pressoché totale assenza di donazioni, soprattutto femminili. La notizia è stata ripresa dalla stampa più volte, ma anche qui il dato di fatto è rimasto come inerte, non ha innescato alcuna discussione pubblica come meriterebbe, a cominciare dalla presa d’atto dell’evidente impossibilità che di donazione realmente si tratti.
La cessione di gameti femminili, infatti, richiede un trattamento sanitario piuttosto pesante per chi lo pratica ed è perciò quasi impossibile che una donna possa davvero donare i suoi ovuli. Nei Paesi in cui avviene, alla donazione si accompagna un compenso in denaro: ad esempio in Spagna, dove a quel che si legge molte studentesse si pagherebbero così gli studi universitari. E proprio all’estero, per importare ovociti, si stanno rivolgendo alcuni centri italiani, come l’ospedale Careggi di Firenze.
La decisione si può condividere o meno, ma non dovrebbe essere trattata alla stregua dell’importazione di una qualunque merce. Qui il bene importato — e nei fatti, benché la normativa comunitaria lo vieti, acquistato — ha a che fare con il corpo umano: di studentesse in Spagna, spesso di donne in condizioni di difficoltà economiche in altri Paesi. Si può essere a favore, sostenendo magari che la possibilità per una coppia di avere un figlio vada considerata come un diritto in qualche modo sovraordinato rispetto a quello alla salute delle donne che cedono i loro ovuli. Certo, è difficile sfuggire al dubbio che così avalleremmo quella mercificazione del corpo femminile che di norma, in altri campi, condanniamo. In ogni caso, sarebbe bene discutere pubblicamente dell’assenza di donazioni e delle cause che la determinano. Ma con ogni probabilità questo non accadrà. Tutto lascia credere infatti che le nostre strutture sanitarie si orientino verso l’introduzione di «rimborsi spese» o di «premi di solidarietà» per mascherare il fatto che non di «doni» veramente si tratta.

Corriere 23.2.15
Le civiltà si incontrano sul mare
di Giuseppe Galasso


È noto che il Mediterraneo è stato da sempre un mare di culture, religioni, commerci, migrazioni, un mare-ponte. Il volume Incontri di civiltà nel Mediterraneo. L’Impero Ottomano e l’Italia del Rinascimento (Olschki, pp. 184, e 25), curato da Alireza Naser Eslami, docente di Architettura islamica e bizantina a Genova, lo conferma per un momento fra i più topici nella storia del vecchio Mare Internum romano.
Non credo che si possa affermare con Naser Eslami che finora Oriente e Occidente siano stati concepiti ciascuno «come realtà omogenee e sempre uguali a se stesse». Non so, e non mi pare, neppure nella storiografia islamica, ma certo in quella occidentale l’idea del «sempre uguale a se stesso» si è da tempo dileguata sotto l’urto sia del pensiero storicistico, sia di grandi spinte riformatrici o rivoluzionarie. E neanche direi che è nuovo il concetto del Mediterraneo come luogo di incontri e di scambi, che era già chiaro a Greci e Romani. E altro ci sarebbe da rilevare sul Rinascimento come «movimento» e non «evento» o sulla cultura europea come una fra differenti culture interagenti fra loro o sulla diversità della mediterraneità di Braudel rispetto a quella di Horden e Purcell.
Naser Eslami ha, però, pienamente ragione di affermare che, per i rapporti fra Italia del Rinascimento e mondo ottomano, c’è molto da fare e da dire, ed è da ciò che deriva il merito, non piccolo, del volume da lui curato.
Quei rapporti portarono a interscambi materiali e culturali anche in forme a volte sorprendenti. Così accade con una prassi del dono, che va dalla «sella di splendida fattura», che il sultano Maometto II, in cerca di artisti e artigiani, invia a Lorenzo il Magnifico e che questi ricambia con «una magnifica medaglia realizzata da Bertoldo di Giovanni col ritratto del regnante», ai «cento tappeti degnissimi» inviati dallo stesso sultano a Ferrante I di Napoli o ai dipinti e ai cavalli inviati da Bayazet II a Francesco II Gonzaga.
Ben più dei doni, ovviamente, significa la politica. Papa Pio II voleva convertire al Vangelo Maometto II per farne un imperatore. Alessandro VI invocava il soccorso di Bayazet II per alleggerire la pressione di Carlo VIII di Francia, così come non sdegnava di fare Alfonso II di Napoli, mentre Ludovico il Moro gli offriva il suo vassallaggio.
Ha ragione perciò Giovanni Ricci a parlare qui di «ambiguo rapporto fra Stati italiani e Impero Ottomano» nel ’400 e ’500 (ma gli italiani erano in buona compagnia: nel 1536 i francesi strinsero con Costantinopoli un’intesa di lunghissima durata). Ambiguità che si apprezza di più grazie a Gabriella Airaldi («Genovesi e Turchi tra medioevo e età moderna») e alla densa rievocazione di Franco Cardini del trentennio fra l’assedio di Vienna (1683) e la pace del 1718, che diede un grave colpo alla potenza turca, senza però stroncarla, e segnò la vera fine dell’idea della crociata, preludendo al «tempo delle dolci, care, sorridenti turqueries».
Direi, comunque, che l’interesse maggiore del volume sta nei molto interessanti saggi sugli scambi culturali: ceramica, modelli decorativi, giardini, tappeti, architettura. Quello sui giardini, di Luigi Zangheri, è particolarmente suggestivo.
Si impara molto su un terreno storico ancora largamente da esplorare, purché, sia detto per inciso, non si dimentichi mai che il mare degli incontri e degli scambi fu anche sempre un mare di guerre e di battaglie, di razzie e di piraterie, che non furono sempre e soltanto frutto di volontà di potenza o di rapina. Alle armi e alle violenze si accompagnavano anche idee e religioni, valori e civiltà. Le nostre visioni di oggi non furono quelle del passato, anche a voler credere che oggi le nostre visioni siano per intero quelle che si dice.

Corriere 23.2.15
Non c’è solo l’inglese. Riscopriamo la duttilità della nostra lingua


Niente battaglie di retroguardia contro l’inglese, ma piena fiducia nella cara, ricca, fantasiosa, duttile lingua italiana, capace di affrontare qualsiasi fronte, inclusi scienza e commercio. In questo esplicito segno, oggi e domani a Firenze (alla villa Medicea di Castello, sede dell’Accademia della Crusca, e poi nella sede della Dante Alighieri in via Gino Capponi) si svolge il convegno «La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi» organizzata, appunto dalla Crusca, dalla Dante Alighieri e da «Coscienza Svizzera», gruppo culturale della Svizzera italiana. L’interrogativo è: possiamo o non possiamo dirlo in italiano? La risposta è spesso sì, basta superare pigrizia e automatismi. Ne discuteranno, tra i tanti, Luca Serianni ( nella foto ), vicepresidente della Dante Alighieri, che prospetterà una futura «neologia consapevole»; Claudio Marazzini, presidente della Crusca, che parlerà dell’italica propensione ai forestierismi; la linguista Valeria della Valle, tra i curatori dell’Osservatorio neologico della lingua italiana. E poi testimonianze straniere: come quella di Gloria Clavería Nadal («Spagnolo e catalano di fronte agli anglicismi») e di John Humbley su «Il francese di fronte agli anglicismi».