domenica 1 marzo 2015

il Fatto 1.3.15
“Tra la P2 e l’uomo forte. Così sono nate le riforme”
“Il popolo affascinato dai capi”
La due giorni di Libertà e Giustizia a Firenze
di Silvia Truzzi


Non è strano che la seconda giornata del convegno di Libertà e Giustizia si svolga all’Aula Battilani, un tempo teatro della rivolta dei Ciompi, lavoratori poverissimi che alla fine del 1300 insorsero contro chi li governava e li aveva affamati. Cosa ottennero? Di partecipare alla vita pubblica. Ed è esattamente di questo - di partecipazione, rappresentanza e democrazia - che si è parlato nella due giorni fiorentina con tantissimi interventi: da Gustavo Zagrebelsky a Barbara Spinelli e Stefano Rodotà, da Nando dalla Chiesa, a Marco Travaglio, Sandra Bonsanti, Lorenza Carlassare e Paul Ginsborg.
“L’EFFICIENZA e la rapidità delle decisioni economiche prevalgono su processi democratici ritenuti troppo lenti e incompetenti”, ha detto Barbara Spinelli, scrittrice, giornalista ed eurodeputata de l’Altraeuropa. “Gli effetti di questa decostituzionalizzazione li tocchiamo con mano in Italia. Il Piano di rinascita democratica di Gelli (redatto forse non a caso in concomitanza con il rapporto della Trilaterale) è stato fatto da Craxi, poi da Berlusconi, infine da Matteo Renzi”. Ed è ben strano che riforme tanto capitali per la vita democratica – come la legge elettorale e il nuovo assetto del Senato – siano portate avanti da un Parlamento su cui grava un fortissimo sospetto di legittimità, a causa della sentenza della Consulta sul Porcellum. Molti nodi vengono al pettine nell’orgia del riformismo a tappe forzate, ma restano le tare congenite. L’uomo forte, per esempio: “Abbiamo vissuto con Berlusconi una spinta autoritaria. Renzi resta in quella stessa tradizione: i risultati del renzismo sul processo sono incredibili”, ha spiegato lo storico Paul Ginsborg. “Il divario tra la superficialità della proclamazione dell’imminente riforma e ciò che davvero avviene nella realtà è enorme. Il premier parla di bellezza, di arte, di patrimonio culturale: io lavoro nella Biblioteca Nazionale di Firenze, dove da mesi piove perché il soffitto non è stato riparato. Le risorse delle grandi istituzioni culturali del Paese sono state ridotte all’osso e contemporaneamente dobbiamo sopportare i continui slogan governativi”.
Di “popolo affascinato dai capi”, ha detto anche Lorenza Carlassare, emerito di Diritto costituzionale a Padova, che avverte: “La democrazia non è compatibile con i capi”. E ripercorre alcuni passaggi delle riforme elettorali. A cominciare dalla famosa “legge ruffa” del 1953, cui forse, visti i recenti sviluppi, dovremmo chiedere scusa e ritirando l’ingannevole appellativo. “Era molto più democratica dell’Italicum perché il premio di maggioranza si otteneva avendo almeno il 50 per cento. Se non si raggiungeva questa soglia, non scattava. Ma questo Italicum è più legato alla legge Acerbo del 1923”, per cui il premio di maggioranza scattava con il 25 per cento garantendo al partito più votato i due terzi dei seggi. Ma quali sono gli affetti della sovrarappresentanza delle liste di maggioranza relativa? Il principio di uguaglianza del voto in Costituzione vale non solo in entrata ma anche in uscita, “cioè riguarda anche l’esito del voto e quanto rispecchia la volontà del popolo”. “È vero”, conclude la costituzionalista, “che la soglia di sbarramento è stata abbassata, ma il pluralismo è comunque impedito visto il premio di maggioranza. Tutto è fatto in modo da essere annullato di nuovo dalla Corte costituzionale”. Quanto agli anticorpi verso quella che Gustavo Zagrebelsky aveva definito la “politica unica”, c’è ben poco in cui confidare. “Perché l’informazione si è assegnata il compito di fare da cassa di risonanza del potere”, ha spiegato il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. “Sfiorando spesso il ridicolo, perché ogni comportamento banale, di chiunque occupi un posto di potere, diventa immediatamente straordinario. Mirabile. Ovunque la stampa bastona i governi, da noi le opposizioni. Con cui di solito l’informazione si allea. Perfino Mussolini mandava telegrammi ai prefetti chiedendo di intervenire presso i giornali troppo adulatori. Succede ormai che le dichiarazioni dei ministri escono dalle virgolette e diventano verità che non hanno bisogno di essere messe in discussione”.
L’INCESSANTE canto delle res gestae dei potenti e il tradimento della funzione di vigilanza hanno un costo alto. “Dovrebbero fare”, ha concluso Travaglio, “una legge a tutela dei cittadini sulla responsabilità civile dei politici, visti gli incalcolabili danni provocati da questa classe dirigente. Ma nessuna assicurazione al mondo sarebbe disposta a garantire con una polizza”.

Repubblica 1.3.15
L’annuncio
Libertà e Giustizia sfila con Landini nel corteo del 28 “Per la democrazia”
di Simona Poli


Libertà e Giustizia sfilerà al fianco di Maurizio Landini il 28 marzo a Roma per contestare le riforme del governo Renzi. «Dobbiamo far sentire forte la nostra voce», spiegano Sandra Bonsanti e Paul Ginsborg che insieme a Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Barbara Spinelli, Nando Dalla Chiesa e a un gruppo di docenti universitari per due giorni a Firenze hanno analizzato le trasformazioni in atto nella politica e nella società italiana. «Insieme ad Emergency, LibDem, Fiom e altre realtà impegnate nella società a contatto con i problemi reali della gente vogliamo dare vita a una “coalizione sociale” che difenda i diritti e la democrazia», spiega Bonsanti. «Sogno una grande mobilitazione che riesca a incidere sulle scelte, contro l’indifferenza e l’apatia. Con noi ci sono tantissimi studenti e insegnanti che vogliono davvero cambiare le cose e non si rassegnano.
La Costituzione non può essere fatta a pezzi e questa storia parte dal basso».
Niente a che vedere con il fenomeno dei girotondi, su questo punto Ginsborg mette in guardia da ogni possibile confronto: «L’interesse suscitato dal nostro seminario fiorentino a cui hanno partecipato quasi 400 persone è il primo vero segnale di una nuova primavera», dice lo storico inglese. «La prova concreta di ciò che nella società si sta muovendo, della rabbia che cova sotto la cenere. La democrazia è minacciata ma possiamo ancora fare qualcosa».

il manifesto 1.3.15
Landini
“Anche Renzi ha la sua coalizione sociale: ma con Confindustria”
La sfida di Landini. Verso la manifestazione del 28 marzo: "Il premier stia sereno, noi non ci fermiamo"
L'appello all'unità della Cgil
Gino Strada: "La Fiom difende i diritti e l'uguaglianza, io sono con voi"
di Antonio Sciotto

qui

il Fatto 1.3-15
Salvini, tragedia e commedia
di Antonio Padellaro


Il programma enunciato da Matteo Salvini in Piazza del Popolo sembra preso dal celebre film Vogliamo i colonnelli, là dove i congiurati si riuniscono per auspicare una volta preso il potere la riapertura dei casini, il controllo dei prezzi delle trattorie oltreché “l’abbattimento del regime della vergogna che ha ridotto l’Italia già libera signora a schiava del comunismo internazionale”. L’onorevole Tritoni non aveva invece previsto la persecuzione dei rom, l’abbandono dei clandestini in alto mare e la libertà di giustizia sommaria nei confronti di ladri e rapinatori.
Ma solo perché un minimo di umanità e decenza albergava perfino in quel fascismo ridicolo che traeva spunto dall’eterna Italietta devota alla “famiglia” e ai “valori” (ma nel film di Mario Monicelli l’acronimo FaVa come slogan dei ribelli veniva bocciato per ragioni di opportunità). La novità è che raschiando il fondo della protesta più becera, ma anche dell’immane disastro politico e culturale provocato dalla peggiore classe politica che si conosca, il Matteo leghista sta facendo il pieno dell’incazzatura trasversale, tanto da riuscire a radunare nella “Roma ladrona” di bossiana memoria molte decine di migliaia di persone, fatto impensabile soltanto pochi mesi fa. Nel cinismo infinito di questi giovanotti di potere non c’è limite alla stimolazione degli istinti più bassi, purché si possa raccattare qualche altro voto. E se la folla richiede una misura di odio in più nei confronti dei nomadi si può anche teorizzare l’esistenza di una sottocategoria di persone che “vengono molto ma molto ma molto dopo” i cittadini di pura razza italica. Per carità, Salvini non ha le physique del nazista, ma piuttosto la fisionomia del furbacchione che per battere il ferro finché è rovente non sa quello che dice. Tanto che di fronte a certe infamie, perfino i fascisti “sociali” di Casa Pound possono aver provato un qualche imbarazzo, per non parlare di Marine Le Pen, che di fronte all’incontinente uomo del Carroccio fa la figura della progressista illuminata. Incapace storicamente di essere normale, la destra italiana, o ciò che ne resta dopo la dissoluzione del berlusconismo, si prepara dunque a farsi soggiogare da una sorta d’istinto primitivo xenofobo e a mano armata. Mentre il Paese reale, quello che soffre massacrato dalle tasse, dall’austerità e dalla disoccupazione, si accorgerà presto e amaramente dell’inconsistenza delle proposte di quest’altro pifferaio magico. L’unico a guadagnarci sarà come sempre l’altro Matteo, Renzi, che un avversario così neppure se lo sognava. La solita tragedia nazionale che si tinge di commedia all’italiana.

il Fatto 1.3-15
Visto da destra. Saluti romani
E alla fine arrivò anche il giorno della Sottomissione
di Flavia Perina


E così la destra romana ha celebrato il suo rito di sottomissione a Matteo Salvini. Lo ha fatto in una surreale Piazza del Popolo che prima dell’arrivo di Casa Pound è un catino di bandiere venete e padane e di dialetti barbari, straniante per chi ebbe qui il suo battesimo politico con Giorgio Almirante. Prove di disgelo imbarazzate. “Benvenuti a Roma”, dice l’omone col tatuaggio ultras “Volti coperti e liberi pensieri”, ma si capisce che è difficile sentirsi padrone di casa quando la piazza tua è pavesata col Sole delle Alpi e al posto dell’Inno a Roma c’è uno stacchetto corale nibelungico.
Vecchi militanti arrivati alla spicciolata si guardano in giro stupiti dalla tanta gente (la rotonda è piena, senza nemmeno il trucco di piazzare il palco un po’ in avanti). Il giudizio è pragmatico: “Ci si deve adattare, ci si adatterà”. Uscita a pezzi dal ventennio berlusconiano, con una classe dirigente disseminata tra Forza Italia, Ncd e i Fratelli d’Italia, la destra supera il disagio iniziale in fretta. Ritrova il piacere dell’invettiva, dei fischi agli avversari, Renzi, Prodi, Alfano. Ritrova i boati di derisione contro le icone del suo disprezzo, “i radical chic evasori alla Gino Paoli” (sommerso da ululati), il buonismo di Laura Boldrini (“Scema, scema”), i “mantenuti dei centri sociali”. Ritrova soprattutto il gusto di sentirsi popolo, un sapore perduto in troppe manifestazioni per pochi intimi. A fine giornata il rito di sottomissione è già una specie di festa.
SOLO due anni fa, nel marzo del 2013, anche Berlusconi fece un comizio qui, ma non se ne ricorda più nessuno. “Sei sicura? Guarda che sbagli”. Il palco era stato messo a metà tra il muro di fondo e la fontana, a stento si era riempito lo spazio. È in questa rimozione di massa che si capisce il senso e il successo di Matteo Salvini: prendersi la destra usando le sue antiche parole – sovranità, legge, ordine, terra, radici, tradizioni, lotta alle oligarchie, tutte abbondantemente spese dal palco – e cancellando letteralmente dalla memoria, senza nemmeno citarla, la lunga stagione del berlusconismo e le delusioni del suo declino.
L’operazione è riuscita. La destra romana, e non solo quella di Casa Pound, applaude Salvini e ne abbraccia la leadership. Quando dal Pincio viene giù l’enorme telo quadrato che dice “Berlusconi politicamente defunto. Meglio soli” nessuno trova niente da obiettare. La scritta resta lì, entra in tutte le inquadrature, sovrasta ogni altro messaggio, e di sicuro non è un caso se l’efficientissimo servizio d’ordine, che con discrezione ha fatto ripiegare tutti gli striscioni “non in linea”, fa finta di non vederla.

Corriere 1.3.15
Quei militanti di CasaPound che riempiono la piazza padana
In principio si vedono solo i vecchi leghisti partiti da Lombardia e Veneto
Poi compaiono i drappi con le croci celtiche (e qualche saluto romano)
di Fabrizio Roncone


ROMA Il Senatùr non li ha ancora visti.
I camerati di CasaPound marciano giù dalle rampe del Pincio, ranghi compatti in fila per cinque, formazione da parata più che da corteo, Ray-Ban a specchio e giubbotti neri, e poi barbe alla Italo Balbo e muscoli tesi, sguardi tesi al sole del pomeriggio.
Slogan duri e drappi con le croci celtiche, ma niente saluti romani: perché gli ordini sono ordini e oggi è stato deciso così.
Il Senatùr è sul palco, di spalle.
Avvertitelo. Ditegli qualcosa.
E invece niente. L’hanno lasciato solo in un angolo e allora l’Umbertone, il fondatore della Lega, il Druido padano parla come quando armeggiava con le ampolle a Pontida, incurante d’essere invece in piazza del Popolo, con un nuovo capo che ha già deciso tutto: «Noi dobbiamo stare con Berlusconi. Ed è sbagliato stringere alleanze con CasaPound...».
Matteo Salvini pensa l’esatto contrario.
Scriveranno che questa manifestazione segna la fondazione del fascioleghismo e vedremo, tra qualche tempo, se hanno ragione: certo la piazza prima non era piena e quelli che c’erano avevano gli accenti delle regioni tradizionalmente leghiste. I romani non hanno dimostrato alcuna curiosità politica (probabile non abbiano dimenticato che, nella marcia del dicembre 99 voluta da Umberto Bossi, da Milano partì un treno chiamato «Nerone express«): e adesso è chiaro, plasticamente chiaro, che sono le numerose truppe dei fascisti del terzo millennio — è la loro definizione preferita: e comunque alcuni tengono uno striscione con la foto di Benito Mussolini — a rendere gli organizzatori soddisfatti.
I vecchi militanti scesi da Varese, Rovigo, quelli partiti in pullman da Vicenza, non hanno capito chi sono i loro nuovi alleati: li vedono alti e aitanti, con facce fiere e sorridenti e li applaudono, ci sono grida di evviva e pacche sulle spalle (qualche camerata però si scosta, infastidito).
Arriva Mario Borghezio, xenofobo dichiarato, esperto di ufologia convinto che tra noi umani vivano camuffati molti extraterrestri: per Salvini, Borghezio ha un debole. «È il giorno del suo trionfo».
Passano Roberto Calderoli e Giancarlo Giorgetti (per anni e anni indicato come il naturale candidato alla successione di Bossi e ora comprensibilmente a capo chino, mesto). I fotografi cercano Flavio Tosi. Poi ecco Roberto Maroni, presidente della Regione Lombardia ed ex ministro dell’Interno. Una cronista allunga il microfono e urla a Maroni: «Quand’era al Viminale, la Digos le ha mai segnalato niente di CasaPound?».
Maroni tira diritto, gran bolgia, sul palco hanno cominciato a parlare, a turno, medici disoccupati e agricoltori, un pescatore e una studentessa.
Inizia la liturgia dei «vaffa»: a Renzi, Prodi, Monti, Fornero e Alfano.
La manifestazione prende subito una piega piuttosto volgare. Enrico Lucci, mitica maschera delle «Iene», si aggira soddisfatto. Due ragazze bionde, indossando aderenti t-shirt rosse, sventolano bandiere russe e si guadagno il sotto-palco. Barbara Saltamartini (ex An, ex Pdl, ex Ncd) le osserva dall’alto in basso. Isabella Rauti, moglie di Gianni Alemanno, non trattiene l’aria schifata (in effetti, questa è la piazza storica del Msi, la piazza dove negli anni Settanta venivano a parlare Giorgio Almirante e suo padre, Pino Rauti).
Adesso sale a parlare Simone Di Stefano, vice-presidente di CasaPound.
Questo Di Stefano urla forte.
«Condividiamo ogni parola di Matteo Salvini!» (pausa teatrale).
«No all’euro!».
«Stop all’immigrazione!».
«Gli italiani prima di tutto!».
Il capo dei fascisti del terzo millennio, Gianluca Iannone, l’aspetto temibile del Mangiafuoco di Pinocchio, ascolta soddisfatto. Poi, senza troppa voglia ma con estrema cortesia, accetta di rispondere alle domande di molte tivù.
«Con Matteo ci siamo incontrati su un percorso politico. Noi, violenti? Noi sono undici anni che cerchiamo di convincervi che siamo buoni» (si nota, sul collo taurino, il tatuaggio: «Me ne frego»).
Va al microfono Giorgia Meloni.
È la condottiera di «Fratelli d’Italia», romana, furba, determinata, invece che per salotti va per periferie, fa politica da quando era ragazza — inizia con il Fronte della Gioventù, poi il Msi, quindi An e Pdl: deputata e ministro — e quindi anche stavolta ci mette mestiere e passione, è lei a scatenare le prime ovazioni. Con standing-ovation per il passaggio su Gino Paoli, «uno che da presidente della Siae faceva pagare le tasse ai giovani artisti e poi portava in Svizzera i soldi che gli pagavano in nero alle Feste dell’Unità!».
Segue Luca Zaia, il governatore uscente del Veneto.
Zaia, di solito, ha un eloquio forbito, stretto, elegantino. Un po’ come le sue giacche.
E anche ora, in questo discorso, tiene abbastanza. Argomenta, polemizza, si compiace, ironizza. Otto minuti ineccepibili. Ma come chiude?
«E allora torneremo in regione e gli faremo un culo così!» (per fortuna, evita di mimare il gesto).
Sarebbe stato interessante vedere la reazione, a simili turpiloqui, di Marine Le Pen, leader dell’estrema destra francese, donna in nero di grandissimo charme: ma la Le Pen ha spedito un messaggio video che dura lo stretto necessario. Poi, tocca a lui.
A Matteo Salvini.
Dall’alto parlante annunciano: «Salutiamolo come si deveeeee!».
Quelli di CasaPound non resistono. Hanno come un riflesso condizionato. Braccia tese scattano nel saluto romano. Le nuove legioni sono schierate .

Repubblica 1.3.5
La carica degli anti Carroccio, festa per ventimila dopo la paura
“Siamo di più, la capitale è nostra”
Senza casa, migranti, centri sociali e partigiani dell’Anpi contro l’alleanza Lega-CasaPound
Balli e concerti per dire “no a razzismo e fascismo” e “al malgoverno che ci ruba la vita”
di Corrado Zunino


ROMA Sono tanti nelle strade di Roma, gli anti-Salvini. Ventimila almeno, quando la Piazza del Popolo fascio-leghista si mostra per metà vuota e con larghi spazi. La battaglia delle presenze l’hanno vinta gli “anti” (fascisti, leghisti, razzisti). Non sono i trentacinquemila urlati dal camioncino che ritma i passi e dà gli aggiornamenti — «... hanno arrestato una compagna dei senza casa... Nella notte a Napoli dieci fascisti hanno attaccato due dei nostri...» —, ma il fiume di persone la cui testa è alla fine di via Cavour non lascia vedere la sua coda, che ancora curva in piazza dell’Esquilino: ottocento metri di folla lenta e divertita.
«Salvini, hai detto che siamo quattro squadristi: contaci uno a uno, non ci riesci manco se resti qui una settimana». La bella giornata, 18 gradi alle due del pomeriggio, e la buona vittoria in strada — sì che gli antagonisti giocano in casa, la capitale, ma sono stati gli altri, i leghisti nazionali, ad aver fatto le prime convocazioni e allestito treni e pullman — hanno tolto micce e aggressività a una delle sfilate più temute dell’anno. Alla fine, si è risolta nel corteo più pacifico degli ultimi dieci. Non c’è stato un assalto alle vetrine delle banche, dei postamat, non si sono visti cappucci alzati né sgraffittate sui muri. Qualche fumogeno, niente bomboni: «Con i numeri ti abbiamo respinto, Salvini, noi abbiamo memoria della tua storia e ti diciamo: “Roma te schifa”». Era venuti qui con buone intenzioni — pochi caschi allacciati alla cinta, dal primo pomeriggio — e le hanno mantenute.
Ad aprire la marcia il fumettone di Zerocalcare, #Maiconsalvini, ma anche contro tutte le politiche di austerity: «Sono il problema del paese e dell’Europa, non gli immigrati ». Renzi non piace di là, sul palco del Popolo, né di qua. Ma qua l’urgenza è dare una risposta antifascista immediata: i vecchi e meno vecchi dell’Anpi, che sullo striscione portano una foto seppiata di ragazzi partigiani con le munizioni a tracolla e la Piramide alle spalle, ballano al ritmo dei percussionisti de “la murga”.
Tre canotti grigi, servono per respingere il leader leghista, vengono issati e portati da piazza Vittorio fino a Sant’Andrea della Valle, tre chilometri lontano. Una ragazza recupera il dark di Siouxsie and the Banshees, nel gruppo si canta: “Qui non si sgombera, Roma si barrica”. La rappresentanza di Sel, lo striscione di Rifondazione, sì, c’è ancora. La Banda Bassotti che vuole il Donbass, in Ucraina, libero dai nazisti.
Al solito i cortei romani partono pigri e poi si gonfiano. L’antagonismo storico della città è rappresentato da Nunzio D’Erme, un orecchino per lobo. Poi il Fronte della gioventù comunista, cresciuti a cento, manifestazione dopo manifestazione, le solite bandierine rosse e i canti della Resistenza: «Salvini, attento, ancora fischia il vento». Molti migranti, sotto le insegne “La casa si prende”. Quelli dell’abitare sono gli unici con un cordone di sicurezza attorno. «Siamo la Roma che reagisce e non abbassa la testa, che odia i fascisti e i razzisti, quella degli sfruttati e degli studenti che studiano nelle città distrutte da anni di malgoverno: vogliamo riprenderci le strade dalle mani di coloro che stanno rovinando le nostre vite».
Si teme, in avvio, davanti ai magazzini allo Statuto chiusi, che i conti non tornino, che i pochi, frustrati, possano diventare aggressivi, ma all’altezza della Basilica di Santa Maria Maggiore il corteo è già raddoppiato e svelenito. Ancora una brutta notizia — in cinque, a Termini, hanno picchiato uno dei nostri —, ma la sostanza è quella di un sabato senza violenza, dopo un venerdì di assalti in Piazza del Popolo e scontri con la polizia in Piazzale Flaminio. La mattina sono stati segnalati alcuni cassonetti bruciati sulla Tiburtina e sulla Nomentana, all’altezza del raccordo, ma ora il corteo sfila davanti a bar, gelaterie, ristoranti, minimarket, librerie aperte. Su due ruote quelli di “Biciclissima”.
Lungo i Fori imperiali vanno al microfono le star del reggaeton italiano: musica dal vivo, camminante. Poi gli Assalti frontali: “Roma meticcia”. Piazza Venezia, quindi davanti alle vecchie Botteghe Oscure e Largo Argentina: «Siamo troppi per entrare in Campo de’ Fiori». Allora retromarcia, con la coda che diventa testa e i troppi in corteo che adesso si mischiano con quelli delle domeniche pedonali. Al tramonto, le diciotto e trenta, il corteo dei movimenti romani si scioglie davanti al Colosseo, ecco i primi petardi. Un gruppo prosegue fino a San Lorenzo: «Non vogliamo andar via da soli». Il leone di San Marco è ancora incappucciato. A fianco, la scritta: “Odio la Lega”.

il Fatto 1.3.15
L’altra Roma: “Noi, di più e senza partiti”
Il corteo rosso è un lungo serpentone
“Abbiamo vinto. Almeno 30 mila dall’Esquilino al Colosseo, e nessun politico in strada”
di Enrico Fierro


Mai con Matteo (Salvini), ma anche mai con l’altro Matteo (Renzi). Un’idea condivisa, uno slogan che ha unito decine di sigle e migliaia di persone. Quante? Trentamila, dicono gli organizzatori, noi non ci avventuriamo in calcoli, ma per le strade che da piazza Vittorio portano nelle vicinanze di Campo de’ Fiori, di uomini, donne, ragazzi, anziani combattenti delle mille battaglie perse della sinistra, immigrati di ogni nazionalità e di ogni dove, ne abbiamo visti tantissimi. Tutti incazzati, colorati, determinati e soprattutto pacifici. Non ci sono stati scontri, assalti ai cordoni di polizia, carabinieri e guardia di finanza messi a vigilare i punti “sensibili”. Non sono volate manganellate sulla testa dei manifestanti, né bottigliate su quelle degli agenti. Nessun ferito, nessun fermato, solo tantissima rabbia che ha tanta voglia di diventare progetto politico.
L’opposizione autoconvocata alla “marmaglia nero-verde”
“Abbiamo vinto noi, ci dicono che siamo più di quella marmaglia fascio-leghista che sta in Piazza del Popolo”, urla una ragazza dal camion amplificato che apre il corteo. Forse ha ragione anche per quanto riguarda i numeri, ma un dato è già certo e riguarda la politica, non l’aritmetica: quelli nella piazza di sinistra hanno portato a casa due vittorie. La prima riguarda la gestione della manifestazione anti-Matteo uno e due che si è svolta senza incidenti, la seconda è che da soli, senza sigle di partito e meno che mai della sinistra ufficiale, sono stati gli unici a scendere in strada contro Salvini e il suo lepenismo da osteria lombardo-trasteverina. A piazza del Popolo leghisti e fascisti del nuovo millennio, con i duri e puri di Casa Pound inquadrati come le milizie della marcia su Roma, nell’altra Piazza loro. Da soli. Se ancora nel Pd c’è qualcuno in grado di intendere e soprattutto di capire i movimenti che scuotono il corpo profondo
della società, e non solo i punti di auditel dei talk show, farebbe bene a riflettere. Tra striscioni e bandiere, “Bella ciao” cantata dai militanti curdi di Ocalan (bellissimo lo striscione sulla resistenza di Kobane: “Ha difeso valori universali”), Erri De Luca. Lo scrittore guarda, osserva, scruta. Ed è felice. Un fotografo lo avvicina e gli chiede con gentilezza se può fare una foto. Lui, raggiante, risponde in napoletano strettissimo: “Comme no”. Lo avviciniamo. Maestro è felice? “E certo, oggi è una bellissima giornata, lo spauracchio della paura non ha vinto, questa manifestazione è un successo al di là di ogni aspettativa. E io sono qui per dire una parola contraria al linguaggio fascista e leghista. Respiro ossigeno politico, questa è una manifestazione spagnola, qui c’è l’unica sinistra, qui c’è la Spagna di Podemos”. Podemos, possiamo, qualcosa è scattato nei movimenti per la casa, nei centri sociali, nelle varie associazioni che in periferia organizzano il disagio e danno voce agli immigrati, qualcosa che è ancora indecifrabile, forse l’embrione di nuovi movimenti che stanno per nascere.
“Meglio organizzarsi così che spaccare vetrine”
“Abbiamo vinto, da Salvini c’è meno gente che da noi, meglio organizzarsi che spaccare vetrine”, dice una ragazza con i capelli rasati e ogni millimetro delle orecchie occupate da piercing. Le voci raccolte tra i leader e i leaderini del movimento ti raccontano di un impegno a non fare “stronzate” sottoscritto direttamente con Maurizio Landini, il futuro leader della sinistra sociale. Forse è vero, forse no. Conta poco. Piazza antifascista e dura. Ma con ironia. “Nun je da retta Roma”, c’è scritto su un cartello. È l’inizio della canzone di Armando Trovajoli che Gigi Proiettti cantava in “Tosca”, l’indimenticabile film di Gigi Magni: “Nun je dà retta Roma che t’hanno cojonato… chi se fa pecorone er lupo se lo magna”. Dedicata a Matteo Salvini, ai suoi fascisti di Casa Pound e alle sue parole d’ordine tristi e fosche, frutto di un populismo volgare buono solo a scuotere le viscere. No, ieri Roma non si è fatta “cojonare”, non è “pecorona”. E il lupo è senza denti.

Repubblica 1.3.15
Le gabbie come al G8 di Genova con 3500 agenti a blindare la città
di Fabio Tonacci


ROMA . La cancellata blu alta due metri e mezzo che serrava via Napoleone III, la strada dove si affaccia la sede dei neofascisti di CasaPound, è stata per la Questura di Roma l’espressione di un equilibrio. Cercato e, a conti fatti, trovato.
Da una parte c’era da evitare di consegnare di nuovo la città al caos, come è successo non più tardi di una settimana e mezzo fa con gli ultras olandesi del Feyenoord liberi di usare Piazza di Spagna e la fontana della Barcaccia come orinatoi. I 3.500 agenti, tra poliziotti, carabinieri e finanzieri, schierati ieri lungo il percorso del corteo e attorno a Piazza del Popolo servivano appunto a questo scopo. Dall’altra, però, con gli occhi del resto d’Italia addosso e centinaia di telecamere a seguire il doppio evento, era arrivato dal Viminale l’ordine di ridurre a ogni costo il rischio scontri con e tra i manifestanti.
«Gli alari larghi sei metri montati davanti alle nostre camionette — spiega una fonte del Dipartimento di Pubblica Sicurezza — servono appunto a eludere il corpo a corpo e l’uso del manganello. Creano una barriera, fisica e psicologica, quando bisogna proteggere un accesso o un’area. Nel caso di un assalto in massa, gli agenti hanno il tempo di utilizzare lacrimogeni per disperdere chi tenta lo sfondamento ». A Genova, durante il G8 del 2001, con gabbie come queste avevano disegnato il perimetro della Zona Rossa, sbarrando ogni vicolo attorno a piazza De Ferrari. Per Roma non è la prima volta: le cancellate si sono viste anche il 12 aprile scorso per la manifestazione degli antagonisti contro le politiche del lavoro e della casa del governo Renzi. Quel giorno ci furono tafferugli, con feriti e arrestati. Ieri invece no. Durante il corteo dei #MaiconSalvini, circa 20mila partecipanti, non c’è stato mai un momento di tensione, non un petardo scoppiato, non un sasso lanciato verso le forze dell’ordine che hanno presidiato ogni via laterale lungo il percorso: 90 agenti anticipavano di qualche metro la testa del corteo, 90 lo chiudevano. Piazza Vittorio, il luogo del ritrovo, era potenzialmente quello più a rischio, distante un centinaio di metri o poco più dal palazzo di CasaPound. Ma, appunto, le gabbie posizionate dal reparto mobile di Roma hanno spento il pericolo violenza, impedendo il contatto tra i ragazzi dei movimenti e i neofascisti, che attorno alle 13 sono usciti dal loro quartier generale per raggiungere i leghisti.
L’afflusso dei pullman è stato sorvegliato e si è svolto senza incidenti. Quattrocento agenti, poi, hanno blindato Piazza del Popolo dove si è tenuto il comizio di Salvini. A sera il bilancio per chi ha gestito l’ordine pubblico — in una giornata che si è rivelata obiettivamente molto meno difficile di quanto le premesse lasciavano supporre — non può che essere positivo: giusto un paio di cassonetti dati alle fiamme lontano dal centro e poco altro.

il Fatto 1.3.15
L’invasione migrante: la grande paura è una grossa bufala
Gli sbarchi sono aumentati, ma non tutti gli stranieri vogliono fermarsi
Solo 70mila su 170mila l’anno scorso
di Antonello Caporale


La realtà è solo ciò che appare. È unicamente quel che rimandano in circuito il web, la televisione, i giornali. Le foto di Lampedusa, i derelitti umani ripresi al largo delle coste, la massa disperata e imballata su gommoni di fabbricazione cinese che dopo tre miglia sono destinati all’inabissamento divengono il fondale della Grande Paura, cartellonistica pubblicitaria per frasi shock, sostegno visivo all’uso quotidiano di uno spot politico che sta facendo faville e merita di essere approfondito.
Siamo invasi dagli immigrati, anzi: siamo all’apocalisse dei barconi. Nella torre di Matteo Salvini, che ieri svettava alta a piazza del Popolo, a Roma, i neri d’Africa e i musulmani d’Oriente stanno per cingerci al collo, toglierci la libertà, quel poco di prosperità che ci rimane. Il futuro, la democrazia e quel che segue sono a grave rischio.
I numeri testimoniano un crollo degli arrivi: ma allora di cosa si sta parlando?
L’anno scorso, che è pur sempre un anno assai carico di disgrazie e di arrivi, di morti in mare e di attraversamenti ancora annunciati, sono giunti sulle coste italiane - nelle condizioni che sappiamo - 170 mila migranti. Sono giunti i vivi, perchè dei morti non abbiamo censimento esatto. Ed è vero che il numero degli sbarcati è quattro volte in più che nel 2013, oltre il doppio rispetto al 2012. Eppure prendendo in considerazione proprio quest’anno, il numero di arrivi risulta equivalente al numero dei permessi di soggiorno che nel solo 2007 il governo rilasciava attraverso i cosiddetti flussi.
E i permessi vidimati erano almeno quattro volte in meno delle presenze stimate, delle richieste inoltrate, di immigrati clandestini già al lavoro da noi. Se poi dovessimo incolonnare le cifre di chi ad oggi è rimasto in Italia dopo lo sbarco, di coloro attualmente assistiti nelle diverse strutture d’accoglienza, dovremmo riconsiderare nettamente al ribasso la cifra iniziale perchè dei 170 mila sbarcati circa centomila sono i ripartiti. Ad oggi infatti le presenze censite arrivano a 67.034.
Numero che risulta sconfitto dall’offerta che solo nel 2011 il ministero dell’Interno - lo guidava il leghista Roberto Maroni, anch’egli sul palco ieri a sventolare la bandiera della sovranità minacciata - rendeva disponibile per chi volesse regolarizzarsi. Ottantamila permessi di soggiorno nel relativo decreto flussi: 50 mila a favore di nazionalità cosiddette privilegiate (Paesi che con l’Italia hanno stipulato accordi di cooperazione) e 30 mila destinate all’universo delle badanti.
È praticamente da quell’anno che in Italia i flussi sono scomparsi, che gli arrivi degli immigrati per vie diverse dal mare sono quasi cessati per ragioni essenzialmente economiche. E da quell’anno l’Italia è divenuta terra d’attracco, di sosta temporanea e poi di transito per il nord Europa (Germania, Olanda, Svezia). Abbiamo registrato 26 mila visti di asilo politico, contro i 127 mila della Germania.
Esiste dunque, per cifre assolute e relative, un documentato crollo degli arrivi. Ma ciò che non si vede, semplicemente non è. La Lega ha sempre fatto un lavoro superlativo per produrre un effetto ottico, un elemento fantastico tra la realtà e l’apparenza. E dobbiamo dire che c’è quasi sempre riuscita. Nel 2007, per esempio, il senatur Umberto Bossi sbraitava contro terun e neri, la Padania era dei padani eccetera eccetera. A Treviso era stato eletto sindaco lo sceriffo Gentilini, quello che espiantava le panchine dai parchi pur di togliere un sedile a chi non aveva niente. Eppure, incredibile paradosso, in quello stesso anno le domande di assunzione di extracomunitari nel solo nord est erano pari a circa un terzo delle 740 mila giunte da tutta Italia al Viminale.
Un numero di offerte di lavoro quasi cinque volte superiore a quello permesso dal relativo decreto di regolarizzazione. Leghisti gli uni e spesso leghisti gli altri. Leghisti di lotta – i padroncini che chiedevano braccia robuste per le stalle, le fonderie e per aiutare i nonni invalidi – e leghisti di governo che obbligavano a serrare le fila contro l’invasione barbarica.
Ricordatevi le quote latte: il Carroccio fa campagna elettorale, il conto lo paghiamo noi
Esiste una proiezione fantastica della realtà leghista che diviene, per merito della propaganda e di una inclinazione ambientale alla xenofobia, realtà oggettiva, documento inattaccabile, verità assoluta. È esattamente quel che è successo con gli allevatori padani e le quote latte.
Ricordate? Gli allevatori - agevolati dal governo di centrodestra e sostenuti apertamente dalla Lega - rifiutarono di produrre entro i limiti stabiliti dall’Unione europea. Limiti in effetti ingiusti ma che l’Italia aveva sottoscritto. Il gioco del rifiuto è durato trent’anni.
Alla fine il conto salato: quattro miliardi di multa da parte di Bruxelles trasformati in revoca dei contributi comunitari di pari importo. Settanta euro a testa abbiamo pagato. Chi oggi porta il conto a Bossi, Maroni e Salvini? Nessuno.
L’industria della sicurezza e dell’accoglienza vale 800 milioni e solo il 5% va ai migranti
E chi dice ai capi leghisti che dei circa 800 milioni di euro, una cifra importante, che l’Italia destina al problema dell'immigrazione, meno del 5% giunge in tasca agli immigrati? Il resto, tutto il resto, è sostegno all'industria dell’accoglienza e della sicurezza, all’indotto del catering alla residenza alberghiera. La verità è che gli immigrati sono divenuti un reddito per migliaia di italiani. E se domani d’incanto smettessero gli sbarchi, un mucchio di buste paga salterebbero. Perchè al netto degli abusi, delle camarille di potere se non vere e proprie mafie - vedi l’eclatante esempio di Roma - il circuito finanziario tiene in vita una nuova forma di attività economica, la cosiddetta impresa sociale, che non ha più nulla del volontariato e della carità. Ogni sbarcato ha diritto a un pocket money di 2,5 euro al giorno a fronte di un contributo statale di 30. Che è destinato a piccole imprese italiane, coop, società che partecipano ai bandi di gara che la Direzione centrale immigrazione, diretta dal prefetto Morcone, istituisce ogni anno. Come si vede dalla tabella qui sopra, le regioni del Nord si rifiutano di accettare la loro quota di migranti, ma se tutti i comuni italiani si rendessero disponibili ad accogliere (contro soldi) i migranti, il numero in ciascun comune sarebbe di 21 (ventuno). Cioè niente.

La Stampa 1.3.15
Libia, le navi italiane a difesa delle piattaforme energetiche
di Ilario Lombardo

qui

La Stampa 1.3.15
L’Onu: c’è poco tempo per evitare che ila Libia cada nel baratro
Rapporto di Ban Ki-moon: la guerra civile totale è dietro l’angolo
di Paolo Mastrolilli


«La Libia è pericolosamente vicina al baratro di una guerra civile totale». Non ha usato mezzi termini, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, nel rapporto che ha appena presentato al Consiglio di Sicurezza, per sollecitare la prosecuzione della missione Unsmil e l’accelerazione del negoziato diplomatico per creare un governo di unità nazionale. L’alternativa al dialogo fra le parti è «la prosecuzione della violenza e il disordine politico, che serviranno solo a minare l’unità nazionale e l’integrità territoriale del paese». E questo a fronte di una minaccia terroristica che Ban definisce «un pericolo imminente». Fonti ben informate dicono che ormai è «questione di settimane». Una via d’uscita politica si può ancora trovare, ma il cammino e i tempi sono molto stretti.
Rinnovare la missione
L’Onu è stato il crocevia delle manovre diplomatiche sulla Libia durante la settimana che si è appena conclusa. Oltre al rapporto di Ban, infatti, il Palazzo di Vetro ha ricevuto la visita dell’ambasciatore italiano Giuseppe Buccino, l’ultimo ad aver lasciato Tripoli. Gli alleati ammettono che nessuno conosce il paese come noi, e gli incontri con i membri del Consiglio di Sicurezza e le potenze della regione sono serviti a fare il punto sulla situazione e discutere la possibile strategia.
Il primo punto all’ordine del giorno è il rinnovo della missione Unsmil, che scade il 13 marzo. L’inviato dell’Onu Bernardino Leon potrebbe continuare la sua opera di mediazione anche senza, ma ne uscirebbe indebolito. Ban quindi suggerisce di rinnovare il mandato per un altro mese, riducendo però il personale a 15 o 20 unità, che faranno la spola dalla Tunisia. Questo elemento basta già a capire la difficoltà della situazione e l’urgenza: un mese, al massimo, per trovare l’accordo.
La diplomazia stenta
La questione politica è sempre la stessa. Il governo laico di Tobruk, appoggiato dall’Egitto, si considera l’unico esecutivo legittimo e chiede che la comunità internazionale lo aiuti a riprendere il controllo del paese con la forza. Il governo di Tripoli, legato alle formazioni islamiche, risponde che la situazione sul terreno è ormai diversa e bisogna prenderne atto. Il pericolo sempre più concreto è che fra i due litiganti goda il terzo, ossia il terrorismo.
I servizi italiani non pensano che l’Isis sia vicino a prendere il controllo, come ha fatto in Siria e Iraq. Se però Tripoli e Tobruk non trovano un accordo, che consenta poi un intervento internazionale per aiutare la tenuta del governo di unità, i terroristi possono diventare in fretta il punto di riferimento della popolazione esausta. La soluzione militare non c’è, nel senso che nessuna delle due parti sembra in grado di prevalere sull’altra. Quindi la prospettiva, senza un accordo politico, è quella di una guerra civile di lungo termine, nella quale l’Isis troverebbe enormi spazi da sfruttare.
Al momento i terroristi sono concentrati soprattutto nella zona di Derna, in Cirenaica, e Sabratha, l’area archeologica ad ovest di Tripoli. Questa è anche la regione da dove partono la maggioranza delle imbarcazioni con gli immigrati illegali, e non è lontana dalle piattaforme dove opera l’Eni, con personale italiano ancora a bordo. È una posizione più sicura di quella sul terreno e offre rapide vie d’uscita, ma è anche esposta ad attacchi dal mare da parte dei terroristi. Un piano B non esiste, per ora. Se però l’accordo politico non si materializzerà nel giro di qualche settimana, la priorità dovrà diventare quella di difendersi.

il Fatto 1.3.15
Controriforme
Punire qualche giudice per educarli tutti quanti
di Furio Colombo


Propongo al ministro della Giustizia Orlando, a cui riconosco una indiscutibile onestà e una profonda incompetenza, di inviare il testo della infausta legge appena approvata dalla Camera (con cui chi ne ha i mezzi può tenere a bada i magistrati e respingere la sentenza) ad un giurista americano, chiunque, ma con un limite di credibilità e di valore. Per esempio, il capo di una Scuola di Legge delle prime dieci più prestigiose università degli Stati Uniti. Infatti, in quel Paese, la School of Law non è una facoltà tra altre. È un ciclo completo di studi giuridici dei Paesi democratici. Non pretendo di sapere da Orlando che risposte riceverà, anche perchè è facile immaginarlo. Il fondamento della giustizia, come sa bene la mafia, è che non si possa intimidire il giudice. Mi rendo conto della situazione impossibile. Il ministro Orlando, privo di esperienza e di cultura giuridica, ha seguito, secondo la volontà del suo partito, il percorso giuridicamente rozzo disegnato da un senatore, anche lui diplomato (nel caso, perito industriale). Siamo di fronte a un cumulo di incompetenze, e non si tratta di prendersela con le persone. Non è stato Orlando ad autoproclamarsi senza ragione ministro della Giustizia (come un bravo cittadino che fosse buttato all'improvviso, con mascherina e guanti, dentro una sala operatoria). Non ha deciso da solo che toccasse a un altro diplomato di scrivere la legge più delicata e complessa tra quelle che regolano l’intero sistema giudiziario (indipendenza, libertà e non intimidazione dei magistrati). Tuttavia mi piacerebbe che, da persona per bene, si rendesse conto della legge-disastro che ha presentato, sia pure sotto un altro nome, e che resterà “la legge Orlando”, destinata a entrare nei libri di storia come l’unica legge occidentale con cui ogni condannato, se ricco abbastanza, può rovinare il magistrato, facendogli sapere, fin dall'inizio del processo, che il giudice sarà comunque a sua volta giudicato, per buone o cattive ragioni, per ogni atto che sta compiendo, se l'imputato ha i mezzi e gli avvocati adeguati. Ad esempio, se il presunto assassino della ragazzina Yara fosse ricco e se la nuova legge fosse già in vigore, c’è da domandarsi se i giudici continuerebbero a tenerlo in carcere prima del processo nonostante l’evidente rischio di fuga, visto che ogni nuova conferma della detenzione preventiva può diventare, nel ricorso previsto, e secondo il dettato della legge Orlando, un capo di accusa o comunque una ragione di processo.
TUTTI ricordano il principio, valido in ogni Paese, secondo cui non sono possibili referendum sull’ammontare, per quanto ingiusto, di una tassazione. Quel lavoro resta nelle mani delle persone che hai eletto, nella speranza che siano in grado di realizzare una mediazione accettabile fra Stato e cittadini. Ma poiché nessuno è incline a ritenere giusto il livello delle tasse che paga, i cittadini vengono esclusi dall'interloquire direttamente, e per questo esiste, se funziona, il Parlamento. Adesso invece il cittadino, se abbiente, può perseguitare il giudice, proprio la persona del giudice, che in ogni momento del suo lavoro sa che l'imputato abbiente ha tre anni di tempo per trovare una buona ragione di accusa (indipendente dai tre gradi di giudizio) che durerà a lungo, che lo espone a una sanzione umiliante e severa (perdita della metà dello stipendio) e che lo tiene comunque sotto minaccia.
Ho detto “imputato abbiente” perché questa è una legge ovviamente dedicata ai ricchi e dunque soprattutto ai grandi e illustri imputati (metti, per fare nomi a caso, Berlusconi o Dell’Utri). Ma niente vieta, nello slancio antigiudici che sembra animare i berlusconiani di sinistra, e non solo quelli di destra, in Parlamento, che si formi un corpo di avvocati volontari che si offrono al condannato meno abbiente una loro “spontanea” assistenza antigiudice pur di tenere finalmente a bada il potere giudiziario. È infatti il solo che non sia crollato, come la politica e il giornalismo, al passaggio dell'imprenditore ricco in grado di acquistare la Rai, le ragazze, la maggiore casa editrice del Paese e un pacchetto di senatori. Citerò Violante per smentire l'affermazione corrente che fa da traino alla nuova legge, e che giornali e TV ripetono. Domanda: “Questa legge andava varata in fretta perchè ci è stata richiesta dall'Europa? ” Risposta: “No, è soltanto una bugia. L’Europa non c’entra nulla. La politica deve assumersi la responsabilità delle proprie scelte”. (Corriere della Sera, 25/2).
ED ECCO ciò che il berlusconismo di sinistra ritiene sia la legge sulla Responsabilità civile (personale, non dello Stato, e, come tale, inammissibile in qualunque ordinamento democratico) dei magistrati. Primo, non c'è filtro di ammissibilità. Basterà il comprensibile cattivo umore di chi ha persona una causa. È importante per creare affollamento e dire: vedete? finalmente il cittadino può difendersi. Secondo: “È colpa grave la violazione manifesta della legge nonchè del diritto dell'Ue”. Poichè, come è noto, non esiste un corpo di norme civili, penali o costituzionali che possano essere chiamate “diritto dell'Unione Europea” l'affermazione è priva di senso pratico e giuridico. Terzo: “(occorre punire) il travisamento del fatto o delle prove”. Di nuovo la frase non è interpretabile nè verosimile, date le garanzie del dibattito in tre gradi di giudizio – e dispiega tutto il suo berlusconismo puro. Al punto che gli avvocati di B. essendo anche parlamentari, non azzardavano affermazioni del genere in aula giudiziaria, ma lo facevano solo in Parlamento. Una cosa si può predire. Questa legge sull'intimidazione dei magistrati lascia un segno profondo, deformante e imbarazzante, che diventerà una svolta storica, sull'immagine di questo governo. È un impegno distruttivo (prima le garanzie del lavoro poi le garanzie della giustizia) non si sa se politico o caratteriale, se spontaneo o dovuto a un disegno che tuttora non si conosce.

il Fatto 1.3-15
Incredibile: oggi le primarie campane
di Vincenzo Iurillo


Napoli Incredibile ma vero, oggi si fanno le primarie del Pd in Campania. Per sei mesi i capicorrente locali hanno brigato per cancellarle, inseguendo un accordo su un nome di superamento senza riuscirci. Chi vorrà, potrà recarsi tra le 8 e le 21 di oggi in uno dei circa 585 seggi allestiti tra le cinque province e scegliere il candidato governatore del centrosinistra tra Vincenzo De Luca (Pd), Andrea Cozzolino (Pd) e Marco Di Lello (socialista). Dopo, però, dovrà sperare di non aver buttato due euro sotto le macerie dell’annullamento della competizione sotto il peso delle reciproche accuse di brogli e accordi irriferibili col centrodestra o peggio.
IL SISTEMA della pre-registrazione almeno una settimana prima del voto, comunque, pare aver tamponato il rischio di affluenze sospette di immigrati: appena tre quelli registrati a Napoli, più una ventina di minorenni. ‘Bocciati’, perché ritenuti fuori tempo massimo, i circa 80 tra immigrati e minorenni registrati a Salerno grazie all’appello in extremis partito via sms da politici vicini a De Luca. “Si vota in un clima avvelenato, frutto di una strategia della tensione alimentata al nostro interno”, ha ammesso il segretario campano del Pd Assunta Tartaglione. Sulla scheda ci sono ancora i nomi di Gennaro Migliore e Nello Di Nardo (Idv), ritirati in extremis. I loro consensi saranno cancellati dal computo.
Nell’elenco dei seggi pubblicato sul sito del Pd campano, oltre a un paio di chiese del casertano e ad alcuni alberghi nel salernitano e nel beneventano, spiccano come curiosità un’enoteca a Somma Vesuviana e una farmacia a Striano, nel napoletano, la sede dell’associazione carabinieri a Rocca d’Evandro (Caserta), la sala lettura di un bar a Mercogliano (Avellino). Altra curiosità: Di Nardo si è ritirato denunciando sospetti sulla regolarità della consultazione, ma il seggio allestito nella sede di Idv a Napoli risulta confermato e pure quello a Caivano. Cancellato, invece, un seggio che sarebbe stato aperto in un circolo vicino a un consigliere comunale del centrodestra. Dal Nazareno guardano a Napoli con preoccupazione: tanto che hanno inviato un team di ispettori per controllare la correttezza delle operazioni. Per il vicesegretario Pd Debora Serracchiani “servono regole e controlli”, ma “per individuare il capo di un partito c’è chi fa le primarie e chi si chiude in una stanza: meglio le primarie”.

il Fatto 1.3-15
Corsa per il Veneto
Industriali, costruttori, moilti indagati: ecco chi ha pagato la renziana di ferro per le Europee
Ora sfida Zaia che non vuole contributi dai privati
di Antonio Massari


Chi è indagato, sotto processo o condannato, è preferibile che non finanzi la nostra campagna elettorale”. L'ufficio stampa di Alessandra Moretti spiega questa improvvisa svolta al telefono, quando facciamo notare che, tra i finanziatori della campagna elettorale di appena nove mesi fa, quella per le Europee, c'è chi è sotto processo per un'evasione fiscale da 70 milioni, come l'attuale presidente della Fiera di Vicenza, Matteo Marzotto. “È preferibile? ”, chiediamo. “Beh – ci rispondono – non possiamo certo impedire a qualcuno di fare donazioni, se lo ritiene opportuno”.
IN ATTESA di conoscere i finanziatori della campagna elettorale in corso, abbiamo letto l'elenco di quelli di appena nove mesi fa e, al di là delle cifre, che non superano i 5 mila euro e si attestano spesso sui mille, è il parterre che si rivela davvero interessante. “Dice davvero? – commenta quasi incredulo Alberto Altieri – È preferibile che questa volta non la finanzi perché sono indagato? Mi dispiace, l'avrei fatto volentieri, vorrà dire che farò un passo indietro, la sosterrò solo con il voto”. Alberto Altieri si autodefinisce un “grande elettore” di Alessandra Moretti. È un simpatico 72enne di Thiene, provincia di Vicenza, e con la sua voce flebile guida un impero che vanta 115 anni di storia e 28 milioni di fatturato l’anno: lo studio di progettazione Altieri. Una società – per comprenderne il livello - che figura tra i sostenitori della Fondazione Marcianum, guidata dal Gran Cancelliere nonché Patriarca di Venezia, il cardinale Angelo Scola, presieduta dall'ex re del Mose Giovanni Mazzacurati e frequentata, in qualità di consigliere, dall'ex “doge” nonché ex ministro di Forza Italia Giancarlo Galan, oggi agli arresti domiciliari, e dall'ex sindaco del Pd Giorgio Orsoni, anch'egli indagato nell'inchiesta sul Mose. In questo Veneto di ex, l'ex fidata segretaria di Galan, Claudia Minutillo, di Altieri disse a verbale: “Lo studio Altieri è ovunque”. Il punto è che il “grande elettore” Altieri è indagato a Roma con l'accusa di truffa ai danni dello Stato: l'emergenza ambientale nella laguna di Grado e Marano – è la tesi del pm Alberto Galante - era stata inventata, tra il 2002 e il 2012, per incassare milioni dallo Stato e poi spartirli tra amministratori e imprenditori. Nell'elenco dei 26 indagati figurano anche l'ex direttore generale del ministero dell'Ambiente, Gianfranco Mascazzini, e l'ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati. Tra i grandi accusatori c'è Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani Costruzioni, il quale riferisce che la laguna di Grado e Marano era soltanto uno dei tanti commissariamenti, creati con “il malcelato fine di affidare prima la progettazione, e poi la realizzazione degli interventi, a soggetti di comodo, come Sogesid, Thesis e Studio Altieri”. È vero che Altieri, per questa vicenda, era stato archiviato a Udine ma il 20 maggio, quando Moretti incassa il bonifico dei suoi mille euro, la storia era già nota. E di certo era noto che il fratello di Alberto Altieri, Vittorio, da poco scomparso, era il compagno di Lia Sartori, parlamentare europea di Forza Italia, di lì a poco arrestata dalla procura veneziana per lo scandalo Mose. “Ma io ho finanziato la Moretti – tiene a precisare Alberto Altieri – e non Lia Sartori. Perché i sentimenti – spiega – non c'entrano niente con le scelte politiche”.
MILLE EURO sono un'inezia, per una campagna elettorale, soprattutto per imprenditori del calibro di Altieri o Marzotto, ma quel che conta non è la cifra, bensì il sostegno, il cosiddetto endorsement. Quando il piccolo grande finanziatore Matteo Marzotto bonifica i suoi mille euro per Moretti, è il 2 maggio 2014, ed è già da tempo imputato a Milano per un'evasione fiscale da circa 70 milioni di euro, legata alla vendita del marchio Valentino. Nel suo curriculum spicca la presidenza dell'Enit – lasciata nel 2011 – che gli fu conferita direttamente da Silvio Berlusconi. Ed ecco il rendiconto delle europee del 25 maggio scorso: 64.531 euro, dei quali 21.531 ricevuti da persone fisiche, 30 mila da imprese, 11mila spesi di tasca propria da Alessandra Moretti. La candidata Pd, 9 mesi fa, poteva vantare il sostegno dell'ex presidente della Fiera di Vicenza Roberto Ditri – con i soliti mille euro d'ordinanza – e quello della Unicomm (grande catena di ipermercati) del patron Marcello Cestaro, ex presidente del Calcio Padova, squadra sull'orlo del fallimento. Avrà pure finanziato la Moretti e il Pd, con i suoi tremila euro, ma a Cestaro le coop non stanno certo simpatiche: “Se la Coop – spiega a Il Giornale – decide di aprire un ipermercato a Bologna o Reggio Emilia, ci mette un niente. Noi abbiamo comprato un’area a Bassano nel 1990 e la prima signora col carrello è entrata nel 2012”. Altri mille euro arrivano invece dalla Fiamm, che produce batterie, e vede il suo amministratore delegato, il 65enne Stefano Dolcetta, vicepresidente per la relazioni industriali di Confindustria. La sua posizione sui contratti di lavoro è chiara: “È un errore modificare il Jobs Act sui licenziamenti collettivi”, ha dichiarato al Corriere della Sera, qualche giorno fa, ammonendo Renzi.
QUESTO è il profilo degli endorsement ricevuti dalla Moretti appena 9 mesi fa, incluso quello di Gianfranco Simonetto, cognato di Enrico Maltauro che, nell'inchiesta milanese sull'Expo, ha patteggiato una pena di 2 anni e 10 mesi. La Maltauro è il colosso vicentino delle costruzioni, oggi presieduto da Simonetto, che non è indagato e a maggio scorso si attivò per la campagna elettorale della Moretti: “Ci fu solo una cena, organizzata a casa sua, alla presenza di alcuni amici – precisa l'ufficio stampa dell'azienda – ma senza alcun contributo”. Infatti il nome di Simonetto non compare nell'elenco dei finanziatori della Moretti. E nessun nome compare, invece, nell'elenco dei finanziatori, per l'ultima campagna elettorale del leghista Luca Zaia, attuale presidente del Veneto, quella delle regionali 2010. Zaia ha dichiarato un sorprendente zero euro e zero centesimi. “Le regionali del 2010 sono state finanziate dal partito – spiega il suo ufficio stampa – e non vogliamo contributi da privati: questa era e resta la nostra linea. Contribuirà il partito per quanto necessario, e tutti i candidati della Lega, Zaia incluso, parteciperanno alle spese per il saldo finale”. Ma quanto a spese, nel 2010, la Lega Nord per la campagna elettorale di Zaia? “Dovremmo contattare il commercialista, è sabato, è in corso la manifestazione a Roma... non possiamo darle una cifra precisa”.

Corriere 28.2.15
Speranza e Bersani, le due assemblee. Così si divide la minoranza del Pd
Landini: Renzi usa male il suo genio, spazi democratici a rischio. Campania alle primarie
di Monica Guerzoni


ROMA A Palazzo Chigi «si lavora sempre per l’unità» del Pd, assicura Graziano Delrio. Ma lo strappo di Bersani e della minoranza, che venerdì ha disertato la riunione programmatica di Renzi al Nazareno, segna una pagina nuova nei rapporti tra renziani e non-renziani. E poiché il segretario non intende aprire agli oppositori interni modificando i testi delle riforme, tocca alla minoranza studiare le contromosse.
Bersani sta organizzando per il 21 marzo all’Acquario romano una grande assemblea di tutti coloro che vogliono cambiare il Pd dall’interno, senza tentazioni scissioniste. La piattaforma la riassume Alfredo D’Attorre, «molto determinato» a cambiare in tre punti la legge elettorale: «Riduzione dei nominati, apparentamento al secondo turno e collegamento con la riforma costituzionale». Per quanto il governo si mostri forte dei numeri, D’Attorre è convinto che la battaglia non sia persa: «Ricordo a tutti che il voto è segreto… Prevedo sorprese anche dal fronte renziano. Noi faremo una battaglia a viso aperto, ma si salderà un consenso molto ampio sui nostri emendamenti». Un appello a Renzi ad arrivare in aula solo dopo aver siglato un accordo con Bersani e compagni.
Il fatto è che la minoranza «non è omogenea», come ha detto Damiano partecipando al seminario di Renzi. A certificare la divisione arriva la notizia che il 14 marzo, una settimana prima di Bersani, Roberto Speranza riunirà i suoi parlamentari a Bologna: per rilanciare Area riformista e ribadire lealtà a Renzi, smarcandosi dai «duri» come Fassina, D’Attorre e Civati.
In gioco c’è il comportamento da tenere sulle riforme e, soprattutto, sull’Italicum. La dichiarazione di guerra di Bersani, «così la legge elettorale io non la voto», ha messo in allarme quei bersaniani dialoganti che non se la sentono di strappare sul passaggio chiave della legislatura: perché la legge torni nell’aula della Camera c’è tempo, ma già fioccano i tentativi di mediazione. Per Nico Stumpo, che vede la minoranza come «alternativa a Renzi e non al Pd», eliminare i capilista bloccati sarà difficile: «Si può riprendere l’idea dei nostri senatori di fissare un 30, 35 per cento di liste bloccate ed eleggere gli altri parlamentari con le preferenze».
Per il governo c’è un altro fronte aperto, il Jobs act. Come ha detto Maurizio Landini lanciando la manifestazione del 28 marzo, «Renzi stai sereno, che non è finita…». La sinistra guarda alla Corte costituzionale, chiamata a verificare se i decreti hanno attuato la delega sul lavoro o sono andati oltre. Da Cervia il leader della Fiom è tornato a picchiare sul premier: «Renzi sta usando male il suo genio. Accetti la mediazione, o si rischia una riduzione degli spazi democratici».
Cuperlo stima Landini, eppure dice no a una Syriza «in declinazione domestica», come Bersani e D’Alema sogna «una grande sinistra dentro il Pd» e invita i dirigenti ad aprire una discussione approfondita sulla natura del partito in alcune aree del Paese: un riferimento ai veleni delle primarie, che si terranno oggi nelle Marche e in Campania. E se la Serracchiani le aspetta come «un banco di prova per il Pd», Cuperlo avverte: «Guai a mettere la testa sotto la sabbia, in troppe realtà il Pd ha rappresentato un volto opaco della politica». Al tempo stesso Cuperlo rassicura Renzi giurando che «non c’è una minoranza in assetto di guerra pronta a fare lo sgambetto al governo» e chiede al leader chiede di dare «più fiducia ai suoi parlamentari». Minoranza inclusa, ovviamente.

Repubblica 1.3.15
Tregua armata nel Pd. Cuperlo: nessun sabotaggio
Nasce la sinistra renziana
Nella corrente Orfini, Serracchiani, fassiniani e giovani deputati
Delrio: “Siamo un partito nazional popolare”. Oggi le primarie campane
di Giovanna Casadio


ROMA Le acque sono tutt’altro che calme nel Pd, tuttavia Graziano Delrio e Lorenzo Guerini, entrambi di scuola democristiana, tessono l’armistizio con la sinistra del partito, dopo lo strappo di Bersani e la “ferita” del Jobs Act. Ma nel PdR, il Pd di Renzi, tutto sta cambiando, si muove e traballa. Ecco quindi i renziani partire all’offensiva da un lato moltiplicando in giro per l’Italia le Leopolde - il modello di convention- culla del renzismo - dall’altro raggruppandosi in tante “anime” o correnti che abbiano appeal giusto per attirare truppe dalle già frantumate minoranze dem. Nascono dunque i “renziani di sinistra”, cioè i “giovani turchi” di Orfini, Verducci e Orlando che, ora insieme alla vice segretaria Debora Serracchiani, sono pronti ad attrarre giovani ex bersaniani e a raccogliere gli ex ds vicini a Piero Fassino. Sono almeno cinque ormai le “anime” renziste. Mercoledì scorso, prima riunione dei cosiddetti catto-renziani (Delrio, Guerini, Richetti, Rughetti più i veltroniani) a cui ha aderito l’anti renziano convertito Beppe Fioroni. Il “giglio magico” del premier resta sempre composto da Luca Lotti, Maria Elena Boschi e da Marco Carrai. Mentre i renziani ortodossi ingrossano le file con Marco Di Maio, Marco Donati accanto ai trainer Francesco Bonifazi, il tesoriere del partito, e Ernesto Carbone. Infine renziani di complemento sono il gruppetto di “Carta 22 aprile” con Elisa Simoni, Francesco Saverio Garofani, Gianni Dal Moro. Tutto questo mentre Delrio dalla Leopolda siciliana parla di un «Pd nazional popolare, che non è fatto di correnti e steccati bensì è un partito aperto». Domani il sottosegretario sarà a Trieste al laboratorio “20Lab” organizzato dal lettiano Francesco Russo, un confronto “trasversale” rivolto ai giovanissimi. Alla stessa maniera il vice segretario Guerini cerca di abbassare i toni e liquida l’accusa di “deriva autoritaria” lanciata a Renzi dalla sinistra del partito: «Che sciocchezza, c’è tanto da fare per cogliere le sfide del paese e dobbiamo farlo insieme ».
La minoranza dem chiede segnali concreti di tregua. Gianni Cuperlo, leader di sinistra, assicura: «Non abbiamo fatto delle proposte per sabotare, fare sgambetti al governo, bensì per aiutare». Ma attacca: «Nessun dorma nel Pd, no alla testa sotto la sabbia, il partito è commissariato in Lazio, in Liguria è uscito Cofferati... ». E poi ci sono le polemiche e le divisioni in Campania dove oggi si tengono le primarie in una situazione incandescente (Saviano ha invitato, su Facebook, a non andare votare). Serracchiani promette che le regole delle primarie saranno cambiate: «Vanno chiarite e precisate ». «Speriamo», commenta Nico Stumpo. Roberto Speranza, leader di una delle minoranze dem e capogruppo, invita a «ricostituire un clima migliore». Per ora neppure il calcio aiuta. Tra lui, romanista, e Renzi, viola sfegatato, scambio di battutacce su Roma e Fiorentina in Coppa Italia nella riunione dei gruppi parlamentari di venerdì. Al Pd renziano dicono “no” gli ex 5Stelle riuniti ieri a Firenze: «Noi siamo all’opposizione, non andremo nel Pd».

il Fatto 1.3-15
Renzi in Russia col morto
Il governo italiano condanna l’omicidio Nemtsov ma il premier non rimanda l’incontro a Mosca
di Wanda Marra


Il governo italiano condanna nella maniera più ferma il barbaro omicidio di Boris Nemtsov e auspica un’indagine accurata che porti alla rapida individuazione e condanna dei responsabili”. La nota ufficiale di condanna di Palazzo Chigi viene vergata ieri di buon mattino. Molto netta, ma anche molto impersonale. L’omicidio arriva con un timing che per Renzi non è dei migliori: mercoledì va a Kiev a incontrare Poroshenko e giovedì a Mosca per vedere Putin. Lo stesso “Zar” che Nemtsov aveva accusato: “Temo che mi voglia uccidere”.
PER ADESSO, non ci sono prove di un coinvolgimento del presidente russo. Anche se all’interno e all’esterno è il sospettato numero uno. Palazzo Chigi ha deciso di procedere nella missione. Certo, se dovessero emergere delle prove a carico di Putin, se dovesse arrivare una condanna della comunità internazionale, il viaggio dovrebbe essere rimesso in discussione. Si naviga a vista. E per ora si va avanti.
Il premier sta cercando di giocare il ruolo di “grande mediatore” nello scacchiere europeo. Questo viaggio lo fa politicamente da solo: lo accompagneranno il portavoce, Filippo Sensi e il consigliere diplomatico, Armando Varricchio. Nessun ministro, tanto meno Mrs Pesc, Federica Mogherini.
È dallo scorso aprile che Renzi ha intrecciato un rapporto con Putin, quando si sentirono al telefono. Al centro della conversazione i rapporti bilaterali tra Italia e Russia e la situazione ucraina, sulla quale il premier ha chiesto a Putin un impegno sostenuto a dare seguito concreto agli accordi di Ginevra. A ottobre Renzi ha presieduto durante il vertice Asem un incontro tra lui e Poroshenko. Primo incontro a quattr’occhi tra i due. E pazienza se il russo a un certo punto della serata è scappato per far visita all’amico Berlusconi. Tanto più che questi gli avrebbe parlato bene del premier, presentandoglielo quasi come una sorta di erede. Con questo viaggio, Renzi ha due obiettivi: primo cancellare il ricordo di quella foto di Hollande, Merkel e Putin, il trilaterale di Mosca, in cui lui era assente. E poi, provare a coinvolgerlo sulla Libia. I partner europei non si rendono conto che il ruolo di Putin è essenziale, ragionano nei circoli renziani. E che anche se ha avuto dei comportamenti esecrabili, non è un pazzo, è comunque un “attore” da tenere presente. Il ragionamento si spinge anche oltre: con quest’omicidio, Putin è ulteriormente indebolito sulla scena internazionale. E allora, dicono, Renzi potrebbe aver buon gioco a tirarlo dentro, alle sue condizioni. Un po’ lo schema che ha seguito fino a un certo punto con Berlusconi: rimettere in gioco un leader ai margini, traendone i suoi vantaggi.
SARÀ TUTTO da vedere. Intanto l’approccio è una via di mezzo tra un atteggiamento di negoziazione e uno più intransigente. Renzi fa prima tappa a Kiev per chiarire che tutto si svolge nell’ambito degli accordi di Minsk.
E poi c’è tutto il dossier affari: in Russia, l’Italia ha alcuni interessi ai quali non può rinunciare. Da quelli di Eni, con le importazioni di gas. Ad alcune attività della Fiat.
Economia e diplomazia comandano, insomma. E i diritti umani vengono dopo.

il Fatto 1.3-15
Lo scrittore Petros Markaris
“Se fallisce Tsipras, sarà Alba Dorata”
intervista di Luca De Carolis


“Oddio, lei vuole parlare di Tsipras”. Al telefono dalla sua Grecia, lo scrittore e drammaturgo Petros Markaris ride amaro. La situazione del suo Paese, teatro dei suoi gialli (in Italia editi da Bompiani), lo porta a evocare scenari più che foschi: “Se fallisce Tsipras sarà la volta di Alba Dorata, non ci sono dubbi”.
Iniziamo con un passo indietro. Lei ha votato per il premier?
No. Sapevo che il suo partito, Syriza, era diviso, formato da tanti gruppi che dicono cose diverse tra loro. Mi sono chiesto: come faranno a governare, a decidere?
Syriza è un problema per Tsipras?
Assolutamente sì. Lui per me è stato una sorpresa positiva: ha molto talento, e da quando è stato eletto ha compiuto grandi passi in avanti. Ha dimostrato di capire la realtà che lo circonda. Ma il nodo è sempre quello: deve rispondere a un partito diviso in fazioni in lotta tra loro, dove in tanti gli rimproverano gli accordi che sta prendendo con l’Europa.
Il premier aveva fatto grandi promesse in campagna elettorale.
Certamente. Le ha fatte per andare al potere, e ha esagerato. Ma molte delle sue promesse servivano anche a tenere calma Syriza.
L’opinione pubblica greca sembra in larga parte arrabbiata e delusa.
In realtà sta succedendo una cosa interessante. Molti di quelli che non hanno votato per Tsipras cominciano ad apprezzarlo, riconoscono che in fondo non è così male. Tra i suoi elettori invece ci sono tanti delusi, che probabilmente non lo rivoterebbero.
E lei, che giudizio dà della trattativa che sta conducendo con l'Unione europea?
Tsipras ha capito che deve procedere per piccoli passi, non si può fare la rivoluzione in pochi giorni: e questo è positivo. In più può contare sull’appoggio di Jean Claude Juncker (il presidente della Commissione europea, ndr), che vuole davvero aiutare la Grecia. Anche tanti ministri europei hanno un buon atteggiamento verso il mio Paese.
Non vede un’Europa ostile alla Grecia. Ma la Merkel non pare così aperturista.
Io vado spesso in Germania, e tre giorni fa mi trovavo a Berlino. Conosco giornalisti e politici, e tutti mi hanno detto: ‘Siamo stanchi di questa trattativa con la Grecia, cambiate governo di continuo e ogni volta cambia anche la linea del vostro Paese. Vogliamo aiutarvi, ma abbiamo anche tanti altri problemi’. Il vero tema è che la Grecia deve decidere una linea nei rapporti con l’Europa e non cambiarla più. Deve stipulare un accordo e rispettarlo.
Tsipras avrà anche commesso errori dopo l’elezione.
Certo, e il principale è l’aver scelto come ministro dell’Economia Varoufakis, presuntuoso e arrogante. Pensa di essere un genio, ma in Europa tanti sono di diverso parere. È il ministro sbagliato, in un momento come questo.
Intanto Tsipras traballa. Come fa capire anche lei, larga parte di Syriza in Parlamento potrebbe abbandonarlo.
È vero, ma a votare l’accordo con l’Unione potrebbero provvedere altri partiti. Lui è intelligente, sa che ha bisogno di un consenso allargato per compensare i voti che potrebbero mancare dal suo partito. Non a caso ha fatto eleggere un presidente della Repubblica di centrodestra.
Sta dicendo che deve pensare a una larga coalizione?
Sì, è l’unica soluzione. L’alternativa sarebbe il referendum sull’accordo con l’Unione. Ma finirebbe in un disastro, lui ne è consapevole.
E se Tsipras affonda?
Al potere andrà l'estrema destra di Alba Dorata. Loro lo sanno, e infatti stanno cercando di apparire più rispettabili, moderati. I greci sono stanchissimi, non ce le fanno più. Hanno votato Tsipras contro il sistema: se fallisce la prossima volta sceglieranno un’altra forza anti sistema.
In Francia Marine Le Pen è fortissima, in Italia la Lega di Matteo Salvini cresce nei sondaggi. Tira davvero un vento di destra in Europa?
Sì, ed è un enorme pericolo, ovunque. Pochi giorni fa si è votato ad Amburgo, e l’estrema destra è salita di sette punti.

La Stampa 1.3.15
Mujica, l’uomo che ha fatto dell’Uruguay un modello
Nozze gay e marijuana libera, lascia il presidente idolo dei progressisti
Prima di diventare presidente aveva trascorso 15 anni in carcere per aver partecipato alla guerriglia tupamaros
di Emiliano Guanella


«Se avessi a disposizione altre due vite, le impiegherei entrambe per aiutarvi nella vostra lotta». Parla commosso José Mujica ai suoi sostenitori in uno dei tanti incontri che hanno preceduto la cerimonia con la quale oggi consegnerà la presidenza dell’Uruguay al medico Tabaré Vázquez, suo compagno di partito, che ritorna al potere dopo cinque anni. «Pepe», come lo chiamano i suoi, termina il suo mandato con una popolarità molto alta e una stella in ascesa, che va ben oltre i confini del più piccolo Paese del Sudamerica.
Le battaglie storiche
Icona moderna del progressismo, alfiere di battaglie storiche come la legalizzazione dell’aborto, i matrimoni fra le persone dello stesso sesso e, soprattutto, la liberalizzazione della marijuana, una legge unica al mondo che entrerà in vigore quest’anno dando allo Stato il controllo della vendita e distribuzione della canapa. Molti leader continentali saranno oggi presenti a Montevideo per dimostrargli, ancora una volta, la stima e l’affetto che già gli hanno espresso negli ultimi mesi in tutti i forum a cui hanno partecipato.
Così come fu Fidel Castro, Mujica è diventato un punto di riferimento per i governi di sinistra della regione. Piace perché alle parole ha aggiunto i fatti, con uno stile di vita particolarmente austero, da «presidente più povero del mondo». «Non sono povero - ama ripetere - ma molto ricco, perché la mia ricchezza non viene da cose materiali ma dall’esperienza e dalle battaglie che ho portato avanti». Dal maggiolone blu alla scelta di continuare a vivere nella casa in campagna con i polli e le galline, fino alla decisione di destinare l’ottanta per cento dello stipendio per la costruzione di case popolari alla periferia di Montevideo, condomini dove oggi vivono centinaia di famiglie. C’è chi sostiene che un fenomeno politico come il suo era fattibile solo in Uruguay, un Paese di appena tre milioni di abitanti, con l’indice di corruzione più basso del continente e una tradizione di Welfare State che risale ai primi del Novecento. Ma è stato lui stesso a ricordare che quel sistema sociale era stato distrutto dai militari e poi dai governi conservatori.
Protagonista nel mondo
«Durante quasi 50 anni il mondo ci ha considerati una specie di Svizzera, poi siamo stati figli bastardi dell’impero britannico, infine ci siamo impoveriti, ricordando l’unica nostra gloria sportiva, il “Maracanazo” ai mondiali di calcio del 1950. Se oggi siamo risorti in questo mondo globalizzato è perché abbiamo imparato dai nostri errori».
Profeta no global, con un linguaggio schietto e non accademico, Mujica non ha esitato a intervenire sulla scena internazionale. Ha ricevuto i rifugiati della guerra in Siria e poi cinque ex prigionieri del carcere di Guantanamo, dopo essersi messo d’accordo, da ex guerrigliero tupamaro con il vicepresidente americano Biden, che ha voluto essere presente oggi a Montevideo.
Ancora in politica
Il suo futuro, ora, non è certo la pensione. È stato eletto senatore con record di voti e a maggio aiuterà la moglie Lucia Topolanski, anche lei senatrice, nella corsa per la carica di sindaco di Montevideo. Ha già detto che non esclude di candidarsi per le presidenziali del 2019, quando avrà 85 anni. Da qualche settimana, poi, è online il suo sito web personale (pepemujica.uy), attraverso il quale intende mantenere il dialogo con gli ammiratori sparsi per il mondo. Nella home page, una sua foto in bianco e nero e due parole di ringraziamento facili da capire in tutte le lingue: «Gracias Pueblo!».

Corriere 1.3.15
La Cina nel pallone Il leader Xi annuncia «Saremo i più forti»
Il presidente è stufo di brutte figure e lancia un piano di sviluppo del calcio
di Guido Santevecchi


PECHINO La notizia di apertura sui quotidiani e i tg cinesi ieri era dedicata alla lunga riunione notturna del Gruppo Guida per le Riforme, presieduta dal capo dello Stato e segretario generale del partito Xi Jinping. Fin qui tutto normale. Ma il primo punto e buona parte del comunicato sono dedicati allo «sviluppo del gioco del calcio». L’agenzia Xinhua , ripresa da tutta la stampa cinese, usa toni gravi: «il football per anni è stato fonte di imbarazzo nazionale, per questo i vertici statali hanno varato un piano per promuovere la competenza calcistica. Il presidente Xi assicura che i cambiamenti saranno tangibili, perché questo è il disperato desiderio del popolo».
L’obiettivo, l’ordine, è di trasformare la Cina in una potenza calcistica mondiale, affrontando e «spazzando via i difetti istituzionali» che ne bloccano lo sviluppo pedatorio. Xi è un tifoso praticante: si è fatto fotografare mentre calciava il pallone, per la verità con stile e potenza. In passato ha detto di avere tre sogni calcistici: che la nazionale si qualifichi per la Coppa del mondo, che la Cina la possa ospitare e che un giorno la possa vincere.
Per il momento, qualificazione e vittoria sembrano molto, ma molto lontane. La squadra rossa ha potuto partecipare ai mondiali solo una volta, nel 2002, tornando a casa con tre sconfitte su tre partite al primo turno. Poi una serie di umiliazioni, come l’incredibile 1-5 subito in casa nel 2013 ad opera della Thailandia. Dopo quella disfatta i tifosi sul web si indignarono e furono grevi nella condanna. Questo post fu scambiato decine di migliaia di volte: «Noi, 1,3 miliardi di cinesi, abbiamo perso con la Thailandia, 65 milioni di abitanti, per un quarto militari, per un quarto monaci, un quarto trans e solo il resto utile per il vivaio calcistico». Volgarità dei tifosi a parte, il problema che ha spinto Xi a decretare la riscossa è proprio questo: la Cina non sa darsi pace per essere relegata nelle classifiche della Fifa sotto l’ottantesima posizione, superata non solo dai rivali giapponesi, ma anche da piccoli Paesi come Haiti e Giamaica.
È una questione di psicologia nazionale, come dimostra «il disperato desiderio del popolo» citato dalla Xinhua : la debolezza calcistica amplifica quel senso d’insicurezza che neanche i trionfi in campo economico e l’ascesa della potenza militare riescono a cancellare. Secondo questa analisi la nazionale di calcio fallisce perché mancano innovazione e creatività, perché i fondi vengono spesi male e c’è molta corruzione. Ecco perché Xi Jinping ha riunito il vertice dello Stato e ha ordinato di diventare una potenza calcistica.
Il piano prevede già misure concrete: quest’anno in Cina saranno formati 6 mila insegnanti di calcio, entro il 2017 il football diventerà materia obbligatoria di insegnamento in 20 mila scuole elementari e medie, con l’obiettivo di sfornare 100 mila giocatori di buon livello. È questa la via giusta per creare talenti? Può bastare la firma di Xi sotto un decreto per far nascere centravanti e difensori di classe? L’interesse del presidente (e quindi del Pcc) spiega anche le mosse sul mercato internazionale di personaggi come Wang Jianlin, il miliardario che ha acquistato i diritti televisivi del calcio italiano ed è entrato nella proprietà dell’Atletico Madrid. Alla Cina servono alleanze con Paesi calcisticamente più evoluti.
In attesa che l’azione politica di Xi rivitalizzi il movimento calcistico di massa, i club cinesi continuano a importare campioni stranieri nel loro campionato. Nell’ultima campagna acquisti sono stati spesi in totale 101 milioni di dollari per brasiliani di belle speranze come il giovane Goulart, o di lungo corso come Diego Tardelli. La Cina è diventata il nuovo Eldorado dei mercenari del pallone.

Corriere 1.3.15
Ma negli stadi lo «spirito orientale» è uno svantaggio


I cinesi adorano il calcio, sono tifosi sfegatati e conoscono tutto di questo sport. Soprattutto a livello internazionale. Tuttavia, le squadre locali e, in particolare, la Nazionale, non sono ancora in grado di regalare soddisfazioni e trofei, al contrario sono protagoniste di una lunga serie di umiliazioni di fronte al mondo. Per non parlare del bel gioco: negli stadi si fa desiderare da anni. Come mai? In fin dei conti, il calcio è un gioco di squadra e i cinesi, lo hanno dimostrato trasformando in pochi decenni il loro Paese in una Potenza mondiale, non mancano certo di capacità organizzative e di «lavorare insieme». In realtà, l’apparente incompatibilità (si spera temporanea) tra la Cina e il football si deve a una curiosa mistura di fattori sociali e culturali. Intanto, è vero che il calcio è un gioco di collaborazione. Però le grandi squadre non possono fare a meno dell’estro di singoli campioni. Mentre in Cina, Confucio docet, il gruppo prevale sempre sul singolo. Perciò sin dalla tenera età i giovani sono spinti a seguire «la corrente». Cosa che frena l’emergere di individualità fuori dal coro (inimmaginabile un Maradona cinese). Inoltre, l’accento che la società mette sullo studio (arriva ai vertici solo chi frequenta le scuole migliori), costringe gli studenti a interminabili sessioni di lezioni private aggiuntive. Tempo per giocare nel campetto dietro casa? Pressoché zero. Quindi, se anche ci fosse un Pelè potenziale, difficilmente avrebbe modo di dimostrarlo. Ora Xi Jinping ha deciso di mettere in campo tutta la capacità dirigistica dei cinesi. Una buona partenza. Ma forse non basterà.

Il Sole 1.3.15
Commercio estero. Dopo il primo via libera nel 2007 a dieci denominazioni tipiche, adesso si discute di una seconda ondata
La Cina apre ai prodotti tipici Ue
La chiave è il riconoscimento reciproco di tutele di alta qualità - Italia in prima fila
di Rita Fatiguso


PECHINO La Cina è in pieno boom da Indicazioni geografiche protette (Igp): 932 nel 2009, balzate già a 1.756 nel maggio scorso. Per la metà si tratta di prodotti agricoli, seguiti da cibi trasformati (12%), thè, alcol e prodotti di origine animale (8,5%). Per mettere a fuoco la rincorsa cinese basti pensare che l’Europa conta un migliaio, di Igp.
La Cina ha realizzato il sorpasso grazie anche al peso specifico dei programmi per le aree rurali e per quelli tarati sulla promozione di prodotti cinesi destinati ai mercati esteri. Del resto, in generale, nel 2014 sono state presentate in Cina ben 2,3 milioni di richieste di registrazioni di marchi, +21,5% sul 2013, e quasi 40mila sono state le violazioni punite. Segno che la sensibilità cinese è aumentata.
Il problema resta, invece, per gli stranieri che vogliano ottenere il riconoscimento in Cina: i consorzi bussano alle porte di Saic, l’autorità competente per i marchi di certificazione e collettivi, piuttosto che a quelle di Aqsiq, che si occupa delle denominazioni geografiche, principalmente a causa della mancanza di un regolamento specifico per la procedura di registrazione delle indicazioni geografiche straniere.
Nei rapporti con l’Europa un primo passo è datato 2007 con l’accordo pilota che ha portato qualche anno dopo al mutuo riconoscimento di dieci indicazioni protette per parte, e l’Italia, che ha a cuore la tutela delle Igp all’estero, ha incassato la protezione in Cina per Grana Padano e Prosciutto di Parma.
Ma nelle intenzioni del commissario europeo all’Agricoltura dell’epoca, il rumeno Dacian Ciolos, doveva essere l’overture verso il riconoscimento di almeno un centinaio di prodotti. Questione girata al successore, l’irlandese Phil Hogan. Nel primo lotto, ricordiamo, sono finiti anche il formaggio Priego de Cordoba, il Roquefort, il Sierra Magina, il Comté, il Blue Stilton, lo Scottish Farmed Salmon, il West Country Farmhouse Cheddar e il Pruneau d’Agen. Mentre i cinesi vantano l’Asparago bianco di Dongshan, il Pompelmo mielato di Guanxi, l’Aglio di Jinxiang, l’Igname di Lixian, il Thé di Longjing, i Vermicelli di Soia di Longkou, la Mela dello Shaan’xi, l’Aceto dello Zhenjiang, la Pesca grande di Pinggu e il Gambero di Yancheng.
«Europa e Cina, in realtà, hanno interessi convergenti sul tema della tutela delle Indicazioni geografiche, un tratto comune rappresentato da innumerevoli prodotti con caratteristiche e qualità superiori derivanti dalla tradizione del territorio – dice Davide Follador, avvocato e long-term-expert a Pechino del programma della Commissione europea e dell’Uami “Ip Key” – occorre, tuttavia, lavorare per migliorare il sistema di tutela e per introdurre procedure efficienti di controllo qualità, sul modello delle Dop europee. Anche su questi argomenti vi sono strumenti di collaborazione e dialogo in corso con la parte cinese».
«L’attuale cooperazione tra le due parti – osserva Giorgio Bocedi che alla tutela delle Igp nei Bric ha dedicato uno studio condotto per la ginevrina oriGin e Aicig, l’associazione dei consorzi Igp – ha posto le basi per la riflessione su un accordo bilaterale sulle Igp nonostante l’istituzione di tre sistemi di protezione perchè oltre a Saic e Aqsiq va ricordata anche quella per i prodotti agricoli primari. Il sistema Aqsiq è consigliabile considerando che gli accordi bilaterali per la protezione delle Igp difficilmente comprenderebbero le indicazioni protette in Cina come marchi collettivi o di certificazione».
Per superare il nodo dell’estensione della registrazione agli operatori stranieri si registrano anche accordi diretti estremamente complessi tra ministeri come quelli che hanno portato al riconoscimento in Cina del Cognac francese e dello Scotch Whisky.
«In prospettiva futura – dice Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare – le Igp cinesi potrebbero rivelarsi un ottimo strumento di scambio per il riconoscimento di quelle italiane, però ci vuole un tavolo negoziale. È in atto un’imponente campagna per la registrazione di prodotti tipici locali, finanziata con ingenti fondi pubblici e, visto che attualmente la Cina non riconosce, a parte eccezioni, le Igp europee, per noi italiani, in realtà, questa corsa alle certificazioni da parte dei cinesi potrebbe avere implicazioni positive, perché potrebbero permetterci di negoziare il reciproco riconoscimento delle rispettive Igp».
«Certo – aggiunge Scordamaglia – un’apertura cinese ci vorrebbe, dato che fino ad ora su altri campi non hanno dimostrato una simile volontà, come nel caso di barriere non tariffarie strumentali. La complessità burocratica cinese è enorme ma avere regole su cui discutere è un punto di partenza».

Il Sole 1.3.15
Per l’Italia un potenziale inesplorato
Nel 2014 l’export agroalimentare verso Pechino sarà vicino ai 300 milioni, meno di Francia e Germania
di Laura Cavestri


Pasta, dolci, olio e vino. Un potenziale enorme verso la Cina che ancora l’Italia non sa o non riesce a sfruttare. Perchè se le aziende agroalimentari sono tendenzialmente piccole e fanno prodotti di eccellenza, poi per andare a conquistare i mercati lontani – al netto delle barriere tariffarie e sanitarie che abbondano in maniera strumentale – servono peso e organizzazione.
I dati del centro studi di Federalimentare, sul periodo gennaio-novembre 2014, mostrano un potenziale di crescita importante che ancora non ha raggiunto, nei volumi, una soglia soddisfacente.
Nei primi 11 mesi dell’anno scorso, abbiamo esportato in Cina 274,8 milioni di euro (l’anno si dovrebbe chiudere vicino ai 300 milioni). In crescita del 6,4% rispetto allo stesso periodo del 2013, durante il quale la crescita, sullo stesso arco del 2012, era stata del 7,5%. Insomma, il margine resta alto ma si va riducendo (ancora prima era a due cifre). L’euro “pesante” , il rallentamento complessivo dell’economia cinese, l’Italian Sounding ma anche una stretta sulle “spese pazze” dei burocrati, tra le cause.
In cima al nostro export in Cina (tra gennaio e novembre 2014) ci sono stati i prodotti da forno e dolciari (83,1 milioni di euro, +19,8%), il vino (68,4 milioni, -2,5%), l’olio (23 milioni, -26,4%), la frutta trasformata (12,3 milioni, +98,2%) e la pasta (12,3 milioni, +26%). Il lattiero-caseario si ferma a 9 milioni (+18,3%). Considerato che nel 2014 l’Italia ha esportato complessivamente, nel mondo, quasi 30 miliardi di euro nell’alimentare, si capisce come la Cina non rappresenti l’ago della bilancia per il successo delle nostre performance.
Intanto, come ha ricordato venerdì il vicepresidente di Federalimentare, Paolo Zanetti, parlando di export mondiale «Quest’anno prevediamo un +6% di fatturato di export, l’anno è partito abbastanza bene grazie ai cambi, Estremo Oriente e Usa. Il mercato estero rapprtesenta un 20,5% del nostro fatturato, noi vogliamo crescere: la Germania esporta già il 33%, la Francia il 27 per cento. Il nostro obiettivo è raggiungere 50 miliardi entro il 2020» Un po’ meno dei 56 miliardi di export food &beveradge che Berlino ha messo a segno, complessivamente, già quest’anno.
Intanto, va ricordato, che a marzo, dopo 10 anni dalla richiesta, la Cina ha finalmente deciso di aprire le porte ai salumi cotti italiani: prosciutto cotto, mortadella, cotechini e altri prodotti trattati termicamente. La prima vera spedizione è avvenuta però solo prima di Natale.
Poi c’è stato il pesantissimo effetto annuncio di un rischio procedura antidumping sui vini europei. Pericolo neutralizzato dalla diplomazia che ha però innescato l’annullamento degli ordini da parte degli importatori locali. Nonostante sul vino, in Cina, resista un dazio del 14% del valore del prodotto, VinItaly cresce a Shanghai e l’edizione veronese avrà accesso a una “fetta” dei fondi per l’export tramite le fiere decisi dal Mise.
Intanto, l’apertura delle frontiere cinesi ai prodotti lattiero-caseari esteri, ha portato 80 aziende italiane ad essere autorizzate a vendere in Cina.
Si stima che il lattiero-caseario cinese valga 12 miliardi di dollari. Si può solo migliorare.

La Stampa 1.3.15
“Porto Marx alla Biennale perché parla di noi oggi”
Okwui Enwezor, curatore della mostra veneziana: voglio riprendere il filo politico e sociale che fa parte della sua storia
di Francesco Bonami


Okwui Enwezor è insieme ad Harald Szeeman l’unico curatore ad aver fatto il grande slam dell’arte contemporanea dirigendo sia Documenta a Kassel, nel 2002, che la Biennale di Venezia che aprirà il prossimo 9 Maggio. È l’unico africano, nato in Nigeria ad aver diretto le due grandi kermesse dell’arte in Occidente oltre alla Biennale di Johannesburg in Sud Africa e la Biennale di Gwanju in Corea. Vive fra Monaco di Baviera dove è direttore del Haus der Kunst e New York. Questa conversazione è avvenuta al bancone del ristorante Il Buco a Manhattan e nel suo ufficio a Monaco prima dell’inaugurazione della mostra curata da Enwezor di David Adjaye, l’architetto britannico che ha disegnato l’installazione della prossima Biennale.
Mi ha chiesto di non parlare della lista degli artisti, parliamo allora del ruolo dell’artista, di quello del curatore e di quello dello spettatore.
«Con una mostra della scala, dell’importanza e dell’influenza della Biennale di Venezia c’è sempre il rischio di trasformare la lista dei partecipanti in un gioco frenetico di speculazioni. Capisco perfettamente la logica di questa cosa ma alla fine una lista di artisti ti racconta solo le scelte del curatore, i suoi limiti, i suoi pregiudizi, le sue curiosità e i suoi interessi. Non fa altro che creare un anticipazione sul tipo di arte che apparirà in mostra senza però dirti molto sulla mostra stessa o sull’esperienza che offrirà. Una lista di nomi non dice nulla delle relazioni che sono costruite all’interno dell’esibizione, delle sue contraddizioni, dei rapporti fra l’intensità visiva di certe opere e lo spiazzamento che altre potranno creare».
Come si ottiene questo risultato?
«Creando una coreografia e orchestrando i diversi punti di accesso alle opere dei vari artisti, sperando di creare connessioni fra i vari pezzi della mostra che possano aiutare lo spettatore ad afferrare sia il significato che il piacere delle opere».
Questa edizione della Biennale sarà abbastanza speciale, ha focalizzato l’attenzione sugli scritti di Karl Marx. Perché crede che siano cosi contemporanei, in particolare il18 di Brumaio?
«Il 18 Brumaio che racconta e analizza la contro rivoluzione dell’alta borghesia in Francia che porterà al colpo di stato del 1951 e alla concentrazione di tutto il potere nelle mani di Luigi Bonaparte è un testo strano da leggere oggi. Rileggendolo recentemente non ho potuto fare a meno di notare quanto simile quel periodo sia al momento storico che stiamo vivendo oggi in molte parti del mondo. Dall’atteggiamento anti liberale di Putin in Russia a quella che potremmo definire la contro rivoluzione del capitalismo finanziario, dove sempre più risorse vengono concentrate non tanto nelle mani di coloro che hanno i mezzi di produzione ma in quelle di chi è capace di maneggiare in modo magico e sintetico i capitali. Chiaramente chi osa sottolineare questa situazione viene tacciato di essere “marxista”, che in America è il bacio della morte. Basta vedere gli attacchi della destra conservatrice contro il libro di Thomas Piketty Il capitale nel XXI secolo».
Secondo lei, quindi, Marx oggi è più importante che mai?
«Sì, ma sia chiaro: ho scelto di mettere al centro della Biennale Il Capitale non perché sia un esperto di Marx o di Marxismo, posso a malapena comprendere solo alcune delle astruse teorie dell’opera, ma perché non c’è un singolo pensatore oggi le cui idee ci perseguitino ancora come quelle di Marx. Il capitale è una parte fondamentale del nostro dramma contemporaneo perché allora non metterlo in scena? Cosi tanti artisti hanno rivisitato Marx nel corso degli ultimi anni. Che uno consideri o condivida l’idea che il marxismo sia la panacea per i mali del capitalismo contemporaneo non è al centro delle mie preoccupazioni».
Allora perché questa audace provocazione in una mostra d’arte?
«Perché secondo me la natura di questo libro con la sua densità epica si presta ad essere letto come un’oratorio ogni giorno, una cosa che potrebbe aggiungere una dura ma maestosa dimensione alla natura di mostra di un’istituzione come la Biennale».
Quale è la funzione di una mostra come la Biennale al mondo d’oggi. Può veramente fare qualche differenza e provocare qualche cambiamento o si riduce solo ad un esercizio intellettuale?
«Nel costruire la mia idea per la Biennale mi sono imbattuto negli archivi della Biennale in un libro incredibile Annuario 1975-Eventi del 1974. È un libro pubblicato in occasione della mostra del 1975 e che documenta tutti gli eventi di quella edizione, mostre, performance, programmi paralleli etc. Sono rimasto stupefatto dalla nuda e cruda natura politica della Biennale sotto la direzione di Carlo Ripa di Meana e Wladimiro Dorigo. È incredibile che tutto il programma fosse dedicato al Cile in solidarietà con il popolo Cileno oppresso dal colpo di stato di Pinochet. Questo gesto mi ha veramente commosso e fatto capire quanto l’archivio della Biennale sia una vera miniera».
Dopo quello che è accaduto a Parigi e in Danimarca troveremo nella mostra qualcosa che parla della libertà di espressione
«Non credo che avessimo bisogno di quello che è accaduto a Parigi o in Danimarca per avere la scusa di parlare della libertà di espressione. Siamo circondati da ogni genere di apparati repressive e censori, dalla famiglia, alla Chiesa, ai media, alle agenzie governative. La lotta per la libertà di espressione fa parte dell’aria che respiriamo. E’ un problema molto complicato che non voglio introdurre opportunisticamente dentro la Biennale».
L’arte ha una responsabilità nel definire i propri limiti?
«Ogni azione umana è una costruzione, non importa quanto intelligente o trascendente essa sia. Viene naturalmente con i propri limiti. Gli artisti non sono dei, né le opere d’arte hanno responsabilità o doveri».
Mi disse una volta che una mostra dovrebbe ogni volta creare una differenza. Quale differenza creerà la sua Biennale?
«Prendere in mano un progetto come la Biennale in questo momento storico richiede una serietà che consenta di metterla in contatto con il contesto sociale e politico del momento. Non è detto che così facendo creerà anche una differenza. Una mostra è un palcoscenico dove ci esibiamo. Se gli artisti sono dalla tua parte e credono in te e nelle tue idee, cose sorprendenti ed eccitanti possono accadere. Ma questo non è possibile programmarlo».
Dopo questa edizione sarebbe disposto a curare anche quella del 2017?
«La prima frase di Marx nel 18 di Brumaio di Luigi Bonaparte è questa: “Hegel dice da qualche parte che i grandi eventi storici e i personaggi ritornano sempre due volte. Si è dimenticato di dire: una volta come tragedia e la seconda come farsa”».

il Fatto 1.3.15
Caravaggio, il rosso e il sangue: vendette, Papi e teste tagliate
di Dario Fo


Domani sera su Rai5 andrà in onda “L’arte secondo Dario Fo”, la puntata è dedicata a “Caravaggio al tempo di Caravaggio”. Eccone un’anticipazione.

LA ROMA DEL GRANDE PITTORE COME UNA CITTÀ DI ETERNA VIOLENZA: E ALLA FINE GIUDITTA FA “GIUSTIZIA” SU OLOFERNE

Su Caravaggio si era creato un giudizio piuttosto severo sul particolare modo dell’artista di affrontare i problemi legati ai conflitti personali. In poche parole Michelangelo Merisi era solito risolvere le dispute con atti piuttosto violenti, fino all’uso della spada, tanto che per uno di questi episodi era stato processato e addirittura condannato a morte e quindi costretto alla fuga da Roma.
Ma questo faceva parte del clima di inaudita violenza che si respirava nell’Urbe al tempo di Caravaggio.
Ogni giorno c’era da mettere in conto qualche morto ammazzato e di contorno i soliti feriti, più o meno gravi. Poi ci pensava la setticemia ad arrotondare il numero dei decessi. Il menu quotidiano si arricchiva di violenza alle femmine, con relativi stupri; quindi seguivano scontri fra soldataglie e bande di quartiere con pestaggi all’infinito. A rintuzzare gli atti di violenza intervenivano due fazioni che coinvolgevano tutta la città, compreso il popolo minuto. Entrambe erano organizzate da vescovi e principi: la prima coalizione spingeva perché il nuovo Papa con la relativa corte fosse spagnolo, l’altra gli contrapponeva la scelta di un Pontefice francese. In conseguenza degli scontri, spesso case e interi quartieri andavano a fuoco. Vendette e ritorsioni si seguivano a ritmo di kermesse. Insomma una situazione molto dura.
Le galere e le sezioni riservate
Corollario di questo clima era il conseguente crescere della forza degli sbirri di governo e del numero delle prigioni. Esistevano in quel tempo la bellezza di cinque carceri, tra cui il celebre Castel Sant’Angelo. In questa sola prigione era detenuto circa il 10 per cento dell’intera popolazione romana.
In queste galere c’erano sezioni riservate ai delinquenti di passaggio e altre agli stanziali. Quindi locali per le femmine arrestate per prostituzione in spazi non autorizzati, ladre, borseggiatrici e condannate per crimini esecrabili. Esistevano anche celle per le religiose e per sacerdoti di rango minore, mentre vescovi e cardinali venivano ospitati normalmente a S. Angelo, con gli eretici di rango.
Al tempo in cui Caravaggio appena ventenne giunse nella città santa si alternavano, più volte nella settimana, spettacoli piuttosto stridenti fra di loro: da una parte le elargizioni di indulgenze con relativi canti mistici e processioni pompose, dall’altra il rito della condanna a morte come spettacolo pubblico. Entrambi questi rituali incontravano straordinario consenso da parte della popolazione di ogni ceto. Per quanto concerne le presentazioni patibolari veniva addirittura affisso su apposite tavole sparse per la città il menu che annunciava i vari programmi inerenti le esecuzioni: data, orario e le particolari orrendezze promesse dal boia.
Tre assassini smembrati, due condannati ai quali verranno spezzate le ossa previo mazzolata, due impiccagioni e un capo mozzato. Gran finale: un traditore verrà posto fra due cavalli che, spinti in direzioni opposte, produrranno lo squartamento dell’infame.
Programma del tutto eccezionale era quello che vedeva salire sul patibolo gli eretici. Per quei condannati non esistevano giorni di pausa. Perfino di Carnevale si poteva assistere all’accensione di un immenso rogo come quello sul quale, proprio l’ultimo giorno di Carnevale del 1600, fu arso vivo Giordano Bruno, tra il tripudio della folla accorsa in maschera con trombette e tricchetracche.
Senz’altro lo spettacolo che rimase inciso negli occhi e nella memoria di Caravaggio fu l’esecuzione dell’intera famiglia dei Cenci, prima fra tutti Beatrice, seguita dalla matrigna, dai figli di primo e secondo letto e da alcuni famigli.
Lo stupro, la denuncia di Beatrice e la semplice multa
La ragazza, Beatrice Cenci, di cui noi conosciamo anche il ritratto attribuito a Guido Reni che ce la descrive di ‘gentili e nobili fattezze’, ebbene fu violentata dal padre. Beatrice si rivolse al tribunale ma la denuncia non ebbe corso. Francesco Cenci, il padre, non era nuovo alle violenze sessuali tanto che fu arrestato e messo in carcere per aver stuprato e quindi più volte abusato di una ragazzina di quindici anni, sordomuta, che faceva parte della servitù di casa. L’assatanato signore venne arrestato in seguito alla denuncia del fratello della piccola muta. Denuncia sostenuta dalla testimonianza della servitù.
Ma ancora indagini e processo non sortirono alcun esito. In verità una condanna fu emessa: al nobile Cenci fu imposto il pagamento di una multa (forse per stupro non autorizzato?).
Giù dal balcone e il falso incidente
Il ricorso a una sanzione pecuniaria per castigare persone di rango permetteva agli altolocati di evitare processo e condanna al carcere. Oltretutto in quel tempo era stata emanata una legge, imposta ad hoc che vietava la persecuzione e l’arresto di specifiche autorità o individui di rango superiore. Una condizione giuridica che ai nostri giorni non possiamo capire e accettare. Anzi, privilegi del genere ci conducono al ripudio.
Tornando alla tragedia dei Cenci è il caso di seguire la cronaca degli eventi: iniziamo con la violenza del nobile Francesco sulla piccola muta. Segue lo stupro della figlia Beatrice. Madre e fratelli di lei reagiscono spiccando denuncia. Il padre, onde bloccare lo scandalo e l’inchiesta giudiziaria, sequestra l’intera famiglia, servitù compresa, e la costringe in un castello, dove a sua volta prende dimora per poter così controllare ogni movimento dei congiunti.
Ma quest’altra violenza scatena la ribellione dei figli, capeggiati dalla madre, seconda moglie di lui. L’odio cresce al punto da indurre tutto il parentado a un vero e proprio scannamento del tiranno. Cenci viene ferocemente assassinato nel proprio letto. All’esecuzione partecipano anche amici di casa e la servitù. Onde mascherare l’omicidio si architetta una disgrazia accidentale: tutta la famiglia, compresa la servitù, testimonia che il signore s’era affacciato a un balcone della torre, con l’intenzione di godersi uno straordinario tramonto, ed estasiato si era spinto un po’ troppo fuori col corpo. La balaustra sulla quale appoggiava cedeva di schianto: l’appassionato di crepuscoli si ritrovava nel vuoto precipitando giù, fino a schiantarsi sul fondo roccioso del castello.
La polizia vaticana, che quando si trattava di indagare su personaggi di spicco sapeva agire con eccezionale acume scientifico, intuì immediatamente si trattasse di un dramma a sfondo criminoso. L’indagatore capo si rese conto alla prima occhiata che la balaustra era stata abbattuta a colpi di scure. E che le ferite fatali di una eventuale caduta erano troppo numerose per un unico impatto, soprattutto collocate in punti sospetti del corpo della vittima.
La tortura d’ordinanza
Per l’occasione, come in verità era regola di quegli inquisitori seicenteschi, familiari e soprattutto i servi maschi e femmine furono sottoposti a tortura. Un emendamento alla legge sul trattamento degli inquisiti permetteva allora uno strappo alla regola: il poliziotto aveva il diritto di torturare almeno una volta, ma non di più, i soggetti incensurati. Atto che oggi, ai nostri occhi di popolo civile, appare a dir poco orripilante...
La sentenza finale decretò la condanna a morte per tutti gli imputati, compreso uno dei figli, l’ultimo, di soli dodici anni. Su intervento della intera popolazione il Pontefice sospese la condanna, ma con l’obbligo per il ragazzino di assistere al supplizio di tutti i suoi congiunti, compresa la madre.
La piazza e il rito del boia
Il processo fu celebrato in una grande sala del tribunale romano e seguito in ogni udienza da una folla sconvolta e appassionata. Il giorno dell’esecuzione (11 settembre 1599) l’intera città si riversò verso la piazza di Ponte dove era stato allestito il palco per l’orrendo rito. Giunsero curiosi anche da tutto il Lazio e persino dal napoletano. I cronisti del tempo narrano di una vera e propria invasione di folla: mezzo milione di persone. Ogni strada d’accesso alla città era gremita per miglia: carri e carrozze impedivano l’un l’altro il transito, si scontravano e rovinavano addosso ai partecipanti. Nell’intento di arginare lo straripare della folla, la cavalleria del Pontefice caricò travolgendo donne e bambini. Molti furono calpestati dalla marea terrorizzata che fuggiva. Alla fine si contarono più morti di quelli legalmente condannati nel massacro offerto dalla giustizia.
Insomma uno spettacolo di tale violenza e crudeltà da indurre il Caravaggio a riprodurlo in un suo famoso dipinto: Giuditta e Oloferne, cioè la rappresentazione del mitico gesto biblico con il quale la giovane donna vendica e libera il suo popolo dalla tirannia.

il Fatto 1.3.15
La villa romana nascosta sulla A1. Impossibile da vedere
È quella dei Volusii: in un anno solo 432 visitatori
di Alessio Schiesari


Una passerella pedonale che aspetta di essere completata da 15 anni, una splendida villa romana gestita dal Punto Blu dell’autostrada e perfino la chiusura dovuta ai furti di rame. Benvenuti a Villa dei Volusii, a Capena, 40 chilometri a nord di Roma. L’unico modo per accedere a quest’enorme residenza agreste, costruita dalla famiglia senatoriale dei Volusii Saturnini in età repubblicana, è parcheggiare all’autogrill di Feronia Ovest e chiedere informazioni al Punto Blu. Nonostante l’ingresso gratuito, l’ultimo censimento parla di appena 432 visitatori in un anno. Sarà perché non c’è un solo cartello. O perché i cancelli sono aperti solo dal lunedì al venerdì. Anzi, sarebbero aperti, dato che da mesi l’accesso è sbarrato “per i furti di rame avvenuti all’interno”, come spiega l’impiegato del Punto Blu di Autostrade.
Un ponticello pedonale che aspetta da 15 anni
Scoperta nel 1961 durante lo sbancamento dell’Autosole, Villa Volusii sorge su un terreno di Autostrade per l’Italia, ma i suoi resti sono di proprietà statale. Si tratta comunque di una delle residenze più imponenti e meglio conservate dei dintorni di Roma. Fino a una decina di anni fa, gestione e biglietteria erano in mano alla Soprintendenza, che assicurava il collegamento con Lucus Feroniae, un’area archeologica distante duecento metri. I custodi accompagnavano i visitatori tra i prati fino alla Villa, anche nei week-end. Ma, da quando la gestione è esclusiva di Autostrade, il collegamento “via terra” è stato interrotto. Per riunire i due siti è stato progettato un ponticello pedonale: doveva essere pronto per il Giubileo del 2000. Eppure è ancora avvolto nella rete rossa, in attesa di inaugurazione. Sono passati 15 anni, per costruire l’intera A1 che passa a fianco ne sono bastati otto. Nel sito archeologico, sulla strada Tiberina che collega Roma al bosco sacro di Feronia (questa la traduzione di Lucus Feroniae), l’unico elemento d’ordine sono le file di prostitute: africane da una parte, est europee dall’altra. “Mi spiace, ma abbiamo finito la carta”, è la risposta dei custodi a chi cerca un depliant illustrativo. Rovi e sterpaglie fanno da cornice ai resti del foro, della basilica, del piccolo anfiteatro, e del Santuario dedicato a Feronia, la dea etrusca dei raccolti. I percorsi per disabili sono intervallati da ciottolato e sterrato. Manca persino la rampa di accesso: la carrozzina che volesse avventurarsi in questo cross country, dovrebbe iniziare superando un dosso di terra. Non si riesce nemmeno a immaginare la prospera comunità che, nel 211 a. c. Annibale decise di attaccare per saccheggiare il suo ricchissimo tempio.
Manca tutto, tranne i custodi: sono dieci
Oggi a Lucus Feroniae tutto è vuoto, soprattutto il registro dei visitatori: appena 5 negli ultimi sei giorni, nonostante l’ingresso gratuito. Poco più di mille nel 2013, quando nel 2001 si sfioravano i 4 mila (e si pagava). Eppure qualcosa di straordinario da vedere ci sarebbe. In quello che vorrebbe chiamarsi museo – un atrio e una stanza, il resto è in perenne costruzione – è esposto uno splendido monumento funerario decorato con fregi raffiguranti gladiatori in lotta. Si tratta di un pezzo unico, che non sfigurerebbe al Pergamon di Berlino. È stato recuperato dalla Guardia di finanza nel 2007: i trafficanti d’arte l’avevano tagliato in pezzi e sotterrato, in attesa di rivenderlo a qualche ricco collezionista privato. Anche dopo il dissequestro però è rimasto per anni sotto un telo di plastica, fino a che le denunce dei giornalisti Rizzo e Stella hanno convinto la Soprintendenza a trovare un angolo per restituirlo al pubblico. A Feroniae manca tutto, a parte i custodi: sono in dieci, perché fanno anche il turno di notte. Osservandoli vagare tra l’ufficio e l’ingresso sorge un dubbio: che questi scavi servano soltanto a custodire il loro lavoro.

Corriere La Lettura 1.3.15
Offendere non è libertà
di Claudio Magris


Tra le vittime dell’efferata strage dei redattori di «Charlie Hebdo» c’è anche — certo infinitamente meno importante e meno sconvolgente — la logica. È un delitto atroce, compiuto da sicari sfortunatamente morti — sfortunatamente non perché si senta la loro mancanza, ma perché da vivi avrebbero potuto fornire utili informazioni sui loro mandanti e le loro organizzazioni —, che va punito con estrema durezza, risalendo se possibile a chi l’ha voluto e preparato. E che le vittime dell’immondo attentato, redattori della rivista e poliziotti, e i loro famigliari ed amici abbiano diritto a tutta la nostra solidarietà e partecipazione è più che ovvio.
Ma non più — né meno — di altre vittime delle stesse o di altre mani fanatiche, a cominciare dai tanti africani che in quegli stessi giorni venivano massacrati in nome di analoghi fanatismi e quasi appena nominati nelle cronache. Come mai — si è chiesto sul suo blog Dino Cofrancesco, una delle teste più pensanti e più autenticamente e lucidamente liberali del nostro Paese — l’assassinio di tre bambini ebrei e di un rabbino professore a Tolosa nel 2012 ha destato un’emozione e uno sdegno tanto minori? Forse per il loro numero più ristretto? Ma gli africani trucidati dai fondamentalisti in quegli stessi giorni erano assai più numerosi. O perché non erano famosi, non erano artisti, come i vignettisti? Dunque uccidere un celebre artista indigna e sconvolge più che uccidere un bambino, secondo un’orrida, disumana aristocrazia della fama e dell’alloro delle Muse?
Qualche giornale non si è dimenticato della logica, osservando come sia insensato considerare l’eccidio parigino un attentato alla libertà di stampa, quasi fosse una censura governativa: sarebbe come dire, è stato giustamente scritto, che mettere una bomba al mercato ortofrutticolo è un attentato alla libertà di comperare frutta e verdura. È invece un attentato a una libertà e a un diritto più grandi, alla libertà e al diritto di vivere, alla vita delle persone.
La totale solidarietà con gli autori delle vignette in quanto vittime di una sanguinosa e inumana violenza non significa necessariamente osannare quelle vignette. Cofrancesco, laico sino al midollo e radicalmente scevro di quella pappa del cuore che inquina ragione e sentimento, ha scritto che se qualcuno assassinasse un negazionista egli chiederebbe la giusta dura pena per l’assassino senza per questo identificarsi in quel caso con l’assassinato, senza mettersi al collo un cartello con la scritta «Sono David Irving», l’inglese che nega la Shoah.
La premessa di ogni virtù, diceva Kant, è il rispetto, quel profondo rispetto per ogni uomo che nessuna vera satira cancella, se è vera satira ossia indignata e scatenata protesta che vendica gli oltraggi inflitti all’umanità. I grandi poeti satirici — Giovenale, Quevedo, Swift o Kraus — non sono sguaiati privi di rispetto, bensì profeti e vendicatori animati da sacro furore.
Alcune vignette di «Charlie Hebdo», spiritose o scurrili, hanno indubbiamente offeso legittime fedi e sentimenti. Non per questo i loro autori meritavano la morte, perché un’ingiuria viene punita con un’ammenda e non con la ghigliottina. È un’ingiustizia perseguire Dieudonné, il sedicente artista specializzato in oscenità antisemite?
Roberto Casati ha scritto, sul «Sole 24 Ore», che se si persegue la blasfemia bisogna perseguire pure l’ostentazione di simboli religiosi, che a suo avviso offende i bestemmiatori come questi offendono i credenti. Anzitutto la libertà d’espressione, il rispetto e la satira non riguardano soltanto le religioni e le loro negazioni, ma questioni e valori non meno importanti, dall’apologia di reato all’istigazione a delinquere, ad esempio in nome di un’ideologia. Ma libertà d’espressione dovrebbe voler dire libertà di esprimere i propri valori senza offendere quelli altrui e senza sentirsi offesi dai valori professati dagli altri. Perché chi si fa il segno della croce passando davanti a una chiesa dovrebbe offendere chi non se lo fa o viceversa?
Ognuno dev’essere libero di credere e di non credere senza offendere né sentirsi offeso da chi la pensa all’opposto. Non c’è ragione di sentirsi offeso da chi va in chiesa né da chi non ci va. La piaga del nostro tempo, ha scritto Amos Oz sul «Corriere della Sera», non è l’islam bensì il fanatismo, che accomuna gli assassini di Parigi ai cristiani, musulmani ed ebrei violenti.
Certamente ci possono essere ostentazioni offensive, come chi gironzolasse intorno a una moschea inalberando enormi crocifissi o gigantesche stelle di Davide. Ma di per sé la blasfemia non è la stessa cosa che portare al collo una catenina con la croce, così come portare lo zucchetto o i cernecchi non è la stessa cosa che innalzare un cartello che inneggia alla Shoah, perché portare lo zucchetto o una catenina al collo indica semplicemente una legittima appartenenza, mentre la bestemmia o l’irrisione della Shoah vuol ferire l’appartenenza dell’altro.
In nome della stessa logica, scrive ancora Cofrancesco, ognuno, a casa sua, solo o in compagnia di maggiorenni adulti e vaccinati e a patto di non violare specificamente la legge (ad esempio con violenze), è e deve essere libero di fare ciò che vuole, di bestemmiare a suo piacimento o sputare sul pavimento, cosa lecita in casa propria.
Ma come reagiremmo se, in nome della libertà di satira, qualche imbecille facesse delle vignette che sbeffeggiano i vignettisti di «Charlie Hebdo» che, in quanto vite stroncate da abietti assassini, rappresentano veramente l’umanità ossia tutti noi?

Corriere La Lettura 1.3.15
Marek Halter
«Ascoltate un ebreo amico dei musulmani: le donne ci salveranno»
intervista di Stefano Montefiori


«Ho cominciato a scrivere questo libro nel luglio 2014, dopo le manifestazioni a Sarcelles, fuori Parigi, contro i bombardamenti a Gaza. Il sindaco di Sarcelles mi chiese di venire in fretta con i miei amici imam per proteggere la sinagoga. Allora siamo accorsi, e quando i manifestanti sono arrivati ci siamo messi a cantare la Marsigliese . Di colpo il corteo si è fermato e qualcuno ha gridato: “Morte agli ebrei”. Mi ha molto colpito, io sono arrivato in Francia con i miei genitori nel 1950 e non avevo mai sentito quella frase. Tornato a casa ho cominciato a scrivere queste pagine e mesi dopo, quando lo stavo correggendo, mi ha telefonato la moglie di Georges Wolinski che mi annunciava il massacro a “Charlie Hebdo”. Il libro non era finito». Marek Halter, 79 anni, occupa un ruolo speciale tra gli intellettuali francesi. Scampato al ghetto di Varsavia, co-fondatore di Sos Racisme e amico di Giovanni Paolo II, Halter si batte da anni per il dialogo.
Lo fa a modo suo, partendo dalla storia, dai racconti. Un anno fa ha cominciato una trilogia sulle donne dell’islam con Khadija , la sposa di Maometto. Halter ha pubblicato (in Francia per Robert Laffont, in Italia tradotto da Marsilio) Riconciliatevi! , un appello a ebrei, cristiani e musulmani. Un invito rivolto a tutti i cittadini, che sono lontani dalla violenza ma vivono comunque nella tensione e nella diffidenza.
Gli attacchi a «Charlie Hebdo» e al supermercato ebraico hanno sconvolto il mondo, ma dalle pagine in cui ricorda gli incidenti di Sarcelles non si può dire che siano giunti di sorpresa.
«L’antisemitismo, l’odio tra le comunità, vengono da lontano. Gli uomini politici, in Francia, in Italia, in America, ovunque, agiscono nell’urgenza, non fanno mai un lavoro a lungo termine. Da anni io chiedo ai vari ministri di introdurre nelle scuole la storia delle religioni, perché i bambini conoscano le radici dei compagni di classe. L’odio è frutto dell’ignoranza».
Lei, ebreo, è noto per l’impegno a favore dei musulmani.Perché?
«Bisogna valorizzare i sei milioni di musulmani di Francia, prima di dare delle lezioni di morale. Quando si vuole conquistare una donna, prima di invitarla a cena le si dice che ha un sorriso radioso, delle mani magnifiche, dei begli occhi: è un modo per metterla a proprio agio. Noi diamo ai musulmani delle continue lezioni senza averli mai sollecitati, capiti, riconosciuti, niente. Oggi il ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve, mi chiama per dire “facciamo qualcosa”; di colpo il dialogo diventa un’emergenza. Ma abbiamo perso molto tempo».
Perché anche le voci moderate dell’islam sono così criticate in Francia? I suoi amici Hassen Chalghoumi, imam di Drancy, e Tareq Oubrou, imam di Bordeaux, per esempio, vengono spesso giudicati poco rappresentativi dei musulmani.
«Quando accompagno una delegazione di imam di Francia in Vaticano dal Papa Francesco, certe anime belle, invece di applaudire, si chiedono se questi imam sono legittimati a rappresentare l’islam. Quando gli stessi imam vengono con me a Gerusalemme, dove osano fare una preghiera in arabo alla memoria dei sei milioni di ebrei massacrati dai nazisti, vengono accusati di tradimento. E sono i jihadisti ad accusarli? No, sono i bravi democratici francesi. Curiosi, questi sedicenti amici francesi dell’islam, che fanno di tutto per provare che non esistono musulmani buoni».
Nel suo libro come sempre la parte storica è molto importante. Lei racconta per esempio dell’incontro con Golda Meir.
«Andai a Gerusalemme ad avvisarla che il giorno dopo avrei visto Arafat. Era furiosa. “Stringerai una mano macchiata di sangue di bambini ebrei”, mi disse. Le risposi che persino Mosé era andato dal faraone, quello stesso faraone che aveva fatto uccidere i primogeniti ebrei. Ci lasciammo male, senza salutarci. Ma il giorno dopo mi chiamò al telefono per dirmi: “Va’!”. Incontrai Arafat con la benedizione di Golda Meir. Sono convinto che oggi, come e più di prima, sono le donne a poter rompere il sistema».
Perché il ruolo delle donne è decisivo, secondo lei?
«Se scendessero in massa nelle strade di Teheran, per esempio, i mujaeddin non avrebbero il coraggio di sparare addosso alle loro mogli, figlie, madri. Nella Grecia antica ci sono già le donne che fermano la guerra minacciando lo sciopero dell’amore. Quando sono andato in Marocco a presentare il mio libro sulla moglie di Maometto, davanti alla libreria c’era una coda di un chilometro, e la maggior parte erano ragazze: è straordinario vedere persone che hanno una voglia così vorace di conoscenza. Se guardiamo a come sono trattate le donne nei Paesi musulmani, è chiaro che qualcosa è andato storto, che la storia dell’islam è stata piegata a un’interpretazione falsa. La figlia del Profeta andava a cavallo, partecipava alle battaglie del padre, lo ha soccorso quando lui era ferito: e oggi in Arabia Saudita le donne non possono guidare. I miei libri cercano di riportare alla verità, di raccontare storie che ormai pochi conoscono».
Accanto allo scrivere libri, lei da anni organizza incontri. Svolge un ruolo di mediatore.
«Cerco di mettere in contatto le persone che vogliono parlarsi. Qualche sera fa, alla cena del Crif, il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia, mi avvicino al presidente Hollande e gli dico: “Ascolta, François, ho convinto i miei amici imam a organizzare una cena come quella del Crif, ma musulmana. Tu verresti?”. E lui mi risponde: “Ma certo, sono anni che aspetto, perché non c’hanno pensato prima?”. “Perché ci voleva un ebreo polacco a organizzare”, gli ho detto ridendo».
Il titolo del libro, «Réconciliez-vous!», è una strizzata d’occhio a «Indignatevi!» di Stéphane Hessel?
«Ho rispetto per Hessel, che è stato un grande resistente francese. Ma, forse mi sbaglio, l’indignazione non suscita l’azione. Sei davanti alla tv, vedi quel che succede per esempio in Iraq, ti indigni, poi ceni e tutto finisce lì. Il mio libro usa lo stile del Corano, quell’interpellare il lettore chiamandolo amico, fratello, per invocare la riconciliazione».

Repubblica 1.3.15
Forte di Bard
Quando l’astrattismo cambiò i colori dell’arte europea
di Giuseppe Dierna


AFFASCINA ancora, a quasi un secolo, l’esplosione astrattista d’inizio Novecento, quando artisti di diversa estrazione e nazionalità dichiararono guerra alla dittatura del figurativo, affermando la totale indipendenza e autonomia del quadro; quando Vasilij Kandinskij si poteva permettere di paragonare «il contatto dell’angolo acuto di un triangolo con un cerchio» al contatto «dell’indice di Dio con quello di Adamo in Michelangelo»; quando «il quadro cessò di essere quadro, e divenne pittura, oggetto», come aveva scritto Rodcenko nel 1921.
Uno spaccato di quanto quella variegata deflagrazione produsse nei territori dell’Europa Centro-Orientale si può ammirare fino al 2 giugno in una bella mostra allestita tra le mura del Forte di Bard: Astrattismo in Europa. Kandinsky Popova Majakovskij Malevic… ( a cura di Gabriele Accornero e Markus Müller, catalogo pagg. 160, euro 29), dove sono esposti materiali provenienti da una collezione privata tedesca mai finora presentata in Italia. Una mostra che non si limita al solo apporto pittorico, per cui accanto a un’ottantina di quadri, disegni e collage di una trentina di autori (con prevalenza russa, almeno quanto a nascita, come Ivan Puni o Anton Pevsner), una cinquantina di raffinati volumetti documentano le ricadute avanguardistiche sulla grafica del libro degli anni Dieci-Venti, mentre due brevi cortometraggi di Viking Eggeling e di Hans Richter del ‘21 offrono un assaggio della linea astrattista che di lì a poco si svilupperà nel cinema.
Le opere esposte testimoniano la ricchezza delle risposte alla comune esigenza di attestare «la fine del quadro come rappresentazione»: dallo spiritualismo cromatico del boemo František Kupka (di cui si può vedere un acquerello del ‘18) ai reticoli cromatici di Ljubov’ Popova, all’ascetismo di linee e colore del belga Georges Vantongerloo (tra i fondatori, nel ‘17, del gruppo De Stijl) fino alla fredda combinatoria di Max Bill (di lui una pittura su tavola del ‘56), membro negli anni Trenta del gruppo parigino Abstraction-Création, che dell’astrattismo aveva fatto la sua unica bandiera.
La mostra alterna teste di serie come Malevic e Kandinskij (di cui si espone una delicata composizione geometrica del ‘28, Fusione di rosa) e più sconosciuti gregari, non per questo però meno interessanti, come il suprematista russo Ilja Cašnik, allievo di Malevic e qui presente con otto acquerelli, o alcuni membri della compagine degli Astrattisti di Hannover (Rudolf Jahns e Carl Buchheister). Tra le cose più belle un elegante collage della Stepanova del ‘25, le costruzioni nello spazio di El Lisickij, le fughe suprematiste di Nina Kogan, un controrilievo di Tatlin del ‘15 che assembla legno, carta e latta, la perfetta Composizione ( 1922) di rette e circonferenze dell’ungherese Moholy-Nagy o la Composizione con righello e compasso ( 1915) di Rodcenko, viluppo di cerchi e spicchi di colore, o l’elegante, nera linea sinuosa che divide il colore in una pittura su vetro del tedesco Walter Dexel.
E infine alcuni dei gioielli di grafica del libro qui esposti, come la copertina costruttivista di Kassàk al proprio volume di Poesie del ‘23, o quella di El Lisickij per la raccolta satirica di Majakovskij Elefanti nel Konsomol ( 1929), sghembe campiture di colore tagliate da un semicerchio rosso, o la composizione suprematista su sfondo mattone di Malevic per un ciclo di conferenze del critico d’arte Nikolaj Punin del ‘20, e infine il cerchio nero e quadrato rosso sulla copertina che El Lisickij appronta nel ‘21 per la rivista olandese Wendingen , la sua prima commissione ricevuta all’estero.
L’OPERA Vasilij Kandinskij: Composizione IV (1911)

Il Sole Domenica 1.3.15
L’astrattismo non è astrazione
Il brillante saggio di Stefano Poggi indaga la nascita del movimento pittorico alla luce delle sue matrici filosofiche, oggi superate. Che partono dalle idee di Goethe sulla bellezza
di Mario De Caro


Tra le vittime del crescente fenomeno della specializzazione in ambito accademico figura certamente la storia dell’arte. C’era un tempo in cui intellettuali dottissimi – da Warburg a Panofsky, da Berenson a Gombrich, dai Venturi a Brandi – conoscevano tutto ciò che di rilevante c’era da sapere sulle epoche e gli artisti oggetto delle loro analisi. Ma oggi, sia per l’immensità delle conoscenze ormai accumulatesi sia per la pressione sui giovani studiosi a circoscrivere i propri interessi, le cose sono molto cambiate, e certamente non in meglio.
Capita così di assistere a feroci e interminabili dispute tra gli storici dell’arte per stabilire chi tra Pinturicchio e Tiberio d’Assisi dipinse la Pala del Duomo di San Pancrazio, finché tutti si mettono d’accordo che fu dipinta dal Maestro della Pala del Duomo di San Pancrazio. Oppure si sviluppano indagini sofisticatissime sulla composizione chimica del rosso cinabro di Veronese o sulle incredibili peripezie attraverso le quali quel certo ritratto di Velazquez viaggiò da Madrid a Londra, da Vienna a Berlino, per poi tornarsene mestamente a Madrid.
Questo tipo di studi, naturalmente, è legittimo e talora anche interessante. Ciò che oggi mancano, però, sono gli studi che un tempo ci permettevano di comprendere opere e artisti attraverso lo studio sinottico delle forme culturali delle rispettive epoche: gli studi, insomma, che, connettendo arte e letteratura, filosofia e scienza, politica e storia possono farci comprendere la genesi e il senso più profondo dei fenomeni artistici.
Ora però uno di questi studi preziosi, ma sempre più rari, è uscito per il Mulino. Si tratta di L’anima e il cristallo. Alle radici dell’arte astratta (il Mulino, Bologna, pagg. 168, € 19,00). e illumina con rara maestria il formarsi dell’astrattismo pittorico novecentesco, indagandone la complessa matrice filosofico-culturale. Ne è autore uno dei nostri maggiori storici della filosofia, Stefano Poggi, già autore di pregevoli studi su fenomeni di estrema complessità come la scienza romantica e gli esordi della psicologia scientifica.
Questo volume può a prima vista sconcertare. Prima di affontare, nell’ultimo terzo del libro, l’arte di Kandinsky e Klee, infatti, Poggi discute di filosofi e scienziati, teologi e psicologi, studiosi di estetica e mistici, poeti e paragnosti – ovvero dell’affascinante, intricatissima e talora persino strampalata cultura di lingua tedesca, a cavallo tra Ottocento e Novecento. È alle complesse esperienze culturali di quel mondo, in cui la cultura non era ancora rigidamente compartimentata, che occorre guardare se si vogliono capire ragioni, significato e modalità di un’arte come quella astratta, che giunse a rifiutare qualunque ideale mimetico.
Come mostra convincentemente Poggi, uno dei tratti principali della ricerca filosofica di quel periodo fu il tentativo di emanciparsi dai residui del dualismo cartesiano, che aveva separato drasticamente la mente dal corpo. Molti degli intellettuali di lingua tedesca dei decenni che precedettero la Prima guerra mondiale, però, rifiutavano le soluzioni unilateralmente monistiche dell’idealismo e del materialismo. Il loro ideale di fondo fu piuttosto quello dell’unità originaria e dinamica del tutto, un organicismo ostile al meccanicismo della scienza newtoniana, con il suo reciso rifiuto delle cause finali. All’origine di questa visione, che in quel fatidico volgere di secolo fu declinata in molteplici maniere, c’era il pensiero del più influente tra gli intellettuali tedeschi ovvero Johann Wolfgang Goethe. La bellezza, nella prospettiva goethiana, è un ideale a cui l’artista si approssima asintoticamente. L’arte diventa insomma lo strumento più nobile per ricongiungere il singolo alla totalità infinita, alla dinamica organicità del tutto. Una prospettiva, questa, in cui evidentemente l’arte è assai più vicina alla mistica di quanto non lo sia alla scienza (e qui, nota Poggi, si avverte fortemente l’influenza di una tradizione che risale a Meister Eckhart).
Con la mediazione di titani come Schopenhauer e Nietzsche, Rilke e Bloch, Wagner e Schönberg – ma anche di pensatori come Lukacs e Wittgenstein che la vulgata vorrebbe collocati in contesti molto diversi – queste idee arrivano ai maestri dell’arte astratta, e in particolare a Kandisky, con la sua idea che la pittura può attingere a ciò che è inesprimibile con la parola, e a Klee, con la sua famosa metafora che l’anima del pittore è chiara come quella del cristallo e per questo può penetrare i più riposti segreti della natura. (Sarebbe interessante sapere come precisamente si collocano in questo quadro altri giganti dell’astrattismo come Mondrian e soprattutto Mirò, che quanto a interesse per la mistica non era certo l’ultimo arrivato: c’è da sperare che in una futura opera Poggi ce ne parli).
In questo modo si comprende come l’astrattismo non abbia proprio nulla a che fare con l’astrazione propria del pensiero razionale né con la separazione fondamentale – un’astrazione anch’essa – da cui, a partire da Galileo, si dipana la scienza moderna: ovvero quella tra le qualità matematizzabili delle cose (che per la scienza sono le uniche reali) e le qualità secondarie (la cui realtà invece la scienza nega). Nella prospettiva culturale che influenza la nascita dell’astrattismo, il mondo è piuttosto una totalità dinamica che il pensiero discorsivo-razionale non può mai giungere a comprendere. È questo lo scopo cui sono deputate la mistica e l’arte, soprattutto quella figurativa e quella musicale, che è asemantica per definizione.
Un’erudizione d’altri tempi permette a Poggi di offrire uno sguardo d’assieme su una quantità di fenomeni culturali di cui tutti conosciamo l’importanza, ma che a prima vista paiono eterogenei, se non incommensurabili. E così, tracciando connessioni illuminanti e sciogliendo nodi concettuali intricatissimi, questo volume rende giustizia a un mondo culturale seducente e che pure ci appare assai più distante dalla nostra epoca di quanto non lo siano esperienze culturali cronologicamente anteriori.
L’evidente inattualità di quel mondo trova però un’eccezione proprio nelle straordinarie esperienze artistiche che seppe produrre.
Nate in un contesto culturale in cui non ci riconosciamo più, quelle esperienze sono ancora lì, a sfidare la nostra comprensione e ad affascinare i nostri occhi.

Il Sole Domenica 1.3.15
Lettera da Parigi
Odio antisemita in mostra
«La Collaboration 1940-1945» espone tutto il campionario della caccia all’ebreo: foto, carte di polizia, lettere anonime
Dopo gli attacchi terroristici, la si guarda con occhi diversi
di Sergio Luzzatto


La prima volta, in dicembre, c’ero andato da storico. Sfavillante delle luci di una vigilia natalizia, Parigi sembrava invitare ad altro sia i parigini stessi, eternamente frettolosi, sia i turisti più o meno sfaccendati. Shopping a parte, anche lì, nel Marais, sembrava esserci di meglio da fare – per chi non fa lo storico di mestiere – che infilarsi nel cortile delle vecchie Archives Nationales. A cominciare da un Musée Picasso finalmente riaperto. Mentre salivo lo scalone dell’Hôtel de Soubise per visitare la mostra su «La Collaboration 1940-1945», avevo la sensazione di non fare altro che qualcosa di professionale, quasi di tecnico. La solita mostra documentaria, la solita polvere del tempo.
Mi ero soffermato su certe cose, avevo sorvolato su altre. Mi avevano particolarmente colpito le pagine spiegazzate degli elenchi stilati con zelo, nell’ottobre 1940, dai funzionari della Préfecture de Police di Parigi: il censimento sistematico – strada per strada, casa per casa, abitante per abitante – di tutti i «juifs» residenti a quella data nella capitale e dintorni. In pratica, il lavoro preparatorio per la caccia all’ebreo che si sarebbe aperta quindici mesi più tardi. Sgualcite dall’uso e ingiallite dal tempo, le Pages Blanches di uno sterminio ordinato dai tedeschi, ma organizzato dai francesi.
La mostra (che resterà aperta fino al 5 aprile) espone i materiali più vari, dalle carte di polizia ai manifesti di propaganda, dalle fotografie ufficiali ai manoscritti letterari. Il più notevole di questi ultimi consiste in due pagine di Céline, la versione autografa del pamphlet Les beaux draps. Io mi ero chinato su quelle due pagine, nella vetrina, con il consueto disagio di chi scopre gli orrori di stampa dell’antisemita più talentuoso d’Europa: con la nausea dell’ammiratore disgustato. Né la nausea era scomparsa quando mi ero chinato sulla vetrina accanto: le amatissime copertine bianche di Gallimard, il venerato logo in corsivo minuscolo, nrf, ma in alto, come autore di quel libro, il nome di Drieu La Rochelle. L’editore opportunista e il collaboratore collaborazionista.
Oggi – due mesi e mezzo dopo – all’Hôtel de Soubise voglio ritornare non più da storico, ma da cittadino (italiano o francese, poco importa: diciamo da cittadino europeo). Voglio visitare la mostra sulla «Collaboration» con gli occhi di chi ha visto, nel frattempo, cose che non avrebbe immaginato di vedere nel suo Paese d’adozione, la proverbiale Francia della Rivoluzione e dei Diritti dell’Uomo. Non soltanto le immagini di due incappucciati nerovestiti che risalgono in macchina, urlando, un momento dopo avere vendicato Maometto e un momento prima di freddare, per strada, un poliziotto di nome Ahmed. Né soltanto le immagini dei clienti di un supermercato kosher, uomini e donne con bambini in braccio che fuggono terrorizzati nel pomeriggio di un giorno da cani.
Pochi giorni fa ho visto altro ancora. Immagini meno drammatiche, e nondimeno inquietanti. Ho visto il video di un reporter israeliano che ha camminato dalla mattina alla sera, con una kippah in testa, per le strade del centro e della periferia di Parigi: nient’altro che camminato, dritto davanti a sé, senza far nulla per attirare l’attenzione. E che tuttavia ha raccolto, per reazione, una quantità di sguardi ostili, gesti aggressivi, commenti volgari. Indici puntati contro il «sale juif», lo sporco ebreo. Sputi addosso. «Questo qui è venuto per farsi fottere». Ho visto anche, nei giorni scorsi, le fotografie delle tombe profanate di un cimitero ebraico d’Alsazia. Una cittadina tranquilla, un paesaggio incantevole all’intorno, e nel campo israelitico decine e decine di sepolcri divelti, vandalizzati, distrutti. I responsabili? Quattro ragazzi del posto, incensurati, fra i quindici e i diciassette anni. Come a dire che potrebbero essere i compagni di scuola dei miei figli.
Sì, ritornando alle Archives Nationales, voglio guardare con occhi diversi la mostra parigina sulla «Collaboration». E voglio farlo pur sapendo che i tempi della storia non vanno mai confusi. Sapendo che l’anacronismo è anzi il peccato mortale dello storico, e che sarebbe improprio per tutti (storici o cittadini) assimilare questo nostro tempo agli anni Quaranta del Novecento. Ma oggi non mi interessa – al limite – la disumana eccezionalità di quei tempi di ferro e di sangue, 1940-1945, la Seconda guerra mondiale, l’Occupazione, la Soluzione finale. Oggi mi interessa l’umana banalità dei meccanismi di difesa e di offesa sociale. Mi interessano il sentimento di appartenenza, la diffidenza verso l’“altro”, la tentazione del capro espiatorio.
Fanno impressione, è chiaro, le fotografie più tragiche della mostra. La foto dei pullman in coda il 16 luglio 1942, quell’unica foto esistente della retata del Vél d’Hiv, 13.152 ebrei da deportare tutti in una volta. Le foto degli ebrei stranieri internati nei campi della Zona Sud e adesso pronti a partire, in fila indiana, per Drancy e poi per Auschwitz. Ma non sono meno impressionanti, a ben guardare, altri documenti esposti alle Archives Nationales. Certe lettere anonime, per esempio. Delazioni spicciole. Pedinate quello, controllate quell’altro, arrestate quell’altro ancora. Regolamenti di conti da vicini di casa (o da amanti delusi, o da concorrenti commerciali) bardati di patriottiche accuse contro gli ebrei o contro i massoni, contro i comunisti o contro gli stranieri.
Nella Francia del 2015 – dove il Front National prevede ragionevolmente di vincere le elezioni dipartimentali di fine marzo – quanto più colpisce della mostra sulla «Collaboration» è la forza sempreverde di una doppia retorica: la retorica una e bina dell’inclusione e dell’esclusione. Noi e loro. Ecco la famosa «Affiche rouge», il manifesto stampato nella Parigi tedesca del febbraio 1944 contro i combattenti partigiani della Main-d’Oeuvre Immigrée. Che cos’hanno in comune i dieci resistenti più ricercati della regione parigina (e infine catturati, e condannati a morte)? Sono tutti stranieri. Quattro ebrei polacchi, tre ebrei ungheresi, un «comunista italiano», uno «spagnolo rosso», il «capobanda armeno». Nessuno è francese, nessuno è dei nostri. Sono tutti alieni. Hanno combinato tutto fra loro.
Se una retorica dell’esclusione può apparire spesso così primaria da riuscire ingenua, una retorica dell’inclusione può risultare altrimenti sofisticata. Ecco, alla mostra, la foto di un elegante palazzo parigino della Rive droite e un cartellone che troneggia al quarto piano, davanti alle finestre d’angolo: «Vogliamo la Francia unita in un’Europa unita!». La Francia unita in un’Europa unita? Al pianterreno del palazzo, una gigantografia del maresciallo Pétain illustra di quale Francia e di quale Europa si tratti. Perché nel 1940 come nel 2015 le parole degli slogan europeisti suonano bene, ma non bastano a dire tutto. In fondo, sarebbe stata un’Europa unita anche quella della pax hitleriana.
Voglio tornare all’Hôtel de Soubise, ma non sono sicuro che rivedere la mostra servirà davvero a chiarirmi le idee. Da un lato, so di detestare l’appello che Benjamin Netanyahu lancia continuamente, da Israele, a tutti gli ebrei di Francia: venite qui, vi aspettiamo, è questa la vostra patria. Dall’altro lato, sento che non deve smettere di parlarci la storia della Terza Repubblica francese naufragata tra le acque di Vichy: una storia fatta – anche quella – di crisi economica, disoccupazione di massa, sgretolamento dei valori democratici, stigmatizzazione del diverso da sé, fascino dei leader populisti.
Né deve smettere di parlarci la storia (precedente, e meno nota) della «destra rivoluzionaria» in Francia: la cultura politica che iniettò all’Europa – oltre un secolo fa, e prima ancora di Benito Mussolini – il bacillo dell’ideologia fascista. Quella strana miscela di destra e di sinistra, di disciplina e di rivolta, di ruralismo e di operaismo, di frustrazione e di fierezza, di crociata e di laicità, che nella Francia di oggi viene quotidianamente impastata da una signora che tutti, ormai, chiamano familiarmente «Marine».

Il Sole Domenica 1.3.15
Giorgio Fontana
Da autore ad autore
Kafka contro il potere


Giorgio Fontana, il giovane vincitore dell’ultimo Premio Campiello, racconterà il suo Kafka martedì 3 marzo al Goethe Institut di Torino (ore 20,30, piazza San Carlo 206) per il ciclo «Affinità elettive. Scrittori italiani raccontano scrittori tedeschi» curato da Francesca Bolino. Obbiettivo della rassegna è quello di far emergere debiti talvolta inaspettati degli scrittori italiani nei confronti della letteratura tedesca. I prossimi incontri: Benedetta Tobagi il 2 aprile parlerà di «Austerlitz» di W. G. Sebald. Altri seguiranno in autunno, con Dacia Maraini, Luciana Castellina e Carlo Ossola.
Cos’hanno in comune i protagonisti dei romanzi di Kafka — Karl Rossmann di America, l’agrimensore K. del Castello, il suo omonimo Josef del Processo? Tutti e tre combattono contro un potere sordo e assoluto. Lo fanno con modi diversi: la resilienza del sedicenne Karl è lontana dalle manovre ostinate di K. contro i funzionari del villaggio; ma la sostanza non cambia. Di fronte alla Legge, i personaggi di Kafka vengono sì sempre divorati: eppure allo stesso tempo vi si ribellano. Ed è un peccato che la dimensione libertaria e “resistente” dello scrittore boemo sia spesso lasciata in secondo piano, preferendo guardare ai modi in cui la macchina burocratica schiaccia i singoli.
Un’interessante eccezione è il saggio di Michael Löwy Kafka sognatore ribelle, dove viene sottolineata l’importanza di tale sensibilità, vicina per diversi aspetti al pensiero anarchico. Certo, farne un punto di leva per capire tutto il mondo di Kafka è sbagliato — esso respinge le letture univoche, proprio per il suo carattere deliziosamente sfuggente — ma merita attenzione, non fosse che per una sua estrema attualità. A tal proposito, vorrei soffermarmi su due dettagli del Processo.
Il primo è il dialogo fra Josef K. e il pittore Titorelli, che offre al protagonista due vie d’uscita provvisorie alla sua condizione di indagato: l’assoluzione apparente o il differimento. Nessuna delle due strategie promette il riconoscimento dell’innocenza, sono solo modi per dilazionare il processo — ma insieme, modi di cedere comunque all’autorità del tribunale. Ed è proprio per questo che Josef K. non sceglierà tali comunissime strade di comodo. Egli pretende l’assoluzione vera che merita, e di cui Titorelli dice che non v’è notizia se non in tempi passati, o nelle leggende. Pretende tutto ciò che la Legge non può dargli, perché si è ormai svelata per ciò che è: nuda autorità.
Una conferma viene dalla celebre parabola raccontatagli dal prete nel nono capitolo del romanzo. È la storia del contadino di fronte alla porta della Legge: per tutta la vita interroga il guardiano che le difende senza mai osare varcarla, per poi sentirsi dire, in punto di morte, che la porta era riservata a lui soltanto — e ora sarà chiusa. Questa gemma di ispirazione chassidica è, fra le tante cose, una tragica dimostrazione di come la Legge non tolleri esitazione o dubbio: per le sue porte occorre passare senza porsi domande. «Non si deve credere che tutto è vero, bensì che tutto è necessario», ricorda il prete a Josef K., il quale risponde: «Malinconica opinione, così si fa della menzogna una norma universale». Che l’ordine sia giusto o buono o vero, non conta nulla: esiste in quanto tale, pura e brutale necessità, non molto diversa dal comando di un capo — o di un padre autoritario.
Ed è l’incapacità di accettarlo a produrre la condanna. Josef K. non si arrende: testimonia la propria innocenza con l’affanno testardo e pieno di rabbia di tutti gli innocenti perseguitati, nel quale echeggiano le vittime delle future ideologie. Perderà, come ogni altro ribelle dell’universo kafkiano: come il figlio Georg Bendemann del Verdetto, condannato dal padre; come Gregor Samsa divenuto insetto e odiato dalla famiglia; come il suo omonimo del Castello, probabilmente, incapace di sovvertire l’ordine del villaggio. Morirà «come un cane», assassinato da due emissari del tribunale. Ma in questa orribile fine dovremmo avere il coraggio di vedere anche una luce. Il potere l’ha distrutto, ma non ne ha annientato le ragioni.

Il Sole Domenica 1.3.15
Liberalismo di sinistra / 1
La libertà uguale per tutti
Piero Bonetti offre una serie di ritratti di personaggi tra loro anche non omogenei, come ad esempio Gobetti e Amendola
di Giuseppe Bedeschi


Paolo Bonetti, noto studioso di Croce (di cui ha scritto un bel profilo, edito da Laterza), pubblica ora, per i tipi di liberilibri, una Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio. Nel volumetto si susseguono ritratti di Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Carlo Rosselli, Guido Calogero, Aldo Capitini, degli “azionisti” liberali (Omodeo, La Malfa, eccetera), degli animatori del settimanale «Il Mondo», e di Norberto Bobbio.
La scrittura di Bonetti è limpida (un merito, questo, di cui gli si deve dare atto, in tempi come i nostri, in cui – come dice giustamente Cofrancesco nella sua postfazione – lo stile criptico e la metafora oscura vengono sempre più contrabbandati come indici di profondità teoretica). Ma non direi che sia altrettanto limpido il quadro complessivo delineato dall’Autore, e che da esso si ricavi un’idea chiara e coerente del cosiddetto «liberalismo di sinistra in Italia». La stessa scelta dei protagonisti lo dimostra.
Prendiamo due figure importanti: Piero Gobetti e Giovanni Amendola. Gobetti diede un giudizio estremamente positivo sulla rivoluzione bolscevica in Russia (contro le riserve dei Kautsky, dei Mondolfo, dei Turati eccetera), e dichiarò che era inessenziale, anzi futile, porsi il problema se essa fosse o no una rivoluzione socialista, perché essa era – ecco il dato fondamentale da non perdere di vista – una «rivoluzione liberale». Il giovane intellettuale torinese concluse infatti un suo articolo sulla rivoluzione russa con queste parole: «L’opera di Lenin e di Trotzky rappresenta questo. In fondo è la negazione del socialismo e un’affermazione e un’esaltazione di liberalismo. La storia dovrà riconoscerlo». In piena coerenza con questi giudizi, Gobetti approvò il movimento di occupazione delle fabbriche nel settembre 1920, che gli parve «l’unica realtà ideale e religiosa d’Italia», «la libertà che si instaura». Anche nel movimento di occupazione delle fabbriche, e in particolare nell’esperimento “consiliare” teorizzato e promosso da Gramsci, Gobetti vide una grande espressione di liberalismo. Egli era convinto, infatti, che i capitalisti non fossero più in grado, ormai, di adempiere la loro funzione di risparmiatori e di imprenditori, e che dovessero essere gli operai, attraverso la loro organizzazione autonoma, i Consigli, a sostituirsi agli industriali per salvare la civiltà capitalistica. Per Gobetti, insomma, la classe operaia era l’unica classe capace di preservare il sistema borghese, sostituendosi alla borghesia.
Volgiamoci ora a Giovanni Amendola: il quadro, in lui, è del tutto diverso. Sul bolscevismo egli diede un giudizio completamente negativo; e in modo altrettanto negativo valutò il movimento di occupazione delle fabbriche nel 1920. Anzi, egli non esitò a riconoscere al fascismo il “merito” di essersi opposto con tutti i mezzi al tentativo rivoluzionario di ispirazione bolscevica; e nessun italiano – egli diceva – poteva «non riconoscere il vantaggio che derivò alla patria nostra dall’esserle stata risparmiata l’esperienza mortale del leninismo». (Da queste parole si vede che in un primo tempo Amendola sottovalutò il carattere eversivo, “totalitario” – un termine da lui coniato, che ebbe poi diffusione mondiale – del fascismo; e quando lo percepì, pagò con la vita la sua intransigente opposizione ad esso).
Certo, anche Amendola, come Gobetti, fu antigiolittiano. Ma fu tale perché egli vide nello Stato giolittiano uno Stato di minoranze, che erano sì eredi della tradizione liberale, ma che non avevano saputo integrare le grandi masse nelle istituzioni. Amendola voleva che alla direzione dello Stato fossero chiamati uomini e ceti nuovi. E ciò nel quadro delle istituzioni liberali, in modo che la libertà coincidesse con la democrazia. A tal fine egli si propose di costruire un “partito nuovo”, capace di realizzare un blocco di forze comprendente la borghesia lavoratrice e produttrice e il proletariato (il quale, dunque, non era visto da Amendola in una luce esclusiva e salvifica).
Dunque, che cosa hanno in comune Gobetti e Amendola, in termini dottrinali? Nulla o quasi nulla, sicché non si vede come essi possano essere messi insieme sotto l’etichetta del “liberalismo di sinistra” (che è definizione tanto improbabile e astratta quanto la sua omologa-opposta, quella del “liberalismo di destra”. E altre difficoltà storico-concettuali sono segnalate da Cofrancesco nella sua postfazione).
Paolo Bonetti, Breve storia del liberalismo di sinistra in Italia . Da Gobetti a Bobbio. Liberilibri, Macerata, pagg. 220, € 16,00

Il Sole Domenica 1.3.15
Liberalismo di sinistra / 2
Un fil rouge sino a Bobbio
di Massimo Teodori


Con la scomparsa di gran parte delle voci del liberalismo riformatore e la crescente presenza sulla scena pubblica di populismi socializzanti e corporativismi conservatori, è più che mai opportuno richiamare alla memoria le correnti intellettuali e politiche che hanno reso l’Italia un paese più moderno e liberale secondo le migliori tradizioni riformatrici dell’Occidente. Con la Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio (Liberilibri), Paolo Bonetti ripercorre le vicende di intellettuali e protagonisti politici che hanno giocato un ruolo significativo nel Novecento, pur non appartenendo a un unico movimento politico, né a una omogenea tendenza culturale. Il merito di Bonetti, tuttavia, è proprio di essersi tenuto lontano dagli schematismi teorici del pensiero politico, e di avere proceduto a una ricostruzione storica nella quale si snoda il filo unificante che collega uomini, gruppi e partiti variamente denominati liberali classici e liberalsocialisti, liberisti e radicali, democratici liberali e socialisti liberali, i quali, tutti, si sono battuti per salvare la sostanza etico politica della tradizione liberale passando attraverso le riforme economiche e politico-giuridiche.
Qualcuno potrebbe obiettare che è contraddittorio includere in un unico calderone il Benedetto Croce del metodo liberale e la sintesi di liberalismo e socialismo di Guido Calogero, ed è ideologicamente dissacrante mescolare il liberismo pragmatico di Luigi Einaudi con il mix di giustizia e libertà di Carlo Rosselli. Altri potrebbero sottolineare che il grande moralizzatore Gaetano Salvemini, autore del Ministro della malavita, non può essere accostato a Giovanni Giolitti che, pur di attuare un liberalismo popolare regolato dallo Stato, non si fece scrupoli sulle pratiche clientelari nel mezzogiorno. Altri ancora che amano discettare del tasso di liberalismo di Piero Gobetti potrebbero sostenere che il ventenne non elaborò mai un programma politico coerente ma guardò con simpatia ai comunisti di Ordine nuovo polemizzando con i socialisti riformisti di Turati. Dal canto loro, i critici dell’azionismo, facenti capo, ieri, ad Augusto Del Noce e, oggi, a Dino Cofrancesco (a cui si deve una corposa postfazione «scritta pensando a Vincenzo Cuoco»), non accetteranno mai l’idea che l’“azionismo” è una categoria inadatta a designare le vicende plurime e singolari degli azionisti che, durante e dopo il Partito d’Azione, praticarono idee e percorsi politici disparati tra cui quello più spiccatamente liberale del gruppo di “Stato moderno” di Mario Paggi, così sorprendentemente moderno nell’analisi delle istituzioni occidentali.
Con l’esaurimento dell’Italia liberale in cui ebbero un ruolo decisivo Giolitti, Croce e il liberaldemocratico Giovanni Amendola, e dopo la sconfitta del fascismo, nel secondo dopoguerra i liberali hanno dovuto fare i conti con l’egemonia dei comunisti e dei cattolici. I leader che avrebbero potuto guidare con autorevolezza la rinascita liberale – Gobetti, Rosselli, Amendola, e pure Giacomo Matteotti loro interlocutore socialista – non a caso erano stati eliminati dai fascisti. Restava il Partito d’azione che non aveva lasciato il monopolio dell’antifascismo e della Resistenza al Partito comunista, e aveva ipotizzato con la corrente cosiddetta di “destra” poi confluita in parte nel Partito repubblicano (oltre a Ugo La Malfa, Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero e Luigi Salvatorelli), una linea riformatrice non marxista vicina alle esperienze del New Deal americano e del laburismo britannico.
Dieci anni dopo, il Partito radicale di Mario Pannunzio, nato dalla costola di sinistra del Partito liberale e da ex-azionisti (Paggi, Ernesto Rossi, Leo Valiani) tentò, senza successo, la strada della “terza forza” che costituì negli anni Cinquanta una barriera di libertà liberatrice al comunismo e al clericalismo, e lasciò in eredità al centrosinistra i progetti di riforme economiche, sociali e istituzionali dei convegni degli “amici del Mondo”, la sede più illustre del dialogo tra riformatori sparsi per ogni dove. In seguito i radicali di Marco Pannella rinvigorirono la battaglia laica e antitotalitaria portando a compimento alcuni diritti civili tra cui il divorzio. Bonetti, in conclusione, dopo avere ricordato che Norberto Bobbio ha rinverdito il significato liberale della democrazia procedurale, del principio di maggioranza, e dei diritti delle minoranze, ha compendiato in due prospettive di rinnovamento le maggiori correnti del liberalismo di sinistra: quella Gobetti-Rosselli-Calogero, che ha ipotizzato, pur nel mantenimento del costituzionalismo liberale, una radicale trasformazione della struttura economica in senso socialista, e quella della classica democrazia liberale riformatrice di Giovanni Amendola-Ugo La Malfa-Mario Pannunzio che si è mossa all’interno del capitalismo regolato.

Il Sole Domenica 1.3.15
Montale a carte scoperte
Un volume curato da Albonico e Scaffai getta luce sui modi, spesso disinvolti, di attribuire i testi agli autori
di Lorenzo Tomasin


Montale non amava che si rovistasse tra le sue carte. Non lo amava, ma insieme – in un certo senso – lo desiderava, se è vero che da un lato le sue pubbliche dichiarazioni, in prosa e in verso, esorcizzano la curiosità di critici e lettori in genere verso i retroscena materiali della sua poesia (emblematica la scrupolosa distruzione delle lettere ricevute da Clizia-Irma Brandeis), ma da un altro egli stesso autorizza di fatto un’edizione critica in vita (e che edizione: Contini-Bettarini!) in cui le redazioni preparatorie delle poesie sono scrupolosamente censite, e si fa promotore – per tramite della fedele governante Gina Tiossi, di varie (e a modo loro solenni) donazioni di quaderni, fogli, appunti e carte d’archivio al Fondo manoscritti di autori contemporanei di Pavia, fondato da Maria Corti. Giusto alla Corti – racconta Niccolò Scaffai in uno dei saggi di un elegante volume da lui curato assieme a Simone Albonico, L’autore e il suo archivio – Montale raccomandava nel 1972 di non fargli fare la fine del Leopardi monumentato da una ponderosa raccolta da lei appena pubblicata («Entro dipinta gabbia») e dedicata appunto agli scritti inediti, rari e editi del bienno 1809-1810: sono i famosi versi « Raccomando ai miei posteri / (se ne saranno) in sede letteraria, / il che resta improbabile, di fare un bel falò di tutto che riguardi / la mia vita, i miei fatti, i miei nonfatti…». Un falò : quasi un topos letterario, da Virgilio in giù.
Tutto sommato, però, è un bene che i desideri – intermittenti e contraddittori, si è detto – del saturnino Montale non si siano realizzati. Ed è un bene per lui, visto che proprio l’attenta rivisitazione delle carte d’archivio da parte di Scaffai (il volume, frutto d’un convegno svoltosi a Losanna, è tutto dedicato a simili istruttorie documentarie, che riguardano anche altri novecenteschi, tra cui Gadda, Sereni, Manganelli e Meneghello) consente di salvare Montale… dai suoi critici.
Una rivisitazione di più d’uno dei superstiti del lacunoso archivio Montale, porta Scaffai a correggere vari errori ed equivoci dei suoi postumi lettori. Cose da poco, si dirà. Ma c’è di più: in un caso è possibile addirittura recuperare la sua volontà escludendo dalle poesie legittimamente pubblicate quella che si rivela essere una piccola, ma lampante impostura editoriale. Si tratta della poesia Ritmo, pubblicata tra le Disperse non nell’edizione critica diretta di Contini, ma in quella ben più diffusa realizzata nel 1984 per i Meridiani Mondadori (poi anche negli Oscar).
Già si sapeva che Montale l’aveva esclusa dall’Opera in versi, definendola, in una lettera alla Bettarini (che rispettò il suo volere), «orrenda poesia» che «non è *quasi* [il quasi è cassato] mia», e protestando vivamente: «Spero non ne esistano copie». Ma che non si tratti di semplice depistaggio o negazione Scaffai può ora dimostrare ricostruendo la vicenda di quei versi, provenienti in realtà da una lettera della sorella di Montale, Marianna, all’amica Ida Zambaldi, e citati a memoria con un’esplicita indicazione di parzialità o approssimazione («Ma non li ricordo»). Il dattiloscritto che ancora tramanda quella presunta quartina giovanile, conservato nell’Archivio Bonsanti a Firenze, è dunque un probabile estratto dalla lettera di Marianna realizzato dalla stessa Ida Zambaldi, eppure così insidiosamente fortunato da finire riprodotto una prima volta nel 1983 in appendice al Quaderno genovese, e infine nelle Poesie pubblicate, dopo la morte dell’autore, da Mondadori: «Non chieggo si ponga su questa / mia tomba epitaffio gentile ; / a dirvi soltanto mi resta : / “Fui uomo, fui vile”». Versi che risalirebbero al 1917, e che certo riecheggiano, più o meno fedelmente, una qualche aurorale “prova di penna”, non ancora molto felice, del giovane Eugenio: ma allora perché lo stesso trattamento – comunque discutibile – non è stato riservato nelle Poesie a tanti altri versi sparsi degli stessi anni documentati per altra via, «versi sicuramente autentici e non inferiori – anzi, forse già più montaliani»? Se lo chiede Scaffai, interrogandosi saggiamente su «dove finisce il lavoro del poeta e dove comincia la mediazione (e perfino l’arbitrio) dell’editore, del curatore, del critico».
L’autore e il suo archivio , a cura di Simone Albonico e Niccolò Scaffai, Milano, Officina libraria, pagg. 216, € 25,00.

Il Sole Domenica 1.3.15
Pierre Fermat (1601-1665)
Matematico per diletto
Magistrato, studiava per passione la teoria dei numeri
Il teorema che lasciò irrisolto 350 anni fa fu dimostrato solo nel 1995 da Wiles
di Umberto Bottazzini


Il 9 febbraio 1665 il Journal des Sçavans diffonde nella «repubblica delle lettere» la notizia della recente scomparsa (12 gennaio) di «una delle menti più sottili del secolo». Il «grand’uomo», il «genio universale» di cui il giornale si limita a render noto un catalogo degli scritti – per la gran parte inediti e pubblicati postumi dal figlio – è uno straordinario matematico dilettante, un magistrato membro del Senato di Tolosa, che ha coltivato per diletto la matematica, e la teoria dei numeri in particolare, nel tempo lasciato libero dai suoi doveri d’ufficio. Nato nel 1601 da una famiglia di un facoltoso mercante di pelli, dopo gli studi in legge all’università di Tolosa e di Orleans, a trent’anni Pierre Fermat ha ottenuto l’ufficio di consigliere alla Camera del Parlamento di Tolosa, e in quella città ha trascorso il resto della vita percorrendo le tappe di una carriera che lo porta dapprima a far parte del Senato e poi al più alto livello della Corte di giustizia. Il suo nome comincia a circolare nella «repubblica delle lettere» nel 1636, quando entra in contatto con padre Marin Mersenne dell’Ordine dei Minimi, anch’egli matematico dilettante, che a Parigi anima un cenacolo di matematici e intrattiene una vasta corrispondenza con i principali uomini di scienza europei. Nelle sue lettere Fermat propone problemi che Mersenne e i matematici parigini trovano oltremodo difficili, se non insolubili con i metodi allora in uso. Per risolverli, da un paio d’anni Fermat ha elaborato un proprio Metodo per determinare i massimi e i minimi che consente non solo di risolvere una quantità di problemi di massimo e minimo, ma anche di determinare il baricentro di solidi e la tangente a curve, come egli esemplifica con la parabola e la cicloide – la curva piana generata da un punto di una circonferenza che ruota senza strisciare lungo una retta.
Nel linguaggio della Geometria di Cartesio, allora fresca di stampa come La diottrica, entrambe esemplificazioni del Discorso sul metodo, la cicloide è una curva «meccanica», per la quale non si applica il metodo algebrico esposto nelle pagine della Geometria. Nondimeno, scrive Cartesio al padre Mersenne, la sua maniera di studiare la natura e le proprietà delle curve «è tanto superiore alla geometria ordinaria quanto la retorica di Cicerone è superiore all’abbiccì dei bambini». Richiesto di un parere su La diottrica, un trattato sull’ottica e la natura della luce, Fermat non risparmia l’ironia scrivendo a Mersenne che Cartesio «sta brancolando nel buio». Anche sulla legge di rifrazione della luce enunciata da Cartesio l’opinione di Fermat è tagliente: «la sua prova e la sua dimostrazione mi sembrano un vero e proprio paralogismo». (Diversi anni dopo la morte di Cartesio, Fermat riprenderà la questione col suo metodo dei massimi e dei minimi sulla base di «quest’unico principio: la natura agisce sempre seguendo le vie più brevi», e ottenendo così – con sua grande sorpresa – la stessa legge enunciata da Cartesio). La discussione intorno a La diottrica non fa che annunciare la polemica sul problema delle tangenti, che tanto appassiona i matematici contemporanei. Tramite Mersenne, Fermat fa avere a Cartesio il proprio trattato Ad locos planos et solidos isagoge scritto diversi anni prima dove, avvolte nel linguaggio dei geometri greci classici, ben prima di Cartesio egli ha presentato le idee fondamentali della geometria delle coordinate, che oggi si impara a scuola. Il metodo di Fermat per trovare la tangente alle curve è semplice e diretto, ma «non mi sembra una ragione sufficiente per confrontarlo con quello della mia Geometria», è il secco commento di Cartesio a Mersenne, mentre a Fermat fa sapere invece che «il suo metodo è molto buono e, se glielo avesse spiegato in questo modo, non l’avrebbe affatto contraddetto». La corrispondenza di Fermat coi matematici parigini si interrompe negli anni turbolenti che fanno seguito alla morte del cardinale Richelieu, quando la Francia è attraversata dalla Fronda – il movimento di opposizione al cardinale Mazzarino che ben presto si trasforma in una rivolta che si diffonde anche a Tolosa, afflitta dalla peste che nel 1651 minaccia seriamente la vita dello stesso Fermat.
Nell’estate del 1654 Blaise Pascal gli scrive chiedendogli un parere su un problema postogli da un amico, accanito giocatore d’azzardo: come dev’essere suddivisa la posta tra due giocatori se essi decidono di interrompere un gioco prima che uno dei due abbia vinto tutte le partite necessarie per guadagnare l’intera posta? È un problema già discusso da Cardano e da Galileo, ma Fermat e Pascal sembrano ignorarlo dando vita a un fitto carteggio che segna di fatto la nascita della teoria della probabilità. Fermat cerca anche, invano, di coinvolgere l’interlocutore in questioni di teoria dei numeri, dichiarando di possedere «una dimostrazione irrefutabile» del fatto che ogni primo della forma 4n + 1 è la somma di due quadrati, a suo dire il teorema fondamentale dei triangoli rettangoli. Ancora a Pascal annuncia che tutti i numeri della forma 2n + 1 con n = 2k sono primi. «Non ne ho la dimostrazione», egli ammette, ma la cosa è vera per k = 0, 1, 2, 3, 4 e «ho escluso una tale quantità di divisori mediante dimostrazioni infallibili, e ho trovato tali luminose conferme al mio pensiero che farei fatica a dissuadermi».(Invece, un secolo più tardi Eulero dimostrerà che, per k = 5, la congettura del grande matematico era infondata). Questi sono solo un paio dei tanti risultati ottenuti da tempo da Fermat in solitarie ricerche, alimentate dallo studio dell’Aritmetica di Diofanto, di recente riscoperta e pubblicata. «Dividere un quadrato dato in due quadrati», chiede una proposizione di Diofanto. «Non è, invece, possibile – annota Fermat nel margine della sua copia dell’Aritmetica – dividere un cubo in due cubi, o un biquadrato (x4) in due biquadrati, né, in generale, dividere alcun’altra potenza di grado superiore al secondo in due altre potenze dello stesso grado»(in termini moderni, non esistono soluzioni intere x, y, z dell’equazione xn + yn = zn per n > 2). «Della qualcosa – continua Fermat – ho scoperto una dimostrazione veramente mirabile. L’esiguità di questo margine non la conterrebbe». Fermat non ritornò più sull’affermazione affidata a quella nota a margine, nel corso del tempo divenuta celebre come «ultimo teorema di Fermat». Né tra le sue carte è stata trovata traccia di quella «dimostrazione veramente mirabile». Dopo la sua morte la dimostrazione è stata ottenuta per un certo numero di casi particolari, e solo dopo oltre tre secoli, nel 1995, la dimostrazione nel caso generale è stata infine trovata da Andrew Wiles, un matematico inglese che insegna a Princeton, in collaborazione col suo studente Richard Taylor, con un vero e proprio tour de force basato su sofisticati argomenti di geometria algebrica e teoria dei numeri nemmeno immaginabili all’epoca di Fermat. Ma stavolta il grande tolosano aveva visto giusto.

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