mercoledì 25 febbraio 2015

il Fatto 25.2.15
L’intervista Sergio Cofferati
“Sto con Landini, un’agorà per far rinascere la sinistra”
di Salvatore Cannavò


Sergio Cofferati condivide molto la proposta di “coalizione sociale” avanzata da Maurizio Landini nei giorni scorsi e che molto dibattito ha provocato. E non fa nulla per nasconderlo. Anzi, prova a sostenerla con una riflessione più ampia ponendo dentro quell’idea le basi per una “ri-nascita” (il trattino è suo) della sinistra.
Da quale riflessione vuole cominciare?
Io ritengo che ci sia bisogno di ricostruire un’identità della sinistra in Italia e che per farlo occorra rovesciare le vecchie priorità.
Cioè?
In genere, si è pensato di riorganizzare un progetto mettendosi insieme alla buona, individuare il leader e quindi presentarsi agli elettori.
Oggi, invece, cosa occorre fare?
Cominciare dai valori. Cosa vuol dire essere di sinistra in questi tempi? Cosa ti identifica con un'idea di sinistra? Occorre cominciare da qui. Il berlusconismo ha prodotto danni di varia natura e tra quelli più preoccupanti c’è la cancellazione dei valori oppure la loro sostituzione con dei dis-valori.
Anche Renzi è un prodotto di questo?
Non ce l'ho con il governo attuale, si tratta di un processo più ampio. L’arco di tempo alle nostre spalle, i due decenni di berlusconismo.
E una volta individuati i valori?
Occorre definire delle politiche coerenti. E poi, solo poi, alla fine, pensare alle forme della rappresentanza. La sinistra ha sempre fatto l’opposto: stabiliamo il leader e il resto verrà di conseguenza. Questo approccio non è più possibile.
Oltre ai valori non occorre anche definire dei soggetti di riferimento?
Certamente. Occorre parlare a tutti e in questi tutti vanno individuati i soggetti prioritari. A me sembra che la sinistra possa esistere solo se si rivolge ai più deboli, non solo il lavoro dipendente, ma i precari, al lavoro povero che sembra un ossimoro ma è invece ben reale.
Cosa rappresenta la “coalizione sociale” in questo ragionamento?
Se la sinistra vuole parlare di questi e con questi soggetti allora deve costruirci un rapporto. Partire da tutto ciò che organizza
questo mondo variegato e che cerca di dare risposte ai loro bisogni. Una delle ricchezze del nostro paese sono proprio i corpi intermendi, le Ong, il sindacato, l'associazionismo. La nostra identità va ritrovata lì e con queste persone.
Un esempio?
Penso alle società di Mutuo soccorso di Mazzini che a metà dell'800 hanno provato a mettere insieme persone per esercitare tra loro solidarietà. Situazioni che nel tempo sono evolute, sia in partiti politici che in sindacati. È da lì che si parte. Se si comincia con l’ obiettivo di un partito della sinistra si trova un muro dopo cento metri.
Quindi nessun partito da lanciare a freddo, nessuno Tsipras italiano.
L’approccio più interessante e valorizzare quel metodo e non partire dalla ricerca del leader. Poi vedremo cosa si sarà creato. Mi pare che le suggestioni di Landini e di Stefano Rodotà vadano nella direzione giusta. Sono molto d’accordo che si cominci così.
E sul piano elettorale?
Questo progetto avrà bisogno di tempo, non si fa in fretta. Può capitare che mentre si discute ci siano scadenze come le elezioni. A quel punto, senza interrompere la riflessione, occorre trovare una soluzione contingente. Ma si tratta di un punto di transito non di arrivo.
Il sindacato va coinvolto?
Sì, penso che anche il sindacato debba partecipare ed è giusto che Landini si ponga questo problema. Questa attenzione gli fa onore.
In questo senso il sindacato fa politica?
Certo, il sindacato confederale ha sempre fatto politica, da quando è nato. Le prime Camere del Lavoro a fine ‘800 rappresentavano interessi generali, non erano corporative. Questo non c’entra nulla con una configurazione da partito.
Parteciperà a questo progetto, e come?
Sì, sono molto interessato a partecipare. Costruirò un’associazione politico-culturale proprio per cercare di stare dentro al percorso.
Come immagina che questa suggestione possa prendere forma?
Come una grande agorà, un’assemblea in cui persone che hanno un vissuto, delle idee, delle proposte, possano dare un contributo e discutere di come partire. La sinistra può ri-nascere da lì.

il manifesto 25.2.15
Cofferati: «La sinistra è poca? Si chieda perché»
«Unirsi per decidere chi è il leader non serve né interessa a nessuno»
Intervista di Daniela Preziosi

qui

Repubblica 25.2.15
Movimenti e nuove regole ecco il piano del leader Fiom per dare la scalata alla Cgil
Nel 2018 scadrà il mandato di Landini e quello della Camusso. L’ipotesi di un coinvolgimento della base nell’elezione del segretario potrebbe favorirlo
di Roiberto Mania


ROMA Scalare la Cgil. Maurizio Landini, 53 anni, leader della Fiom, promuoverà sì la “coalizione sociale” per dare rappresentanza politica al lavoro e aggregare un’area del dissenso sociale di sinistra, ma il suo vero obiettivo è diventare il segretario generale della Cgil nel 2018, quando scadranno sia il suo mandato tra i metalmeccanici sia quello di Susanna Camusso al vertice della confederazione. Ecco perché continua a ripetere che intende fare il sindacalista. Nel 2018 sono previste anche le elezioni politiche ma questa potrebbe, alla fine, essere solo una coincidenza.
Tra tre anni Landini se ne andrà, per statuto, dalla Fiom, non prima. Ma intanto dovrà cominciare a giocarsi la partita per salire al quarto piano del palazzo di Corso d’Italia 25, dove c’è l’ufficio del segretario generale della Cgil. Partita lunga e difficile perché nei prossimi due anni cambieranno molti dei grandi elettori cigiellini. Ci sarà un riassetto del gruppo dirigente con il ricambio del segretario generale in molte categorie, dalla scuola ai trasporti; dagli edili alla scuola. Un turnaround, anche generazionale, che potrebbe, ma non è scontato, favorire la scalata di Landini. Di certo, al netto dei prevalenti meccanismi di cooptazione, cambierà la geografia della Cgil rispetto a quella disegnata più o meno un decennio fa. E, visto che entro l’anno dovrebbe tenersi la conferenza d’organizzazione, potrebbero essere modificate anche le regole per l’elezione del segretario generale: oggi lo fanno i gruppi dirigenti, domani potrebbe esserci un qualche coinvolgimento diretto degli iscritti, oppure dei delegati di base eletti dai lavoratori. Escluso che la Cgil possa introdurre le primarie che Landini aveva proposto. Certo se lo facesse spianerebbe la strada al leader della Fiom che non avrebbe rivali, come ammettono in molti anti- landiniani dell’apparato sindacale. A parte la Camusso, Landini è l’unico altro leader della Cgil. Venerdì scorso, lui metalmeccanico, è stato invitato a Mestre in un’assemblea in vista delle prossime elezioni per le Rsu nel pubblico impiego. È finita con gli impiegati pubblici a fare i selfie con Landini e a chiedergli gli autografi. Sergio Cofferati, che dopo l’uscita dal Pd sta dando vita a un’associazione politica molto compatibile con il progetto della “coalizione sociale” sostiene che già oggi Landini dovrebbe fare il segretario della Cgil.
L’insistenza con cui Landini chiede il rinnovamento del sindacato con maggiore trasparenza, partecipazione e democrazia ha natura politica e strategica ma è anche tattica. Perché una semplificazione delle regole affidando un ruolo pure agli iscritti favorirebbe la sua scalata di sindacalista con venature populiste. In tutti i casi molto dipenderà dal ruolo che vorrà giocare Susanna Camusso: scegliere il suo successore come fecero sostanzialmente Cofferati con Guglielmo Epifani e quest’ultimo con la Camusso oppure fare un passo indietro e lasciare “libertà di voto”, come fece a suo tempo Bruno Trentin? Ad oggi si dice che la Camusso abbia qualche preferenza per Serena Sorrentino (classe 1978), napoletana, segretaria confederale dal 2010, responsabile delle politiche del lavoro, rigorosa, ma assai meno carismatica di Landini e senza l’esperienza di aver guidato una categoria della Cgil.
Nella sua scalata, Landini cercherà di mantenersi all’interno della maggioranza della Cgil. Era minoranza al congresso dello scorso anno. Perse. Ma proprio l’arrivo di Matteo Renzi a Palazzo Chigi e la sfida che da lì è partita al sindacato ha ricomposto l’unità della Cgil. I Direttivi della confederazione ormai si concludono sempre con un voto pressoché unanime, salvo qualche distinguo nel dibattito e quegli equilibrismi conclusivi che solo i sindacalisti sono in grado di inventare. Per esempio tutta la Cgil è a favore della raccolta delle firme per una legge per un Nuovo Statuto dei lavoratori, non tutto il gruppo dirigente è favore del referendum abrogativo sul Jobs Act, che invece chiede la Fiom di Landini. È passata la linea che “non esclude” il ricorso al referendum.
Landini intanto continuerà a far politica. Perché la sua Fiom, nella quale pesa non poco il pensiero del suo predecessore Gianni Rinaldini, è un sindacato-movimento, un ibrido di sinistra, un ircocervo sociale che sta insieme ai movimenti di base, ai No Tav, ai difensori dei beni comuni, alla Rete degli studenti. E che già da tempo collabora con l’associazionismo che va da Libera di Don Ciotti ad Emergency di Gino Strada. All’ultimo congresso per loro e Stefano Rodotà è stata standing ovation. Ed è a partire da loro che l’assemblea dei circa 600 delegati di fabbrica della Fiom venerdì e sabato getterà le basi a Cervia della “coalizione sociale” evoluzione dal basso dell’appello “La via maestra” a difesa della Costituzione firmato nel settembre del 2013 oltre che da Landini dalla costituzionalista Lorenza Carlassare, da Don Ciotti, da Rodotà e l’ex giudice costituzionale Gustavo Zagrebelsky. La Fiom sarà il soggetto promotore, l’aggregatore. Non precisamente il mestiere del sindacato.

il Fatto 25.2.15
Articolo 18
Diritti, la spallata arriva dal Jobs Act
di Mario Fezzi


Il trionfalismo con cui il premier Matteo Renzi ha annunciato i quattro provvedimenti approvati venerdì scorso in Consiglio dei ministri sembra fuori luogo. L’abrogazione sostanziale dell'articolo18 (per i licenziamenti individuali e collettivi) dovrebbe garantire la ripresa dell'occupazione e di tante nuove assunzioni. Ma perché mai? Come è dimostrato da studi e ricerche, è solo il trend positivo economico che può fare da incentivo alla ripresa delle assunzioni. La situazione economica in apparente ripresa dovrebbe di per sé determinare nuove assunzioni. E a questo dovrebbe aggiungersi l'effetto positivo della decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato del 2015 prevista dalla legge di Stabilità. Se ci sarà ripresa dell'occupazione, sarà dunque per effetto di questi due fenomeni e non certo dell'eliminazione dell'articolo18.
SUSCITA COMUNQUE perplessità il fatto che il governo non abbia voluto fare marcia indietro almeno per quanto concerne i licenziamenti collettivi, sui quali un chiaro segnale era arrivato dal Parlamento (per la loro eliminazione dal pacchetto che esclude l'articolo18).
Difficilmente comprensibile poi è l'altra affermazione del capo del governo secondo cui, con il nuovo schema di decreto sul riordino delle tipologie contrattuali, si eliminerebbero la gran parte dei contratti parasubordinati per convogliare tutti verso il contratto a tempo indeterminato. In realtà i contratti di parasubordinazione restano tutti, eccezion fatta per job-sharing e associazione in partecipazione, oltre ai contratti a progetto.
E non è stato minimamente toccato nemmeno il contratto a termine (riducendo, come era stato suggerito, ad almeno 24 mesi il termine massimo di durata del contratto privo di causale): come si pensa di portare tutti nel contratto a tempo indeterminato se si mantiene un contratto (quello appunto a termine) che rappresenta oggi l'80 per cento delle assunzioni e che resta molto più conveniente per le imprese?
Per quanto riguarda il contratto a progetto poi, la sua abolizione, a partire dal gennaio 2016, è stata presentata con le medesime suggestioni che avevano visto dodici anni fa, l'eliminazione dei co.co.co. in favore dei co.co.pro. Ho sentito il presidente del Consiglio e il suo ministro del Lavoro affermare che l'eliminazione per legge dei co.co.pro. produrrà la scomparsa delle false collaborazioni e il mantenimento solo delle genuine collaborazioni autonome. La stessa cosa era infatti stata affermata nel 2003, all'entrata in vigore del decreto legislativo 276 che cancellava i co.co.co: e abbiamo visto tutti come i contratti a progetto siano diventati rapidamente un numero incalcolabile. Allo stesso modo è ampiamente prevedibile che la cancellazione dei co.co.pro. produrrà l'obbligo per i lavoratori a progetto di dover aprire la partita Iva per mantenere una sorta di rapporto di lavoro. A fianco di un aumento esponenziale di nuove partite Iva, poi, si aggiungerà una reviviscenza massiccia del lavoro nero.
TORNANDO sul contratto a termine, c'è da notare che il decreto approvato prevede che il superamento delle soglie previste per legge o per contratto non determini la conversione del contratto in un rapporto a a tempo indeterminato, ma venga semplicemente applicata una sanzione amministrativa. E' stato anche sostanzialmente riscritto l'articolo 2094 del codice civile: dal gennaio 2016 le collaborazioni che si concretizzino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro, rientrano nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
Ultima notazione negativa è rappresentata dalla modifica dell'articolo 2103 del codice civile con la previsione della possibilità per le imprese di assegnare al dipendente mansioni inferiori, nel caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali o nelle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, anche aziendale. Inoltre possono essere stipulati nelle sedi di cui all'articolo 2113, ultimo comma, del codice civile, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni e del livello di inquadramento (quindi anche oltre un solo livello in meno) e della relativa retribuzione.
È SENZ'ALTRO VERO che venerdì 20 febbraio rimarrà una data storica, come ha detto il capo del governo, ma soltanto per questa ulteriore, violenta, spallata ai diritti dei lavoratori.
*avvocato

Il Sole 25.2.15
Call center esclusi dal Jobs Act
Costamagna (Assocontact): «Il governo ha riconosciuto la nostra specificità»


Milano. «Noi non siamo un’eccezione alla regola. Piuttosto riteniamo che il Governo abbia capito che non stiamo scherzando, che la nostra volontà è quella di tutelare posti di lavoro». Umberto Costamagna, presidente di Assocontact, l’associazione che rappresenta i contact center in outsourcing, considera una vittoria la versione finale del decreto delegato approvato venerdì scorso da Palazzo Chigi.
Il decreto riguardante il contratto a tutele crescenti prevede infatti l’abolizione dei contratti di collaborazione a progetto a partire dal 1° gennaio 2016, ma facendo salve «le collaborazioni regolamentate da accordi collettivi».
Proprio quello che è avvenuto per i call center, settore da 1,3 miliardi di euro di fatturato (che salgono a 1,9 considerando anche subappalti, lavoro all’estero e back office) con 200 aziende e 80mila lavoratori e in cui un accordo collettivo è stato siglato l’1 agosto 2013 riguardo ai lavoratori impiegati in attività “outbound”. Con questo termine si indicano appunto quei lavoratori dei call center che fanno telefonate per vendere beni o servizi e che, a differenza dei lavoratori “inbound” (che rispondono alle telefonate in entrata) sono inquadrati con contratti a progetto. Se il decreto delegato approvato venerdì non avesse previsto un’eccezione, ai contact center non sarebbe rimasta altra strada che inquadrarli diversamente. «Non sarebbe stato possibile. Comunque - replica Costamagna - c’è da rilevare il buon esito di un lavoro di spiegazione che abbiamo portato avanti per far presente la nostra specificità e questo accordo di agosto 2013 che è innovativo, con tutte le tutele per queste categorie di lavoratori. E, ripeto, abbiamo salvato posti di lavoro».
Il giudizio del mondo sindacale non è unanime. Per Giorgio Serao (Fistel Cisl ) «vanno giudicati positivamente il contratto a tutele crescenti e la salvaguardia dei contratti a progetto per le attività di outbound. Dall’altra parte però con gli incentivi alle nuove assunzioni e la mancanza di regole per i cambi d’appalto, per il settore c’è il rischio di scontrarsi con problemi enormi nei prossimi mesi. Ci sarà sempre chi è pronto a subentrare a condizioni migliori potendo contare su un abbattimento dei costi legato, paradossalmente, alle nuove assunzioni».
Critico tout court invece il giudizio di Slc Cgil. Per il segretario nazionale Michele Azzola, «con una battuta verrebbe da dire al premier che è vero che i contratti a progetto sono stati eliminati, ma solo dove poteva essere evitata l’eccezione. La verità è che il Governo non ha voluto mettere mano per bene al settore dei call center. Credo che il Jobs act, non eliminando le collaborazioni a progetto, e la legge di stabilità, con gli incentivi alle assunzioni, vadano a creare danni irreparabili al settore dal punto di vista industriale. E invece sarebbe stata l’occasione buona per ragionale, seriamente, su un nuovo modello industriale per i call center».

il manifesto 25.2.15
Camusso a Renzi: “Ti allontani dalla Costituzione”
Scontro Pd-Cgil. La numero uno del sindacato accusa il premier di "torsione democratica" nei confronti di Parlamento e parti sociali
Poi conferma la proposta di legge per un nuovo Statuto dei lavoratori, e non esclude un referendum
Taddei difende il governo: "Abbiamo messo fine al precariato"
di Antonio Sciotto

qui

Corriere 25.2.15
Camusso-Taddei, scintille a sinistra
Dibattito infuocato sul Jobs act. Il segretario Cgil attacca il responsabile economia dei dem: propaganda
di Lorenzo Salcia


ROMA Pantaloni rossi lei, maglioncino blu simil-Marchionne lui. C’era una volta la Cgil cinghia di trasmissione del partito di sinistra più grande d’Europa. Stamattina, invece, anche il dress code dice che le trasmissioni sono finite da un pezzo e che piuttosto bisogna marcare la distanza.
Casa del jazz, villa confiscata alla banda della Magliana e trasformata in spazio eventi. Il confronto è fra Susanna Camusso, il segretario generale della Cgil, e Filippo Taddei, il responsabile economia del Pd tra i guru del Jobs act, la riforma del lavoro targata Renzi. Trattandosi di evento era difficile immaginare un lancio migliore: il segretario della Fiom Maurizio Landini ha detto che il sindacato deve pensare a una «coalizione sociale», Camusso ha già risposto che «noi dobbiamo fare il nostro mestiere di rappresentanza dei lavoratori»; Landini rilancia dicendo che la Fiom ha 350 mila iscritti, più del Pd, e dal Pd ribattono che i loro tesserati sono in realtà di più, 366 mila. Poi c’è pure l’ex segretario Pier Luigi Bersani: «Adesso puoi essere licenziato perché sei stato troppo al bagno», dice preparando il terreno per la convention della sinistra Pd di marzo. Mentre la presidente della Camera Laura Boldrini torna sull’uomo solo al comando di cui aveva parlato domenica: «Non credo Renzi se la sia presa» ma «da presidente era mio dovere difendere le commissioni parlamentari». Insomma, la sinistra è davvero una gioiosa macchina da guerra. E qui alla sala del jazz il dibattito è altrettanto frizzante.
«Il governo non ha nessuna idea dell’orizzonte verso il quale vuole andare ma solo una disperata voglia di propaganda» attacca Camusso che gioca in casa, perché la tavola rotonda è stata organizzata dalla Cgil. «Non si può guardare solo alle riforme del lavoro senza considerare quanto era grave la situazione del Paese. Si può discutere dell’efficacia del nostro intervento, non delle sue intenzioni» replica Taddei nella tana del lupo, con un brusio di dissenso che lo accompagna ad ogni intervento. Due analisi diverse, due ricette opposte. E due mondi lontani anche quando si scende nel tecnico.
Prendete il contratto a tutele crescenti, il cuore del Jobs act , che tra pochi giorni sostituirà di fatto il reintegro da parte del giudice con l’indennizzo economico. Il segretario della Cgil (che lo chiama sempre «a monetizzazione crescente») fa la sua previsione: «Fra tre o quattro mesi il governo dirà che ha avuto un successo straordinario. Solo che gran parte di quel lavoro non sarà aggiuntivo ma sostitutivo, lavoratori anche a tempo indeterminato che saranno spostati su questo contratto accettando tutele più basse». Taddei ribatte: «Ma come si fa a dire questo? Oggi un precario viene mandato via in 30 giorni, senza indennizzo subito e senza ammortizzatori sociali dopo. Con questo contratto avrà indennizzo e ammortizzatori». Il brusio sale di tono. «Segretario» lo chiama lei, reggendogli il microfono. «Non sono segretario, faccio parte della segreteria del partito», risponde lui. E la Camusso lo incalza ancora: «Nel sindacato tutti quelli che sono in segreteria sono segretari. Siamo democratici, non gerarchici». In sala qualcuno dice che sembrano Sandra e Raimondo in Casa Vianello . E per fortuna siamo ai titoli di coda.

Repubblica 25.2.15
La politica al tempo dell’esecutivo
Le parole seduttive come riforme innovazione e crescita sono parole non di libertà ma di necessità che non lascia spazio alla scelta del perché
Nella democrazia costituzionale non c’è posto per “aventini”
Il partito che ha ottenuto il maggior successo ha l’onere di governare senza fratture
di Gustavo Zagrebelski


L’articolo è una sintesi del testo che Gustavo Zagrebelsky presenterà per la discussione a Firenze venerdì e sabato all’associazione Libertà e Giustizia

VIVIAMO un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio.
IL loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.
Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.
Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità.
Il tempo esecutivo e nonpolitico è anche tempo della tecnica che soppianta la Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa.
La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica.
Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.
Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un’ (altra) ideologia.
Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.
La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue — segue per conseguenza — l’azione tecnico-esecutiva.
Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche.
Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.
Quando si denuncia il deficit di depolitica. mocrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè — per usare uno slogan — come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ ente viene presentato e imposto come se fosse l’ essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.
Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Na- zione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, eccetera.
Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta — come dicevano i costituzionalisti d’un tempo — la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umili spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro — deputati e senatori — che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?
Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”. Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo.
Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.
Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso — non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.
Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.
Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.

il Fatto 25.2.15
Pd: vedi alla parola modernità
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, nei giorni scorsi due esponenti Pd, Delrio e Cuperlo, si sono scambiati accuse sulla parola “modernità”. L’uno ha accusato l’altro di non essere moderno. Sta entrando un nuovo linguaggio in politica?
Savino

A PRIMA VISTA si direbbe che il potente sottosegretario Delrio, stimolato anche dal frequente inno del suo capo alla velocità, sia stato sfiorato da un vento di Futurismo. Deve stare attento, dati i tempi, perché la terza parola magica del Futurismo, dopo modernità e velocità, era guerra (un evento al quale Renzi si dichiara pronto). Temo però che tutta la polemica si svolga a un livello più basso, almeno sul lato della nuova strategia linguistica del renzismo. La missione, che può essere affidata persino alla Serracchiani (contro la presidente della Camera) o alla Madia, persona naturalmente gentile, se si tratta di respingere critiche alla sua inesistente legge di riforma della Pubblica amministrazione, è di screditare sempre e subito l'avversario. Un presidente del Consiglio spavaldo e sicuro come Renzi potrebbe benissimo dire a Landini: “Benvenuto, c’è sempre bisogno di nuove energie nella politica” invece di dargli del sindacalista fallito e trattarlo da scarto di Marchionne. Delrio, nonostante la sua faccia da santo di monastero trentino intagliata nel legno, è ligio allo sbrigativo codice Renzi. Se non puoi dare del “vecchio” a qualcuno, digli che non è moderno. Significa: “ma che cosa puoi capire, figlio mio? Non lo vedi che sei fuori tempo?”. Quotidiane esibizioni di questa generosa attitudine verso il minimo cenno di dissenso, Renzi e i suoi non la negano a nessuno. Per esempio sarebbe facilissimo, per un vincitore da opera lirica (che lo sappia o no, è il suo modo di apparire) dare la parola alle insegnanti che, nel corso della sua trionfale conferenza stampa sulla Scuola, avrebbero voluto intervenire. Non risulta che le abbia mai incontrate e sentite prima, e non gli spettava il ruolo esasperato di chi non può ascoltare tutti, perché sulla scuola non ha ascoltato nessuno. Però le zittisce, da maschio microfonato che non ha proprio niente da spartire con queste signore, e soprattutto non ne ha voglia. Ragionevole dunque che si pensi a un renzismo ogni giorno più autoritario. Diteglielo e lui vi risponderà che vi state rodendo perché siete dei falliti e non avete avuto il suo successo e il 40 per cento dei voti alle elezioni europee. Come è giusto per un erede, lui va molto al di là di Berlusconi che si limitava, mentre andava per ville e ragazze, ad accusare i suoi critici di invidia.

Corriere 25.2.15
Speranza: un Pd democratico rispetta il Parlamento
Il governo ha sbagliato
di Monica Guerzoni


ROMA «Il capogruppo che dice “il governo ha sbagliato” non è un passaggio banale...».
Tutt’altro che banale, presidente Roberto Speranza. Ci ha ripensato?
«No, ritengo sia stato un errore non seguire l’indicazione che le commissioni di Camera e Senato avevano dato sul tema dei licenziamenti collettivi».
Il premier ha tradito i patti con voi della minoranza?
«Non ne farei una questione di maggioranza e minoranza, non siamo al mercato delle vacche. Sto ponendo una questione sostanziale, il rapporto tra Parlamento e governo. Il Pd che è cardine della democrazia in Italia deve essere il partito che ridà piena centralità al parlamento».
Cosa non funziona?
«Il passaggio del Jobs act, sul tema specifico dei licenziamenti collettivi, segnala un allarme. Sul punto formale non ho nulla da dire, perché i pareri delle commissioni non sono vincolanti. Ma c’è un problema di opportunità politica».
Alla Boldrini non piace «l’uomo solo al comando»...
«Non credo al teorema dell’uomo solo al comando. Così come mi sembrano infondate le preoccupazioni di una deriva antidemocratica. Detto questo, Renzi stesso sa bene che nessuno ce la fa da solo».
Teme un premier forte e un Parlamento debole?
«Un governo determinato e capace di decidere è un punto di forza, però la forza del governo non basta. Ci aspettano mesi decisivi per il Paese. Sul piano della ripresa finalmente si vede una speranza, come lo stesso Renzi ha più volte evidenziato. Siamo dentro un ambizioso percorso di riforme, dalla legge elettorale alla revisione costituzionale, dal fisco alla scuola».
Il che giustifica il procedere a colpi di fiducie e decreti, per dirla con le opposizioni?
«Non sto ponendo una questione tecnica o regolamentare, sto dicendo “occhio, perché se non si costruisce un rapporto vero con il Parlamento non si va da nessuna parte”. Per vincere le sfide che abbiamo davanti è assolutamente imprescindibile una piena sintonia tra Parlamento e governo. Se vogliamo dare efficacia ai provvedimenti c’è bisogno dell’autonomia e dell’autorevolezza del Parlamento».
L’aver ignorato le commissioni è un vulnus alla democrazia parlamentare?
«No. Il governo non ha violato nessuna norma. Ma perché il sistema funzioni meglio è fondamentale un rapporto migliore tra Parlamento e governo. Valorizzare il ruolo del Parlamento è compito del Pd. Fa bene alla democrazia e rafforza il governo».
C’è aria di scissione?
«No. La parola scissione non esiste. La sinistra deve essere protagonista dentro il Pd».
La sconfitta sul Jobs act sembra confermare che non lo è. Il Pd va a destra, come dicono alcuni suoi colleghi?
«No. Il Pd è il più grande partito della sinistra europea perché non smarrisca la sua strada. La mia scommessa è che la sinistra resti protagonista anche in un partito più largo come è oggi il Pd».
Si batterà per il referendum sull’articolo 18?
«No, non mi sembra questa la risposta giusta».
E sui nominati dell’Italicum, vi siete arresi?
«La discussione è aperta, non esistono provvedimenti blindati. Il Parlamento è sovrano e i capilista bloccati sono sicuramente un tema, perché si rischia che i partiti minori eleggano solo parlamentari nominati. Ma prima ancora c’è il rapporto tra governo e Parlamento».
Bersani rivendica il metodo Mattarella, che però Renzi ha adottato una volta sola.
«Non è così, nel nostro lavoro parlamentare quotidiano emerge anche il punto di vista della sinistra. Su coppie di fatto e ius soli ci batteremo per far avanzare i diritti. Quando il Pd è unito non vince Renzi o la minoranza, vince il Paese. L’elezione di Mattarella deve restare un modello».
A che serve la convention della minoranza?
«A far capire che il Pd e la stessa azione del governo sono più forti se la sinistra è protagonista».
Landini la convince?
«No, non è la nostra strada. C’è bisogno di una sinistra di governo che migliori la vita dei cittadini. Le urla e i proclami televisivi non bastano» .

Corriere 25.2.15
Le mosse della minoranza non preoccupano il premier: manovre per trovare spazi
Ai suoi spiega: il capogruppo non esageri, ricordi il suo ruolo
di Maria Teresa Meli


ROMA La polemica dentro il Partito democratico nei confronti del premier-segretario si sta inasprendo. La minoranza, che dopo la «sconfitta» sui decreti attuativi del Jobs act, temeva di veder appannata la sua immagine tenta di serrare i ranghi. Tanto che persino il capogruppo dei deputati Roberto Speranza — reduce da mesi e mesi di mediazione tra il presidente del Consiglio e i bersaniani — è uscito allo scoperto, abbandonando l’opposizione soft.
Eppure il premier fa mostra di non preoccuparsi eccessivamente di quello che sta accadendo nei gruppi parlamentari del suo partito. «Sono tutte manovre di posizionamento», taglia corto. A suo giudizio si tratta solo di questo, non dell’inizio di una guerra vera e propria nei suoi confronti. Semplicemente, la minoranza cerca di ritagliarsi degli spazi di manovra e di trovare il modo per contrattare sui prossimi provvedimenti. Almeno, questo è il giudizio di Renzi. Che non sembra impressionarsi troppo nemmeno per l’offensiva del solitamente mite capogruppo del Partito democratico alla Camera, generalmente più propenso alla mediazione e alla ricerca di un accordo con la maggioranza che allo scontro: «Speranza deve mantenere il punto, ma non può esagerare, altrimenti rischia di perdere il ruolo».
Già, perché il presidente dei deputati del Pd deve essere il presidente di tutti, dei non renziani come dei renziani. Non può spingersi a fare l’uomo di parte, se decide di mantenere una carica come quella. E infatti non è un caso se da due giorni, a Montecitorio, non si parla d’altro, tra i parlamentari, che dell’opportunità che Speranza resti al suo posto dopo l’affondo al segretario. Una fetta dei renziani vorrebbe, a metà legislatura, quando le cariche vengono rinnovate o confermate, proporre un altro al suo posto. Ma c’è invece chi spinge per non inasprire ulteriormente lo scontro e per svelenire il clima. Clima che, comunque, non sembra preoccupare il presidente del Consiglio, il quale, guardando alle manovre della minoranza nei due rami del Parlamento, commenta senza acrimonia, ma con un filo d’ironia: «Sono tutte finte e nel frattempo l’articolo 18 non c’è più, mentre la Fiom perde pezzi. La realtà è questa, il resto sono illazioni, ipotesi e dietrologie». Insomma, il premier non è certo tra coloro che chiedono la testa di questo o di quello perché è convinto che nel Partito democratico «ognuno sappia bene fin dove possa spingersi» .
Ma in realtà l’attacco è concentrico. Viene dal leader della Fiom, Maurizio Landini, che accusa Renzi di non essere stato eletto. Come ad accusarlo di essere un usurpatore. Il presidente del Consiglio gli risponde da Parigi e ha gioco facile a replicargli: «Ricordo che l’Italia è una Repubblica parlamentare e che nella discussione costituzionale proprio Landini ha molto combattuto per evitare che si trasformasse in qualcosa di diverso. E quindi è il Parlamento che dà la fiducia a un governo».
E non c’è solo Landini, anche la presidente della Camera Laura Boldrini attacca Renzi. Sull’ipotesi di un decreto Rai, per esempio. Eppure l’iter immaginato dal premier non cambia. Si occuperà di scuola e di Rai: «Non mi fermeranno. Vogliono provocarci, ma non abbiamo tempo per le risse verbali. I dati sono incoraggianti, noi lavoriamo per portare a casa il risultato, le polemiche sulla leadership nella sinistra non ci riguardano. Noi ci occupiamo di cose concrete, non di beghe». Quanto al problema decreti, quello Rai incluso, sollevato da Boldrini, dipende tutto dall’ostruzionismo: «Se le opposizioni lo applicano in ogni passaggio parlamentare, lo strumento naturale, chiamato in gioco dalla carta costituzionale diventa il decreto legge». E a Boldrini replica anche il vicesegretario Guerini: «I decreti li valuta il presidente della Repubblica, non lei, le servirebbe ripassare la Costituzione».
Insomma, si va incontro a un periodo difficile. Senza contare che una fetta del Pd vuole mandare sotto il governo sull’Italicum alla Camera. Bersani dice a tutti i deputati: «Io i capilista bloccati non li voto». Con lo scrutinio segreto la minoranza potrebbe riuscire nel suo intento. Non a voto palese, perché non bastano una quarantina di deputati dissidenti per mandare in tilt la maggioranza. E la minoranza pd medita un altro gesto clamoroso: le dimissioni dalla segreteria unitaria. Renzi tace e aspetta di capire quale sia il vero oggetto di scambio: posti sicuri in lista alle prossime elezioni?

Corriere 25.2.15
L’altolà di Boldrini sul decreto Rai
Ira del Pd: spetta al Colle decidere
La terza carica dello Stato: non c’è urgenza. Il premier: dipende dall’ostruzionismo
di Paolo Conti


ROMA Il presidente della Camera, Laura Boldrini, interviene sulla Rai: «Il decreto legge si deve fare quando c’ è materia di urgenza. Sulla Rai non c’è qualcosa di imminente, non c’è una scadenza». È il no della terza carica dello Stato all’ipotesi formulata dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, un possibile decreto legge di modifica dei criteri di nomina dei vertici di Viale Mazzini. Ne aveva riparlato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: «Si ricorrerà al decreto legge se ci sarà ostruzionismo». E in serata è lo stesso premier a rimarcare: «Saremo in grado di fare qualche decreto in meno, se le opposizioni faranno qualche atto di ostruzionismo in meno». E se Ncd e Forza Italia si trovano in pieno accordo con Boldrini, dal Pd interviene il vicesegretario Lorenzo Guerini: «La valutazione sulla necessità e urgenza dei decreti spetta al presidente della Repubblica e a nessun altro». E Michele Anzaldi: «Critiche stupefacenti». Intanto il sottosegretario allo Sviluppo con delega alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli, parla di un «equivoco» a proposito delle dichiarazioni di Padoan interpretate come un via libera al discusso piano di riforma dell’informazione Rai del direttore generale Luigi Gubitosi «… sicuramente voleva riferirsi alle quotazioni di Rai Way. Con tutto quello che ha da fare non credo che il ministro abbia avuto il tempo di approfondire le criticità del progetto informazione del servizio pubblico». Chi è vicino a Padoan conferma: era una «valutazione generale» sull’operato dei vertici Rai. Per domani è convocato il consiglio di amministrazione Rai a Milano. Con una novità. Gubitosi non solo presenterà il piano (riduzione a due soli direttori per i tg Rai) ma lo metterà immediatamente in votazione. Un’accelerazione decisa ieri per chiudere una partita che Gubitosi ritiene conclusa in base al principio per il quale ai vertici Rai spettano i compiti di gestione dell’azienda. Si annuncia un clima incandescente in Vigilanza Rai, convocata per oggi alle 14. Per il presidente Roberto Fico, Movimento 5 Stelle, è possibile avviare un meccanismo di revoca del consigliere di amministrazione Rai Antonio Verro (Forza Italia) rivolgendosi all’assemblea dei soci Rai. Forza Italia lo diffida con una lettera firmata dai consiglieri (tra cui Maurizio Gasparri, Paolo Romani, Renato Brunetta, Giorgio Lainati): «La commissione non può avocare a sé un potere che la normativa vigente chiaramente attribuisce al ministero dell’Economia». Fico controbatte: «Useremo tutti gli strumenti necessari per fare definitivamente chiarezza su questa vicenda. Non ci fermiamo davanti a niente!». Intanto l’ufficio di presidenza ha deciso la convocazione della presidente Rai, Anna Maria Tarantola. Verro è sotto accusa per una lettera dell’agosto 2010 inviata a Silvio Berlusconi (di cui l’interessato disconosce completamente la paternità) in cui si elencano trasmissioni «fortemente connotate da teoremi pregiudizialmente antigovernativi» (Berlusconi allora era a Palazzo Chigi, ndr) e si suggeriva la nomina di Susanna Petruni a direttore di Rai Due.

Corriere 25.2.15
La presidente e le due bacchettate al governo
di A. Gar.


Tra sabato e ieri la presidente della Camera Laura Boldrini è intervenuta molte volte nel vivo della politica italiana. Sabato sul dovere del governo di ascoltare il Parlamento e sui rischi dell’«uomo solo al comando». Il riferimento era al Jobs act e al parere delle commissioni che bisognava tenere «nel dovuto conto». Ieri, sulla non necessità di un decreto sulla riforma della Rai. In serata, è andata in tv, da Giovanni Floris e ha parlato, fra l’altro, contro i vitalizi agli ex deputati condannati per mafia. Non basta: lei, accusata di aver gestito la Camera a favore del governo in occasione della riforma costituzionale, ha aggiunto che «il governo ha bisogno di tempi certi, ma bisogna anche dare garanzie alle opposizioni». Il Pd è insorto, il vicesegretario Guerini l’ha invitata a pesare le parole, a tornare «figura di garanzia»: «Non è lei il capo dello Stato». In tv Boldrini ha espresso il desiderio che la sinistra sia unita «in un progetto con una visione progressista del Paese». Lei, eletta in una coalizione Pd-Sel, che «si è purtroppo rotta subito».

Repubblica 25.2.15
Svolta per i magistrati pagheranno i loro errori con la responsabilità civile
Il Gip Ezia Maccora
“È incostituzionale, mina la nostra indipendenza”
intervista di L. Mi.


ROMA Ezia Maccora, il gip del caso Yara, toga storica di Md ed ex Csm, sulla legge non fa sconti alla politica.
A questo punto non è troppo debole il no allo sciopero?
«La decisione dell’Anm è stata di grande responsabilità. Non aver scelto forme estreme di protesta nulla toglie al giudizio fortemente negativo sulla riforma della responsabilità civile».
Preoccupati ma responsabili?
«Assolutamente. Alla incomunicabilità dello scontro e alla logica degli slogan preferiamo la forza delle argomentazioni e del ragionamento in grado di far comprendere ai cittadini la vera posta in gioco: permangono criticità che minano l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati e, quindi, il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge».
Legge incostituzionale: dove?
«Nel 1990 la Consulta ha sottolineato l’importanza del filtro di ammissibilità dell’azione civile di responsabilità per escludere azioni temerarie e intimidatorie. Oggi quel filtro viene eliminato, senza alcun studio sull’impatto della legge e in controtendenza rispetto a leggi deflative varate dal legislatore. Da domani potrà essere più facile arginare i magistrati “scomodi”, con azioni pretestuose che faranno proliferare incompatibilità».
Avete paura di fare i magistrati?
«La riforma coinvolge direttamente l’attività valutativa e interpretativa del giudice, cioè il cuore della giurisdizione, in contrasto con le pronunce della Consulta».
Che pericoli vede?
«Il mestiere del giudice è dare ragione a una parte e torto all’altra. E quindi ci sarà sempre una parte, quella a cui il giudice ha dato torto, che potrebbe valutare utile intraprendere strumentalmente un giudizio contro il giudice che l’ha condannata ».
Se così fosse i ricorsi sarebbero migliaia...
«Certamente e se questa parte è economicamente forte, l’azione contro il giudice sarà la regola. C’è il rischio che in futuro i magistrati, soprattutto i più giovani, non privilegeranno interpretazioni innovative e saranno molto “timidi” nei confronti dei «poteri forti» se dovranno discostarsi da una consolidata giurisprudenza».

Repubblica 25.2.15
Per la scuola non basta uno slogan
di Nadia Urbinati


IL PRESIDENTE del Consiglio lancia l’ambizioso progetto “la buona scuola”. Lo fa alla fine di una consultazione con i diretti interessati (alunni, docenti e famiglie) che egli stesso ha giudicato un evento unico, non solo nel nostro Paese. In una recente puntata di Piazzapulita si è avuto modo di capire che le cose non stanno proprio in questi termini: l’ascolto è stato pilotato e molti temi concreti che le scuole statali hanno urgente bisogno di discutere e risolvere non hanno avuto centralità, anche perché poco attraenti. In effetti, parlare della mancanza cronica di carta igienica nelle scuole statali di ogni ordine e grado, sapere che i genitori si autotassano ormai abitualmente per coprire le spese ordinarie degli istituti frequentati dai loro figli che lo Stato non copre: tutta questa concretezza non consente di fare spot attraenti sulla buona scuola del futuro. Tuttavia questi sono i problemi. Che non svaniscono con gli slogan: “Sì, serve la carta igienica, ma fateci sognare”. Semmai, si potrebbe dire al presidente Renzi che i sogni li dovrebbero poter fare le scuole, non il governo. E vi è di che dubitare che questi provvedimenti ben propagandati vi riescano.
Prima di tutto perché lo Stato ha dichiarato di non potere coprire le spese delle sue scuole. È come se dicesse: non possiamo garantire i diritti civili perché non abbiamo soldi a sufficienza per sostenere i tribunali. Non ci sono fondi a sufficienza. Ma se lo Stato (e i suoi organi amministrativi) finanziasse solo le sue scuole, come la Costituzione gli comanda, i soldi non sarebbero un problema così emergenziale. A fine gennaio l’Espresso ha dedicato al depauperamento della scuola statale un’inchiesta ben fatta. Eccone il senso: “Settecento milioni l’anno di denaro pubblico vanno ad aiutare gli istituti paritari, mentre lo Stato non ha soldi neppure per rendere sicure le aule. Un flusso che parte dal ministero dell’Istruzione, dalle Regioni e dai Comuni e finisce senza controlli ad enti privati di scarsa qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame”. Governatori e sindaci, continua l’Espresso, alimentano un fiume carsico di denaro pubblico per le private, un federalismo scolastico che si somma alla sovvenzione ministeriale. L’articolo 33 della Costituzione è raggirato, e non da oggi, con l’escamotage degli aiuti alle famiglie. La Costituzione sembra non avere forza, sembra parlare la lingua dei sogni, ma non di quelli che piacciono a chi la dovrebbe attuare.
E il progetto detto “buona scuola” non cambia questo trend privatistico, ma lo legittima, lo regolamenta e lo stabilizza. Lo ha confermato proprio il presidente del Consiglio in conferenza stampa: «In futuro chiederemo autonomia anche dal punto di vista economico, così che una parte della dichiarazione dei redditi possa andare a una singola scuola». Ovvero, chi non ha figli si sentirà libero di non dare alcun contributo alla scuola pubblica, trattata come la religione o i partiti politici: oggetto di libera scelta individuale. Benché la scuola sia un bene pubblico, non privato che si può scegliere o non scegliere. La logica che guida questo progetto è opinabile: prima di tutto perché associa la tassazione per beni pubblici al consenso individuale — questo è esattamente quanto dagli anni Settanta sono andati predicando i teorici liberisti; questa è stata la filosofia che ha guidato i governi Reagan. E il reaganomics è la direzione di marcia del nostro governo sulla scuola statale.
Lo Stato si impegna a istituire e sostenere scuole di ogni ordine e grado: lo Stato, non i singoli secondo la loro personale preferenza e decisione. È evidente che il governo cerca di vendere il prodotto appellandosi all’autonomia scolastica. Ma legare il destino della scuola statale alle preferenze individuali non è una condizione di autonomia ma di assoluta dipendenza dal privato. È stupefacente come non si crei un dibattito serio e ragionato su temi così rilevanti, come le rivendicazioni della minoranza nel Pd non sappiano tradursi in contro-proposte che incalzino la maggioranza con argomenti efficaci. La dialettica sarebbe di aiuto al governo che potrebbe voler accettare la sfida della discussione e migliorare la sua proposta. In questo momento, i cittadini restano fuori del palazzo, inascoltati e fortemente critici. Organizzano convegni, lanciano petizioni, firmano documenti, ma la loro voce non ha risonanza. Non hanno rappresentanti nei partiti e non hanno nel Parlamento un interlocutore. Politica costituita e opinione dei cittadini marciano su binari paralleli.

il Fatto 25.2.15
Indovina chi c’era a cena con Renzi
Il premier nasconde chi lo finanzia, le cene restano top secret
Sono ancora 1485 su 1500 i “commensali “senza volto”, tra cui Salvatore Buzzi oggi detenuto al 41 bis
di Carlo Tecce


Dopo le kermesse di novembre a Milano e a Roma con Buzzi & C. (che fruttarono al Pd 1,5 milioni), il leader aveva promesso: “Tutto trasparente, avrete la lista di chi ci sostiene”. Ma a Montecitorio il tesoriere ha comunicato solo 15 donazioni, di cui 8 senza nome. Totale: circa 100 mila euro. E il resto?

Il 6 novembre a Milano e il giorno dopo a Roma, il Partito democratico ha organizzato due cene per una raccolta fondi al prezzo di minimo 1.000 euro a coperto. I tavoli erano stracolmi, 1500 i partecipanti. Matteo Renzi ha sbrigato presto la moltiplicazione: “Abbiamo incassato 1,5 milioni di euro”, disse entusiasta. Sono passati tre mesi e 18 giorni, svariate rivendicazioni di assoluta limpidezza, ma la lista dei commensali non l’hanno mai diffusa.
AL NAZARENO lavorano indefessi per produrre un elenco, per squarciare la fastidiosa patina di opacità. Quando domandi: a che punto è giunta la compilazione? Ti rispondono piccati: “Un primo gruppo di nomi li abbiamo comunicati”. Più che un gruppo, si tratta di una sparuta rappresentanza: 15 donatori su 1500, circa 100 mila euro su 1,5 milioni. I 15 hanno versato quote da 5.000 a 8.000 euro. Il documento consiste in un’autocertificazione che il Nazareno ha inviato agli uffici di Montecitorio; il foglietto vaga fra la Camera e la Commissione, non ancora insediata, che deve rendicontare i bilanci dei partiti. In sintesi: il documento non esiste. Nessuno l’ha registrato perché, fin quando non diventa operativa la Commissione composta da quattro magistrati contabili, le autocertificazioni non sono valide. E ancora: otto su quindici del “primo gruppo” hanno chiesto l’anonimato. All’appello mancano 1485 donatori. Conviene, allora, rileggere le sferzate di Renzi ai gufi considerati troppo insolenti sul tema. Il 18 novembre celebrava l’evento: “Trovo naturale che si organizzino cene in modo trasparente con persone che accettano di dichiarare il proprio contributo. Ho potuto verificare la demagogia delle accuse di chi dice: ah, lui va a cena per mille euro. Sono gli stessi che magari un anno fa dicevano: ah, il Pd non ha ancora tolto il finanziamento pubblico. Delle due l’una, amici: o si accetta il finanziamento pubblico o si organizzano iniziative trasparenti e chiari di raccolta fondi. Tutto il resto è demagogia”. Siccome poi il resto non era demagogia e molte persone non hanno accettato di dichiarare la propria identità, il 3 dicembre, Renzi è tornato sull’argomento con la sicumera di chi garantisce qualcosa che gli sta per sfuggire di mano: “Il Pd non si fa finanziare di nascosto, pubblica i suoi finanziatori”. Per il momento, non li ha pubblicati. E quelli trasmessi ai burocrati sono quindici. Poi ci sono le indiscrezioni non smentite, uscite a dicembre con la retata di Mafia Capitale e l’incarico a Matteo Orfini, commissario del partito a Roma. S’è saputo soltanto che, oltre agli imprenditori e ai boiardi che sfilavano in passerella col sorriso rivolto ai fotografi, al Salone delle Tre Fontane al quartiere Eur c’erano Salvatore Buzzi, ora al 41-bis, e una delegazione della Cooperativa 29 giugno, propaggini a sinistra di Massimo Carminati er Cecato.
IL BANCHETTO per rastrellare denaro da imbucati, opportunisti e fedelissimi – o impresentabili – è uno strumento che, a parole, ha infastidito la minoranza dem. Ultimo in ordine di tempo, anche il sindaco Ignazio Marino ha criticato il modello renziano che, in inglese, si chiama fundraising: “Preferisco il partito delle Frattocchie a quello delle cena da mille euro”. E Maurizio Landini, punzecchiato da Renzi sui problemi all’interno del sindacato Fiom, ha provocato: “Gli vorrei ricordare che abbiamo 350 mila iscritti, più del Pd. E che non facciamo cene da mille euro”. Adesso che la trasparenza è scaduta, Renzi ha deciso di sospendere le cene. Per le elezioni regionali saranno tassati i parlamentari e il Nazareno staccherà un obolo. Ma non devono smettere di ricomporre la mappa dei finanziatori romani e milanesi. Non sarà tanto complicato. Ne restano 1.485 da annunciare. Renzi è così bravo con gli annunci.

il Fatto 25.2.15
Vitalizi dorati agli ex onorevoli condannati
Il Parlamento ne discute, ma non li toglie
di Tommaso Rodano


Vitalizi dorati agli ex onorevoli condannati. Sono (quasi) tutti d’accordo: è un privilegio insopportabile, un pessimo segnale delle istituzioni; bisogna abolirli. Sì, ma quando? Di questo passo, non prima delle calende greche. Perché – come si affrettano a spiegare gli onorevoli in Transatlantico – “la questione è complessa”. Non da un punto di vista etico, giammai, ma sotto il profilo formale, tecnico, “amministrativo-giuridico”.
Andiamo con ordine. Ieri il Fatto Quotidiano pubblica un articolo sui ricchi vitalizi che lo Stato italiano riconosce anche agli ex parlamentari condannati in via definitiva (tra gli altri Berlusconi, Dell’Utri e Previti). Proprio ieri, Laura Boldini si sente in dovere di sollecitare l’intervento degli onorevoli colleghi sull’argomento. La presidenza di Montecitorio ha la questione a cuore: rivendica di aver posto il problema già ad ottobre, poi di nuovo a giugno. In serata, lo ripete pure in tv, a Giovanni Floris su La7: “Vitalizi ai condannati? Personalmente li trovo inaccettabili”.
PRIMA DI LEI, ne aveva promesso l’abolizione anche il presidente del Senato, Piero Grasso. E allora, cosa si aspetta? L’iter – spiegano - è complesso e macchinoso, come nella migliore tradizione parlamentare. Con una curiosa coincidenza temporale, proprio l’altro ieri sarebbe stato trasmesso dal collegio dei questori del Senato un fondamentale atto che permetterebbe di chiudere la fase istruttoria. Proviamo a tradurre: la prima valutazione spetta ai questori delle due camere, poi si decide negli uffici di presidenza. Oggi, finalmente, è il grande giorno della riunione congiunta dei questori, che dovrebbe sbloccare l’impasse. Dovrebbe.
Chiediamo a uno di loro, l’onorevole Stefano Dambruoso di Scelta Civica (passato alla storia della legislatura per il ceffone alla deputata dei 5 stelle Loredana Lupo, durante una rissa da saloon a Montecitorio). “Nella riunione congiunta di domani (oggi, ndr), riceveremo un parere della Corte Costituzionale sulla praticabilità di quanto richiesto da Grasso e Boldrini”. Siamo ancora ai pareri, dunque. “Non c’è uniformità di giurisprudenza”, spiega Dambruoso: “È inutile intervenire con un provvedimento che rischia di essere bocciato dalla Consulta solo per dare soddisfazione a una richiesta dell’opinione pubblica”. Non entriamo nel merito. Ma i parlamentari non sentono la responsabilità politica? Non siete in ritardo su un tema così delicato? “Tardi rispetto a cosa? Il tema esiste da 50 anni. Io sono qui da poco”. Dambruoso, paradossalmente, è il più concreto. Il collega Gregorio Fontana, questore di Forza Italia, non nasconde di non avere alcuna fretta: “Decideremo, con serenità. Effettivamente c’è stato un ping pong un po’ ridicolo tra Camera e Senato. ‘Tocca a me, no, tocca a te’, ‘Vado io, no vai tu’. Bisogna agire in maniera coordinata”. Ma con serenità, mi raccomando. “Non le so dire i tempi”. Appunto. “Certo, non ci vorranno anni”. Fosse per Forza Italia, lascerebbe tutto così. “Mi sembra scorretto dire la mia opinione. Sono parte di una sintesi. Domani ci riuniamo con i questori”. Una sintesi. Finalmente. “Finalmente o non finalmente lo dice lei”.
E IL PD? Roberto Giachetti, vicepresidente di Montecitorio, riconosce la gravità della questione. “Deve essere messa all’ordine del giorno, negli uffici, dai presidenti di Camera e Senato, non lo hanno mai fatto”. Ma come, la Boldrini tuona contro i vitalizi, Grasso idem? “Appunto, c’è un rimpallo tra i due rami del Parlamento”. E il questore del Pd, Paolo Fontanelli? È molto seccato: “Non leggo i giornali, non ne so niente”. Come non ne sa niente, si parla dei vitalizi ai condannati. “Non mi interessano a me, ‘ste cose”. Non le interessano? È il suo lavoro. “Non ho tempo da perdere”. Meno male.

il Fatto 25.2.15
Lo strappo dei 500 contro il Pd dei faccendieri
In Sicilia un documento che accusa il partito “dei pochi e dei potenti”
E che punta a formare un cartello alternativo
di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza


Lo descrivono come un “siluro’’ diretto all’operato del sottosegretario Davide Faraone che appena tre giorni fa, a braccetto con il leader regionale Fausto Ra-citi, ha accolto nel Pd siciliano i deputati di Articolo 4: un quintetto di ex cuffariani ed ex lombardiani che non vedevano l’ora di saltare sul carro vincente del ‘’renzismo’’.
È IL DOCUMENTO “carbonaro’’ che circola in gran segreto tra i civatiani e i cuperliani di Sicilia, e che in queste ore passa di mano in mano tra gli iscritti di Trapani e Ragusa, di Enna e Catania, fucine del malcontento isolano. Due pagine di critica radicale a quel Pd “consegnatosi direttamente al centrodestra’’, che almeno 500 iscritti sarebbero pronti a firmare subito, con l’intenzione di restituire la tessera di quello che descrivono come il partito ‘’dei pochi, dei potenti e dei faccendieri’’, e ormai diventato “la negazione totale della storia e dei nostri valori’’.
L’obiettivo? Tutto è ancora top secret, ma da un capo all’altro della Sicilia vengono segnalate grandi manovre per lo “strappo’’ che porterebbe alla costruzione di un nuovo “cartello’’ della sinistra che aggreghi i fuorusciti del Pd ai superstiti di Sel, agli ex del M5S e a pezzi della Fiom. Con la benedizione di Leoluca Orlando, alla guida di Anci Sicilia, indicato come uno dei tessitori silenziosi della trama, che avrebbe l’intenzione -neanche tanto segreta- di succedere a Rosario Crocetta sulla poltrona di Governatore di Sicilia.
Sarà l’effetto Tsipras, sarà l’onda lunga di Podemos, ma le prove tecniche per il nuovo partito della sinistra, che da mesi lo stesso Pippo Civati vaticina, soffiando sui venti della scissione, sono in piena fase operativa in Sicilia, eterno laboratorio politico nazionale. Non è un caso che l’ideazione del documento dei 500 coincida con le dichiarazioni del leader della Fiom Maurizio Landini che, tra smentite e precisazioni, ha apertamente auspicato la nascita di un nuovo polo a sinistra del Pd.
Ma chi sono gli scissionisti pronti a lasciare il Pd siciliano accusato di essere un partito-macedonia? C’è Danilo Festa, consigliere comunale di Motta Sant’Anastasia (Catania), candidato a sindaco dal Pd del suo comune, ma stoppato dai quadri provinciali. C’è Nicola Manoli, consigliere comunale di Regalbuto (Enna), e ci sono Sabrina Rocca, Danilo Orlando e Lillo Fede, tutti di Trapani. Sono decine di amministratori locali, quadri di partito, e centinaia di semplici tesserati, stanchi di un Pd che ora, dicono, “ha bisogno di tornare all’anno zero’’.
Alla guida della “fronda’’, la ragusana Valentina Spata, referente di Civati in Sicilia, che aveva spaccato il partito già alle amministrative iblee, quando aveva pubblicamente annunciato l’appoggio al pentastellato Federico Piccitto. “Il Pd non è più il partito che ho contribuito a costituire’’, dice ora Spata, “è ormai una sigla unica dove si riparano gli stessi personaggi che hanno amministrato il potere con Cuffaro e Lombardo: non è più una questione morale, ma è una questione di dignità’’.
A FAR DA PONTIERI per il nuovo cantiere siciliano della sinistra, i vendoliani di Sel che già in passato con il deputato Erasmo Palazzotto avevano messo in campo diverse iniziative in comune con il M5S: “L’ultima campagna acquisti - dice Palazzotto
- dimostra che il gattopardismo è la cifra dell’evoluzione del partito di Renzi’’.
A mettere d’accordo i fuggiaschi del Pd con Sel e con i “grillini’’, sono essenzialmente tre temi: la lotta al Jobs Act, che per Landini il premier avrebbe scritto “sotto dettatura di Confindustria’’; la vicenda del Muos, la centrale radar statunitense di Niscemi; e infine la questione dell’acqua pubblica. A quattro anni dal referendum che ha sancito il passaggio delle reti idriche ai comuni, la volontà popolare non si è mai tradotta in legge. Proprio di recente, Orlando ha twittato: “Se la Regione non si muoverà entro marzo, Anci Sicilia scenderà in piazza’’. Non è una chiamata alle armi, ma poco ci manca.

il vicesegretario Lorenzo Guerini ha diffuso il dato definitivo delle iscrizioni al Pd del 2014: «Abbiamo 366.641 iscritti, pari al 71% di quello del 2013»

Corriere 25.2.15
Mondadori-Rcs, Bersani: «Se ne occupi il Parlamento»
di Cristina Taglietti


Continua a suscitare reazioni, non soltanto nel mondo culturale ma ora anche nel mondo politico, la «proposta non vincolante» di acquisizione della Rcs Libri da parte di Mondadori. Dopo l’appello degli scrittori, le preoccupazioni espresse da altri editori, dai librai, ieri è intervenuto anche Pier Luigi Bersani con una nota in cui dice di «trovare incredibile» che l’ipotesi della creazione di un colosso editoriale venga «commentata solo da scrittori».
La nascita di una grande concentrazione editoriale che potrebbe coprire il 40% del mercato dei libri ha suscitato, infatti, la reazione di molti scrittori, a partire da quella cinquantina che hanno firmato un appello lanciato da Umberto Eco e altri autori del marchio Bompiani sul «Corriere» e sottoscritto da molti altri.
«Dove sono finiti i liberali?» si chiede l’ex ministro ed ex segretario del Pd, ora deputato: «Non ho libri da pubblicare. Mi sono tuttavia occupato di mercato e di posizioni dominanti, si trattasse di pane o binari o di fili elettrici o di mutui. In un settore che riguarda non i formaggini ma la libertà di espressione ricaveremmo una concentrazione ed una posizione dominante sconosciute in Europa e oltre Atlantico. Se non basterà l’Antitrust, governo e Parlamento dovranno occuparsene. Non si invochi per favore la libertà di mercato. Il mercato è il luogo delle regole. Non possiamo fare all’americana per il Jobs act e all’italiana per tutto il resto».
«Bersani arriva tardi. Sul tema abbiamo già lanciato un allarme liberale all’Antitrust», ha risposto Pierpaolo Vargiu, presidente della Commissione Affari sociali di Montecitorio che con altri deputati di Scelta Civica ha presentato qualche giorno fa «un’interrogazione a risposta scritta» al ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini (che peraltro si è espresso personalmente in modo negativo sull’operazione ed è un romanziere edito da Bompiani). Il testo mette in evidenza i rischi del monopolio per tutta la filiera, per «autori e librai che sarebbero costretti a sottostare ai diktat imposti», per la piccola editoria che «rischierebbe di vedere cancellata ogni ottimistica previsione di ripresa» e per la «ricaduta della situazione occupazionale delle due società». «Ora — spiega Vargiu — abbiamo predisposto una mozione che intendiamo proporre in Aula. Se in Parlamento Bersani è disponibile a un confronto, noi ci siamo molto volentieri. Quello che conta, al di là delle scaramucce nel Pd, è tutelare la libertà del mercato in un settore dove le idee devono circolare e non possono essere concentrate».
Vargiu definisce l’ipotesi di concentrazione «inquietante sia per gli effetti a monte che per gli effetti a valle, ma sopratutto crediamo che il Parlamento debba prendere una posizione. Mozioni e interrogazioni sono come un cerino acceso, se c’è paglia intorno brucia, altrimenti si spegne».
A Bersani, ha risposto in 140 battute il senatore del Pd, Andrea Marcucci, presidente della commissione Cultura a Palazzo Madama che su Twitter ha scritto: «Bersani ha ragione su Rcs. Certo se qualche governo del passato fosse intervenuto ex ante , ora sarebbe più facile evitare concentrazioni».

il Fatto 25.2.15
Eco e Bersani, tutti contro il “supereditore” di Segrate
Si allarga il fronte dei contrari che invocano un intervento dell’Antitrust
Anche tra gli azionisti di Rcs aumentano le perplessità sull’acquisizione da parte di Mondadori
di Silvia Truzzi


Dopo le saponette e i panettoni, il paragone del giorno è caseario. Del resto “Un libro è un libro” (così s’intitola una recente campagna per l’abbassamento dell’Iva sugli eBook) e non un “formaggino”, come spiega Pier Luigi Bersani, padre delle liberalizzazioni, ultimo in ordine di tempo a scendere in campo contro l’acquisizione di Rcs libri da parte di Mondadori. “Non ho libri da pubblicare. Mi sono tuttavia occupato di mercato e di posizioni dominanti; si trattasse di pane o binari o di fili elettrici o di mutui. Trovo incredibile che l’ipotesi di acquisizione di Rcs libri da parte di Mondadori sia commentata solo da scrittori. Dove sono finiti i liberali? In un settore che riguarda non i formaggini ma la libertà di espressione ricaveremmo una concentrazione ed una posizione dominante sconosciute in Europa e Oltreatlantico. Se non basterà l’Antitrust, governo e Parlamento dovranno occuparsene. Non si invochi per favore la libertà di mercato. Il mercato è il luogo delle regole. Non possiamo fare all’americana per il Jobs act e all’italiana per tutto il resto”.
LA GIORNATA di ieri era cominciata con un altro attacco, da dentro: Umberto Eco, il più importante autore di Rcs (pubblica per Bompiani), dopo aver sottoscritto nei giorni scorsi il manifesto degli scrittori, ha pubblicato una preoccupata invettiva su Repubblica, in cui si tocca lo stesso tasto della libertà d’espressione: “Un gruppo talmente potente è una minaccia per la libertà di espressione. In termini di libero mercato è vero che spesso le concentrazioni sono economicamente inevitabili, ma il sistema rimane sano quando si attua ancora una concorrenza tra concentrazioni diverse. Ma quando esiste un gruppo più potente di tutti è la libera concorrenza che entra in crisi”. Il fatto è che dall’Antitrust è difficile attendersi veti: più probabilmente limature sulle quote di mercato. Ma se com’ è probabile si sfileranno Marsilio e Adelphi (che ha pubblicato recentemente Ho coltivato il mio giardino, sulle case di Marella Agnelli, e a cui difficilmente la famiglia vorrà fare uno sgarbo) forse ci sarà poco da limare.
CI VOLEVA il babau di Berlusconi per resuscitare le preoccupazioni francofortiane sull’industria culturale che riduce l’editoria a merce di consumo: i buoi, bisogna dirlo, sono già scappati da tempo. E tuttavia la campagna intellò contro il supereditore pare abbia aperto qualche crepa dentro Rcs: aumentano le voci di dissenso tra gli azionisti. Anche se il prossimo consiglio di amministrazione sul tema è stato convocato per il 2 marzo. Dove o si deciderà di fare la due diligence (il prossimo passo formale) o si rimanda tutto al prossimo cda (questo è in scadenza dopo l’approvazione del bilancio). L’amministratore delegato Jovane però ha fretta (si gioca la poltrona): l’idea è quella di far trovare al nuovo cda un pacchetto già pronto, praticamente di fronte al fatto compiuto. È che è un po’ presto per l’alea iacta est, e conseguenti sospiri di sollievo.

Repubblica 25.2.15
L’amaca
di Michele Serra


HA RAGIONE Bersani, c’è un vero e proprio “silenzio dei liberali” sulla megaconcentrazione di potere editoriale che verrebbe a crearsi con l’acquisizione di Rcs da parte di Mondadori. Parlano scrittori e intellettuali, la cui voce è purtroppo inflazionata dalle raffiche di appelli, comunque tutti inascoltati, firmati negli anni più per atto di testimonianza che per contare davvero qualcosa (il peso degli intellettuali è davvero infinitesimo, quando si tratti di potere e di economia). Parlano molto meno politici ed economisti, ai quali le parole “monopolio” e “concorrenza” dovrebbero pur dire qualcosa, si tratti (come spiega bene Bersani) di libri tanto quanto di “pane, binari, fili elettrici o mutui”. Si capisce che a destra, dove la sguaiata concentrazione di potere mediatico di Berlusconi non ha mai destato particolare rincrescimento e dove di “liberali”, da una trentina d’anni, praticamente non c’è traccia, di queste cose importi ben poco. Ma colpisce che a sinistra, con poche eccezioni tra le quali, e ci mancherebbe altro, il ministro della Cultura Franceschini, dell’ affaire Mondadori/ Rizzoli si parli pochino, come se l’irresistibile declino politico di Berlusconi levasse drammaticità e interesse allo strapotere editoriale prossimo venturo della sua figliola Marina. E dire che la svolta renziana del Pd aveva lasciato intendere che la sinistra sarebbe diventata, appunto, più “liberale”.

il Fatto 25.2.15
Atac, i soldi buttati da amici e manager scelti da Alemanno
Magna Roma. Un’ispezione della Ragioneria dello Stato ha studiato 5 anni di contabilità folle. E ha denunciato alla Corte dei Conti 28 irregolarità
di Giorgio Meletti


Il caso più eclatante è quello di Adalberto Bertucci, nominato amministratore delegato dell'Atac il 19 gennaio 2010 e, tre mesi dopo, anche consulente. È solo una delle 28 irregolarità che gli ispettori della Ragioneria generale dello Stato hanno rilevato nell'azienda tranviaria romana. Le hanno segnalate in una relazione inviata nei giorni scorsi al sindaco Ignazio Marino e alla Procura della Corte dei Conti.
Per due mesi, l'anno scorso, gli uomini della Ragioneria hanno spulciato le carte contabili dal 2009 al 2013, gli anni del sindaco Gianni Alemanno, oggi indagato per associazione a delinquere di stampo mafioso nell'inchiesta Mafia Capitale. Il risultato è il ritratto a tinte forti di un’azienda diventata simbolo della gestione di cricche politiche locali: sprechi, ruberie, inefficienze, assurdità incomprensibili, spese insensate, assunzioni come capita, nella migliore delle ipotesi. Al centro dell'azione degli amministratori sembra esserci tutto fuorché il buon funzionamento di autobus, tram e metropolitane.
Bertucci, assunto con una retribuzione di 210 mila euro all’anno, l’ha corroborata con una consulenza da 219 mila. “Oggetto della consulenza è il controllo dell’esatta quantificazione e versamento delle quote di fondi di previdenza complementare”. Ma il bengodi retributivo è durato poco. Nei cinque anni di mandato, Alemanno ha nominato cinque amministratori delegati: Massimo Tabacchiera è durato quattro mesi, da settembre 2009 a gennaio 2010, Bertucci ha retto per nove mesi, fino a ottobre quando è arrivato Maurizio Basile. A quest'ultimo è stato dato un emolumento di 85 mila euro, però tre mesi dopo, il 18 gennaio, è stato nominato direttore generale con uno stipendio di 350 mila euro. Ad aprile è intervenuta la Corte dei Conti dicendo che non si poteva fare. Basile è stato retrocesso agli 85 mila euro, però non la deve aver presa bene e pochi giorni dopo si è dimesso. Al suo posto è arrivato Carlo Tosti, al quale è stata data anche la direzione generale con i 350 mila euro di stipendio. Notano gli ispettori della Ragioneria che il cda dell'Atac “pur richiamando il parere della Corte dei Conti 18/2011, giunge, però, alla conclusione che l’amministratore delegato possa, comunque, ricoprire anche la funzione dirigenziale a tempo determinato”. Questa rimarrà come pagina memorabile nella storia della legalità: alla Corte dei Conti, che dice “non lo potete fare”, il cda dell’Atac risponde con una nebulosa traduzione in giuridichese del romanissimo “sticazzi” che più direttamente esprimerebbe le coordinate culturali di riferimento degli amici di Alemanno.
Chi revisiona lo stipendio del controllore revisore?
A proposito di legalità e trasparenza, è notevole anche la storia del sindaco revisore Renato Castaldo. Nominato nel collegio sindacale il 29 luglio 2010, ha incassato per quell'anno un emolumento di 39 mila euro. Nel 2011 però sono entrate in vigore le nuove tariffe professionali dei commercialisti e degli esperti contabili. Il Comune, azionista di Atac, ha subito comunicato alla controllata che per i sindaci già nominati la tariffa rimaneva quella pattuita inizialmente per tre anni. Puntualmente Atac ha opposto l'elegante formula di diritto romanesco di cui sopra e nel 2011 ha dato a Castaldo 184 mila euro, una cifra che in Italia non prendono neppure i sindaci revisori della maggiori società quotate in Borsa. Il Comune ha provato nuovamente a intervenire, Castaldo ha fatto causa, alla fine c'è stata una transazione con cui il sindaco revisore ha portato a casa 360 mila euro. Nel 2013 Castaldo, nonostante causa e transazione, è stato rinominato nel collegio dei sindaci che, ricordiamolo, è lì per controllare che i soldi siano spesi correttamente e in conformità con le leggi. Il compenso di Castaldo è retrocesso a 79 mila euro l'anno. Notano gli ispettori: “Sotto l’aspetto giuscontabile sarebbe mancato ogni reale controllo sulla legittimità della spesa (attesa la profonda divergenza tra le parti), per cui si pone, anche in questo caso, la necessità di operare approfondita verifica in ordine alla effettiva esistenza di ragioni giuridiche e sostanziali che possano aver giustificato gli esborsi effettuati. In ogni caso la problematica verrà rimessa alla valutazione della Corte dei Conti”. Viene maliziosamente sottintesa la domanda delle domande: quale controllo ha dispiegato il collegio dei sindaci sull'intricata materia dei propri compensi?
Nel linguaggio trattenuto e burocratico della relazione si intravedono i segni dell'incredulità e dell'impazienza degli ispettori della Ragioneria. L'Atac è un carrozzone che nel 2013 ha incassato 851 milioni di euro, di cui solo 317 milioni provenienti dalla vendita di biglietti e abbonamenti. Il resto è tutto a carico dei contribuenti. Nonostante il generoso contributo pubblico, l'azienda perde mediamente oltre 200 milioni all'anno, e ha accumulato al 31 dicembre 2013 debiti per 1,7 miliardi di euro. Eppure, quando Alemanno si insedia, fa assumere in un colpo solo 844 persone nel solo 2009, portando la forza lavoro a 12.957 unità. Il risultato è che l'Atac si trova a dover stipendiare 372 unità di personale eccedenti, pari a un costo annuo di 18 milioni di euro, denaro sottratto al pagamento dei debiti e dei fornitori. La voragine dei conti Atac ingoia tutto: gli ispettori notano che parecchi milioni di euro dati dal governo, dal Comune e della Regione per finanziare gli investimenti sono stati usati per coprire i buchi di bilancio della spesa corrente o gli interessi sui pagamenti ritardati.
Tra i nuovi assunti della felice infornata 2009 ci sono 7 dirigenti che nessuno è in grado di dire come siano stati selezionati, visto che il capo del personale, con nota del 29 aprile 2013, scrive che “è stato possibile reperire solo documentazione che non consente di attestare l’intero processo di selezione interna”. “In altre parole – specificano gli ispettori a beneficio dell'incredulo lettore – la società non è stata sempre in grado di esibire gli atti aziendali relativi alle assunzioni avvenute mediante selezioni interne, per irreperibilità della stessa documentazione”. Insomma, si sono persi le carte, ammesso che siano mai esistite. Pare che si siano anche persi una serie di computer portatili. Anche in questo caso la prosa originale risulta impagabile. Scrivono gli ispettori: “Riguardo alla corrispondenza tra la quantità fisica e contabile dei cespiti, chi scrive ha richiesto al Responsabile della Direzione strategie e sistemi di riscontrare le quantità fisiche dei notebook indicati nell’inventario societario. Orbene, dall’indagine è emerso che ‘non vi sono elementi tangibili per la referenziazione del singolo notebook e non è stato possibile risalire al razionale perseguito in tale ambito’. Peraltro, tra l’elenco dei possessori dei notebook (periodo 1 gennaio 2010 e 30 giugno 2013) vi sono dirigenti non più in servizio”.
Gli stipendi, non bassi, portano via metà dei ricavi dell'Atac anche perché gli amministratori, poco severi con se stessi, non sono certo draconiani con i dipendenti, oltre la metà dei quali passano le giornate seduti negli uffici. Per avere il premio di produttività, notano gli ispettori governativi, è sufficiente presentarsi al lavoro, anche solo a guardare il soffitto.
Lo stipendio al dirigente, il lavoro al consulente
Se c’è del lavoro da fare ci pensano i consulenti. Nel 2012, nota la relazione, la spesa per consulenze è risultata tripla rispetto al tetto fissato dalla giunta capitolina, azionista dell'Atac al 100 per cento. La parte del leone la fanno alcuni studi legali, beneficiari di ingenti contratti affidati in modo diretto, senza gara e senza “procedura comparativa”. In sostanza, dicono gli ispettori, l'Atac affida consulenze legali per milioni di euro senza avere un'idea della congruità dei compensi pagati. Non solo: “Si vuole sottolineare come alcune attività affidate all’esterno, a parere di chi scrive, rientrino proprio nella competenza professionale del dirigente della Direzione legale”.
A quanto emerge dalla relazione della Ragioneria sembra che nell'era Alemanno la principale occupazione di manager e dirigenti fosse buttare via i soldi dei contribuenti. Come ormai le cronache degli ultimi anni ci hanno insegnato, il fenomeno più insidioso non è quello delle grandi ruberie o dei grandi affari, come la costruzione della nuova linea Metro C, ma quello dei mille rivoli in cui si perdono, a pochi euro per volta, somme ingenti. Il capitolo delle spese di rappresentanza è il più colorito. Gli ispettori della Ragioneria hanno rilevato numerose fatture di ristoranti senza alcuna indicazione, cosicché il contribuente è messo a conoscenza di aver pagato pranzi e cene offerti da non si sa chi a non si sa chi, non si sa perché. Così come Atac distribuisce abbonamenti e biglietti omaggio non si sa a chi e perché. Andando a spulciare le fatture, gli ispettori hanno scoperto che manager e dirigenti hanno intitolato alle spese di rappresentanza e addebitato all'indebitatissima azienda scontrini di lavanderie, pasticcerie, pizzerie e panifici. Hanno comprato, con i soldi dell'Atac, caramelle, tovaglioli Scottex e fazzolettini Kleenex Balsam. Ed è nel piccolo dettaglio che si vede la grandezza di un uomo. C'è un manager, che la relazione non nomina forse per pietà umana, che ha messo a rimborso uno scontrino di euro 3,90: ha offerto, naturalmente per rappresentanza, un caffè, un cappuccino e un ginseng.
Per il festival del cinema i fondi non mancavano mai
Dove lo sperpero e la spesa ingiustificata raggiungono il loro apice è nel capitolo delle sponsorizzazioni. Un'azienda che non ha neppure i soldi per il gasolio degli autobus si comporta come un munifico mecenate, e distribuisce contributi a ogni sussulto socio-culturale della Capitale. Per esempio nel 2009 ottiene una sponsorizzazione da 5 mila euro l'associazione Nuovo Giorno, nota alle cronache per essere emanazione proprio di Bertucci, il sodale di Alemanno che nel 2010 diventerà amministratore delegato (e consulente) dell'Atac. Si deve invece accontentare di 2 mila euro di sponsorizzazione il Comitato delle contrade di Sacrofano, paese che dista 30 chilometri da Roma e che dunque non risulta affollato di clienti dell’Atac. La Arteventi srl ottiene euro 22 mila per la manifestazione “Parole in corsa”. In tutto 261 mila euro a pioggia per amici, amici degli amici e meritevoli. Nel 2010 la cifra totale delle sponsorizzazioni resta la stessa ma i beneficiari cambiano tutti, a dimostrazione che forse non di strategia di comunicazione si occupano i vertici dell'Atac, ma di distribuzione di prebende. Notano infatti gli ispettori: “È importante precisare che in questa sede non si vuol mettere in discussione la legittimità giuridica dell’operato dell’azienda. Quello che si vuole rilevare, invece, è la criticità sostanziale di un sistema che utilizza rilevanti risorse non per le finalità sue proprie e in presenza di importanti squilibri economico-finanziari”. Certo, a proposito di “finalità sue proprie”, l'Atac, nelle persone dei suoi vertici di allora, dovrebbero spiegare il significato della sponsorizzazione della Fondazione Cinema per Roma, che organizza il noto Festival cinematografico della Capitale, e ottiene 95 mila euro nel solo 2009. Forse l'obiettivo era di convincere le star di Hollywood ospiti a rinunciare alla limousine per viaggiare sugli autobus dell'Atac, qualora ne passasse uno, e comunque non su quelli della concorrenza. Che ovviamente non c'è.

il Fatto 25.2.15
Il segreto degli sprechi: se denunci perdi il posto
Già 8 anni fa il manager Sebastiani ha rivelato gli strani affari attorno a bus e tram
Ma senza nessun esito
di Stefano Feltri


A Roma ci sono tre cose di cui non si può parlare male in pubblico: il Papa, Francesco Totti e l’Atac, l’azienda pubblica dei trasporti urbani controllata dal Comune. Degli sprechi di Atac vi raccontiamo qui a fianco, in un dossier della Ragioneria del Tesoro. Eppure non erano necessari i funzionari ministeriali per capire cosa c’è dietro il discutibile servizio di tram e bus nella Capitale.
ANCHE in un sistema coeso come quello delle partecipate comunali romane, ogni tanto, c’è qualcuno che prova a segnalare l’origine dei buchi che poi vengono ripianati dai contribuenti. Come è possibile che una “guarnizione antine MA100” possa costare 5,85 euro o 118,60 a seconda dal fornitore da cui si compra? Sono queste alcune delle domande con cui si è dovuto confrontare nel 2006 Giovanni Sebastiani quando è stato nominato amministratore unico di Ogr Roma, una società che il Comune della Capitale aveva deciso di creare proprio per accentrare i lavori di manutenzione di tram, autobus e metro in modo da risparmiare e gestire in modo più efficiente operazioni che ogni anno costano milioni. L’allora sindaco di Roma Walter Veltroni affida la carica di amministratore unico a Sebastiani, un manager che arrivava dal settore privato (Abb, Salini), perché serviva qualcuno fuori dai giri del sottobosco politico per mettere ordine. Ma già dopo pochi mesi, il 15 novembre 2006, Sebastiani scrive a Veltroni per spiegare che non è in condizioni di lavorare: non gli vengono dati gli operai per i lavori, la capogruppo Met.Ro., una delle società chiave della galassia Atac, vuole gestire da sola i fornitori.
EPPURE, dai documenti contabili di Ogr e dalle lettere che Sebastiani scrive ai suoi referenti in Comune, si scopre che di risparmi da fare ce ne sarebbero moltissimi: Met.Ro paga, per esempio, 20,79 euro una “valvola unidirezionale cilindro porte MB” che Ogr riesce a comprare a 5,22, una differenza del 400 per cento. Eppure, con i suoi volumi d’acquisto, dovrebbe essere Met.Ro. a pagare meno, non Ogr. Tra l’altro le aziende da cui il sistema Atac compra sono sempre le stesse che, visti i differenziali di prezzo con i concorrenti, realizzano profitti consistenti. A spese dei contribuenti romani. Sebastiani osserva nelle sue relazioni un’altra cosa curiosa: la manutenzione è sempre straordinaria, quindi fatta più in fretta e, dunque, con ricorso a ditte esterne che si fanno pagare a caro prezzo il disturbo. Le gare d’appalto sono pochissime, perché i lavori vengono frazionati in piccoli lotti che non rendono obbligatorio il ricorso alla concorrenza. Ogr sarebbe pronta a sistemare l’impianto di condizionamento delle Frecce del Mare (i treni che vanno dalla città al litorale) a 340 mila euro a convoglio, ma alla fine se ne occupa direttamente Met.Ro. per 900mila euro per ogni treno. Nel febbraio 2008, un po’ scoraggiato, Sebastiani scrive ancora a Veltroni (che sta lasciando il Comune per fare il segretario del Pd): “Le attività di Ogr Roma continuano a essere osteggiate in tutti i modi possibili”.
Con la vittoria, un po’ a sorpresa, di Gianni Alemanno comincia la seconda incredibile parte della vicenda di Sebastiani, che ancora non si è conclusa.
NELL’INIZIALE furia rottamatrice, Alemanno decide di affidare proprio a Sebastiani la presidenza dell’Atac, sia per dare un segnale di rottura con il precedente sistema sia perché il manager ha idee chiare (e un piano industriale) su come portare al pareggio in due anni un’azienda in perdita strutturale. Vuole mettere i tornelli sugli autobus, ha capito che c’è un problema con i biglietti (come emergerà dallo scandalo dei tagliandi contraffatti che sottraggono milioni di euro di incassi). Il 5 agosto 2008, con l’ordinanza 214, il socio unico di Atac, cioè il Comune, cioè Alemanno, nomina Sebastiani presidente dell’Atac. Una decisione che non diventa operativa e resta quasi clandestina. Lo stesso Sebastiani scoprirà solo molti mesi dopo di essere stato presidente dell’Atac a sua insaputa. Tutti fanno finta di non vedere l’ordinanza che viene revocata soltanto a novembre, con il provvedimento numero 302. Senza alcuna spiegazione, anzi, Sebastiani perde Ocr e viene licenziato (era dipendente Met.Ro.).
Il manager e la Lega Consumatori denunciano il Comune e Atac. Nella causa civile, Sebastiani perde, la sentenza di primo grado del 2012 ha una motivazione curiosa: la nomina del Comune era valida, ma non efficace perché mancava la “l’accettazione necessaria”. Un po’ difficile visto che Sebastiani non è mai stato informato della nomina. Nel processo penale, Sebastiani è oggi assistito dall’avvocato (ed ex magistrato, politico mancato) Antonio Ingroia, che si è opposto alla richiesta di archiviazione della Procura sostenendo che in questa vicenda ci sono indizi di “corruzione, concussione e altri reati contro la pubblica amministrazione”. Alemanno e i suoi funzionari, interrogati dal pm Francesco Dall’Olio, o non sapevano o non ricordavano nulla.
L’AVVOCATO Giuliana Faedda, della Lega Consumatori, ha indicato una spiegazione, nel tentativo (respinto) di opporsi all’archiviazione: secondo un retroscena di Repubblica, nel settembre 2008 si tiene una cena a casa di Riccardo Mancini, uno degli uomini forti di Alemanno, poi arrestato, dove si sarebbe siglato un patto bipartisan tra gli uomini nuovi di destra e quelli del potere veltroniano. La nomina di Sebastiani arriva prima di quella tregua e si perde nelle nebbie subito dopo.
Soltanto oggi, dopo lo scandalo di Mafia Capitale, il nuovo assessore alla Legalità di Roma Alfonso Sabella denuncia i trucchi per gonfiare i costi degli appalti. Eppure, come dimostra la vicenda di Sebastiani, se qualcuno avesse voluto capire, non era impossibile farlo.

La Stampa 25.2.15
#Maiconsalvini, Zerocalcare e Elio Germano lanciano la marcia “anti Lega”
Diversi artisti, dai 99 Posse ai Punkreas, da Moni Ovadia ad Ascanio Celestini ed Elio Germano, aderiscono alla contro-manifestazione del 28 febbraio a Roma
di Manuela Messina

qui

il Fatto 25.2.15
Salvini a Roma sabato, sono già due i cortei contro

La manifestazione della Lega di Matteo Salvini a Roma è alle 15 di sabato, in Piazza del Popolo e ha per titolo “Renzi a casa”. La Lega nord, però, nella trasferta capitolina non sarà sola. A fargli compagnia in piazza ci saranno anche i militanti di Casapound, espressione della destra neofascista. Ma non solo. Ci saranno ben due contromanifestazioni: il corteo #MaiconSalvini composto da cittadini, centri sociali, circoli Anpi, movimenti antirazzisti e Lgbt, con il manifesto realizzato dal fumettista Zerocalcare e la sottoscrizione di 99 Posse, Moni Ovadia, Ascanio Celestini ed Elio Germano. Mentre l’estrema destra anti-Lega si è data appuntamento in Piazza Cola di Rienzo in occasione del quarantesimo anniversario dell’uccisione di Mikis Mantakas, militante greco del Fuan ucciso nel 1975.

il Fatto 25.2.15
Patrimonio all’italiana. Le Terme romane di Frosinone
Un parcheggio sotto le terme
di Manlio Lilli


FROSINONE, lasciata via Casilina Nord, sul lato destro di via De Matthaeis c’è un terreno che raggiunge sul lato opposto la villa comunale. Dalla recinzione si intravvedono i fondi di circa 20 capanne, prevalentemente a carattere abitativo, oltre che di una decina di tombe di epoca arcaica. Risultato dell’indagine archeologica preventiva del 2011. Manca qualsiasi indicazione della loro presenza. Tanto più necessaria in quanto lì sorgeranno a breve “I Portici”, un complesso polifunzionale di 34.854 mc su un terreno di 12.060 mq, di proprietà della Nuova Immobiliare srl. Costruzione autorizzata dal Comune, nonostante l’area sia sottoposta a vincolo secondo il Piano Territoriale Paesistico Regionale del 2007. Ma contando sul nulla osta del 2011 della Direzione Generale, per la quale la distruzione delle evidenze archeologiche è quasi una naturale conseguenza della scelta di non apporvi alcun vincolo. Nonostante l’attivismo della Consulta delle Associazioni di Frosinone, che ha promosso diverse iniziative per sensibilizzare opinione pubblica e organi competenti. Nonostante l’interrogazione parlamentare dei senatori Pd Spilabotte e Scalia. Ogni sforzo vano. Sul villaggio arcaico si costruirà. Sorte non dissimile da quella delle terme romane e della rampa baso-lata, che doveva collegare l’edificio alla via Latina, scoperte nel 2007 tra via De Matthaeis e via Casilina, in un’area di proprietà del Comune, ma in parte concessa alla Ticasa srl per 60 anni, alla cifra di 69.300 euro. Il progettato parcheggio interrato, con il rinvenimento del complesso del III-IV secolo d.C., trasformato in sosta di superficie. Mancando le risorse per la valorizzazione, meglio ricoprire seguendo le prescrizioni della Soprintendenza. Sotto le strutture con i mosaici, sopra una pavimentazione rimovibile. Ma niente che accenni alla scoperta. In compenso nel 2013 sono stati appostivincoli,sianell’areadiproprietà comunale che in quella privata. Per le “terme romane sotterrate”, votate anche nel censimento Fai 2014, “la valorizzazione, da attuare con il concorso dell’ente locale, potrà attuarsi appena reperite le risorse”. In un’attesa che si prospetta tutt’altro che breve, Frosinone rimane in sospeso.

il Fatto 25.2.15
Dopo la sconfitta europea, dentro Syriza parte la resa dei conti
La minoranza costringe il premier a convocare il Comitato centrale
Alexis ora è sotto accusa
di Salvatore Cannavò


La lettera all'Europa con gli impegni per il futuro, il modo in cui è stata gestita la trattativa con Bruxelles e con la Germania, il ruolo del ministro Varoufakis, la gestione del partito. A un mese dalla vittoria elettorale per Alexis Tsipras si stanno presentando i primi conti all'interno di Syriza, il partito-coalizione che in pochissimi anni è passato dal 5 al 36%. Tsipras non ha solo riunito all'interno di Syriza le diverse anime della sinistra greca ma, al momento in cui è stato realizzato il primo congresso della formazione politica, nel novembre del 2013, si è delineata una sinistra pari a circa il 30% dei consensi.
A DETTA dei suoi animatori, questa percentuale potrebbe essere anche superiore nelle strutture locali del partito. La Piattaforma di sinistra, questo il nome, ha riunito l'altra sera i suoi componenti del comitato centrale, l'organismo di direzione massimo di Syriza e il clima non è stato dei migliori per Tsipras. Molte contestazioni alla “resa” nei confronti dell'Unione europea come del resto ha reso esplicito l'eurodeputato Manuel Glezos, l'ex partigiano che rappresenta una figura emblematica nell'iconografia della sinistra greca. Dalla riunione non è emersa nessuna decisione ma solo la scelta di raccogliere le 50 firme necessarie ad autoconvocare il comitato centrale. Qui c'è la seconda ragione che anima il dissenso: da quando ha vinto le elezioni, Tsipras non ha mai convocato la struttura preferendo discutere e scegliere con l'entourage più ristretto. La riunione del comitato centrale si potrebbe svolgere già nel prossimo fine settimana e lì si vedrà quale sia, davvero, il dibattito interno.
Desta particolare interesse l'eventualità che la sinistra proponga di votare contro l'accordo con Bruxelles spingendosi all'uscita dei suoi ministri dal governo. Il quadro politico, infatti, potrebbe mutare rapidamente se si confermassero le intenzioni del partito To Potami – sinistra democratica – di votare a favore dell'accordo e se, addirittura, questa scelta fosse presa anche dal Pasok.
Un ruolo chiave, in questa discussione, sarà quello di Panagiotis Lafazanis, ministro dell'Energia e della Ricostruzione produttiva. Lafazanis è il leader della sinistra interna. Marxista ma capace di rompere con lo stalinismo, deve gran parte della sua popolarità agli anni in cui, giovane comunista, si opponeva alla dittatura. Nel 1991 fa parte dei “comunisti innovatori” che rompono con il Kke, il partito comunista ortodosso, dando vita all'organizzazione Synaspismos che costituisce il nucleo originario di Syriza. Lafazanis è espressione della Corrente di sinistra, la componente maggioritaria della Piattaforma che è formata anche dai trotskisti della Dea e di Kokkino, anch'essi nettamente contrari all'accordo. Insieme, come detto, rappresentano il 30% ma potrebbero svolgere un ruolo di pressione o di attrazione, nei confronti dell'area di sinistra della maggioranza che si riconosce in Tsipras. Si tratta della Sinistra unita che si è riconosciuta attorno a 53 membri del Comitati centrale contrari alle aperture nei confronti dei vecchi politici socialisti e dell'establishment greco.
TRA I MINISTRI che potrebbero svolgere un forte ruolo critico va segnalato anche Georges Katrugalos, molto impegnato sul fronte dell'abolizione del debito e che lo scorso gennaio ha organizzato una conferenza in tal senso, al Parlamento europeo, insieme agli spagnoli di Podemos. In questa discussione un ruolo importante potrebbe assumerlo un altro deputato di Syriza nonché economista in Inghilterra, Costas Lapavitsas, che difende una posizione articolata e dettagliata di uscita dall'Europa. Il suo libro, edito in Gran Bretagna da Verso, si intitola “Contro la Troika” e le sue 140 pagine potrebbero diventare il manifesto degli oppositori. Tsipras non avrà giorni facili.

La Stampa 25.2.15
Quel poco che resta di Tsipras
di Stefano Lepri


Non somiglia affatto al programma elettorale di Alexis Tsipras il documento greco approvato ieri dall’Eurogruppo; ma è anche assai vago. Conferma che venerdì scorso si è siglato un compromesso politico. In prospettiva, può darsi che risulti un compromesso sbagliato: ancora troppo rigore, per contentare i tedeschi, non abbastanza riforme, perché in Grecia a chiunque sono difficili.
Molto è affidato a quanto sapranno lavorare insieme le autorità europee e un governo greco ancora con le spalle al muro perché ancora privo di finanziamenti certi almeno per due mesi. Un rischio importante è indicato da Mario Draghi nella lettera che la Bce ha inviato ieri all’Eurogruppo: a vecchie pratiche di malgoverno ad Atene non se ne devono sostituire di nuove.
La Bce invita a definire subito i termini di alcune promesse che Tsipras intende mantenere. Se si annuncia che non saranno sfrattate le famiglie non in grado di pagare le rate del mutuo, occorre chiarire che si interverrà sulle morosità preesistenti, altrimenti molti cominceranno a non pagare adesso; così come la rateizzazione-condono dei debiti fiscali non dovrà applicarsi a chi evade ora.
La Grecia ha appunto bisogno di legalità e di regole chiare; non di estendere l’illegalità ad altri.
Finora i controllori esteri avevano insistito fino in fondo sui «tagli» (a spesa pubblica e retribuzioni) di un programma di austerità troppo rapido, lasciando correre sul resto, salvo qualche schematismo dottrinario su meno Stato. Era una forma di cinismo da parte dei Paesi creditori.
Ora in diversi casi il governo greco chiede aiuto esterno, ad esempio per mettere in piedi una anagrafe tributaria o per riorganizzare la sanità. Sarà più facile superare le resistenze ideologiche dell’ala dura di Sýriza se si offriranno soluzioni pragmatiche, invece di schematismi. Occorre saper spiegare ai cittadini che si dà spazio al mercato per far funzionare meglio, non per il vantaggio di qualcuno.
Sulle privatizzazioni appunto, come lamenta il Fmi, l’intesa è tutt’altro che chiara. La Grecia finora ha saputo solo offrire la scelta tra aziende pubbliche inefficienti e clientelari e cessioni a gruppi oligarchici, spesso a prezzo di favore. Nel testo di ieri la preferenza per la prima soluzione è scomparsa, come pure il riferimento ambiguo all’«interesse nazionale»; per il resto, chissà.
Non ci saranno nuove strette al bilancio. Ma non è possibile stabilire, ad esempio, se aumenterà l’aliquota Iva o no. Per compensare le annunciate erogazioni ai più poveri si sarebbe potuto intervenire sulla esenzione fiscale per le proprietà della Chiesa ortodossa o sulle ingenti spese militari: lo impedisce l’accordo di governo con il partitino di destra Anel.
Neppure si sa che cosa avverrà dei privilegi fiscali dell’industria armatoriale, potenza finora intoccabile anche data la minaccia di trasferirsi altrove. Il classico della sinistra pura e dura, l’imposta patrimoniale, è escluso perché lo Stato non è in grado di conoscerne le basi imponibili.
Ma proprio nelle sue parole limate e generiche la lista di ieri inventa un linguaggio comune tra sinistra greca e tecnocrati europei. Assomiglia a un corposo programma riformista: realizzarne un terzo sarebbe già gran cosa. Chissà quanto sarà traumatica per un partito estremo che era cresciuto accorpando tutt’altro, sindacati sconfitti, ceti medi in rivolta contro prebende perdute, transfughi politici dotati di pacchetti di voti.
La sfida di rifare la Grecia è importante per tutti, non solo per chi la governa. Si è deciso di farla restare nell’euro, si deve ora saper collaborare per renderla più europea. Alla chiusura dei 4 mesi ora concordati, se saranno iniziate efficaci riforme si dovrà compensarle con obiettivi di bilancio meno soffocanti.

La Stampa 25.2.15
Fassina: “Per sopravvivere devono uscire dall’euro”
Il deputato Pd: “Questa strada non è più sostenibile. È un problema che deve porsi anche il nostro Paese”
intervista di Francesca Schianchi


Stefano Fassina, deputato Pd ed ex viceministro dell’Economia, la convince il piano greco?
«Il piano contiene riforme strutturali che affrontano punti importanti, credo che si possa trovare il consenso dei partner europei. Ma il punto è un altro».
Quale?
«Questo accordo, o anche uno più spinto verso le proposte greche, temo non sia sufficiente a risollevare la situazione. Sono stati lasciati cadere punti sistemici come la conferenza sul debito o quello che è stato enfaticamente chiamato new deal per gli investimenti, e le altre misure non sono adeguate a dare una svolta alla situazione greca».
Qual è allora la via d’uscita?
«Dati i vincoli politici che abbiamo riscontrato in queste settimane a Bruxelles e a Berlino, temo che sia molto complicata una svolta dentro l’euro per la Grecia».
Intende dire che Atene dovrebbe uscire dall’euro?
«Se vuole sopravvivere, e se la sinistra greca vuole sopravvivere, dati i vincoli politici che vi sono oggi nell’Eurozona, temo che per la Grecia non vi sia altra possibilità che uscire».
Ma quali sarebbero le conseguenze? C’è chi descrive scenari apocalittici…
«E’ evidente che non sarebbe una passeggiata, ma credo che l’Apocalisse in Grecia sia già arrivata… La linea proposta porterà inevitabilmente tra qualche mese a dover ristrutturare il debito, quest’accordo serve solo a prendere tempo. E’ ovvio che ci sarebbero costi di breve periodo che possono essere elevati, ma lungo la strada che è stata impostata non ci sono soluzioni: l’impatto arriverà e, temo, in condizioni peggiori di quelle di ora».
E non ci sarebbe il rischio di un effetto domino su altri Paesi?
«I rischi sono tanti, ma l’Eurozona arriva al naufragio lungo la rotta che sta percorrendo. Non è che stiamo percorrendo una rotta lenta e faticosa ma alla fine arriveremo alla Terra promessa: no, con questa rotta stiamo andando al naufragio».
Scusi ma uscire dall’euro non è la ricetta della Lega?
«Innanzitutto, stiamo parlando della Grecia, con le sue condizioni e le sue difficoltà. Dopodiché, a un certo punto c’è il buon senso oltre alla politica: se uno continua su una strada che lo porta alla deflazione e all’impennata dei debiti pubblici, si deve rendere conto che è su una strada non più sostenibile. Non è un problema di destra o sinistra: è un problema di prenderne atto».
Potrebbe succedere che anche l’Italia si debba porre il problema di uscire dall’euro?
«Questo problema se lo devono porre tutti, anche la Germania, la Francia, la Spagna... Vede, è male impostata la discussione se abbia vinto Tsipras o l’Europa: al contrario di quello che ha detto il ministro Padoan, in questa partita hanno perso tutti. Le correzioni necessarie a far funzionare l’euro sono politicamente impossibili: vogliamo dirci questa amara verità o vogliamo far finta che con un’altra operazione di precarizzazione del lavoro riusciamo a far ripartire l’economia?».

Il Sole 25.2.15
Per Syriza brusco risveglio dal sogno
di Vittorio Da Rold


Il programma elettorale di Syriza era un “libro dei sogni” dai toni messianici più che politici. Ma il capitolo intitolato “Come affrontare la crisi umanitaria” era la madre di tutte le disillusioni future, che avrebbero colpito gli elettori, che avevano creduto nelle promesse di Alexis Tsipras di poter entrare senza problemi nell’età dell’oro. E come i sogni, anche le promesse elettorali di Syriza, sono svanite all’alba.
In quel capitolo sulla riduzione delle politiche di austerità si prometteva di fornire gratuitamente l’energia elettrica e i buoni pasto a 300mila famiglie bisognose, concedere affitti politici per 30mila appartamenti, restituire la 13a mensilità a ben 1.262.920 pensionati con una pensione inferiore a 700 euro al mese, fornire sanità e medicinali gratis ai disoccupati, carta dei trasporti speciale per i poveri, riduzione del prezzo del gasolio da riscaldamento e per le autovetture. Costo previsto, allora di queste misure: 1,9 miliardi di euro. Di tutto questo capitolo lastricato di buone intenzioni, nella lettera inviata a Bruxelles da Atene per ottenere la proroga di 4 mesi al programma di aiuti, è rimasto solo un pallido ricordo. Nell’ultimo capitolo della lettera - che non caso era il primo del cosidetto Programma elettorale di Salonicco di Syriza - è dedicato alle «sfide umanitarie» che derivano dall’aumento della povertà nel Paese. Sfide sociali che andranno affrontate riformando la pubblica amministrazione in modo da ridurre burocrazia e la corruzione. Insomma niente di concreto sul piatto. Syriza prometteva anche di ridurre il debito, come avvenne nel 1953 alla Germania, introdurre una moratoria nel pagamento degli interessi sul debito, varare un New Deal di investimenti pubblici . Di tutto ciò non è rimasto che un timido segnale di riduzione dell’avanzo primario ancora tutto da discutere.
Lavoro
Nel programma elettorale, Syriza prometteva di alzare il salario minimo a 751 euro, ridotto a 580 euro dalla troika, per aumentare l’attrattività per gli investimenti. Inoltre Tsipras prometteva la creazione di 300mila nuovi posti di lavoro, la reintroduzione dei contratti collettivi, dei limiti ai licenziamenti collettivi e la riassunzione dei 100mila statali licenziati per far dimagrire l’elefantiaca amministrazione statale. Di tutte queste promesse scritte sulla sabbia è rimasto ben poco. Atene oggi vuole rivedere le normative sui salari minimi ma a condizione che non ci sia un impatto negativo sui conti pubblici. Insomma di aumenti salariali se ne parlerà alla “calende greche”. Inoltre ora Atene promette riforme in materia di lavoro da elaborare con l’Ocse e l’Ilo. Atene ora vuole estendere contratti che diano lavoro ai disoccupati. L’inversione di rotta in questo settore è totale, quasi imbarazzante.
Fisco
Prima del voto Syriza prometteva di abolire l’imposta (Enfia) sugli immobili (compresa la prima casa) e terreni sostituita da una tassazione sui grandi patrimoni immobiliari. Poi Tsipras prometteva l’innalzamento dell’esenzione fiscale a 12mila euro rispetto agli attuali 5mila euro, in sostanza un taglio della pressione fiscale. Di tutte queste promesse non sono rimaste che le briciole. Come pure è sparita la patrimoniale. La lotta all’evasione è diventato il primo punto del primo capitolo e sembra scritta dai funzionari dell’Ocse, piuttosto che dal flamboyant ministro Varoufakis. Il governo vuole riformare il sistema fiscale, proprio puntando al recupero del gettito evaso, anche con il ricorso a pagamenti ellettronici. Prevista la riforma dell’Iva. Atene si impegna a migliorare l’efficienza dei meccanismi di spesa pubblica: a una stretta sui pensionamenti anticipati, a controllare la spesa sanitaria, e ad iniziare una spending review sui ministeri ridotti da 16 a 10. Altro punto chiave, fare della lotta alla corruzione una priorità. Nel mirino il contrabbando di tabacchi, alcolici e carburanti.
Banche
Nel pilastro dedicato allo sviluppo economico, Syriza minacciava di nazionalizzare le banche, ridurre il segreto bancario, contrastare la fuga di capitali. Prometteva di bloccare per 12 mesi le operazioni di confisca di conti correnti, prima casa e salari. Inoltre chiedeva il blocco della messa all’asta della prima casa. Inoltre minacciava di “mettere le mani” nella cassaforte del Fondo ellenico per la stabilità del credito, che ha 11 miliardi di euro in cassa, per dirottarli in finanziamenti di misure sociali . Cosa è rimasto di tutto ciò? Degli 11 miliardi non si toccherà nemmeno un euro senza preventivo permesso dell’Esm, di Ue e Bce, e la questione più rilevante del secondo capitolo è diventata la «stabilizzazione e il consolidamento del sistema bancario greco», che, chiarisce il governo Tsipras, non potrà prescindere dal sostegno della Bce, della Commissione e del nuovo sistema di risoluzione Ue delle crisi bancarie. Atene sta poi studiando un sistema per affrontare la questione dei crediti deteriorati. Ma in cima al capitolo il governo targato Syriza mette la volontà di depenalizzare i fallimenti dei debitori di cifre di modesta entità. Più avanti parla invece genericamente di «tutele a favore delle famiglie a basso reddito sui pignoramenti di immobili ipotecati da parte delle banche creditrici», unica concessione al vecchio programma di Salonicco.
Privatizzazioni e Pa.
Sulle privatizzazioni Syriza annunciava ai quattro venti di volerle congelare. Inoltre il programma di Salonicco prevedeva una nuova regolazione delle licenze televisive e il ritorno della tv di stato Ert, precedentemente chiusa dal governo Samaras. Ora è tutta un’altra musica. Il primo punto del capitolo crescita è l’impegno a non bloccare le privatizzazioni già avviate, mentre le altre verranno «riesaminate» caso per caso. Previste anche la rimozione delle barriere alla concorrenza e una riforma della Giustizia. Atene, dal mondo dell’iperuranio di Platone, è tornata alla realtà di un Paese con il debito più alto di Eurolandia.

Il Sole 25.2.15
Varoufakis ora deve cambiare ruolo
di Vittorio Da Rold


Yanis Varoufakis, il ministro delle Finanze greco, deve cambiare rapidamente ruolo in campo. Come ha ammesso lui stesso, la Grecia «ha guadagnato qualche settimana» con la proroga del piano di aiuti della Ue. Ma evidentemente «è solo un passo nella direzione giusta», hanno affermato fonti del ministero delle Finanze, dopo il responso positivo dell’Eurogruppo alla lettera di impegni sulle riforme inviata da Atene.
«Chiaramente saremo sotto il controllo della Commissione. E nei prossimi quattro mesi dovremo superarci, in termini di lotta all’evasione, di riforma del servizio pubblico - hanno aggiunto dal ministero greco - e di lotta alla corruzione». Insomma tutto il contrario di quello che Varoufakis aveva chiesto, quando aveva proposto misure di stimolo sul fronte della domanda, rialzo di stipendi e pensioni, anche su suggerimento del suo collega di Università in Texas, James Galbraith , figlio di John Kenneth Galbraith, l’economista del presidente Kennedy. Ma Varoufakis ha dovuto tornare sui suoi passi e cedere il passo all’austerity di Wolfgang Schaeuble.
«Le riforme che abbiamo proposto avrebbero potuto essere più ampie», ma sarebbero servite risorse che non ci sono. Si è dovuto cercare «compromessi» con la Ue, hanno aggiunto le fonti del governo Tsipras. «Non ci sono nuove misure che siano recessive. Ma nemmeno misure di sviluppo». Insomma per Atene una situazione di parità. Ma la partita, in realtà, è solo all’inizio del negoziato e se Varoufakis saprà portare risultati sul fronte dell’offerta, migliorando la concorrenza, riducendo la burocrazia e mettendo ordine e trasparenza in quella giungla che sono le norme degli appalti statali greci, allora avrà trovato la strada per aprire gradualmente a quelle misure di sollievo per le fasce più deboli della società greca.
I mercati, per ora, sembrano snobbare l’ennesima crisi greca, perché convinti che ci siano margini per un accordo a giugno. Tutti scommettono che il Parlamento di Atene approvi l’estensione di quattro mesi del precedente piano, anche se l’ala radicale di Syriza è sul piede di guerra ed è tentata dal voto contrario in aula. Una mossa che potrebbe far piombare il paese nel vortice di una nuova bufera dei mercati e della eventualità di dover imporre misure di controllo sui capitali. Anche i governi di Germania, Finlandia, Slovenia e Olanda devono far approvare la proroga del programma di salvataggio ai loro Parlamenti.
Tutti gli occhi sono rivolti al 5 marzo quando la Bce potrebbe riaprire i rubinetti alle banche greche, ripristinando le agevolazioni sui collaterali. Ma queste sono ancora ipotesi di studio: quello che conta è che la Grecia ha evitato, all’ultimo momento, l’iceberg verso cui si stava dirigendo a tutta velocità. Fortunatamente ha invertito la rotta all’ultimo momento. Ora si tratta di lavorare sodo e fare i compiti a casa che per troppi anni si sono rinviati. Gli esami nella vita non finiscono mai.

Repubblica 25.2.15
Ora la partita più difficile per Tsipras riconquistare la Grecia
di Ettore Livini


ATENE Alexis Tsipras guadagna quattro mesi di tempo per salvare Atene. E vara un piano di riforme che — dopo l’ok dell’Eurogruppo — affronta ora l’esame più difficile: quello dei greci e di Syriza. Le sei pagine di «ambiguità costruttiva » ( copyright dell’autore Yanis Varoufakis) prive di numeri e cifre approvate dall’ex Troika hanno regalato una giornata da incorniciare ai mercati (+10% la Borsa ellenica) ma non hanno placato i mal di pancia della sinistra nazionale. «I vecchi combattenti come te sanno che in certi casi la forza non basta — ha spiegato Tsipras al compositore Mikis Theodorakis, capofila con l’eroe della Resistenza Manolis Glezos della fronda domestica — . Servono cervello e strategia per non cadere nelle trappole».
Dovrà utilizzarli entrambi nelle prossime ore per convincere il Paese che i “pro” dell’intesa — «nessuno ci detterà più le riforme e abbiamo vincoli meno stretti sull’avanzo primario» — sono di gran lunga superiori ai contro: il ritorno sotto mentite spoglie del memorandum e della Troika e la mezza marcia indietro — obbligata viste le forze in campo — su alcune promesse elettorali. «Siamo partiti da Marx e siamo arrivati a Blair» scherzavano (ma non troppo) ieri alcuni uomini dell’ala più radicale di Syriza. La vera sfida di Tsipras è riuscire a realizzare le ambiziose riforme proposte per liberare le risorse necessarie ad affrontare la crisi umanitaria nazionale: luce gratis ai poveri, la tredicesima per le pensioni più basse, assistenza sanitaria per tutti, ritorno dei contratti collettivi. «Priorità unilaterali da approvare il primo giorno di governo», alla vigilia delle elezioni, relegate oggi in coda agli impegni presi con la Ue, subordinate oltretutto all’ok dei creditori e — come recita lapidaria l’ultima frase del documento — «alla certezza che non avranno alcun effetto sui conti dello Stato ».
LA GUERRA AGLI EVASORI
E’ il capitolo più aggressivo nella lettera di Varoufakis e quello che è piaciuto di più a Bruxelles. Il governo si impegna («con l’aiuto dei partner») al varo di un’anagrafe tributaria hi-tech in grado di passare ai raggi x anche le dichiarazioni passate e a rafforzare l’indipendenza del Segretario generale del Fisco dalla politica. Guerra totale anche a contrabbando tabacco (800 milioni l’anno di entrate in più) e benzina (1,5 miliardi) rendendo obbligatorio il Gps sulle navi per evitare che scarichino carburante fuori dai porti autorizzati. Queste entrate dovrebbero consentire di evitare i tagli alle pensioni e l’aumento dell’Iva annunciati da Samaras.
CONDONO E BUROCRAZIA
Altre risorse arriveranno da un mega condono fiscale in stile Robin Hood. Syriza consentirà di riscadenzare in 100 rate gli arretrati con l’erario, privilegiando le famiglie più povere e penalizzando i grandi evasori. Operazione che dovrebbe garantire 2,5 miliardi di entrate. In arrivo, con gli applausi dell’Eurogruppo, un piano di aste online per tagliare i costi delle forniture dello Stato e una riorganizzazione della pubblica amministrazione per sforbiciare le spese che non vanno in pensioni e salari, «un impressionante 56% del totale». Lotta dura anche contro cartelli e corporazioni.
PRIVATIZZAZIONI E LAVORO
Qui iniziano i guai sul fronte interno. Atene si impegna a non fa- re retromarcia sulle privatizzazioni già avviate, come quella del Pireo e degli aeroporti. E valuterà quelle successive in base «all’interesse nazionale». Panagiotis Lafazanis, ministro e leader dell’opposizione interna, ha contestato duramente ieri in Consiglio dei ministri questo punto. Molte polemiche ci sono anche in tema di lavoro. Il documento approvato in Europa prevede in modo vago «un approccio creativo» per reintrodurre i contratti collettivi e — molto gradualmente — lo stipendio minimo. Ma solo con l’ok dei creditori.
PENSIONI E CORRUZIONE
La lotta alla corruzione sarà una «priorità nazionale». Atene si impegna a rivedere il finanziamento pubblico ai partiti, a tagliare i legami tra economia e politica obbligando ad esempio gli oligarchi a pagare frequenze e tasse. Il documento non fa per ora riferimento ai privilegi fiscali di armatori e Chiesa ortodossa. Verrà abolita l’immunità parlamentare. Malumori suscita invece il delicatissimo problema delle pensioni, che Samaras, per dire, non aveva voluto affrontare. Syriza promette di legarle ai contributi versati e, soprattutto, di eliminare i privilegi. Letto in controluce, salterà la possibilità di prepensionamento per molte categorie. Tasto delicatissimo per la pax sociale nazionale.
LE MISURE UMANITARIE
E’ di gran lunga il capitolo più delicato. «Dobbiamo affrontare le emergenze sociali causate dalla crisi — dice il documento nella parte finale — . Cose basilari come cibo, casa, energia e salute. Valuteremo la possibilità di uno stipendio minimo garantito nazionale». Peccato che la solidarietà alla “tedesca” abbia precisi vincoli contabili. «Dobbiamo intervenire essendo certi che la crisi umanitaria non abbia conseguenze sulla solidità del bilancio dello Stato». I soldi, insomma, si spendono solo se ci sono. E visto che Atene è senza un euro, gli interventi per tamponare la tragedia sociale saranno costretti a rimanere in lista d’attesa.

il manifesto 25.2.15
Il voto in Ungheria
Fidesz sconfitta e Orbán perde la maggioranza
A prevalere è stato Zoltán Kész, candidato indipendente sostenuto dai partiti dell’opposizione democratica
di Massimo Congiu

qui

La Stampa 25.2.15
Pace e sionismo
Herzog spiazza Netanyahu
Il leader laburista punta su valori e asse con gli Usa
di Maurizio Molinari


«Serve inventiva e creatività per sbloccare il negoziato di pace con i palestinesi»: parola di Yizhak Herzog, il leader del centrosinistra che punta a vincere le elezioni israeliane del 17 marzo ai danni del premier Benjamin Netanyahu. I sondaggi danno i due sfidanti appaiati a 23 seggi e per spiegare «perché sarò io a vincere» Herzog incontra la stampa estera nel Mt Zion Hotel, con vista sulle mura della Città Vecchia di Gerusalemme. «I punti-chiave del mio programma sono tre - spiega - riforme sociali per correggere le diseguaglianze, rilancio del negoziato bilaterale con i palestinesi e salvataggio delle relazioni con gli Usa». Ciò che rimprovera a Netanyahu è «aver assistito passivamente all’allargamento della differenza fra ricchi e poveri, non avere un’idea per raggiungere la pace con i palestinesi e aver demolito i rapporti con gli Stati Uniti con una serie di decisioni errate» a cominciare dalla scelta di andare a parlare al Congresso di Washington senza coordinarsi con Obama. Herzog ammette che «la sfida elettorale è difficile», non scopre le carte sulla coalizione che ha in mente di creare ma assicura che il patto di lista con «Tnuà» di Tzipi Livni «rappresenta l’intera Israele perché io vengo da sinistra, lei da destra, e ciò che ci unisce è la volontà di rafforzare l’identità sionista del nostro Stato». Il cartello elettorale del centrosinistra si chiama infatti «Campo Sionista» e Herzog ritiene di poter «dare speranza e orizzonti nuovi al Paese». Sul fronte interno «dando voce a una coalizione democratica di identità diverse, ebrei ed arabi, ricchi e poveri, gay ed etero». E su quello internazionale «sfruttando l’opportunità delle convergenze con Egitto e Giordania per sbloccare il negoziato con i palestinesi» impegnandosi a «sospendere le costruzioni di insediamenti in Cisgiordania a esclusione dei maggiori blocchi urbani ebraici». Riguardo alla Striscia di Gaza, immagina di guidare un «piano Marshall internazionale per farla risollevare» ottenendo però precise garanzie «sulla sua smilitarizzazione». Sull’Iran assicura che «nessun premier israeliano accetterà mai che raggiunga l’atomica» ma per raggiungere l’obiettivo pensa a «un metodo diverso da Netanyahu» ovvero «puntando sul dialogo e non sugli attriti» tanto con Washington che con il gruppo 5+1 impegnato a trattare con Teheran.

il manifesto 25.2.15
Il Mossad smentì Netanyahu
di Michele Giorgio

qui

il manifesto 25.2.15
No dei palestinesi al gas israeliano
La società civile palestinese e le forze politiche di opposizione chiedono all'Anp di rinunciare all'accordo per l'acquisto di gas israeliano
Molti ricordano che il governo Netanyahu impedisce lo sfruttamento del giacimento sottomarino di gas naturale davanti alla costa di Gaza
di Michele Giorgio

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La Stampa 25.2.15
Vantaggi economici e ingresso in società, agli arabo-isreaeliani piace il servizio civile
Lo stipendio garantito è di 200 dollari al mese, molte ragazze lo scelgono per uscire di casa
di Maurizio Molinari

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La Stampa 25.2.15
E ora l’iran diventa (quasi) un alleato
di Roberto Toscano


Per oltre dieci anni la questione nucleare iraniana ha occupato una delle posizioni centrali fra i dossier di politica internazionale, come se principalmente da essa dipendessero l’alternativa fra pace e guerra in Medio Oriente e gli stessi equilibri internazionali.
Anche in passato era legittimo ritenere che si trattasse di un difetto di prospettiva, o piuttosto delle distorsioni volutamente prodotte da chi preferiva spostare sul nucleare iraniano un’attenzione che altrimenti si sarebbe focalizzata su tematiche quali la questione palestinese o il ruolo degli Stati del Golfo nel sostegno dei più radicali e violenti movimenti jihadisti.
Oggi appare ormai evidente che la questione, che pure rimane importante sotto il profilo del pericolo della proliferazione nucleare, risulta sostanzialmente sdrammatizzata, se non ridimensionata.
Secondo le ultime notizie da Ginevra, il negoziato nucleare rimane ancora complesso, con molti problemi da risolvere, ma per la prima volta non sembra da escludere la possibilità che emerga un compromesso accettabile da ambo le parti.
Un segnale interessante al riguardo è che si è unito al team negoziale iraniano il Direttore dell’ente nucleare iraniano, ed ex ministro degli Esteri, Ali Akbar Salehi, la persona in assoluto più competente sia dal punto di vista scientifico (ha un dottorato in fisica di Mit) sia da quello della storia del negoziato, essendo stato rappresentante iraniano all’Aiea.
Ma quello che è cambiato è soprattutto l’irrompere della sfida del cosiddetto Stato Islamico, la più recente e più minacciosa incarnazione del radicalismo wahabita. Si tratta di una sfida che da un lato minaccia la stessa tenuta dello Stato iracheno e dall’altro apre inquietanti prospettive per la Siria, dove appare molto problematico immaginare l’eliminazione di un altro dittatore laico, Assad, senza che - come in Iraq e in Libia - si apra la via a un processo di decomposizione istituzionale e territoriale di cui beneficerebbero le forze islamiste più estreme.
Che fermare lo Stato Islamico sia un’urgenza lo dimostra il fatto che il Presidente Obama ha deciso di chiedere al Congresso un’autorizzazione all’uso della forza militare. Cercando di sottrarsi all’accusa di avere così invertito la sua precedente politica, quella di ritirarsi dalle «guerre stupide» di George W. Bush, Obama ha farcito la sua richiesta di precisazioni sul tipo di forze e sui limiti temporali, ma è inevitabile a questo punto prevedere che presto vedremo arrivare in Iraq quegli «stivali sul terreno» che non solo Obama, ma l’opinione pubblica americana, non avrebbero voluto più vedere. E non si tratta solo degli Stati Uniti: la missione esplicitamente anti-Isis della portaerei francese «Charles de Gaulle» costituisce un altro segnale di notevole significato politico ancor prima che militare.
Per gli americani il rischio, come sempre quando si prospetta un uso limitato della forza armata, è che la situazione possa precipitare mettendo a repentaglio le limitate forze schierate in origine e costringendo quindi a un’inevitabile escalation. E’ qui che l’Iran può essere visto come una soluzione, e non solo come un problema. In realtà è in parte già così, visto che Washington e Teheran stanno indirettamente coordinandosi, per interposto governo iracheno, nella lotta allo Stato Islamico. Un paradosso che lascia non pochi sconcertati e sospettosi, soprattutto a Tel Aviv e a Riad, ma che non è certo una novità dal punto di vista storico, soprattutto in una regione come il Medio Oriente, dove il nemico del nemico non è necessariamente un amico, ma può diventare un indispensabile alleato di fatto.
Se per gli Stati Uniti si tratta di ridurre i danni dei ripetuti errori politici e strategici e fermare la destabilizzazione e il caos politico a livello regionale, gli obiettivi dell’Iran sono abbastanza evidenti. Si tratta in primo luogo di garantire che l’Iraq non torni ad essere una minaccia come ai tempi di Saddam: questo spiega perché dal momento della caduta di Saddam il governo di Baghdad sia stato sostenuto sia da Washington sia da Teheran. Collaborare con gli americani contro lo Stato Islamico non è quindi per gli iraniani né un problema né una novità.
Ma fra gli obiettivi iraniani vi è qualcosa di più sostanziale e di più ambizioso: il progetto di ottenere dagli Stati Uniti, anche a costo di accettare di pagare alcuni prezzi, una sorta di «sdoganamento» come potenza regionale, e soprattutto la caduta di un bruciante status di Paese reietto e paria, sistematicamente escluso ed isolato internazionalmente. Si tratta di un obiettivo condiviso dalla stragrande maggioranza degli iraniani, seppure con diverse sfumature, e respinto solo da una minoranza peraltro - e vi è qui un elemento d’incertezza - solidamente impiantata nei gangli vitali del potere.
Per capire quale sia questo vero e proprio «progetto nazionale» vale la pena rileggere il testo della proposta che, con l’autorizzazione dei vertici del regime (erano i tempi del governo riformista di Khatami), un ristretto gruppo di diplomatici iraniani redasse nel 2003 e inoltrò al governo americano, che rifiutò ostentatamente di prenderla in considerazione - anzi, persino di riceverla.
Punti importanti di quella proposta erano la richiesta iraniana di discutere «un riconoscimento dei legittimi interessi di sicurezza iraniani nella regione», e la possibilità di una dichiarazione americana secondo cui «l’Iran non appartiene all’asse del Male». In cambio si offriva fra le altre cose di prendere in considerazione «il coordinamento dell’influenza iraniana» in Iraq. Interessanti erano anche la disponibilità a discutere, per la Palestina, «l’accettazione della Dichiarazione di Beirut della Lega Araba (iniziativa di pace saudita, approccio dei due Stati) » e l’ipotesi di «un’azione su Hezbollah perché diventi una semplice organizzazione politica all’interno del Libano».
Forse dodici anni dopo Washington potrebbe rispondere a quella proposta. Ma certo non potrà farlo se non verrà superato l’ostacolo della questione nucleare.

il manifesto 25.2.15
Diritti al vaglio
Amnesty International. Il Rapporto 2014-15
di Geraldina Colotti

qui

Repubblica 25.2.15
Il diritto di pretendere l’uso di parole esatte
di Stefano Bartezzaghi


SI CHIAMA “Jobs Act” e potrebbe chiamarsi “legge sul lavoro”, o sui lavori, a piacimento. Ma il nome viene da una legge di Obama in cui JOBS è in realtà un acronimo che si riferisce a sostegni al finanziamento delle start up (ed ecco un’altra espressione inglese).
Se facessimo un censimento degli anglismi entrati in uso nell’italiano recente potremmo addirittura stupirci del fatto che non siano poi troppi. Sono però molto fastidiosi perché normalmente sono impiegati laddove si deve dare prestigio al nostro modo di esprimerci. Parafrasando il maestro Battiato, c’è chi usa termini anglofoni per avere più carisma e sintomatico mistero. Il gioco renziano su Jobs Act, da questo punto di vista, è fin troppo scoperto.
Il problema se lo era già posto Achille Starace, in un’epoca in cui ci si poteva illudere di raddrizzare ope legis le gambe ai cani, e di ribattezzare lo sport “diporto” e Saint Louis Blues “Le tristezze di San Luigi”. Non ha funzionato neppure allora.
Il punto effettivamente sensibile, da decenni, è un alranno? tro: quando parlare in gergo e quando no. Nelle professioni della tecnologia e dell’economia il lessico tecnico è tutto inglese e può venire adattato all’italiano anche in modo buffo (usare lo scanner = scannare). Ma quando i tecnici non parlano più fra loro, quindi legittimamente in gergo, cosa di- Ogni volta che un politologo scrive su un giornale “bipartisan” o “endorsement” non sta solo usando espressioni esoteriche: si sta riferendo anche a entità che nella realtà della politica italiana non esistono. Così come il problema del Jobs Act piuttosto che il nome è la cosa. I gergalismi provenienti dall’inglese non è che danneggino la nostra lingua (che non è una cosa sola, e anzi non è una cosa ma un intreccio di relazioni): è che minano la precisione dell’espressione, perché contengono sempre una distorsione, per i fanatici, “spin”. Danno un effetto di prestigio e vanno sempre da un’altra parte rispetto a quella a cui dovrebbero indirizzarsi.
L’indicazione dovrebbe essere, dunque, non: usate parole italiane più che potete; ma: sforzatevi di essere esatti più che potete, e pretendete esattezza dalla lingua di chi vi amministra, nella politica e nel vostro lavoro. Se poi l’esattezza si ha solo impiegando termini inglesi, pazienza. Diventeranno italiani ben presto. E di pazienza persino l’Accademia della Crusca ne sa portare tanta.

il Fatto 25.2.15
Il medievista Franco Cardini
Decameron 2015: c’è sempre un Fra’ Cipolla
intervista di Antonio Armano


Delle cento novelle narrate nel Decameron – opera non solo attuale ma eterna, di cui si torna a parlare tra i 700 anni dalla nascita del Boccaccio (1313) e la versione per il cinema – la prima è una delle più note e significative. Vi si racconta la storia di Ciappelletto. Bestemmiatore, ubriacone, falsario e puttaniere, in punto di morte prende in giro il frate confessore dicendo di avere vissuto come un santo. E santo lo fanno. Per Franco Cardini, medievista fiorentino e autore dell'introduzione al Decameron edito da Newton, la prima novella di questa straordinaria opera “tassonomica”, che “vale più di mille archivi”, potrebbe tranquillamente essere trasposta nel presente.
Chi è il san Ciappelletto oggi?
La confessione di ser Ciappelletto potrebbe essere il comizio di un politico. Di quelli che danno la colpa di tutto agli immigrati che arrivano col barcone.
Salvini?
Salvini, sì... ma non ce l'ho con Salvini. In fondo fa il suo mestiere. Ce l'ho con chi crede ai discorsi di Salvini. Proviamo a chiederci perché la gente fugge dall'Africa sui barconi. Le nostre multinazionali hanno drenato le risorse dell'Africa, riducendola alla fame. Anche qui l'ingiustizia aumenta, ma per cause interne, che non sono diverse da quelle che stanno immiserendo l'Africa.
Multinazionali, strapotere della finanza... Nel Decameron dieci giovani fuggono da una Firenze impestata, dove i maiali per strada grufolano tra le mutande dei morti buttate dalle finestre. Il morbo ha aggredito un corpo sociale già ferito dal crac delle banche.
La mi' nonna diceva che le disgrazie vengono a grappolo. I banchieri fiorentini, i Bardi, i Peruzzi, gli Acciaioli, si erano arricchiti prestando i soldi. E chi erano i maggiori beneficiari di questi prestiti? Il re di Francia e il re d'Inghilterra... Quando scoppia la Guerra dei cent’anni, Francia e Inghilterra si combattono e non vogliono restituire i soldi. Gli Stati si fanno prestare soldi ma non li vogliono mai restituire. Come la Grecia. Se glieli chiedi indietro, lo considerano un affronto.
I re di Francia e d’Inghilterra come Tsipras?
Tsipras di destra. In realtà i banchieri fiorentini sapevano benissimo che gli Stati non restituiscono i soldi. Glieli davano perché in cambio ottenevano in appalto la riscossione delle imposte e ci facevano la cresta riprendendosi quanto avevano prestato. Con la guerra dei cent'anni non potevano più riscuotere. Ne hanno risentito i piccoli e medi risparmiatori non i banchieri, esattamente come accade ora. I banchieri erano dei feudatari, se mi si passa questo termine medievale, possedevano terre e castelli, erano protetti da eserciti privati.
E chi erano i piccoli risparmiatori nel Trecento?
Gli artigiani fiorentini. Io lo so molto bene perché sono figlio di artigiani. Mio padre faceva il pellicciaio. Per comprare le pelli da lavorare aveva bisogno di credito. Se il cliente non era soddisfatto della pelliccia, la lasciava in bottega. Il pellicciaio tratteneva la caparra ma non copriva i costi. Gli artigiani vivono con margini di guadagno risicati e incerti. Parlo dei piccoli, non di quelli grandi che hanno i soldi.
La sesta giornata è dedicata alle storie di chi è riuscito, con ingegnoso motto (o fregnaccia), a trarsi d'impiccio. Come frate Cipolla che apre la sua scatola di reliquie davanti alla folla, al posto della piuma dell'arcangelo Gabriele – in realtà di pappagallo – trova dei carboni e si inventa che sono quelli su cui è stato bruciato San Lorenzo. Non le sembra un carattere tipico degli italiani, l'orale di arrangiarsi?
Ah, ce ne sono così in questo Paese di frate Cipolla, non solo Berlusconi! La novella racconta anche la credulità della gente, il sistema mediatico, il traffico di reliquie.
La Chiesa viene presa di mira per le ipocrisie, i sotterfugi per ottenere sesso... Le suore gravide di oggi sono lontane da quelle che si portavano a letto l'ortolano del convento, Masetto da Lamporecchio, credendolo 'mutolo' come una tomba?
In tutte le rappresentazioni dell'inferno che si trovano negli affreschi delle chiese si vedono, tra le fiamme: mitre, tiare, corone, teste con la tonsura dei frati... Boccaccio prende di mira i potenti e i peccati non diversamente da come facevano molti altri. Non si può per questo definire anticlericale, come se fosse vissuto nel XIX secolo! Al tempo di Boccaccio era normale.
Il peccato del chierico nel Decameron di norma è etero, non omosessuale o di pedofilia. Non c'erano ancora vescovi pedofili?
C'erano altrove, in diverse fonti dell'epoca. Bernardino da Siena diceva peste e corna dei peccati della Chiesa, compresi questi. Era un predicatore apprezzatissimo, e dunque non lo torturavano e non finiva al rogo... Nessuno si sognava di dire che fosse anticlericale.
Altra novella celebre, il Sultano di Babilonia o Saladino e del giudeo Melchisedech. Il Saladino cerca di incastrare Melchisedech chiedendogli quale delle tre fedi – ebraismo, cristianesimo o islam – sia autentica. Lui se la cava paragonandole a tre anelli uguali, di cui due copiati da quello originale. Nessuno sa più quale sia l'originale, tutti sono egualmente preziosi. Il Saladino apprezza la risposta diplomatica e lo nomina consigliere.
Sfido a trovare un principe saggio come il Saladino.
Osama, Al Baghdadi... o altri pretendenti a unificare i musulmani?
Un principe saggio come il Saladino non lo troviamo da nessuna parte, neanche al di fuori del mondo islamico. Forse Putin? Non so davvero...
Putin mi sembra che abbia combinato qualche casino ultimamente, saggio non direi...
Evo Morales a me non dispiace, ma non vorrei fare il suo nome perché è stato già abbastanza infangato.
Ghino di Tacco, il brigante gentiluomo, nella novella che gli è dedicata, soccorre l'abate di Cluny e gli cura il mal di panza lasciandolo proseguire. Craxi si firmava Ghino di Tacco.
È stato Hobsbawm con il saggio sul banditismo sociale a introdurre la categoria del bandito buono. Ghino di Tacco dubito fosse come lo dipingono... Tratta l'abate di Cluny con rispetto perché era l'abate di Cluny. Per spirito cavalleresco. Boccaccio vuole tornare a una società dominata dallo spirito cavalleresco, non vuole la società borghese. Craxi era uomo di vaste letture, anche se confuse. Si firmava Ghino di Tacco ma non so quanto il paragone tenga. Si riferiva all'aspetto sociale, rubare ai ricchi per dare ai poveri. Tutto il contrario di quanto fatto...

Corriere 25.2.15
Sulle tracce della postdemocrazia
L’ultima scommessa di Bauman
di Umberto Curi


Il libro di Zygmunt Bauman e Carlo Bordoni Stato di crisi (Einaudi) merita indubbiamente una particolare attenzione, per una pluralità di motivi diversi. Per la formula, anzitutto. Un «colloquio» fra due studiosi, fra loro in sintonia su molti aspetti, ma anche talora dissonanti, e non su punti di secondaria importanza. Col risultato di immergere il lettore in un dialogo autentico e intellettualmente vivace, proteso all’approfondimento di questioni di grande importanza, senza alcuna concessione alla vuota ritualità del confronto accademico. Notevole è poi la scelta di uno stile improntato ad una limpidezza davvero esemplare. Pur affrontando temi di rilevante complessità, gli autori riescono ad evitare la Scilla del tecnicismo impenetrabile, senza essere risucchiati nella Cariddi delle banalizzazioni giornalistiche.
Infine, esercita una forte suggestione anche il disegno complessivo del testo, poiché delinea un percorso che conduce gradualmente dalla lucida presa d’atto di una condizione generalizzata di crisi — dello Stato, della modernità, della democrazia — fino alla prospettazione di un «nuovo ordine globale», come suona il titolo del paragrafo conclusivo.
A tutto ciò si aggiunga un rilievo, che potrà apparire (e forse può anche essere effettivamente) marginale, ma che tuttavia non può essere taciuto. Il nome di Zygmunt Bauman è diventato famoso, ben al di là dei limiti della comunità scientifica, per l’accostamento alla principale «scoperta» a lui abitualmente attribuita, compendiata nell’aggettivo «liquida», col quale in un fortunato libro uscito in inglese nel 2000 (Modernità liquida , Laterza) il sociologo polacco alludeva alla società odierna.
Come spesso accade (il che non significa che debba obbligatoriamente continuare a verificarsi), quell’espressione, originariamente coniata per indicare le caratteristiche di una società le cui strutture si scompongono e ricompongono rapidamente e in maniera fluida e volatile, si è trasformata in uno slogan orecchiabile, applicabile alle realtà più diverse — dalla politica alla filosofia, fino allo sport e alla cucina. Con effetti caricaturali, e talora irresistibilmente comici, facilmente immaginabili. E con la conseguenza, molto meno divertente, di inchiodare lo stesso Bauman alla vacua ripetitività di una formuletta. Questo nuovo testo rende giustizia ad uno studioso le cui tesi, come quelle di qualunque altro, sono certamente criticabili e forse in parte inaccettabili, ma che tuttavia non può essere ridotto al raggio angusto di un aggettivo di successo.
Ciò detto e doverosamente riconosciuto, si deve anche notare che il libro mantiene solo in parte le impegnative promesse formulate nella prefazione, soprattutto per quanto riguarda la prospettazione di quella che viene definita come «postdemocrazia».
Assai puntuale, e immune da ogni indebita sacralizzazione, la decostruzione delle trasformazioni subìte dalla nozione di democrazia, fra Pericle e Alexis de Tocqueville (per indicare «estremi» non solo in senso cronologico). Pienamente condivisibile anche il giudizio complessivo, ricalcato sulla troppo spesso dimenticata affermazione di Jean-Jacques Rousseau (che pure è stato uno dei «padri» della democrazia moderna): «Secondo il preciso significato della parola si può dire che non è mai esistita una democrazia, e non esisterà mai».
Dichiarazione — questa — che potrebbe essere altresì accompagnata da un autore trascurato da Bauman e Bordoni, vale a dire Platone, il quale rileva che, più che una vera e propria forma di governo, la democrazia è «un supermercato delle costituzioni», in cui sono esposte disordinatamente tutte le forme di governo.
Il punto vero, tuttavia, sempre sintomaticamente eluso dai detrattori della democrazia, e non risolto da Bauman e Bordoni, è un altro, e riguarda appunto la delineazione di una possibile alternativa. Restituendo al termine «crisi» — costantemente ricorrente nel testo — la sua originaria accezione medica, si potrebbe dire che gli autori sembrano orientati semplicemente a prendere atto del decesso del paziente chiamato democrazia. Una certificazione di morte che potrebbe forse essere evitata, se si applicasse alla nozione di democrazia ciò che un famoso penalista replicò a chi gli faceva notare la totale infondatezza della nozione di pena. E si potrebbe dunque concludere che sì — è vero — la democrazia fa acqua da tutte le parti. Ma, almeno finora, in oltre tremila anni di civiltà occidentale, nessuno (neppure Bauman e Bordoni) è riuscito ad inventare nulla di meglio.