martedì 3 marzo 2015

L’Osservatore Romano 2.3.15
Un antisemitismo metafisico
I Quaderni neri di Martin Heidegger ·

Martin Heidegger ha attraversato la storia del secolo scorso e il pensiero che si è articolato nei tempi bui del nazismo e della Shoah.
Molto si è già scritto ma molto di più si scriverà sulla scia della sorpresa suscitata in Germania quando i Quaderni neri, pubblicati nella primavera del 2014, saranno dati tutti alle stampe e consentiranno un confronto serrato, cronologico e ideologico, relativo all’arco di tempo che coprono. Ancora inediti in Italia, si compongono di 1.200 pagine, stese dal 1931 al 1941, mentre i volumi successivi giungeranno fino al 1969. Lo scrive Cristiana Dobner aggiungendo che la ricerca di Emmanuel Faye del 2005, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, aveva imposto una virata nella concezione costruita intorno al ben noto “caso Heidegger”, il Terzo Reich e sull’interrogativo relativo al suo pensiero che ritiene gli ebrei immondi. Il dibattito fra i filosofi di tutto il mondo è molto vivace, anche per la nuova prospettiva che i Quaderni neri aprono sul pensiero heideggeriano.
Donatella Di Cesare, vicepresidente della Martin Heidegger Gesellschaft, allieva di Hans-Georg Gadamer e docente di filosofia alla Sapienza di Roma, ha intrapreso un lavoro ciclopico (per l’enorme massa di documenti e libri consultati) e decisamente a tutto tondo sul filosofo tedesco di Messkirch: Heidegger e gli Ebrei. I quaderni neri (Torino, Bollati Boringhieri, 2014, pagine 360, euro 17). Di Cesare afferma che i Quaderni neri «assomigliano al diario di bordo di una naufrago che attraversa la notte del mondo, rischiarata da profondi sguardi filosofici e potenti visioni escatologiche».
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Italia Oggi 3.3.15
Domani l’incontro editore-giudice fallimentare. Intesa raggiunta su 4-5 poligrafici
L’Unità, Veneziani tratta Nella nuova società 20 giornalisti ex Nie
di Claudio Plazzotta

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il manifesto 3.3.15
«Dalla pena alla cura», il tramonto degli Opg
Fine degli Ospedali psichiatrici giudiziari. «Senza ulteriori proroghe», dal 1° aprile l’amministrazione penitenziaria inizierà «gradualmente» il trasferimento degli internati. Parla Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap
Intervista di Eleonora Martini
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il Fatto 3.3.15
Renzi si traveste da Putin: “Niente domande Matteo non vuole”
Ushakov, consigliere del Cremlino: “Gli italiani chiedono che i giornalisti non pongano quesiti”
L’agenda ufficiale di giovedì diramata solo ieri sera
di Wanda Marra


Il Cremlino comunica il protocollo della conferenza stampa di giovedì tra i due leader a Mosca. Palazzo Chigi: “Ma il premier parlerà portando un fiore sul luogo dell’omicidio del dissidente Nemtsov”. Sul tavolo il dossier Libia, sullo sfondo il tema spinoso dei diritti civili.

Nessuna domanda durante la conferenza stampa alla fine del vertice tra Matteo Renzi e Vladimir Putin di giovedì a Mosca. “La parte italiana ha chiesto che non ci siano domande da parte dei giornalisti”, ha spiegato Iuri Ushakov, consigliere diplomatico del Cremlino. Fonti di Palazzo Chigi la mettono come una scelta logistica: il formato della conferenza stampa era stato concordato con il Cremlino sulla base di dichiarazioni dei due leader al termine dell’incontro, anche in considerazione del rientro rapido a Roma della delegazione italiana. Però, la prima volta al Cremlino di Renzi si preannuncia spinosa, tra omicidio Nemtsov e crisi ucraina. Il premier vuol cercare di giocare un ruolo nello scacchiere diplomatico internazionale, coinvolgendo “lo Zar” nella questione libica. Per la quale, lo ritiene centrale. Eppure la chiave dell’imbarazzo preventivo di Renzi è tutta nelle parole di Ushakov: “Enfasi, ovviamente, sarà posta sulla situazione di crisi in Ucraina”. Perché la posizione di Renzi “ha le sue sfumature, e ci saranno sostanziali e utili conversazioni in merito”.
Il premier non vuole trovarsi nella situazione di dover avallare o condannare pubblicamente il suo ospite. Quindi, le domande sono da evitare. Sull’Ucraina, la posizione italiana è più sfaccettata di quella di Usa e Gran Bretagna (che a breve manderanno truppe a Kiev): la via diplomatica, innanzitutto. E altre sanzioni se la Russia dovesse ulteriormente esagerare. Non a caso, la visita – lampo al presidente Petro Poroshenko, a Kiev, è stata decisa dal premier più che altro per chiarire che andare da Putin non vuol dire sconfessare gli accordi di Minsk.
A MOSCA, RENZI incontrerà anche il primo ministro russo Dmitry Medvedev. L'incontro con Putin avrà diversi formati, prima un incontro a due e poi con i membri delle delegazioni in un formato allargato, di pranzo di lavoro. Renzi andrà anche a deporre un fiore sul luogo dell’agguato a Nemtsov (lì dovrebbe parlare con la stampa). Un gesto politico che vuole confermare la condanna dell’omicidio di uno dei leader dell’opposizione russa, anche se il governo italiano ha confermato la visita, nonostante i sospetti su Putin. Nei circoli renziani raccontano che a Mosca questa scelta non è stata accolta troppo bene.
I negoziati affronteranno anche “lo sviluppo di legami bilaterali, tra cui il commercio e la cooperazione economica e investimento cooperazione e interazione in ambito culturale e umanitario”. Renzi dovrebbe incontrare poi la comunità italiana. Sullo sfondo, ci sono gli affari: il gas, gli interessi di Fiat. Ma anche la moda. Un’agenda ufficiale, una nota diplomatica è arrivata soltanto ieri sera.

il Fatto 3.3.15
Roma-Firenze. Polemica sul “Renzicottero”

Matteo Renzi preferisce usare il volo di Stato anche per andare da Firenze a Roma. Dopo le contestatissime vacanze a Courmayeur (viaggio in aereo blu da Roma ad Aosta con tappa a Firenze per raccogliere i famigliari e andare a sciare), ieri l’elicottero del premier ha subìto un atterraggio d’emergenza a causa del maltempo nei pressi di Arezzo. Di lì Renzi ha proseguito in auto e subito sono partite le polemiche. Beppe Grillo conia sul suo blog un neologismo: il “Renzicottero”, ricordando quando il futuro premier tuonava contro le auto blu e diceva “la mia scorta è la gente”. Giovanni Donzelli (FdI-An) candidato governatore in Toscana, attacca: “Se il presidente della Repubblica Mattarella percorre la tratta Roma-Firenze in treno, può farlo anche Renzi. È vergognoso che il premier continui imperterrito a fare il bullo con i soldi dei contribuenti... e a divertirsi con gli status symbol: più che un premier sembra Pinocchio nel paese dei balocchi”. Fonti di Palazzo Chigi poi spiegano che sul volo ieri era presente anche Luca Lotti e che il premier utilizza l’elicottero per motivi di sicurezza, cosa che continuerà a fare come previsto dalla legge (che però non contiene obblighi, specie per un tragitto di 300 km coperto egregiamente dai treni). La giustificazione è la stessa data quando partì per Courmayeur. Allora però si trattava di vacanze.

La Stampa 3.3.15
Volare basso
di Massimo Gramellini

Un atterraggio d’emergenza imposto dal maltempo ha rivelato improvvisamente agli italiani che per andare da Firenze a Roma il granduca Matteo usa l’elicottero di Stato. Lui, il campione dell’Anti Casta che da sindaco impazzava per la città gigliata al volante di una macchinina elettrica e da segretario del Pd si faceva immortalare sul Frecciarossa come un Draghi qualunque. L’opinione pubblica si è subito spaccata. La maggioranza, composta da pendolari e sardine d’auto o di metrò, invoca per Messer Renzi un mezzo di trasporto più sobrio ed economico (non sottovaluterei il baldacchino, è ecologico e in Italia i portatori non mancano mai). Ma esiste anche una minoranza, fiera della propria impopolarità, convinta che fare viaggiare il capo del governo tra i cittadini significherebbe esporlo alla mercé del primo squilibrato e che la sua scorta sarebbe fonte di disagio per gli altri passeggeri.
L’elicottero rimane una scelta infelice perché è lo scooter dei miliardari e la metafora di una distanza abissale dalla gente comune. E comunque in democrazia il problema è sempre la trasparenza. Obama sale e scende dagli elicotteri senza dare scandalo, dato che in America tutti sanno che quei velivoli fanno parte del corredo presidenziale. Che Renzi ne usasse uno, invece, noi lo abbiamo scoperto ieri per caso. Come ogni caduta di stile, anche questa fa girare le eliche. Ma sostenere un condannato in primo grado alla presidenza della Regione Campania le fa girare ancora di più.

Il Sole 3.3.15
Fisco e lavoro
Nel 2014 pressione fiscale salita al 43,5%
di Rossella Bocciarelli


Roma Un calo del Pil pari allo 0,4%, un indebitamento netto pari al 3% del prodotto, un saldo primario ( al netto degli interessi) positivo e pari all’ 1,6% e uno stock del debito pubblico a quota 132,1 per cento. Sono i tratti salienti del 2014 che l’Istat ha consegnato ieri all’archivio, esplicitando tutti i dati validi ai fini del Trattato di Maastricht.
Alle nostre spalle c’è dunque un altro anno di recessione e il livello del Pil, pari nel 2014 a 1.616 miliardi e 48 milioni di euro ai prezzi di mercato , è tornato, in termini reali, sotto il livello del 2000. Tuttavia, oggi si può ragionare su questi numeri con minore preoccupazione, in quanto il motore della ripresa quest’anno dovrebbe finalmente mettersi in moto: secondo le ultime stime del Cer, il Centro europa ricerche, l’incremento di Pil conseguibile già quest’anno è pari a un +1 per cento, che dovrebbe salire a +1,2 per cento nel 2016.
La ripresa, secondo gli economisti del centro studi romano, è trainata dal contemporaneo rimbalzo delle componenti della domanda interna e delle esportazioni. Così la spesa per consumi finali delle famiglie, che nel 2014 secondo i dati diffusi Istat si è cresciuta di un modesto +0,3% quest’anno dovrebbe salire, secondo il Cer, dello 0,9%, mentre gli investimenti che lo scorso anno hanno subito una flessione del 3,3% quest’anno secondo le stime del Cer saliranno dell’1,8 % ( nonostante la prosecuzione della fase di flessione delle costruzioni) mentre l’export per effetto del mini- euro dovuto anche alla politica monetaria espansiva della Bce potrà aumentare del 3,8%.
Nei dati diffusi ieri dall’Istituto nazionale di statistica, che fanno capire come la possibilità di attestarsi al 3 per cento nel rapporto deficit-pil sia stata assicurata al nostro paese anche da un’ulteriore, sostanziosa, riduzione dell’onere per interessi (nel 2014 gli interessi passivi della Pa si sono ridotti del 3,8%, dopo la riduzione del 7,3% avvenuta nel 2013)c’è anche il dettaglio della dinamica delle entrate. Le entrate totali nel 2014 sono aumentate dello 0,6% rispetto all’anno precedente (nel 2013 l’incremento era stato dello 0,1%) e la loro incidenza è salita al 48,1%, mentre l’incidenza delle uscite della Pa, cresciute dello 0,8%, si è attestata al 51,1 per cento. Le entrate correnti, inoltre, sono cresciute dello 0,9%: in particolare, spiega l’Istat, sono aumentate del 3,3% le imposte indirette, per effetto soprattutto dell’incremento del gettito dell’Iva e dell’introduzione della tassa sui servizi indivisibili (Tasi). Invece, le imposte dirette lo scorso anno sono diminuite dello 0,9%, per effetto della marcata riduzione dell’Ires, in parte compensata dalla moderata crescita delle imposte sostitutive.
L’Istituto di statistica, seguendo i principi e metodi di contabilità nazionale utilizzati a livello europeo calcola poi che, tutto compreso, la pressione fiscale complessiva (imposte dirette, indirette, in conto capitale e contributi sociali in rapporto al Pil) sia stata pari al 43,5 per cento, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al 2013 quando si era attestata al 43,4 per cento.
Secondo il Tesoro, tuttavia, per effetto della restituzione del bonus da ottanta euro avvenuta nello scorso mese di maggio la pressione fiscale effettiva nel 2014 si sarebbe ridotta, rispetto all’anno prima, scendendo al 43,1 per cento. «L’intervento del Governo è stato formulato in modo semplice e chiaro - puntualizza il Mef - uguale per tutti i lavoratori con retribuzione non superiore a una soglia predeterminata: un bonus di 80 euro che riduce il peso dell’Irpef e aumenta il netto in busta paga. Tuttavia, proprio in virtù di questa formulazione non progressiva ma chiara e semplice, le misure statistiche non classificano l’intervento come una riduzione del peso fiscale ma come spesa sociale». La pressione fiscale risulterebbe invece in calo di 0,3 punti «leggendo la misura in termini di effetto concreto per la retribuzione del lavoratore interessato», cioè tenendo conto della riduzione del cuneo fiscale.

Il Sole 3.3.15 
Gennaio 11mila posti di lavoro in più
Nel 2014 disoccupazione record a 12,7%
di Rossella Bocciarelli


ROMA Il primo mese del 2015 ha portato con sé qualche sintomo di miglioramento sul mercato dell’occupazione e l’emorragia di posti di lavoro sembra essersi interrotta. A segnalarlo è l’Istat, che rimarca come il tasso di disoccupazione a gennaio si sia attestato al 12,6%: dopo il calo di dicembre, il tasso di disoccupazione per la seconda volta è diminuito di 0,1 punti percentuali, tornando sullo stesso livello di 12 mesi prima.
Anche sul versante dell’occupazione in gennaio il numero degli occupati ha segnato variazioni positive, dopo la crescita di dicembre. Lo scorso mese, infatti, gli occupati erano 22 milioni 320 mila, con un lievissimo incremento rispetto a dicembre (+11mila) e con un aumento dello 0,6% su base annua (+131.000).
Il dato tendenziale d’inizio anno è stato commentato con soddisfazione dal presidente del Consiglio: «Più 130mila posti di lavoro nel 2014, bene ma non basta», ha scritto su Twitter Matteo Renzi. Soddisfatto anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, secondo il quale quello di gennaio «è un risultato incoraggiante dopo diversi anni di caduta dell’occupazione, che - insieme ai segnali positivi di crescita della produzione industriale e della fiducia di imprese e consumatori - fa intravedere la possibilità di un 2015 migliore per l’occupazione e l’economia, con un quadro di maggiore stabilità in grado di favorire gli investimenti delle imprese».
Anche il tasso di disoccupazione dei giovani in età compresa fra i 15 e i 24 anni registra una diminuzione dell’incidenza e in gennaio si attesta al 41,2%, due punti percentuali in meno che a gennaio 2014.«In un paese caratterizzato da una strutturale bassa occupazione, dà particolare ottimismo che il tasso di occupazione, cioè la percentuale di occupati sulla popolazione tra i 15 e i 64 anni, sia anche esso in crescita - aggiunge il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei. «Di fronte ai primi veri segnali di crescita - conclude -rimane sulla politica l’obbligo di consolidarli mantenendo la prospettiva delle riforme».
I segnali incoraggianti, che ben s’intonano ai primi segni di ripresa economica in arrivo, non cancellano, naturalmente, la realtà estremamente difficile che l’Istat fotografa attraverso i dati medi relativi all’anno che si è appena concluso: nella media del 2014, ricorda infatti l’Istituto il tasso di disoccupazione in Italia ha toccato il 12,7% contro il 12,1 per cento del 2013: si tratta del massimo dal 1977 ed è la conseguenza tangibile di due recessioni che hanno comportato per l’Italia una diminuzione cumulata del prodotto pari a 9 punti percentuali e una contrazione complessiva dei consumi pari a otto punti percentuali.
Nel 2014, rileva ancora l’Istituto di statistica, la crescita della disoccupazione è ancora continuata, con un aumento di 167 mila unità (+5,5%) che ha interessato sia gli uomini che le donne e ha investito tutti i quadranti territoriali dell’economia italiana. L’aumento è dovuto in sette casi su dieci a quanti sono alla ricerca della prima occupazione, spiegano gli esperti dell’Istat mentre è salita, dal 56,4% del 2013 al 60,7 del 2014 la quota della disoccupazione di lunga durata(dodici mesi o più). Rispetto alla media nazionale del 12,7%, poi, il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno ha raggiunto il 20,7 per cento.
Sempre nel 2014, dopo due anni di calo, è tuttavia tornata ad aumentare, in media, l’occupazione, con una crescita dello 0,4%( pari a 88 mila unità in più rispetto all’anno precedente). Questo incremento è peraltro il frutto di un aumento dell’occupazione pari, nel Nord Italia, allo 0,4% e nel Centro al +1,8% a fronte di un nuovo calo nel Sud (-0,8 per cento). Sono aumentati tanto gli uomini occupati (+0,2%, pari a 31 mila unità) quanto, in particolar modo le donne (+0,6% pari a 57 mila unità).
I dati dell’Istat sono stati accolti con un cauto ottimismo dall’ufficio studi della Confcommercio: «Siamo davanti a dati che, seppur di modesta entità, rafforzano i segnali positivi già emersi a dicembre e che sembrano indicare il superamento della fase più critica». Analogamente, il centro studi Prometeia ricorda che, accanto ai segnali di miglioramento, che potranno consolidarsi con il rafforzamento della ripresa, nel mercato del lavoro restano aree di grande fragilità: i giovani, il Sud, la disoccupazione di lungo periodo fra gli adulti.

il Fatto 3.3.15
De Luca candidato fuorilegge
Il sindaco di Salerno che trionfa alle primarie del Pd è stato condannatoi in primo grado e ora spera nel ricorsoi al Tar per poter arrivare in Regione
di Enrico Fierro


Sindaco, ma lei lo sa che se vincerà le elezioni non potrà varcare il portone della Regione a Santa Lucia? ”. Vincenzo De Luca, trionfatore alle primarie del Pd in Campania, fulmina con lo sguardo il cronista e ascolta. “Arriverà un messo dalla Prefettura e le dirà che non è eleggibile e non potrà essere il Governatore della Campania”. E allora Vincenzo mette da parte la furia di Vicienzo ‘o gladiatore (nomignolo affibbiatogli dai suoi supporter) e fa il diplomatico. “Vuol dire che saluteremo il messo e faremo subito ricorso al Tar”. Che pasticcio brutto le primarie nella regione che fu di Bassolino. Si è votato e ha trionfato l’indesiderabile: 73.596 voti su 145mila elettori contro i 63mila del suo competitor principale Andrea Cozzolino. Il 50,7%, un plebiscito (30mila voti su 42mila) a Salerno e Provincia, il suo inattaccabile regno. Ha stravinto De Luca, ma è diventato Vicienzo ‘ o problema. La grana grossa per Matteo Renzi, verso il quale il vincitore ha sempre parole di ossequio, di stima e amicizia, ma al quale ha rovesciato addosso la bomba a tempo della legge Severino.
“UNA NORMA demenziale che non può condizionare la vita democratica. Mi sono candidato anche per questo, per fare una battaglia di democrazia e di civiltà del diritto. Sono stato condannato per abuso d’ufficio, ma solo per ragioni linguistiche... Farò la campagna elettorale senza imbarazzo alcuno, anzi, l’imbarazzo è dei gruppi parlamentari. Non perdano neppure un minuto per ripristinare il diritto, il rispetto del voto dei cittadini e anche il buonsenso”. E Renzi, il Pd? “Per la prima volta il vicesegretario del partito Debora Serracchiani ha riconosciuto che c’è un problema e che verrà risolto”. Sarà questo il refrain che De Luca userà per tutta la campagna elettorale: la Severino cambierà. Ma anche lui sa che si tratta solo di propaganda. Si vota il 10 maggio e, ammesso che Matteo Renzi voglia imbarcarsi in questa storia, non ci sono i tempi tecnici per modificare la legge. La confusione è enorme, la questione è per molti aspetti inedita e può partorire un vero disastro politico. Andiamo per ipotesi. De Luca vince, non è eleggibile e non può svolgere le funzioni di presidente della Regione. Fa ricorso al Tar per chiedere la sospensiva del provvedimento, nelle “more” della decisione dei giudici amministrativi (come dicono i giuristi) può governare. Quindi formare una giunta e scegliersi un vice. E se il Tar gli dà torto? Viene sospeso per 18 mesi. Fino a settembre del 2016 non potrà sedersi sulla poltrona che desidera da almeno cinque anni. Alla faccia degli elettori che ci hanno creduto e della tanto sbandierata efficienza di governo. Sono scenari che De Luca non prende affatto in considerazione. Ha già il programma pronto (“al primo posto la Terra dei Fuochi, libererò la Campania dallo schifo delle ecoballe”), le alleanze (“voglio almeno tre liste che parlino ai settori moderati”), le aperture a Sel e agli arancioni di Gigi de Magistris (“sarebbe un peccato sprecare voti e avere altri candidati a sinistra”), ma soprattutto vuole che a metterci la faccia nelle elezioni del 10 maggio sia Matteo Renzi. Il quale Matteo, però, non si è ancora pronunciato.
NEPPURE sul risultato delle primarie. Troppe incognite, tante e fastidiose le immagini circolate sul web di elettori che a Napoli come a Salerno hanno votato due, tre, anche quattro volte, con le commissioni provinciali che stanno facendo le nottate per esaminare i ricorsi. Andrea Cozzolino, lo sconfitto che era sicuro di avere la vittoria in tasca, giura che lui di ricorsi non ne farà. “Non voglio buttarla in rissa”, giura, “tuttavia la geografia del voto ci consegna una sorta di pigrizia del popolo napoletano, e una iperattività di quello salernitano”. Circolano voci di dossier su alcune realtà, si sussurra di schede “prevotate”. A tagliare la testa al toro è Assunta Tartaglione, la segretaria regionale del Pd. Raggiante, annuncia che “Renzi verrà a Napoli per tirarci la volata finale”. Tra i notabili e i capicorrente del Pd campano è già iniziata la gara a chi salta prima sul carro di Vicienzo ‘o vincitore. Ricordate Pina Picierno e la sua fonderia delle idee? Giorni di bla bla bla sulla Campania e soprattutto sulla volontà di costruire una nuova classe dirigente? Un flop, la Piedigrotta delle parole al vento. Ora Pina manda affettuosi tweet al vincitore. E Gennaro Migliore, l’ex pupillo di Fausto Bertinotti che tradì l’amato Nichi Vendola per approdare al Nazareno? Renzi lo aveva fornito di furgoncino anni Ottanta con la scritta “Vai mo” convincendolo che poteva essere lui l’uomo nuovo. È finita con un mesto ritiro. Saltano tutti, e a tutti Vicienzo ‘o magnanimo è disposto a concedere “‘o perdono”. Sarà il politico acchiappa tutto. Pronto ad offrire un approdo alla destra in crisi di astinenza da Berlusconi, farà ponti d’oro a de Magistris, ma a patto che non disturbi con liste sue, e tratterà coi guanti bianchi il suo partito, il Pd. Ma ad una condizione: cancellare la Severino e subito.


il Fatto 3.3.15
Ma è già pronta la legge ammazza-Severino
La proposta di legge vuole togliere l’abuso d’ufficio dalle cause di inelleggibilità
di Paola Zanca


Nei cassetti della Camera è arrivata in tempi non sospetti, subito dopo la condanna di Luigi De Magistris. E lì è rimasta, in attesa che la commissione Affari Costituzionali la prendesse in mano. Ma adesso è arrivato il momento di tirarla fuori, e pure di fretta. In quella proposta di legge c’è la modifica alla legge Severino che può tirare fuori dai guai Vincenzo De Luca, appena proclamato dalle primarie candidato del Pd alla presidenza della Regione Campania.
L’ASSO NELLA MANICA di De Luca porta la firma di un suo fedelissimo, l’avvocato salernitano e deputato del Pd Fulvio Bonavitacola. Se Berlusconi si appella all’Europa contro la retroattività della Severino, se la Consulta deve pronunciarsi sul parere chiesto da de Magistris e da un consigliere regionale pugliese, Bonavitacola ha intuito che c’era un’altra via da percorrere: togliere l’abuso d’ufficio dai reati che determinano la sospensione e la decadenza dalle cariche elettive. Ovvero, eliminare il problema alla radice. È l’abuso d’ufficio quello che ha portato alla condanna di De Magistris (per la verità, per questioni che riguardavano la sua attività di magistrato, non quella di sindaco) ed è l’abuso d’ufficio che pesa su Vincenzo De Luca. “La legge Severino - spiega Bonavitacola - ha una scarsissima tutela per gli amministratori, che possono incorrere facilmente nel reato di abuso di ufficio”. Spiega il deputato Pd che quella fattispecie non era indicata nell’elenco dei reati che già una legge del 2000 prevedeva per l’incandidabilità alle cariche pubbliche locali. E aggiunge che la legge delega con cui il Parlamento affidò al governo Monti il compito di redigere la Severino prevedeva sì l’aggiunta di nuovi reati, ma solo quelli relativi a casi di “grave allarme sociale”. Categoria entro la quale, ragiona, non può rientrare l’abuso d’ufficio.
SOSTIENE Bonavitacola che da parte di Monti e dei suoi compagni di governo ci fu un eccesso di zelo, dovuto alla “smania” di presentarsi alle elezioni con la patente di “moralizzatori” del Paese. Non è il solo, per la verità, a ricordare come, in quella fine di dicembre del 2012, la stesura della legge avvenne in modi francamente singolari: restò all’esame delle commissioni della Camera solo per 48 ore, al Senato addirittura 24, tre giorni prima che il Parlamento venisse sciolto. “Fermo restando che in quella legge c’è un rigore che ha ridato credibilità al Paese - spiega oggi il deputato Pd Francesco Sanna - andrebbero rivisti molti aspetti, a cominciare dal rapporto con gli uffici anticorruzione”. L’attenzione, in quel frangente, era già rivolta altrove. E nei corridoi del palazzo, perfino i funzionari degli uffici legislativi dei ministeri confessano che, col senno di poi, quella legge non l’avrebbero scritta in quel modo.
Così è cominciata la trafila per smontarla. Per De Luca si tratta di una “battaglia di civiltà giuridica”. E si fa forte delle parole del vicesegretario Pd Debora Serracchiani che, tre giorni fa, aveva chiesto “chiarezza” su una legge che, nella sua attuazione, ha creato situazioni di “incertezza” come quelle di Napoli e Salerno.
GIÀ PERCHÈ, come noto, in entrambi i casi, alla sentenza di condanna e alla conseguente sospensione dall’incarico, è immediatamente seguito un ricorso e un altrettanto rapido reintegro nelle funzioni di primo cittadino. Difficile immaginare che l’eventuale elezione a governatore campano segua un percorso diverso. “Chiariamoci - spiega ancora Bonavitacola - De Luca è candidabile ed è eleggibile. Verrà proclamato, nominerà la giunta, arriverà la sospensione, si farà immediato ricorso e il Tar sospenderà la sentenza. Sarebbe compito del Parlamento avere nel frattempo sanato questa situazione, senza aspettare il parere della Consulta”. Bonavitacola ha già allertato il presidente della commissione Affari Costituzionali Francesco Paolo Sisto (che fa sapere: “Va a finire che quella legge alla fine si applica solo a Berlusconi”). La modifica va fatta in fretta anche se, assicura il braccio destro di De Luca, “non c’è il patema di maggio”. Ci penserà il Tar, prima. Ma il Parlamento - chiosa la deputata campana Luisa Bossa - “non può vanificare il lavoro fatto in questi mesi: bisogna trovare un modo per sanare il vulnus. I cittadini hanno dato fiducia a De Luca, domenica è stata una bella giornata di democrazia, non facciamoci del male”.

il Fatto 3.3.15
Paolo Macry Lo storico napoletano
“Ha vinto Mr. Scassatutto”
di Vincenzo Iurillo


Professor Macry, il Pd candida un condannato alle primarie in Campania e la società civile lo vota.
Beh, sicuramente Vincenzo De Luca è stato l’unico capace di intercettare il voto di opinione.
Si aspettava la sua vittoria?
Sinceramente no. Comunque non in questi termini (Paolo Macry è docente di storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli ed editorialista politico del Corriere del Mezzogiorno, ndr).
De Luca è un condannato per abuso d’ufficio, tecnicamente ineleggibile.
Questa cosa non ha contato.
Perché ha prevalso il voto organizzato?
Non c’è dubbio che in certi seggi e in certi territori abbia avuto la meglio lo spiegamento di truppe cammellate e i rapporti tra i candidati e i sindaci. Questo però ha riguardato sia De Luca che Cozzolino. Ma quando De Luca dice che il suo è un voto d’opinione, sicuramente esagera però un po’ di verità c’è. Basta leggere il dato di Napoli, dove l’ex sindaco di Salerno ha ottenuto un risultato sopra le attese.
Che tipo di voto d’opinione ha raccolto De Luca?
Un’ipotesi da non scartare è che De Luca abbia raccolto consensi in cittadini napoletani scontenti della giunta de Magistris, che vedono in Salerno un modello di città gradevole e vivibile. Ma oltre a godere del buon nome di un’esperienza amministrativa, meritato o immeritato non saprei, De Luca è apprezzato per le maniere spicce e per un radicalismo verbale che ha bucato nell’elettorato. Mentre non ha bucato affatto il linguaggio di Cozzolino, tanto meno quello di Di Lello, e chissà se avrebbe bucato il linguaggio di Migliore.
Un sondaggio pubblicato su Il Mattino dava De Luca come il candidato più forte contro Caldoro.
Un piccolo pezzo di opinione pubblica napoletana ha accreditato in De Luca il cambiamento. Perché ‘scassa tutto’. E non escludo che De Luca abbia pescato in un bacino d’opinione di centrodestra.
Un giudizio su queste primarie.
Sono state un teatrino poco edificante. Ma 150.000 elettori non neutrali alla fine si sono espressi verso una forma di mutamento della politica locale.

il Fatto 3.3.15
Il personaggio Un potere ininterrotto
Vicienz, il rottamatore anziano alla guerra dei cafoni
di Antonello Caporale


Non è soltanto un cortocircuito etico e politico a rendere la candidatura a governatore di un condannato un atto – pur se formalmente legittimo – tecnicamente sovversivo. Dimostra ancora una volta che chi ha i voti non ha bisogno di rispettare la legge, nella conferma eterna che la sovversione, specialmente a Sud, è pratica comune e assai apprezzata.
Vincenzo De Luca, che di anni ne ha sessantasei, da oggi è non solo la personalità del Pd campano più votata, ma anche il leader della rottamazione, del “cambiaverso”. Tempo poche settimane e sarà lui – non altri – il capopopolo che chiamerà tutto il Mezzogiorno alla riscossa.
In effetti De Luca è avanti a Renzi di molti passi. Trent’anni fa, quando Matteo era ragazzino di parrocchia, Vincenzo (Vicienz, secondo il registro popolare) iniziò a rottamare la lingua italiana. Le parole colte di una sinistra che lui già intravedeva come minoritaria e perdente furono collocate nell’albo della memoria. Si era accorto che per interpretare una società schiettamente clientelare, allergica alle regole, ai doveri (e alla cultura), doveva utilizzare un frasario contiguo e omogeneo. L’antipolitica nasce con lui. Giunto alla poltrona di sindaco di Salerno, amministra attraverso un colloquio televisivo con i cittadini. Parla, accusa, decide, incita, oltraggia o ingiuria via etere.
CAFONE DIVIENE la parola clou del vocabolario. Cafone è colui che imbratta e colui che contesta. Cafone è il diverso, cafone è chi non rispetta le regole e – cafoni o figli delle chiancarelle (figli di puttana, cioè) – coloro che invece esigono il rispetto delle regole.
In una città abituata all’anarchia dei comportamenti, alla radice clientelare della propria carriera, la proposta di De Luca di scambiare quel po’ di democrazia che rimane con più efficienza pubblica è accolta immediatamente con grida di giubilo. Ieri su facebook la signora Rubina, sua sostenitrice, ha commentato: “Grande sindaco De Luca, da sempre votato a Salerno da destra e da sinistra. Perchè chi lavora bene, nel segno del fare, chi è concreto e propositivo e – perchè no! - sapientemente autoritario, ha preferenze trasversali. Detrattori invidiosi, mi dispiace: stasera zittitevi”. La signora coglie nel segno: De Luca è uomo del fare. Salerno è zeppa di opere pubbliche. Ed è autoritario, come una società cieca e con una inclinazione intimamente fascista ha voglia di immaginare il suo leader. “Detrattori invidiosi, zittitevi! ”. Visto? Come i gufi di Renzi. A Salerno le strade sono pulite, i marciapiedi in ordine, il lungomare uno splendore. Ma Salerno è anche la città delle ingiustizie, delle camarille dei potenti, degli affaristi di sempre. Città che ha visto edificare un mostro urbanistico, il cosiddetto Crescent, nel silenzio connivente. Il vergognoso mutismo della Sopritendenza, la sonnolenta presa d’atto di una magistratura spesso distratta, la coscienza sporca dei cittadini che al mercato nero della politica avevano delegato al sindaco ogni potere in cambio di favori ha fatto erigere un monumento degno di una democrazia sudamericana.
De Luca dunque è stato proclamato oggi il rottamatore più anziano in attività. Come Matteo, uomo del fare. E come lui nè di destra né di sinistra. Al centro del centro. La Campania degli indifferenti (quando non dei collusi) affiderà il suo riscatto a chi chiede il rispetto delle regole ma per sé dispone una deroga. A chi sbraita contro il clientelismo ma avanza davanti una corte di cortigiani. A chi discorre di civiltà e dignità, ma poi urla e dileggia.
De Luca è un ultras del paternalismo e infatti gli ultras lo amano. Tra un po’ a Scampia diranno quel che dicono i ragazzi salernitani: Vicienz è patr a me. Vincenzo è mio padre.

il Fatto 3.3.15
Il Pd, la centrifuga perfetta per tutti gli arruffi del Sud
di Pietrangelo Buttafuoco


Gli imbrogli fatti a Napoli si sbrogliano a Palermo. Fatte le primarie del Pd in Campania, comincia adesso il vivamaria! in Sicilia. Il partito di Renzi, come ha già riferito Giuseppe Falci su ilfattoquotidiano.it  , si prenota per il “61a 0”. Il plebiscito elettorale che fu di Micciché (alla testa dell’esercito di Berlusconi nel 1994) si ripete oggi con Davide Faraone, vice-ministro alla Pubblica istruzione, certo com’è di poter consegnare l’Isola a Matteo. Vecchi e nuovi fusti del potere, infatti, si sono presentati alla “Leopolda” di Sicilia e hanno scelto il Pd. “A Napoli fannu i strummuli e a Palermovannoavenderli”. Questo, in tema di ‘nguacchio politico-amministrativo, era il motto del Regno delle Due Sicilie. E l’aggrovigliata vicenda campana è pronta a diventare un arruffo siculo prima che si ripeta la favola madre di tutte le primarie. Quando, nel dicembre 2012, Vladimiro Crisafulli, stravinse le primarie del Pd, ma – mascariato di ogni nefandezza – non venne candidato e gli venne comunque preferito Francantonio Genovese, decaduto da parlamentare, attualmente agli arresti domiciliari per truffa e peculato nonché stampato in bella vista tra gli evasori dell’elenco “Falciani”. Strummuli in ogni dove. Gli elettori delle primarie in Campania che hanno detto sì a Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, hanno intanto fatto un 160.000 a 1, laddove la singola unità sconfitta è Roberto Saviano, lo scrittore che aveva rivolto un appello alla diserzione delle urne inquinate, se non dalla criminalità, dalla politica del consociativismo plebeo. Un appello caduto nel vuoto e però – nel duello ingaggiato contro il sindaco di Salerno – rivelatore di una specialità tutta sciuè sciuè e tutta meridionale. Saviano e De Luca, insomma, sono le due facce dello stesso populismo. Il primo è glamour, il secondo è carismatico e se si pensa che tra Napoli e dintorni, dopo quei due, si aggirano anche Luigi De Magistris e Pina Picierno, a proposito della proverbiale questione meridionale viene da pensare: fosse forse la questione vera che uno normale, di politici, senza eccessi sgargianti, non se ne trova in tutto il Sud? Ed è diventato un problema tutto della sinistra dove pure non sono mancati i protagonisti di stagioni responsabili e importanti, da Nichi Vendola in Puglia, alla “primavera di Palermo”, con Leoluca Orlando.
Tutto, oggi, declina nel cortocircuito dei populismi. Rosario Crocetta, in materia di vivamaria!, è il portabandiera ma anche Michele Emiliano, ex sindaco di Bari, corrisponde all’identikit di scazzi e sudori; come Mario Oliverio, in Calabria, presidente della Regione, votato prima alle primarie e poi, per tramite delle liste civiche, dagli scopellitiani (nel senso di Giuseppe Scopelliti, ex Pdl, oggi Ncd) ; o i “Pittella-boys”, ossia Gianni, capogruppo del Pse al Parlamento Europeo, e Marcello, attuale governatore della Basilicata. Più che personalità, sono personaggi, tutti titolari del pittoresco plebiscitario dove il renzismo si coniuga a forza con il realpolitik.
Come per il babà, però, così è per il cannolo. Ed ecco l’arruffo. È la lavatrice per eccellenza, il Pd, una centrifuga risultata perfetta, in Sicilia, per gli orfani di Forza Italia, per i clienti di Raffaele Lombardo – il Predecessore di Crocetta alla presidenza della Regione – e poi ancora per gli affezionati devoti del predecessore del Predecessore: le pecore del gregge disperso del povero Totò Cuffaro prontamente accolte da Renzi che tutto può rottamare ma non il granaio elettorale.
Il plebeismo del Sud, in Sicilia, diventa trasformismo. Ecco alcuni dei cavalli passati da una scuderia all’altra: Luca D’Agostino, ex capogruppo dell’Mpa di Lombardo nel parlamento siciliano; Valeria Sudano, ex sodale di Saverio Romano; Nello Dipasquale, ex sindaco forzista di Ragusa; Adelfio Elio Cardinale, ex sottosegretario nel governo di Mario Monti, nonché amico di Renato Schifani e di Angelino Alfano, assessore, a suo tempo, di Cuffaro.
Plebei e plebisciti. Delle Due Sicilie, una: a Napoli hanno fatto i strummuli, a Palermo – manco tempo – sono già arrivati ai saldi.

Repubblica 3.3.15
Ma non doveva essere candidato
di Gianluigi Pellegrino


SOLO una demagogia superficiale può addebitare alle norme il pasticcio istituzionale innescato dalla candidatura De Luca. Un candidato che, se eletto, dovrebbe essere immediatamente sospeso sino a settembre 2016. Un pasticcio da non sottovalutare perché rischia di attivare un cortocircuito tra popolo e legge.
NON già per colpa della legge stessa, ma per un’ignavia politica sul terreno della coerenza tra opzioni legislative e scelte impegnative, siano anche dure o dolorose. È evidente infatti che il Pd, che pure la Severino ha voluto con forza, ha inopinatamente sperato che nella vicenda campana la questione si risolvesse senza essere affrontata, grazie se mai all’affermazione nei gazebo prima di Migliore e poi di Cozzolino, dopo il polemico ritiro del primo.
Ed invece, come sempre, i nodi vengono al pettine e l’ignavia mostra la corda, a prescindere da ogni libero giudizio politico sull’ex sindaco di Salerno.
La legge Severino infatti, magari opinabile sul fronte di alcune sue rigidità non può certo cambiarsi in corsa quando in decine di casi, municipi, regioni (e non solo per Berlusconi) ha già prodotto effetti, espressamente validati dai giudici. E tanto meno la si può cambiare ad hoc per supplire alla incapacità di essere conseguenti con la sua approvazione.
Né può invocarsi il precedente De Magistris che è fondato sulla opposta circostanza di una candidatura che precedeva sia la legge che la condanna. Come non appare particolarmente apprezzabile, e se mai vagamente vigliacco, voler rimettere ai giudici amministrativi il cerino di una improponibile scelta tra il rispetto della legge ed un malinteso furor di popolo.
Quella legge in realtà con assoluta coerenza almeno con gli obiettivi che si dichiarò di voler perseguire sull’onda degli scandali, connette effetti definitivi solo a sentenze anch’esse definitive, mentre con la proporzionalità tipica di uno stato di diritto, applica la misura cautelare della sospensione dalla carica, a fronte di pronunce di primo o secondo grado non ancora passate in giudicato.
La incandidabilità, e cioè il divieto di partecipare ad una determinata elezione, è in sé una misura definitiva: la legge quindi non poteva comminarla dinnanzi a sentenze ancora appellabili. Per questo De Luca, condannato dal tribunale per un reato contestato nell’esercizio di pubbliche funzioni, se da un lato è formalmente candidabile, dall’altro se eletto dovrà essere immediatamente sospeso per parallela inequivoca disposizione normativa, voluta a tutela delle istituzioni, dagli stessi partiti che però quando la scelta si fa impegnativa sembrano dimenticarlo.
Peraltro il sistema della sospensione in presenza di condanne in primo grado è da decenni presente nell’ordinamento. La Severino l’ha solo esteso dai reati di criminalità organizzata a quelli in danno della pubblica amministrazione. E giammai per una qualche indebita compressione della presunzione di innocenza che nessuno mette in discussione, ma per una, se vogliamo radicale, scelta legislativa che si è voluta a salvaguardia delle funzioni pubbliche. Non a caso la stessa legge è stata attenta a distinguere tra reati comuni, commessi in ambito privatistico e reati invece contestati nell’esercizio di mandati o mansioni di pubblica rilevanza. Mentre per i primi ha previsto che la sospensione dalla carica possa scattare solo in presenza di condanne ad almeno due anni di reclusione e solo in ipotesi di sentenza di appello che confermi il primo grado; invece per i reati commessi abusando di funzioni pubbliche, in coerenza con i valori che si dichiarava di perseguire, ha alzato l’asticella di tutela delle istituzioni prevedendo che una pronuncia di responsabilità comporti sempre il cautelare allontamento dalla gestione amministrativa.
La stessa legge ha ulteriormente differenziato tra le due grandi categorie di reati. Mentre per quelli privatistici ha attribuito rilievo prevalente al mandato rappresentativo in caso di eventuale successiva elezione consentendo il mantenimento della carica sino alla sentenza definitiva, scelta diversa ha compiuto per le condanne dovute ad abuso del pubblico potere, sancendo in questo caso sempre l’operatività della sospensione dalle funzioni; qui giustamente fuggendo dalla pericolosa teoria del plebiscito che creerebbe l’unto dal signore, uno ius singulare persino rispetto all’interesse generale di salvaguardia dei pubblici uffici, per come il Parlamento l’ha voluta garantire.
Risulta quindi evidente come a creare il paradosso di un candidato presidente di Regione che se eletto dovrebbe essere immediatamente sospeso, non è certamente la norma quanto la evidente difficoltà delle forze politiche che da un lato in Parlamento spinte dagli scandali, alzano la soglia della salvaguardia delle istituzioni, ma dall’altro quando si trovano a farvi i conti, balbettano o sperano nella misericordia. Quel che è peggio rischiando così di generare danni che vanno ben al di là della contingenza, perché innescano occasioni di conflitto anche clamoroso tra popolo e legge, democrazia e stato di diritto, plebiscito e questione morale, alimentando lo sbandamento collettivo e, se possibile l’ulteriore perdita di un senso civico di cui certo non denunciamo abbondanza.


Repubblica 3.3.15
Le incoerenze del premier nelle primarie
De Luca è stato sospeso e poi è decaduto da sindaco. È difficile adesso voltare pagina e abbracciarlo
di Stefano Folli


VINCENZO De Luca fino a domenica mattina era un fastidioso e persino imbarazzante candidato a cui Renzi e tutto il Pd avevano tentato in ogni modo di tagliare la strada, senza riuscirci. Da domenica sera De Luca è il vincitore delle primarie in Campania e i suoi avversari sono costretti, almeno sulla carta, a farselo piacere. Ma non è così semplice.
Per il premier-segretario appoggiare De Luca diventa da oggi in poi una contraddizione in termini. Può farlo, naturalmente. E ci sono ottimi argomenti, legati alla «realpolitik », che potrebbero indurlo a tale scelta. In fondo la Campania è terra di «cacicchi » fin dai tempi di D’Alema e sostenere il neo-vincitore delle primarie nella sua sfida al presidente uscente Caldoro, uomo di Forza Italia, rientra nella più ovvia logica politica. Tuttavia Renzi, molto più dei suoi predecessori, ha legato il suo successo all’immagine e alla retorica del rinnovamento. Ne ha fatto il marchio distintivo di una svolta epocale, ammiccando allo spirito anti-casta serpeggiante nel paese: no alla vecchia classe dirigente, alle zone d’ombra, al clientelismo, ai feudi personali.
È un vasto programma che ha consentito più di un anno fa al presidente del Consiglio di imporre la sua leadership a un Partito Democratico un po’ estenuato. E qui non si tratta di un’astuzia tattica, bensì di uno standard morale. Se la norma viene fatta valere a Roma, non può essere dimenticata a Napoli. In altre parole, se l’ex sindaco di Salerno — peraltro conosciuto per la sua efficienza — è stato contrastato fino a ieri a causa delle sue note vicissitudini di amministratore condannato (per abuso di ufficio), sospeso e decaduto, è alquanto difficile adesso voltare pagina e abbracciarlo solo perché ha vinto il duello rusticano delle primarie senza regole. Forse bisognava pensarci prima, ma proprio la confusione di queste votazioni in stile Far West rende impossibile fare chiarezza a tempo debito senza rischiare un conflitto autolesionistico. Si spera che i nodi non vengano al pettine, ma quasi sempre ci arrivano.
Quindi l’alternativa è ormai chiara. O Renzi salvaguarda se stesso, difendendo la propria immagine e l’epica del riformatore intransigente, o sceglie di sostenere senza riserve il candidato «governatore» (uomo, peraltro, che si è presentato quasi come un indipendente, un lupo solitario forte di un ampio consenso personale). In ogni caso il segretario del Pd non potrà restare, come si dice, in mezzo al guado. La prima ipotesi vuol dire obbligare De Luca al ritiro (ma come?) ovvero disconoscerlo e mettere nel conto una frattura verticale e una corsa solitaria del candidato al di fuori della cornice sia pure labile del Pd.
La seconda ipotesi è assai costosa per Renzi perché vuol dire entrare in pesante contraddizione con la propria filosofia politica, soprattutto nel rapporto con l’opinione pubblica. E c’è un motivo preciso. Poiché De Luca, nel caso di vittoria finale a maggio, è destinato a essere bloccato dalla legge Severino a seguito della condanna ricevuta, appoggiarlo oggi vuol dire una sola cosa: modificare la legge Severino. Correggerla quel tanto che basta per permettere al candidato eletto, e ad altri nella stessa situazione, di passare attraverso la cruna dell’ago. È quello che vuole De Luca, ovviamente, e lo sta già proclamando ad alta voce. Ma non può essere quello che vuole Renzi, proprio in coerenza con il ruolo che egli stesso si è auto assegnato.
Altri non avrebbero questo imbarazzo. Ma il presidente del Consiglio «rottamatore » ha ridimensionato Beppe Grillo, nel corso di questi mesi, proprio sottraendogli alcuni temi e declinandoli in forma più verosimile. Cambiare la legge Severino per favorire un proprio candidato gravato da una condanna è qualcosa per cui Renzi pagherebbe un prezzo troppo alto nel suo mondo e nel suo elettorato. Non sempre Parigi vale una messa. E nemmeno Napoli.

il Fatto 3.3.15
Il fronte fascioleghista avanza ma è già vecchio
Dai reduci missini alle camicie verdi sedute in poltrona da vent’anni
Così la piazza dell’altro Matteo si propone come il nuovo, ma è già stantia
di Fabrizio d’Esposito


Non c’è nulla di più stantìo del sabato fascista di piazza del Popolo, quello santificato dal mussalvinismo (Mussolini più Salvini) nero-verde. Di stantìo e contraddittorio. Il presunto lepenismo all’italiana, in nome del nuovo collante dell’antirenzismo, fa sposare la secessione o il federalismo con il nazionalismo autarchico del tragico Ventennio. Un ossimoro populista e xenofobo. Premesso che i dodicimila di piazza del Popolo non sono un fenomeno nemmeno dal punto di vista dei numeri, è la stessa Lega dell’altro “Matteo” il primo partito a essere vecchio. La faccia del quarantenne Salvini (peraltro in politica già dal 1993) è il feticcio del Carroccio poltronista sopravvissuto alla stagione del cerchio magico di bossiana memoria. Il governatore lombardo Roberto Maroni e l’ex ministro Roberto Calderoli, bene in vista sul palco dell’ultimo sabato di febbraio, e poi il sempre silenzioso Giancarlo Giorgetti, ex delfino del Senatùr oggi riciclatosi come consigliere filo berlusconiano di “Matteo”.
UNO DEI CASI più emblematici di questo vecchio che avanza è rappresentato da Alberto Arrighi. Ex Fronte della Gioventù, ex missino, poi parlamentare di An, anche con responsabilità importanti di partito, infine nella Destra di Francesco Storace. Ecco, Arrighi è rispuntato sabato accanto a Simone Di Stefano, quando il vicecapo mussoliniano di Casa Pound ha preso la parola sul palco blu, modello Marine Le Pen. Di Stefano comiziava e Arrighi con altri tre camerati reggeva il vessillo blu con tre spighe di grano del movimento “Sovranità”. Un dettaglio rivelatore: Casa Pound nel momento del suo sdoganamento ufficiale ha optato per una bandiera meno fascista e più recente della propria, quella con la tartaruga. In ogni caso resta un mistero l’attrazione salviniana per i fascisti del Terzo Millennio di Casa Pound guidati da Gianluca Iannone. I loro numeri alle elezioni sono irrisori: 26mila voti alle ultime Regionali del Lazio, poco più di 47mila alle politiche (Camera) del 2013. Sono cifre da “ghetto”, tipiche di quella microdestra estremista che si è sempre contata sui decimali e non ha mai raggiunto, per la sua irrilevanza, palcoscenici di livello. Non a caso, lo stesso Di Stefano si è scusato coi suoi camerati, successivamente, per non aver citato i Marò. Colpa, ha scritto su Twitter, dell’emozione. Appunto.
DALLA MICRODESTRA mussoliniana a quella postmissina, disintegrata dall’esplosione e dalla fine di An. Un’altra sigla che ha fatto da “apri-concerto” all’intervento conclusivo di Salvini è quella dei Fratelli d’Italia, partitino che detiene la maggioranza nella fondazione di An (quella che amministra soldi e immobili). Anche qui nulla di nuovo sotto il sole delle Alpi e degli Appennini: Giorgia Meloni, che ha abdicato obtorto collo al ruolo di Marine Le Pen italiana (i numeri sono numeri: meno del 4 per cento alle Europee del 2014), seguita da altri ex missini, ex an, ex pdl. Come Ignazio La Russa, Fabio Ram-pelli, Massimo Corsaro. Non solo, la Meloni è salita sul palco in compagnia di Isabella Rauti, figlia di Pino, che con il marito Gianni Alemanno ha fondato un cantiere per riunire la diaspora della destra postfascista. In campo anche Barbara Saltamartini, ex Ncd. Mancava solo Storace, comunque attento sia ai movimenti di Salvini, sia a quelli del forzista ribelle Fitto. A proposito dell’ex governatore del Lazio: nel marzo di tre anni fa portò in piazza a Roma ventimila persone reali a manifestare contro Monti. Almeno ottomila in più di sabato scorso. Fra tante facce note e riciclate l’unica effettivamente nuova è stata quella di Armando Siri, che ha fondato il Pin, Partito Italia Nuova, ed è il teorico della flat tax al 15 per cento, cavallo di battaglia salviniano. L’unico liberale, forse, in questa compagnia dell’anello mussalviniano.

LEGA NORD Salvini l’ha fatta risorgere dopo gli scandali dei bossiani. Ma la Lega poltronista di Maroni e Calderoli fa parte del nuovo cerchio magico
FRATELLI D’ITALIA
Il partitino di Meloni e La Russa vale meno del 4 per cento e raduna riciclati della destra degli ex An, in cerca di un nuovo treno del vincitore
CASA POUND I mussoliniani del Terzo millennio di Iannone e Di Stefano, hanno preso 47mila voti alle ultime Politiche. È una microdestra estremista mai rilevante
PARTITO ITALIA NUOVA L’ha fondato Armando Siri, economista che ha suggerito a Salvini l’aliquota unica (la cosiddetta flat tax) del 15 cento
SOVRANITÀ Le bandiere di questo nuovo movimento si sono mischiate con quelle di Casa Pound. L’ha fondato Alberto Arrighi, ex FdG, ex Msi, ex An, ex La Destra
NOI CON SALVINI È il logo che dovrebbe consentire lo sbarco del Carroccio al centro e nel Mezzogiorno. L’organizzatore è il senatore leghista Raffaele Volpi

il Fatto 3.3.15
Visti dall’alto
Il falso storico di Piazza del Popolo “gremita”


Da due giorni la romana Piazza del Popolo di Matteo Salvini viene descritta come “piena” e “gremita” dalla gran parte dei quotidiani (a eccezione di Messaggero e Avvenire) che però non danno i numeri. Bene. I numeri sono questi: si va da un minimo di 12 mila a un massimo, forse, di 20 mila. Significa che la piazza era vuota a metà. Scrivere o affermare il contrario è un falso giornalistico destinato a diventare un falso storico. Alle 14 e 40, quando mancavano venti minuti alla manifestazione, la folla, a partire dal palco sotto al Pincio, non arrivava all’obelisco. Poi sono calati un paio di migliaia di fascisti di Casa Pound. A dimostrare il flop del sabato fascista è il confronto con altre piazze del Popolo. Quella di Grillo, era il maggio del 2013, fu la più piena tra quelle convocate per la chiusura della campagna elettorale del Campidoglio (e si parlò di 10mila). In centomila arrivarono per le donne di “Se non ora quando” nel febbraio 2011. E lo stesso Berlusconi, il grande ignorato di sabato scorso, riuscì a radunare la stessa cifra nel marzo del 2013. Per Salvini non c’è solo l’overdose tv, ma anche quella di piazza.
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Il Sole 3.3.15
Istruzione
Scuola, a rischio il decreto assunzioni
Via al solo Ddl: scatti non solo per anzianità, alternanza scuola-lavoro
di Claudio Tucci


È giallo sui provvedimenti sulla scuola attesi oggi pomeriggio sul tavolo del Consiglio dei ministri. Il decreto-legge che contiene il maxi piano di assunzioni di 180mila insegnanti precari che dovrebbe prendere il via il 1° settembre, potrebbe diventare un «disegno di legge» (e perdere così il carattere di urgenza - anche per evitare possibili rilievi da parte del Quirinale). Si punterebbe a coinvolgere maggioranza e opposizione in una delle riforme ritenute strategiche dal Governo. In cambio si chiederà al Parlamento tempi certi sui lavori, e se non ci sarà ostruzionismo si potrà arrivare - ugualmente - a un rapido via libera.
Una decisione finale sarà presa questa mattina. Resta da capire la sorte del ddl delega che contiene le misure “più di sistema” sul fronte Istruzione (se sopravviverà o se le disposizioni verranno anch’esse traghettate nel nuovo disegno di legge).
Il passaggio da un decreto-legge a un disegno di legge potrebbe essere stato dettato dalla composizione del provvedimento d’urgenza che, almeno stando alle ultime bozze, contiene diverse norme non urgentissime (a partire dalla nascita dell’organico dell’autonomia prevista non subito, ma per l’anno scolastico 2016-2017).
Certo è che la scelta di optare per un veicolo normativo “più lento” potrebbe incidere sul piano straordinario di assunzioni di 180mila insegnanti che dovrebbe partire a settembre prossimo (e dovrebbe chiudersi nel 2019). Nelle intenzioni del Governo c’è la stabilizzazione di poco più di 100mila (105mila per la precisione) precari delle Graduatorie a esaurimento e degli idonei-vincitori del concorsone Profumo del 2012 . Sempre a settembre si dovrebbero assumere anche 15mila professori delle graduatorie d’istituto per coprire tutti i posti scoperti dell’organico dell’autonomia (che però, come detto, ufficialmente decollerà solo dal 2016/2017). Questi 15mila docenti avranno una supplenza annuale e una corsia preferenziale nella nuova selezione da bandire entro il 1° ottobre per il triennio 2016-2019 (per complessivi 75mila posti, compresi questi 15mila). Nelle ultime bozze la riserva al nuovo concorso autunnale è stata fissata «fino al 40%» dei posti e varrà anche per gli iscritti nelle graduatorie a esaurimento che non sono stati stabilizzati.
Le disposizioni messe a punto dal Miur prevedono anche che a decorrere dal 2016-2017 il nascituro organico dell’autonomia potrà sostituire i docenti assenti per la copertura delle supplenze temporanee fino a 10 giorni. Per il 2015-2016 invece i posti per il potenziamento dell’offerta formativa potranno essere attivati solo nei limiti fissati dalla legge. Sempre per i docenti la proposta è rendere stabile la valutazione, che si baserà su un sistema di crediti didattici, formativi e professionali, in coerenza con gli obiettivi del piano di miglioramento della scuola. I professori che non soddisferanno determinati requisiti minimi (da fissare con decreto Miur-Funzione pubblica) non avranno diritto all’incremento stipendiale legato al merito (che peserà al 70%). Per il nuovo sistema di progressione economica, nei fatti, non ci saranno risorse aggiuntive in più: si utilizzeranno le economie oggi occorrenti per pagare gli scatti (nel 2015 ci saranno quindi 16,7 milioni per il periodo settembre-dicembre e 272,8 milioni per il 2016). Per i precari stabilizzati il 1° settembre, con oltre di 36 mesi di servizio alle spalle “a termine”, il Miur pensa di riconoscere un indennizzo da 1,5 a 5 mensilità (a seconda degli anni di precariato) per tentare di tamponare gli effetti della sentenza Ue di fine novembre. Per attuare questa misura si autorizza una spesa di 16,6 milioni. Novità anche per i presidi che potranno utilizzare i precari assunti «in altri gradi d’istruzione o altre classi di concorso», seppur non in possesso della relativa abilitazione. Nelle bozze di norme c’è anche lo “school bonus” per gli investimenti privati e nel 5 per mille rientreranno anche le scuole paritarie (per loro potrebbe arrivare la detrazione parziale delle rette pagate dalle famiglie).

Il Sole 3.3.15
Le tre gambe. Assunzioni, merito e autonomia
Una rotta non ancora del tutto chiara
di Eugenio Bruno


Se vivessimo in un’Italia 2.0 capace di conciliare i tempi certi dell’esame parlamentare di una riforma con la tutela dei diritti dell’opposizione la scelta del veicolo normativo sul quale farla viaggiare passerebbe quasi in secondo piano. Ma nel contesto politico e istituzionale nel quale ci troviamo scegliere tra un decreto legge e un Ddl non è una decisione così neutra. Specie se si considera che alcune misure, come l’attribuzione di 120mila nuove cattedre a partire dal primo settembre, necessitano di alcuni tempi tecnici per la loro realizzazione che non si possono ignorare.
Per tutti questi motivi, oltre che per la sequela di rinvii che ha interessato altri provvedimenti dell’Esecutivo in carica (uno su tutti il decreto attuativo della delega fiscale sull’abuso del diritto), lasciano stupiti le ultime vicissitudini che hanno colpito la «Buona scuola» e che porteranno solo il Consiglio dei ministri odierno a decidere sulla strada da seguire per la sua approvazione. Anche perché il governo ha già avuto sei mesi per stabilire la rotta da seguire visto che le linee guida sono state approvate nel settembre scorso e la consultazione pubblica sulle modifiche contenute al loro interno si è chiusa a metà novembre.
La speranza è che lo slittamento sia dettato solo da motivazioni tecniche e non dalle stesse spinte corporative di cui si è avuto un assaggio già nei mesi scorsi. Anche perché la riforma dell’istruzione può dare i suoi frutti solo le tre gambe su cui si regge (assunzioni, merito e autonomia) si muovono in sincrono. Ogni sbilanciamento in una direzione o nell’altra trasformerebbe il tempo trascorso sin qui in un falsa partenza.
A questo auspicio ne segue anche un altro. E cioè che il supplemento di istruttoria sul provvedimento (Dl o Ddl che sia) serva a compiere l’ultimo passo necessario a evitare che l’intera operazione-precari gonfi il numero delle immissioni in ruolo senza tenere in debito conto l’autonomia delle singole scuole.
Nelle ultime bozze del decreto questo pericolo c’era ancora a causa della dissonanza temporale tra la nascita dell’organico dell’autonomia e la sua entrata a regime. Destinare alla sua partenza metà dei neoassunti e rimandare invece al 2016/2017 la sua entrata a regime, con tanto di collegamento ai fabbisogni formativi delle scuole, rischierebbe infatti di ingolfare le cattedre aggiuntive, soffocando sul nascere la stessa autonomia organizzativa e didattica che si vorrebbe potenziare. Non basta scrivere in un articolo che saranno le scuole a decidere in che misura rafforzare alcuni insegnamenti (inglese e musica alle elementari, storia dell’arte e diritto alle superiori) se poi in un’altra norma vengono stabilite ex lege le percentuali di aumento dell’offerta formativa complessiva (2% italiano, 6% matematica, 25% filosofia).
Sempre in tema di auguri ce n’è un altro che va ribadito in questa sede e che interessa il merito. A prescindere dal contenitore prescelto, per la tenuta dell’intera riforma è importante che non sia smontato nè in sede parlamentare nè in ambito sindacale il primo (embrionale) riconoscimento di una carriera per gli insegnanti, che fissa al 70% la quota degli incrementi stipendiali legati alla valutazione.E le vicende delle ultime ore purtroppo qualche dubbio lo fanno sorgere.

Repubblica 3.3.15
Scuola, salta il decreto Renzi: non siamo dittatorelli
Il premier: coinvolgere le opposizioni come chiesto da Mattarella
Oggi via al disegno di legge. Brunetta: finalmente addio muscoli
di Salvo Intravaia



ROMA Salta il decreto legge sulla riforma della scuola che avrebbe dovuto essere approvato dal Consiglio dei ministri oggi. Ieri, in tarda serata, il colpo di scena su quello che alle opposizioni e ai sindacati già sembrava un decreto extralarge non suffragato dai requisiti di necessità e urgenza previsti per un provvedimento di questo tipo. Oggi il governo si limiterà a varare un disegno di legge, chiedendone l’approvazione in tempi certi, ma rimettendosi di fatto alla volontà del Parlamento.
Lo scopo lo ha spiegato lo stesso Renzi ai suoi collaboratori: dare un messaggio al Parlamento e coinvolgere le opposizioni nello spirito delle recenti dichiarazioni del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Non che la vigilia all’interno della maggioranza sia stata tranquilla: basti pensare al pressing dei quarantaquattro deputati a favore degli sgravi fiscali per chi manda i figli alla scuola paritaria. Una scelta di campo non gradita alla minoranza interna del Pd.
Renzi però ha cercato di spostare l’attenzione su un’altra questione, quella dei rapporti con l’opposizione. Ai suoi ha detto di essere stufo per l’accusa di guidare un governo di «dittatorelli» mossa dai leghisti e dal capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta. Di qui la brusca frenata, che ha sorpreso perfino qualche ministro, in primis il titolare dell’Istruzione Stefania Giannini, ma è stata subito accolta con soddisfazione da Brunetta. Apprezzamento per le «intenzioni non più muscolose» del premier, è stato manifestato su Twitter da “Il Mattinale”, la nota politica del gruppo di Forza Italia di Montecitorio.
Resta il nodo dei tempi. Il decreto scuola prevedeva infatti un corposo pacchetto di interventi: dagli scatti di merito per gli insegnanti agli sgravi fiscali per chi va alle scuole private, ma soprattutto l’assunzione di 160mila precari entro settembre, quando inizierà il nuovo anno scolastico. E ora non sono pochi, anche all’interno del governo, a temere che sarà ben difficile onorare questa scadenza.
Renzi non dispera: se tutti saranno rispettosi e attenti, ha spiegato ai suoi, se non ci sarà ostruzionismo, allora le ragioni dell’urgenza saranno garantite anche dal normale dibattito parlamentare. Una sfida in positivo, si spiega nell’entourage del premier, sui contenuti e sul metodo. Ma a questo punto, tutto il progetto di riforma rischia un brusco rallentamento rispetto alla tabella di marcia annunciata dal premier non più tardi di una settimana fa quando, in occasione dell’anniversario dell’insediamento del governo, disse che il decreto sarebbe stato approvato nel successivo Consiglio dei ministri.

Repubblica 3.3.15
Il ministro: sono basita nessuno mi ha avvisato
Ora a rischio per i precari l’assunzione a settembre
di Corrado Zunino


ROMA Alle sei di ieri sera il premier scambia sms con gli uomini (e le donne) che seguono la scuola all’interno del Pd: «Tutto a posto, il decreto fila», scrive. Alle 20.45 Matteo Renzi fa trapelare ai cronisti di Palazzo Chigi la sorprendente novità: niente decreto per le cose urgenti né legge delega affidata al governo per il resto. Va tutto dentro un disegno di legge parlamentare, «e che Brunetta si assuma l’onere di non far assumere 160 mila precari della scuola». I suoi, quelli che nel Pd conoscono la riforma e l’Istruzione, trasecolano: «Qui saltano le assunzioni il primo settembre: per stabilizzare i docenti, metterli a ruolo, costruire l’organico funzionale di ogni istituto, ci vogliono mesi. Non riusciremmo a farcela neppure se il Parlamento approvasse tutto entro l’estate». Si fanno i confronti con gli ultimi provvedimenti: il Job Acts, innanzitutto. No, il piano straordinario sui precari non è compatibile con i tempi di un disegno di legge. Se è così, «bisogna rivedere tutto», dicono i suoi. Le date del concorso da 60 mila persone: «Non si possono fare gli scritti ad ottobre ».
«Sono basita», dice il ministro a chi le annuncia la novità maturata in meno di tre ore, «avevamo messo a posto tutto, con un lavoro di cesello, faticosissimo ». È sconcertata e anche infastidita, Stefania Giannini, ministro che ha provato ad uscire dall’accerchiamento del Pd attorno a viale Trastevere aderendo a quel partito («l’esperienza di Scelta civica era finita»). Ha già conosciuto a settembre le ire del premier, quando “La Buona scuola” non era neppure un librone ben rilegato e Renzi voleva riservare a sé ogni anticipazione. Da allora ha deciso di non opporsi alle decisioni del presidente del Consiglio: la sostituzione del sottosegretario morbido Roberto Reggi con uno decisamente più invasivo come Davide Faraone, la retromarcia a furor di Pd sui test a Medicina (lei li voleva cancellare, sono rimasti) e i cambiamenti sui commissari di Maturità. Ha scelto di lavorare senza conflittualità, la Giannini, e oggi, dopo aver digerito nella notte l’ennesimo colpo di scena senza neppure esserne prima informata, proverà a convincere il premier a stralciare dal disegno di legge almeno la parte delle assunzioni degli insegnanti precari: la più attesa dal mondo della scuola, quella voluta fortemente dallo stesso Renzi. Un “decreto assunzioni scuola”, è l’ultimo tentativo che sarà proposto. Il resto, va bene, dentro un disegno di legge che può servire alle sfide politiche del premier.
È probabile che dietro alla sterzata improvvisa di Renzi ci sia il nuovo corso chiesto dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Lo ha ricordato lo stesso premier, «vogliamo coinvolgere le opposizioni nello spirito del presidente della Repubblica ». Per la “grande stabilizzazione”, poi, nelle bozze non c’era ancora il miliardo annunciato nella Legge di stabilità. So- lo 680 milioni. E poi 2,38 miliardi per il 2016 invece dei tre promessi. Anche i numeri rispetto a settembre si erano ridimensionati: novantamila assunti subito dalle graduatorie, altri diecimila rimasti fuori dal concorso 2012. E poi per 15-18 mila un anno ponte e un concorso a sé. E altri sessantamila nel concorsone 2015-2016. Centosessantamila neo-insegnanti in tutto: 30 mila in meno, a conti fatti, rispetto agli annunci. Pur sempre un’operazione voluminosa. Ora il centrodestra potrà giocare a limare qual piano, che ha sempre definito “un’assunzione clientelare”.
C’era stata, nelle ultime ore, la discussione sugli sgravi fiscali alle famiglie che frequentano le scuole paritarie. E il premier aveva detto: «Sul piano economico è conveniente allo Stato, vediamo se teniamo sul piano politico». Nel disegno di legge, ora, ci sarà, articolo 1, l’autonomia scolastica: prevede che ogni scuola possa farsi il proprio orario. L’alternanza scuola-lavoro prevederà una più ampia “educazione degli studenti all’autoimprenditorialità”. Nascerà il registro nazionale delle imprese dell’alternanza scuola-lavoro: gli studenti di quarta e quinta superiore stipuleranno contratti di apprendistato. Nascerà l’Istituto per l’autonomia e la valutazione scolastica (Ipav) e saranno soppressi Invalsi e Indire. Per i presidi ci saranno 35 milioni in più e gli indennizzi per i docenti non assunti andranno dai 2,5 a 6 mesi. Tutto questo, senza decreto del governo, sarà però più lento e incerto.

Corriere 3.3.15
Scuola, Renzi rinuncia al decreto
I nodi dei precari e delle private
di Claudia Voltattorni


Non ci sarà alcun decreto sulla «Buona scuola». Dopo mesi di attesa, annunci, giornate tematiche sulla riforma che doveva rivoluzionare la scuola italiana, a poche ore dalla sua presentazione in Consiglio dei ministri, il premier Matteo Renzi ieri sera ha deciso di rinunciare al decreto legge, preferendogli la via parlamentare: sulla scuola oggi il governo varerà solo un disegno di legge chiedendo al Parlamento l’approvazione in tempi certi. «Stiamo lavorando a un cambiamento radicale, ma vogliamo coinvolgere maggioranza e opposizioni — ha spiegato Renzi ai suoi —: sulla scuola voglio dare un messaggio al Parlamento, riprendendo lo spirito delle dichiarazioni delle opposizioni e del presidente della Repubblica. Proporremo un disegno di legge, chiedendo tempi certi al lavoro parlamentare. Se tutti saranno rispettosi e attenti, se non ci sarà ostruzionismo, allora ragioni di urgenza saranno rispettate dal normale dibattito parlamentare».
Una scelta quella di Renzi, spiegano in ambienti della presidenza del Consiglio, fatta per coinvolgere di più maggioranza e opposizione ma anche per rispondere alle accuse di comportamenti «dittatoriali»: «Vedremo come si comporteranno le opposizioni». E subito arriva il primo applauso con il presidente dei deputati di Forza Italia Renato Brunetta che si dice soddisfatto per «le intenzioni non più muscolose di Renzi».
Ma è al ministero dell’Istruzione che la decisione del premier ha lasciato tutti a bocca aperta. Lì dove ormai si stavano limando gli ultimissimi dettagli della bozza del decreto che oggi pomeriggio sarebbe arrivata sul tavolo del Consiglio dei ministri. Un fulmine a ciel sereno per la stessa ministra Stefania Giannini che ha saputo dello stop al decreto appena poche ore prima della sua presentazione.
La scelta di Renzi ha invece rimesso tutto in discussione. I tempi tanto per cominciare. Con il decreto legge, i tecnici del Miur avrebbero potuto cominciare subito a lavorare per l’assunzione dei 120 mila precari della scuola dal primo settembre, il cuore della riforma scolastica del governo: «Mai più precari» aveva detto lo stesso premier appena 9 giorni fa dal palco del Pd nella giornata d’orgoglio della Buona scuola a Roma. Ma con il ddl i tempi non sono più così certi: si dovrà attendere fino all’ultimo dei passaggi parlamentari e con il caos delle assunzioni dei precari della scuola, tra graduatorie, concorsi e ricorsi, si rischia di slittare ben oltre il primo settembre.
Non solo. Secondo il decreto, grazie al miliardo destinato alla scuola dalla Legge di stabilità, venivano rafforzate materie come inglese, musica e arte; si costruivano più laboratori, si aumentava la digitalizzazione della scuola; si favoriva una maggiore alternanza tra scuola e lavoro in tutti gli indirizzi. E infine, c’era l’istituzione di un fondo sperimentale per la detrazione delle rette scolastiche delle scuole paritarie, uno dei nodi più dibattuti. Tutto da rifare. Ora la palla passa al Parlamento.

Aggiornamento e nuovi bonus decisi sul merito
D ue facce della stessa medaglia. Da un lato si vuole mettere in cantiere un piano di assunzioni senza precedenti (180 mila posti in 4 anni). Dall’altro, dichiarare guerra a un sistema retributivo che finora nascondeva, dietro stipendi uguali per tutti, un patto al ribasso: ti chiedo poco e in cambio ti do poco. D’ora in poi i prof verranno pagati per quello che «valgono». Gli scatti di anzianità peseranno ancora (per un 30%), ma il 70% dello stipendio dipenderà dal merito, valutato su tre parametri: crediti didattici (la qualità dell’insegnamento di ciascun docente, sentiti anche i genitori e gli studenti); crediti formativi (con l’obbligo (di aggiornamento professionale) e professionali (come il singolo prof contribuisce al miglioramento del rendimento scolastico tenuto conto del contesto in cui la scuola si radica).

Presidi, giunta e un ispettore per i docenti
La valutazione dei docenti farà capo ai presidi nella loro nuova veste non più di manager, ma di «sindaci» della scuola. I dirigenti scolastici potranno contare su una «giunta» composta da due nuove figure professionali: l’insegnante «mentore», che dovrebbe affiancare i colleghi più giovani facendo loro da tutor, e l’insegnante «staff», che svolgerà ruoli più gestionali. In tutto, quattro prof scelti dal preside con il collegio docenti, ai quali sarà riconosciuto un bonus stipendiale. Al nucleo di valutazione interno, si aggiungerà come contrappeso esterno un ispettore (o il dirigente di un’altra scuola). La mancanza cronica di ispettori è una delle carenze del nostro sistema educativo che più spesso ci vengono rimproverate dall’Ocse. La Buona scuola di Renzi prevede l’assunzione di circa 400 nuovi ispettori .

il Fatto 3.3.15
Scuola modello Cl: sgravi fiscali se scegli il privato
di Marco Palombi


Suonano, metaforicamente, le campane delle mille chiese di Roma. Dai conventi dentro e fuori le mura salgono al cielo le grate preghiere dei religiosi. Nelle parrocchie d’Italia si benedice San Matteo. Non l’evangelista, ma Renzi, che oggi porta in Consiglio dei ministri - insieme alla titolare dell’Istruzione Stefania Giannini - il decreto che su “la buona scuola”.
Perché tanto giubilo cattolico? È semplice. Nella bozza che entra in Consiglio dei ministri c’è un piccolo passaggio che prevede una sorta di nuovo “buono scuola” - sotto forma di detrazione fiscale del 22% fino a un massimo di quattromila euro per alunno - per chi iscrive i suoi figli a una scuola privata. Andasse così, sarebbe un’enorme defiscalizzazione – pagata dalla collettività – a favore delle scuole non statali, che poi sono in larga maggioranza cattoliche. Suonano le campane ma naturalmente non tutti sono d’accordo, cresce la polemica da sinistre (anche Pd), sindacati e associazioni.
LA COSA CURIOSA è che nelle bozze non è indicata la copertura e non si tratta di un particolare: le paritarie – secondo dati del ministero – nel 2013/2014 hanno avuto 993.554 iscritti. Quasi un milione, insomma, e tutti avrebbero diritto allo sconto: al momento non è stato inserito infatti alcun limite di reddito, anche se non tutti avranno diritto all’intera detrazione.
Per le spese di iscrizione all’asilo ad esempio – due terzi dei bimbi delle private (621.919) – lo sgravio esiste già e ha un tetto di spesa a 650 euro. Per questo stime governative – se il testo resterà questo – parlano di un costo per l’erario poco sotto il miliardo di euro. Un’enormità di cui – nonostante le pressioni del mondo cattolico organizzato – al Tesoro non vogliono sentir parlare: “Non ci sono i soldi. Punto”.
Sul tema deciderà Renzi, dicono tutti, ma la soglia dei 4 mila euro è solo uno specchietto per le allodole. Gli stessi promotori dell’iniziativa si accontenterebbero di molto meno: pochi soldi magari, ma facendo passare il principio che si lavora su una forma di “buono scuola”. Gabriele Toccafondi, sottosegretario in quota Comunione e Liberazione, ha dichiarato che “scrivere 4 mila euro è un esercizio di stile: mettiamo che si metta a disposizione un fondo da 20 o 30 milioni. In base a quello verrà ritarato il massimale, che alla fine potrebbe non discostarsi da quello dei nidi”.
Insomma, uno sconto fiscale effettivo di circa 120-130 euro a bambino per cui servono poco meno di cinquanta milioni: “In questo caso i soldi potrebbero saltare fuori”, dicono al Tesoro. E il gioco è fatto: alla chetichella si lascia passare il principio che non solo per gli asili – dove i privati suppliscono a una effettiva carenza dello Stato – ma anche per elementari, medie e licei la “libera scelta” confessionale della famiglia deve pagarla la collettività (e senza limiti di reddito). Risultato: decine di milioni che andranno ad aggiungersi ai circa 700 l’anno che già lo Stato spende per le paritarie tra sgravi e finanziamenti diretti. E tanti saluti al “senza oneri per lo Stato” scritto in Costituzione.
LE ASSUNZIONI sono l’altro elemento rilevante del decreto Renzi/Giannini: si tratta della stabilizzazione dei precari della scuola, vale a dire i vincitori e gli idonei del concorso bandito nel 2012 (circa12mila sono senza cattedra) e i nomi presenti nelle Graduatorie provinciali (Gae) chiuse nel lontano 2007.
Questi ultimi sono il grosso della truppa: circa 140mila, ventimila dei quali però, secondo un recente censimento del governo, non insegnano da anni. È per queste due categorie, comunque, che viene varato il “piano straordinario di assunzioni a tempo indeterminato” per l’anno scolastico 2015/2016: circa 120 mila cattedre che purtroppo lasceranno senza un posto – oltre ai 20mila ex insegnanti – anche oltre 10 mila docenti in attività.
I ricorsi, ovviamente, pioveranno, ma nell’intento del governo il “piano straordinario” chiude un ciclo. D’ora in poi nella scuola si entra per concorso: il bando 2016-2018, per dire, riguarderà 60 mila unità. Altri 15 mila invece – soprattutto tra gli insegnanti di materie scientifiche (che scarseggiano) – saranno presi dalle graduatorie di istituto e “premiati” con un contratto ponte e una corsia preferenziale per il concorso.
Il costo di 120 mila assunzioni (tre miliardi a regime) nel 2015 sarà inferiore al miliardo stanziato: 650 milioni secondo la bozza, il resto sarà usato per altri programmi come la formazione obbligatoria o il piano digitale.

Repubblica 3.3.15
Luigi Berlinguer
“Ma sul bonus paritarie il governo vada avanti”
intervista di C. Z.


ROMA «Non conosco le ultime decisioni, non so cosa farà il governo, ma è davvero arrivato il tempo di chiudere questo conflitto del Novecento: scuole statali contro private. Non esiste, non è più tra noi, ci ha fatto perdere tempo e risorse».
Luigi Berlinguer, nel marzo 2000 lei diede pari dignità alle scuole non di Stato, ma non diede risorse economiche alle private. Bisogna passare al finanziamento pubblico, ora?
«Basta guardarsi in giro e si scopre che l’insegnamento è pubblico, fortemente pubblico, ma può essere somministrato da scuole pubbliche, private, religiose, aconfessionali in una sana gara a chi insegna meglio».
Guardiamoci in giro, allora.
«L’Olanda fa gestire allo Stato solo il 30 per cento delle scuole, la Svezia ha passato la gestione ai comuni, l’Inghilterra ha ridotto sensibilmente la presenza statale, la Francia di Voltaire con la legge Debré ha impresso una linea diversa. L’Europa ha cambiato atteggiamento, in Italia siamo fermi alla confusione che scuola pubblica sia uguale a scuola statale».
Bisogna diradare le nebbie e riallinearsi?
«È il momento di rimeditare il tema rispet- tando il vincolo costituzionale: non è ammessa una pretesa al finanziamento statale, ma la nostra storica contrapposizione, Stato non Stato, è anti-europea e anti-moderna».
In un nuovo assetto quale deve essere, allora, il compito dello Stato.
«Deve assicurare gelosamente il rispetto delle condizioni di oggettività, neutralità e non faziosità dell’attività scolastica».
La contrapposizione ci ha tolto energie, diceva.
«Dobbiamo impegnare tutti i nostri sforzi per riformare profondamente l’impianto educativo italiano fermo al secolo scorso. E dobbiamo allargare il concetto di scuola».
A che cosa?
«Alla formazione e allo stesso lavoro. Oggi le funzioni educative non si possono limitare agli anni dell’infanzia e della giovinezza, devono coprire l’arco di una vita. Una cultura arcaica ed elitaria della scuola ha abbandonato al privato, spesso senza controllo, formazione e lavoro».
Il decreto del governo sembra arrivare a soccorrere scuole private in una crisi pesante.
«Dagli Anni cinquanta ad oggi gli istituti non statali si sono ridotti di tre quarti, in queste stagioni le famiglie faticano a pagare le duecento euro di retta mensili: uno sgravio si è fatto necessario ».
C’è un problema: diverse paritarie sono gestite da farabutti che regalano punti in graduatoria e non pagano gli insegnanti.
«Già la mia legge del Duemila prevedeva controlli seri, perché non si attuano? La liberale Olanda mette il naso ovunque, gli inglesi ogni due anni mandano ispezioni alle private. Iniziamo anche noi».

Repubblica 3.3.15
Falso in bilancio, marcia indietro
L’ultima ipotesi del governo: la pena massima scende da 6 anni a 5 per le imprese non quotate in Borsa
Così non potranno essere autorizzate le intercettazioni telefoniche.
di Liana Milella


ROMA È già marcia indietro sul falso in bilancio. Oggi il governo — il Guardasigilli Andrea Orlando — presenta in commissione Giustizia al Senato l’ultimo emendamento partorito in via Arenula, frutto delle estenuanti mediazioni con il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi e con i tecnici del Mef, il ministero dell’Economia. I risultati si vedono. Se sarà confermata l’ultima bozza che ieri sera i tecnici hanno messo sulla scrivania del ministro della Giustizia, il falso in bilancio già vede calare la pena dagli iniziali 2-6 anni a 1-5 anni per le imprese non quotate in borsa, che ovviamente sono la stragrande maggioranza.
L’effetto della diminuzione di pena, che piace a Ncd e soprattutto a Forza Italia, non è affatto di poco conto. Il falso in bilancio non potrà più essere un reato intercettabile, perché su questo il codice di procedura penale è chiaro. All’articolo 266 infatti stabilisce che il presupposto ineludibile per ottenere gli ascolti è che il reato preveda una «superiore nel massimo a 5 anni». La pena «fino» a 5 anni quindi non è sufficiente.
Anche oggi, grazie alla “cura” di Berlusconi che risale ormai al 2001-2002, il falso in bilancio, punito fino a 2 anni dai 5 originari, non permette ai pm di chiedere le microspie. Proprio questa è stata, dai tempi della riforma, una delle principali critiche dei magistrati impegnati nelle indagini sui reati finanziari. Ci sono decine e decine di dichiarazioni, interviste, saggi su riviste giuridiche che discettano sulla necessità di poter mettere sotto controllo i telefoni di chi viene beccato a falsare i bilanci. A chi sostiene che questo non è necessario perché il reato è documentale, le toghe obiettano che gli ascolti possono far scoprire l’intenzionalità del falso.
Ma su questo reato si è scatenata ormai una vera e propria guerra. Non si contano più nuove versioni e rifacimenti rispetto alla versione approvata in consiglio dei ministri il 29 agosto. Nella testo di quel giorno non c’erano le soglie di non punibilità, dell’1 e del 5%, che poi sono state reintrodotte, giusto le stesse del “falso” in versione Berlusconi; c’era la pena da 3 a 8 anni per le società quotate, che è rimasta; c’era quella da 2 a 6 anni per le non quotate, che si è ristretta a 1-5 anni, dopo l’ultima riunione di tecnici — Giustizia, Mise, Mef — che si è tenuta venerdì scorso. Ma non basta ancora. Ecco, per “salvare” le piccole imprese, un’ulteriore mini-punibilità, 1-3 anni, che dovrebbe restare, ma spesa solo come una sorta di attenuante.
L’ennesima aggiunta riguarda la legge sulla tenuità del fatto, espressamente citata nel testo per evitare che qualcuno possa dimenticarsi che esista. La legge che sarebbe dovuta servire per i casuali furti di mele adesso si dovrà applicare ai falsi in bilancio visto che copre reati «fino a 5 anni». Già, questo spiega la diminuzione della pena originaria, quei 2-6 anni che adesso diventano 1-5 anni. Tutti i falsi in bilancio delle società non quotate potrebbero rientrare nella legge sulla tenuità e quindi non dar luogo ad alcun processo.
Orlando aveva ipotizzato di presentare l’emendamento in aula, dove il ddl anti-corruzione Grasso dovrebbe approdare già da giovedì. Ma l’ostruzionismo di Forza Italia lo sta bloccando in commissione Giustizia, anche per via delle carte ancora coperte sul falso in bilancio. Il rischio è che non si esca dalla commissione, o peggio che il testo vada in aula senza l’attuale relatore, l’avvocato Nico D’Ascola di Ncd, ma “portato” dal presidente della commissione, il forzista Nitto Palma. Per questo Orlando presenta l’emendamento che, per la sua natura, dovrebbe tranquillizzare almeno i berlusconiani. Vedremo come reagirà la sinistra del Pd.


Repubblica 3.3.15
Roma, l’ex rettore Frati indagato per l’obitorio della Sapienza
di Rory Cappelli


ROMA Dopo l’ispezione del Nas e le indagini della Procura, sono partiti i primi avvisi di garanzia per lo stato dell’Istituto di medicina legale di Roma: con sale risalenti a 30 anni fa, celle frigorifere stracolme, corridoi ingombri di salme, un odore nauseabondo ovunque. I destinatari sono l’ex rettore dell’università La Sapienza Luigi Frati, l’ex presidente dell’Ama Piergiorgio Benvenuti, l’attuale direttore generale del policlinico Umberto I Domenico Alessio (che però dice: «Non mi risulta assolutamente di essere indagato») e il direttore dell’Istituto di medicina legale Elio Ziparo. Tantissime le violazioni riscontrate ma soprattutto una: la mancata compilazione del documento di valutazione rischi per i lavoratori. Un documento fondamentale, spiegano fonti investigative, «per la prevenzione e la sicurezza dei lavoratori» che, «nel caos delle sale autoptiche, delle celle frigorifere, del mescolamento delle salme rischiano incidenti anche gravi». E poi: irregolarità nella gestione della sala autoptica, strumenti inadeguati, attrezzature vecchie e logore, locali non a norma, impianti pericolosi, struttura nel complesso fatiscente.

Repubblica 3.3.15
Rcs, fumata grigia sui libri a Mondadori


Dopo cinque ore di riunione il consiglio “ha deciso di aggiornare i lavori al 6 marzo”. Non si è trovata l’intesa per vendere la società Troppe le voci contrarie: Marchetti e Guarneri (per Rotelli) tra gli amministratori, Pirelli, Intesa Sanpaolo, Cairo, Della Valle tra gli azionisti

MILANO I consiglieri di Rcs si confrontano per cinque ore sul dossier della vendita dei libri a Mondadori, ma non riescono a prendere un orientamento concreto. Il Cda di Rcs «ha deciso di aggiornare i lavori per completare l’esame dei punti all’ordine del giorno nella riunione convocata per il 6 marzo prossimo». È una delle ultime date utili per decidere in tempo come riequilibrare la situazione finanziaria: l’11 marzo infatti è in calendario il cda per esaminare il bilancio 2014. La seduta fiume in via Rizzoli si è svolta esaminando la trattativa con il gruppo di Segrate per la cessione di Rcs Libri, che comunque in caso proseguisse resterebbe con tutta probabilità da perfezionare dopo l’assemblea dell’editore chiamata a nominare il nuovo cda, il 23 aprile. L’offerta dei rivali controllati dalla Fininvest della famiglia Berlusconi, che da metà febbraio stanno cercando di aggregare l’adeguato consenso nel cda e tra l’azionariato di Rcs, non è riuscita a fare breccia.
Il cda di ieri, iniziato verso le 17 (ma buona parte dei consiglieri era riunita in azienda dalle 16, perché prima si è tenuto un comitato rischi), si è svolto dapprima con l’analisi di avanzamento del piano di cessioni del gruppo - tra cui finora la sede di Via Solferino, la partecipazione in Dada, la cartellonistica di Jp Decaux - e poi con la disamina del dossier libri, sui cui pende la proposta non vincolante arrivata da Mondadori a metà febbraio, che valuta circa 135 milioni il ramo d’azienda scritto nel bilancio consolidato a 180 milioni di valore. Ma l’aperta contrarietà di almeno un paio di consiglieri - Piergaetano Marchetti e Attilio Guarnieri (che rappresenta il socio Rotelli) - e lo scetticismo più o meno espresso di rilevanti soci non rappresentati in cda hanno indotto il consiglio a prendere qualche giorno di tempo. Tra i soci dubbiosi, la Pirelli che detiene il 4,4% del capitale, Intesa Sanpaolo con il 4,2%, Urbano Cairo con il 3%, il gruppo Rotelli con il 2,7%. E Diego Della Valle, secondo socio dopo la Fiat con il 7,3%, che da mesi contesta la gestione dell’ad Pietro Scott Jovane, troppo allineato con le indicazioni in arrivo dal Lingotto. La nota Rcs, di appena tre righe, non lascia intuire cosa accadrà venerdì; sembra che il bivio a questo punto sia tra istruire una perizia tecnica sul dossier e di fatto affidarne l’esecuzione al prossimo cda di maggio o rigettare tout court l’offerta Mondadori. E a quel punto, trovare alternative per riequilibrare il patrimonio eroso dalle perdite degli ultimi anni. In questo contesto, il presidente Angelo Provasoli ha anche il compito di interloquire con gli azionisti per la formazione delle liste di candidati consiglieri, da depositare entro fine marzo.
La situazione finanziaria di Rcs si è ulteriormente complicata negli ultimi mesi, e il gruppo ha forte necessità di fare cassa per cercare di rispettare i vincoli imposti dalle banche nella rinegoziazione sul debito di luglio 2014. Tali accordi prevedono che a settembre 2015 Rcs abbia un rapporto tra posizione finanziaria netta e margine operativo lordo non superiore a 4,5. Se sfora quel vincolo partirà una vendita di attività non strategiche per almeno a 250 milioni. E in mancanza di significative svolte entro l’estate, il cda potrebbe dover esercitare la delega sul secondo aumento di capitale da 190 milioni, già deliberato, per far quadrare i conti. (a. gr.)

Corriere 3.3.15
La scelta di cambiare sesso a 15 anni «Così nostro figlio diventerà Irene»
I genitori di un adolescente transgender: da piccola ci chiese perché non era una bimba Le difficoltà alle elementari, gli aiuti degli psicologi. Tra poco inizierà la terapia ormonale
di Elena Tebano


Massimo e Rita hanno ricevuto la lettera che ha cambiato la loro famiglia due anni fa, da quello che allora era il figlio tredicenne, con una raccomandazione: «Leggetela domattina». «L’abbiamo aperta in macchina, prima di andare al lavoro — racconta Rita —. C’era scritto che da quando aveva otto anni sapeva di essere una bambina nel corpo di un bambino. “Non ce la faccio più a sognare ogni notte al femminile e poi a svegliarmi non essendolo”, scriveva, “se potessi rinascere, non vorrei rinascere femmina, vorrei un corpo che sia in linea con la mia mente”. Chiedeva aiuto per diventare donna, perché se fosse andato avanti così si sarebbe ucciso». Dentro c’era anche il numero di un centro per la disforia di genere. «Improvvisamente tutti i tasselli di un puzzle che per anni non avevamo saputo risolvere sono andati a posto».
Oggi che ha 15 anni, quel figlio è per tutti Irene, anche se la sua transizione è solo all’inizio. Massimo e Rita, impiegati 50enni di un piccolo centro vicino a una grande città, hanno accettato di raccontare la sua e la loro storia a patto di rimanere anonimi (i nomi sono di fantasia): lo faranno oscillando tra il maschile, per parlare di Irene al passato («ma ci ha fatto giurare di non dire mai il suo vecchio nome»), e il femminile che segna il suo presente.
«Se non ci avesse scritto non so se avremmo capito: alla disforia di genere proprio non avevamo pensato», prosegue Rita. Eppure di segnali ce ne erano stati tanti: «Come il pianto disperato quando a quattro anni salì sul divano, con i singhiozzi che gli venivano dalla pancia, e mi chiese: perché non sono una bambina?». E ancora: «Quando ha capito che il mondo era diviso tra maschi e femmine gli è cambiato il carattere, ha smesso di essere un bimbo solare». «Nelle favole era Biancaneve o Cenerentola, mai il principe — aggiunge il padre —. Nei negozi di abbigliamento non andava dove c’era il segno dei maschi, ma quello delle femmine».
Alle elementari sono iniziati i problemi con i compagni, che lo prendevano in giro perché era troppo effemminato. Massimo e Rita hanno provato a rivolgersi prima alla pediatra e poi agli insegnanti. Nessuno ha saputo aiutarli. Fino a quelle parole affidate a carta e penna, sorprendentemente lucide per un tredicenne. «È difficile avere una figlia così intelligente — sorride la madre —, devi essere sempre pronta».
Dopo «48 ore di sbandamento completo», Rita e Massimo hanno chiamato il Gruppo Abele di Don Ciotti, che a Torino ha uno sportello sulla transessualità. Undici giorni più tardi, nel mezzo di un’estate afosa, l’appuntamento in un centro per la disforia di genere. «Volevamo essere sicuri che non stavamo facendo una follia per il desiderio di proteggere nostra figlia». Una serie di incontri e i test somministrati dagli psicologi hanno confermato la disforia di genere.
«Non è soltanto il fatto di avere interessi tipici dell’altro sesso, come capita per esempio alle ragazzine “maschiacci” — spiega Rita —. È guardarsi allo specchio e non riconoscersi. Sentirsi dentro una ragazza e vedere che tutti ti trattano come un maschio. Io, da allora, ho provato tante volte a immaginarmi come mi sentirei se una mattina cominciasse a crescermi la barba. Per nostra figlia è così tutti i giorni».
Irene, che grazie al Web sapeva tutto sulla transizione da uomo a donna, sperava di poter prendere subito gli ormoni. Ma per gli adolescenti la legge italiana prevede solo la psicoterapia. «A un certo punto ci ha detto che non ne aveva più bisogno. Poco dopo, però, ha smesso di mangiare ed è diventata anoressica — racconta Rita —. Rifiutava il suo corpo e siccome a una lezione di biologia a scuola le avevano spiegato che la malnutrizione blocca lo sviluppo, aveva cercato questa strategia».
Ci sono voluti cinque mesi per convincerla. «A giugno scorso ci ha fatto un discorso molto duro: “Per voi è facile: andate al lavoro, litigate, vi ammalate, però siete sempre voi. Io mi sveglio la mattina, mi metto una maschera e dico: ok, andiamo a recitare una parte”. Poi però ha ammesso di aver bisogno di aiuto e ha ricominciato a mangiare». Soprattutto, ha iniziato a vestirsi da ragazza, si è fatta crescere i capelli e ha assunto il nuovo nome, Irene.
«Ora che è alle superiori a scuola va molto meglio: ha fatto amicizia con le compagne, preside e insegnanti sono andate anche a parlare con la psicologa del centro». Eppure rimane difficile, perché Irene nel frattempo è entrata nella pubertà maschile e non sopporta di vedere il suo corpo cambiare. Spesso se la prende con il padre: «Dovevi proprio essere così alto e peloso?», gli rimprovera. Guarda con paura le gambe e le mani che si allungano.
«Vorremmo che potesse prendere i farmaci per sospendere la pubertà, le risparmierebbero tante sofferenze ora e in futuro, ma in Italia non si può», dice il padre. «Sta contando i giorni che le mancano ai 16 anni, come quando mio fratello faceva le croci sul calendario per la leva» aggiunge Rita. A quell’età potrà iniziare la terapia ormonale che renderà il suo corpo più femminile.
Anche per i suoi genitori è un traguardo, il primo di una lunga serie: «Sappiamo che avrà una vita più difficile degli altri — dice Rita —. Ma quando avrà un aspetto che le corrisponde sarà più serena e saprà farsi valere. Spero solo che possa vivere in una società più accogliente».

il Fatto 3.3.15
Italia, politica estera in stato confusionale
di Maurizio Chierici


LONTANI tempi di quando non contavano in Europa. Siamo nel gruppo di testa. Per esempio: quindici giorni fa l’annuncio dell’invasione in Libia, ministro degli Esteri e ministro della Difesa pronti sulle rampe di guerra. Mattarella non nasconde la sorpresa: appena arrivato, lasciatemi respirare. E l’Italia cambia strategia: niente cannoni ma leader dell’intrigo diplomatico che frantumerà le bande nere dell’Isis. Intanto la Mogherini in esilio a Bruxelles per certe idee che la Leopolda considera retrò, dalle macerie di Gaza fa sapere di riconoscere lo Stato palestinese. Cosa mai le viene in mente… Desolazione a Palazzo Chigi e Farnesina. Gentiloni con un filo di voce: “Quando sarà il momento“ per non ingolfare il turbo dell’Italia lanciata nel futuro. Qualcuno lo informa che il Parlamento inglese ha già riconosciuto assieme a Svezia, Spagna, Francia, adesso l’Unione europea. E Renzi e Gentiloni ritrovano l’incenso vecchia Dc: proposta Pd che il Pd vota compatto assieme alla proposta contraria che il Pd vota decimato nel rispetto all’alto profilo internazionale di Alfano, Cicchitto e Giovanardi. Non si sa mai.
Perplesso anche il Vaticano: come mai Renzi dimentica l’abbraccio nei giardini del papa tra Peres, presidente d’Israele e Abu Mazen presidente Palestina? Bisogna dire che Francesco non ha tenuto conto degli ultras scatenati appena si parla di pace, non importa se musulmani o israeliani. Hamas deve far sapere d’essere ancora vivo: guerriglia vuol dire armi, soldi, professione da non buttar via con tanti disoccupati attorno. E Netanyahu fa i conti coi coloni russi (un terzo non ebreo) importati per sbriciolare quei territori che l’Onu riconosce ai palestinesi: lo voteranno se la faccia resta dura. Ecco il massacro di Gaza dove le burocrazie rinviano la ricostruzione a chissà quando, 10 mila famiglie senza tetto, bambini morti nel gelo: denuncia sconsiderata dell’Unicef. E Bennet, ministro dell’Economia cresciuto nelle forze speciali, promette l’annessione di tutti territori occupati“, una catastrofe sgomberare 400 mila coloni trapiantati in Cisgiordania mentre lo status quo garantirà pace eterna a 2 milioni di palestinesi da sempre li”.
Fra qualche ora, Netanyahu chiederà al Parlamento di Washington (invitato dai Repubblicani in spregio a Obama e alla signora Clinton) non solo guerra fredda o calda contro l’Iran, ma 40 milioni di dollari per pagare nuovi insediamenti che accoglieranno ebrei francesi, tedeschi, inglesi, forse italiani, in fuga dall’Europa razzista. Quaranta milioni per allungare i 700 chilometri del muro-ghetto e costruire nuove colonie.
PER FORTUNA il terreno è gratis: basta espropriarlo a chi lo abita da mille anni. Decisione scaramantica nel ricordo che i leader favorevoli alla pace sono finiti male. Assassinato Rabin dopo l’abbraccio ad Arafat; assassinato il presidente egiziano Sadat dopo l’abbraccio a Begin. Netanyahu non vuol rischiare. Chissà come l’ha presa il Gentiloni a Teheran per addolcire l’embargo con affari e commerci. Campionario che il Renzi sta per portare a Putin, non si sa se prima o dopo aver deposto un fiore (sicuramente in Tv) sul marciapiede dove hanno assassinato chi non sopportava l’autocrazia del signore del Cremlino. Ecco la speranza di una Gerusalemme diversa. Non solo intellettuali e scrittori sdegnati dal governo, Netanyahu che cambia la giuria del grande premio letterario per eliminare chi sogna la convivenza: laburisti, figlia di Moshe Dayan, generale delle vittorie, e padri e madri angosciati dalla follia e alla ricerca della normalità nelle elezioni del 17 marzo. E Renzi volerà a Gerusalemme per gli abbracci in mondovisione.

il manifesto 3.3.15
Il Pd ha riesumato Ponzio Pilato in Palestina
Il voto di maggioranza del Parlamento e il mancato riconoscimento
Un’onta al diritto internazionale per un popolo occupato militarmente dal 1967
di Luisa Morgantini
qui


il Fatto 3.3.15
Netanyahu negli Usa sfida Obama “Il nucleare all’Iran è un errore”
di Caterina Minnucci


I suoi detrattori politici dicono che è un disco rotto, una Cassandra ossessionata dalla minaccia nucleare iraniana. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu oggi terrà un discorso davanti al Congresso a Washington che ha sollevato aspre polemiche perchè a invitarlo è stato il partito repubblicano senza consultare il presidente Barack Obama, rompendo così il protocollo ufficiale. “L’Iran è prima di tutto uno Stato che appoggia il terrorismo nel mondo - è stato l’avvertimento lanciato dal premier israeliano domenica alla platea dell’American
Israel Public Affairs Committee (Aipac), la più influente lobby filo israeliana negli Usa - se svilupperà armi nucleari raggiungerà i suoi obiettivi. Non consentiamo che ciò accada”. Fermare Teheran “è un’obbligo morale”. “Mentre parliamo l’Iran sta sviluppando le sue capacità per costruire armi nucleari”, ha insistito Netanyahu, riconoscendo come ci siano “seri disaccordi” con gli Usa su come fermare il programma di Teheran. Lo sgarbo diplomatico ha irritato il Partito democratico americano e lo stesso presidente Obama ha fatto sapere che non riceverà Netanyahu, ritenendo inopportuno un incontro che “rasenta il sabotaggio delle relazioni diplomatiche” sui negoziati con l’Iran in materia di nucleare a due settimane dalle elezioni in Israele. Il leader israeliano, con l’appoggio dei repubblicani, sosterrà infatti che “la politica di dialogo con l’Iran dell’amministrazione Obama è un grave errore perchè gli ayatollah vogliono la bomba atomica”. Nessun incontro nemmeno con il segretario di Stato John Kerry, che si trova a Ginevra proprio per le trattative sul nucleare e che ha ribadito l’attenzione nei confronti di Israele prendendo però le distanze dalle parole di Netanyahu: “La sicurezza di Israele è in testa a tutti i nostri pensieri, ma lo è anche la sicurezza di tutti gli altri paesi della regione, e quella negli Stati Uniti”. Secondo Yitzhak Herzog - leader dell’Unione sionista di centrosinistra che il 17 marzo sfiderà Netanyahu - il discorso di quest’ultimo a Washington è un’operazione mediatica per guadagnare consenso elettorale, mostrando una linea dura. E aggiunge che “nessun leader israeliano, senza distinzione di coalizione, accetterebbe la minaccia nucleare iraniana”.

La Stampa 3.3.15
Obama, schiaffo a Netanyahu
“È senza strategia sull’Iran”
Il premier al convegno dalla lobby ebraica: nessun accordo sul nucleare La Casa Bianca: noi abbiamo delle idee per evitare che Teheran si armi
di Paolo Mastrolilli


Il premier israeliano Netanyahu chiederà agli Stati Uniti di annullare la scadenza di fine marzo per l’accordo nucleare con l’Iran, e prendere più tempo per considerare gli effetti negativi della possibile intesa con Teheran per la sicurezza dello Stato ebraico. È questa la sostanza del discorso che terrà oggi al Congresso, secondo persone che lo hanno visto. Netanyahu è convinto che il quadro attuale del negoziato rappresenta un via libera agli ayatollah per la costruzione dell’arma atomica, quindi chiede di bloccarlo e imporre nuove sanzioni. Una sfida che avviene in un clima di tensione crescente, come ha dimostrato la notizia pubblicata dal giornale del Kuwait «al Jarida», smentita dalla Casa Bianca, secondo cui il presidente Obama aveva minacciato di abbattere gli aerei israeliani che nel 2014 si preparavano a colpire le installazioni nucleari iraniane.
Gli attriti
Il duello a distanza fra il premier e la Casa Bianca è cominciato ieri mattina al convegno annuale dell’Aipac, la più potente lobby pro Israele in America. Obama non ha partecipato, ma ha inviato a rappresentarlo l’ambasciatrice all’Onu Samantha Power, irlandese cattolica molto impegnata contro l’antisemitismo, e la consigliera per la Sicurezza nazionale Susan Rice, che aveva definito «distruttivo» il discorso di Netanyahu al Congresso, organizzato senza informare la Casa Bianca. Ma al presidente Usa non è piaciuto neanche l’intervento di Netanyahu all’Aipac: «Mentre il presidente Obama ha delineato una strategia per evitare che l’Iran si doti di armi nucleari, il premier Netanyahu no» ha commentato il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, aggiungendo che Obama non ha seguito l’intervento del leader israeliano in tv.
La rassicurazione
Il compito della Power è stato rassicurare Israele sul piano politico: «Gli Usa non consentiranno all’Iran di costruire l’atomica. Punto». L’ambasciatrice però ha criticato la politicizzazione delle relazioni bilaterali, che il premier ha fatto venendo a tenere il suo discorso su invito dell’opposizione repubblicana, alla vigilia delle elezioni del 17 marzo nello Stato ebraico: «L’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza di Israele trascende la politica. Perciò è sbagliato politicizzarlo». In altre parole, oltre agli aiuti economici, Washington rappresenta la seconda linea di difesa dello Stato ebraico. Questo è un aspetto fondamentale della sua sicurezza, che un premier non dovrebbe mettere a rischio per ottenere vantaggi elettorali. Alla Rice poi è toccato rispondere alle critiche sulla trattativa in corso con Teheran, che secondo le indiscrezioni trapelate finora bloccherebbe l’arricchimento dell’uranio per dieci anni, ma poi lo lascerebbe procedere per scopi civili.
La preoccupazione
Quando Netanyahu ha preso la parola all’Aipac, ha spiegato come prima cosa ciò che non vuole fare: «Il mio discorso non intende mostrare alcuna mancanza di rispetto nei confronti del presidente Obama, o di stima per la carica che ricopre. Le notizie sulla morte delle relazioni fra Israele e gli Usa sono non solo premature, ma sbagliate». Il premier ha anticipato invece che parlerà al Congresso del pericolo posto da Teheran, che minaccia la stabilità dell’intero Medio Oriente «e sta costruendo armi atomiche ora, mentre noi parliamo. Molte armi. Questo è quanto l’Iran sta facendo senza armi nucleari. Immaginate cosa farebbe se le avesse». Netanyahu ha aggiunto di avere «l’obbligo morale di parlare davanti a questi pericoli, finché c’è ancora tempo per evitarli».

Corriere 3.3.15
Bronci, silenzi e ammaccature di una relazione tutta speciale
Dal «vaffa» di Baker all’urlo di Clinton: «Chi credono di essere?»
di Davide Frattini


GERUSALEMME Dieci settimane al freddo di Washington e al gelo di Franklin Delano Roosevelt. Nel dicembre del 1941 David Ben-Gurion affitta una suite di due stanze all’hotel Ambassador dove aspetta una telefonata: ha chiesto al presidente americano un appuntamento (gli basta un quarto d’ora, assicura) per promuovere la causa dello Stato ebraico. Quella convocazione non arriva mai, eppure quando il 14 maggio del 1948 Ben-Gurion dichiara la nascita di Israele, gli Stati Uniti sono la prima nazione a riconoscerlo. Undici minuti dopo.
Da allora la relazione speciale non si è mai interrotta. Ha sopportato qualche ammaccatura diplomatica, ha vissuto i momenti di silenzio e gli incontri imbronciati, ha superato queste crisi e — prevedono gli analisti — supererà anche quella tra Benjamin Netanyahu e Barack Obama. Perché l’attuale leader americano — fa notare Chemi Shalev sul quotidiano Haaretz — non è tra i più maldisposti come vorrebbero presentarlo gli assistenti del primo ministro.
George Bush padre ha torchiato i governi israeliani con più aggressività — e ritorsioni ben più concrete — di Susan Rice, la consigliera per la Sicurezza nazionale di Obama, che ha definito «distruttiva per i nostri legami» la visita di Netanyahu. Nel 1991 pretende che Yitzhak Shamir fermi le costruzioni nelle colonie e minaccia di bloccare i 10 miliardi di dollari in aiuti. Durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, si lamenta di quanto sia influente la lobby ebraica e poco dopo calcola che gli Stati Uniti donano a Israele «l’equivalente di 1.000 dollari per ogni cittadino». Una scarsa empatia verso l’alleato mediorientale, riassunta da James Baker, il suo segretario di Stato: «Quando gli israeliani saranno pronti a parlare seriamente di pace, possono telefonare alla Casa Bianca. Il numero è 001-202-456-1414». Un’avversione ancor più sintetizzata da Baker in una conversazione privata: «Vaff... gli ebrei, tanto non votano per noi». Ed è una profezia che si autoavvera: alle elezioni del 1992 Bill Clinton conquista il 78 per cento tra gli ebrei americani, Bush solo il 15 per cento, il risultato peggiore per un repubblicano negli ultimi ventotto anni.
Gli stalli diplomatici non nascono solo da posizioni strategiche differenti. Clinton non è riuscito a ricreare con Netanyahu la sintonia che aveva con Yitzhak Rabin e che facilitò gli accordi di Oslo nel 1994. Considerava il primo ministro israeliano — allora al suo primo mandato — arrogante e se poteva evitava di incontrarlo. Quando Netanyahu viene ricevuto per la prima volta alla Casa Bianca nel 1996, Clinton lascia la stanza ed esclama agli assistenti: «Chi si crede di essere, chi c... è la superpotenza qui?».
E’ la lezione che Ronald Reagan decide di impartire a Menachem Begin. Nel 1981 lo punisce per aver bombardato — senza avvertire gli americani — il reattore nucleare di Osirak in Iraq: ordina di fermare la consegna di nuovi jet all’aviazione israeliana e gli Stati Uniti condannano alle Nazioni Unite il raid contro Saddam Hussein. «La decisione di umiliare pubblicamente un nostro tradizionale alleato — commenta allora il conservatore William Safire sul New York Times — non ci ha dato un nuovo amico tra gli arabi e ha distrutto quella fiducia necessaria per spingere Israele a prendere rischi per arrivare alla pace». Le parole scelte da Begin sono ben più dure di quelle scritte da Safire, quando per rappresaglia convoca l’ambasciatore americano Samuel Lewis: «Che espressione sarebbe: punire Israele? Siamo un vostro vassallo? Siamo una repubblica delle banane? Siamo degli adolescenti che se non si comportano bene vengono schiaffeggiati? Mi lasci dire da chi è composto il mio governo: è gente che è cresciuta nella resistenza, gente che ha combattuto e sofferto. Non ci spaventerete con le vostre minacce».
I tredici giorni di negoziati nel settembre del 1978 a Camp David cominciano con una preghiera comune voluta da Rosalynn, la moglie del presidente Jimmy Carter, e finiscono con l’accordo di pace tra Israele e l’Egitto. In mezzo urla, valigie fatte e disfatte, un torneo di scacchi tra Begin e Zbigniew Brzezinski, consigliere di Carter. Il premier israeliano vince 3 partite su 5, non gli basta per sciogliere la diffidenza: arriva a definire Camp David «un campo di concentramento de luxe». Sa però che Israele ha bisogno degli Stati Uniti, stringerà la mano ad Anwar Sadat.
@dafrattini

Repubblica 3.3.15
 “Israele si difenderà” Netanyahu al Congresso e l’America si spacca
Oggi il discorso voluto dai repubblicani sul nucleare iraniano Al premier un busto di Churchill. La protesta dei democratici
di alberto Flores d’Arcais


NEW YORK Gli Stati Uniti e Israele «sono più che amici, sono una famiglia». Benjamin Netanyahu, arrivato in America tra polemiche, dichiarazioni stizzite e qualche sgarbo diplomatico (invitato dal Congresso a maggioranza repubblicana non sarà ricevuto alla Casa Bianca), sceglie una platea amica nel tentativo di dimostrare ai critici (qui e nel suo Paese) che il suo viaggio negli Usa non è una visita-provocazione. All’American Israel Public Affairs Committee, primo intervento pubblico (al Congresso parlerà questa mattina) della sua agenda americana, il premier israeliano non nasconde i «disaccordi attuali» con la Casa Bianca («sono sempre spiacevoli ma dobbiamo ricordare che siamo una famiglia»), evita attacchi diretti ad Obama («non ho mai voluto mancargli di rispetto, apprezzo molto quello che ha fatto per Israele»), ma conferma in toto una linea — quella sull’Iran e su come fermare il nucleare degli ayatollah — che è drasticamente differente da quella Usa.
Lo fa ricordando la «barbarie medievale» in atto in Medio Oriente e i «valori» diversi che incarna Israele, porta come esempi contrapposti il dittatore siriano Assad (che «lancia bombe sui propri cittadini») e i medici israeliani (che i siriani feriti li «operano e curano») e incassa gli applausi dei 16mila presenti alla conferenza annuale dell’Aipac (la più potente delle lobby pro-Israele che ci sia a Washington) scandendo le parole: «Di fronte all’Iran che minaccia la sicurezza di Israele ho l’obbligo morale di alzare la voce. Per duemila anni gli ebrei sono stati senza potere, non succederà mai più. Oggi non stiamo più in silenzio, oggi abbiamo una voce. Io sono qui per mettere in guardia dalle minacce di chi vuole annichilirci mentre ancora c’è tempo per evitarle. Non resteremo passivi». Per rendere meglio l’idea il premier israeliano dispiega una mappa che mostra i legami di Teheran con il terrorismo in diverse aree del mondo, «questo è quello che fanno senza armi nucleari, provate ad immaginare cosa potrebbero fare con la bomba atomica».
Fa anche una simpatica battuta Netanyahu, quando ricorda che mai si è parlato così tanto di un discorso che ancora «non è stato pronunciato» (quello che farà stamattina davanti al Congresso). E a chi lo accusa di tempismo quanto meno sospetto (arriva negli Stati Uniti a due settimane dalle elezioni politiche in Israele) risponde che non c’era scelta, considerando che i colloqui tra Usa e Iran — il Segretario di Stato John Kerry è a Ginevra per questo — hanno come scadenza la fine di marzo. Vuole anche evitare che il suo viaggio sia considerato di parte («mi dispiace che qualcuno lo abbia pensato, Israele dovrà restare sempre una questione bipartisan»), impresa non facile considerato che l’irritazione della Casa Bianca è nata proprio dall’invito fatto dal leader repubblicano Boehner senza avvisare l’amministrazione.
Se la battuta iniziale serviva a sdrammatizzare l’atmosfera (cosa andrà a dire al Congresso lo sanno già tutti, sono in sostanza le stesse cose che ha anticipato ieri davanti ai delegati Aipac) non sembra aver sortito alcun effetto reale. Obama, la diplomazia Usa e molti democratici continuano a ritenere il viaggio di Netanyahu uno sgarbo senza precedenti. Sono almeno una ventina i membri (quasi tutti democratici) del Congresso che questa mattina boicotteranno l’intervento, per protestare contro Boehner prima ancora che contro il premier israeliano. E Dianne Feinstein, la popolare senatrice democratica (ed ebrea) della California ha lanciato l’ennesimo slogan “non in mio nome” contro il premier israeliano: «Penso che la comunità ebraica sia come tutte le altre, al suo interno ci sono diversi punti di vista. Credo che questa arroganza non faccia bene ad Israele».
Non è servito a smorzare le polemiche neanche il fatto che — poco prima di Netanyahu — alla tribuna dell’Aipac fosse intervenuta Samantha Powers, l’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite che insieme a Susan Rice (la potente ‘consigliera’ per la Sicurezza Nazionale di Obama, presente anche lei alla conferenza) forma il tandem (tutto al femminile) che più influenza la politica estera Usa: «Non ci sarà il tramonto dell’impegno americano per la sicurezza di Israele, non ci sarà mai». Anche se poi non si è risparmiata uno stoccata velenosa quando ha detto che «la partnership tra i due Paesi non dovrebbe mai essere politicizzata». Un clima di tensione confermato da una nota della Casa Bianca: «Obama ha delineato una strategia per evitare che l'Iran si doti di armi nucleari, Netanyahu no».
Non resta che attendere il discorso di stamattina. Quando Netanyahu riceverà in dono da Boehner un busto di Winston Churchill. Perché il premier israeliano è il primo dopo il grande statista britannico ad aver parlato per ben tre volte davanti al Congresso in riunione plenaria.

Corriere 3.3.15
Offensiva anti Isis nella città di Saddam. Con l’aiuto dell’Iran
La battaglia per la riconquista di Tikrit
di Lorenzo Cremonesi


E’ iniziata ieri prima dell’alba l’offensiva contro le milizie dello Stato Islamico (Isis) asserragliate a Tikrit, nel cuore dell’Iraq sunnita. Pianura piatta, monotona, polverosa, solo il Tigri offre barriere consistenti contro l’avanzata di truppe e corazzati. Sono segnalati combattimenti pesanti, con già una trentina di morti e almeno il doppio di feriti. Bagdad utilizza massicciamente l’aviazione (gli americani specificano che i loro jet non sono coinvolti). I kamikaze del «Califfato» si lanciano con le loro autobomba contro le colonne nemiche.
Ma per il neo-premier iracheno Haider al-Abadi la sfida è al momento più politica che non squisitamente militare. Riuscirà il suo malconcio esercito a cooperare con le milizie sciite, con le forze scelte iraniane e allo stesso tempo spingere le grandi tribù sunnite locali ad abbandonare la pur fragile alleanza con l’Isis per tornare a schierarsi con Bagdad? La questione è centrale, qui si gioca il braccio di ferro con i jihadisti e la possibilità di continuare l’avanzata sino a riprendere la grande città di Mosul (che da più parti annunciano potrebbe aver luogo già entro aprile). Non è un mistero infatti che, sebbene il capo di stato maggiore iracheno abbia messo in campo oltre 25.000 uomini addestrati e armati dagli americani, sono in verità le milizie sciite locali, ma soprattutto i pasdaran iraniani, a fare la differenza. Senza di loro probabilmente la stessa Bagdad sarebbe stata occupata da Isis sin dal giugno-agosto scorsi, quando con una serie di attacchi dalla Siria si impadronì di circa un terzo dell’Iraq. In prima linea, nella zona di Samarra e tra i paesini a sud di Tikrit, si muove il generale iraniano Qassem Suleimani, comandante delle «Al-Quds», le unità scelte delle Guardie della Rivoluzione (pasdaran) specificamente incaricate da Teheran delle missioni all’estero. Le agenzie iraniane riportano che Suleimani starebbe semplicemente «supervisionando» la campagna. In realtà, i suoi soldati sono massicciamente impiegati nei combattimenti. Già l’agosto scorso erano evidenti nella battaglia per la cittadina di Amerli, dove avevano soverchiato anche gli alleati curdi, lanciando poi sanguinose missioni contro i villaggi sunniti verso Tikrit.
Come può allora al-Abadi convincere i sunniti che le milizie sciite e gli iraniani possono diventare loro alleati? Dopo tutto Isis aveva guadagnato le loro simpatie presentandosi proprio come paladino della causa sunnita contro l’Iran e lo stesso governo di Bagdad, accusato di fare esclusivamente gli interessi sciiti. Ieri il premier si è recato a Samarra, la città un centinaio di chilometri a nord di Bagdad dove l’anno scorso le milizie sciite locali avevano arrestato la corsa di Isis e ridato fiducia alla capitale impaurita e scioccata dal repentino sbandamento del suo esercito nazionale.
Ma Samarra è molto più che una roccaforte armata. Qui si trova la «moschea d’oro»: luogo sacro per gli sciiti di tutto il mondo. Al-Abadi l’ha scelta per offrire alle tribù sunnite «il perdono» per il «tradimento» dell’anno scorso, in cambio però dovranno abbandonare l’alleanza con Isis, altrimenti verranno «seriamente punite». Ma anche i jihadisti non stanno a guardare. Tikrit e la regione di Salahadin tutta attorno costituiscono a loro volta siti simbolo della narrativa sunnita: terra natale del condottiero che otto secoli fa sconfisse i Crociati, qui vive la tribù di Saddam Hussein battuta e umiliata dall’invasione americana dodici anni fa. Isis va per le spicce, come del resto ha già fatto nella regione di Al Anbar tra Falluja e il confine siriano, uccide i capi tribali che non offrono i loro giovani alla jihad, rapisce e decapita i renitenti.
Le scelte delle tribù sunnite sono così la chiave di volta per la sorte di Mosul e il futuro di Isis in Iraq.

Corriere 3.3.15
«A Teheran le cose ora cambiano Sarà la chiave per il Medio Oriente»
La scrittrice Hachtroudi: «I conservatori contrari a ogni apertura»
intervista di Farian Sabahi
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«Il presidente iraniano Hassan Rouhani è un pragmatico che comprende i veri pericoli che l’Iran si trova ad affrontare in questa difficile congiuntura mondiale e nel disordine mediorientale. Rouhani ha la volontà di migliorare gradualmente la situazione e tirare fuori l’Iran dall’impasse. È consapevole del fatto che, se il suo governo cade, l’Iran rischia un conflitto, anche civile. Comprende che il regime siede su un vulcano. Deve fare di necessità virtù e dimostrarsi moderato, con la consapevolezza che la diplomazia si declina in base ai rapporti di forza. Se Rouhani ce la farà, l’Iran avrà un ruolo chiave in un Medio Oriente dove i rapporti di forza sono maggiormente bilanciati».
Ad esprimere questo giudizio è la scrittrice iraniana Fariba Hachtroudi, autrice di «L’uomo che schioccava le dita», romanzo d’amore e di testimonianza politica (edizioni e/o). Per Fariba, 54 anni, che vive in Francia dall’adolescenza ma è tornata in Iran tra il 1985-86 e poi nel 2006 e nel 2009, la politica è il comune denominatore di una famiglia impegnata: il nonno era il leader religioso Esmail Hachtroudi membro della costituente del 1906 e difensore di laicità e tolleranza, mentre il padre è il matematico e filosofo Mohsen Hachtroudi, attivo sul fronte dell’uguaglianza di genere. Nel romanzo, racconta le vicende della prigioniera 455, inaspettatamente liberata da un militare dalla camminata inconfondibile che incontrerà nuovamente.
È una storia vera?
«Non è la mia storia, non sono stata in carcere né torturata. Ho tratto ispirazione dalle testimonianze delle donne che ho intervistato, quando lavoravo come giornalista. Ex prigioniere, mi hanno raccontato le loro esperienze in cella, anche nella prigione di Evin».
Nel libro lei non cita mai l’Iran, ma è ovvio che si tratta della Repubblica islamica...
«Non lo scrivo perché quelle circostanze si possono riprodurre in un qualsiasi Paese non democratico. E sfortunatamente anche in alcuni Paesi democratici, pensiamo agli Stati Uniti dove George W. Bush aveva reso legale la tortura. Non volevo prendere di mira solo l’Iran».
Trentasei anni dopo la rivoluzione, la violenza di genere viene declinata diversamente nella Repubblica islamica?
«La violenza non si è mai fermata, ma c’era anche prima della rivoluzione del 1979. Ritengo che l’attuale governo voglia dare una nuova rotta al Paese. I falchi sembrano ciechi e sordi, non capiscono la complessità del mondo né i veri pericoli che il Paese deve affrontare, tra cui la sopravvivenza della Repubblica islamica. Fanno di tutto per bloccare le riforme e l’apertura. La condanna di Reyhaneh, impiccata per essersi difesa dall’uomo che voleva stuprarla, è una tragedia che mostra il conflitto in atto tra i mullah al potere. Noi donne saremo sempre penalizzate finché ci sarà la legge islamica. Ma la loro battaglia nella società civile e in una certa misura negli ambienti di potere dimostra che in Iran le donne e i giovani rifiutano la sharia. Tuttavia, non tutte riescono a sfuggire alla legge islamica. Nelle grandi città e nelle famiglie dell’alta borghesia riescono, più o meno, a lottare e avere un ruolo nella società, ma non dobbiamo dimenticare coloro che vivono nelle aree rurali e appartengono ai ceti bassi».
In Medio Oriente la religione è diventata un problema, pensiamo ai conflitti tra sunniti e sciiti. Che ne pensa?
«Tra sunniti e sciiti ci sono sempre stati problemi. A causare tensioni tra Arabia Saudita, Iran e Turchia è il desiderio di leadership del mondo islamico. La cosa migliore sarebbe se la diplomazia di Teheran e di Riad sedessero a un tavolo per trovare una soluzione contro lo Stato islamico e Al Qaeda. Inoltre, il problema siriano deve essere risolto, se in futuro non vogliamo ulteriori tensioni».


La Stampa 3.3.15
“Scaviamo vegliati dai peshmerga
per salvare i tesori dell’Iraq”
Il direttore della missione archeologica italiana: “Danni gravissimi” L’Isis stacca i bassorilievi dalle pareti per venderli sul mercato nero
di Giordano Stabile


Un mondo ancora in gran parte inesplorato. Una terra promessa per gli archeologi che si è dischiusa solo da pochissimi anni, dopo che la dittatura di Saddam Hussein, con il suo tentativo di genocidio del popolo curdo, aveva congelato tutto. Il Nord dell’Iraq, il punto di incontro fra i grandi imperi dell’antichità, è un enorme tesoro archeologico, con al centro quella Mosul in mano allo Stato islamico da dove arrivano le immagini dello scempio dell’antica Ninive.
«I danni sono incalcolabili - racconta l’archeologo Daniele Morandi Bonacossi, direttore della missione archeologica in Iraq dell’Università di Udine, appena tornato dalla regione -. Ed è impossibile il riscontro diretto. Il che è ancora più angosciante». Lo choc per il video dove gli islamisti mostrano la distruzione del museo di Mosul è ancora forte. «Dalle immagini possiamo capire che per fortuna alcune statue erano copie in gesso. Ma le altre, dove si vedono quegli sciagurati accanirsi con le mazze, erano originali».
Statue del periodo partico del sito di Hatra, bassorilievi assiri. E soprattutto i colossali tori androcefali, con la testa di uomo, provenienti dalla porta del dio Nergal, il dio che governava il mondo dei defunti». Quella di Nergal era la più importante delle quindici porte delle mura di Ninive, fatte costruire dal re Sennicherib.
Le mura di Ninive, l’antica capitale dell’impero assiro i cui resti sono all’interno dell’odierna Mosul, «che Sennacherib trasformò in una metropoli di 750 ettari con una cinta muraria lunga dodici chilometri, ancora molto ben conservata». Roma imperiale, la più grande città dell’antichità, aveva una superficie di 1800 ettari e mura lunghe 19 chilometri. Le mura di Ninive sono scampate a 2700 anni di storia turbolenta. Per lo meno fino all’arrivo del califfo Abu Bakr al Baghdadi, che ha promesso di demolirle.
«Fino a ora le notizie di distruzione non sono confermate - rassicura Morandi Bonacossi -. Un nostro collega, che non possiamo nominare per ragioni di sicurezza, è ancora a Mosul, e non ha riscontrato demolizioni. Ma nelle ultime settimane gli islamisti sembrano ancora più accaniti». C’è stato il rogo di diecimila libri antichi della biblioteca, l’assalto al museo, «e il saccheggio di Nimrud, altro sito importantissimo: hanno segato e asportato bassorilievi dell’IX secolo a. C. probabilmente per poi venderli sul mercato nero».
Il saccheggio degli islamisti, anche come fonte di finanziamento, è sistematico. E il timore è forte per gli altri siti del Nord iracheno sotto il dominio dello Stato islamico. Come Assur, culla della civiltà assira, Tikrit, e Samarra, «una delle grandi residenze dei califfi arabi abbasidi, con il suo magnifico minareto elicoidale», spiega l’archeologo. Più a Nord-Est, nel Kurdistan ora quasi indipendente, invece continua il lavoro di conservazione, protetto dai peshmerga, i combattenti curdi.
«La mia équipe è impegnata nel progetto Terra di Ninive - racconta Morandi Bonacossi - la ricostruzione, catalogazione e valorizzazione degli insediamenti nella campagna di Ninive, dalla preistoria agli ottomani». Con siti come Tell Gomel, il luogo della battaglia di Gaugamela dove nel 331 a. C. Alessandro Magno sconfisse i persiani. E uno straordinario sistema di acquedotti, il primo della storia, scoperto dagli italiani: «Se ne conosceva solo uno, ne abbiamo ritrovati altri quattro. In tutto 240 chilometri di canalizzazioni, con impressionanti ponti in pietra». Un’opera voluta dal re Sennacherib per irrigare, portare acqua a Ninive e «creare un paesaggio di tipo imperiale, secoli prima di Roma». Un tesoro inestimabile, protetto dalle mani degli archeologi. E dai peshmerga.

Repubblica 3.3.15
Atene - Europa, la guerra delle parole
di Christian Salmon


AL TERMINE di un dibattito televisivo durante il quale Ronald Reagan non aveva saputo tener testa al rivale Walter Mondale, il suo consigliere, Lee Atwater, dichiarò: «Ora usciamo di qui e facciamo girare il seguito» ( spin this afterward): ciò che intendeva era il “dibattito sul dibattito”, diventato oramai nelle campagne presidenziali non meno importante del dibattito stesso. Dal 20 febbraio, dopo l’accordo tra l’Eurogruppo e la Grecia, assistiamo a una campagna di spinning di questo tipo: una battaglia sull’interpretazione, il cui oggetto, più che il consolidamento del debito greco verso i suoi creditori, è il credito di Syriza agli occhi dei suoi elettori.
QUESTA polemica ha assunto la forma di una serie di confronti da videogioco: 1. La battaglia delle cifre. 2. La contesa sulle parole. La polemica sull’immagine. 4. La disputa sui valori. 5. La guerra delle versioni.
La battaglia delle cifre . Atene chiedeva un obiettivo di surplus primario dell’1,5% del Pil, mentre Berlino esigeva il mantenimento degli obiettivi del 2012: il 3% del Pil nel 2015, e il 4,5% nel 2016. Il comunicato dell’Eurogruppo indica che la Grecia dovrà riservare un surplus di bilancio «al fine di assicurare l’avanzo primario appropriato per garantire la sostenibilità del debito, in linea con le dichiarazioni dell’Eurogruppo del novembre 2012». Tuttavia questo programma appare emendato, dato che gli obiettivi degli avanzi primari di bilancio saranno adattati «alle condizioni economiche attuali». Yanis Varoufakis ha detto di ravvisare in ciò un’«ambiguità costruttiva », che consentirà in futuro di adeguare gli obiettivi alla situazione. Si è giunti a un compromesso, ma la rinuncia a obiettivi quantificati rappresenta una chiara sconfitta per Wolfgang Schäuble. Cosa che però non ha impedito ai commentatori di sostenere che la Grecia avesse ceduto alla Germania.
La contesa sulle parole . Uno dei punti di contrasto tra la Germania e la Grecia riguardava il ruolo della “troika”, termine usato per designare l’organo formato da Bce, Commissione europea e Fmi. La promessa di farla finita con quest’Idra di Lerna era uno dei cardini della campagna elettorale di Syriza. Al termine dei negoziati, Atene ha dovuto accettare per altri quattro mesi le supervisione di quest’istituzione, esigendo però che nei documenti ufficiali il termine “troika” sia sostituito da “istituzione”. Queste variazioni semantiche hanno suscitato il sarcasmo di Manolis Glezos, eroe greco della Resistenza al nazismo. «Parlare di “istituzioni” anziché di troika non cambia nulla». Ma siamo certi che sia così? «Le guerre si combattono per delle parole, su un terreno semantico» sosteneva Arthur Koestler. «Chi cede sulle parole — diceva Freud — cede sui fatti». Se vogliamo cambiare le cose dobbiamo cominciare col cambiare le parole. L’abolizione del termine “troika” costituiva una premessa per farla finita col dominio simbolico instaurato dalla fusione arbitraria di tre istanze prive di legittimità.
La polemica sull’immagine .
Con la vittoria elettorale di Syriza, l’apparizione di nuovi dirigenti politici come Tsipras e Varoufakis ha fatto sensazione. Anche in Germania, il look non conformista di Varoufakis ha occupato le prime pagine dei media. Ma via via che i negoziati si facevano più duri, il blitzkrieg stilistico di Varoufakis ha preso la piega di una guerra di trincea condotta contro il suo look da «buttafuori di night club». I cronisti di moda hanno ceduto il posto agli editorialisti, pronti a percepire il pericolo di una nascente «Varoumania». Ciò che in un primo momento aveva sorpreso ora veniva giudicato fuori luogo. Dal radical chic si è passati allo “shock Varoufakis”, lo stile cool già ammirato dai media e diventato di cattivo gusto. A Bruxelles molti considerano che l’atteggiamento di questo greco-australiano, brillante economista, onnipresente sulle reti internazionali, non abbia favorito la risoluzione del conflitto tra il suo Paese e il resto dell’Europa. «Troppo strepito». «Troppo show off». Troppi tweet. Troppe telecamere. In breve, un “look” che fa danno.
La disputa sui valori . Quando giunse al potere, nell’ottobre del 2008, il governo di George Papandreou non poté far altro che constatare una realtà evidente: il fallimento della Grecia. Il deficit di bilancio stava esplodendo, e così il debito. Di chi la colpa? Dei banchieri invadenti che avevano inondato il Paese di liquidità per finanziare le esportazioni tedesche o francesi? Dei greci beneficiari del lassismo europeo che organizzava l’evasione fiscale? Della banca Goldman Sachs che aveva truccato i conti greci per consentire ad Atene di aderire alla moneta unica? O della popolazione greca, accusata di tutti i vizi e invitata perentoriamente ad espiarli stringendo la cinghia? Fin dalla sua designazione alla carica di ministro, Yanis Varoufakis ha ricordato che «la Grecia è determinata a non farsi trattare come una colonia del debito, votata alla sofferenza». La Germania è riuscita a trasformare un difetto di costruzione dell’Eurozona in una colpa morale (in tedesco la parola Schuld ha il duplice significato di “debito” e di “colpa”): ha presentato le disparità di sviluppo tra Nord e Sud come un rappresentazione morale, in cui i Paesi virtuosi del Nord si contrappongono a quelli del Sud, definiti con disprezzo “club med”. Così l’indebitamento della Grecia è diventato una colpa, e il pagamento dei suoi debiti un obbligo morale. È la fiaba della cicala greca e della formica tedesca, che per anni ci è stata propinata dal governo tedesco e dai suoi accoliti.
La guerra delle versioni . L’intero campo della politica economica europea è stato lasciato al più rigido ordoliberismo tedesco. L’egemonia della narrativa ordoliberista tedesca tra le élite burocratiche si spiega non con la malafede, ma al contrario con una fede collettiva nell’efficacia delle norme giuridiche contenute nei trattati. È la fede dei contabili del Tesoro, dei giuristi, degli alti funzionari, assai competenti in campo normativo, ma non in quello economico. È l’impero della cifra e della norma giuridica nei trattati europei. Alle leggi economiche si è preferita la sintassi moralizzatrice della neolingua europea: (ripristinare la fiducia, rimborsare, sforzi, serietà…). Una grammatica del biasimo e della punizione, che trasuda dal linguaggio delle élite burocratiche e mediatiche.
A questa politica punitiva Yanis Varoufakis ha incominciato a contrapporre una narrativa di tipo nuovo: quella di un’Europa “decente”, termine tratto da George Orwell ( common decency ). Dopo aver ricordato ai tedeschi l’episodio dimenticato della cancellazione del loro debito di guerra verso la Grecia, il ministro delle finanze ellenico ha attirato l’attenzione sullo scandalo delle tangenti versate da alcuni industriali tedeschi per vendere i loro prodotti alle pletoriche forze armate greche. A questo riguardo è il caso di notare che tra le richieste della troika non c’è mai stata quella di un ridimensionamento del budget militare della Grecia — il quarto in ordine di importanza tra i Paesi europei!
La vittoria di Syriza ha scatenato una guerra totale: la posta in gioco è il credito politico delle parti coinvolte in questo scontro. Perché ciò che preoccupa Berlino e Bruxelles non è tanto il debito greco, quanto il «credito» contagioso di Syriza, e il simmetrico discredito delle istituzioni europee. Su questo si gioca la guerra delle versioni che infuria in questo momento. La decostruzione europea è incominciata.
L’autore ha scritto La politica nell’era dello storytelling ( Fazi editore) Traduzione di Elisabetta Horvat


Repubblica 3.3.15
E Londra balla sull’abisso della “Brexit”
di Anthony Giddens


NUMEROSI libri e articoli sostengono che la Gran Bretagna è destinata ad abbandonare l’Unione europea e proseguire per conto proprio: insomma, la cosiddetta “Brexit” sarebbe dietro l’angolo. Ma la situazione è meno definita di quanto sembra: “Brexit” è un brutto neologismo e mi induce a coniarne un altro altrettanto brutto, “Bremain”, per indicare lo scenario in cui il Regno Unito rimane nell’Unione europea e fornisce addirittura un contributo positivo alla sua evoluzione. È impossibile dire quale di questi due scenari sia più probabile.
IL CONTESTO generale, in Gran Bretagna, nell’Unione europea e nel mondo, è estremamente volatile. Il Regno Unito si avvicina alle elezioni — previste per il 7 maggio — meno prevedibili della sua storia recente. Tanto i Conservatori quanto i Laburisti nei sondaggi sono accreditati al massimo di un terzo circa dell’elettorato, mentre il Paese è in preda a una grave crisi di identità. Il referendum sull’indipendenza scozzese, lo scorso settembre, avrebbe dovuto risolvere la questione della separazione “per una generazione” e invece ha stimolato passioni nazionaliste ancora più accese. L’Snp, il Partito nazionalista scozzese, potrebbe ritrovarsi con un nutrito drappello di deputati nella Camera dei comuni dopo le elezioni di maggio, e addirittura risultare decisivo per la formazione di un governo. Tutto questo ha fatto affiorare pulsioni identitarie anche su altri versanti, con la devoluzione dei poteri al centro del dibattito, accompagnata da un risveglio del nazionalismo inglese.
Se il Labour riuscirà a tornare al potere, quasi sicuramente dovrà governare in coalizione. Il partito ha escluso un referendum sulla permanenza nell’Ue a meno che non vengano cambiati i trattati, e i suoi potenziali partner di coalizione — l’Snp, i Liberaldemocratici, i Verdi — sarebbero senza dubbio d’accordo. È altrettanto verosimile che i Tories rimangano al potere, probabilmente di nuovo in coalizione con uno o più partiti più piccoli. David Cameron rimarrebbe primo ministro, ma potrebbe doversi affidare all’appoggio dell’Ukip, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito. Questo significherebbe forti pressioni per la convocazione tempestiva di un referendum sulla permanenza nella Ue.
Quasi tutte le discussioni sulla Brexit partono dall’ipotesi di una riconferma al potere dei Tories, con un mandato chiaro per convocare un referendum. Se i Tories dovessero effettivamente vince- re, quali sarebbero gli scenari probabili? L’impegno di David Cameron a convocare un referendum sulla permanenza nell’Ue non sembra fondarsi su una convinzione personale: al contrario, risponde quasi unicamente a esigenze pragmatiche. L’attuale premier è salito al potere nel 2010 determinato a mettere fine alla «solfa incessante sull’Europa » (parole sue) nel Partito conservatore. Non c’è riuscito, in parte perché, quando è esplosa la crisi dell’euro, la pressione da parte dei tories euroscettici non ha fatto che aumentare. Nel gennaio 2013 aveva l’esigenza di placare l’ala euroscettica del suo partito e in pratica ha offerto un compromesso che tendeva la mano sia ai tories contestatori sia ai partner europei. Per tacitare i primi ha proposto la convocazione di un referendum entro il 2017, abbinandola a riforme dell’Unione. Per cercare di convincere gli altri leader europei a dargli manforte, ha promesso di fare campagna per la permanenza nell’Ue, ma in cambio ha chiesto loro di accettare almeno una parte del suo programma di riforme.
Ha fallito su entrambi i fronti. Con l’Europa ha adottato un atteggiamento aggressivo e prepotente che invece di procurargli il sostegno degli altri Stati membri ha ottenuto l’effetto opposto. E il suo “accordo”, pur se infarcito di riserve e condizioni, rimaneva troppo europeista per l’ala destra del suo partito, che ha incrementato ulteriormente la sua furia anti- Ue. Tutte queste ragioni hanno spinto Cameron a cambiare di nuovo posizione, anche stavolta per considerazioni politiche più che per principio. Pressato dall’ascesa dell’Ukip, e tenendo conto del crescente malessere di certi settori dell’opinione pubblica, ha messo l’immigrazione al centro dell’agenda politica, al punto che è diventata praticamente l’unico elemento degli sforzi di rinegoziazione con i partner europei.
Questa è la situazione corrente, e all’orizzonte non si intravede nessuna via d’uscita chiara. Altri leader europei hanno detto senza mezzi termini che il principio della libertà di movimento dei cittadini all’interno dell’Unione europea è inviolabile. Ed è improbabile che il resto dell’Europa sia disposto a concessioni che comportino un cambiamento dei trattati: perciò, se accordo ci sarà, sarà necessariamente di portata limitata, forse addirittura confinato alle prestazioni sociali. Quello che però Cameron non ha detto chiaramente è se farebbe attivamente campagna per un abbandono dell’Ue nel caso in cui non ottenesse dal resto dell’Europa un’offerta giudicata soddisfacente,.
Se il referendum dovesse esserci, l’esito è difficile da prevedere quanto i risultati delle elezioni politiche di maggio. Io sono un europeista, voglio che la Gran Bretagna rimanga nella Ue e gio- chi un ruolo positivo nella costruzione del futuro dell’Unione. E un esito del genere è chiaramente nell’interesse anche dell’Unione europea in generale: la Gran Bretagna è da tempo una spina nel fianco per il resto della Ue, ma se dovesse andarsene il peso economico e geopolitico dell’Unione si ridurrebbe notevolmente.
È necessario far capire chiaramente all’opinione pubblica quali sono le implicazioni di un’uscita dall’Europa. La Brexit sarebbe un enorme salto nell’ignoto, qualcosa di ben diverso dal roseo ritratto di una nazione liberata che chi propinano gli euroscettici. La Gran Bretagna sarebbe fuori dall’Unione Europea, ma resterebbe comunque dentro la sua orbita; il suo destino rimarrebbe irrimediabilmente europeo, com’è il caso della Svizzera, della Norvegia e dell’Islanda. La maggior parte degli scambi commerciali della Gran Bretagna continuerebbe a svolgersi con l’Unione Europea, ma a condizioni su cui Londra non potrebbe più avere un’influenza diretta. L’idea che il Regno Unito possa spostare il proprio baricentro sul Commonwealth, o che possa improvvisamente allargare a dismisura la sua rete commerciale, è una fantasia infondata. Dopo tutto, nulla osta a che avvenga già adesso, eppure non è avvenuto. In questo momento la Germania, in proporzione, ha un livello di scambi commerciali con l’India superiore a quello della Gran Bretagna. Nel mondo di oggi, sempre più interdipendente, la Gran Bretagna ha più influenza in quanto membro dell’Ue che se ne fosse fuori, anche quando agisce per conto proprio. Gli Stati Uniti comincerebbero a bypassare la Gran Bretagna se non facesse parte dell’Ue, e lo stesso farebbero altri Stati importanti di ogni parte del mondo. La possibilità che siano i voti di scozzesi e gallesi a tenere la Gran Bretagna nell’Ue in caso di referendum è molto concreta. Se però nell’insieme del Paese dovesse prevalere il consenso alla Brexit, stavolta probabilmente gli scozzesi deciderebbero di separarsi da noi e rientrare nell’Unione Europea.
I gruppi europeisti nel Regno Unito sono molti. È ora che mettano da parte le loro differenze e uniscano le forze per influenzare il dibattito. Gli euroscettici hanno le idee molto chiare su quello che non vogliono, ma poco chiare su quello che vogliono. Bisogna pressarli per costringerli a dire chiaramente quali sono i loro obbiettivi, che tipo di Gran Bretagna hanno in mente e come riuscirebbe il Paese, per conto proprio, a risolvere il cumulo di problemi che si troverebbe ad affrontare.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato dalla rivista online Europe’s World Traduzione di Fabio Galimberti

La Stampa 3.3.15
“Io, infiltrato nel mondo di Alba Dorata tra nazismo e il culto dell’antica Sparta”
L’esperienza di Alexander Clapp che ha vissuto tra svastiche e slogan del partito di estrema destra greco
di Claudio Gallo
qui

Corriere 3.3.15
La Germania si riarma (pensando a Mosca)
Sale la spesa per la Difesa
di Danilo Taino


BERLINO Per la prima volta dal 1981 (escluso il 2009) la Germania aumenterà la spesa per la Difesa (come percentuale del Prodotto interno lordo). Lo ha confermato in un’intervista il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble. «Di fronte alle crisi e all’instabilità nel mondo, dobbiamo sopportare una spesa per la Difesa più alta», ha detto. È il segno di una revisione strategica di notevole rilievo e di una svolta politica annunciata.
La revisione strategica riguarda la lettura che Berlino fa della Russia di Vladimir Putin dopo l’annessione della Crimea e l’intrusione nell’Ucraina dell’Est. Dalla metà dell’anno scorso, Angela Merkel ha cambiato opinione sulla natura e gli obiettivi del Cremlino. E con lei, anche se con diverse sfumature, gran parte della società politica e — spesso a malincuore — delle imprese che con la Russia lavorano intensamente. Ora, l’opinione è che Putin abbia rotto gli indugi e si sia messo sulla strada della ricostruzione di uno spazio simile a quello coperto dall’ex Unione Sovietica e la percorra con mezzi inaccettabili. Per la cancelliera, la minaccia più grave per l’Europa oggi non è la crisi greca ma sono la crisi ucraina e l’aggressività del Cremlino.
La svolta politica sta nell’accettazione da parte del governo e del mondo politico tedeschi di un dovere di maggiore presenza negli affari internazionali. Nonostante la maggioranza (60%) dell’opinione pubblica non sia favorevole, i leader del Paese più rilevante d’Europa sanno di non potere fare a meno di svolgere un ruolo non secondario negli affari internazionali, a maggior ragione se ai confini dell’Europa. I primi a sottolineare l’obbligo di questo cambio di stagione furono, un anno fa, il presidente federale Joachim Gauck, il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier e il ministro della Difesa Ursula von der Leyen. Ora, le dichiarazioni prendono gambe.
Schäuble non ha indicato di quanto sarà aumentato il bilancio della Difesa. Ha detto che la crescita inizierà nel 2017 perché nel 2016 l’industria non sarebbe pronta per maggiori investimenti. In teoria, però, l’aumento dovrebbe essere significativo: a un vertice Nato dello scorso settembre la Germania si è impegnata — come gli altri membri dell’Alleanza atlantica — a portare gli investimenti al 2% del Prodotto interno lordo ma quest’anno si fermerà ancora all’1,1 per cento. Stando ai dati dello svedese Sipri, uno dei maggiori centri di analisi militari del mondo, la Germania ha visto decrescere costantemente i suoi investimenti nella Difesa dal 1981, quando le dedicava il 3,2% del Pil.
Il risultato di questo declino è che le forze armate sono in uno stato di decadimento. Caserme inabitabili, pochi mezzi, aerei che si fermano. Una capacità difensiva ridotta, limitata anche da scelte fatte negli ultimi cinque anni nella convinzione che l’Europa fosse destinata a non essere mai più minacciata. Per questo, il mese scorso la signora von der Leyen ha lanciato una consultazione per arrivare a un nuovo Libro Bianco sulla Difesa: nel prossimo anno e mezzo più di duecento esperti militari e di relazioni internazionali, politici, esperti dell’industria e dei media ridisegneranno la strategia delle forze armate tedesche — Bundeswehr — nell’era Putin .

Repubblica 3.3.15
Trucidato da sei agenti, muore un clochard
Shock negli Usa
di Federico Rampini


NEW YORK La gente del quartiere lo chiamava “Africa”. Da anni faceva parte della triste fauna umana di Skid Row, una zona popolata dagli homeless nel centro di Los Angeles. Per ucciderlo ci si sono messi in sei. Sei poliziotti in divisa. Cinque spari, mentre lui era a terra. Circondati dai testimoni, da una folla inorridita, i poliziotti sono ripresi in un video. Solo nelle prime sette ore, quelle immagini le hanno viste sei milioni di americani. E adesso “Africa” è l’ultimo simbolo di una spirale di violenza delle forze dell’ordine. Dopo Michael Brown a Ferguson (Missouri), dopo Eric Garner aStaten Island (New York), e dopo tanti altri nella stessa Los Angeles o in altre parti d’America, in una lunga lista di vittime che non avranno giustizia.
La scena dell’esecuzione di “Africa” è feroce. Uno dei testimoni che ha ripreso il video col suo telefonino era a pochi metri di distanza. Si vede il senzatetto che si divincola quando i poliziotti vengono ad arrestarlo. Si alza dal sacco a pelo in cui dormiva, si dimena, si agita, sferra qualche pugno a vuoto, le sue braccia fendono l’aria. Poi in rapida successione lui è a terra, gli si avventano addosso in quattro, mentre altri due ammanettano una testimone. Una successione fulminea di spari, e “Africa” giace immobile. Attorno si è radunata una folla, un altro nero ha il coraggio di urlare la sua rabbia in faccia ai poliziotti: « Motherfucker ! Non aveva armi, stava solo dormendo sul marciapiedi. Ora è morto! Ora è morto!». Arrivano in pochi minuti i rinforzi, la polizia circonda la zona con il nastro giallo per le indagini della squadra scientifica, gli agenti assediati agitano manganelli e armi davanti agli abitanti del quartiere.
A gran velocità appare sui video dei network nazionali il capo del Los Angeles Police Department (Lapd), Andrew Smith. La tecnica di comunicazione è col- laudata, bisogna subito opporre la versione ufficiale della polizia: «L’individuo era ricercato come sospetto autore di una rapina. Gli agenti hanno cercato di immobilizzarlo con un Teaser (la pistola che lancia scariche elettriche, ndr ) ma non ci sono riusciti. Lui ha sfilato l’arma ad un agente, allora hanno dovuto sparare». Questa versione dell’autodifesa dei poliziotti è subito smentita da molti testimoni. Tra cui Jerome Guillory, proprio l’autore del video virale. Lui viene intervistato subito per confrontarlo con la versione del Lapd: «No, la mia ripresa non mostra quella scena, non lo si vede mentre sottrae l’arma a un poliziotti. E neanche i miei occhi l’hanno visto ». Nel quartiere, il centro storico degradato e malfamato di una delle città più ricche d’America, è un coro unanime di solidarietà con “Africa”. «Non dava fastidio a nessuno», dice Yolanda Young. «In sei potevano immobi-lizzarlo, lui non era una minaccia », secondo Lonnie Franklin.
Chi lo conosceva abbastanza è Andy Bales, presidente della Union Rescue Mission, una ong che assiste gli homeless. «Gli avevano dato quel soprannome – dice Bales – perché era immigrato dall’Africa. Aiutava la gente della missione, ogni tanto ci faceva qualche lavoretto, delle pulizie. E’ capitato anche che rubasse, ma la polizia non se ne occupava». Perfino un agente, l’ufficiale Deon Joseph che da 16 anni è di pattuglia a Skid Row, si lascia andare ad uno sfogo autocritico: «Abbiamo fallito. Il nostro sistema è fallito. Stiamo pagando le conseguenze di questo fallimento». A Skid Row gli homeless sono spesso malati mentali, privi di qualsiasi assistenza. “Africa”, secondo alcuni abitanti del quartiere, era stato mandato via da un reparto psichiatrico cinque mesi fa. Uno di quei malati di mente, Carlos Ocana, morì nel maggio dell’anno scorso cadendo da un tetto, dopo che un poliziotto gli aveva scaricato addosso il Taser.
La tragedia di Los Angeles accade dopo che diversi reparti di polizia, rispondendo alle proteste dell’opinione pubblica, hanno accettato di dotare gli agenti di videocamere, in modo che ogni arresto sia filmato. Anche uno dei sei poliziotti del Lapd in azione a Skid Row, aveva la telecamera in dotazione. Ma è difficile che questa sia una panacea. L’arresto e uccisione dell’afroamericano Eric Garner a Staten Island era stato filmato da vicino. Le immagini del suo strangolamento mentre era a terra finirono davanti ad un giurì popolare, che decise senza esitazione: «Nessun procedimento». I giurati, istruiti da un procuratore locale, decisero che non c’erano gli estremi neppure per iniziare un processo. I casi in cui gli agenti di polizia devono rispondere davanti alla giustizia, per l’uso eccessivo delle armi, sono una minuscola minoranza. E la violenza di chi indossa una divisa non si limita alle strade: di recente il New York Times ha sollevato il velo sull’inferno di abusi nelle carceri, da parte delle guardie. Chi prova a mettersi contro la lobby della polizia e dei suoi potenti sindacati, rischia grosso: se ne ricorderà a lungo il sindaco di New York Bill de Blasio, bersaglio di proteste clamorose e di uno “sciopero bianco” degli agenti.

Corriere 3.3.15
Il rapporto finale su Ferguson «Neri discriminati»
Il dipartimento di Giustizia americano renderà pubblico a giorni un rapporto che accusa la polizia di Ferguson, in Missouri, di aver preso di mira la popolazione di colore, fermando nel traffico in maniera discriminatoria gli afroamericani e alimentando un rancore razziale che ha infine portato un agente a sparare la scorsa estate a Michael Brown, diciottenne nero disarmato. Gli agenti poi multavano in modo sproporzionato i neri, usando le entrate per sostenere il bilancio comunale.

Il Sole 3.3.15
Congresso del Popolo. Giovedì il discorso del premier Li Keqiang
Pechino prepara le linee guida delle nuove riforme economiche
di Rita Fatiguso

Pechino Niente accade per caso, nelle vicende cinesi. Così il secondo taglio dei tassi di interesse in tre mesi operato dalla Banca centrale dopo oltre due anni di letargo (il tasso di deposito a un anno va al 2,5%, i prestiti al 5,35 e il limite di “galleggiamento” a 1,3 da 1,2) nonché i regolamenti per la registrazione della proprietà immobiliare (la novità: si paga a partire dalla seconda casa) sono scattati domenica 1° marzo. In pratica, a ridosso della terza sessione plenaria del 12esimo Congresso del Popolo, la kermesse che va di scena ai primi di marzo ogni anno nella Great Hall of People. Oggi tocca alla Commissione consultiva, giovedì al Congresso del popolo, con l’ouverture del “discorso della corona” del premier Li Keqiang, che ha l’onere e l’onore di tracciare le linee guida del 2015, specie nell’economia.
L’anno scorso la crescita è stata del 7,4 al minimo da 24 anni, bisogna rimettere l’economia sui giusti binari, le due novità sono, quindi, una boccata di ossigeno per la Plenaria. Sia il nuovo taglio ai tassi del Governatore Zhou Xiaochuan necessario a ridare fiato alle piccole e medie imprese e ad allentare la pressione del debito, sia la riforma degli immobili, utile a rimettere il sistema con i piedi per terra favorendo l'accesso alla casa per ampi strati della popolazione rimasti tagliati fuori dalla speculazione edilizia.
Due regali il cui effetto combinato, si spera, servirà a evitare la doppia trappola del debito e quella della deflazione: le mosse della Banca centrale e quella sulle seconde case sono state possibili, infatti, solo grazie a un’inflazione rimasta bassa, a gennaio era ai minimi dal 2005. La mini-ripresa della produzione industriale a 50,1 sempre a gennaio, da sola, non basta a far tornare il sorriso.
Obiettivo vero sono le riforme, il 2015 è l’ultimo anno del 12° piano quinquennale. Il Comitato Centrale ne sente il peso, l’ha definito «anno chiave del completo approfondimento della riforma». Dalle riunioni sul lavoro economico per il 2015 delle varie province e regioni, che ha preceduto le due sessioni, emerge questa chiara direzione. Nel calderone c’è un po’ di tutto: dalle pensioni (aggancio fra enti statali e imprese private, e poi con le campagne), all’ambiente: controllo dell’applicazione dell’emendamento della legge sulla tutela ambientale, più informazione sull’enforcement, collegamento fra sviluppo economico e tutela ambientale. La lotta alla corruzione che, come ha detto ieri in conferenza stampa il portavoce della Plenaria «prevede la caccia ad altre tigri», sarà una lotta attraverso la legislazione e il controllo del potere attraverso la supervisione. La legislazione prevede l’ampliamento dei poteri a livello locale, limiti dei poteri del governo, decentramento dei poteri negli investimenti, per il fisco, i prezzi, la finanza e le imprese statali che dovranno essere riformate.
Dai rapporti di governatori delle province emerge la necessità di adattarsi alla «nuova situazione permanente» (xin changtai) di un tasso di crescita inferiore, dando meno importanza al Pil, a favore della riforma e dell’innovazione e del miglioramento del livello di vita della popolazione. Quest'anno 26 tra province regioni autonome e municipalità hanno ridotto le previsioni del tasso di crescita e Shanghai le ha addirittura cancellate.
Si auspica la creazione di nuove zone di libero scambio come la Ftz di Shanghai mentre la creazione della «cintura economica della nuova via della seta terrestre» e della «nuova via della seta marittima» accendono gli entusiasmi a livelli locale. “Dal basso” si osserva anche che la nuova ricchezza cinese è legata ai settori auto e IT, ma la maggior parte delle imprese dell’IT cinese «sono registrate nei paradisi fiscali all’estero». Su questo il Governo sarà invitato a riflettere.

il Fatto 3.3.15
Il documentario che cambia il clima del regime cinese
Pechino caccia il ministro dell’ambiente
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino Prima che nascesse mia figlia non ho mai prestato attenzione all'inquinamento. Non ho mai portato la mascherina”.
Comincia come una confessione personale, il documentario auto prodotto che sta conquistando la Cina. Distribuito su internet, è una vera e propria bomba mediatica. Ne parlano tutti: i social media sono impazziti. Almeno 100 milioni di visualizzazioni in poco meno di tre giorni. Si chiama Qiongding zhi xia (Under the Dome) ed è una denuncia accorata e documentata delle conseguenze della sete energetica cinese a dispetto della salute umana. Di fatto attacca le organizzazioni più potenti del paese. Dai potentati del carbone e del petrolio fino al ministero dell'ambiente e alle banche di stato. Ma molti di coloro che hanno lavorato al documentario provengono dalla Cctv (l’emittente nazionale cinese) e sicuramente hanno grande esperienza dei media di stato. Non puntano mai direttamente il dito contro il governo, ma l'imputato è chiaro. Ogni anno in Cina ci sono tra le 350 e le 500mila morti premature legate all'inquinamento atmosferico. Si potrebbe quasi parlare di un'epidemia. E il governo, cosa fa? Chai Jing, fino allo scorso anno presentatrice della televisione di stato Cctv, ha lasciato il lavoro dopo aver scoperto che la bambina che aspettava aveva un tumore benigno. La neonata è stata operata appena nata. La vicenda l'ha scossa così profondamente che è passata all'azione. Il risultato è questo documentario che, incredibilmente, non è stato (ancora) censurato.
TUTTO LASCIA CREDERE che sia un'anticipazione delle risoluzioni che verranno annunciate dal governo nei prossimi giorni. Domani si apre infatti il lianghui, l'appuntamento politico più importante dell'anno. È ciò che di più simile esiste in Cina al nostro parlamento, una doppia assemblea chiamata a legiferare. E c'è di più. Il giorno prima che il documentario fosse distribuito, è cambiato il ministro dell'ambiente. Il nuovo ministro, Chen Jining, si è affrettato a complimentarsi con Chai Jing per il lavoro svolto. “Sapete quanto carbone brucia la Cina? Bruciamo più carbone noi del resto del mondo messo insieme”. Chai Jing immagina di rispondere a tre semplici domande di sua figlia: “Cos'è l'inquinamento? Da cosa è derivato? Cosa possiamo fare? Lo fa con una narrazione a più livelli: commenti, cartoni animati didattici, grafici, interviste a esperti. A novembre scorso la Repubblica popolare si è impegnata a raggiungere il tetto massimo delle emissioni entro il 2030, ma è dal carbone che ancora proviene il 70% dell'energia per lo sviluppo cinese. Così, dopo aver commosso con la sua storia personale, la giornalista inanella una denuncia dopo l'altra. Non si rispettano né si innalzano gli standard qualitativi di carbone, benzina e motori perché c'è un evidente conflitto di interessi: i controllori di fatto coincidono con i controllati. Intervista a questo proposito un ricercatore dell'Accademia cinese per la ricerca ambientale che le spiega: “La stragrande maggioranza dei membri dei dipartimenti tecnici, quelli che dovrebbero regolamentare e controllare gli standard qualitativi, vengono dall'industria petrolchimica. Sono il 60 o 70%, in alcuni dipartimenti superano addirittura il 90%”. E ancora. “Il governo non dovrebbe aiutare le industrie obsolete e inquinanti. Quello che dovrebbe fare è offrire, in maniera imparziale, opportunità per le industrie del futuro”. Chai Jing conclude: “La lotta dell'umanità contro l'inquinamento è fatta di migliaia di persone comuni che un giorno hanno detto: non sono soddisfatto. Voglio prendere posizione. Qui, adesso”. Lei l'ha fatto. Ora la palla passa al governo.

Repubblica 3.3.15
Cuba dice addio a Naty musa della rivoluzione
È morta a 89 anni l’amante di Fidel Castro, considerata la donna più bella dell’isola Con il líder máximo ebbe una figlia, Alina, fiera oppositrice del padre
di Omero Ciai


FU LA vera “musa” della rivoluzione cubana, Natalia Revuelta Clews, l’amante più famosa di Fidel Castro morta sabato scorso all’Avana all’età di 89 anni per un enfisema polmonare. Naty e Fidel si conobbero all’Università alla fine del 1952 quando lui guidava le assemblee di protesta contro il golpe del generale Fulgencio Batista. Lei aveva 27 anni, era sposata con un cardiochirurgo, Orlando Fernandez, e era considerata una delle più belle donne dell’aristocrazia cubana; lui aveva un anno di meno e era il marito di Mirta Diaz-Balart, altra giovane erede della borghesia locale, la cui famiglia era legata al dittatore Batista. S’innamorarono e per qualche anno Naty fu la principale, e forse l’unica confidente del giovane rivoluzionario.
L’episodio più noto, raccontato da Carlos Franqui, avvenne quando Fidel Castro era in carcere a Isla de Pinos (oggi Isola della Gioventù) dopo il fallito assalto alla Caserma Moncada del 26 luglio 1953. Dal carcere Fidel scriveva a sua moglie Mirta ma anche appassionatissime lettere d’amore a Naty nelle quali le rivelava i suoi progetti rivoluzionari. Finché un giorno il “postino” che le consegnava segretamente si sbagliò e Mirta ricevette una lettera destinata a Naty. Nel ‘55, per una amnistia concessa anche grazie agli ottimi rapporti fra la famiglia di Mirta e il dittatore, Fidel uscì dal carcere e divorziò. E con Naty fondò il “Movimento 26 luglio”, la prima organizzazione della futura rivoluzione e parti per l’esilio in Messico. Fino al suo ritorno in patria, con il Granma alla fine del ‘56, Naty era incaricata di tenerlo informato su tutto ciò che accadeva sull’isola dal punto di vista politico. In pratica Fidel lasciò la prima moglie e la sua famiglia alleata al dittatore per unirsi con la sua giovane compagna rivoluzionaria. Nel marzo del ‘56 nacque la loro figlia Alina ma Castro la conobbe solo tre anni dopo quando entrò all’Avana alla testa dei barbudos dopo la fuga di Batista.
Conquistato il potere le cose cambiarono: nel 1961 il marito di Naty, che aveva comunque accettato di riconoscere Alina anche sapendo che non era sua figlia, decise di lasciare Cuba e partì per gli Stati Uniti con l’altra figlia del matrimonio, Natalie. Naty invece rimase all’Avana con Alina e fu, nonostante la loro storia d’amore fosse terminata, per sempre fedele a Fidel e alla sua rivoluzione, lavorando come funzionaria prima al Centro nazionale di ricerca scientifica e poi al ministero del Commercio estero.
«Mi sono sentita sempre molto sola, senza una famiglia, e ci ho messo un sacco di tempo a togliermelo dal cuore », disse una volta a proposito del líder maxímo. Alina seppe la verità su suo padre solo quando era ormai adolescente. Nel ‘94 scappò da Cuba travestita da turista spagnola con una parrucca e un passaporto falso. Scrisse un libro nel quale accusò Fidel di essere un uomo di una «crudeltà estrema» ed è tornata all’Avana, grazie ad un permesso che gli ha concesso Raúl, solo per assistere la madre negli ultimi mesi della sua vita.

Repubblica 3.3.15
“Per raccontare la Turchia sono partito da Céline”
Intervista a Hakan Günday, tra i più interessanti giovani autori di Istanbul
“La protesta di Gezi Park ha segnato un prima e un dopo. Quello spirito tornerà”
di Marco Ansaldo


PUÒ un libro cambiare una vita? Deve farlo. Altrimenti, a che varrebbe leggere? E questo, per l’appunto, accade a Derda, il protagonista maschile del romanzo A con Zeta ( appena uscito da Marcos y Marcos) dello scrittore turco Hakan Günday. Derda è un ragazzo analfabeta. Un amico lo aiuta a colmare le sue lacune e poi gli regala I reietti dello scrittore Oguz Atay, pioniere del romanzo moderno in Turchia e punto di riferimento del premio Nobel Orhan Pamuk, ma scarsamente considerato in vita. Dalla lettura di quel testo la sua esistenza si trasforma. In una ricerca febbrile si impadronisce delle altre opere dell’autore, morto nel 1977 a soli 43 anni, Diario, Aspettando la paura . Da un negozio ruba anche la sua biografia.
C’è una pagina che restituisce lo stordimento felice del ragazzo. «Derda era steso, immobile, sul pavimento di cemento, con le braccia aperte, come un crocifisso. La copia dei Reietti che aveva sul petto si alzava e si abbassava a ogni respiro. Aveva mandato giù d’un fiato le settecento pagine del romanzo, il primo che avesse mai letto in vita sua. Quello che aveva capito del contenuto del libro equivaleva a un granello di polvere. Nella sua mente c’era solo quel granello di polvere, tutto il resto era nel libro che aveva sul petto. Per questa ragione respirava a fatica. Anche se non era stato in grado di capire alcune frasi, Derda intuiva dove conducessero».
Lui è il ragazzo che pulisce le tombe al cimitero e adesso si presenta ogni giorno ai piedi della lapide dov’è sepolto Oguz Atay a recitargli brani. Ma questa è solo la seconda parte di un lungo, strutturato, appassionante romanzo. La prima è invece incentrata sul personaggio femminile di Derdâ, stesso nome, ma con un accento diverso. Lei è una bambina condannata alla schiavitù, venduta dalla madre e catapultata dalla Turchia all’Inghilterra, che si riscatterà a metà della sua vita conoscendo Derda ( A con Zeta, infatti), dopo anni di segregazione e pornografia.
Hakan Günday ha 39 anni, vive a Istanbul ed è figlio di diplomatici, ma, invece di andare all’università e fermarsi tra i banchi di Scienze politiche, ha preferito sedersi in un caffè di fronte all’entrata dell’accademia e guardare la vita che gli scorreva davanti. «A 23 anni sono entrato in una vita immaginaria – ride – e per certi versi mi ci trovo ancora. Quella è stata la mia vera scuola». Sul suo sito compare ben visibile una frase in latino, come un’iscrizione imperitura: Vulnerant omnes, ultima necat (“Ogni ora che passa ti ferisce, l’ultima ti uccide”).
È al caffè che è nato A con Zeta?
«Io stavo lì a pensare. Infine ho realizzato che un libro era il miglior modo di riflettere e di darmi delle risposte. Ma all’inizio non avevo nessuna idea, solo domande. E attraverso le domande cercavo risposte e storie».
Che cosa cercava in particolare?
«La questione principale era come fosse possibile per alcuni individui sfuggire alla loro condizione difficile. Per riuscire a farlo devi rompere i muri, non quelli di metallo o di vetro, ma muri di persone. Allora, come puoi scappare da questo tunnel, come puoi trovare la libertà? Tutte queste domande mi hanno aiutato a costruire la figura di lei, di Derdâ, costretta a seguire a Londra un marito crudele. Poi, ci sono stati libri fondamentali ».
Ne dica uno.
« Viaggio al termine della notte, di Louis-Ferdinand Céline. Lo avevo letto a 14 anni e confesso di non avere capito niente, allora, ma ho sentito qualcosa. E quella percezione, anni dopo, mi ha spinto a scrivere. Volevo dare l’idea di questo passaggio, e da lì è venuta fuori la figura del ragazzo».
Dietro di loro, ma presentissimo, c’è poi lo scrittore Oguz Atay, morto giovane per un tumore al cervello. Che cosa l’ha colpita di lui?
«Sono contento che oggi la gente in Turchia lo stia riscoprendo. Vedo molto interesse attorno alla sua figura. Purtroppo, non è stato così in vita».
Perché?
«Dopo il colpo di Stato degli anni Settanta, Atay era considerato un grande autore di romanzi psicologici. E così a quel tempo era percepito come un traditore, proprio per la sua attenzione alla psicologia dei personaggi, invece che alla politica. Ma i suoi lavori, oggi, dimostrano di essere molti più vicini alla politica di altri che sono stati dimenticati».
E nel suo nome, Derda e Derdâ si incontrano. Però sono due figure molto diverse, A con Zeta. Perché?
«Perché il loro è uno scontro fra pianeti diversi. Questo è un romanzo pieno di coincidenze. Volevo mostrare che il loro incontro è una questione quasi fisica, una cosa che chiamiamo destino, ed è però la vita. Volevo disegnare un cerchio, e l’incontro fra il ragazzo e Oguz Atay, e poi con la donna, avviene perché sono tutte persone che vivono una grande solitudine ».
Nel suo libro c’è anche molta Turchia di ieri e di oggi. Quale è l’immagine che viene fuori del suo Paese?
«Il Paese di cui parlo non è composto qui da un grande panorama, ma si focalizza piuttosto sulla violenza, sul fuoco, sull’oscurità. I due personaggi di questo romanzo esprimono un ambiente che è, certamente, la loro vita. Ed è una vita dura».
E la Turchia è un Paese pieno di contraddizioni… «Oh, certo, è proprio così…».
…meraviglioso da un lato, ma dove dall’altro per esempio la libertà di espressione appare limitata. Tutti i grandi scrittori turchi, da Orhan Pamuk a Elif Shafak a Yashar Kemal, morto proprio pochi giorni fa, hanno avuto problemi. E lei?
«Tanti autori qui hanno avuto problemi, è vero, da Nazim Hikmet in giù. Io, per ora, non ne ho mai avuti. Però oggi è diverso, e ad avere problemi non sono gli scrittori, ma i giornalisti».
E in questa resistenza turca un ruolo forte l’ha avuto nel 2013 la protesta di Gezi Park. Una rivolta repressa però nel sangue. Un moto che lei pensa destinato prima o poi a tornare?
«Le manifestazioni affinché gli alberi del parco non venissero tagliati, con tutto quello che hanno significato nei confronti delle autorità, sono state un muscolo che ha lavorato nel nostro cuore. È qualcosa che è successo ed è entrato nelle nostre anime, nei libri, nelle opere d’arte. E che è destinato a tornare nei prossimi vent’anni. Perché molti di quegli studenti un giorno diventeranno avvocati, politici, artisti. E non dimenticheranno mai quell’esperienza ».
IL LIBRO A con Zeta (Marcos y Marcos trad. di Fulvio Bertuccelli euro 18)

Corriere 3.3.15
Solo chi perde è un traditore
Non si considera mai sleale il vincitore se cambia posizione al momento giusto
Un saggio di Marcello Flores
I casi di Milziade e di Temistoicle ad Atene
Il concetto medievale di lesa maestà, la svolta delle rivoluzioni settecentesche
di Paolo Mieli


Infinite sono le leggi che regolano lo studio del tradimento nella storia. Ma due sono superiori alle altre. La prima: chi vince non verrà mai considerato un traditore. La seconda: il tradimento è questione di date, ciò che oggi è considerato un tradimento, domani potrà essere tenuto nel conto di un atto coraggioso. In principio a tradire sono stati Palamede (nel mito riconducibile a Omero) e Tarpea (in quello romano riferito da Tito Livio). Palamede, re dell’isola di Eubea, costringe Ulisse a partire per la guerra di Troia smascherandone la finta pazzia. Per vendicarsi, tempo dopo, Ulisse lo farà apparire come un traditore al cospetto di Agamennone, portando come prova una falsa lettera di Priamo, re di Troia. Il sovrano di Eubea verrà condannato e messo a morte sulla base delle prove artefatte prodotte da Odisseo. Interessante la circostanza che il primo, all’inizio del mito e della storia, a cui è stato imputato un tradimento, sia un uomo accusato ingiustamente. Talché Socrate, al momento di morire, vorrà ricordare proprio Palamede come esempio di ingiustizia travestita da giustizia. Tarpea è la figlia del guardiano del Campidoglio che si rende disponibile, in cambio di gioielli, ad aprire le porte della cittadella ai sabini ansiosi di riprendere le loro donne rapite con il celebre ratto. Ma il re dei sabini Tito Tazio, una volta ottenuto quel che voleva, la fa uccidere. Strana storia. Nel libro I supplizi capitali. Origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma (Feltrinelli), Eva Cantarella riferisce di una seconda versione della leggenda, secondo la quale Tarpea avrebbe attirato i sabini in una trappola e per questo Tazio l’avrebbe fatta uccidere. Sarebbe stato dunque per gratitudine che i romani avrebbero dato il nome della ragazza alla rupe da cui venivano fatti precipitare i traditori. Anche qui, un curioso capovolgimento di senso alle origini del mito.
È a questa categoria di uomini e donne che Marcello Flores ha dedicato lo straordinario libro Traditori. Una storia politica e culturale , di imminente uscita per i tipi del Mulino. È una storia del tradimento dalle origini della storia fino al primo grande conflitto mondiale. A partire dalla guerra del Peloponneso, che si concluse con la sconfitta di Atene dopo che nel corso di ventisette anni furono consumati «ventisette tradimenti pubblici». Il più celebre dei quali fu quello di Alcibiade in un interminabile andirivieni tra Atene e Sparta provocato da false accuse che gli erano state mosse alla vigilia della partenza di una spedizione, da lui guidata, alla volta della Sicilia. Prima di allora c’erano stati però due casi clamorosi dell’ambiguità che avvolge le accuse di tradimento. Milziade, vincitore di Maratona (490 a.C.), che muore in carcere dopo essere stato ingiustamente accusato di aver ordito trame assieme ai nemici. E Temistocle, il costruttore della grandezza navale ateniese, l’artefice della vittoria di Salamina (480 a.C.), indotto al suicidio per aver cercato, assieme a Pausania, un accordo «politico» con la Persia.
Il fatto è che in Grecia, come ha messo in risalto Anton-Hermann Chroust, i politici avrebbero preferito vedere «la perdita dell’indipendenza nazionale a vantaggio di una potenza straniera» piuttosto che assistere al trionfo della fazione avversa: la nozione di patriottismo «sembra essere animata da una cieca lealtà partigiana, piuttosto che da una fedeltà patriottica alla città o da un attaccamento alla costituzione esistente e alle leggi approvate». Non va poi dimenticato, scrive Flores, che, «senza entrare nel dibattito storiografico sull’eredità di Pericle, sull’efficacia del suo progetto democratico, sulla deriva populista con cui caratterizzò il proprio dominio», ad aprire la strada all’uomo simbolo della democrazia greca fu proprio l’accusa di tradimento rivolta al suo avversario Cimone. Quel Cimone condannato all’ostracismo per aver cospirato con Sparta ai danni della città e, in conseguenza di ciò, esiliato per ben dieci anni.
Il tradimento, come hanno mostrato oltre agli studi sociologici anche quelli filosofici e giuridici, è spesso «una percezione soggettiva, un evento relativo e non assoluto, perché dipende da una relazione congiunturale in un contesto particolare e perché appare tale quando le dinamiche di potere si sono concluse e manifestate». Ragion per cui, scrive Flores, «chi vince non è mai un traditore» (come si era detto all’inizio). Una prova? Quello che ad ogni evidenza appare come «il primo esempio di un colossale tradimento collettivo — la guerra d’indipendenza delle colonie americane dalla Gran Bretagna — in nessun libro di storia potrà essere giudicato come tale». Nel corso dei tempi, l’attributo di traditore è stato dato, elenca Flores, «agli apostati, agli eretici, ai convertiti, ai rinnegati, ai transfughi, agli ammutinati, ai disertori, alle spie, agli informatori, alle quinte colonne, ai collaborazionisti, ai ribelli, ai rivoluzionari, ai terroristi, ai voltagabbana, ai pentiti, ai crumiri; per non parlare degli infedeli e degli adulteri all’interno della sfera privata».
 Si tradisce, ha scritto Gabriella Turnaturi in Tradimenti. L’imprevedibilità nelle relazioni umane (Feltrinelli), «se stessi, i parenti, gli amici, gli amanti. La patria. Si tradisce per ambizione, vendetta, leggerezza, per affermare la propria autonomia, per cento passioni e cento ragioni». Il traditore, ha specificato Giulio Giorello in Il tradimento. In politica, in amore e non solo (Longanesi), è «chi illude gli altri e magari se stesso grazie alla capacità di varcare ogni limite sfidando natura e fortuna, o addirittura la volontà divina», investendo «la cosmologia, perché mira a squassare l’intero universo; la politica che è la sua nicchia d’elezione; la teologia perché non esita a coinvolgere Dio; la metafisica, ove il tradimento svela le strutture profonde, sottostanti alla superficie delle apparenze; l’etica, che dal tradimento viene plasmata, ora resistendovi, ora inglobandolo in un processo incessante di chiarificazione della mente; l’arte, poiché tradire è insieme un evento del mondo e uno stato dell’anima». In realtà, precisa Flores, «l’idea di tradimento, la percezione e il giudizio che ne danno i contemporanei e i posteri, cambia più profondamente di quanto non ci dicano le definizioni filosofiche, le formalizzazioni giuridiche, le tipologie costruite dai modelli sociologici».
Il Medioevo è un momento di grande rielaborazione del tema del tradimento. Dal dibattito sulla figura di Giuda che ha consegnato Cristo ai romani e che inizia ad essere discussa in una luce nuova (la sua missione sarebbe stata quella di rendere possibile il disegno di Gesù) a quella di Ganelon (Gano di Maganza), l’uomo che tradisce Rolando mettendosi d’accordo con il re saraceno Marsilio alla vigilia della battaglia di Roncisvalle (778) e che sostiene di essere stato tradito a sua volta nel momento stesso in cui era stato inviato in missione presso il sovrano dei mori.
Anche la storia della nascita delle nazioni, in particolare Inghilterra e Francia, è costellata di tradimenti. La lesa maestà — nelle forme codificate dalla legge di Edoardo III del 1351 — resta l’essenza del tradimento, ma con gli anni — dalla seconda metà del Cinquecento — sempre più la maiestas si viene a identificare «con l’astratto corpo sociale rappresentato dal sovrano, e cioè lo Stato o la patria, piuttosto che con la persona del re». Un nuovo grande cambiamento avviene verso la metà del Settecento, «quando il tradimento della fedeltà al sovrano e della lealtà dinastica è sostituito un po’ alla volta dal richiamo alla fedeltà alla nazione e alla lealtà verso la Costituzione». Il tradimento, abbiamo visto, è la rottura del patto di lealtà che ci unisce alla nostra comunità e alle sue istituzioni simboliche e rappresentative. Questa «infedeltà», scrive Flores, ha una valenza universale che si ritrova, «pur con molte varianti», nei secoli. La grande «diversità con cui il tradimento è stato percepito, vissuto, condannato e utilizzato, dipende da contesti storici diversi, da istituzioni profondamente diseguali, da legislazioni differenti». Quello che cambia di più, in ogni situazione, «è il senso di appartenenza e di identità che prevale nelle comunità in cui ha luogo il tradimento, è la valutazione del reato che ne danno le istituzioni e le leggi, è il senso di partecipazione e di coinvolgimento dei cittadini, del popolo e della pubblica opinione». Gli ultimi trent’anni del Settecento rappresentano, per lo meno nella storia dell’Occidente, «un momento di rottura profonda e permanente, tanto da costituire tradizionalmente l’inizio della storia contemporanea». È il periodo in cui si affaccia la cultura dei diritti che l’Illuminismo sta diffondendo, in cui comincia a precisarsi l’idea di nazione, in cui il capitalismo e la borghesia muovono i primi passi, «in una convergenza che porta a ribaltare quello che verrà chiamato l’antico regime e a creare nuovi legami, nuove comunità e, di conseguenza, nuove lealtà e nuove fedeltà». Ma anche «nuovi tradimenti» o «tradimenti di tipo nuovo». È negli ultimi vent’anni del Settecento che l’idea di tradimento conosce «una trasformazione profonda, si rinnova e si articola secondo modelli, percorsi politici e giuridici che si svilupperanno ulteriormente dell’Ottocento».
 A segnare questa svolta sono «le grandi rivoluzioni che accompagnano la nascita degli Stati Uniti e la vittoria della Repubblica in Francia, perché è da questo momento che la fedeltà non è più indirizzata al sovrano, a un’entità individuale, ma riguarda la collettività, serve a costruire e a rafforzare il “noi”, il gruppo e la comunità cui si sente di appartenere e che l’emergere dello Stato-nazione moderno rende sempre più forte ed esigente». Alla fine del Settecento si assiste ad una drastica trasformazione del tradimento e a una vera rottura nella sua definizione giuridica e politica. È in questo periodo, a cavallo delle due grandi rivoluzioni che aprono l’epoca contemporanea — quella americana e quella francese —, «che il concetto di lealtà e di fedeltà muta significato perché cambia l’oggetto cui fa riferimento». E qui giova ricordare la definizione (di cui all’inizio) data nel 1815 da Charles-Maurice de Talleyrand: «Il tradimento è una questione di date». Niente come queste sette parole può spiegare come da questo momento, all’indomani della definitiva sconfitta di Napoleone, «sia il potere che vince o si rafforza a dettare la norma, cogente e inappellabile».
Nella prima metà dell’Ottocento, prosegue Flores, « le accuse e i processi di tradimento sono quasi sempre strettamente collegati a tentativi, reali o presunti, di cospirazione contro il potere esistente». Ed è così fino al 1848. La nuova definizione legislativa del reato di tradimento, avvenuta nel Regno Unito proprio nel 1848, «sancisce definitivamente l’identificazione tra la volontà di rovesciare il governo e il muovere guerra alla regina, tra sedizione politica e progettazione della morte del sovrano». Ma questo «avviene di fatto depotenziando la sacralità della figura monarchica e riducendola a simbolo di ogni attacco contro le istituzioni, la costituzione, il governo». Poi, «pur nell’ovvia e profonda diversità tra un regime liberale (quello britannico o statunitense), un regime rivoluzionario autoritario (quello francese) e un regime autocratico e assolutista (quello russo, austriaco, prussiano), il reato di tradimento si configura sempre più come lo strumento principale di una lotta politica senza esclusione di colpi contro le opposizioni: che hanno in un caso carattere politico, sociale o ideologico, nell’altro i tratti della protesta liberale e nazionale».
 Con l’avvento del XX secolo la patria «assume l’immagine totalizzante della lealtà che si deve alla propria comunità e della fedeltà che si deve al proprio Stato e alle proprie istituzioni». Da allora, ha scritto Raymond Aron, «i traditori assumono la figura classica con cui li raffigura l’immaginazione popolare: l’ufficiale di marina che trasmette dei segreti ai servizi di spionaggio di una potenza straniera non può agire che per motivi disprezzabili; il traditore oggettivo è, al tempo stesso, un traditore soggettivo, non sembra più concepibile una situazione in cui un uomo possa mettersi contro la propria patria per motivi nobili». Almeno fino al Novecento, quando — come ha ben documentato il libro di Phillip Deery e Mario Del Pero Spiare e tradire (Feltrinelli) — saranno in molti a contraddire la parte finale dell’enunciato di Aron, in ragione della loro militanza comunista.
Quando poi inizia la Prima guerra mondiale, si è costretti a prendere atto del fatto che la lealtà a una dinastia non avrebbe più senso. Re e imperatori sono strettamente imparentati tra loro: Nicola II di Russia e Giorgio V d’Inghilterra sono cugini, così come lo stesso Giorgio V e il kaiser Guglielmo II, nipote della regina Vittoria e cugino della moglie dello zar, Alexandra, anche lei nipote della regina inglese. Sono gli stessi sovrani a cercare un’identità nella propria nazione piuttosto che nella famiglia di provenienza. I tradimenti che hanno costellato il Sette e l’Ottocento, «da quello contro le autocrazie e la dittatura a quelli per ottenere libertà e democrazia, da quelli per conquistare il potere a quelli per cambiare il governo e la costituzione, da quelli per raggiungere l’indipendenza a quelli per difendersi dall’arbitrio coloniale, sono rientrati un po’ alla volta nel cono d’ombra della sovversione, della ribellione, della rivoluzione, per poterli meglio combattere e punire». Con la Prima guerra mondiale, infine, «inizia un altro percorso, anch’esso accidentato e complesso, in cui il termine stesso amplierà e restringerà il suo significato a seconda della temperie storica e culturale e della contingenza politica, ideologica, militare». Di lì prenderà inizio un tradimento di tipo nuovo, quello novecentesco, condizionato in maniera determinante dalle ideologie. E, in quanto tale, del tutto diverso da quello dei due o tremila anni precedenti.

Corriere 3.3.15
“Homo faber” di Boncinelli e Sciarretta
E lo strumento creò l’uomo, animale industrioso



Edoardo Boncinelli e Galeazzo Sciarretta ripercorrono in Homo faber (Baldini&Castoldi) la storia dell’umanità seguendo il filo del fare: dai primi goffi tentativi di usare degli strumenti fino alle biotecnologie, passando per i progressi medici e scientifici e arrivando ai confini del transumanesimo, il desiderio di forzare i propri limiti è stato uno dei motori dell’evoluzione dell’uomo. Un aspetto cruciale, «quello che nel tempo ha concretamente migliorato le condizioni di vita degli uomini, aiutandoli nella loro eterna lotta contro la fame, la fatica, le intemperie, le malattie e il dolore; perfino nel procrastinarne la morte».
Grazie agli utensili i nostri antenati hanno superato i propri limiti biologici e hanno affrontato enormi difficoltà. Poi quegli strumenti sono stati affinati e ci hanno permesso di vivere come viviamo oggi, dimenticando spesso quanto ci sia voluto: una schiera sconfinata di artefici, la cui identità — per la maggior parte — ignoriamo. Dalle rotaie ai più sofisticati strumenti odierni, è stato l’intervento sulla natura a disegnare i confini dell’universo umano come lo conosciamo. «Nulla di questo sarebbe stato possibile, infatti, se il problema quotidiano fosse rimasto mangiare e non farsi mangiare».
La storia è lunga e complessa, e di certo Homo faber non può renderne conto in modo dettagliato. Ma può darci un’idea di questo cammino straordinario compiuto da «una specie animale (che) è riuscita, in tempi assai più rapidi di quelli richiesti dalla evoluzione biologica, a cambiare il proprio ruolo nel grande ordinamento naturale, passando da preda a predatore, da frugivoro a onnivoro prevalentemente carnivoro e “amplificando artificialmente” le proprie potenzialità».
L’ineludibilità del destino si sbriciola, così come l’idea della natura come paradigma esistenziale e garanzia del buono e giusto, cui aspirare e «tornare», come se non fosse stata da sempre manipolata (l’agricoltura naturale non è che un ossimoro). Se fossimo rimasti passivi spettatori della natura, saremmo probabilmente poco più che australopitechi.
Certo, sappiamo bene che non ci sono stati solo successi e che gli strumenti possono anche essere usati male, per errore o intenzionalmente. La bomba atomica e le armi più mortali sono un ottimo esempio del duplice volto del fare: guerra e progresso, raffinatezza tecnica e distruzione.

Repubblica 3.3.15
Sempre più intelligenti
Cresce il Qi dell’umanità Come rivela uno studio dal 1950 a oggi sono aumentati da 100 a 120 i punti medi del quoziente intellettivo
Uno sviluppo sorprendente delle nostre capacità logiche. E in testa ci sono Cina e India
di Elena Dusi


L’UMANITÀ sta diventando sempre più intelligente. Da almeno sessant’anni (da quando esistono dati) i figli hanno regolarmente il cervello più fino dei padri. L’effetto è stato notato per la prima volta negli anni ‘80 e, contrariamente alle previsioni, non accenna a fermarsi ancora oggi. Lo hanno appena confermato tre ricercatori del Kings College London in un’analisi pubblicata dalla rivista Intelligence. Studiando i risultati di una particolare versione dei test di intelligenza (le matrici di Raven), i ricercatori hanno osservato che dal 1950 a oggi in 48 Paesi del mondo il punteggio medio del quoziente intellettivo (Qi) è aumentato da 100 a 120.
I quiz in realtà sono tarati per ottenere un valore standard di 100 nella popolazione. Non è dunque il punteggio medio a variare nel tempo, quanto la difficoltà del test. E fu proprio sfogliando i manuali di un secolo prima che, all’inizio degli anni ‘80, lo psicologo neozelandese James Flynn notò quanto fossero facili. Provò a sottoporli ai giovani della sua epoca e vide che i punteggi medi erano regolarmente più alti. Molto più alti. Da allora il continuo miglioramento del Qi dell’umanità — che prende il nome di “effetto Flynn” — è stato confermato da decine di studi. Ogni decennio l’intelligenza del mondo aumenta di due o tre punti, a seconda della regione geografica. Se un americano di oggi si sottoponesse al test di un secolo fa otterrebbe 130 anziché il punteggio standard di 100. E se, al contrario, il trisnonno provasse ad affrontare il quiz del pronipote arriverebbe a 70: sull’orlo della definizione di ritardo mentale.
I passi avanti più risoluti nella crescita dell’intelligenza arrivano dai Paesi in via di sviluppo. Cina e India, nello studio di Intelligence , mostrano di bruciare le tappe, quasi cancellando il divario con i paesi avanzati. Mentre gli Stati Uniti continuano a crescere (e anche al loro interno si riduce il divario fra la popolazione bianca e quella nera), il resto del mondo sviluppato si muove a ranghi sparsi. Il quoziente intellettivo è in crescita in Giappone, Francia, Israele e Olanda. Norvegia e Svezia sono stazionarie, mentre Danimarca e Gran Bretagna sono in lieve declino. Una carta geografica a macchia di leopardo e il dubbio che la crescita complessiva prima o poi possa fermarsi conducono dritti dritti alla domanda: ma cos’è che fa aumentare l’intelligenza?
L’educazione, è la risposta più plausibile secondo i ricercatori di Intelligence , Peera Wongupparaj, Veena Kumari e Robin Morris. «Le matrici di Raven mettono in luce l’intelligenza logico-spaziale » spiega Rita Raffaella Fabbrizio, la psicologa che supervisiona i test per il Mensa, il club che raccoglie individui con quoziente di intelligenza altissimo (il miglior 2% d’Italia). «Sono figure da completare seguendo un determinato criterio logico e sono considerate un buon indicatore anche per altri aspetti dell’intelligenza ». Logica e astrazione sono effettivamente fra le facoltà più stimolate nei bambini che vanno a scuola. Al miglioramento della pedagogia può dunque essere attribuito l’aumento dei punteggi in questo tipo di quiz, anche se Flynn, in un’intervista alla Bbc, allarga il merito a una diffusione più generale del pensiero razionale e astratto: una forma di ragionamento che nelle società industrializzate è diffuso ben oltre le aule scolastiche. Lo psicologo neozelandese ha calcolato che nel 1900 il 3% degli americani svolgeva un lavoro impegnativo dal punto di vista cognitivo. Oggi la percentuale è salita al 35%. «I bambini stessi sono sottoposti a una marea di stimoli» sottolinea Fabbrizio.
Di certo la crescita del Qi è troppo rapida e ripida per essere attribuita ai geni, che hanno bisogno di molte generazioni per penetrare e diffondersi in una popolazione. Le ricerche che miravano a individuare uno o più “geni dell’intelligenza” non hanno dato risultati davvero convincenti in circa 15 anni di sforzi. Né le analisi sui genitori dei premi Nobel hanno dimostrato che il Qi è ereditabile. Altre possibili cause dell’aumento dell’intelligenza vanno dalla diffusione dell’energia elettrica, che permette di leggere anche la sera, alla tendenza della nostra civiltà a diventare sempre più visiva (quindi abile nell’interpretare le figure geometriche delle matrici di Raven).
Poco importa che altre ricerche abbiano legato l’aumento dell’intelligenza anche all’aumento dell’ansia, e scollegato il Qi allo spessore del portafoglio. Albert Rothenberg dell’università di Harvard qualche anno fa si cimentato con il calcolo dell’influenza che ogni singolo fattore avrebbe sul quoziente di intelligenza: frequentare l’asilo da bambini darebbe almeno quattro punti, mentre leggere storie in braccio ai genitori regalerebbe sei punti. A un bambino adottato che passi da una famiglia operaia a una della classe media viene attribuito un miglioramento del Qi di 12-18 punti.
Al di là delle cifre, a una sia pur difficile definizione di intelligenza prova ad avvicinarsi Pier Paolo Battaglini, professore del centro Brain per le neuroscienze dell’università di Trieste: «È la capacità di legare insieme, fare collegamenti, e si basa sulla plasticità del cervello. Un cervello che ha più sinapsi, più giunzioni fra i neuroni, è come una popolazione che abbia più cellulari: comunica di più, esattamente come avviene nei Paesi sviluppati. E per far aumentare le sinapsi c’è un’unica ricetta: stimolarle, arricchirsi di esperienze. Le maggiori potenzialità di apprendimento di un essere umano si raggiungono a quattro anni. A quell’età, più di ogni altra, tanto più ci si sforza per apprendere, tanto più le sinapsi si moltiplicano. Se questo avviene in un contesto gratificante, nel bambino si creano uno stress positivo e un background biochimico adatto allo sviluppo dell’intelligenza».
Questo mix di fattori si sta evidentemente producendo in Asia. La nuova generazione di cinesi (i test hanno preso in considerazione ragazzi di 12 anni) è cresciuta di 6,2 punti negli ultimi 25 anni. Il Giappone roboante degli anni fra il 1940 e il 1965 ha divorato 7,7 punti ogni dieci anni mentre Singapore, con una media di 108, avrebbe oggi il Qi medio più alto del mondo. Una cartina geografica basata sui test di intelligenza vedrebbe la vecchia Europa stretta nella tenaglia di Stati Uniti e Asia. Ma per fortuna non è solo alle matrici di Raven che è affidata la nostra sorte. Anzi. «L’intelligenza logico-spaziale è ritenuta una delle più nobili forme di pensiero» ricorda Fabbrizio. «Ma oggi si stanno diffondendo anche altri tipi di test, che misurano l’intelligenza emotiva e relazionale. C’è chi pensa che si tratti di una variabile assai più importante per il successo nella vita». La psicologa del Mensa è anche presidente di Cross Competence, una società che crea test ad hoc per le aziende alla ricerca di personale da assumere. «Effettivamente le matrici di Raven interessano poco al mondo del lavoro» spiega. «L’intelligenza relazionale ed emotiva e la capacità di empatia sono sicuramente le doti che premiano di più nelle aziende».

Repubblica 3.3.15
Francesco Cavalli Sforza
“Ma la nostra evoluzione non dipende da un test”
intervista di Maria Novella De Luca


«PIÙ intelligenti? Difficile dirlo. E non sarà un test “Qi” a dimostrare la nostra evoluzione. Di certo siamo più educati, studiamo di più, siamo più abili, e per questo i punteggi basati sui test migliorano... Ma l’intelligenza in sé, finora, nessuno è riuscito a misurarla ». Francesco Cavalli Sforza, filosofo, regista, ma soprattutto grande divulgatore scientifico (insieme al padre Luca), di temi che riguardano “chi siamo e da dove veniamo”, è cauto. E precisa: «Un modello Qi non può definire un mutamento genetico. Può però dimostrare quanto si migliora con lo studio e l’educazione».
Quindi, quei venti punti in più di Qi non dimostrano che siamo diventati più intelligenti?
«Siamo certamente più abili, con conoscenze logico matematiche di sicuro più sviluppate di cinquant’anni fa. E visto che i test sull’intelligenza si basano soprattutto su queste caratteristiche, ecco che i punteggi schizzano in alto. Ma si tratta di competenze parziali, dove non vengono conteggiate altre qualità, l’intelligenza emotiva, l’intuizione, il senso artistico, la cultura umanistica».
Dunque saremmo migliori soltanto in certe aree del sapere?
«In un certo senso sì. Del resto studiamo assai più dei nostri avi, viviamo in un mondo sempre più complesso, che richiede alla nostra intelligenza di modularsi e modellarsi per rispondere all’ambiente ».
E questa non è una evoluzione?
«Non in senso genetico, perché, appunto, nessuno ha ancora dimostrato di cosa è fatta la nostra intelligenza. È una evoluzione perché l’essere umano, come ogni specie vivente, si adatta per imparare gestire e dominare la società che lo circonda».
Ad esempio il mondo virtuale...
«Senza esserne schiacciati e diventarne schiavi, o usufruirne in modo soltanto passivo, così come purtroppo fanno in molti, in particolare i ragazzi».
Oggi però i bambini, anche piccoli, mostrano competente evolutissime.
«È vero, c’è una anticipazione generalizzata dello sviluppo, sia intellettuale che fisico. E questo è prodotto dagli stimoli della società. Con delle particolarità: molti neonati adesso nascono con gli occhi aperti, mentre prima ci volevano diverse ore prima che li aprissero. Come se tutto cominciasse prima».
Dunque se non più intelligenti, siamo di sicuro più precoci.
«Precoci, sì, e assai sviluppati in certe zone del sapere. Basta guardare proprio i punteggi Qi. Altissimi e crescenti in Paesi come la Cina e l’India, dove ci sono stati enormi investimenti sull’educazione, puntando sulle competenze logico-matematiche. Esattamente quelle che i test di intelligenza misurano».
I bambini finlandesi allora, che hanno le scuole migliori del mondo, risulteranno essere dei piccoli geni?
«Di certo partono avvantaggiati. In questo purtroppo più dei nostri ragazzi. Noi però studiamo la Storia meglio di tutti. E non è poco... ».